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Da circa due anni l’avvocato Camillo Prandolin ha fatto ... · lungo le coste del Mar Baltico....

Date post: 18-Feb-2019
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1 L’ARRIVO Poco dopo il pensionamento l’avvocato Camillo Prandolin – per tutti Prando - ha scoperto la sua vera inclinazione per lo studio della preistoria. Tuttavia, con una modestia stupefacente per un professionista affermato e abituato a dare ordini ai dipendenti, è riuscito a mantenere questa passione sullo sfondo. Nessuno, a parte sua sorella Wilma, sospetta che sia qualcosa di più dell’hobby innocente di un uomo colto di sessant’anni, mentre invece si tratta per lui di un’autentica ragione di vita, la sola cosa capace ancora di infiammargli il cuore. Oggi più del solito. L’atmosfera tipica di fine maggio ammanta la città. Dai muri di cinta i rampicanti atterrano già sui marciapiedi e attendono il primo taglio. L’aria è intrisa dell’odore dei f iori e nelle ore centrali il caldo estivo comincia a farsi sentire. Prando adora questo periodo dell’anno perché per un po’ tutto ciò che è primaverile è più ricco e più intenso, sapendo che deve andarsene in fretta. Complice il cielo trasparente e l’aria festosa decide così di andare all’agenzia viaggi a piedi invece che in macchina. Sono le nove e trenta di un martedì e le poche persone che passano per strada hanno i capelli grigi. Fa eccezione una ragazza in tuta da ginnastica e fascia bianca sulla fronte, che lo sorpassa correndo. Vedere qualcuno che fa sport stimola il suo appetito. Inzupperebbe volentieri un croissant in un cappuccino con tanta schiuma. Tra un attimo però, prima deve fare una telefonata. «Ciao Wilma, sono io, si, per le undici. No, sono fuori. Vado prima all’agenzia, si, per il viaggio in Scandinavia. No, non farà troppo freddo. Tra una decina di giorni, penso, se trovo il volo. Certo,
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L’ARRIVO

Poco dopo il pensionamento l’avvocato Camillo Prandolin – per

tutti Prando - ha scoperto la sua vera inclinazione per lo studio della

preistoria. Tuttavia, con una modestia stupefacente per un

professionista affermato e abituato a dare ordini ai dipendenti, è

riuscito a mantenere questa passione sullo sfondo. Nessuno, a parte

sua sorella Wilma, sospetta che sia qualcosa di più dell’hobby

innocente di un uomo colto di sessant’anni, mentre invece si tratta per

lui di un’autentica ragione di vita, la sola cosa capace ancora di

infiammargli il cuore.

Oggi più del solito. L’atmosfera tipica di fine maggio ammanta la

città. Dai muri di cinta i rampicanti atterrano già sui marciapiedi e

attendono il primo taglio. L’aria è intrisa dell’odore dei fiori e nelle

ore centrali il caldo estivo comincia a farsi sentire. Prando adora

questo periodo dell’anno perché per un po’ tutto ciò che è primaverile

è più ricco e più intenso, sapendo che deve andarsene in fretta.

Complice il cielo trasparente e l’aria festosa decide così di andare

all’agenzia viaggi a piedi invece che in macchina. Sono le nove e

trenta di un martedì e le poche persone che passano per strada hanno

i capelli grigi. Fa eccezione una ragazza in tuta da ginnastica e fascia

bianca sulla fronte, che lo sorpassa correndo. Vedere qualcuno che fa

sport stimola il suo appetito. Inzupperebbe volentieri un croissant in

un cappuccino con tanta schiuma.

Tra un attimo però, prima deve fare una telefonata.

«Ciao Wilma, sono io, si, per le undici. No, sono fuori. Vado

prima all’agenzia, si, per il viaggio in Scandinavia. No, non farà

troppo freddo. Tra una decina di giorni, penso, se trovo il volo. Certo,

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biglietto aperto. Solo il pane, o serve qualcos’altro? D’accordo. Ciao

ciao.»

Si sente bene, da quando è in pensione. Leggero come una piuma,

nonostante la trippa. L’ultima volta che si è pesato la bilancia segnava

centocinque chili. Il prezzo giusto da pagare per quelli come lui che

adorano la buona tavola. Ciò nonostante, riesce a conservare una

discreta agilità. Merito probabilmente dei suoi trascorsi sportivi, del

canottaggio e della bicicletta praticati per anni in passato, ma anche

dello spirito, che è rimasto quello di un giovanotto. Pazienza se i

capelli diminuiscono, gli occhi hanno bisogno di occhiali per leggere,

il sonno è leggero e la notte sempre più lunga. Col tempo ai fastidi

dell’età ci si abitua. L’importante è sentirsi padroni della propria vita,

e lui, per la prima volta dopo tanti anni, può dire senza timore di

essere smentito che le seccature hanno lasciato la sua casa. E’ libero

finalmente, e la contentezza che porta addosso come un vestito nuovo

lo ripaga di tutto.

«Buongiorno, si accomodi. Mi chiamo Elisa, come posso

aiutarla?»

«Parto la prossima settimana per un tour della Scandinavia.»

«Quante stelle?»

«Tre, e un elenco di B&B lungo l’itinerario che ho scritto su

questo foglio.»

«Quanti giorni?»

«Diciamo cinque o sei settimane.»

«E’ un privilegiato.»

«Solo un pensionato. Con risorse non illimitate, ci tengo a

precisare. Un volo low coast può andar bene. Pomeridiano, se

possibile. La mattina mi piace dormire, adesso che posso.»

«Mi lasci il suo numero, la richiamo nel pomeriggio.»

«Ripasso io domani.»

«Mi raccomando, controlli la scadenza del suo passaporto.»

«Sarà fatto. Grazie per la disponibilità, Elisa, a presto.»

Ostenta indifferenza, ma in realtà non sta più nella pelle dalla

voglia di fare fagotto e andare, e sa perfettamente che a partire da

questo momento, fino a domattina, non farà altro che ritrovarsi in una

condizione di trepidante attesa. Ingannerà il tempo continuando ad

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annotare a coppie toponimi antichi e moderni sulle carte geografiche

appese sopra la sua scrivania. Le consulta quotidianamente come i

sessantaquattro esagrammi dell'I Ching, con la differenza che al posto

delle linee dritte e spezzate sui fogli sono evidenziati i campi di

battaglia, i luoghi dove avvennero eventi soprannaturali, le città e

perfino le case. In verde scuro i collegamenti navali, isole e

promontori, in rosso le vie di terra, in giallo pallido i punti di

soggiorno prolungato, in arancio scuro le visite fugaci, in blu le tappe

memorabili. La scala è esattamente quella che serve, leggibile fino a

un metro di distanza. Si dedica a questo lavoro sistematico perché da

un po’ di tempo in qua, proprio nell’autunno della vita, si è rimesso a

studiare Omero.

Suo nonno aveva ragione quando diceva che invecchiando si

apprezzano i grandi libri, e grazie a questa verità oggi Prando sa che

le vicende narrate dal grande poeta non si svolsero nel Mediterraneo,

che non per niente presenta innumerevoli incongruenze sia

geografiche che storiche con i fatti di cui si parla, ma bensì nel NORD

del mondo. In seguito all’introduzione della scrittura alfabetica

avvenuta attorno all’VIII secolo a.C. in quel paese i greci misero per

iscritto i celebri versi tramandandoli così ai posteri, ma il reale

scenario dell’Iliade e dell’Odissea va ricercato altrove, e precisamente

lungo le coste del Mar Baltico. Sostiene questa teoria una miriade di

accenni, tracce, indizi, che vanno dalla dimensione europeo-barbarica

della narrazione alle differenze concrete fra il pantheon omerico e

quello esiodeo. Si pensi al clima freddo, la notte chiara, il mare livido

e burrascoso, i porti immersi nella fitta nebbia, le frequenti nevicate, le

fertili pianure coltivate a orzo e grano, il mitico Fiume Oceano (la

Corrente del Golfo) l’alta statura degli eroi, i loro lunghi capelli biondi

e via discorrendo. Tutte prove che confermano la sostanziale

estraneità dell’opera omerica dalla cultura greca, compresa quella più

arcaica. Elementi che dimostrano anche l’infondatezza del pensiero

diffuso secondo cui Omero sarebbe stato un grande poeta ma un

pessimo geografo. Niente di più falso. Semplicemente si cercavano

riscontri alle sue ambientazioni nel contesto sbagliato.

Guidato come molti altri dal sapere ufficiale anche Prando c’era

cascato. Gli è bastato però alzare il tiro e accantonare i preconcetti per

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vedere apparire magicamente Itaca nelle isole danesi, il teatro delle

avventure di Ulisse nel nord dell’Atlantico, Troia nella Finlandia

meridionale e il mondo degli Achei lungo le coste del Baltico. E adesso

che finalmente ha le idee chiare non s’accontenta più di studiare sui

libri segnando con l’evidenziatore degli ovali sull’atlante, vuole

vederli con i suoi occhi tutti questi luoghi favolosi, ampliare il suo

raggio d’indagine all’odorato e al tatto, riservandosi di valutare

personalmente ogni singola impressione. Non può esserci vera

conoscenza senza una diretta esperienza sul campo, glielo hanno

insegnato i suoi primi eroi illuministi De Saussure e Dolomieu.

Ragione per cui partirà per la Scandinavia.

Tra sette giorni, se non ci sono intoppi.

Allontanarsi per un po’ dai soliti vecchi amici gli farà bene.

Intendiamoci, il suo affetto per loro è immutato. Però ultimamente li

trova un po’ andati, passati, deteriorati, s’infastidiscono per la

maggior parte di quello che vedono in televisione o leggono sui

giornali. Cose dell’età, probabilmente, iniziano a sentirsi a disagio nel

mondo di oggi e la prospettiva di avere quasi esaurito i colpi in canna

dà loro la sensazione di avere un piede nella fossa. Ma nessuno può

farci niente. Lui meno di chiunque altro, visto che non si sente affatto

così e ha ancora voglia di porsi sfide vitali, puntare mete lontane, non

si fermerà.

Tanto più che una FORZA INSOLITA, come un segnale

impercettibile, lo chiama lassù. Anche se cerca di non dare troppo

peso alla cosa e dice a tutti che starà via qualche tempo per motivi di

studio. Il 3 e 4 giugno si terrà a Copenaghen un convegno sul tema

che gli sta a cuore, Omero nel Baltico, al quale vuole partecipare. A

seguire visiterà i principali siti archeologici del Nordeuropa.

Un viaggio culturale, insomma, niente di più.

E il giorno fatidico arriva in un attimo.

Wilma lo accompagna all’aeroporto di Venezia. Hai fatto tutto, gli

chiede. E cosa avrei dovuto fare, ribatte lui, ho chiuso le finestre e i

contatori, controllato la posta e telefonato a Stella per dirle che fino al

mese prossimo non ci sono camice da stirare e pavimenti da lavare.

Un uomo solo non deve gestire molti affari correnti, e quei pochi che

ha corrono con lui. Ma come, replica Wilma indignata, non hai

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neanche salutato gli amici. E per quale motivo avrei dovuto farlo, sai

che non amo i convenevoli, e poi starò fuori città qualche settimana,

forse un mese, mica parto per la guerra dei trent’anni. Stai

peggiorando fratellone, lo rimprovera lei con l’indice puntato, UN

ORSO!, ecco quello che sei diventando a furia di stare chiuso in casa

con la testa sui libri.

Prando rimane per po’ a guardare fuori dal finestrino

dell’automobile. In silenzio. Wilma non è una rompiscatole, ma come

tutte le donne deve mantenere il controllo sui famigliari e i loro affari.

L’istinto la costringe a lavorare come un mulo dietro ai tre figli, il

marito e il bucato, senza per questo trascurare l’adorato fratellone orso,

che ancora spera di vedere finalmente accasato. Per il suo bene, ripete

a tutti. Prando ci passa sopra, sua sorella è una donna concreta e

lineare, è normale che la pensi così. Una delle caratteristiche che più

apprezza in lei è la sua schiettezza, la sua umanità. Wilma è capace di

stringere legami con le persone più disparate e in qualsiasi occasione

il suo approccio cordiale suona come un invito. Prando l’ha vista

esercitare il suo fascino persino sulle donne (impresa mai facile, per

una donna) che nel giro di dieci minuti sono pronte ad aggiungere

all’amicizia in facebook il numero di cellulare, quando non addirittura

la promessa di un incontro ravvicinato davanti a una tazza di caffè.

Per questo la lascia parlare.

E lei parla, e parla, continuamente parla.

Un istante dopo essere entrata in aeroporto aggancia persino

l’operatore del checkpoint e si mette a chiacchierare con lui come se

fossero stati compagni di scuola alle elementari. Per cambiare registro

di colpo quando vede quello buttare praticamente all’aria il bagaglio a

mano di suo fratello, che non è certo un pericoloso terrorista ma

semplicemente un avvocato di provincia in procinto di concedersi una

meritata vacanza. Valuta l’idea durante una pausa a effetto nella quale

guarda il controllore con un’occhiata d’intesa. In questo caso, constata

l’uomo, passiamo al prossimo. E su questo Wilma è perfettamente

d’accordo.

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Prando tace ammirato. E' stupefacente la capacità innata che

possiede questa tenace casalinga veneta di manipolare le menti altrui

attraverso le chiacchiere. Senza il minimo sforzo comanda le parole a

bacchetta per dar loro il senso che preferisce, è ironica senza essere

maligna, divertente senza essere volgare, semplice senza essere

banale.

Esce intanto dall’altoparlante l’avviso di chiamata.

Si abbracciano scambiandosi consigli.

Si scriveranno comunque, si scriveranno ogni giorno.

Il volo è tranquillo, il servizio catering nella norma e le hostess

carine. Sono addirittura in anticipo: ancora non ha finito di leggere il

giornale di oggi, che già si deve allacciare la cintura di sicurezza

perché l’aereo sta entrando nella fase di atterraggio. La sosta al

Kastrup si riduce allo stretto necessario, ritira il bagaglio, prende un

caffè, esce dal terminal e chiama un taxi per andare a Copenaghen.

Al volante c’è una giovane donna. Età indefinibile, chioma

ondulata e fulgida come il rame nuovo, pelle lattea, occhi verdi

magnetici. Il raggio discreto di luce dorata che le illumina il viso le dà

un aspetto esotico, alieno.

Mentre la osserva Prando sente che QUALCOSA gli si muove

dentro, un movimento breve, ma intenso. Non saprebbe definire cos’è,

ma capisce istintivamente il suo significato: da quel momento in poi la

sua vita non sarà più la stessa. Per un improvviso bisogno di

rassicurarsi stringe la presa sulla maniglia di sicurezza del taxi e

respira profondamente.

«E’ qui per lavoro?,» gli chiede la rossa in un discreto italiano.

«Partecipo a un convegno. Come uditore, non mi fraintenda,»

minimizza, «sono un avvocato in pensione con la passione

dell’archeologia.»

«Ah!, Omero nel Baltico.»

«Non pensavo fosse un appuntamento di primo piano.»

«Diciamo che qui da noi, in Danimarca, l’Iliade e l’Odissea godono

ultimamente di una certa attenzione. Da parte dei giovani,

soprattutto. Chi è il suo personaggio preferito, Odisseo? Tutti gli

uomini tifano per l’eroe di Itaca. E’ comprensibile che vogliano

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assomigliargli: forza, coraggio, sensualità, potere e gloria. Chi altri

può offrire di più.»

«E lei,» si azzarda a chiedere Prando fissando nello specchietto

retrovisore gli occhi scaltri della rossa, che hanno un riflesso dorato,

molto bello, «chi preferisce tra le donne di Omero, Penelope?»

Ride. Tre piccoli ansiti rapidi, leggeri, prima di dire: «Circe.»

«Avrà mica qualche strana abitudine, eh!, devo cominciare a

preoccuparmi?»

La rossa scuote la testa divertita. «Hotel Marittime, ha detto?»

«Si, quello vicino al Museo Thorvaldsens.»

Dal sedile posteriore Prando non la perde d’occhio. E’ bella di

una bellezza senza tempo, gli piace, ma è vecchio per certe cose.

Conquistare una donna per un sessantenne non è compito facile come

poteva essere in altri tempi. L’impresa diventa impossibile se la donna

in questione ha la metà dei tuoi anni ed è una specie di circe con la

testa rossa di riccioli e negli occhi lo stesso lampo solare della mitica

strega. Che del tutto strega forse non era. Personalmente alla storia

della temibile incantatrice dedita a demolire gli uomini non ci ha mai

creduto. A suo parere Circe non seduceva propriamente le sue

vittime, che, in effetti, erano tutti uomini. Non si concedeva e

nemmeno si prometteva ma semplicemente offriva a degli stranieri di

passaggio ospitalità, il resto era la conseguenza dei loro modi ruvidi e

screanzati. Prova ne è il fatto che quando apparirà sulla scena

Odisseo, l’uomo nuovo, l’unico che riuscirà a resisterle, arrivando

persino a farla piangere, il suo comportamento cambia radicalmente.

Davanti all’eroe Circe si trasforma, smette i panni della maga e

indossa quelli della donna. Non tenta alcun inganno nemmeno per

trattenere Odisseo presso di sé, ben sapendo che non può impedire il

suo ritorno a Itaca. E quando l’amante, spinto dai compagni,

manifesta il desiderio di lasciare Aiaie, fornisce alla compagnia ogni

mezzo necessario aiutando così l’eroe a mettere in pratica il suo

proposito.

Questo, almeno, è quello che si racconta. In realtà nessuno può

escludere che la più celebre rossa della nostra storia abbia colto due

piccioni con una fava, approfittando dell’occasione insperata. Le

donne fanno spesso così per togliersi gli uomini di torno: io non ti

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merito, faccio un passo indietro, tolgo il disturbo, tu hai il diritto di

fare le tue scelte, di vivere la tua vita, e buona notte al secchio.

La rossa del taxi si dimostra altrettanto sbrigativa. Scarica Prando

sul marciapiede come un sacco di spazzatura, ecco il resto, tante

grazie e buona fortuna.

Perché, cos’altro avrebbe dovuto fare? Che cavolo si era messo in

testa, povero vecchio scemo che non è altro? Dopo una normalissima

corsa interurbana si aspettava per caso un tête-à-tête a lume di

candela? Un romantico giro in automobile? Il nonno e la sua nipotina

a zonzo per la città? Patetico.

Quando entra in albergo è scombussolato, visibilmente scosso.

Un addetto alla reception se ne accorge e gli va incontro per

prendergli la valigia, che gli viene data senza opposizioni.

Non sa come spiegarlo ma è come se in quel taxi, nella mezz’ora

scarsa che c’è stato, fosse accaduto un fatto irreversibile. O, forse, no.

Forse è solo un po’ stanco.

Sale in camera, apre il frigobar e constata con soddisfazione che è

molto ben fornito. Ci sono persino una busta di prosciutto affumicato

e una monoporzione di leerdammer. Perfetto. Il cibo è il tonico

migliore che conosca. La prima cosa, per quanto lo riguarda. Certi

ingredienti non sono solo legati alle papille gustative, al gusto, ma

anche alle biografie individuali e alla storia personale di ognuno.

Può darsi che la pensi così perché suo padre aveva una rosticceria

nel centro di Mestre e in pratica lui é cresciuto in mezzo a ravioli di

carne, lasagne al forno, insalata russa e vitelli tonnati. Il negozio è

stato la sua stanza dei giochi per molti anni. In casa ci lavoravano

tutti, adulti e bambini, ognuno secondo le sue capacità. In particolare

sua madre era una cuoca sopraffina che preparava pietanze saporite

con pochi semplici ingredienti. Lui l’aiutava volentieri, le rare volte

che glielo lasciavano fare, perché era bravo a scuola e doveva studiare,

laurearsi, diventare uno stimato professionista.

Ancora oggi non si spiega come ha potuto un figlio d’arte, un

ragazzone con il gusto nel sangue, diventare il mangiacodici più

rinomato della città. O meglio, sa benissimo com’è andata. A

quell’epoca il principale motivo ispiratore della sua vita erano le

ragazze, per questo scelse di frequentare l’università. Ancora più del

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sesso lo entusiasmavano l’incanto della seduzione, il gioco delle parti,

le strategie e gl’intrighi. Viaggiare nel variegato mondo femminile gli

dava più soddisfazione della marijuana. Di questo passo arrivò fino

alla laurea, e non ancora contento ci aggiunse tre anni di

specializzazione. Nel frattempo mangiava e beveva, imparando via

via a trattare il cibo e il vino come qualcosa di molto prezioso che non

bisognava dare per scontato o sprecare, e neppure considerare solo

come carburante che fa funzionare il corpo umano. Ancora oggi

procurare, preparare e consumare il cibo sono per lui operazioni che

richiedono tempo.

Attenzione.

Ritualità.

Amore.

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OMERO, CHI?

La sera si fa notte e la notte mattino. Aperti gli occhi Prando non

riesce a capire dove si trova. E’ ancora a letto mentre invece dovrebbe

già essere in tribunale? Come ha fatto a non sentire la sveglia? Il

procuratore è una carogna, e adesso si vendicherà sul suo cliente.

Ma no, è in pensione ormai, e per di più in vacanza.

Schizza in doccia, fa colazione ed esce dall’albergo.

Quando arriva al Museo Thorvaldsens il salone delle conferenze è

già affollato di persone con cartelle rigonfie di documenti sottobraccio

e pc a tracolla. Per gli scandinavi la puntualità è un imperativo

assoluto. Quatto quatto si mischia alla folla e va a sedersi in fondo alla

sala. La relazione introduttiva dura circa due ore. La tiene un barbuto

professore norvegese che sviluppa la sua teoria in cinque moduli,

ciascuno dei quali è integrato da una produzione di slide che

mostrano il reale scenario delle vicende dell’Iliade e dell’Odissea, e cioè

il mondo baltico-scandinavo durante l’optimum climatico post-glaciale

che raggiunse l’acme attorno al 2500 a.C. Spiega il norvegese che in

questo periodo climatologicamente ideale si sviluppò l’ascesa della

cultura nordica con l’affermazione in linea progressiva delle civiltà di

Maglemose, di Ertebölle, dei dolmen, dei tumuli e delle ricche

manifestazioni culturali dell’Età del Bronzo. La Scandinavia fu la sede

originaria dei biondi navigatori achei, prima che l’avanzata del

ghiaccio spingesse verso sud le loro navi facendole sobbalzare sulle

correnti fluviali come un ammasso di tronchi in fuga. L’esodo trasferì

nel Mediterraneo nomi geografici, epos e mitologia ereditati dalla

perduta madrepatria e scrisse sulle bianche pagine di sabbia di

meravigliose spiagge vergini la storia conosciuta di Micene. Nello

stesso periodo altri popoli indoeuropei furono costretti dall’inverno

senza fine a migrare, stanziandosi nelle rispettive sedi storiche: gli

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Hittiti in Anatolia, i Cassiti in Mesopotamia, i Tocari in Turkestan e gli

Arii in India. L’umanità è un continuo rimescolarsi di popoli e razze.

Coffee break, ci voleva proprio qualcosa di caldo.

Dolce e caldo.

Sta cercando il bar, quando un’avvenente cinquantenne avvolta

in un tailleur pantalone bianco e nero che mette in evidenza la sua

bella figura nordica, alta e morbida, incrocia i suoi occhi spaesati.

«Italiano?,» chiede la signora sfoggiando un largo sorriso.

«Da cosa l’ha capito?»

«In prime nozze ho sposato un italiano. Adoro l’Italia, la cucina

soprattutto, ma anche la lingua, l’architettura, il sole e il mare. Il mio

secondo marito, anche lui svedese, condivide con me questa passione.

Ogni estate dedichiamo almeno una settimana alla scoperta di una

provincia italiana. Piacere, Anja Lagerkvist,» dice infilando con garbo

una mano in quella di Prando, «insegno lingua e letteratura italiana

all’Università di Stoccolma, ho tradotto Dante nella mia lingua e

studio con immutato amore la più bella commedia del mondo da

quando avevo diciotto anni.»

«Piacere mio.» Allungando la destra per stringerle la mano

Prando si lascia sfuggire dalla sinistra il blocco per gli appunti, che

cade rumorosamente per terra insieme a un foglietto volante e alla

biro. «Camillo Prandolin, da Mestre, avvocato in pensione,» balbetta

vergognandosi per la magra figura.

«Cosa ne dice della relazione introduttiva: deluso, soddisfatto,

così e così?»

«Devo dire che le corrispondenze geografiche, topografiche,

morfologiche e descrittive sono impressionanti. Sinceramente, non mi

aspettavo un’esposizione così dettagliata.»

«Qui al nord siamo gente precisa.» Ride. Ma dietro quel sorriso

s’intuisce una chiara volontà di mettere nero su bianco. Non si capisce

bene se per precauzione o per evitare ricadute. «In un certo senso noi

scandinavi somigliamo ai giapponesi,» continua, «ci sentiamo

personalmente responsabili di tutto quello che facciamo. Chi

commette un errore è finito. Non troverà aiuto da nessuna parte. Il

colpevole è totalmente solo. Non c’è un tasto annulla come in Italia e

nei paesi latini. Da noi, se sbagli sei morto.»

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«Brrrr …» Prando finge di rannicchiarsi nelle spalle, «mi sta

mettendo paura.»

«Allora ho raggiunto il mio scopo.» Lei ride ancora, prima di

riprendere il discorso interrotto. «Quale concetto del professor

Johannessen l’ha colpita di più?»

«L’idea che nel costruire le avventure attribuite al suo

protagonista Omero non si sia inventato tutto, come invece mi hanno

insegnato, ma abbia attinto a piene mani dal serbatoio di notizie

diffuse per mare e per terra dagli esploratori nordici di un’epoca

remota. Oltre ad aprire nuovi sbocchi per la ricerca questa prospettiva

potrebbe dare vita a un nuovo umanesimo nella cultura

dell’Occidente alla vigilia della grande epopea che, nel segno di

Odisseo, attende l’umanità del Terzo Millennio.»

Anja Lagerkvist inclina il capo con un gesto grazioso.

Un’espressione strana, la sua. «Oltre l’immenso abisso … spaventoso

… invincibile … e dietro l’angolo, cosa c’è, la conquista delle stelle?»

Le guance di Prando si imporporano, suo malgrado. Non che ci

fosse qualcosa di sbagliato in quello che ha detto, solo che lui è fatto

così, s’imbarazza di niente e poi perde il controllo delle sue emozioni.

Paga i due caffè, si congeda dalla prof con la più banale delle scuse,

deve fare una telefonata, dice, e torna al suo posto.

Penultima fila. Giusto in tempo per assistere all’entrata in scena

dell’unico ricercatore italiano invitato al convegno, tale Felice Vinci, al

quale è affidato il compito di completare il puzzle dell’intero universo

mitologico dell’antica Grecia collocandolo nell’Europa settentrionale

dell’Età del Bronzo. Non è certo nei suoli aridi e accidentati della

Grecia e delle isole mediterranee che si percepisce l’autentico spirito

della mitologia classica, ribadisce il Vinci, ma bensì nelle sterminate

foreste dell’Europa settentrionale, nelle sue silenziose distese lacustri,

nei suoi mari scuri e nebbiosi, nei suoi cieli cangianti e nei suoi

crepuscoli interminabili. La spaziosa Micene, quella di cui parla

Omero, la Micene originaria, sorgeva lungo la costa orientale dello

Sjælland, verosimilmente nell’isola di Amager, non nella corrispettiva

greca, uno sperone di roccia nascosto e inaccessibile circondato da

burroni scoscesi e gole deserte. Già allora doveva trattarsi di una

realtà politica importante, se si considera il sussiego di Agamennone

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partito alla volta di Troia con un’armatura di bronzo abbagliante

come il sole e forte delle sue moltissime schiere.

Durante la pausa pranzo Prando viene nuovamente intercettato

da Anja Lagerkvist, che lo invita al suo tavolo. Con lei c’é una coppia

di storici danesi: un uomo dall’opaca chioma grigia, con i baffi folti

che gli tremano quando parla, e una bionda molto rifatta. Il baffone

vuole sapere da Prando che idea s’è fatto dell’uomo Omero,

argomento piuttosto controverso. Nel suo piccolo Prando ammette di

non avere le idee molto chiare, forse le indagini degli esperti

dovrebbero ripartire dalla figura di Väinämöinen, figlio di Ilmatar,

l’eroe principale del Kalevala, nato già vecchio al principio del

mondo, e da qui procedere a ritroso per rintracciare il capostipite di

tutti i cantori. La bionda rifatta gli lancia un’occhiata

compassionevole, prima di sfidarlo sul campo.

«Sinceramente no,» dichiara candidamente Prando, «non ho mai

pensato che dietro la maschera di Omero potesse celarsi una donna.»

«Saprà pure che a quell’epoca toccava alle donne conservare le

canzoni e le leggende popolari.»

«Si che lo so, ma da vecchio avvocato non posso fare a meno di

considerare la debolezza dell’elemento probatorio.»

«Questo lo dice lei.» I baffi del professore tremano sdegnosi. «Chi

crede che mantenga viva ancora oggi la cultura orale dell'Odissea nelle

aree più remote dei Balcani, della Finlandia, dell'Irlanda, della Russia

e dell'Asia Centrale?»

«D’accordo, le donne sono nate per raccontare e i versi omerici

mostrano una certa empatia con il gentil sesso,» a Prando un po’

dispiace che non sia mai esistito il mitico cantore, né Ulisse, o

l’odissea, ma l’essenza della letteratura in fondo è la libertà, la libertà

d’immaginare cose che non sono mai accadute e mai potrebbero

accadere, «ammetto anche che le donne in entrambi i poemi sono

descritte e decodificate attraverso una percezione spiccatamente

femminile, offrendo un’immagine emblematica del modo in cui i

poteri erotici e domestici vengono esercitati dalle mogli pur

preservando le apparenze di una totale sottomissione. Tuttavia … »

«Non dica eresie.» La messa in piega perfettamente phonata

sussulta sdegnosa sulla testa della bionda rifatta. «Un ruvido

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guerriero nordico dell’Età del Bronzo non avrebbe saputo descrivere

con altrettanta naturalezza la piccolina che fa i capricci per essere

presa in braccio, o la filatrice che pareggia la lana e il peso sulla

bilancia per guadagnare il magro salario che forse non sfamerà i figli.»

«Tra l’altro,» interviene la Lagerkvist schierandosi

prevedibilmente a favore della teoria femminista della collega, «l'Iliade

e l'Odissea, per qualità e dimensioni, non hanno confronti nella

letteratura dell'epoca. A quei tempi comporre poemi del genere

richiedeva uno sforzo colossale, l'aedo di turno avrebbe dovuto

passare sul progetto anni e anni senza poter fare nient’altro, quindi è

probabile che i versi siano stati composti privatamente, in un lungo

sforzo di voce e di concentrazione, senza l’assillo di doversi

guadagnare la pagnotta esibendosi quotidianamente in pubblico.»

«Chi poteva avere la libertà, l'inclinazione, i fondi per fare

qualcosa del genere, se non una donna colta senza problemi

economici e con abbastanza servi a cui affidare la gestione della casa.»

Con un gesto di elegante superiorità la bionda rifatta finisce il suo

caffè e si tampona col tovagliolo di cellulosa le labbra a canotto. Lo fa

con molta attenzione, quasi non voglia rovinare la costosa opera del

chirurgo.

«Non si può comunque escludere che le donne celate dietro il

nome di Omero fossero più d’una,» rilancia la Lagerkvist. «Donne

astute, al corrente del fatto che una nuova potenziale audience, tutta

femminile, mai immaginata dagli aedi maschi, esisteva e poteva esser

raggiunta con l’aiuto della poesia. Donne raffinate, che avevano in

grande considerazione l’arte della parola, tanto da far dire a Odisseo

che ai cantori bisogna concedere onore e rispetto. Donne laboriose,

spesso impegnate a ricamare su grandissime tele le vicende

dell’epopea gloriosa vissuta dalle nonne delle loro nonne. Donne

pazienti, che aspettavano per decenni i mariti che avevano preso la via

del mare. Donne sensuali, capaci di esaltare con le parole l’avvenenza

e l’atleticità dei corpi maschili. Indimenticabile è l’immagine di

Achille colto in un momento di relax mentre si diletta con la cetra

sonora e canta glorie di eroi.»

Prando associa il termine omerico kithara all’odierno chitarra e

sorride tra sé pensando a questo biondissimo guitar hero dell’Età del

15

Bronzo intento a suonare il suo strumento sulla riva del mare, con

l’acqua che s’increspa nel fiordo, e gli alberi scuri dall’altra parte,

dove regna il mistero. «E’ stupefacente l’inossidabile attualità di

Omero,» sospira a mezza voce.

«Può dirlo forte,» risponde il baffone che sa di fumo anche se lì

dentro non si può fumare, un fumo che sorge probabilmente da una

radicata abitudine, fumo di pipa.

«Dunque secondo voi il nome “Omero” sarebbe in realtà una

sorta di brand dietro il quale si cela una élite di donne che per secoli

ha tramandato il racconto di madre in figlia,» ne deduce Prando.

«All’inizio fu senz’altro così,» sbuffa la bionda rifatta. Che noia

questi dilettanti, sembra voler dire, s’infilano come i portoghesi

dappertutto, anche se non sono all’altezza, e poi qualcuno deve

farsene carico.

Vedendo l’ospite italiano in imbarazzo la Lagerkvist vola in suo

aiuto come un angelo protettore. «La collega intende dire che i due

poemi non sono opera della stessa mano, ma l’uno precede l’altro.

L’Odissea è un’opera più complessa, si sviluppa in una dimensione

magica, arcaica, matriarcale, precedente, mentre l’Iliade viene dopo.

Probabilmente è stata per secoli il cavallo di battaglia di aedi maschi

che, non avendo impegni militari, s’accontentavano di romanzare la

guerra nel loro viaggio esistenziale da una taverna all’altra.»

Prando ha avuto tante volte questa impressione, sebbene non

l’abbia mai presa troppo sul serio, e adesso capisce anche perché tra i

due poemi ha preferito fin dall’inizio il primo: evidentemente il

variegato mondo femminile dell’Odissea è più vicino alla sua

sensibilità di quello maschile, semplice e manesco, dell’Iliade. «Chissà

in quale regione dell’area baltica sono maturate le storie dell’Odissea

narrate da Omero,» si azzarda a dire. Lo prendano pure per ignorante,

in fin dei conti è qui per imparare.

«Ovviamente nella terra di Creta, dove regnava Minosse,» il

baffone sembra sicuro del fatto suo, «che poi sarebbe la regione

pomerana che oggi comprende una parte della Polonia settentrionale

e della Germania. Avrà notato che in tutti i passi in cui Omero nomina

Creta, una ventina circa, non la considera mai un’isola, ma bensì una

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terra vasta, bella, multietnica, percorsa da molti fiumi e ricca di ben

novanta città.»

«Una terra sicuramente vicina all’area itacese, per essere così bene

informata sulle vicende di Odisseo e della sua corte,» precisa la

Lagerkviest.

Davanti agli occhi di Prando scatta il flash di uno stupendo

ritratto di famiglia: la regina Arete seduta a filare la lana alla luce del

focolare, con la schiena appoggiata al palo di abete che sostiene il tetto

della casa e, accanto a lei, il trono del marito Alcinoo che beve il vino e

pare un nume immortale. Tutto brilla in se stesso, vibrando nel proprio

fulgore. C’è movimento ovunque, persino gli oggetti più solidi

sembrano ribollire, lo sgabello di Arete, lo scranno di Alcinoo, il

tavolo che ha accanto, le pareti stesse. Lo stesso Prando che guarda in

disparte dal suo angolo buio oscilla come un diapason in procinto di

dare il La. Non appena lo vedono i protagonisti della scena si

fermano, zittiti per un momento, sbalorditi. Lui immagina cosa

pensano: da dove viene questo alieno fluttuante nella luce? Gira la

testa rapido e sbircia di lato, convinto di aver sentito una voce che da

dietro lo chiama per nome. Ma non c’è nessuno.

«L’abbiamo mandata in confusione?,» gli chiede malignamente la

bionda rifatta, «la vedo assorto.»

«Scusate, ero distratto,» trasale lui.

Sposta lo sguardo verso la grande vetrata che illumina la sala da

pranzo. Pensa alla bellezza selvatica del territorio che si affacciava

quattromila anni fa sulla costa meridionale del Baltico e immagina gli

scenari che ispirarono in Omero quel suo modo sublime di descrivere

la natura, il mare, il cielo, i fiumi, l’aurora, il tramonto, i boschi, gli

uccelli, la caccia e tutti gli altri elementi di un arcaico mondo

primordiale, certamente più rude dell’attuale, ma così libero dalle

sovrastrutture, positivo e reale.

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Stanno entrando,» avverte la Lagerkviest mentre il baffone è

intento a spedire sms dal cellulare e la bionda rifatta è occupata a

rinfrescarsi il rossetto slavato dal cibo. «Viene in prima fila con noi?, il

posto c’é.»

«No, grazie, sono più a mio agio nelle retrovie.»

Un uomo con un po’ di cervello impara presto che ben pochi dei

suoi incontri sono casuali, per il bene o per il male che siano, quindi

Prando si limiterà prossimamente a ricambiare la benevolenza della

Lagerkviest, in attesa di capirci qualcosa.

Torna al suo posto e sbircia la svedese da dietro. Ha i capelli

biondi e lisci raccolti a nodo, le spalle larghe, un sedere ben

proporzionato. Nell’insieme è quella che si può definire una bella

donna. Non lo pensa perché ha intenzione di provarci, per lui l’epoca

degli amori è finita da un pezzo e oggi con le donne scambia al

massimo quattro chiacchiere, a intervalli irregolari, senza esagerare,

perché i loro discorsi gli confondono le idee e non sempre riesce a

comprenderne le ragioni.

Ma qual’è l’uomo che capisce una donna? Lo stesso Odisseo con il

gentil sesso ebbe fastidi a non finire. Per poco le Sirene non gli fecero

perdere la ragione, Nausicaa la reputazione, Calipso la libertà

personale, mentre la concreta Penelope barattò la salvaguardia del

buon nome del casato con l’indissolubilità del matrimonio.

Circe, invece, no.

Circe era diversa.

Gli è sempre piaciuta Circe. La Figlia del Sole. Il sole di

mezzanotte. Quel sole che sul suo regno incantato, lassù, oltre il

circolo polare artico, nell’arcipelago delle Lofoten, dove migliaia di

scogli appaiono e scompaiono col variare delle maree, risplende senza

interruzione dalla fine di maggio fino a luglio inoltrato. Per una come

Circe, ma lo pensa solo perché sa che la celebre maga non può uscire

dalle pagine stampate di un libro, sarebbe persino disposto a rivedere

la sua invidiabile condizione di single. Potrebbe perdere la testa, per

una così. E’ una fortuna che di questa specie femminile si sia perso lo

stampo. Nonostante debba ammettere che la rossa del taxi si avvicina

abbastanza all’originale. Gli è piaciuta subito come l’ha vista, inutile

negarlo, nel momento stesso in cui è salito su quel taxi. La sua chioma

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rossa spiccava nel parcheggio e la sua vettura era ammantata dell’aura

redditizia del servizio prescelto.

Una donna fuori del comune.

Enigmatica.

Con fascino da vendere.

Stando al buon senso Anja Lagerkvist sarebbe più adatta a lui,

con la maturità degli anni e il modo di fare garbato, ma è l’entusiasmo

giovanile che lo incanta, il fango primordiale in attesa di un demiurgo

brizzolato che le infonda la vita.

Sta uscendo di strada, ne é consapevole. Era partito col dire che le

romanticherie non lo interessano più, perché ha già dato, e anche

molto, questo é vero, e adesso cosa gli salta in mente? Che cosa spera?

Che cosa si aspetta?

Non quello che si potrebbe immaginare. Prando non è tipo da

mille corpi e nessun cuore, non ha mai avuto particolare interesse per

la carne. Ha il fuoco negli occhi, quello si, come qualunque altro

uomo, sa apprezzare la bellezza femminile, ma per lui la fisicità è

sempre stata secondaria rispetto a qualcos’altro per il quale nessuno

ha ancora coniato il nome esatto. Gioco di conquista? Piacere della

seduzione? Curiosità, principalmente. Desiderio di farsi strada

frugando in un mondo lontano dal suo. Lui è fatto così, ha sempre

fame di altri mondi. Più sono fuori del normale, meglio é. Così li può

riempire con la sua immaginazione.

Discorso pericoloso, ne sa qualcosa. Ha messo seriamente da

parte se stesso almeno una mezza dozzina di volte per correr dietro a

folli amori dall’esito scontato e deprimente. Concentrato sull’universo

femminile ha trascurato per anni quello maschile, con il risultato che

oggi si trova in uno stadio intermedio, povero sognatore androgino di

mezza età.

Ad ogni modo la rossa del taxi non c’entra con gli errori del

passato. E’ semplicemente il suo tipo di donna. Punto. Un concetto

astratto senza implicazioni pratiche, probabilmente non la rivedrà mai

più. Fine della storia.

A proposito, non le ha neanche chiesto il suo nome.

Vorrà dire che pensando a lei la chiamerà Circe.

Circe Testarossa.

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Durante questo viaggio sulle tracce di Omero sarà la sua

DONNA DEI SOGNI. Nessuna passione travolgente, né l’idea di

poter migliorare il proprio Io specchiandosi in un eventuale altro, ma

soltanto il desiderio di regalarsi un sorriso coniugando in una figura

femminile il verbo dell’essere. Un piccolo innocuo divertimento

mentale per combattere i momenti di maggiore stress. Tutto qui.

Né altro potrebbe essere, anche perché sa benissimo come lo

vedrebbe lei: un trippone simpatico e un po’ svitato che ispira

tenerezza, una specie di orso di peluche spelacchiato da conservare

per affetto in fondo a un armadio.

Sai che soddisfazione.

Davvero una grande conquista.

Sebbene l’idea di fare l’orso gli vada abbastanza a genio. Sarà per

via della stazza, ma sente di possedere una certa affinità con questo

animale grande e grosso che, persino sottoforma di pupazzo, conserva

una sua spiccata personalità ed è indiscutibilmente il più amato.

Quale bambino non ha ricevuto in regalo un orso di peluche? Il suo si

chiamava Floppy e in questo momento giace in letargo all’ultimo

piano della cabina armadio del suo appartamento. A differenza di

trenini e soldatini, perduti e regalati, o buttati, l’ha conservato

gelosamente perché quel giocattolo non è mai stato come gli altri.

Floppy gli ha insegnato a toccare, stringere, baciare e succhiare, per

almeno sette anni fu suo confidente e complice, sostituiva papà e

mamma quando non c’erano, talvolta la zia Virginia, e faceva parte a

tutti gli effetti della famiglia. Negli anni dell’adolescenza lo trascurò

un po’, e ancora se ne rammarica, era molto egoista in quel periodo,

ma quella saggia donna di sua madre ebbe il buonsenso di

recuperarlo, ripararlo e metterlo via, per tirarlo fuori dalla soffitta non

appena andò a vivere per conto suo. Carico di mille vecchi ricordi

Floppy lo seguì a Urbino nella sua casa di studente fuori sede in

mezzo a tanti nuovi amici. Per nulla al mondo lo avrebbe

abbandonato sotto una spanna di polvere o, peggio, venduto nel

negozio di qualche rigattiere. Nonostante questo genere di articolo

fosse già a quei tempi molto ricercato sul mercato dell’usato e quelli di

proprietà di personaggi famosi raggiungessero nelle aste cifre

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interessanti. Come Mabel, l’orso appartenuto a Elvis Presley. Da

bambino o da grande? Che differenza fa.

In che razza di pensieri si sta cacciando invece di prestare

attenzione alle parole del relatore e prendere appunti? Ha pagato un

prezzo, per questo.

Vero. Ma cosa ci può fare, se certe cose gli vengono in mente.

Dopo una vita passata a difendere guardie e ladri, che spesso non

sono tra loro molto diversi, a far rispettare le leggi e applicare i

regolamenti, adesso sente il bisogno di vivere e pensare in libertà.

E cioè in solitudine. La SOLITUDINE è il fondamento di tutta la

costruzione, la trave portante. Si può vivere fianco a fianco di molti e,

forse, a sprazzi fortunati, perfino insieme con loro, ma di fatto si è soli.

Nel senso che le compagnie che contano sono altre. Gli è bastato

qualche mese a stretto contatto con il mondo di Omero per capirlo.

Qualche piccola ricerca associata a qualche ora di buona lettura, e

voilà, tutto nella sua vita è cambiato.

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IL VIAGGIO PRENDE UN’ALTRA PIEGA

Alza gli occhi dal block notes e mette a fuoco l’immagine in fondo

alla sala del relatore, un danese abbastanza giovane con un paio di

occhiali spessi e una massa esagerata di capelli crespi sul biondo

rossiccio. Sta parlando della comune abitudine del mondo di Omero e

di quello nordico dell’Età del Bronzo di fare lunghi viaggi all’estero

per procurarsi fama e ricchezze. I primi scandinavi furono degli

instancabili giramondo, dice il capellone occhialuto, e Odisseo ne è un

chiaro esempio. Anche lui partì da Itaca con l’intenzione di

ammucchiare ricchezze, molte terre girando, poi però il viaggio prese

un’altra piega e invece dell’oro le sue prodezze gli procurarono gloria

eccelsa, nei secoli dei secoli. Con il risultato di farlo passare alla storia

come il prototipo dell’avventuriero senza paura che al suo ritorno da

Penelope, che lo aspetta pazientemente a Lyø, si porta dietro

vent’anni di guerra in Finlandia, una serie di viaggi avventurosi oltre

le coste estoni e gutniche e incontri a dir poco sorprendenti alle Färöer

e alle Lofoten, il tutto in un mondo atlantico al confine tra leggenda e

realtà. Odisseo, conclude orgogliosamente il professore, è un degno

precursore dei re danesi che molto tempo dopo si sarebbero

avventurati in pericolosi viaggi e incursioni vichinghe verso ovest,

certamente in America, e in bellicose crociate in oriente.

Prando ha mal di testa. Troppe date e toponimi da ricordare,

nomi e parentele da collegare. Utilizzerà la pausa caffè per riordinare

gli appunti. Nel senso che vorrebbe farlo, perché non è che un

desiderio si realizza per il solo fatto di essere stato espresso.

Previsione ed evento sono in un rapporto circolare, la previsione

genera l'evento e l'evento verifica la previsione. Ogni tentativo di

opporsi a questa semplicissima regola è un buco nell’acqua, e come

tale fallisce inesorabilmente. Morale della favola: dalla prima fila

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dov’è seduta in compagnia di alcuni ospiti illustri Anja Lagerkvist

intuisce le sue difficoltà e in un baleno lo raggiunge.

«Tutto bene?,» gli chiede, «la vedo sotto pressione.»

«Sto cercando di non perdere il filo,» replica lui imbarazzato. Non

ha l’abitudine di essere al centro dell’attenzione di una donna, e

quando questo accade si sente a disagio. «Le va un caffè?»

«A patto che non si faccia scrupolo di chiedere, se ha bisogno di

spiegazioni.»

«Guardi che la prendo in parola.»

«Le ricordo che mi guadagno da vivere insegnando.»

«Vediamo allora se ho capito: la nostra storia incomincia dal Polo

Nord, fu a partire dall’emisfero superiore che l’umanità popolò a poco

a poco l’Europa preistorica, trascinandosi dietro miti e culture?»

«Esatto.»

«Dunque il mito di Zeus che in principio liberò due aquile dai

punti opposti della Terra per creare il centro del mondo non é

completamente campato per aria.»

«Pare di no.»

«Un po’ mi dispiace che la catena interminabile di scambi,

fusioni, contaminazioni abbia in seguito confuso le piste, facendo

perdere le tracce.»

«Sbagliato.»

«?»

«Nell’estremo nord i territori più remoti sono riusciti a mantenere

il loro substrato culturale arcaico, di origine misteriosa, che si traduce

ancora oggi nella pratica di riti e tradizioni che rimandano ad un

passato chiaramente animista e sciamanico.»

«Anche lo sciamanesimo ha un’origine polare?»

«Immagino abbia sentito parlare degli sciamani lapponi descritti

da Olaus Magnus e da Peucer, della trance e dell’estasi che qualcuno

ha interpretato come la capacità dell’anima di uscire dal corpo per

mettersi in viaggio, e del volo magico.»

«Da come parla si direbbe che il suo interesse per Omero non sia

esclusivamente letterario.»

«Il suo, invece?» Ride di un sorriso appena accennato.

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Prando evita di rispondere. Nemmeno sa chi è la tizia che ha di

fronte, né a cosa deve tante premure, figuriamoci se vuole scoprire le

carte all’inizio del gioco.

«Guardi che non ci sarebbe niente di strano se il suo interesse si

spingesse oltre il convenzionale,» continua lei, «in fondo le

popolazioni baltiche della preistoria sono interessanti anche per quel

complesso intreccio di simbologie e miti ricorrenti basato sulla

relazione paritaria ed equilibrata con l’ambiente che sono riuscite a

tramandare.»

«Un’esperta in studi danteschi che studia Omero e s’interessa di

antropologia. Lei è una donna sorprendente, signora Lagerkvist.

Posso chiederle cos’è rimasto oggi in Scandinavia dello sciamanesimo

nordico, immagino ne sappia qualcosa, visto che vive a Stoccolma.»

La svedese ride di gusto, e lo fa apertamente. «Non saprai niente

straniero, non puoi capire parole tanto importanti!» Esclama poi con

l’indice puntato. «Mi conceda la citazione. Con questa frase un

vecchio lappone, Lill-Marten, si rivolse per anni a un vicino di casa

che veniva dalla città, Torsten Boberg, che avendo intuito che

l’anziano adorava gli antichi déi lo supplicava di mostrargli il luogo in

cui portava le offerte. Boberg morì senza soddisfare la sua curiosità. Il

seite, l’idolo di legno, fu ritrovato cinquant’anni più tardi, vicino ad un

ripido scoglio, a meno di un chilometro di distanza da casa sua.»

«Non le nascondo che mi piacerebbe incontrare uno sciamano

strada facendo, sarebbe l’esperienza giusta alla mia età, l’ultima, la

più importante.»

«Dice?»

«Vedo le pratiche legate allo sciamanesimo come una specie di

ritorno alle origini, un andare alla radice di quella prima lontanissima

ideologia umanistica in cui la natura e l’uomo costituivano un’entità

organica.»

«Finalmente un vero ecologista!» Esulta la Lagerkvist battendo

forte le mani.

Prando non capisce se lo stia prendendo per i fondelli, o cosa, ma

non gliene importa. «Forse nei prossimi anni, chissà,» prosegue, «il

Nordeuropa potrebbe farsi promotore nel mondo di un nuovo

sciamanesimo, ecologicamente conscio, capace di perseguire la

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protezione dell’ambiente e portare ad una riaffermazione identitaria,

ad un rinnovato orgoglio di appartenenza etnica e culturale.»

«Non mi sbagliavo dunque, lei è un sognatore.» Pausa ad effetto.

Poi, con una punta di veleno: «Come tutti gli italiani.»

Prando sorvola sull’ultima frase perché ha la sensazione di non

esserne il reale destinatario. Probabilmente l’ex-marito italiano ha

lasciato il segno, niente che lo riguardi comunque.

Chiude la prima giornata di studio un letterato danese di origine

turca, molto colto e assai forbito, il quale spiega come l’Iliade e

l’Odissea rappresentino in realtà il canto del cigno dei popoli di stirpe

achea dell’area baltica. Quasi un testamento spirituale, con la memoria

imperitura dell’ultima, e più gloriosa, impresa comune. “Anche in

futuro noi saremo cantati fra gli uomini che verranno”, prevede Omero. In

questo modo assume un senso ancora più struggente la devozione che

i discendenti degli achei ebbero per la sua poesia, sintomo della

continuità nel ricordo dei padri ed estremo vestigio di un mondo

scomparso, poi mirabilmente ricostruito nel Mediterraneo dai

migranti baltici scesi da nord a sud con le loro agili navi veleggiando

lungo la fitta rete di vie d’acqua.

Tutti in piedi.

Uno scroscio di applausi.

Arrivederci e grazie.

Fischiettando il motivetto di una pubblicità di automobili che da

ieri gli gira in testa Prando se ne torna in albergo soddisfatto della sua

prima giornata di studio.

Si sente bene.

Leggero, nonostante i chili di troppo.

C’è un’infinità di cose a cui adesso non pensa più.

Quello che invece considera, camminando sul marciapiede che

conduce all’Hotel Marittime, è che questo suo viaggio in Scandinavia

sta prendendo una piega inaspettata.

I suoi pensieri stanno andando in una direzione imprevista, come

se volessero dare voce a QUALCOSA a cui da tempo evita di tirare le

conseguenze. Un QUALCOSA che ancora non riesce ad afferrare, ma

solo sentire.

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Dopo una cena sostanziosa a base di pesce la notte dorme

profondamente e il giorno dopo si sveglia rigenerato, con addosso una

voglia di ritornare in forma che non gli appartiene. Anche se il buffet

da mille e una notte allestito nella luminosissima sala da pranzo

dell’Hotel Marittime gli fa accantonare momentaneamente il

proposito.

Si sta riempiendo il vassoio di prelibatezze locali, quando viene

catturato dal maître. «Ben svegliato, signore. Vedo che ha appetito,

buon segno.»

«Difficile resistere a tante tentazioni.»

«A colazione non è necessario trattenersi.»

«Lei è di parte, parla così perché il breakfast l’avete inventato voi,

ma gliela concedo. Pensi che persino Omero parla nei suoi poemi

dell’abitudine di consumare un pasto abbondante di primo mattino,

spesso preceduto da un buon bagno.»

«Senza dimenticare le buone maniere, mi permetta di

aggiungere.»

«Nell’Età del Bronzo?»

«Certamente. Durante i pasti ogni commensale aveva il suo

tavolino privato sul quale erano disposti carni arrostite, formaggio,

pane e vino dolce da bere.»

«Trovo corretto che le persone mangino da sole, come i gatti,

mangiare è un po’ come pregare, ogni boccone va gustato in religioso

silenzio. Anche se trovo disgustoso accompagnare del vino dolce a

carni e formaggi. Un beaujolais nouveau, fresco e leggero, sarebbe

stato più indicato.»

«Si trattava purtroppo di una scelta obbligata. A causa del basso

tenore zuccherino delle uve del nord i vini sarebbero risultati aspri e

sgradevoli, per non dire imbevibili, senza l’aggiunta del miele.

Quassù non abbiamo il vostro sole. Lei è spagnolo, vero? Si sente

dall’accento.»

«Italiano. Camillo Prandolin, tanto piacere.»

«Ilmari Korhonen, maître di lungo corso, nel senso che faccio

questo mestiere da venticinque anni.» La stretta di mano è ferma, e

l’inflessione educata della voce è senz’altro il prodotto di qualche

università inglese molto elegante.

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«Finlandese?»

«Precisamente.»

«Posso chiederle, visto che sembra così bene informato sugli usi e

costumi dei suoi avi, in cosa consisteva il secondo pasto giornaliero.»

«Ancora carne, pane e vino dolce. La carne, bovina o suina che

fosse, era considerata il cibo per eccellenza, mentre la frutta e la

verdura erano praticamente ignorate.»

«Con la spiacevole conseguenza che non si contavano le morti

improvvise, attribuite alle frecce degli dèi, anziché al colesterolo. Ho

letto nell’Odissea che una delle specialità della cucina achea era

l’arrosto di ventrigli di capra farciti di sangue. Esiste ancora questo

piatto?

«Se va in Finlandia assaggi i musta makkara, e vedrà.»

Dando questo consiglio all’ospite il maître di lungo corso Ilmari

Korhonen assume un’espressione aristocratica. Quasi regale. In effetti,

è un tipo chic. Alto, occhietto arzillo, meno di cinquant’anni, capelli

castani ben curati e leggermente più lunghi sulla nuca, parlantina

sciolta, ottimo inglese, un’aria da professore in vacanza. Se fosse il

tipo Prando si chiederebbe cosa ci fa un uomo così impacchettato in

una livrea nella sala da pranzo di un albergo a tre stelle, ma siccome è

uno che non s’impiccia degli affari altrui, non quando può farne a

meno, cosa che accade quasi sempre, va avanti a riempirsi il piatto

dedicando al cibo tutta la sua attenzione.

Quando finalmente riesce ad uscire dalla sala da pranzo per

recarsi al Museo Thorvaldsens si sente euforico, nonostante non abbia

un motivo particolare per esserlo. Sopra la camicia indossa un

giubbino beige smanicato con quattro tasche esterne che nascondono

leggermente la trippa, in testa ha un berretto blu da marinaio bretone,

calza scarpe sportive di marca e tiene allacciata al busto una tracolla

nera gonfia di libri, carte geografiche, matite, foglietti sparsi,

l’inseparabile iPhone e, naturalmente, il portafoglio.

Stando al programma un’unica relazione conclusiva occuperà le

ore del mattino, mentre il pomeriggio sarà riservato alle domande dei

partecipanti e al dibattito tra studiosi che queste sapranno sviluppare.

Nella sua veste di uditore Prando non è autorizzato a intervenire, cosa

che non avrebbe fatto a prescindere. In cattedra c’è un giovane

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norvegese che spiega la sua teoria avvalendosi di un apparato

tecnologico di tutto rispetto, comprensivo di un documentario di

ventisette minuti girato in proprio. Contrariamente a quanto si

pensava, dice, i primi templi non furono quelli innalzati dall’uomo

nella fertile regione mesopotamica o nel Vicino Oriente perché le

tombe a camera megalitiche dell’Europa Occidentale sono in assoluto

i più antichi monumenti in pietra del mondo. La ricca Età del Bronzo

nordica risulta saldamente assestata molto prima che nel

Mediterraneo avessero inizio le civiltà che ben conosciamo. Le nuove

datazioni col radiocarbonio corrette con la dendrocronologia, e cioè la

calibrazione con gli anelli annuali degli alberi, rivelano quanto finora

gli storici abbiano sottovalutato quei creativi barbari dell’Europa

preistorica che facevano in realtà molte cose ingegnose come innalzare

giganteschi monumenti di pietra, fondere il rame, creare raffinati

oggetti preziosi e costruire osservatori solari, mentre le loro donne si

tramandavano un patrimonio immenso di storie immortali.

Standing ovation del pubblico.

Alcuni si alzano in piedi.

Nel tentativo di contenere l’emozione Prando resta seduto dov’è,

lui è fatto così, si tiene tutto dentro. Con il risultato poco incoraggiante

che spesso l’entusiasmo gli apre una voragine nello stomaco che poi

deve riempire con dosi massicce di cibo.

«Cosa ne dice di un aperitivo con gelatina di salmone e vino

bianco?,» propone alla Lagerkvist, che si è appena staccata dai suoi

illustri colleghi per raggiungerlo.

«Volentieri. Quando torna in Italia, stasera o domani?»

«Veramente sono in procinto di prendermi una vacanza, vado al

nord, dove vorrei visitare alcuni luoghi omerici.»

«Soffrirà di solitudine, lassù, in mezzo ai boschi.»

«Scherza? Il verde e l’azzurro sono i miei colori preferiti e

l’isolamento non mi pesa.»

«Socrate diceva che la campagna e gli alberi non insegnano

niente.»

«Oggi cambierebbe idea. Vorrei vederlo in coda al semaforo

nell’ora di punta, o schiacciato come una sardina in un vagone della

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metropolitana. Ci sono più persone vive al mondo di quante ne sono

morte in tutta la storia dell’uomo. L’ho letto su National Geographic.»

«Non trova irrazionale la presunzione di avere accesso,

semplicemente immergendosi nella natura, all'origine e all'autenticità

delle cose?»

«Sinceramente no.»

Lei alza le spalle. «Le va se ci scambiamo i numeri di telefono,

strada facendo potrebbe avere bisogno di una dritta, o di un consiglio.

Non si sa mai cosa capita durante un viaggio.»

Prando fa un passo verso la svedese per osservarla meglio.

Nonostante s’impegni non riesce a capire cosa spinge questa donna

colta e attraente a seguirlo nella sua odissea che in sostanza non ha né

punto di partenza né destinazione, per quanto ragionevolmente e

coerentemente lui possa cercare di procedere lungo una rotta.

Lei sembra leggergli nel pensiero. «Non mi fraintenda, faccio il

mio mestiere, non sono che un’insegnante stuzzicata dall’idea di poter

fornire a un brillante allievo il tipo di consigli, storici antropologici e

letterari, necessari alla sua ricerca.»

Prando esita a rispondere. Il discorso è convincente ma, come

avvocato, seppure a riposo, continua a diffidare dei suoi moventi.

«Preferisco non coinvolgere altre persone nel mio vagabondare,»

conclude, «non so bene neanch’io cosa cerco.»

«Proprio per questo. Non crede che un appoggio esterno

potrebbe esserle utile?»

In verità Prando lo sa fin dall’inizio di questa storia, anche se non

gli piace soffermarsi sul pensiero. Avrebbe dovuto dare retta a Wilma,

muoversi dall’Italia in compagnia di un amico, o al seguito di una

comitiva, invece di partire all’avventura come un liceale in vacanza.

Ma cosa ci può fare se preferisce fare tutto da solo. Vedendolo

titubante la Lagerkviest ride di nuovo, e lui sente il gelo corrergli

lungo la schiena. Non per la risata, ma per il vuoto che suggerisce.

«Sarà un piacere per me,» aggiunge lei in modo convincente,

«amiamo in fondo le stesse cose, ci piacciono la letteratura e la storia,»

pausa significativa, «e non solo quelle.»

Prando la studia un momento. Che utilità può avere il suo

modesto viaggio privato per una traduttrice di Dante? Cosa gliene

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importa a un’esperta di letteratura italiana della preistoria nel Baltico?

Al momento non gli viene in mente alcuna ragione plausibile che

giustifichi un secondo fine, per cui é costretto a prendere per buono il

primo, nonostante lo ritenga un elemento di prova insufficiente.

«Faccia lei, per me va bene,» conclude stringendole la mano.

Però non è convinto, suona tutto stranamente falso, TROPPE

PAROLE. Anche se forse una spiegazione c’è: la colpa è dell’istinto

materno che tutte le donne provano nei confronti degli uomini che

giudicano buoni e gentili, e di conseguenza innocui. Gli orsacchiotti di

peluche, tanto per capirci. Il senso innato di protezione le spinge a

esporsi nei loro confronti compiendo gesti di magnanima generosità.

Nient’altro.

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TRA YING E YANG

Il giorno dopo alle 07:45 Prando è già sulla strada che va da

Roskilde a Sorø. Ha lasciato molto presto Copenaghen a bordo di una

Skoda Yeti color indaco presa a noleggio da un amico del maître di

lungo corso che non gli è stato presentato perché Ilmari Korhonen ha

insistito per fare tutto da solo. I suoi ospiti non devono muovere un

dito, ha detto.

Il tempo è tipicamente estivo e lui di buon umore. Lo stereo a

palla diffonde nell’abitacolo della vettura le note epiche di Stargazers.

Rock puro, di matrice nordica, eseguito ad arte da musicisti di talento.

Niente da spartire con la spazzatura commerciale che circola al giorno

d’oggi, roba da due soldi, scemenze patinate, una perdita di tempo per

chi come lui sa ancora apprezzare la buona musica. Perché Prando é

quello che si dice un intenditore, in quinta elementare aveva già fatto

le sue scelte, anteponendo i Rolling Stones ai Beatles, e quando in

seguito arrivarono i Led Zeppelin capì di aver trovato la sua strada. Gli

anni successivi sono stati una catena interminabile di dischi comprati,

venduti, scambiati, ricercati. E concerti, anche. Concerti vissuti e

concerti fotografati, da ricordare attraverso tanti gadget e magliette da

collezione.

Il tutto senza mai dimenticare i buoni libri, che con l’andare del

tempo sono diventati i grandi libri, seguiti ultimamente dai viaggi che

quelle storie straordinarie hanno saputo stimolare. E così oggi eccolo

qui, alla guida di un’automobile che non è la sua in un paese straniero

lungo strade ignote. A cercare cosa?

Staremo a vedere. Per il momento avanza spavaldo lungo la linea

sud, est, nord, ovest. Ispirato dagli achei farà il suo viaggio

procedendo da destra, in senso antiorario, e cioè seguirà il verso che a

detta degli esperti è il più naturale. Prima tappa: l’Arcadia, il cuore del

mondo omerico, stando all’autorevole testimonianza di Tucidide, il

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nido dal quale spiccarono il volo alcuni tra gli eroi più famosi della

nostra storia. A voler ben guardare qualcosa di forte nell’aria ancora si

sente. Come un vento di guerra, la promessa di un futuro glorioso.

Fantasie?

Capricci dell’immaginazione?

Solo i suoi pensieri di sempre, quelli che si tiene gelosamente

dentro perché le rare volte che li tira fuori finisce che gli amici si

picchiano la tempia alzando gli occhi al cielo. Il solito Prando, dicono

immancabilmente, l’eterno sognatore. Lui scrolla le spalle, pentito di

aver parlato, e appena gli altri se ne vanno riprende per conto suo il

filo dal punto in cui lo aveva perduto. Si abbandona alle immagini,

chiude gli occhi e sprofonda in un’oscurità viola, che a poco a poco

diventa verde come l’acqua, rossa come il sangue, gialla come il sole.

Sogna di stare in quei mondi paralleli che tanto ossessivamente lo

sconcertano perché crede di essere più vicino a trovare ciò che cerca,

anche se la verità è che ogni ora che passa è solo più vecchio di un’ora.

Ma dopotutto é un uomo, e come tale non può fare a meno di

sognare, anzi, in un certo qual modo è obbligato a farlo, perché per

l'uomo niente su questa terra arriva mai giusto, né il momento, né le

persone, né i soldi, né l’amore. Il luogo, dipende.

Nel caso specifico si direbbe che Prando non poteva scegliere per

il suo viaggio in Scandinavia un punto di partenza migliore: il

Peloponneso, terra virile di eroi e semidei, il posto dove i guerrieri si

consideravano discendenti diretti dell’ursus etruscus, il primo re degli

animali, rispettato e venerato come un dio prima che i vescovi e gli

ecclesiastici altomedievali lo sterminassero per sradicare le antiche

credenze e convertire le popolazioni barbare al cristianesimo. Una

brutale violenza perpetrata da esseri umani contro esseri altri, un atto

di prepotenza inaudita per chi come lui crede che gli animali

condividano con gli umani la ragione e l’anima. Indubbiamente fra le

due parti una distanza c’è, ma essa non è così incolmabile come

qualcuno vuol far credere. E se nel corso della vita di un individuo

nessun passaggio di specie è possibile, tale spostamento è invece una

concreta evenienza nel transito di un’anima sensibile da un livello

all’altro di crescita spirituale.

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Forte di questo principio e favorito dal luogo in cui si trova

Prando sceglie sui due piedi l’ORSO come suo spirito guida, suo guru,

l'Obi-Wan Kenobi di questo suo viaggio nei paesi scandinavi, e spera

con tutto il cuore che nelle prossime settimane l'esempio del Maestro

riesca a riportare a galla la sana e virile ORSAGGINE che, ne è sicuro,

giace in letargo dentro di lui. Si rende conto che può sembrare un

desiderio stravagante, ma è così che la pensa.

Si potrà pur pensare, no? C’è chi aspetta la pensione per coltivare

l’orto, o viaggiare con la comitiva del centro ricreativo per anziani e chi

invece decide di misurarsi con prove difficili dall’esito incerto. Da

bambino sognava di diventare papa per poter girare indisturbato nelle

sale lussuose del Vaticano, servito e riverito da una corte premurosa di

suorine zelanti e osannato da folle in delirio come una rockstar, e

adesso che è vecchio vuole farsi orso. Ne ha fatta di strada.

La vista suggestiva dello stretto dell’Øresund sposta le immagini

dalle foreste degli orsi ai campi di battaglia, poi dagli eserciti alle

armate di mare, finché non sfila davanti al parabrezza della Skoda

l’imponente flotta achea che quattromila anni fa veleggiava su queste

acque diretta verso Aulide e Troia. Ci sono i vascelli con la doppia

prua sormontati dagli alberi d’abete smontabili in caso di formazione

di ghiaccio, e c’è la nave di Agamennone, la più cattiva di tutte, che

imbarca almeno centoventi guerrieri, con le vele nere che promettono

vendetta.

Le immagini si susseguono a suon di musica anche lungo

l'Øresundsbron, il ponte che collega la Danimarca alla Svezia, uno dei

più grandi progetti infrastrutturali nella storia europea, per fermarsi

poco più in là, alla frontiera svedese, dove Prando scende dall’auto

per una sosta fisiologica allietata da un gustoso spuntino a base di

salmone e frutti di mare.

L’attraversamento della Scania è piuttosto rilassante, fitti boschi

di abeti sfilano con cadenza regolare lasciando intravedere stagni e

laghetti che occhieggiano col loro blu intenso, quasi invitando

l’automobile color indaco e il suo guidatore nel loro liquido grembo.

La corsa rallenta in prossimità del famigerato Capo Malea, sulla punta

di Falsterbo, davanti al quale i personaggi omerici erano messi

puntualmente in difficoltà dal vento forte e dal mare in burrasca, per

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riprendere a velocità normale in direzione dell’antica Folcide, dove

sorgeva Piro, sede del famoso oracolo di Apollo, il grande dio degli

Iperborei, potente sciamano e visionario formidabile.

Qui Prando si ferma con l’intenzione di sgranchirsi le gambe e

scattare alcune foto. Gli piace studiare delle belle inquadrature e poi

cliccarci sopra, nonostante non sia uno di quei maniaci che usano la

macchina fotografica in ogni occasione. Tipo suo cognato Ezio, il

marito di Wilma, che non smette mai di fotografare: l’albero con le

gemme, i tetti con la neve, il raggio di sole che picchia sulla

zuccheriera, la colonna del portico in controluce e la coda del gatto

davanti al cespuglio di rose. E’ come se non potesse godere di nulla se

non ne scatta una foto. Quando poi costringe amici e parenti a

guardare le sue immagini sul pc si capisce che di una certa scena non

ha notato niente al di fuori del rettangolino che ha fotografato. Per lui

la perdita di uno scatto è quasi una catastrofe, come veder svanire un

giorno di vita. Tra l’altro, non fa neanche delle fotografie

particolarmente belle.

Da conservare come ricordi Prando preferisce degli oggetti,

spesso chincaglierie, non importa il valore che hanno, basta che siano

cose solide da toccare e annusare. E un po’ gli dispiace che qui a Piro

non ci siano souvenir da acquistare, niente portachiavi a sfera per

celebrare Apollo, il dio del Sole, niente calendari con i giorni scanditi

dalle sentenze della pizia, niente cuscini stampati con le celebri

predizioni di Cassandra. Niente di niente. Purtroppo del mitico luogo

di devozione non sono rimaste che poche pietre tondeggianti decorate

con la rete rinvenute in alcune tombe della zona, probabilmente

omphalos, imitazioni del sacro uovo custodito nel tempio di Apollo a

Delfi, l’ombelico di Gea, il punto simbolico davanti al quale gli antichi

usavano fare giuramenti. Gesti superati, doveri passati di moda,

nessuno vuole più impegnarsi al giorno d’oggi.

Ma Prando se ne frega delle tendenze passeggere, e alla faccia di

chi dice che in quest’epoca di smarrimento globale il giuramento ha

perso gran parte del suo valore decide di fare una promessa solenne,

un atto commemorativo. Estrae dal giubbino beige smanicato una

reticella di cotone con dentro un piccolo sasso ovoidale, una delle

tante cianfrusaglie di cui si riempie puntualmente le tasche, fa un bel

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respiro profondo, si gira quattro volte verso ognuno dei punti

cardinali stringendo l’amuleto in pugno, e poi, fermandosi in ogni

singola posizione con gli occhi chiusi giura ad alta voce:

Giuro per Apollo e per tutti gli dèi

chiamandoli a testimoni che adempirò

secondo le mie forze e il mio giudizio

al giuramento di riportare nel mio cuore

lo spirito dell’orso

Rompe da dietro una voce remota: «Dice a me?»

Un ragazzo sui venticinque con una cinepresa professionale sulla

spalla lo fissa con tanto d’occhi, nel senso più autentico

dell’espressione. Nella sua vita Prando ha visto persone fissare con

tanto d’occhi parecchie volte, ma mai una che si avvicinasse anche

solo lontanamente allo spettacolo che sta dando in questo momento il

giovane videomaker. Le sopracciglia gli si sono alzate, la mascella è

caduta e gli occhi escono fuori dalle orbite come in un cartone

animato. Sembra anche che voglia dire qualcosa, e probabilmente lo

farebbe, se non fosse rimasto senza parole.

«Mi dispiace, non volevo spaventarla, parlavo da solo.»

«Hey!,» grida il tipo ad altri due che scattano fotografie poco

distante, «se invecchiando divento come questo balordo,

rinchiudetemi. Non voglio andare in giro per il mondo a fare la figura

dell’arteriosclerotico.»

Prando fa spallucce.

L’hanno preso per pazzo?

Sicuramente non servirebbe a nulla spiegare che non lo è e, che,

l’unica cosa che succede, è che a volte si comporta in modo strano

perché intuisce, coglie più del dovuto, capta REALTÀ che nessun

altro rileva. Sicuramente non servirebbe a nulla spiegare tutto ciò, e

ancor meno dire che stava facendo un giuramento in un luogo sacro e

che per questo era concentrato sulla promessa solenne e non s’è

accorto che nel frattempo era arrivato qualcuno. Non servirebbe, e

quindi non lo fa. Risale in automobile, si sistema il berretto blu da

marinaio bretone e riprende a macinare chilometri.

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A metà pomeriggio raggiunge il sito archeologico dove sorge

Bredanör, la tomba del re ritrovata ottant’anni fa nei pressi di Kivik,

non lontano dal mare. Il tumulo è enorme, molto più grande di

quanto lo si immagini guardandolo in fotografia. Prando vi entra con

circospezione, e appena dentro si rende conto di trovarsi in un locale

dal pavimento che la terra umida rende pericolosamente scivoloso.

C’è inoltre qualcosa di inquietante tra le ombre fattesi d’improvviso

minacciose nella semioscurità.

La tentazione di precipitarsi verso l’uscita è forte.

Poi però si fa coraggio.

Va avanti e vede sul sarcofago numerosi graffiti. Gli antichi

credevano che gli oggetti intagliati possedessero dei poteri. Lo stesso

Odino aveva appreso l’arte delle iscrizioni runiche pagando un

altissimo prezzo, e cioè rimanendo appeso al frassino Yggdrasil fino a

quando Qualcosa al di là di lui non gli fece vedere e comprendere

tutte le arti che lo resero il più grande di tutti. Prando si avvicina di

qualche metro. I graffiti riproducono figure vagamente umane, ci sono

anche un cocchio con auriga, molte ruote, un giogo con due cavalli,

una falce di luna, altri animali e onde marine. Tutti segni che gli sono

ignoti, sebbene gli sembri che alcuni abbiano un significato che lui

quasi conosce, o che ha conosciuto e adesso non ricorda esattamente.

C’è un fruscio nell’oscurità.

Aguzza gli occhi.

Nessuno.

Eppure … gli sembra di esserci già stato in quel posto, sia

l’insieme che i dettagli pian piano suscitano in lui un’impalpabile

sensazione di déjà-vu: questa cosa è già successa, quando e perché lo

ignora. Riporta l’attenzione sui graffiti, ma non è abbastanza

concentrato, alza lo sguardo troppo spesso e si guarda alle spalle in

continuazione. Sente la pressione che sale, il cuore accelera il battito e

comincia a mancargli il fiato. Nel giro di due minuti la sua camicia

diventa uno straccio floscio e appiccicaticcio, imbevuto di sudore,

nonostante lì dentro non faccia per niente caldo. La fronte sotto il

berretto blu a visiera gli duole per la fascia di cuoio, che sembra

stringere ogni momento di più, mentre gli occhi lacrimano per lo

sforzo di dover vedere nell’oscurità.

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Esce dal tumulo in uno stato fisico pietoso e afflitto da una

profonda, e immotivata, infelicità. Il riflesso del sole illumina il

paesaggio estivo. Da qualche parte bela un beccaccino. Allo scopo di

attenuare la tensione si mette a camminare muovendo le braccia

avanti e indietro per far circolare il sangue. Dopo un po’ s’imbatte in

altri resti archeologici, sempre dell’Età del Bronzo, che gli

suggeriscono l’idea che probabilmente in quell’area sorgeva una delle

città più importanti della regione. Forse quella Argo dove nacque

Perseo, fondatore di Micene, che ordinò ai Ciclopi di costruire le mura

invincibili che fecero di Micene la capitale del regno ... Tunffff, … un

rumore di qualcosa di pesante che cade ... come una grossa pietra

lanciata per terra.

Si guarda attorno.

Ancora nessuno.

All’improvviso lo pervade una sensazione di soffocamento e al

tempo stesso gli sembra di essere perfettamente in grado di volare. In

qualche luogo, al margine di uno dei suoi pensieri, scopre un VIGORE

che non gli appartiene. Come una FORZA estranea che gli penetra

nelle ossa. La cosa più probabile è che all’origine di quella spinta si sia

stabilito, da qualche istante, uno dei numerosi fantasmi umidi che

abitano questo luogo ricco di storia. Forse lo spirito di un guerriero

vichingo, o di uno sciamano posseduto dall’anima di un orso.

Muove qualche passo di lato per allontanare lo spettro inatteso e

mentre si guarda alle spalle, per precauzione, vede con la coda

dell’occhio una donna in piedi accanto al tumulo.

Non riesce a crederci.

Si stropiccia gli occhi arrossati.

E’ lei: Circe Testarossa, la taxista di Copenaghen! Sembra spiarlo.

Si scambiano un paio di occhiate. Nessuno dei due si muove di un

centimetro, con la differenza che lui è rigido come un baccalà mentre

lei appare circondata da una luce eterea, quasi magica. Indossa una

tunica di lana grezza lunga fino alle caviglie e calza scarpe verdi di

cuoio morbido, ideali per camminare ovunque senza farsi sentire.

Prando non capisce cosa ci faccia a Bredanör, lontano centinaia di

chilometri da Copenaghen e senza il suo taxi, né perché sia vestita in

quel modo. Ma probabilmente il loro incontro è una semplice

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coincidenza e quello che porta addosso è un abito alla moda. In effetti,

non è molto aggiornato sulle tendenze del momento … Crash … tunf

… un ramo rotto. Segue un silenzio irreale.

Come Prando distoglie lo sguardo da Circe Testarossa per vedere

cosa è successo alle sue spalle, lei è scomparsa, svanita, e lui è di

nuovo solo, con un vuoto dentro come se l’avessero privato di

qualcosa di essenziale.

E una sorta di frullio nelle orecchie anche. Come quando la testa

si mette a girare in tondo e si ferma di colpo. O come quando da

bambino scendeva dal cavallino della giostra il giorno del santo

patrono. Gli sembrava di volare in un sogno. Qualche volta però

s’intimoriva, pensando che fosse il movimento della Terra che girava

nello spazio a farlo stare così male. Non l’ha mai persa davvero, quella

paura di cadere nel vuoto.

Si siede frastornato su un grosso sasso piatto e stringe i pugni e i

denti per impedirsi di gridare la sua rabbia. Toglie il berretto da

marinaio bretone e lo sbatte sul ginocchio un paio di volte. Poi si

passa una mano sulla rada capigliatura, grattandosi il cranio che

contiene il cervello in subbuglio.

Perché Circe Testarossa era lì? Quando si pensa troppo al passato

il passato ritorna, ecco perché. Ne è sicuro? E se invece stavolta non

fosse tutta colpa della sua fervida immaginazione? Se l’incontro fosse

realmente avvenuto? Se lei lo seguisse per davvero? Se ci fosse di

mezzo qualche manovra stregonesca?

Ma no, cosa va a pensare, proprio lui che non ha mai creduto alle

malignità che sono circolate sul conto della maga di Omero negli

ultimi tremila anni. Per quanti sforzi faccia non riesce a vederla come

la regina dei raggiri, capace di intrecciare nodi inestricabili ed

escogitare inganni imprevedibili. Altri e ben più solenni echi

risuonano nel bosco sacro di Aiaie. Circe era una dea, seppure non del

rango olimpico, una potente sciamana depositaria di una sapienza

remota con alle spalle una genealogia di tutto rispetto. L’avventura

esistenziale di Odisseo cambia radicalmente quando lei appare sulla

sua strada.

Sarà così anche per lui? La donna dei sogni riuscirà alla fine a

capovolgere il destino del sognatore? Non gli sembra di essere un po’

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troppo vecchio per questo genere di cose? Sinceramente no: la genesi

dice che lo “Adàm” è stato programmato per campare 120 anni,

quindi ha davanti a sé altri 60 anni per rifarsi una vita.

In teoria.

In pratica, è partito con il piede sbagliato.

Solo una settimana fa voleva diventare un orso solitario, il

campione mondiale della riscoperta della mascolinità, l’uomo forte

senza paura e senza macchia, e oggi si ritrova a sospirare per un paio

di occhi verdi sotto un cespuglio di rame. Non aveva parlato di donna

dei sogni, nessuna passione travolgente, solo un piccolo innocuo

divertimento mentale per combattere i momenti di stress?

Prende sbuffando un pacchetto di biscotti morbidi al cocco dalla

tracolla e apre la confezione trasparente. Lentamente porta i bocconi

alla bocca, osservando col batticuore il lieve tremito della mano.

Perché tanta paura, si chiede, quello che potrebbe succederti non è in

fondo la fine del mondo, non sempre la vita di un uomo cambia in

peggio con l’entrata in scena di una donna. Lo stesso Odisseo trasse

notevoli vantaggi dal suo rapporto con Circe, riuscendo persino a

portare l’amante dalla sua parte, segno che anche la donna più

potente del mondo può essere piegata al volere dell’uomo, se questo

sa il fatto suo.

Una donna, forse. Ma qui stiamo parlando di un fantasma. Senza

contare che per quel che ne sa la storia narrata da Omero potrebbe

essere tranquillamente un bluff, una spacconata che l’eroe ha voluto

millantare per fare bella figura alla corte dei Feaci.

Con un colpo di reni si alza in piedi, rimette in testa il berretto da

marinaio bretone, raddrizza la visiera e comincia a camminare in

direzione della Skoda Yeti. Dove pensa di arrivare, avanti di questo

passo? Sta tirando su un castello dal nulla, quasi sicuramente la tizia

che ha visto in piedi davanti al tumulo non era Circe Testarossa ma

solo una che le assomigliava. Sarà stato il caldo a fargli vedere quello

che non c’era. Magari un po’ di stanchezza.

L’istinto però gli suggerisce tutt’altro.

E il suo istinto è formidabile.

In questo caso, è nei guai.

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Si darebbe due sberle se non giudicasse l’azione inutile e

dolorosa. Impreca ad alta voce anche, è il minimo che possa fare. Non

solo dopo tante promesse si è di nuovo lasciato sedurre da un bel paio

di tette sotto due splendidi occhi verdi, ma per farla più bella si è

invaghito di un fantasma. Maledizione! Questo viaggio non sta

risvegliando l’orsaggine che dorme dentro di lui, come credeva, ma

sta facendo esplodere la sua smisurata, incorreggibile, stupidità.

Calma, deve darsi tempo.

Niente conclusioni affrettate.

E poi, sa com’è fatto: é un’inguaribile romantico, un sentimentale,

e non è che basta schioccare le dita per diventare un altro, le carte

giocate contano più di quelle che sono rimaste nel mazzo. Diavolo, se

contano.

Allunga il braccio, preme il bottone, fa uscire dalla fessura il cd

che c’era dentro e ne pesca uno a caso dal contenitore. Viene fuori

Need to believe dei Gotthard, povero Steve Lee, così giovane, e

talentuoso anche, che fine assurda.

Manca solo che si metta a fare l’elenco funesto delle rockstar

passate a miglior vita, e siamo a posto. Decisamente oggi non è la sua

giornata. Spezza fortunatamente il rosario dei mugugni la ben nota

serie di segnali acustici dell’iPhone. Accosta la Skoda al bordo della

carreggiata e legge il messaggio di Wilma.

“Olà fratellone orso, come te la passi lassù? Hai fatto amicizia con

qualcuno? Qualcuna? Non deludermi.”

Per non creare false aspettative Prando decide di stare sul vago,

risponde che per il momento fila tutto liscio. La natura addomesticata

scandinava riesce ancora a conservare un suo senso di spontaneità,

nonostante la crudeltà dei tempi. Quanto al convegno di Copenaghen,

è stato altamente istruttivo e interessante, grazie anche al contributo

di tre professori svedesi che l’hanno preso in simpatia. In particolare

una studiosa di Dante che abita a Stoccolma, la incontrerà tra qualche

giorno.

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“E bravo il mio fratellone! Vedrai che il profondo nord riuscirà a

trasformare l’orso solitario che c’è in te in un uomo socievole. Ricordati della

pastiglia per la pressione e non bere troppi caffè. Un abbraccio.”

Prando invidia la semplicità di vedute di Wilma, il suo costante

legame con le cose concrete, con la vita domestica, la sua capacità di

trarre un grande piacere dagli affetti famigliari. Wilma ama il marito e

i figli più di chiunque al mondo, tranne lui. E di conseguenza Prando

le vuole bene ancora di più. Sa che quando critica la sua orsaggine lo

fa senza malizia, vuole tirarlo dalla sua parte, per il suo bene. Lui però

non ha intenzione di sorbirsi una dose quotidiana di umanità

applicata, sotto forma della compagnia di tizio e caio, per mettere a

tacere la sorella. Confida anzi nella possibilità che col tempo Wilma

capisca la sua decisione di perseguire una sana solitudine finalizzata

al recupero della sua vera natura, che può essere metaforicamente

spiegata con la primitività mascolina dell’orso. Non sarà facile, ma

prima o poi succederà.

Lui stesso sta incontrando non poche difficoltà lungo questa

strada tutta in salita. Nel bene e nel male é un uomo dei suoi tempi,

non è nato all’epoca di Odisseo, quando i ruoli erano ben definiti e

all’interno del clan famigliare i padri si occupavano direttamente

dell’educazione dei figli maschi. I ragazzi della sua generazione sono

stati iniziati alla società degli adulti dalla mamma, dalla nonna, dalla

zia, dalla maestra e dalla baby sitter, sono stati matrizzati,

globalizzati, sottomessi alla Grande Madre di tutti i consumi, fino a

perdere completamente l’identità. L’unica guerra che hanno

conosciuto i figli degli Anni Cinquanta è stata quella di liberazione

delle donne, che a torta finita è risultata più dolorosa di qualche ferita

sul corpo da cucire e cicatrizzare.

MA ORA BASTA! E’ arrivato il momento di uscire dalla trincea

domestica e di scoprire com’è fatto il mondo là fuori. L’orso gli farà

strada, sarà il suo faro nella notte, l’emblema dell’istinto maschile

dentro il quale risiedono la vera forza e il sentimento autentico di un

uomo. In questo simbolo Prando sublimerà tutti i suoi limiti, la

dipendenza da un sistema globalizzato che lo tiene in gabbia, la

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fragilità dello spirito e la coscienza della propria inadeguatezza con

l’altro sesso, talvolta percepita come inferiorità.

E con Circe Testarossa, come la mettiamo?

Diciamo che se un giorno per caso la rossa dovesse incrociare di

nuovo la sua strada saprà affrontarla a testa alta. Potrebbero fare

quattro chiacchiere, senza impegno, da buoni amici. Non è escluso che

faccia piacere anche a lei. Dopotutto come sessantenne non gli sembra

di essere da buttar via, i suoi radi capelli sono ancora neri e la sua

pelle ha la levigatezza della cera che può essere scambiata, alla luce

fioca di un localino discreto e fuorimano, per il fiore della gioventù.

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QUANDO CREDI NEI TUOI SOGNI

I TUOI SOGNI TI CAMBIANO

Arriva a Stoccolma due giorni dopo la solenne promessa davanti

all’oracolo di Apollo e, come previsto, viene invitato alla consueta

cena del sabato sera nella casa di Anja e Gösta Lagerkvist. Il villino si

trova nel quartiere di Ostermalm, nella zona orientale della città, al

centro di un’area residenziale sorta sul modello della città giardino di

stampo anglosassone, è bianco, ha due piani che finiscono con un tetto

a punta e offre alla luce del sole delle grandi vetrate senza tende

dietro le quali si possono ammirare numerose piante grasse.

Spesso il sabato sera in casa Lagerkvist c’è un ospite d’onore per

il quale si va e che si ha occasione di conoscere, il che è un’ottima cosa.

Se non fosse che nella presente circostanza l’ospite d’onore è lui:

l’ultima conoscenza di Anja, l’italiano colto e gentile che perlustra il

Baltico in cerca di quel che resta dell’anima di Omero.

«Sono vere le voci che ho sentito, sta seguendo le tracce dell’eroe

di Itaca?,» gli chiede il barbuto marito di Anja porgendogli

benevolmente un bicchiere di Roger Manceaux.

«Diciamo che ci sto provando.» In effetti, lo champagne poteva

essere un po’ più fresco.

«Alla buona riuscita della sua impresa allora,» gli augura il

padrone di casa alzando il gomito, «anche se personalmente credo ci

sia ben poco da scoprire. Ho sempre pensato che le peregrinazioni

dell’eroe, nel loro complesso, non debbano essere intese come

spostamenti su coordinate spaziali rintracciabili in una geografia

reale, ma piuttosto come un viaggio cosmico, un periplo intorno alla

terra lungo i suoi confini remoti, e che, in questo giro del mondo

compiuto in vent’anni, l’asse est-ovest, e cioè l’asse del viaggio solare

dall’alba al tramonto, abbia un’importanza simbolica. Detto questo,

non ho la presunzione d’insegnare qualcosa a qualcuno, dopotutto mi

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occupo di fisica, e di letteratura so quel poco che basta per fare quattro

chiacchiere con mia moglie la sera.»

«Molti credono come lei che il viaggio di Odisseo sia impossibile

da rintracciare sulla mappa dei luoghi conosciuti, lo ritengono

costruito su idee cosmologiche astratte quali quelle del confine della

Terra, della casa del Sole, del fiume Oceano, oltre le quali esiste un

aldilà normalmente precluso all’esperienza umana. In realtà però non

è così.»

«Ammetterà che di cosmografie mitiche si hanno esempi anche in

altre culture, come quella egiziana e mesopotamica, con somiglianze a

volte sorprendenti, e non c’è giorno che qualcuno non se ne esca con

una nuova teoria. Ormai è tutta una babilonia. Ma si accomodi, prego,

avremo modo di tornare sull’argomento più tardi.» Gli fa strada in

sala da pranzo, dove gli indica una poltroncina foderata di cretonne

bianco.

«Grazie,» dice Prando, «sento arrivare dalla cucina uno

stuzzicante odore di buono.»

Lo mettono a tavola di fianco e di fronte a una coppia appena

sposata: lei una nota mecenate di circa sessant’anni, bionda e

grassoccia; lui un regista teatrale olandese sui quarantacinque, ex-

attore abbastanza famoso in patria, dai capelli neri come la pece e una

colonna vertebrale straordinariamente diritta. Qualcuno gli sussurra

all’orecchio che si è parlato del loro matrimonio anche nelle rubriche

mondane dei giornali, a volte anche in tono canzonatorio riguardo al

denaro di lei e alle tante attricette che in precedenza si è ripassato lui.

Ma i giornalisti, si sa, bisogna lasciarli spettegolare. A capotavola ci

sono i padroni di casa. Ai lati di Gösta, una cicciona solare in decolleté

nero e la giovane figlia di un vicino di casa, anche lui insegnante

all’Università di Stoccolma. Ai lati di Anja, una specie di orco

finlandese con un maglione blu di cashmere e uno scrittore locale che

ha promesso di leggere alcune sue poesie dopo cena. L’orco mette in

discussione tutto ciò che dicono gli altri senza interrompere neppure

una volta il ritmo del coltello e della carne dal piatto alla bocca. C’è

infine un alto funzionario della pubblica sicurezza, un uomo grosso,

bonario, lentigginoso, che parla e si muove nel suo modo cauto di

poliziotto, pensieroso, con un’aria sobria e apparentemente distratta.

45

L’alto funzionario dice a Prando che con Gösta Lagerkvist si

conoscono da una vita, hanno frequentato lo stesso liceo e viaggiato in

Europa con l’inter-rail negli anni dell’università. Insieme a loro c’era

Lars Danielsson, un bevitore imbattibile, simpaticissimo, che dopo la

laurea in medicina si è trasferito in Lapponia. E visto che Prando ha

intenzione di passare da quelle parti, quale migliore occasione di

avere notizie dell’amico, dopo tanti anni. Giusto, interviene con

entusiasmo Gösta Lagerkvist, sarebbe bello sapere come se la passa

quel matto di Lars e scoprire quanto è ingrassato. Devo avere ancora il

suo indirizzo da qualche parte, dice all’alto funzionario, vado a

cercarlo.

Arriva quindi l’ora del caffè. Avendo avuto il tempo di osservare

il regista e la mecenate Prando si è convinto nel frattempo che

nell’unione di questa coppia insolita il calcolo sociale e finanziario non

può certo aver giocato un ruolo decisivo, l’eros invece si. Per tutta la

sera non solo non si sono lasciati con gli occhi, ma neppure si sono

allontanati l’uno dall’altra. Sono rimasti appiccicati come il

francobollo alla cartolina anche quando dalla sala da pranzo i

commensali si sono trasferiti in salotto per il digestivo, seduti

entrambi in una poltrona, lei sul cuscino e lui in bilico sul bracciolo.

Non è stato possibile neanche parlare con uno dei due perché hanno

parlato insieme oppure tra loro, o meglio confabulato in un

linguaggio amoroso incomprensibile a estranei, un misto di svedese,

olandese e tedesco. Guardandoli con discrezione Prando prova

tenerezza. E’ un uomo sensibile all’amore, anche se il destino non gli

ha fatto incontrare l’anima gemella. Chiude la serata il reading del

poeta locale, niente di speciale, ma sopportabile. Qualche battuta in

corridoio sugli effetti devastanti della crisi economica, il declino

dell’Europa, l’atomica iraniana, i cambiamenti climatici, il lavoro che

non c'é, e gli ospiti sono pronti per andare a dormire.

«L’ultimo bicchiere?» Chiede Anja a Prando.

«Cinque minuti, non di più.»

Ormai se ne sono andati tutti, anche Gösta il barbuto che ha

dovuto accompagnare a casa l’alto funzionario della pubblica

sicurezza perché era troppo sbronzo per guidare.

46

«Alla buona riuscita del suo viaggio. Cin cin. Spero che l’estremo

nord sia di suo gradimento. Il mio primo marito lo odiava. L’estate

boreale, il sole di mezzanotte e l’assenza del buio gli facevano salire i

nervi a fior di pelle.»

Prando non nasconde un leggero fastidio. Cominciano a seccarlo

questi continui paragoni con l’ex-marito italiano, un illustre

sconosciuto per quanto lo riguarda, uno con cui sente di non avere

alcuna affinità. Quello odiava la luce mentre lui adora il giorno senza

fine. Non che soffra di vera e propria depressione della sera, anche se

di solito il sole calante illumina meglio i suoi pensieri malinconici e

questa cosa un po' lo avvilisce, però il buio non gli dice niente. Nel

buio ha solo l’impressione di non vedere un accidente. Persino gli

oggetti conosciuti si trasformano davanti ai suoi occhi diventando

strani, misteriosi, talvolta spaventosi, e tutte queste immagini lo

innervosiscono. «Credo che l’estate boreale mi piacerà,» conclude

fermandosi un ultimo istante sulla soglia, «sarò perfettamente a mio

agio nel chiarore stabile e rassicurante del sole di mezzanotte.»

«La chiamerò,» promette Anja Lagerkviest stringendo con tutt’e

due le mani la sua.

Prando tace. Il solito piccolo trucco del vecchio orso.

Che funziona sempre.

Alla fine, imbarazzata dal silenzio, lei fa un passo avanti.

«Sempre che la cosa non la disturbi, naturalmente.»

S’interrompe, come se fosse combattuta.

Dalla porta semiaperta entra uno spiffero gelido. Rispetto a prima

l’aria si è parecchio raffreddata, per cui Prando si abbottona fino al

collo la giacca imbottita, prima di congedarsi con un laconico:

«Buonanotte signora Lagerkviest, grazie di tutto, ci sentiamo.»

Non riesce proprio a spiegarsi il motivo di tanto interessamento.

Magari è semplice cortesia. Magari in Scandinavia si usa così. Magari

la prof ha una spiccata indole materna e le fa pena il timidone

attempato allo sbaraglio. Magari ci ripensa domani, adesso ha sonno.

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Il nuovo giorno si apre con il bisogno di un orizzonte soleggiato e

di una strada larga e scorrevole da percorrere senza sforzo. Anche di

un pieno di benzina. Non sono neanche le sette quando la Skoda Yeti

con dentro il suo passeggero lascia Tebe-Stoccolma. Prando ama

viaggiare sul presto, i colori del mondo hanno una freschezza

particolare a quest’ora del giorno.

Persino la musica è più limpida.

Pulita.

Anche se non capisce bene tutte le parole dei testi di Dark Horse

dei Nickelback, ogni tanto canticchia mezza strofa. Lo rilassa. Da

Norrtälje imbocca la strada che corre lungo la costa, fino a Gräddö.

Fitti boschi di conifere si susseguono sulle due rive che man mano

tendono a divaricarsi, e presto le suggestioni indotte dal paesaggio

esaltano in lui il pensiero che proprio questo possa essere stato il

teatro del grande concentramento della flotta achea. Da qui le nere

navi di Agamennone e dei suoi alleati salparono alla volta di Troia.

Mentre adesso partono, transitando davanti alla punta meridionale

dell’isola di Lemland, la Lemno omerica, gli assai meno carismatici

traghetti di linea carichi di passeggeri diretti a Helsinki.

S’imbarca con la fedele Skoda.

Il mare è calmo e la navigazione tranquilla.

Invece per le antiche navi a vela quadra e chiglia piatta degli

achei, poco adatte a navigare di bolina, uscire da una baia lunga e

stretta come questa, infestata tra l’altro da una miriade di scogli in

corrispondenza dello sbocco, in caso di vento contrario doveva essere

un’impresa proibitiva. Il progresso in fondo a qualcosa è servito.

Affacciato alla balaustra di acciaio zincato è lì tranquillo che

ripercorre mentalmente le fasi della tragica sorte di Ifigenia, povera

ragazza, disposta a sacrificarsi pur di placare le tempeste che

impedivano la partenza per Troia della flotta comandata da suo

padre, quando gli scappa l’occhio e VEDE sulla destra Circe

Testarossa avvolta in una palandrana di lana color lavanda che

cammina come se niente fosse sul ponte di prua. La VEDE solo

fugacemente perché lei, quasi subito, come se temesse di essere

scoperta, gira l’angolo e si dilegua con stupefacente velocità.

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Prando è paralizzato dalla sorpresa. Sogno o realtà? Si sta quasi

abituando a certi passaggi. Però ci rimane male lo stesso perché lei

svanisce sempre in modo troppo rapido.

Finge indifferenza riaffacciandosi alla balaustra come un qualsiasi

passeggero che guarda il mare. L’aria sa di sale e un'enorme nuvola

bianca sovrasta il battello come una dose doppia di panna montata sul

krapfen. Ma non riesce a non pensare a quello che ha VISTO, non c’è

verso, gli tremano persino le mani, niente come una visitazione fa

scorrere l’adrenalina nel sangue.

Perché non l’ha fermata? Avrebbe dovuto almeno cercare di

rivolgerle la parola, chiederle cosa ci faceva su quel traghetto, lontana

da Copenaghen e dal suo taxi. E adesso dove sarà andata? Che si tratti

davvero della reincarnazione della celebre maga?

Istintivamente non la teme, come invece dovrebbe, ma anzi la

capisce. Povera Circe, vittima di millenni di maldicenze. Tutti a darle

addosso, sempre. Mentre in realtà non era lei che adescava i naviganti,

erano loro che chiedevano di avvicinarla, e quando lo facevano ne

pagavano le conseguenze. Il beverone fatato che offriva agli ospiti non

era un filtro d’amore, non seduceva, né conquistava, al contrario era

un’arma di difesa in grado di provocare una metamorfosi che

preveniva ogni sua possibile unione con l’intruso di turno. Dal che se

ne deduce che Circe era in fondo una brava ragazza che difendeva con

denti e unghie il suo piccolo ambito collocato a distanza di sicurezza

sia dal mondo degli uomini sia da quello degli déi. Prando se la

immagina intenta al telaio, come usavano fare le donne di tutte le

condizioni a quei tempi, mentre canta le gesta degli eroi con la sua

voce armoniosa. E’ un peccato che Omero non la descriva fisicamente,

i pochi tratti appena accennati, i riccioli sciolti sulle spalle, la voce

dolce, non rendono bene l’idea. Ma lui non ha dubbi sul fatto che

fosse bellissima, né che avesse una folta chioma di capelli rossi. Come

lo sa? Lo sa e basta.

Si stacca dalla balaustra e gli sembra di cadere all’indietro. E’ una

sensazione che non prova da quando dieci anni fa ha smesso di farsi le

canne perché non ci trovava più niente di speciale. La sensazione un

po’ fastidiosa di cadere nel vuoto, ma anche quel brivido di piacere

che c’è nel perdere il controllo. Ecco che li ritrova, dopo tanto tempo.

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L’effetto è reso ancora più intenso dall’aria umida e dal rollio del

traghetto che a tratti gli fa perdere l’equilibrio e lo tiene in bilico.

Raddrizza la schiena e respira venticinque volte di pancia come

ha imparato a fare leggendo il manuale di un noto medico giapponese

dal nome impronunciabile. A quota dieci vede un peschereccio danese

giallo e bianco che avanza lentamente verso la nave, ha la prua

dall’aria massiccia per via della cabina anteriore e dell’albero alto, a

un certo punto vira a sinistra, scompare dietro un promontorio a picco

e di lì a poco scompare anche la sua bianca scia. A quota venti sposta

lo sguardo verso l’alto. Compatte e ben piazzate quattro nuvole in

cielo sono di marmo. Quando finisce di respirare si accorge che il

mare ha cambiato colore e continua a scurire via via che il battello si

avvicina alla baia di Helsinki, a Suomenlinna, a Seurasaari e alla

moltitudine di isole e isolette collegate da ponti e traghetti.

Certo Circe Testarossa potrebbe non esserci mai stata su quella

nave, potrebbe aver sognato, non ci sarebbe niente di strano, succede

ai soggetti con un’immaginazione fervida come la sua. Nella messa in

scena dei suoi sogni Prando però ci crede, e quando credi nei tuoi

SOGNI i tuoi SOGNI ti cambiano.

Per il momento non osa pensare in quale maniera. Si aggrappa

con la mano sinistra alla balaustra di acciaio zincato e si toglie con la

destra il berretto blu da marinaio bretone. E’ arrivato in Finlandia.

Domani potrà vedere con i suoi occhi il vero teatro della guerra di

Troia e si divertirà a localizzare i vari campi di battaglia,

immaginandone le scene. L’idea produce nella sua testa una fitta

foschia azzurra. Per allontanarla respira profondamente incamerando

nei polmoni una discreta quantità di aria di mare … che tra l’altro ha

un ottimo sapore … Mhhh! … mette quasi appetito.

Basta mangiare come un orso.

Non fa bene alla salute e fa ingrassare.

Cerca di distrarsi con le manovre di attracco, ma le rocce lì

intorno sono verdi e nere di mitili buoni per il sugo alla marinara. Si

gira dalla parte opposta. C’è un pescatore su un pontile di legno che

tira su la lenza, stacca il pesce dall’amo e sputa in mare. Lo fa due o

tre volte, prima che il traghetto getti l’ancora. Per quale motivo

Prando lo ignora, però gli piacerebbe tanto saperlo.

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Caso vuole che a pochi metri di distanza un passeggero attento

capti la domanda inespressa e si senta in dovere di spiegare: «E’ una

forma di ringraziamento.»

«Come?» Prando si gira di scatto.

«Ancora oggi, quando vanno a pescare, molti anziani finlandesi

sputano nell’acqua ringraziando la Madre Terra per il pesce.»

«Grazie dell’informazione, non lo sapevo.»

«Oh, non si preoccupi, non si finisce mai d’imparare dalla gente

del nord. Erkki Hannikainen, piacere, falegname in pensione. Come

lei, suppongo.»

«L’ha capito dalla trippa prominente o dalle spalle ingobbite?,»

chiede Prando stirando sui fianchi il giubbino beige smanicato.

«Lasci perdere, alla nostra età l’estetica non conta. Quelli come

noi dovrebbero dirlo ai giovani che andare in pensione è una merda,

che si ha tempo da vendere e non c’è niente da fare. Loro invece ci

sperano nella pensione, capito, così poi si dovranno organizzare ogni

giorno qualcosa di nuovo per sfuggire alla noia.»

La voce dello sconosciuto suona così rotta che per un momento

Prando resta paralizzato.

«Niente di niente,» prosegue il finlandese, «non resta nulla da

fare, eccetto …»

Abbassa la testa. Prando lo guarda, come per chiedergli un ultimo

sforzo, come per pregarlo di finire la frase, per favore, e dica qualcosa

che levi entrambi dall’imbarazzo. Desidera che quel momento finisca

al più presto. L’altro abbassa ancora di più la testa, sembra che voglia

farla sprofondare nel ponte della nave.

«Eccetto …?»

«Sa che in Finlandia abbiamo diecimila parole diverse per dire

“ubriacarsi”?» Sul volto rubizzo del falegname in pensione Erkki

Hannikainen c’è adesso un largo sorriso.

«Non lo sapevo.»

«Gli inverni sono troppo freddi, qui. Ci sono giornate così buie, e

gelide, che l’unica cosa sensata che un uomo può fare è sbronzarsi. Le

va una birra?, giù al porto c’è il pub di un mio amico, offro io.»

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VENTI DI GUERRA

Prima di lasciare la piccola area di parcheggio riservata ai clienti

del pub Prando accende la radio sintonizzata di fisso sull’unica

emittente locale dedicata al rock ‘n’ roll. Trasmettono un pezzo dei

Pearl Jam, non gli piace, la band di Seattle ci saprà anche fare con il

marketing e i media, però ha il potere di deprimerlo. A seguire va in

onda un classico degli Aerosmith. Molto meglio. “‘coz I’d miss you…

baby … and I don’t wanna miss a thingh … ‘coz even when I dream of

you…”. Canticchiando prima in un crescendo di toni e poi a

squarciagola si dirige verso il “Ring III”, in direzione ovest. Infine

imbocca la statale E18 verso Salo, la città più vicina a Toija, la Troia

omerica, secondo quanto ha studiato. Tra una canzone e l’altra gli

torna in mente almeno un paio di volte quel Erkki Hannikainen. Un

bevitore formidabile. E quanto fuma, anche. Tira le cicche fino

all’unghia, e poi le spegne sotto la suola della scarpa. Prando non s’è

azzardato a dire niente a proposito delle cattive abitudini che a una

certa età possono rivelarsi fatali, però comincia a capire come mai con

i suoi millecinquecento suicidi l’anno su una popolazione di cinque

milioni la Finlandia è in testa alle classifiche europee.

Passata Espoo la strada per un buon tratto rimane quasi

pianeggiante, con lunghi rettilinei, e pressoché deserta di auto,

almeno nella valutazione di chi, come lui, è abituato a ben altri

sovraffollamenti urbani. Solo più avanti le ondulazioni del terreno

tendono ad accentuarsi. Ignora la deviazione per il lago Suomusjärvi e

oltrepassa Kitula, che dista una novantina di chilometri dalla capitale,

svolta a sinistra, qualche chilometro ancora, una curva, e Toija si

materializza finalmente davanti ai suoi occhi nel caldo pomeriggio

estivo.

E’ il tipico villaggio finlandese con tutti gli attributi del caso: il

distributore di benzina che s’incontra appena usciti dalla strada

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statale, la piazza con l’ufficio postale, una succursale della banca

cooperativa, la farmacia e le case sparse intorno al centro commerciale

con accanto un grande display che alterna la segnalazione dell’ora con

quella della temperatura: 27°. Lo scriverà a Wilma per

tranquillizzarla, casomai pensasse che qui al nord ci vuole la maglia di

lana anche in luglio.

Improbabile. Wilma è sempre così bene informata che saprà già

tutto. Non c’è giorno che non navighi nel mare delle notizie, o che

scambi foto e commenti con decine di amici virtuali. L’universo

tecnico che si è sviluppato con il digitale intorno all’informazione l’ha

letteralmente conquistata, prendendola come un pesce nella rete.

Prando è pronto a scommettere che se avesse quarant’anni di meno e

frequentasse ancora il liceo sua sorella sarebbe una di quelle

adolescenti che scelgono di ritirarsi dalla vita sociale per passare gran

parte del tempo chiuse nella loro stanza collegate a facebook e twitter.

Lui invece va ancora all’antica: fin da bambino ha trovato rifugio

nei libri e ancora oggi se qualcosa va storto nella sua vita, anche una

piccola cosa, fa affidamento su una buona lettura, ci si perde dentro e

ne trae conforto. Sebbene non ritenga necessariamente più intelligente

leggere un libro di carta che far parte di un social network. Non è

certo uno di quelli che pensano che il modo giusto di fare le cose è

sempre quello di ieri e il modo sbagliato sempre quello di domani.

Non ce l’ha per partito preso con la civiltà digitale, la sua fretta, la sua

approssimazione. Nonostante giudichi eccessivo e controproducente

lo spazio che le immagini occupano attualmente nel mondo degli

uomini perché le immagini sono più povere di contenuto,

assecondano la pigrizia, mettono a rischio la memoria, danno a

qualsiasi idiota la facoltà di urlare la sua e sono nemiche per natura

dei saperi tradizionali, che si acquisiscono solo studiando.

Non è comunque sua intenzione togliere ai nuovi metodi di

comunicazione e divulgazione ogni merito. Il modo in cui il digitale

ha dilatato gli spazi gli piace, e molto, tant'é che adesso anche lui

quando ragiona non considera più solo lo spazio reale, fisico e

geografico. C’è lo spazio affettivo, ad esempio: Wilma è a Mestre, ma

attraverso le sue mail gli è più vicina nello spazio affettivo del

falegname in pensione Erkki Hannikainen, con cui ha parlato poco fa.

53

C’è lo spazio economico, altro esempio: lui non si serve del negozio

sotto casa per comprare musica ma ordina i cd a un rivenditore

americano tramite e-bay, il che significa che nello spazio economico è

più vicino a Los Angeles che al commerciante del quartiere. Questo

succede perché l’avvento del digitale ha cancellato la reale

corrispondenza tra lo spazio fisico, lo spazio economico, lo spazio

semantico, lo spazio relazionale. Corrispondenze che invece erano in

voga ai tempi di Omero, quando la gente viveva in clan. Allora lo

spazio fisico, geografico, territoriale era identico allo spazio affettivo e

tutti quelli che si potevano conoscere, che si potevano amare, oppure

odiare, appartenevano al villaggio. Lo stesso dicasi dello spazio

economico, perché non si potevano avere relazioni d’affari che

all’interno del proprio gruppo. C’era insomma una sovrapposizione

di spazi, mentre oggi tutta l'evoluzione sociale va verso una divisione

degli spazi. Ma qui entriamo in un campo d’indagine che non è il suo,

e in questo momento lui ha altre priorità, deve decidere dove

mangiare e dormire innanzitutto.

Chiede informazioni a un passante e nel giro di cinque minuti

scopre che in paese c’è un unico affittacamere: un vedovo attempato

ma ancora arzillo i cui figli si sono trasferiti a Helsinki.

Il tipo é molto per bene. Beve almeno un litro di tè alla menta

piperita col miele mentre discute di politica con Prando sulla veranda

del villino. Nessuno dei due parla bene dei suoi governanti. Poi si

trasferisce con l’ospite nella sauna. Favolosa. Provvista di un

eccellente impianto di aereazione, non un segno di umidità, le assi di

abete lisce e senza nodi linde come appena messe. Prima di andare a

dormire i due amici, perché di questo ormai si tratta, si sferzano a

vicenda per un bel po’, assaporando lo straordinario piacere che può

offrire solo una vera sauna finlandese.

Il mattino dopo Prando ripercorre al contrario la strada principale

del villaggio. Ancora facciate colorate, verande, porte, finestre, tetti

spioventi che occhieggiano in mezzo a siepi di biancospino, meli,

cespugli di lillà, betulle, pini e aiuole fiorite. Solo che adesso il

paesello gli è famigliare. Si sente a casa in questo posto semplice e

cordiale che emana un profondo senso di pace. Ci ritornerà.

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Uscendo a velocità ridotta dal centro abitato è costretto a strizzare

gli occhi perché il sole è già alto e picchia duro, nonostante siano solo

le otto del mattino. Poco dopo imbocca una strada sterrata che

conduce a un’altura situata ai margini dell’abitato da cui si domina la

vallata che si apre in direzione del mare. Arriva in cima alla salita,

parcheggia la fedele Skoda, scende dall’auto e rimane per un

momento a ciondolare. Guarda le immensità azzurre del cielo, annusa

l’aria umida, finché il vento non gli soffia via il berretto blu da

marinaio bretone e lo fa rotolare giù per la china alle sue spalle. Allora

si gira per raccoglierlo e vede che, dando le spalle al nord, da sinistra

scende un fiume che ad un certo punto si allarga nella pianura

formando un lago lungo e stretto, dove un paio di chilometri più a

valle s’immette un altro corso d’acqua, un po’ più piccolo, oltre il

quale il lago si restringe, rientra nell’alveo e si avvia naturalmente

verso la foce. Lo scenario corrisponde in maniera sorprendente a

quello descritto da Omero. Quattro millenni fa gli Achei dai lunghi

capelli e i biondissimi Troiani si affrontarono in questa pianura nelle

mischie furibonde narrate dal celebre poema. L’emozione che prova è

pazzesca.

Il territorio è stato evidentemente ritoccato dalle profonde

modificazioni del clima che hanno interessato questa regione negli

ultimi millenni, travolto dalle violente alluvioni a cui accenna anche

l’Iliade all’inizio del Libro XII e coinvolto nel processo, iniziato alla

fine dell’era glaciale e tuttora in corso, di emersione del suolo

finlandese. Ma la coerenza complessiva del quadro resta stupefacente.

L’antica Troia sorgeva qui, su una delle alture affacciate sulla

sponda orientale del lago Kirkkojärvi, in posizione dominante rispetto

alla vallata, a circa un chilometro ad est dell’attuale Toija, dove il

fiume si allarga e inizia il lago. Intimidito dall’ENERGIA potente e

primordiale che sprigiona il luogo trattiene il fiato per non disturbare.

Un silenzio profondo ammanta i prati mentre gli alberi si agitano

irrequieti facendo frusciare i loro rami nell’aria brillante. Smaltata.

Che mondo virile, pensa.

E lui, unica macchia nel paesaggio.

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Per un’ora abbondante rimane seduto sull’erba a guardare la

pianura sottostante immaginando il film della battaglia. Alle sue

spalle gli uomini più vecchi scagliano raffiche di punte incandescenti

sui guerrieri nemici, strisciano dietro le staccionate, corrono di casa in

casa. Uno cade contorcendosi sotto i suoi occhi, trafitto da una lancia

ancora calda delle fiamme della fucina. Poco distante c’è Elena che

indica al re Priamo i principi achei e Andromaca che, udendo le grida

di dolore di Ecuba per l’uccisione di Ettore, si precipita fuori di casa e

comincia a urlare come una pazza. Il tintinnare degli scudi scandisce

le ore meglio delle campane, perché queste non sono ancora state

inventate, e molte teste di soldati cadono nella polvere, mentre il

clangore delle spade rimbomba in ogni angolo della valle offuscata e

striata di rosso dagli incendi. I campi pronti per la mietitura sono dati

alle fiamme. Alcuni frutteti bruciano, con le mele che arrostiscono sui

rami ardenti, mentre il granaio di una fattoria cade carbonizzato.

All’improvviso cala una nebbia fitta e insidiosa. Una nebbia piena di

voci. I guerrieri le seguono sferrando colpi alla cieca con le grandi

lance piumate e macchiate di sangue. Percorrono il campo di battaglia

gridando, superandolo spesso, perché elmi e armature appaiono e

scompaiono nelle spire frementi della cortina umida e lattiginosa. Uno

starnuto interrompe la rappresentazione.

Soffiandosi il naso Prando si rende conto che tessendo la trama

della sceneggiatura avrebbe potuto essere più preciso, prolungare

certe scene, esaltare le gesta degli eroi e soffermarsi sugli aspetti più

cruenti della lotta, invece non l’ha fatto. E’ incompetente in materia,

appartiene alla generazione che non conosce la guerra, se non

attraverso i libri di storia e RAI Educational, non arriva a immaginarla

come qualcosa di reale. Quando ricevette la cartolina-avviso di

chiamata alla visita di leva costrinse un amico a rompergli l’indice

della mano destra con un cucchiaio di legno per farsi scartare. Non

voleva sprecare dodici mesi della sua vita in caserma. Ma lo

smaliziato ufficiale medico dell’esercito non si fece infinocchiare. Non

potendo premere il grilletto a causa del dito rotto fu dichiarato non

idoneo a fare il soldato, ma perfettamente in grado di catalogare i

fascicoli delle reclute nell’ufficio matricole del quartier generale, dove

fu arruolato con la qualifica di assistente archivista.

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Nella sua mente indugiano ancora i ricordi di gioventù mischiati

alle immagini epiche che ha ricostruito, in parte grazie alle conoscenze

storiche e in parte intuitivamente, quando una violenta inquietudine

s’impossessa di lui costringendolo ad alzarsi in piedi e abbandonare

precipitosamente il teatro della battaglia.

Cosa gli ha messo paura? I fantasmi degli eroi caduti in

combattimento? Gli spiriti che a distanza di millenni vagano inquieti

cercando ancora una compensazione ai loro atroci dolori e alla fine

violenta delle loro giovani vite? Che riposino in pace, amen, mormora

lanciando un’ultima occhiata alla pianura dolorosamente muta.

Una manciata di secondi dopo il frastuono delle immagini nella

sua testa cessa, tutto è tranquillo adesso, non si sente altro che un

frusciare di foglie, le anime erranti momentaneamente hanno trovato

il riposo. Dal lato est dove i fantasmi hanno scatenato la loro protesta

si alza libero uno stormo bene allineato di uccelli.

Lasciando il luogo che un tempo contribuì a rendere tanto

gloriosa quanto inespugnabile la città fortificata più celebre del

mondo e dirigendosi verso l’auto si chiede cosa sta facendo lì, in quel

posto lontano migliaia di chilometri da casa, a fantasticare su presenze

improbabili e vicende forse mai accadute. Normalmente quando uno

diventa vecchio comincia a riflettere sull’universo, mette su casa in un

posticino tranquillo e si dà tutto all’arte e alla filosofia, NON CORRE

DIETRO AI SOGNI dando spettacolo e offrendo agli occasionali

passanti un’immagine penosa, nemmeno giustificabile con l’evidenza

che, da pensionato vecchio e scemo qual’è, è stato colto da un

comprensibile raptus di follia.

Buon per lui che non passava nessuno. Per un momento, come se

stesse facendo il tifo ora per l’uno e ora per l’altro, lo si è visto

gesticolare e sbraitare come uno di quei personaggi che spesso

primeggiavano nei romanzi on the road degli Anni Sessanta:

squilibrati dall’aria romantica, disgustosamente fatti o bevuti, sempre

a vagare per strade perdute.

Sostenuto dalla magica suggestione dell’interminabile crepuscolo

nordico, complici le note leggere di una canzoncina di Brian Adams,

scende in automobile verso il mare, in direzione di Tenala. Dal cielo

chiaro si spande ovunque una tenue luce soffusa, che va scemando

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impercettibilmente d’intensità, mentre i lunghi rettilinei della strada

semideserta corrono tra scure macchie di alberi e vastissimi prati

distesi a perdita d’occhio sulle ondulazioni dolci del suolo.

Sul litorale del Baltico ferma la fedele Skoda in prossimità di una

baia e si mette a guardare fuori dal finestrino con la testa appoggiata

al cuscino superiore dello schienale. Di fronte a lui sagome di alberi si

sporgono temerari fin sulla riva restando sospesi sul mare in un

irreale silenzio, d’un colore sempre più indefinibile a mano a mano

che cala la luce del giorno. I rami galleggiano come sugheri in

un’atmosfera sognante, sospesi sopra le tante isole e isolette dai

contorni sfumati dietro le quali scivolano le nere navi degli Achei.

Lo coglie di sorpresa un leggero capogiro, la fatica del viaggio e

l’accavallarsi delle immagini devono avergli esaurito l’ossigeno del

cervello. Quando scende dall’auto per prendere una boccata d’aria ha

la sensazione che l’erba continui a ondeggiare ancora per un po’, poi

una vibrazione improvvisa lo riporta in asse … drrrr! … tira fuori

l’iPhone dalla tasca superiore del giubbino beige smanicato … drrrr!

… è Wilma.

“Che ti credi fratellone, so anch’io che la costa occidentale finlandese,

caratteristica per le sue idilliache vecchie città in legno, è una delle più

soleggiate del Nordeuropa. L'ho letto su wikipedia. Ma non mi piace che

proprio adesso che siamo lontani tu ed io ci mettiamo a parlare del tempo che

fa, come se fossimo diventati due estranei. Dimmi piuttosto della

professoressa svedese che traduce Dante. Vi siete incontrati? Com’è andata?

Lei com’è: simpatica, bella, sposata, figli, divorziata? Quanti anni ha? Ti

piace? E tu, le piaci?”

Prando non ha la minima intenzione d’imbarcarsi in una

conversazione del genere. Nonostante i sessant’anni portati con

disinvoltura si sente di poter escludere che il fatidico incontro sia

ancora possibile, quindi spegne l’iPhone, ingrana la prima e riparte

con la musica a palla. I pneumatici si muovono sull’asfalto al ritmo

folgorante del secondo, mitico, album di Primal Fear. Sorpassa

un’automobile bianca. Alcune vacche ruminano in un campo. C’è un

uomo anziano che cammina sul ciglio della strada. Poco dopo una

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bicicletta malandata buttata per terra. Il panorama piacevolmente

variopinto è scandito dal blu del Golfo di Finlandia che appare e

scompare tra gli alberi.

Sono quasi le sette di sera quando arriva a Turku, che quest’anno

è la capitale europea della cultura. Lo ricordano i muri colorati dai

manifesti che pubblicizzano i vari eventi. Ce n’è per tutti i gusti: dal

culto del Natale nella penisola di Koroinen alle prospettive culturali

sulla morte, orchestre e cori provenienti da mezzo mondo. Cose

interessanti, a cui adesso però non ha voglia di pensare. Non vede

l’ora di varcare la soglia dell’Holiday Inn, dove ha prenotato una

stanza, vuole farsi un bagno caldo, consumare una cena in grazia di

dio e mettersi sotto le coperte.

La hall dell’albergo è decisamente nordica, mobili bianchi e pareti

azzurre. Bella, anche. Come le due addette alla reception. Sono

altissime e sembrano top model, forse lo sono. Prando non capisce

quello che dicono quando parlano tra di loro, né perché sono

receptionist e non modelle, però le trova molto educate e gentili. Una

musica radiofonica fa da sottofondo ai loro discorsi, forse Radio Soft

DK, in onda c’è una cover version di Does your mother know degli

Abba. Adatta.

«Chi si rivede!,» esclama qualcuno alle sue spalle.

Quasi Prando non crede ai suoi occhi: la bionda rifatta che faceva

gruppo con il baffone e Anja Lagerkviest a Copenaghen. Che sia a

Turku per partecipare a qualche evento legato all’anno della cultura?

Glielo chiede.

Bravo, indovinato, fa lei tendendogli una mano molle e

perfettamente idratata che lascia scivolare nella sua senza stringerla.

Per non rovinare il lavoro della manicure, probabilmente. Venerdì

tiene una conferenza sulla tradizione legata al vischio nell’ambito del

convegno sul culto del Natale, inutile dire che conta sulla sua

presenza. Parla con una rilassatezza tutta estiva, mantenendo un

registro di voce immutato, senza un tremito dei muscoli facciali

sepolti sotto i cuscinetti al silicone che riempiono gli zigomi. Lui si

defila, dichiarandosi costernato, purtroppo domattina alle sette riparte

per Lahti.

«Come vanno le sue ricerche? Novità su Omero?»

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«Veramente non mi aspetto di scoprire alcunché.»

«Non si può mai sapere.»

«Grazie per la fiducia.»

«Ha ripensato al discorso di Copenaghen?»

«Devo ammettere che la teoria secondo cui Omero in realtà

potrebbe essere stato una donna è affascinante, e non c’è dubbio che le

donne siano naturalmente predisposte alla conservazione della storia

attraverso la trasmissione del racconto tra generazioni. Ancora oggi

molti autori di culto tra coloro che basano la loro narrazione sulle

storie tradizionali sono donne. Ursula Le Guin, Marion Zimmer

Bradley, Manda Scott, tanto per citare i primi nomi che mi vengono in

mente.»

«Però …?»

«Non sono del tutto convinto.»

«Lo sarà presto.» Ride tirando pericolosamente ai lati le labbra a

canotto. «Voglia scusarmi, adesso, ma sono a Turku con un amico e

abbiamo un tavolo prenotato per le sette e trenta.»

«Allora non la trattengo.» Prando non vede l’ora di spogliarsi i

jeans e togliersi le scarpe dai piedi. «Tanti auguri per la sua

conferenza, e buona serata.»

«Anche a lei, si diverta,» dice ancheggiando in direzione della

porta d’ingresso, dove l’aspetta un palestrato senza capelli più

giovane di lei di almeno quindici anni.

Grato alla bionda rifatta per quella frase amichevole, pur

sospettando la sottintesa ironia, si avvia davanti al trolley verso

l’ascensore. La pensino come vogliono, lei e il palestrato, si facciano

pure beffe di lui, se non hanno argomenti migliori, ognuno è libero di

vivere la propria vita come cavolo gli pare.

Salendo al terzo piano considera invece la stranezza di

quell’incontro. Certo potrebbe essersi trattato di una semplice

coincidenza, ma chissà perché l’istinto gli suggerisce il contrario, e il

suo istinto non sbaglia.

Intende dire che la bionda rifatta è venuta all’Holiday Inn di

Turku per incontrare lui? E per quale motivo avrebbe dovuto farlo?

Forse per ricordargli che il grande poeta era in realtà una donna?

Manca solo che si faccia prendere dal sospetto che la rifatta e la

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Lagerkviest sono in combutta tra loro, e il passo successivo è

cominciare a vedere improbabili spie del nemico nello specchietto

retrovisore della Skoda. Il tutto in aggiunta ai fantasmi della celebre

maga che già vede dappertutto.

Entra in camera, si libera dei vestiti, infila le ciabatte e

l’accappatoio di spugna dell’albergo e si mette a guardare sull’iPhone

le fotografie che ha scattato nel pomeriggio. Quasi subito viene

catturato dalla magica atmosfera che, persino attraverso le immagini,

sembra scaturire dall’altura di Troia. Sente il fruscio dell’erba

selvatica, il ronzio degli insetti, percepisce il vento che il primo giorno

della battaglia soffiava forte sopra la pianura e vede calare la nebbia,

insistente e insidiosa. Ancora oggi vento e nebbia sono una costante

della meteorologia delle regioni baltiche. Ma ecco scatenarsi laggiù

l’incendio alimentato dalle forti correnti. Scappano le donne costrette

a lasciare tutto piangendo. Vorrebbe abbracciarle, consolarle, dire loro

che l’anima di Troia non morirà, perché è indistruttibile. Poi il vento

cambia direzione, va verso sud-ovest, e un attimo dopo l’immagine

dell’altura è nuovamente deserta. Si alza e toglie l’accappatoio. Nudo

come Beorn il Mutapelle, che cambiava a piacimento il suo aspetto e la

sua forza in quella di un orso invincibile, entra nel box di cristallo e

apre l’acqua calda.

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SCIAMANI E AMULETI

L’indomani alle 07:10 si mette al volante della fedele Skoda

diretto a Lahti. In realtà è sveglio dalle cinque, prigioniero di

un’inspiegabile inquietudine. La colpa non è dell’incontro sospetto di

ieri con la bionda rifatta, delle inspiegabili premure della Lagerkviest

o del fantasma di Circe che va e viene come vuole. Responsabile del

suo stato di agitazione è il SENSO DI VUOTO che da stamattina lo ha

preso. Un mal di pancia che sente avere radici profonde, origini

sincere.

Accarezza l’idea che lo strascico emotivo dell’esperienza di Troia

stia stuzzicando in lui lo spirito dell’orso, si crogiola in questo

pensiero, sebbene non sia in grado di provare nulla, se non che il suo

aspetto assomiglia ogni giorno di più a quello di un orso.

Dovrebbe mangiare di meno e curare di più la forma fisica.

Se ancora non lo ha fatto è perché non vuole correre il rischio di

entrare nel circolo vizioso dei massaggi pulizia del viso solarium

palestra con personal trainer. Ne conosce tanti che hanno fatto questa

fine. Colpa come sempre dello strapotere delle immagini. Tra

extension per capelli, labbra a canotto, sopracciglia tatuate, unghie

sintetiche, zigomi e tette al silicone, ci sono buone probabilità che

l’umanità dell’Età del Petrolio venga ricordata come l’emblema del

surrogato. O che non venga ricordata affatto.

Quanto veleno! E’ l’inquietudine che lo rende così acido verso il

suo tempo e i suoi simili? Come se non sapesse che è tipico

dell’immaginazione credere di trovarsi sempre alla fine di un’epoca,

in un periodo nero della storia, in una transizione catastrofica verso

momenti sicuramente migliori. E’ dal giorno in cui è stato cacciato

dall’Eden che l’uomo rimpiange del passato l’aspetto che più di ogni

altro nel presente gli manca. Questo suo stesso viaggio, il suo ricalcare

le orme di un fantomatico Omero, vagheggiando una misteriosa Circe,

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non è forse una grande parodia del sogno di un’anima sensibile

profondamente dispiaciuta per la perdita della sapienza antica e della

straordinarietà dell’esistenza presa nella sua assoluta unicità?

L’amarezza lo ha spinto fin quassù. Nient’altro. E adesso spera di

trovare la sua strada in questo luogo intatto che ha mantenuto quasi

immutate le sue caratteristiche naturali per migliaia di anni.

Alza il volume e lascia che la musica cancelli i pensieri.

Nonostante abbia ascoltato Awake decine di volte, forse centinaia,

non si stanca di farlo. Mike Portnoy detta il ritmo con la precisione

spietata di una macchina da guerra. Colpi profondi, colpi metallici.

Qualcosa di vagamente simile a un campo di battaglia, al clangore

delle armi. Se da ragazzo avesse imparato a suonare uno strumento

quello strumento sarebbe stato la batteria. A dodici anni non aveva

idea che il TAMBURO fosse la sede naturale dello spirito dell’orso, né

immaginava che il suo tamtam accompagnasse molti rituali compiuti

dagli sciamani artici che includono l’estasi e lo stato di trance, eppure

quel ritmo martellante gli dava una carica indescrivibile. Come

sentiva battere il piede sulla cassa e la bacchetta sul rullante lo

prendeva una voglia matta di muoversi, di ballare, di far andare mani

e piedi dove volevano, ed era felice di non avere più regole di

comportamento da rispettare.

Oggi ne sarebbe ancora capace?

Forse all’interno di un rituale sciamanico, chissà.

Ci si vede ai margini del cerchio che tiene il tempo con le mani e i

piedi mentre lo sciamano in pista tara i colpi sui suoi rumori interni, il

pulsare del sangue nelle vene e il battito cardiaco. Le battute si

ripetono in un crescendo di suoni che variano di intensità, altezza e

timbro, a seconda dell’effetto che il celebrante vuole suscitare, e sono

accompagnate dagli yoikos, antichissimi canti cerimoniali di cui forse

nemmeno il celebrante capisce più il significato, ma ugualmente li

ripete, così come hanno fatto altri prima di lui, limitandosi a

tramandare ai posteri i suoni della tradizione, in attesa che l’umanità

torni ad essere saggia e gli sciamani siano di nuovo consapevoli di

quello che dicono.

Una nota amara è sufficiente per farlo sprofondare di nuovo in

quel SENSO DI VUOTO. Si concentra sulla guida, desiderando

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sfuggire le delusioni conseguenti al troppo sognare. Prossima tappa:

Ammatsä. Tra poco sentirà che aria tira nella regione dove

cavalcavano un tempo le bellissime Amazzoni che, se non ricorda

male - lo controllerà più tardi in Google - sconfissero in battaglia

valorosi combattenti ed ebbero il fegato di mettersi contro lo stesso

Priamo. Che donne!, altro che quote rosa e botulino riempi-rughe.

Sta per uscire dall’ultima curva, quando vede una tizia con un

cesto al braccio che s’intrufola tra gli alberi a passo spedito. Gli ricorda

Circe Testarossa, ma non è lei, non gli sembra almeno. Allontana lo

sguardo un momento, per non perdere di vista la strada, e quando

poco dopo torna a guardare di lato, la sconosciuta non c’è più, è

svanita. Dove sarà andata? Chi era? Una del posto, che domanda.

Ferma la Skoda e scende a prendere una boccata d’aria.

C’è una musica nel vento, come risate di donne a cavallo di una

cascata. Volutamente la ignora. Si siede sulla sponda di un ruscello,

fruga nelle tasche in cerca del pacchetto di fazzoletti e si ritrova in

mano una vecchia scatolina d’argento con dentro un cristallo piccolo

come una pillola di diuretico. Ricorda di aver comprato quell’oggetto

a Istanbul, nel ’95.

Per quale motivo se lo porta dietro? Nessuno.

A che serve? A nulla.

Ma cosa ci può fare se gli piace la compagnia delle carabattole.

Trova che le vecchie cose possiedano una luce, e una voce, che le

nuove, immature e piatte, non hanno. A casa ne ha sparse un po’

dappertutto: le raccoglie, le ripara, le spolvera, le rianima, le mette in

circolo per il mondo e vive con gioia i suoi momenti junk.

Un po’ come le madeleine proustiane.

In versione Terzo Millennio, però.

Nella società dell’ipertecnologico e del fatto in serie non c’è niente

di più puro di un piccolo oggetto vissuto. Gli si può attribuire

qualsiasi tipo di virtù, lo si può indossare, o tenere in tasca per

scaramanzia e usare al momento opportuno come difesa contro le

influenze negative. I cacciatori artici furono i primi a credere di poter

ricevere protezione, acquistando fiducia nel proprio destino, dal

possesso di amuleti che ricavavano da ossa, denti o corna di animali.

Scavavano le loro case nella terra azzurra di ghiaccio e mettevano

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sopra l’ingresso crani di balena a mo’ di sentinelle. Non erano molto

alti, avevano le facce annerite dal sole come tizzoni, gli occhi piccoli e

stretti, i capelli neri che piovevano sopra le tempie fredde di brina.

Etiopi, li chiama Omero.

Rimette il piccolo cristallo nella sua custodia, chiude il coperchio

e sposta al sicuro la scatolina in una tasca interna della tracolla.

Inumidendosi le labbra guarda con gli occhi socchiusi un grappolo di

nuvole immerse nel sole della fresca estate nordica, mentre il

mormorio dell’acqua di una sorgente lontana canta senza vergogna la

sua canzone in presenza di un uomo solitario. Quali prove ha per dire

che la tizia con il cesto al braccio non era Circe Testarossa? Perché

allora, chiunque fosse, quando ha visto la Skoda in arrivo si è

intrufolata tra gli alberi? Cosa nascondeva? Sono ben strane queste

nordiche, così sensuali e al tempo stesso leggere come spettri.

Magiche. Sebbene neanche loro siano tutte uguali, ad esempio tra

Circe Testarossa e Anja Lagerkviest c’è un abisso: la prima con la sua

morbidezza sfumata, i silenzi e i misteri, l’altra iperattiva, con la sua

elettricità nevrotica. Dovendo scegliere, non avrebbe dubbi.

Scegliere, chi? Cosa? Crede di essere venuto fin qui per fare il

giurato a un concorso di bellezza? Non è in tournée con l’associazione

Marpioni alla Riscossa. Purtroppo.

Noioso come una mosca settembrina lo riprende il SENSO DI

VUOTO che sembrava averlo lasciato. Solleva il berretto blu da

marinaio bretone e si gratta la testa con indice e medio uniti, prima di

risistemarsi la visiera con un’angolatura più decisa. Risale in

macchina, chiude la portiera, prende l’iPhone e scrive una mail a

Wilma.

“E’ appena sparita nella boscaglia una raccoglitrice di funghi. Ma per

quanto ne so potrebbe essersi trattato di una sciamana alla ricerca della

micidiale amanita muscaria, il fungo magico che appare nelle figure delle

fiabe. In tal caso le auguro d’incontrare un rospo. C’è un rapporto diretto tra

amanita e rospo. La pelle di rospo contiene i bufadielonidi, sostanze chimiche

la cui azione come anestetici locali è novanta volte più forte di quella della

cocaina.”

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Ripone l’iPhone nella tasca superiore sinistra del giubbino beige

smanicato e chiude gli occhi. Vorrebbe riposare un poco, gli

basterebbe un quarto d’ora, ma non riesce a rilassarsi. L’apparizione

di poco fa lo ha spiazzato. Nonostante sia quasi sicuro che l’incontro

era casuale e Circe Testarossa non c’entrasse affatto.

Allora perché è così nervoso?

Bella domanda. Improvvisamente si sente goffo e fuori luogo:

una montagna di lardo sotto un cappello da marinaio bretone. Gli

manca solo una cravatta al collo, e poi potrebbe essere scambiato

tranquillamente per l’orso Yoghi, orfano di Bubu, a spasso come un

babbeo nel parco immaginario di Jellystone. In alternativa, per uno di

quegli orsi dimessi e rassegnati del Cinque/Seicento che al guinzaglio

di un padrone umano senza scrupoli si muovevano brontolando da

un paese all’altro, costretti a esibirsi nelle fiere e nei mercati. Esseri

infelici che avevano dimenticato la propria dignità. Con la bocca

bloccata dalla museruola dovevano girare su loro stessi, danzare,

dondolarsi, camminare sulle zampe anteriori, stare in equilibrio su

una palla o su un’asse, mostrando non più la loro forza e il loro

coraggio ma una estrema rassegnazione. Più l’animale scimmiottava

l’uomo, maggiore era il divertimento del pubblico. Una sorte davvero

ingiusta per un essere già re degli animali trasformato in una creatura

grottesca e maldestra, neppure i giovani che aspiravano a diventare

cavalieri l’affrontavano più, preferendogli invece il leone,

eventualmente il drago, per provare il loro coraggio.

Indignato contro l’ingiustizia che regna sovrana sul mondo

Prando ingrana la prima e parte sgommando. Mossa azzardata,

perché girato troppo velocemente il volante lui e la Skoda schizzano

su una stradina sterrata che porta chissà dove. Un minuto più tardi

appare in lontananza una casa bianca e rossa. Di lì a poco, una

cassetta delle lettere. A questo punto mette totalmente da parte la

prudenza e prosegue. Prima ancora che se ne renda conto, si ritrova

nel cortile di una piccola fattoria con un fienile sul retro invaso da rose

pimpinelle. Un altro po’ e non avrebbe neppure avuto il tempo di

frenare, falciando il pastore tedesco tenuto a bada da una vecchietta

con gli stivali di gomma e un … cesto al braccio?

Era lei dunque la raccoglitrice, altro che Circe Testarossa.

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Incorreggibile romanticone che non è altro, non diventerà mai un

orso matricolato se non mette da parte il cuore. E adesso? Nel corso

degli ultimi giorni ha imparato qualche parola in lappone e coglie

l’occasione per sfoggiarla.

«Huomenta, kaunis päivä.»

«Buongiorno.» Risponde la vecchietta in un impeccabile inglese.

«Hai sbagliato strada, presumo.»

Scendendo dall’auto Prando afferma di presumere la stessa cosa,

mentre non ha la più pallida idea di dov’è finito. Può la padrona di

casa spiegarglielo?

La vecchietta, che a guardarla da vicino tanto vecchia non é, non

se lo fa ripetere. Spiega che quella strada non conduce da nessuna

parte perché fu fatta da suo padre per coprire i quattro chilometri che

separano il podere dalla statale, lei e Julius, il canelupo, sono gli unici

abitanti della casa, che non è un albergo, né un B&B, e quindi si

aspetta che lo sconosciuto risalga alla svelta in macchina e inverta la

marcia quanto prima, perché lei ha da fare.

Accidenti, che brutto carattere, pensa Prando. E dire che quando

ha visto la fattoria ha pensato di poter mettere finalmente i piedi sotto

a un tavolo. E’ in ballo dalle 07:10 di stamattina, e tra l’altro dopo una

notte agitata, comincia a essere un po’ stanco. Affamato, per giunta.

«Sono disposto a pagare, per un piatto caldo,» dice.

«E perché?» Chiede la vecchia. «Non puoi andare avanti fino al

prossimo villaggio e cercarti una stazione di servizio?»

«Certo che posso. Ma confidando nella ben nota ospitalità

lappone, ho chiesto lo stesso.»

La vecchia rimane in silenzio per un attimo, sembra stia

riflettendo.

«D’accordo. Puoi fermarti, ma di pagare per un piatto di salsiccia

con le patate non se ne parla proprio. Come ti ho già detto, questo non

è un albergo.»

«Grazie. Sono erbe medicinali, quelle?» Chiede lui dopo aver

sbirciato nel cesto ciò che lei porta al braccio.

«Fatti gli affari tuoi. Ora mangi, e poi te ne vai.»

«Guarda che non sei obbligata a darmi da mangiare, non sto

morendo di fame.»

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«Porta sfortuna negare ospitalità a qualcuno che te la chiede,

quindi siediti e aspetta un momento che scaldo la salsiccia.»

Entrano. La casa è ben tenuta. Si vedono due stanze al

pianterreno, una cucina piuttosto grande e un soggiorno divisi da una

scala di legno che porta al piano superione. Entrambi gli ambienti

sono molto luminosi.

«Il tuo podere è pieno di sole,» dice Prando, tanto per avviare una

conversazione qualsiasi.

«Cretinate. In tutta l’area lappone il sole non arriva mai a toccare

la terra perché i lapponi non hanno una terra. In inverno il disco giallo

sparisce dietro l’orizzonte, è vero, ma è perché la terra si trova sotto

una trapunta di neve ghiacciata, non per altro. E adesso mangia,

prima che le patate si raffreddino. Niente è più indigesto delle patate

fredde.»

E più buono delle patate lapponi ... mmhhh! … Prando prende in

mano coltello e forchetta. Anche la salsiccia è niente male,

evidentemente la vecchia bisbetica ai fornelli ci sa fare. Probabilmente

anche in laboratorio, la guarda di sottecchi mentre deposita con cura il

contenuto del cesto su un ripiano di legno pieno di barattoli e bottiglie

di vetro. Allinea le erbe e le divide, coprendole poi con un canovaccio

pulito. Magari è una sciamana in procinto di preparare uno dei suoi

intrugli. Adesso metterà sul fuoco il pentolone, bollirà foglie segrete e

fiori introvabili con code di salamandra e unghie di drago, e poi se ne

andrà a celebrare il suo rito in uno di quei posti remoti segnati da

violente cascate, imponenti formazioni di roccia, grandi massi,

caverne profonde, sorgenti e laghi. Prando ha letto che questi siti sono

quasi sempre rotondi, come il sole, oppure circondati da cinque punte

di stella. Darebbe un mese di pensione per poterne visitare uno.

Anche due, se necessario.

«Sono erbe magiche, quelle che hai raccolto?»

«Mangia e taci,» dice minacciosa. Julius sembra dormire accanto

alla stufa spenta, ma in realtà non si perde una mossa della sua

padrona, né del forestiero seduto a tavola.

«Scusa, non volevo farmi gli affari tuoi, però pensavo che potresti

essere una sciamana, e non sai quanto mi piacerebbe poter vedere un

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vero sciamano all’opera. Sarei persino disposto a pagare, per uno

spettacolo del genere.»

«Ah, ma allora ce l’hai per vizio. Pensi che sia tutto in vendita?»

«Non mettermi in bocca parole che non ho detto, sai bene cosa

intendo.»

«Ti rispondo con un aneddoto che il padre di mia cognata

raccontava spesso durante le riunioni di famiglia. Dopo l’ultima

guerra l’antropologo Ernst Manker cercò di visitare un luogo vicino a

Tjakkeli, in Svezia, il suo informatore sami rifiutò di dargli delle

indicazioni precise ma si lasciò scappare qualche parola di troppo.

Quando lui comunque riuscì ad arrivarci, successe una cosa molto

strana: apparvero sei vipere nella zona sopra il limite delle conifere,

dove non erano mai state viste prima. Contemporaneamente

l’informatore sami cominciò a sentire un dolore bestiale alla gamba

destra, tanto che dovette ricorrere al ricovero in un ospedale di

Stoccolma per farsi curare sei piccole dolorosissime ferite. Ai medici

riferì che il male era iniziato nel momento esatto in cui Manker era

arrivato nel sito sacrificale, nessuno ancora glielo aveva detto, ma lui

ne era sicuro.»

«Ho afferrato il messaggio.»

«Molto bene. Grazie alla mia ospitalità hai la pancia piena, il

serbatoio anche, immagino, hai bevuto a sufficienza e io non ho

bisogno dei tuoi soldi. In conclusione non voglio più avere niente a

che fare con qualsiasi cosa che implichi vedere un altro minuto la tua

faccia.»

Uscito dalla fattoria Prando parte come un razzo in direzione

della statale. E quando ci arriva guida per una decina di chilometri

senza pensare e senza musica, prima di fermarsi in prossimità di un

boschetto a riflettere sull’accaduto.

Questa almeno è l’intenzione, perché come scende dalla fedele

Skoda per fare quattro passi lo prende di nuovo quel SENSO DI

VUOTO. In più, ha l’impressione di essere osservato. Da qualcuno di

comunque non visibile. Qualcuno che forse è svanito fino a essere

impalpabile, chissà se per morte o per trasformazione di modi. E

siccome tutti gli uomini presentano un altro volto quando si

accorgono di essere spiati, adesso Prando modifica involontariamente

69

la sua normale espressione in quella di un deficiente. Come se ne

accorge pensa che dovrebbe fermarsi due o tre giorni da qualche parte

a riposare, starsene quieto per un po’. Non c’entrano fantasmi,

sciamani e amuleti. Stanchezza. Questa è la spiegazione. Chiude gli

occhi. Due bip. Riapre gli occhi. E’ Wilma: apri allegato, dice.

“Ricetta del 1737. Unguento verde delle streghe. Si mescolino i succhi di

atropa belladonna, giusquiamo, amanita muscaria, aconito, datura, digitale,

papavero e conium con grasso; si spalmi l’unguento sul viso, sotto le ascelle,

sulle mani. Volerete.”

Ruota il collo e rilassa le spalle. Sente la schiena contratta come

una tartaruga nel guscio. Con l’intenzione di raddrizzare il busto

mette le mani in tasca e tocca qualcosa di solido. E’ un grosso bottone

di madreperla. Era di sua madre.

Sarà anche un vizio infantile, però è una consolazione avere

sempre a portata di mano dei vecchi oggetti da guardare e toccare,

molte più persone dovrebbero farlo, se tutti partissero dal

presupposto che Qualcosa significa Qualcosa forse gli uomini

sarebbero più felici.

Gira il bottone di madreperla tra le dita.

E’ un bel bottone.

Piacevolmente rotondo.

Fa dimenticare il tempo.

70

L’ORSO PERDUTO

Seduta stante elegge a portafortuna del giorno il bottone di

madreperla di sua madre, lo ripone nel taschino superiore della

giacchetta smanicata e incomincia a camminare in mezzo a un’ampia

valle circondata da uno scenario tipicamente finlandese. Manciate di

casette rosse e gialle, con porte e finestre incorniciate di legni bianchi

sagomati che assomigliano a sculture di ghiaccio, spuntano da

rassicuranti boschetti di betulle evocando il paesaggio fiabesco di un

paese freddo e tenace dove la gente, abituata al rigore dell’inverno, sa

ancora apprezzare le cose semplici della vita. Spacciandola per una

confidenza il portiere dell’Holiday Inn di Turku gli ha svelato il

segreto della ricetta dell’ocra rossa con la quale i finlandesi dipingono

le facciate delle loro graziose abitazioni: solfato di ferro, salamoia

d’aringhe, semola di segale e acqua di lago messa a bollire in un

calderone riscaldato a fuoco lento. La preparazione del colore è

un’operazione delicata, il composto non deve attaccarsi al fondo, ma

nemmeno raffreddarsi. Ottenere la giusta densità esige perizia ed

esperienza. Lui stesso, gli ha confessato il portiere, per la sua casa di

campagna dovette ricorrere anni fa a un artigiano del posto che, dopo

aver tanto insistito sul giallo, giudicato un po’ più raffinato del rosso,

più signorile, dovette piegarsi alle sue richieste e tinteggiare la casa di

rosso. La sauna invece non è considerata un lusso, quasi tutte le case

ne possiedono una perché rimanere nudi a 100° e poi frustarsi con un

fascio di frasche di betulla per riattivare la circolazione è una necessità

quando fuori la neve non dà tregua.

Continua a camminare, la giornata è illuminata da una deliziosa

luce azzurra e gli uccelli cinguettano tra loro. S’imbatte in un

formicaio enorme, davanti al quale si ferma. Osservare le formiche gli

piace perché le formiche sono incredibili nella loro operosità.

Estraggono dall’acqua, granello dopo granello, una nuova città e col

71

sangue di milioni di formiche, che una volta compiuto il lavoro

muoiono per la stanchezza, edificano vere muraglie, spesso fino alla

cima degli alberi più alti, e templi anche, in cui il volo degli uccelli

addormentati pietrifica le vesti degli dèi. Muraglie vere, templi veri e

palazzi per la vita e per la morte vera, non speranze e illusioni.

Va avanti. I piccoli quadrati gialli e rossi riflessi nel lago col loro

pezzo di collina sullo sfondo danno alla sua passeggiata un non so che

di idilliaco nella cornice verdeggiante dell’estate. Quando è stanco di

camminare si concede una pausa completa di biscotti morbidi al cocco

e succo di mela verde. Sazio e soddisfatto torna quindi al punto di

partenza, si rimette al volante, fa la retro e gira la macchina in

direzione di Kuopio.

Accompagnato dalla voce inarrivabile di Freddy Mercury

attraversa la regione dei laghi, la cosiddetta Finlandia azzurra. L’aria è

sgargiante e c’è acqua dappertutto. Un odore acquitrinoso, umido,

tiepido, entra nell’abitacolo della vettura e sale nelle sue narici mentre

il sole asciuga l’inverno e l’estate moltiplica il sottobosco ai lati della

carreggiata. Dopo un’ora di viaggio incrocia un’area di sosta e decide

di fermarsi. Parcheggia la fedele Skoda, ricoperta da un manto di

polvere, nota adesso scendendo, accanto a una Nissan elettrica bianca

e nera, non bella nella linea ma altamente tecnologica, e va a

perlustrare i dintorni.

Probabilmente il proprietario della Nissan è quel pescatore

laggiù, non c’è nessun altro lì attorno. Prando gli si avvicina con il

proposito di fare quattro chiacchiere, è da stamattina che non parla

con qualcuno. Il pescatore è un uomo come lui di mezza età, ben

piantato, con un’opaca chioma grigia e … i baffi folti che gli tremano

quando parla?

«Non ci posso credere,» Prando è allibito, «mai e poi mai mi sarei

aspettato d’incontrarla in questo posto appartato con la canna da

pesca in mano e un paio di stivali di gomma ai piedi.»

«Pensa che uno storico non possa avere degli hobby?»

«Parlo del fatto che in un paese vasto come la Finlandia io e lei ci

si possa incontrare in riva a un lago sperduto nel bosco. Una bella

combinazione, non le pare?»

72

Il baffone danese che a Copenaghen faceva gruppo con la

Lagerkviest e la bionda rifatta non sembra altrettanto sorpreso. «La

prima cosa che s’impara vivendo in questa terra sconcertante e

generosa è che quassù TUTTO può accadere, e di pesci nell’acqua ce

n’è finché si vuole.»

Prando non afferra il senso della frase, ma ci passa sopra, gli

indovinelli dei professori non lo appassionano. «I pesci sono tanti,»

dice fingendo di aver capito l’antifona, «perché qui intorno c’è più

acqua che terra.»

«Vorrà dire oro. Questo è il petrolio del nuovo millennio, l’oro

blu del futuro. Quando l'acqua nel mondo comincerà a scarseggiare i

finlandesi, grazie alle smisurate risorse idriche del paese, saranno in

vantaggio.»

«L’Età del Petrolio passerà la mano all’Età dell’Acqua?»

«Ci può scommettere. Tra non molto dal settentrione si

costruiranno acquedotti diretti verso il meridione, come succede oggi

per gli idrocarburi, i finlandesi avvolgeranno in una tela di ragno gli

assetati dell'Eurasia e i guadagni non si faranno attendere. Acqua

come merce seguita da fiumi di markat, anzi, di dollari. E’ per affari

che si trova da queste parti?»

«Sono in viaggio nei luoghi di Omero, ricorda?, ne avevamo

parlato a Copenaghen.»

«Abbia pazienza, sono un po’ smemorato,» risponde il baffone in

modo poco convincente, «e, dica, ha trovato qualcosa?»

Sempre la solita domanda, cosa diavolo dovrebbe trovare di

preciso Prando ancora non lo sa. «Niente d’interessante, per ora,»

risponde laconico, «in compenso i miei studi sulle tradizioni locali

stanno facendo progressi.»

«Tradizioni?» Il baffone sputa a terra. Con grande distacco si

asciuga le labbra contro il dorso della mano, punta gli occhi su Prando

e dice solenne: «Dovremmo tutti sciacquarci la bocca prima di parlare

di Tradizione. La sola idea è stata stravolta a tal punto che coloro i

quali aspirano a ritrovarne il senso non sanno neanche da che parte

incominciare, con il rischio concreto che finiscano per accogliere tutti i

falsi concetti che vengono presentati sotto il Suo nome.»

73

«Veramente non mi riferivo alla tradizione con la T maiuscola,

ma molto più semplicemente all’insieme degli usi e dei costumi di un

popolo.»

«Vuole dire folklore, un articolo per signora, non m’interessa, io

parlo di Qualcosa che sta molto più in alto. Anche se purtroppo negli

ultimi secoli c’è intorno all’idea di questo Qualcosa un proliferare di

deformazioni sottili e pericolose che hanno tutte il carattere comune di

voler portare il concetto a un livello puramente umano.»

«Mentre invece … ?»

Adesso il baffone parla lentamente. «Non è e non può essere

veramente Tradizionale se non ciò che comporta un elemento di

ordine Sopraumano.»

«Quello che dice pesa come un macigno.»

«Vede, a una certa età, bisogna avere la forza di tirare i remi in

barca. Guardi me: ho comprato una canna da pesca sportiva e, al

massimo, se sono in vena, faccio un po’ di rafting sul Vaikkojoki.»

«Non mi piace pescare,» dice Prando di scatto.

«Se preferisce le serate mondane può ripiegare sul Carnevale

della Fragola di Suonenjoki, pare ci sia un bel movimento di persone

laggiù, si mangia si beve e si balla. E adesso, se permette, vorrei

tornare ai miei pesci. Piacere di averla rivista, tante cose e buon

proseguimento.»

Prando vorrebbe sviscerare la questione, capire meglio quello che

si sono detti, ma il baffone gli ha già girato le spalle e l’acqua intorno a

loro non sembra minimamente interessata alla conversazione. Non gli

resta quindi che tornarsene verso la Skoda con la coda tra le gambe e

la testa piena di domande. Cosa ci fa lì il baffone? Perché i tre eruditi

entrano nella sua vita a turno, lanciano un sasso, e poi se ne escono?

Senza saperlo sta correndo un grosso rischio e loro sono degli angeli

che vogliono metterlo in guardia? O sono dei diavoli che tentano di

privarlo di un privilegio, al quale, magari, è destinato?

Sarà il caldo a fargli venire certe idee.

La giornata in effetti è piuttosto afosa.

O la stanchezza.

Come sempre Wilma aveva ragione. Partire da solo e impegnarsi

in un viaggio stressante e faticoso come questo è stata una pazzia,

74

presunzione, con il risultato poco confortante che i suoi pensieri,

ormai esausti, stanno prendendo una brutta piega. In pochi giorni è

passato dal turismo culturale al complotto internazionale. Gli

conviene tornare a casa, prima che scoppi la terza guerra mondiale. In

tuta e scarpe da ginnastica potrebbe dedicarsi a un lavoretto manuale,

tipo zappare l’orto, o portare i sacchi di foglie secche alla discarica. Ne

è passato del tempo dall’ultima volta che ha fatto una sudata vera.

Una bella sfacchinata.

Quando arriva a Kuopio già pioviggina e a Isalmi lo accoglie un

temporale coi fiocchi. Si consola con una bella sauna, e per rinfrescarsi

dopo il bagno di vapore rimane per un po’ nudo sul terrazzo

scrutando lo sfondo verdazzurro con aria pensierosa. Il corpo fumante

è pulito e rigenerato, ma la testa rimane invischiata nel pantano delle

coincidenze, delle supposizioni, confusa dai se e dai ma, persa tra i

prima e i dopo. A un certo punto comincia a tremare, ma non di

freddo. Allora torna nella sua stanza, si mette una camicia pulita e

scende per la cena.

Il mattino dopo è un altro uomo. Infila nello stereo Have a nice day

di Bon Jovi e armato di pensieri positivi parte fiducioso in direzione di

Kuusamo. Come una fedele guardia del corpo lo segue tra gli alberi lo

scintillio lapislazzuli dei laghi, cosa che contribuisce a stabilizzare il

suo senso di sicurezza, che é già a un buon livello. Si sente bene, forte

come un orso, per usare la famosa espressione inaugurata da

Aristotele con la Storia degli animali. Perché L’ORSO È IL PIÙ FORTE.

O, almeno, lo era, prima che quel talebano di Carlo Magno decidesse

di sradicare dall’Europa tutti i culti pagani. Per causa sua intere

foreste furono abbattute, molte pietre sacre spostate o murate, diverse

fonti deviate o trasformate in fontane, migliaia di orsi cacciati e

massacrati. I superstiti si rifugiarono sulle colline ancora boscose,

prima di migrare definitivamente verso le montagne meridionali,

dalle quali scendevano a valle soltanto in caso di mancanza di cibo.

Ha detto cibo?

Ecco cos’è il languorino che sente: fame.

Per la fretta di partire stamattina ha bevuto solo un caffè senza

zucchero, e adesso il suo stomaco brontola.

75

Si ferma alla prima stazione di servizio, fa il pieno di carburante e

consuma al banco una fetta di torta. Mentre beve del succo di pera

sbircia qualche titolo di giornale, poi si alza da tavola e riparte alla

volta di Jolkka, l’antica Iolco.

Il villaggio dista una ventina di chilometri dal mare. Risulta un

po’ spostato, rispetto ai tempi che hanno reso Iolco famoso nel mondo

perché l’accentuata velocità di sollevamento del terreno finlandese ha

spostato nell’entroterra i resti degli insediamenti achei che

quattromila anni fa si affacciavano sul golfo di Botnia. E’ piccolo ed

essenziale. Graziose casette con il tetto a punta, strade ordinate, una

farmacia, un distributore di benzina, un campanile con la chiesa

attaccata. Nel complesso si tratta di un posto qualunque. Niente per

cui valesse la pena di fare dei chilometri. Proust aveva ragione

quando diceva che le persone che si mettono in viaggio per vedere coi

loro occhi un luogo a lungo immaginato non possono poi pretendere

di godere nella realtà le stesse soddisfazioni della fantasia.

D’altra parte questa era una tappa obbligata del suo viaggio, nel

bagaglio di un aspirante orso non poteva mancare una visita nella

terra di origine di Giasone e degli Argonauti. Non che voglia sminuire

la figura della valorosa Alcesti che in cambio della fedeltà di Admeto

spense la sua esistenza nel fiore degli anni, però é con Giasone che

sente di avere delle affinità. Diciamo che è venuto a Iolco per onorare

la memoria di entrambi e per altri motivi che adesso gli sfuggono.

Quali? Se lo chiede in silenzio due volte di seguito, poi smette. E’

possibile che esistano risposte alle sue domande, ma anche che lui non

arrivi mai a sapere esattamente quali siano. Così com’è possibile che

non conoscere la vera ragione per la quale è venuto a Iolco faccia parte

del senso stesso della sua domanda.

Come il cielo azzurro può apparire verdazzurro visto attraverso

un intrico di foglie, così adesso Prando colora i suoi movimenti di una

tonalità più verde e più accesa di quanto lo sono in realtà,

desiderando predisporre l’animo a una giornata serena. L'espediente

non gli evita di lasciare Jolkka con le pive nel sacco.

Dopo un paio d’ore di guida adocchia un’area di servizio della

Teboil e si ferma con l’intenzione mettere qualcosa sotto i denti. Una

monovolume bluette parcheggia accanto alla fedele Skoda. Ne escono

76

sei turiste in scarpe da trekking e giacche in goretex. Parlano tedesco.

La più bassa e grassoccia gli si avvicina per chiedergli in inglese se è

del posto. Viene fuori che le signore fanno parte di un gruppo di

sopravvivenza che ogni estate parte da Stoccarda per una zona isolata

del pianeta con l’intento di esporsi alle condizioni più avverse

possibili. Prima della Finlandia, si sono cimentate con il Cile e il

Canada, superando degnamente numerosi problemi. Adesso si

cercheranno un buon posto in una landa deserta di questa selvaggia

natura finlandese e lì stabiliranno il loro campo base. Costruiranno dei

ripari con i rami di ginepro, canne da pesca con i giunchi palustri,

andranno alla ricerca di mirtilli nelle sterminate torbiere della zona,

dormiranno sotto le stelle e proveranno al mondo, casomai ce ne fosse

bisogno, come una donna se la può cavare benissimo da sola.

Qualcosa in contrario?, chiede la culona con gli occhi luccicanti. No,

niente, tutto a posto, ci manca solo che Prando si metta a discutere con

una così. Soddisfatta lei risale in macchina con le altre e, mentre la

monovolume fa retromarcia dall’area di servizio, abbassa il finestrino,

unisce sopra la sua testa i pollici e gli indici in un gesto reso celebre in

tutto il mondo dai movimenti femministi degli Anni Sessanta, e parte

dal piazzale sgommando come a un rally.

Perché nascondersi dietro un dito.

Perché far finta che l’orgoglio non c’entri.

Così stanno le cose: Alcesti ha dimostrato che il coraggio

femminile, quando si esprime con tutta la sua forza, è in grado di

mettere in ridicolo le debolezze maschili, e questa cosa lo rende

nervoso. Un innato senso di rivalsa lo ha spinto fino a Iolco, altro che

visita ai luoghi di Giasone e degli Argonauti. Non è che un vecchio

passatista nostalgico, un reazionario, un sostenitore del M.R.N.R. E

che diavolo è? Il Movimento di Riconquista delle Nostre Radici. Che

sarebbe? Un movimento basato sul riscatto dell’uomo. Mai sentito

nominare. Per forza, è stato fondato a Jolkka da lui in persona non più

tardi di due ore fa. Finalità del progetto: spingere l’uomo dell’Età del

Petrolio verso la sua indole audace, il VIGORE DELL’ORSO. Impresa

complessa ma non impossibile. A sfavore dei contemporanei gioca il

fatto di non essere nati nell’Età del Bronzo, quando i bambini più

promettenti - uno per tutti il machissimo Paride - venivano allevati e

77

addestrati dagli orsi e una volta adulti non avevano difficoltà a

diventare esseri dotati di una forza prodigiosa. Lui stesso è stato

cresciuto da una matura baby-sitter originaria della provincia di

Treviso, donna di polso, niente da dire, affettuosa quanto bastava, di

più non si poteva pretendere.

Alza lo sguardo sopra il livello della strada in cerca di un

segnale, uno qualunque, ma in cielo vede solo un corvo che

incuriosito dalla manovra azzardata della monovolume bluette

tergiversa planando sopra l’area di servizio. Quando anche il corvo

sparisce dal suo quadro visivo, entra nel punto di ristoro. Cosa voleva

dire la tedesca con quel gesto? Chi si credono di essere lei e le sue

amiche? E soprattutto, con chi pensavano di avere a che fare? Non

perché dorme in albergo e mangia al ristorante apprezza meno di

chiunque altro la vita selvaggia in questo paradiso verde, nel quale,

tra l’altro, anche la cucina è niente male.

Ecco, appunto.

La cucina.

Un giovane cameriere con i capelli a cresta di gallo gli serve il

premio di consolazione: fegato alla griglia con purè di patate, pancetta

affumicata e polpettine di carne.

78

IL PARADISO

Dopopranzo Prando si rimette al volante della fedele Skoda, cerca

un posto tranquillo capace di emozionarlo, lo trova, si ferma, scende

dall’auto e allarga i polmoni in tanti lunghi respiri. Pregustando una

passeggiata meravigliosa gioca per un po’ a uccidere le zanzare,

afferrandole teatralmente per aria, schiacciandole e tirandole lontano,

infine s’incammina. Il cielo è terso e colorato di un azzurro così solido

che se toccato con mano forse può vibrare di suono. Una tonalità più

cupa trabocca dalle rughe della roccia. Nelle crepe e negli anfratti c’è il

viola.

Sente uno sfioramento spettrale sulla spalla.

Un certo freddo alla nuca.

Si gira, ma non c’è nessuno.

Fa spallucce, come se non volesse dare importanza alla cosa.

Avanza lentamente per la spiaggia solitaria. Nell’arco di tempo che

dura la più breve raffica di vento che si possa produrre in questo

mondo, la incrocia. Gli passa di fianco in un attimo come se

camminasse senza appoggiare i piedi per terra. C’è grande pace sul

suo volto, serenità, tranquillità. Prando non pensa di allarmarsi, ma da

quel giorno sul taxi è la prima volta che vede Circe Testarossa in

faccia. L’apparizione è fugace, tanto che si chiede se ha visto ciò che

ha visto.

Può darsi che debba cominciare ad ammettere che istantanee di

questo tipo sono una sorta di nodi di connessione tra il passato e il

presente. Ha sentito parlare di nuclei collegati di spazio-tempo (la cui

topologia, forse, gli umani non capiranno mai) fra i quali possono

viaggiare i cosiddetti vivi e i cosiddetti morti e in questo modo

incontrarsi. Anche se solo per qualche attimo.

Come può darsi che l’apparizione di poco fa sia il frutto di una

MAGIA. Magari Circe Testarossa ha gli stessi poteri della maga di

79

Omero e, come lei, è capace di far apparire o scomparire persone e

cose a sua discrezione. Per un attimo la immagina intenta a versare

tutto intorno alla sua persona una fitta cortina che rende invisibile la

materia. Tiene in mano un bastone di tasso dai poteri meravigliosi,

che userà al momento opportuno per addormentare o svegliare

chiunque tocchi. E’ bella da togliere il fiato.

Hey, a che gioco sta giocando?

Raddrizza il busto e gonfia il petto.

Non per dire, ma quanto a POTENZIALE MAGICO l’orso non è

secondo a nessuno. Ben lo sapevano gli antichi lapponi, che

ricorrevano a qualsiasi stratagemma pur di impossessarsi dei suoi

poteri. Le donne adottavano un cucciolo, lo allevavano allattavano

amavano e vezzeggiavano come un bambino, a svezzamento

compiuto gli ricordavano i benefici ricevuti, lo facevano a pezzi

durante un rituale cruento e poi allestivano un bel banchetto. In

questo modo ogni membro della comunità poteva appropriarsi di una

parte della sua forza, del suo fiuto, del suo udito e della sua anima. Ai

capi andavano i bocconi più adatti allo scopo: il fegato, il cuore, la

lingua, il muso, le orecchie e, soprattutto, la zampa anteriore sinistra.

Lo smembramento era considerato un atto di rispetto nei confronti

della vittima, che solo separandosi dal corpo attraverso una sequenza

di atti tradizionalmente carichi di significato poteva raggiungere il

regno degli déi e, dopo il letargo, risorgere a nuova vita.

Sta divagando per non rispondere alla domanda.

A che gioco sta giocando con Circe?

Calma, ci sta pensando. Prenderà la sua decisione dopo un

biscotto alla crema, forse due, dipende dalle necessità del cervello.

Mastica lentamente cercando di radunare attorno a sé le tessere del

mosaico creato dalla sua immaginazione. Circe, i filtri, le pozioni, gli

alambicchi, il bastone di tasso, i libri con le formule primordiali, le

pentole, le casseruole, lui che spia la scena nascosto in un angolo. C’è

tutto. I vari pezzi però stentano a trovare la giusta collocazione.

Perché dovrebbero trovarne una?

Tutto d’un botto gli sembra di non sapere più nulla.

Non è la prima volta che gli capita, negli ultimi giorni. Troppe

cose sono cambiate troppo in fretta, e lui non sa più che pesci pigliare.

80

Ultimamente le sue giornate sono diventate diverse, le notti anche, per

non parlare delle frequentazioni. E se da un lato è contento che Omero

renda effervescenti le sue ore solitarie e l’orso gli dia la forza di

andare avanti, dall’altro sente che qualcosa d’importante ancora gli

sfugge.

Lentamente torna sui suoi passi, risale in auto e accende lo

stereo. Per un po’ Chris Daughtry e l’omonima band lo mantengono

lontano dai pensieri. Nonostante le parole di Break the Spell non siano

niente di speciale, come la maggior parte dei testi, perché la poesia

musicata oggi non si usa più. A Prando però interessa un sound ben

costruito da bravi artigiani della musica, questo solo pretende da un

album quando lo acquista.

Guida senza fermarsi fino alle soglie del parco nazionale di

Oulangan Kansallispuisto. Dal Centro Informazioni di Hautajarvi

cammina per quattro chilometri, prima di varcare i confini della zona

protetta. La vegetazione è rigogliosa, superba, soprattutto sulle rive

del fiume Savinajoki. Il percorso è chiaramente indicato dai segna-via

gialli del Sentiero dell’Orso, un lungo tratto di trekking di 70 km. di

cui però esplorerà solo una parte, i 12 Km. del Piccolo Anello, perché

le scarpe sportive che calza non sono adatte a camminare sul groviglio

di radici affioranti dal terreno. Questa, almeno, è la giustificazione che

si dà. Dopotutto non è ancora un orso matricolato, ma un semplice

apprendista, un principiante pieno di buona volontà che ricalca le

orme del Maestro nell’attesa di capirci qualcosa.

Per essere ancora più credibile comincia a fare la faccia da duro, a

un certo punto si mette a caracollare in mezzo agli alberi come un

orso, grugnendo e agitando le mani, gettandosi ogni tanto a quattro

zampe e facendo un tale casino che i piccoli abitanti del bosco si

spaventano a morte. Uno stormo di uccelli svolazza allontanandosi

raso al sottobosco mentre plana senza scomporsi, pomposa e regale,

l’inconfondibile cresta rossa del gallo cedrone. Magico. Manca solo

l’unicorno, e lo scenario è perfetto per una rappresentazione

dell’Altromondo. Se non sapesse di trovarsi in un parco nazionale

finlandese Prando potrebbe pensare di avere casualmente varcato i

cancelli del Paradiso Terrestre … drrrr! … maledizione, sempre sul

più bello … drrrr! … tira fuori l’iPhone dalla tasca superiore del

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giubbino beige smanicato … drrrr! … ancora quello, si. Prando non è

uomo succube dell’eleganza. Gli piace passare inosservato. Gli piace

che gli altri credano di sapere chi è, gli dà libertà d’azione … drrrr! …

Anja Lagerkviest, … un attimo, arrivo!

«Buongiorno, avvocato Prandolin, come sta, dove si trova, come

procedono le sue ricerche?»

«Bene, grazie, sto camminando nel parco nazionale di Oulangan

Kansallispuisto.»

«Complimenti, si è scelto un bel posto per trascorrere la festa di

San Giovanni.»

«Pare di si.» A dire la verità Prando non sa neanche che giorno è

oggi. Che gliene importa del calendario, gli orsi non festeggiano San

Giovanni.

«Capisco che avrà i suoi impegni,» educata ma concreta la

Lagerkvist va dritta al sodo, «vorrei però ricordarle l’amico di mio

marito, il dottor Lars Danielsson, abita da quelle parti se non sbaglio,

e tutt’a un tratto Gösta è diventato impaziente di ricevere sue notizie.»

«Non me ne sono dimenticato, stia tranquilla. Lo vedrò presto,

non appena troverò la forza di staccarmi da questa specie di

paradiso.»

«Una specie, dice?, guardi che lei è davvero in Paradiso.»

«Sapevo di meritarmelo.»

«Non sto scherzando. Dalle ultime ricognizioni del mondo

omerico dell’Odissea è emerso chiaramente che l’area compresa fra la

Lapponia e la Carelia, in prossimità del confine russo-finlandese, dove

adesso scorre il fiume Oulanka, fu la dimora originaria degli dèi.»

«Sul serio?»

«Si guardi attorno e valuti lei stesso. La descrizione dell’Oùlympos

greco, l’Olimpo dalle molte cime, il Pardes, il centro spirituale supremo

legato alla mitica Età dell’Oro, corrisponde perfettamente allo scenario

naturale che ha di fronte.»

Prando non osa crederci, lui nel cuore della civiltà iperborea

progenitrice di tutte le culture indoeuropee. «Non avrei mai pensato

di poter vedere il Paradiso da vivo,» dice.

«Ma è successo.»

«Così sembra,» dice raddrizzando le spalle e stirando il collo.

82

Con uno scatto di orgoglio sente di appartenere a pieno titolo alla

stirpe polare che in tempi remoti, dopo il fimbulvetr che precedette il

Ragnarök, e cioè in seguito all’incrudirsi del clima dovuto a qualcosa

di terribile, forse uno spostamento dell’asse terrestre, discese

dall’Artico ormai diventato inabitabile per stanziarsi nelle sedi

storiche conosciute. Risalgono a quel periodo la comparsa in Cina

della dinastia Shang, l’insediamento dei Micenei in Grecia e

l’occupazione dell’India da parte degli Arii. Stessa storia dall’altra

parte del pianeta, dove l’avanzata dei ghiacci costrinse i popoli

antartici a migrare verso l’Africa e il Sudamerica. Compaiono sulle

coste del Messico i misteriosi Olmechi, che costruirono le città

monumentali di cui milioni di turisti ammirano ancora oggi i

numerosi reperti archeologici, fra cui le sedici enormi teste di pietra

dai lineamenti negroidi. Un indizio della probabile origine camita dei

profughi del Polo Sud?

La prof promuove a pieni voti la ricostruzione storica del suo

allievo prediletto, e aggiunge: «Pensi che già Dante Alighieri, il quale

non di rado sembra attingere ad antiche fonti tradizionali, cita la

civiltà antartica.»

«Vuole scherzare?, le prime esplorazioni dell’Antartide risalgono

a meno di due secoli fa.»

«Ma l’esistenza della Terra Incognita situata a meridione del globo

era nota fin dai tempi di Tolomeo. Dante vi accenna nel primo canto

del Purgatorio, quando parla di quattro sante stelle, identificabili con la

Croce del Sud, che definisce enigmaticamente a tutti ignote fuor ch’alla

prima gente.»

«Sarebbe a dire?»

«Esattamente quello che stiamo dicendo, e cioè che i poli attuali

furono le terre originarie in cui visse e prosperò la razza degli déi.»

«Posso chiederle che idea si è fatta degli déi?»

«Al di là delle loro possibili sembianze esteriori, li considero

l’emblema di ciò che ha reso gli uomini umani.»

«Nel senso?»

«Pensi alla scoperta dei segni e dei simboli, alla rivelazione che

una cosa può indicarne un’altra. Senza gli déi, non saremmo mai stati

capaci di parlare tra noi di cose che non abbiamo sotto gli occhi.»

83

«Intende dire cose non materiali?»

«Se gli déi non ci avessero reso simili a loro dandoci il linguaggio,

la fantasia, la coscienza, l’uomo sarebbe rimasto una scimmia che per

spiegare a un’altra scimmia che ha nascosto una banana dietro a un

albero doveva prendere la compagna per mano e portarla fino alla

banana, in modo che quella vedesse con i propri occhi.»

«Vuole dire che gli déi ci hanno dato i simboli per renderci capaci

di cose che non erano alla portata immediata dei nostri cinque sensi,

cose lontane, nascoste, segrete?»

«Proprio così, con lo stratagemma del simbolo due futuri uomini

potevano prendere un bastone e decidere che rappresentava la banana

che avevano nascosto dietro all’albero perché gli altri non la

trovassero. Il bastone divenne così il simbolo della banana, anche se

non le assomigliava. Quella fu la differenza. E se una terza scimmia

avesse rubato la banana di cui i due stavano parlando tramite il loro

bastone simbolico, la banana reale avrebbe smesso di esistere, ma non

il bastone simbolico, che avrebbe continuato a esserci conservando il

suo significato di “banana”. Ma non voglio distrarla con discorsi

teorici che potrebbero portarci lontano. Dopotutto lei si occupa di

Omero, e ha già il suo bel daffare.»

«Non si preoccupi per me, mi piace divagare.»

«Lo so.»

Si salutano, augurandosi una buona giornata.

Prando deve riconoscere che dalla Lagerkvist ha sempre qualcosa

da imparare. Non capisce però cosa ci guadagni lei a discutere di cose

importanti con un principiante, né perché s’interessi con tanta

insistenza al suo modesto viaggio culturale.

Meno ancora capisce le ragioni dei suoi eruditi colleghi, la bionda

rifatta e il baffone che sa di fumo, sempre presenti sulla sua strada e

pronti a dargli consigli, a offrirgli suggerimenti, quasi fosse un liceale

alla vigilia degli esami di maturità.

Ma verrà il giorno che si saprà il motivo di tante premure.

Allora si che se ne scopriranno delle belle.

84

Impegnato con se stesso a riflettere Prando non vede la radice

affiorante dal terreno che lo fa inciampare e cadere rovinosamente per

terra, proprio nel momento in cui dietro alcuni alberi Circe Testarossa

passa in abito bianco.

O, almeno, lui crede che sia lei.

Gli passa a cinque o sei metri di distanza con incedere insolente,

indifferente alla sua ridicola caduta. Imperturbabile, come se neanche

lo vedesse. La tragedia di invecchiare è che si diventa invisibili per le

donne. Corpo e anima si dividono, ognuno parla il suo linguaggio,

usa i suoi codici, spesso scollegati tra loro. Sua nonna diceva sempre

che nel momento in cui lo spirito si eleva il corpo s’inginocchia.

E difatti in uno stato di grazia che si avvicina molto alla

beatitudine Prando è adesso per terra piegato in due. Lentamente si

rialza, niente di rotto per fortuna. Solo un leggero dolore alla rotula e

un po’ di terriccio sui calzoni. Anche l’iPhone e la macchina

fotografica sono usciti indenni dal capitombolo. Poteva andare

peggio, visto il peso corporeo che si porta dietro, ma evidentemente la

sportività che ha distinto i suoi anni migliori a qualcosa è servita.

E la rossa, dov’è?

Volatilizzata, sparita. Oggi é la SECONDA VOLTA. Non era mai

successo che apparisse due volte nello stesso giorno. Quindi? Cosa

vorrebbe dire? Non lo sa, non sa più niente.

Si rimette in pista dandosi un contegno, nonostante sia confuso,

frastornato, mezzo sfinito. Erano anni che non faceva tanta strada a

piedi. Di colpo viene assalito da una sensazione da chi me l’ha fatto

fare. Ha sete. Una sete infinita. Sete di acqua, di riposo, di verità. Gli

piacerebbe sapere in che guaio si sta cacciando, spinto dalla smania di

svelare Omero. Si muove in una geografia selvatica con il fiato della

Lagerkvist sul collo, sentendosi in qualche modo pedinato dagli altri

due, e con il fantasma di Circe Testarossa che entra ed esce dalla sua

vita quando e come ne ha voglia.

E se non fosse vero niente?

Se fossero tutte fantasie, impressioni?

In qualità di persona matura ed ex-uomo-di-legge dovrebbe

sapere che non ci si può fidare delle proprie sensazioni come fonte

d’informazione. La sensazione più intensa può tranquillamente essere

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dovuta all’immaginazione invece che alla realtà. Le sensazioni non

dimostrano niente, tranne il fatto che le si provano.

Alla fine si scoprirà che è tutta colpa di quello che mangia.

O dell’ipertensione.

O della sua eccessiva fantasia.

O del luogo.

In quest’atmosfera nordica di verde e di azzurro, stufe a legna e

vapori di birra, vento freddo e nebbia, é facile avere l’impressione di

vivere in una DIMENSIONE PARALLELA. Emergono da ogni angolo

i fantasmi di quelli che vissero nell’Età dell’Oro, gli esseri straordinari

che prima di estinguersi vollero mischiare il loro sangue con quello

molto più ordinario degli ominidi stanziati lungo le sponde del

Baltico. Chiudendo gli occhi Prando può quasi sentire vibrare nell’aria

le anime di questi illustri antenati. Un privilegio negato agli abitanti

delle regioni meridionali, dove l’urbanizzazione è più spinta e

dappertutto il cemento ricopre prati, boschi, fiumi e montagne. Lui ne

sa qualcosa, in Italia ci sono quasi duecento abitanti per chilometro

quadrato. Sdraiato sull’erba fissa il cielo e comincia a studiare la

forma delle nuvole in cui adesso crede di vedere la vera mappa

dell’Olimpo. C’è una montagna troppo alta per essere una montagna.

In secondo piano ne svettano molte altre a perdita d’occhio e sono per

metà avvolte dalla nebbia che si fonde così saldamente con il mare che

guardandole si ha quasi l’impressione di navigare nel cielo, non fosse

per gli scogli affioranti da schivare, con le pareti solcate da antiche

stratificazioni, che si fanno via via più frequenti se guarda

attentamente.

Se davvero il Grande Nord è l’X factor che altera le sue sensazioni,

il Paradiso potrebbe essere una causa a doppio effetto, e così si spiega

anche la duplice apparizione del fantasma di Circe. Si mette seduto,

rimbocca l’orlo del pantalone destro e vede che il livido causato dalla

caduta di prima comincia a virare dal rosso scuro al blu. Il ginocchio

però non gli fa male, se si esclude un leggero indolenzimento sotto la

rotula. Decide di festeggiare lo scampato pericolo tirando fuori dalla

tracolla un panino con la salciccia, che addenta con appetito. Mastica

adagio pensando che nonostante i dubbi e le ansie e i problemi

quotidiani la vita è un viaggio meraviglioso, appassionante, sempre

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degno di essere vissuto. Ringrazia mentalmente gli déi per aver dato

agli uomini le banane, i simboli e tutte le altre belle cose che li hanno

resi uomini, accarezza con lo sguardo il paesaggio ad ogni lento

movimento della mandibola e quando il cibo finisce invia un

messaggio a Wilma.

Tace su Circe, perché non vuole essere preso per pazzo,

dilungandosi invece sulla sua escursione nel parco nazionale di

Oulangan Kansallispuisto, un posto fantastico, abitato agli albori del

mondo dalla prima razza di cui ancora i contemporanei di Omero

parlavano con rispetto. Spesso il grande poeta cita cose e persone che

hanno due nomi, uno attribuito loro dagli uomini, l’altro dagli dèi,

segno che ai suoi tempi la promiscuità era ancora marcata. Poi un

brutto giorno gli déi morirono, perché anche chi è programmato per

vivere migliaia di anni a un certo punto deve morire, trasformarsi, e

gli uomini rimasero orfani dei padri. Si consolarono tramandandosi il

ricordo, inevitabilmente idealizzato, della paradisiaca terra d’origine,

la quale, tramontata la mitica età di Crono, soppiantato da Zeus, fu

trasformata dall’avanzata del ghiaccio nella sinistra sede dei morti,

sotto la cupa signoria di Ade, una terra arida perennemente

circondata dalla sua ombra nebbiosa.

Wilma risponde in tempo reale.

E’ come se fosse lì ad aspettare le sue mail.

Un po’ lo fa sentire in colpa.

“Sei bravo a raccontare storie, ma come te la cavi con le nordiche? Ho

letto sul mio blog preferito che oltre il circolo polare artico la materia prima

non manca: ci sono graziose ragazze skolt e disponibili cameriere d’albergo

lapponi, bionde contadine finlandesi dai capelli di lino e donne formose dalle

gambe lunghissime.”

Prando risponde lapidario che non è in cerca di nessuno.

“Ciò non toglie che le cose accadono quando uno meno se le aspetta.”

Nonostante sia più giovane di lui di quattro anni Wilma vanta

una notevole tendenza ai consigli, spesso è perentoria e ha una chiara

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predisposizione al tono categorico. Prando non è certo venuto in

paradiso per sentire i suoi rimproveri, e perciò lascia cadere il

discorso. Fa un ultimo tentativo di buttarla sul culturale, parla delle

tracce omeriche che sta seguendo, della corrispondenza

impressionante dei toponimi, ma non attacca.

“Certe volte non ti capisco. C’è bisogno di avventurarsi in geografie in

cui regnano la stranezza e il mistero per vedere di nuovo con entusiasmo il

mondo?”

Finiscono come sempre a scambiarsi battute sui ragazzi. E’ una

norma non esplicita tra loro, ma quando iniziano a parlare dei figli di

lei, e nipoti di lui, ciò significa semplicemente che la conversazione è

ormai entrata nella sua fase finale.

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NELLA TERRA DEI SAMI

Campi cosparsi di covoni di fieno sfilano veloci dai finestrini

della fedele Skoda mentre il paesaggio si fa grigio e brumoso. Prando

capisce di essere entrato nel profondo nord dalle alci e dalle renne che

gli tagliano sempre più spesso la strada. Prima le vedeva quasi

esclusivamente riprodotte sui cartelli stradali, mentre adesso

bighellonano indifferenti vicino al bordo della carreggiata.

Se il suo senso di orientamento non lo tradisce, a poche decine di

chilometri di distanza dovrebbe scorrere l’Ivalo, che i lapponi

chiamano “Avvil”. L’assonanza con “Avila”, la regione biblica

dell’oro, non è casuale perché il territorio è ricchissimo di oro, oro

purissimo, oro a 23 carati, e di minerali anche, cristalli e calcedonio,

diaspro e onice.

Un territorio ricco e intatto. C’è una casa ogni 10 km e la statale è

un nastro che sale e scende a ritmo regolare. Percorrerla è come

guidare in un cartone animato, mancano solo la serie di profondi

canyon arancioni e il coyote impegnato nel maniacale, e mai fruttuoso,

inseguimento del road runner. Al loro posto ci sono il grande lago

Inari, uno specchio di acqua cerulea in cui oggi si riflettono innocue

nuvole di bel tempo, numerosi fiumi selvaggi, colline dalle forme

inconsuete e il Lemmenjoki National Park. Il tutto immerso in una

pace totale. I trilli degli uccelli tra gli alberi sono l’unica musica.

Non c’è male: nel giro di tre giorni Prando è passato dall’Olimpo

degli déi al Paradiso Terrestre degli uomini ed ora si trova nel mitico

LUOGO dove l’adàm fu collocato subito dopo la sua creazione.

Sembra che originariamente il nome Eden indicasse "steppa".

All’inizio della storia gli déi piantarono il loro giardino nella steppa.

Una steppa rivolta a Oriente. Ma a Oriente di chi? Di quelli che

ordinarono le varie tradizioni orali e le raccolsero nella Genesi,

probabilmente. Gli stessi che descrivono l’Eden come un luogo

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rigoglioso posto in una valle fertile bagnata da un grande fiume che

finiva per dividersi in quattro corsi d’acqua minori. Verosimilmente il

Tana, l’Ivalo, un affluente del Mounio-Tornionjoki di cui Prando non

conosce il nome e l’Ounas-Kemijoki, che appunto scorrono in

parallelo verso sud per poi sfociare vicini all'estremità settentrionale

del Golfo di Botnia. Questa potrebbe anche essere stata la regione di Ur

dei Caldei da cui partì Abramo, diretto verso quella Terra Promessa

dalla quale discesero i Sumeri, a loro volta spinti a emigrare dal

raffreddamento del clima in quella che diventerà la Mesopotamia.

L’idea di trovarsi nella mitica terra dell’oro e dell’onice, dove

l’aria odora di resina profumata, lo rende euforico. Sta uscendo a

velocità sostenuta da una curva quando, con la coda dell’occhio

scorge un orso bruno sul bordo della strada. Come vede la Skoda il

pesante animale si rizza dritto sulle zampe posteriori e, col naso

vibrante, fiuta rumorosamente l’odore dell’auto, che sbanda

leggermente, finendo sull’altra corsia.

Fortuna che non veniva nessuno in senso contrario.

La Skoda frena con un fracasso infernale e termina la sua corsa

cinquanta metri più avanti. Prando ha il cuore in gola, guarda nello

specchietto retrovisore, ma il plantigrado non c’é più. A quanto pare

non gradisce compagnia.

Ugualmente un sorriso compiaciuto gli fluttua sulle labbra: LUI E

L’ORSO, finalmente un incontro ravvicinato con il primo re degli

animali, il più antico, temibile e temuto, simbolo di violenza e potenza

sessuale, considerato dalla cultura cattolica altomedioevale una

creatura del demonio. E’ la prima volta che si trova a tu per tu con il

suo guru. Non c’è stato nessun combattimento all’ultimo sangue,

siamo d’accordo, però è euforico lo stesso. Dopo giorni, settimane di

viaggio, il discepolo ha infine incontrato il Maestro.

Se Wilma lo sentisse parlare in questo modo gli fisserebbe seduta

stante un appuntamento con lo strizzacervelli più rinomato di Mestre,

dal quale però lui si rifiuterebbe di andare per tre buoni motivi: uno è

troppo vecchio per chiedere consiglio a qualcuno ancora più vecchio,

due non gli risulta che nell’Età del Petrolio i saggi crescano sugli

alberi, tre un maestro già ce l’ha e non gliene servono altri.

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Riparte gagliardo mentre sulla carreggiata opposta passa in

automobile una donna Sami che lo saluta sventolando una mano dal

finestrino. Prando risponde al saluto con due colpi di clacson. Come

un bullo di periferia.

Gli piacciono i Sami, li trova molto più liberi degli altri,

simpaticamente anarchici e totalmente privi di fronzoli, si

accontentano dell’essenziale e giustamente vivono tranquilli. Fino a

non molto tempo fa si sconsigliava ai buoni cristiani di frequentarli

con la scusa che gli uomini erano stregoni capaci di lanciare malefici e

le donne incantavano con la magia.

Pettegolezzi non privi di fondamento. Ufficialmente i Sami

praticarono lo sciamanesimo fino alla fine del Seicento, quando, ultimi

in Europa, furono convertiti al cristianesimo da evangelizzatori senza

pietà che impiccavano chi non abiurava l’antica fede. Ma

ufficiosamente si può dire che in questa terra impregnata di magia

l’antica religione sciamanica non sia mai morta.

A dispetto della modernità che avanza l’Artico continua ad avere

rapporti privilegiati con gli spiriti, e se in tutto questo tempo la

memoria degli antichi riti non è andata completamente perduta il

merito è delle donne dell'estremo nord che non si stancano di

tramandare di madre in figlia un sempreverde patrimonio di storie

immortali.

A Prando piacerebbe tanto incontrare quassù una sciamana

autentica con capacità estatiche che consentono il volo magico,

l'ascensione al Cielo, la discesa agli Inferi, il dominio sul fuoco e così

via.

Una sciamana giovane e carina però, non una bisbetica di mezza

età con gli stivali di gomma scalcagnati sotto la gonna a quadri e il

cane da guardia sul piede di guerra.

Una donna saggia che con la sua sapienza antica, legata alla terra

e ai suoi prodotti, gli parli di secoli e secoli dell’umanità.

E’ chiedere troppo?

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Una curva, poi un rettilineo.

E’ arrivato, finalmente.

Come entra in città si ferma all’Inarin Kultahovi, a poche

centinaia di metri dal porticciolo. Sulla guida c’è scritto che in questo

albergo la cucina è ottima, specialità della casa: stufato di renna e

pesce di lago in salsa di funghi.

Il locale ha un non so che di famigliare.

Il portiere conferma che la prenotazione è regolarmente arrivata

via mail, chiede a Prando di riempire il modulo di registrazione e lo

controlla accuratamente prima di consegnargli la chiave. Poi fa il

gesto di portare fino alla porta dell’ascensore il borsone che costituisce

l’unico bagaglio dell’ospite, ma questo lo blocca.

«Faccio da solo, grazie.»

«Come preferisce,» dice sollevato il portiere, un finlandese sui

quarantacinque, alto e smilzo, biondiccio, con gli occhi acquosi e

quattro capelli di numero sul cervelletto.

«Hey!,» esclama una voce maschile proprio dietro a lui, «è

davvero piccolo il mondo.»

Le ginocchia di Prando fanno giacomo giacomo, le forze

svaniscono, il cuore sussulta al pensiero di trovarsi davanti di nuovo il

baffone che sa di fumo, perché in questo caso non avrebbe più scuse,

l’ipotesi del complotto verrebbe confermata e lui dovrebbe aspettarsi

qualche grosso guaio in arrivo. Alla fine si dice che un orso deve saper

affrontare il suo destino, fa un respiro profondo e si gira.

«Ilmari Korhonen, come mai da queste parti?»

Si stringono la mano, su iniziativa del finlandese. La sua stretta è

energica e ispira fiducia, mentre quella di Prando è un timido punto

di domanda, uno dei tanti.

«Il proprietario dell’Inarin Kultahovi è mio fratello,» spiega il

maître di lungo corso vedendo l’espressione meravigliata dell’italiano.

«Per un attimo ho pensato che avesse cambiato paese e datore di

lavoro,» dice Prando indicando la camicia bianca d’ordinanza del

finlandese sormontata da un gilet toledo di buon taglio.

«Sarà deformazione professionale, ma quando vengo a trovare

Svend non riesco a stare con le mani in mano. Lei, piuttosto, ne ha

fatta di strada dall’ultima volta che ci siamo visti.»

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Prando pensa di lui la stessa identica cosa.

Che diavolo ci fa il maître di lungo corso Ilmari Korhonen a Inari,

non lavorava a Copenaghen? Viene qui ad aiutare il fratello, dice, e

quando mai s’è visto un finlandese con due lavori. Nessuno in Europa

lavora meno dei finlandesi. Non hanno ambizioni. Se vedono una

bella vallata pensano solo a quant’è stata brava madre natura e si

godono lo spettacolo, al contrario dei suoi compaesani veneti che

studiano subito un progetto per costruire un villaggio di villette a

schiera. A questo punto Prando non si stupirebbe di scoprire che alle

elementari il maître di lungo corso Ilmari Korhonen passava le

vacanze estive in Ostrobotnia con la Lagerkviest, la bionda rifatta e il

baffone che sa di fumo, tutti insieme appassionatamente, un patto di

fratellanza nordica di matrice ignota. Ai danni di chi?

«Cosa ne dice della Lapponia, le piace?»

«Moltissimo, è un paese con un’energia tutta particolare, come i

lapponi del resto.»

«Mi fa specie che una persona istruita come lei possa subire il

fascino di questa gente bislacca, le donne sono streghe e gli uomini

stregoni.»

«Le ricordo che m’interesso di preistoria, e lo sciamanesimo

lappone rientra di diritto in questa categoria. Anche se non mi faccio

illusioni, so bene quanto i Sami siano gelosi dei segreti di famiglia.»

«Se li tengano pure i loro segreti, fossi in lei starei alla larga.»

«Non le sembra di esagerare?»

«Ci vogliono poteri particolari per conoscere i canti rituali ed

entrare nello spirito dell’orso, e si dà il caso che gli sciamani questi

poteri li abbiano. E quando uno il potere ce l’ha, caro lei, prima o poi

lo usa.»

Fin dal loro primo incontro Prando ha avuto l’impressione che il

finlandese fosse meno ingenuo di quanto volesse apparire, e adesso

quello che dice conferma in pieno i suoi sospetti. «A volte, mi chiedo,»

la butta lì, «se a furia di voler entrare a tutti i costi nello spirito

dell’orso, lo sciamano non corre alla fine il rischio di diventare lui

stesso una belva feroce.»

Ilmari Korhonen si fa una sonora risata. «Non sarà mica un

cultore di tutte quelle tecniche di ispirazione orientale che vanno di

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moda adesso, autocontrollo pace interiore e roba del genere? Chi lo

dice che ogni reazione negativa impedisce di giungere all’armonia

spirituale? Gli indiani, i cinesi, i giapponesi? Per colpa delle loro teorie

sulla via giusta e la via sbagliata oggi vediamo il mondo in bianco e

nero, e dio solo sa quando riusciremo a trovare la forza di

abbandonare le verità dogmatiche per tornare in noi stessi.»

«Ho paura che le cose di cui parla appartengano a un tempo

remoto, dimenticato» azzarda Prando.

«Presto o tardi il passato ritorna. Ormai non manca molto al

giorno in cui gli uomini saranno ancora capaci di comprendere che la

furia primitiva dell’orso nasconde in realtà una profonda saggezza.»

«Da come parla si direbbe che abbia confidenza con certe cose. Ha

mai visto uno sciamano in azione?»

«Non ci tengo, gliel’ho detto. Tutti gli sciamani diventano matti,

prima o poi,» dice tenendo la bocca stretta in una sottile linea di

disapprovazione, «è colpa dei funghi, gli corrodono il cervello. Ma

torniamo a noi: la cena è alle diciannove, se ha intenzione di rimanere

in albergo, altrimenti le posso consigliare un paio di localini

caratteristici. Uno è gestito da mio cugino e, mi creda, una crostata di

mirtilli selvatici più buona di quella che fa sua moglie in Lapponia

non c’é.»

«Grazie dell’informazione, ma sono stanco e non credo che

stasera avrò voglia di uscire.»

«Allora le faccio preparare il tavolo vicino alla finestra, così può

godersi la vista del porto mentre gusta i manicaretti del nostro cuoco.

Un artista, mi creda.»

Accompagnato dai soliti dubbi, che nel soffitto a specchio

dell’ascensore sembrano moltiplicarsi a dismisura sopra la sua testa,

Prando sale al terzo piano. La camera ha un’ampia finestra con vista

su un giardino pubblico pieno di fiori. Sul tavolo spicca in un piccolo

vaso di porcellana bianca un mazzetto di elicriso e ossicocco. Apre

l’anta termica e si scola una birra in lattina dal frigobar. Poi si toglie i

vestiti, fa una lunga doccia bollente, e infine si sdraia sul letto a

riflettere. Corretto, educato, colto, ineccepibile: chi è in realtà Ilmari

Korhonen?

Non mentiva sulla bravura del cuoco.

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Forse è stata questa l’unica verità.

In tavola ci sono diversi piatti di pesce: insalata di aringhe e rape

rosse, salmone marinato, zuppa mista, coregonini alla senape,

lucciperca al forno. Recipienti di vetro traboccanti di caviale e panna

acida, cetriolini sott’aceto, miele, cipolline, farina d’orzo tostato,

passato di cardi, funghi sotto sale, pomodori tagliati e barbabietole

marinate. C’è inoltre una grande quantità di piatti di carne: renna

affumicata e secca, selvaggina da penna preparata in vari modi,

agnello rosolato al forno nel bancaccio di betulla, prosciutti interi,

arrosto di lepre, stufato di montone e cavolo … e naturalmente una

montagna di schiacciatine careliane con aggiunta di burro e uova

strapazzate. Prando si serve a volontà senza provare alcun senso di

colpa. Beve, e beve, finché non avverte un senso bruciante di nausea

salirgli dal precordio. Allora capisce che è ora di alzarsi da tavola e

andare a dormire.

Sale in camera, si spoglia scarpe e calze e muove quattro passi per

la stanza massaggiandosi le piante dei piedi con la lana spessa della

moquette a piccoli rombi grigi e rossi. All’improvviso un’immagine,

un’emozione, un sospiro, un corpo che vibra come una verga di

nocciolo in prossimità dell’acqua, e LEI torna con prepotenza ad

occupare i suoi pensieri.

Sente il suo spirito palpitargli accanto.

Eppure è solo in quella stanza.

Anche se, l’impressione di solitudine proprio non ce l’ha. C’è

sempre quello strano rumore di fondo, la sensazione di avvertire la

presenza quasi tangibile di qualcuno al suo fianco, che gli gira attorno.

Maledizione, pensa, finirò per abituarmi alla compagnia del fantasma

della potente sciamana lappone resa famosa dall’Odissea, diventerò un

antropologo che studia l’ultimo esemplare sopravvissuto di una

specie delicata, elusiva, ritenuta da lungo tempo estinta.

Ma non c'é verso di opporsi al proprio destino. L’uomo ha così

poco controllo su ciò che sarà di lui che pensare di poter costringere le

cose a cambiare strada è uno sforzo inutile, spesso dannoso.

Rassicurato da questa verità torna al suo soggetto e inizia ad

assemblarlo gradualmente, con grande cura, a cominciare dalla testa,

si mangia con gli occhi i suoi folti capelli rossi e la sua pelle azzurro-

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latte. Se avesse la possibilità di decidere darebbe la preferenza a una

copia dal vero, magari non subito, perché non si sente pronto, forse

più avanti, quando il suo fragile cuore di uomo dell’Età del Petrolio

sarà diventato un vero CUORE di orso. Per il momento si

accontenterebbe di non farsi salire la pressione alle stelle dopo ogni

visitazione, cosa che purtroppo gli capita puntualmente. E’ sempre

così sulle spine, in qualche modo sospeso, come se da un momento

all’altro Circe Testarossa potesse aprire un paio d’ali nascoste e volare

via definitivamente. Succederà, una volta o l’altra, e lui sentirà la sua

mancanza come un buco frastagliato nell’aria attraverso il quale il

vento si riversa senza suono.

Si stende sul letto e pensa che se mai la magica rossa dovesse

esserci per davvero, quel fantasma può solo essere il creatore dei suoi

sogni. O qualcuno che si è dissolto nell’aria non per morte ma per

assenza, per trasformazione di modi. O il suo angelo custode. O

nessuno. Un nessuno che somiglia comunque alla famosa realtà alla

quale non ci si avvicina mai abbastanza, perché la realtà si mimetizza

benissimo svignandosela dietro a un’infinita successione di passi, di

livelli di percezione, di falsi segnali. Alla lunga, la realtà risulta

irraggiungibile. Si possono sapere sempre più cose su di essa, ma mai

tutto. Insistendo però si presentano delle sorprese, accadono cose alle

quali non si era neanche pensato, e quando uno meno se lo aspetta la

realtà spunta di nuovo.

Sta girando attorno al problema, se ne rende conto. Automatico

come una molla allunga la mano verso il comodino e cerca l’iPhone

nella tasca esterna della tracolla. Prima di addormentarsi scriverà due

righe a Wilma, l’unica persona al mondo capace di riportarlo con i

piedi per terra quando il volo si fa pericoloso.

“Bella giornata. In Lapponia c’è tutto quello che mi serve per stare bene:

natura, silenzio e poca gente in giro. Anche gli studi negli ultimi tempi

hanno subito un’accelerata e di Omero capisco tante cose adesso che guardo il

suo mondo con i miei occhi. Tu, piuttosto, come stai, fa caldo, e i ragazzi,

sono partiti per le vacanze?”

Da Mestre la risposta non si fa attendere.

96

“Comincio a pensare che questo tuo viaggio al nord sia

controproducente: stai diventando più scorbutico, se possibile, di un vecchio

orso, il che non è esattamente ciò che speravo. Si può sapere cos’è questa

specie di letargo in cui stai entrando? Avevi bisogno di ritirarti nella foresta

artica per digerire e metabolizzare gli ultimi anni? Smetti di vagabondare per

i boschi, fermati in città, frequenta persone, trovati degli amici. Vivere in

solitudine, chiudersi in un lungo silenzio, in un grande vuoto, non serve a

dare risposte alle domande fondamentali.”

Prando rimane per un po’ con le mani sotto la nuca a guardare

fuori dalla finestra, prima di pigiare l’interruttore e spegnere la luce.

Capisce che il suo bisogno di solitudine può apparire strano a chi lo

guarda dall’esterno, d’altra parte è così che stanno le cose. Sarà un

uomo fuori dal comune, un soggetto in via di estinzione, come l’orso,

che è diventato un prodotto da museo. Quello bruno, rinchiuso nei

parchi, è oggetto di un voyeurismo turistico sordido e mortifero,

mentre quello bianco sta tirando le cuoia a causa del riscaldamento

globale e della riduzione della banchisa di ghiaccio. C’è da dire che si

è trovato proprio un bel modello. Non poteva scegliersi un guru più

giovane e vitale? Perché non un leone, o un cavallo di razza? Si alza

dal letto, apre il frigobar e si scola una birra ghiacciata. L’ultima.

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IL RITORNO DEGLI DEI?

Da circa un ventennio il dottor Lars Danielsson, vecchio amico e

compagno di scuola di Gösta Lagerkvist, vive a ridosso delle piste da

sci di Saariselkä in un ampio chalet nella mansarda del quale ha

allestito una specie di osservatorio domestico perché l’astronomia è la

grande passione della sua vita. Prima di contattarlo Prando entra in

un bar per prendersi un caffè. Al banco c’è una comitiva di inglesi

guidati da un finlandese biondo, alto e magro. Stanno partendo per la

camminata nordica: tre ore di trekking attraverso il parco nazionale di

Urho Kekkonen.

Una fatica immane.

Il solo pensiero gli fa venire fame.

Ordina subito una porzione abbondante di karjalanpiirakka, una

specie di tortino di riso e patate ... mhhh! … squisito. Talmente buono,

che a metà della prima porzione ne ordina direttamente una seconda.

Nel frattempo capisce da quello che gl’inglesi si dicono parlando tra

di loro che nel pacchetto escursione ai partecipanti verrà offerta una

simulazione di corsa all’oro con tanto di lavaggio di sabbia aurifera

vicino ad una delle vecchie concessioni minerarie del Tankavaara

Gold Villane.

E’ esattamente il genere di turismo che detesta. Finisce in fretta il

suo tortino, paga il conto, esce dal locale e telefona al dottor

Danielsson. «Buongiorno, mi chiamo Camillo Prandolin,» si presenta,

«sono di passaggio a Saariselkä e le porto i saluti di Gösta Lagerkvist.»

«Ah!, Gösta, vecchio pirata. Come se la passa?»

«Bene, direi, l’ho incontrato a Stoccolma circa due settimane fa.»

«Sta ancora con Anja, la prima della classe? Una donna di una

noia mortale, al liceo parlava solo di Dante, e quando non stava in

casa a studiare girava l’Europa a caccia di convegni.»

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«Allora non è cambiata: l’ho conosciuta al seminario Omero nel

Baltico, a Copenaghen, il mese scorso, era in compagnia di due eruditi

danesi.»

«Che novità. Nel pomeriggio sono libero, venga a trovarmi, mi

racconterà di Gösta davanti a un buon bicchiere.»

«Va bene alle sedici?»

«L’aspetto.»

Prando approfitta delle ultime ore del mattino per visitare i

dintorni. Ha letto sulla guida che le colline che circondano Saariselkä

sono pervase da un’inspiegabile forza magnetica e vuole verificare

personalmente se questa diceria corrisponde al vero. Esce quindi a

piedi dalla città portandosi dietro il minimo indispensabile.

Dopo una scarpinata di tre o quattro chilometri comincia a non

farcela più. Si ferma e respira profondamente, dentro e fuori. Si siede

sulla sponda di un ruscello e ascolta il mormorio dell’acqua di una

sorgente lontana. Una trota, o forse un temolo, guizza nella frescura

estiva. Il cerchio nell’acqua gli passa davanti, si spezza, si scioglie

nella corrente.

Tocca l’acqua con un dito.

E’ fredda.

Immagina di essere un PESCE e comincia a nuotare. S’infila tra i

sassi nell’acqua poco profonda, si riposa un istante al riparo di uno

scoglio coperto di muschio, agita le pinne, apre le branchie, sfiora con

la bocca la superficie liquida per poi riprendere di scatto, con un colpo

di coda, la sua rapida andatura. Il mormorio gli rumoreggia nei

timpani mentre risale sempre più la corrente, il freddo lo scuote dalla

testa ai piedi.

Smette di fare il pesce e rientra nei suoi panni. A furia di

condurre una vita da mezzo eremita finirà per non tollerare più la

vicinanza dei suoi simili. Si alza in piedi, spezza alcuni rami di ontano

senza sapere perché, li getta nel buio del ruscello e si dice, se continui

così, vecchio mio, uno di questi giorni ti darà di volta il cervello. Poi si

lava la faccia nell’acqua fresca.

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Ha di nuovo fame, ma rimuove l’impulso, non può mangiare in

continuazione. Fa un altro chilometro a piedi. Deve ammettere che in

quel luogo selvatico e primordiale c’è qualcosa di anomalo, solleva

entrambe le mani e allarga le dita per ricevere segnali. A un certo

punto ha l’impressione che un esercito invisibile di spiriti dell’aria gli

stia accarezzando le braccia. Non sa perché ma i loro movimenti

hanno uno scopo preciso, una loro ragione. Però le creature che

popolano i mondi paralleli emettono un suono quando vogliono

comunicare con gli umani, e adesso nella valle non c’è alcun rumore.

Evidentemente gli spiriti di Saariselkä non intendono mettersi in

contatto con lui.

Fa un ultimo tentativo, si china e abbassa le mani per posarle sul

terreno, poi le trasferisce su una roccia larga e piatta. Ma dopo cinque

minuti di paziente concentrazione non ottiene alcun risultato.

Finché un monello invisibile, con un gesto scherzoso, gli toglie il

berretto blu da marinaio bretone buttandolo per terra. Non c’è vento,

solo aria fresca. Qualcosa gli tocca il braccio mentre si china a

raccoglierlo, un istante, poi svanisce.

Il contatto era intenzionale e Prando sente che era vivo e lieve

come un filo di ragnatela, effimero come il volo di una farfalla, ma

antico e dunque forte. Chi l’ha cercato dev’essere vissuto per un

tempo lunghissimo e ha senz’altro conosciuto molto. Lo comprende

interiormente, non saprebbe aggiungere altro.

Per tutto il resto della sua passeggiata nella valle, prima di

tornare in città per il pranzo, si chiede che forma può avere avuto

quella rivelazione, gli riesce però difficile visualizzare un corpo, o un

volto, alla fine ci rinuncia.

Tanto nessuno è mai come lo si immagina, neanche Lars

Danielsson, che ha i capelli crespi e grigi e un fisico stranamente

tarchiato e rotondeggiante, per essere quello di uno svedese.

Prolunga in maniera imbarazzante la stretta di mano e sembra

sinceramente contento della visita. «Ecco il nostro studioso di Omero,

entri, prego, si metta comodo,» dice indicando due ampie poltrone

davanti a una vetrata enorme che incornicia la bellezza intatta della

natura. Sulle pareti ci sono solo due quadri di grandi dimensioni pieni

di segni indecifrabili. Come una strana scrittura. «Cosa le offro? Birra,

100

o preferisce del chianti classico. Non è facile trovarne da queste parti,

ma ho un facoltoso paziente che se lo fa arrivare regolarmente

dall’Italia e ogni tanto me ne regala una bottiglia.»

«Va bene una birra, grazie,» farfuglia Prando. Malgrado la sua

nuova conoscenza si mostri assai mite, c’è in lui qualcosa che lo mette

a disagio. Difficile dire cosa. Non si tratta del suo aspetto fisico molto

poco nordico, ma di qualcos’altro davanti a cui per il momento evita

di decidere.

Qualche istante dopo Lars Danielsson torna con due bottiglie

ghiacciate, senza bicchieri, si siede accanto a Prando, tira fuori pipa e

tabacco e incomincia a caricare il fornello con la consumata perizia di

un nicotinomane all’ultimo stadio.

«Mi parli del suo viaggio, sono curioso, cosa sta cercando?»

«Niente di particolare, mi godo la natura, prendo appunti e faccio

foto.»

«Via, non faccia il modesto. Lei non è il solito turista, non ne ha le

caratteristiche.»

«Si sbaglia.»

Il dottore scrolla le spalle. Per qualche attimo fuma in silenzio.

Quando riprende a parlare tiene gli occhi fissi su un punto lontano del

soffitto. «Non è certo obbligato a raccontarmi gli affari suoi. Sappia

comunque che sono anch’io un ricercatore, e in questa stanza ci siamo

solo noi due. Quindi, se ha voglia di parlare lo faccia liberamente.

Troverà un ascoltatore attento e interessato.»

«La sapevo un bravo chirurgo, non un ricercatore.»

«Crede che mi sia trasferito sul tetto del mondo per esercitare la

professione medica? Avrei potuto curare i malati a Stoccolma,

guadagnando di più e facendo metà della fatica.»

«Cosa l’ha spinta fin quassù?»

«Inspiegabilmente, come per rispondere a una chiamata di

provenienza ignota, ho cominciato a spendermi per decifrare il

rapporto, che pure esiste, tra la regione artica e gli altri mondi.»

«?» Dice Prando.

«Fu in prossimità dei poli magnetici che sbarcarono i primi coloni

provenienti dalla costellazione di Orione. E in questi stessi luoghi i

loro discendenti di tanto in tanto ritornano.»

101

La prima impressione è quella che conta, non c’è niente da fare, e

adesso Prando ha la conferma dei suoi sospetti. «Lei ne ha visti?,»

chiede per educazione, non perché ritenga la cosa possibile.

«Come, no. Quattro, nell’arco di vent’anni.»

Prando sgrana gli occhi come un rospo, prima di farsi un lungo

sorso di birra.

«Via, non faccia lo scettico,» ride Danielsson battendo una mano

sul bracciolo della poltrona, «uno che s’interessa di sciamanesimo non

dovrebbe esserlo.»

«Chi gliel’ha detta questa cosa? Non io, me ne ricorderei. E poi,

cosa c’entrano gli UFO con gli sciamani?»

«Non creda di essere il solo, molti vengono in Lapponia in cerca

di uno sciamano, pochi però lo trovano. Vuole sapere perché?, non

sono capaci di tornare indietro, questo è il motivo, non partono

dall’inizio. Ad esempio, lei cosa sa delle origini dello sciamanesimo?»

«Sinceramente non mi sono mai dato una risposta soddisfacente.»

«Segno che non si è spinto abbastanza lontano nel tempo.»

«Cosa intende dire?»

«Le cronache più antiche raccontano che dietro i primi sciamani

c’era un Uccello Rapace-Madre che assomigliava ad un grosso

volatile, con un becco di ferro, artigli adunchi e una lunga coda.

Questo essere mitico appariva due sole volte nella vita del prescelto:

alla sua nascita spirituale, quando gli prendeva l'anima, la portava

negli inferi e la faceva maturare sul ramo di un abete, e alla sua morte,

quando tornava dal suo protetto per condurlo in una fantomatica

caverna, dove lo anestetizzava, tagliava il suo corpo a pezzi e lo

riassemblava prima di svegliarlo dal suo sonno profondo. Secondo lei

chi era l’Uccello-Madre?»

«Un nume olimpico? Un Elohim?»

«Mi piace parlare con le persone intelligenti.»

«Veramente l’ho buttata lì, dicevo così per dire.»

«E ci ha azzeccato in pieno: sono loro quelli di cui parlano le più

antiche tradizioni. Stanchi di scavare nelle miniere d’oro delle zone

polari del mondo ad un certo punto gli Elohim costrinsero il

comandante della prima spedizione sulla Terra a plasmare un

sostituto, un doppio, manipolando i geni di alcuni piccoli ominidi

102

allora presenti sul pianeta. La cosa funzionò piuttosto bene per un

lungo periodo, finché a qualcuno fra i colonizzatori non venne la

malinconia di dare agli schiavi l’intelletto e la parola. Renderli più

simili a loro fece sentire i visitatori un po’ meno soli. All’inizio. Presto

però quegli altri cominciarono a reclamare dei diritti, divennero dei

nemici, pericolosi rivali, e alla fine li sconfissero.»

«E’ una leggenda?»

«Non credo, troviamo descrizioni dei primi esperimenti sul DNA

al nord come al sud del mondo, in Lapponia come in Australia.

Sempre il candidato veniva trasportato nei laboratori sotterranei, dove

subiva da parte degli Elohim un'operazione che comprendeva lo

spezzettamento del corpo e il rinnovamento degli organi interni e

delle ossa.»

A Prando va la birra di traverso e le orecchie tentano di rientrargli

nella testa dallo sbalordimento delle parole che sta sentendo. Gli déi

maestri del trapianto? Si chiede se è sulla scia di questa remota

memoria che fin dagli albori della sua storia l’uomo associa il

sottosuolo alla morte. Se non avesse smesso di fumare vent’anni fa, si

farebbe volentieri una sigaretta.

Approfittando del silenzio dell’interlocutore il dottor Danielsson

prosegue nella sua bizzarra esposizione. «Mica crederà che

l’ingegneria genetica l’abbiamo inventata noi, avvocato Prandoletti,

anzi Prudolini, scusi la mia pessima pronuncia, purtroppo non

conosco l’italiano. Oggi non facciamo altro che rispolverare vecchie

scoperte spacciandole per nuove. Solo questo. E’ il cerchio della storia:

sempre le stesse cose, gli stessi errori, le stesse speranze, gli stessi

pensieri. A questo ci hanno condannato.»

«Gli Elohim?»

«No, loro ci consideravano in qualche modo dei figli, non ci

avrebbero mai fatto del male. Mi riferisco ad alcuni esseri diabolici che

popolarono la Terra prima che gli uomini diventassero la specie

dominante. Semidei. Creature nate dalle unioni carnali dei coloni con

gli umani prodotti nei loro laboratori. Ha visto Blade Runner?»

«Vuol dire il poliziotto Deckard che s’innamora della bellissima

replicante Rachael e fugge via con lei?»

103

«Qualcosa del genere. Il problema s’impose quando i figli nati da

queste unioni miste cominciarono a crescere credendosi chissà chi. Il

potere scorreva impetuoso come un fiume di montagna nelle loro

vene, e non c’è dubbio che le nostre disgrazie siano collegate in

qualche modo a quella forza disumana. O, meglio, alla perversione di

qualche frangia deviata della razza intermedia appartenuta, molto

probabilmente, ad uno dei continenti scomparsi durante i cataclismi

che sconvolsero il mondo circa dodicimila anni fa. Quando gli uomini

si ribellarono ai soprusi e alle violenze i mezzosangue li punirono nel

peggiore dei modi.»

«Come?»

«Con un anatema. Una maledizione pazzesca. La condanna allo

sviluppo spirituale alla rovescia che ci rende prigionieri

dell’involuzione implacabile che ci schiaccia.»

«Nessuna pena dura in eterno. Una maledizione, per potente che

sia, è parte del piano universale cui nulla sfugge, nemmeno chi la

decide.»

«Difatti siamo agli sgoccioli. L’ultimo ciclo sta per concludersi, tra

non molto questa umanità avrà scontato la sua pena, gli déi

ritorneranno, il mondo verrà resettato, e chi vivrà vedrà.»

Nei pensieri di Prando comincia a circolare vertiginosamente una

miriade d’informazioni. Se anche la maledizione di qualcuno sta

toccando il suo apice, come sostiene il dottore, non ci sono dubbi che

gli uomini hanno grandemente contribuito al loro declino

considerando superflui tutti gli insegnamenti tradizionali. Oggi

nessuno sa più niente, nessuno capisce più niente. In particolare gli

uomini, più superficiali delle donne, dovrebbero voltarsi indietro,

scavare nel passato. Aderire magari al manifesto del neonato

Movimento di Riconquista delle Nostre Radici, che invita gli associati,

per il momento inesistenti, a ricollegarsi al principio per riprendere il

giro, e cioè a rientrare nello spirito dell’orso.

«A cosa sta pensando?,» gli chiede il dottore.

«A niente, buona questa birra, il suo discorso mi ricorda alcuni

particolari dell’Odissea.»

«Interessante, prosegua.»

104

«Sulle rive di Oceano, voglio dire, in prossimità delle terre bagnate

dalla Corrente del Golfo, si stendevano i territori di popoli enigmatici

come gli Etiopi e i Cimmeri. I primi, il cui nome non a caso significa

faccia bruciata, vivevano perennemente illuminati dal sole e non

vedevano mai la notte. I secondi invece erano tristemente avvolti da

una nebbia fitta e senza tregua in cui la luce del sole non riusciva a

penetrare. Di entrambi si dice venissero onorati dalle visite frequenti

degli déi.»

«Non fu verso la terra dei Cimmeri che Borea spinse la nave di

Odisseo?»

«Precisamente. E in quei luoghi senza luce, grazie alle indicazioni

di Circe, l’eroe trovò la fossa che introduceva nel Regno dei Morti ... o

nei laboratori sotterranei dove gli déi avevano le loro sale operatorie?»

Fumando soddisfatto Lars Danielsson incrocia le gambe e

appoggia la testa allo schienale della poltrona. Prando lo osserva con

una certa inquietudine pensando che ora ha un motivo in più per

stare alla larga dalla Carelia, si sa mai che il fantasma gigantesco di

qualche scienziato di Orione si aggiri ancora nelle sterminate distese

di boschi sotto un camice bianco e con il bisturi arrugginito in mano.

Già l’idea di andare laggiù non lo attirava neanche prima, l’umidità

nell’atmosfera è troppo alta per i suoi gusti, i giorni sereni sono rari e

d’estate sciami di zanzare assetate di sangue infestano le rive dei laghi

che si alternano alle immense paludi. Adesso poi che ha il sospetto

che nella nebbia fredda e spettrale che sale dagli sconfinati acquitrini

avvolgendo la regione nel suo velo funereo possa trovarsi la porta che

introduce nel Regno dei Morti, col cavolo che ci va’.

Modificherà il suo programma deviando per la comoda strada

statale che porta direttamente a Capo Nord. Se Circe non gli avesse

rivelato che quella era una tappa obbligata del suo viaggio Odisseo

avrebbe fatto la stessa identica cosa. Scoppiò a piangere come un

bambino quando seppe di dover andare nell'Ade, sfogando tutta

l’angoscia che aveva dentro, inventando scuse assurde. Si calmò solo

quando capì che il viaggio assistito che la sciamana si apprestava ad

assicurare alla spedizione non comportava solo una scorta, un veicolo

e del cibo, ma anche la magia avrebbe avuto il suo peso. Beve un altro

sorso prima di alzare lo sguardo sul dottor Danielsson, che nel

105

frattempo ha chiuso gli occhi, dal che ne deduce che il discorso non

avrà un seguito. Finisce la sua birra e fa per alzarsi in piedi, ma il

dottore non dorme.

«Non ci crede, vero?»

«Ammetto di avere qualche difficoltà.»

«Non dovrebbe averne, lei crede a Omero, e non mi risulta che

questo fantomatico poeta sia mai esistito. In realtà la poesia omerica è

un codice per iniziati, non una cronaca in versi di fatti realmente

accaduti, un’allegoria in cui Odisseo è una specie di campione di ogni

virtù che viene strumentalizzato per fare dei moralismi filosofici. Ogni

tappa del suo viaggio rappresenta una difficoltà della vita: i Lotofagi

sono la tentazione della droga da schivare, il ciclope la violenza

selvaggia da combattere e vincere, Cariddi la smodatezza nel modo di

vivere, Scilla la rapacità e l’ingordigia da cui difendersi, le vacche di

Helios la continenza alimentare da osservare. Con l’ausilio della sua

saggezza e grazie al suo sapere l’eroe trova una soluzione ad ogni

problema, come si conviene al protagonista della più bella fiaba del

folklore planetario.»

Indignato dalle semplificazioni gratuite del dottore Prando apre

la bocca per replicare ma le parole gli si fermano in gola, riluttanti a

venire fuori in questo mondo pieno di pazzi.

«Perché, scusi,» continua Danielsson vedendo l’espressione offesa

dell’ospite, «credeva che fossero avvenute veramente tutte queste

cose?»

Prando ci crede eccome.

Ci crede senza ombra di dubbio.

Ma preferisce tenere la fede nel segreto della sua mente.

Quando esce dalla casa di Lars Danielsson vede che il cielo ha

cambiato aspetto. Intorno ai monti si sono ammassate nubi minacciose

foriere di qualche violento temporale estivo. Tra poco il cielo si

squarcerà e si apriranno le cateratte, il carro di Ukko, dio delle

tempeste, rimbomberà sul tetto del mondo e i lampi illumineranno la

terra oscurata dalla cupa nuvolaglia. Tutto verrà lavato via in fretta, e

le parole degli uomini saranno le prime a dileguarsi.

106

BUON COMPLEANNO, VECCHIO ORSO

Svegliarsi, la mattina dopo, è per Prando come arrampicarsi

lentamente dalle profondità di una buca senza fondo dove un alieno

gigantesco lo tiene tra i suoi artigli e lo studia.

Un alieno in camice bianco che calza crocs verdi e porta una

mascherina chirurgica sul viso? Apre gli occhi sgomento e vede oltre

le tende che schermano la finestra una bella giornata di sole.

Tutto a posto, anche se ancora per qualche minuto gira la trottola

delle immagini a cavallo tra passato e presente che ha terrorizzato il

suo ultimo sogno.

Si mette seduto sul letto, scrolla le spalle e piega la testa verso il

vetro della finestra per guardare meglio il cielo. Anche l’orso fa così:

alza spesso la testa per contemplare il cielo e le stelle.

Si spoglia le mutande ed entra nel box doccia. L’orso fa persino

l’amore come un uomo, guardando la sua compagna negli occhi,

abbracciandola e baciandola. Il tempo del piacere è in lui più lungo

che in qualunque altra specie animale e si accompagna a carezze e

giochi simili a quelli di due esseri umani.

Prende il flacone del docciaschiuma e svita il tappo. Anche l’orso

si serve delle zampe anteriori per afferrare, tenere o lanciare un

oggetto, per cogliere delicatamente le bacche, o pescare con abilità i

pesci nei torrenti e distruggere con selvaggia violenza gli alveari allo

scopo d’impadronirsi del miele.

L’acqua tiepida sul viso lo sveglia completamente e comincia a

sentire un certo appetito. Anche l’orso è un goloso matricolato, la sua

ghiottoneria è proverbiale e lo porta a commettere imprudenze,

mentre di solito è molto cauto. Chi meglio di Prando può capirlo!,

anche lui si lascia spesso tentare dalla gola fregandosene d’ingrassare.

Che male c’è in qualche chilo di troppo se poi l’apparente pesantezza

107

viene superata dall’agilità, dalla rapidità, dall’abilità nell’intrufolarsi o

nell’evitare gli ostacoli.

L’idea è balzana, però gli è venuta.

E il primo pensiero del mattino è il più lucido.

Non potrebbe essere stato l’ORSO il non meglio identificato

OMINIDE sul quale i primi coloni provenienti da Orione innestarono

i loro geni? Ormai alla favola dell’uomo discendente dalla scimmia

non credono più neanche i bambini, mentre appare chiaro che l’orso è

tra gli animali l’essere più umano che esista. Sembra quasi un uomo

travestito. Si comporta anche fisicamente nello stesso modo: sta in

piedi, si siede, dorme su un fianco o a pancia in giù, corre, nuota, si

tuffa, rotola, si arrampica, salta e balla. Scriverà una mail a Lars

Danielsson per chiedere la sua opinione.

Più tardi il battello postale Hurtigruten, che fa rotta su Kirkenes,

a mezza giornata di macchina da Saariselkä, lo immette in

un’atmosfera completamente diversa, un’atmosfera autenticamente

norvegese, nonostante la gente in circolazione sia cosmopolita e parli

anche sami, finlandese e russo. Il gestore della stazione di servizio

dove si ferma a fare rifornimento di caffè e carburante gli dice che

nella vicina valle di Pasvik c’è la più grande foresta vergine della

Norvegia, uno dei pochi luoghi al mondo in cui gli orsi bruni si

riproducono regolarmente. Come ai tempi di Omero, quando uomini

e orsi erano inseparabili, condividevano gli stessi spazi, le stesse

prede, le stesse paure, le stesse caverne, gli stessi sogni e gli stessi

giacigli, talvolta la stessa tomba. A Prando un po’ dispiace che questo

rapporto di parentela sia andato progressivamente deteriorandosi. Poi

però valuta l’idea che in realtà non è mai morto, ma solo passato dalla

natura alla cultura, e oggi sopravvive come icona. Emblematico è

l’episodio della conquista della Luna del 1969, quando gli abitanti

della Terra collegati in mondovisione assistettero al fuoriprogramma

della squadra di Neil Armstrong che partiva per la storica spedizione

scortata da un orso di peluche, simbolo eterno di forza virile e

mascolina determinazione.

Lui però, l’orso, non era la prima volta che oltrepassava la

barriera del suono. Il suo battesimo spaziale avvenne quando Callisto,

figlia di Licaone, cara ad Artemide, incorse nell’ira funesta della dea a

108

causa dei suoi intrallazzi con Giove. La ninfa fu mutata dalla sua

indignata protettrice in orsa e poi dal suo divino amante nella

costellazione che oggi è ancora nota come l’Orsa Maggiore, la più

bella della volta celeste, non a caso legata alla Tula iperborea.

Durante le sue riflessioni Prando si ritrova spesso a divagare sulla

mitologia. Sono storie che rendono bene l’idea di quello che vuole

dire. Storie che emergono da un senso cosmico della vita, da

un’estetica irrazionale, eco della notte dei tempi. Storie che affondano

le loro radici in quell’Età dell’Oro in cui lo studioso si avventura di

rado perché dovrebbe farsi guidare soltanto dal fiuto, che pure fa

parte della sua ricerca ed è, anzi, uno strumento indispensabile,

mentre il dilettante procede intrepido, cosa che molto spesso

trasforma la sua ricerca in un fantastico viaggio.

Come la vita, anche la vita è un viaggio. E adesso che è in

pensione Prando ha intenzione di godersi tutte e due, vita e viaggi,

per cui aggiunge al caffè bollente una pastafrolla con salsa di mirtilli e

se la mangia.

Lascia la stazione di servizio con in tasca una stecca di cioccolato

al peperoncino e la decisione che nella valle di Pasvik non ci andrà. Le

prove di forza non lo interessano, non ha certo bisogno di misurarsi

con un animale selvatico in carne ed ossa per sapere che l’altro è più

forte di lui. Va bene che è in cerca di stimoli per risvegliare lo spirito

dell’orso che ronfa da qualche parte nel suo profondo, passi il

bisogno, da sessantenne pensionato qual è, di sfide importanti, ma c’è

un limite a tutto.

Clic. E’ finito il cd. Ne infila un altro nella fessura dello stereo e in

un attimo la voce graffiante di Joe Bonamassa riempie l’abitacolo della

Skoda. Prando pensa che Dust Bowl sia il suo album migliore, il più

maturo. Gli assoli, ben radicati nel blues ma anche molto introspettivi,

hanno su di lui un benefico effetto tonificante. E’ grazie al rock che i

giovani della sua generazione sono diventati grandi. Le cose si sono

complicate nel passaggio successivo, ma questa è un’altra faccenda.

Un cartello: è arrivato.

Il tunnel sottomarino che porta all'ultimo tratto di strada gli toglie

il respiro perché s’inabissa precipitosamente e risale ripidissimo dalla

parte opposta, dove una bella ragazza gli scuce 25€ di pedaggio (con

109

la promessa di altri 25€ per il ritorno) per 4 km di galleria. Alla faccia!

Giunto poi a destinazione una seconda ragazza che scoppia di salute

gli pela 45€ per l'ingresso al piazzale di sosta, gremito di auto e

camper intorno al mappamondo simbolo di Capo Nord.

Nel parcheggio, gli ricorda la ragazza, potrà rimanere due notti al

massimo. Nessun problema, replica Prando, si fermerà in quel luogo

affollato di turisti il minimo indispensabile. Non più di un’ora,

probabilmente. Giusto il tempo di scattare qualche foto al sole di

mezzanotte senza aver davanti null'altro che il mare, una birra al bar,

già che c’è anche due saporite tartine al salmone, quattro passi su

quella suggestiva penisola alta un centinaio di metri che s’intravede

sullo sfondo, e poi di corsa verso una nuova salutare immersione nel

silenzio nordico.

Ma si sa che tra il dire e il fare … e difatti il piano iniziale subisce

qualche piccolo ritocco. Via via, sempre più consistente. Finché la

vista degli enormi cupi marosi del Mar Glaciale Artico gli fa

accantonare definitivamente ogni proposito di fuga verde.

Resta immobile per un tempo incalcolabile davanti al paesaggio

arido e virile di Capo Nord. Estasiato. Con i piedi cementati nella

roccia alla cui base si frangono con terrificante fragore i cavalloni. Dal

largo tira un vento raggelante. Sull’orizzonte boreale l’infaticabile sole

vermiglio della notte chiara imporpora con le sue vampe la superficie

del mare. Una pulcinella marina dal becco rosso litiga con due

gabbiani prepotenti. Escrementi di uccello piovono in acqua, per

fortuna, mentre si congratula con se stesso: complimenti vecchio orso,

dice al nulla, hai rispettato i tempi, oggi è il vent’otto di giugno, il

GIORNO DEL TUO COMPLEANNO, e tu ti sei fatto un Signor

Regalo. Non c’è dono al mondo capace di competere con lo spettacolo

del disco di fuoco che non scende mai sotto l'orizzonte.

Per associazione d’idee gli viene in mente quella sera in casa

Lagerkviest quando Gösta gli ha spiegato che nei paesi nordici il

solstizio d’inverno è ancora più suggestivo, se possibile, di quello

estivo. Si può vedere la luna risplendere per quattordici giorni

consecutivi. Essa infatti sorge allorché già si trova al termine del

primo quarto, cioè piena a metà, comincia a descrivere ampi cerchi

lungo l’orizzonte senza tramontare e, salendo lungo una traiettoria a

110

spirale, continua gradualmente a crescere nella notte solstiziale fin

quando, una settimana dopo, in corrispondenza col plenilunio,

raggiunge l’altezza massima. In seguito inizia a decrescere e ad

abbassarsi verso l’orizzonte, dietro cui tramonta al termine della

settimana successiva. Ci farà un pensierino per il prossimo Natale.

Nel frattempo si gode il suo regalo, il migliore che mai abbia avuto, se

si esclude l’orso Floppy che ha ricevuto alla festa dei due anni dalla

zia Virginia.

E’ in piedi sullo strapiombo che definisce il tetto del mondo

civilizzato, quando un rumore interrompe i suoi pensieri. Si gira di

scatto. Qualcosa, qualcuno, alle sue spalle.

Chi c’è lì? Sorride. Individua di nuovo una presenza, anche se

capisce che potrebbe essere solo un’intuizione primitiva provocata dal

suo stato di entusiasmo. La presenza finisce per sembrargli così ovvia

e consistente che si rattrista domandandosi cosa sarebbe se la realtà lo

restituisse all’improvviso all’evidenza di una grande assenza.

Scaccia immediatamente l’idea, non vuole neanche pensarci,

ormai Circe Testarossa è diventata la sua fidata compagna di viaggio,

la sua migliore amica. Lo stesso Odisseo ebbe con Circe un legame

esclusivo. Secondo Plutarco, che sull’argomento scrisse un poemetto,

in quell’anno trascorso insieme i due non godettero unicamente dei

piaceri del sesso ma trovarono il tempo di discutere, confrontarsi,

confidarsi e filosofeggiare. Odisseo accusava ironicamente Circe di

rimbambire con intrugli di parole ammalianti i malcapitati che le

andavano a tiro, trasformandoli in animali irrazionali. Circe era

dell’opinione che Odisseo agisse accecato dall’ambizione di diventare

qualcuno e che, per inseguire i suoi fantasmi e confermare i propri

pregiudizi, passasse accanto alla verità senza vederla. Gli premeva

portare a casa sani e salvi i compagni per farsi bello davanti alla tribù,

mentre quelli che non erano suoi compaesani potevano

tranquillamente morirci nello zoo di Aiaie. Sempre ammesso che i

porci condividessero fino in fondo le sue idee, che approvassero la sua

posizione sulla superiorità cognitiva e morale del genere umano,

perché magari nel chiuso della stalla si stavano divertendo un mondo.

Odisseo non credeva la cosa possibile? Circe invece era pronta a

scommetterci, e se i fatti le avessero dato torto avrebbe pagato il suo

111

debito liberando dall’incantesimo chiunque lui avesse indicato, anzi,

sarebbe bastato convincerne uno per ottenerli tutti. Grillo, a cui sarà

concesso temporaneamente il lògos, poteva farsi portavoce dell’intera

comunità di animali ex-umani presenti sull’isola, così si sarebbe visto

chi dei due aveva ragione. A questo punto comincia il gioco di

Plutarco di mettere in dubbio l’ovvio e lo scontato, che poi è il

compito della filosofia e della satira. Alla fine Grillo riferirà all’eroe

che dopotutto sull’isola di Circe la vita era niente male e pensare la

metamorfosi come una disgrazia inflitta dalla dea era completamente

sbagliato. Circe accuserà Odisseo di essere vittima dei suoi pregiudizi

perché in realtà gli animali non umani erano esseri liberi che non

avevano bisogno di imporsi autocontrollo in fatto di desideri indotti,

innaturali e superflui. Ed eccolo bell’e sistemato l’eroe di Itaca,

persino Plutarco gli rema contro, come se Circe avesse bisogno di

essere spalleggiata da qualcuno per affermare la sua superiorità

dialettica. Non è ancora nata la donna che perde contro un uomo in

una competizione verbale.

Un pensiero dopo l’altro, viene avanti intanto la sera.

O meglio, l’ora di cena.

Non c’è sera d’estate a seicento chilometri sopra il Circolo Polare

Artico perché il sole si limita a posarsi un attimo sull’orizzonte e poi

risale, illuminando di riflessi rossastri le nuvole sempre presenti, come

il silenzio, le rocce e il ricordo di un tempo lontano.

Poco dopo al buffet dell’albergo di Kamøyvær, un piccolo edificio

blu con gl’infissi rossi e il tetto a doppio spiovente, Prando conclude

la sua festa di compleanno rimpinzandosi di granchi, pane e

maionese, e poi ancora salmone con sale e zucchero aromatizzato

all’aneto e alle erbe selvatiche. Nessuna meraviglia se la popolazione

norvegese è una delle più sane del mondo: mangia pesce ad ogni

pasto. Ancora non ha finito la torta e deglutito l’ultimo sorso di caffè,

che … drinnn … squilla il telefono … drinnn … sarà quella

rompiscatole della Lagerkvist … drinnn … indovina.

112

«Sono contenta che sia arrivato a Capo Nord, avvocato, alla fine

ce l’ha fatta, fa freddo?»

«Va bene che sono italiano,» dice pulendosi la bocca con il

tovagliolo, «però bazzico la Scandinavia già da un po’ e alle

temperature nordiche ho fatto il callo, a parte il fatto che siamo in

luglio.»

«Il luglio artico. Anche i personaggi omerici viaggiavano in

prevalenza nel periodo della navigazione, e cioè nella bella stagione,

eppure durante i loro spostamenti appaiono sempre intabarrati in

qualcosa di pesante per proteggersi dal freddo.»

«Come dimenticare Telemaco e Pisistrato, ospiti di Menelao a

Sparta, che dopo il bagno si avvolgono in folti mantelli. Le ancelle

della reggia di Alcinoo, che mettono addosso a Odisseo una coperta di

lana. Nestore, che indossa un mantello doppio. La madre di Achille,

che prepara al figlio in partenza per la guerra un baule pieno di abiti

pesanti e coperte. Potrei continuare, volendo.»

«Sull’Odissea è impossibile coglierla impreparato.»

«Sono un semplice dilettante.»

«Proprio per questo. Le scoperte archeologiche più sensazionali le

fanno spesso gli appassionati, non i professori, ma lasciamo stare,»

conclude con una punta di stizza. «Mi dica piuttosto di Lars

Danielsson, l’avrà incontrato suppongo, come sta?»

«Sono stato a casa sua, si, l’ho trovato bene.»

«Spero non si sia lasciato impressionare dal personaggio. Forse

un po’ sopra le righe, ma di notevole spessore. Sebbene il confine tra

pazzia e genialità sia molto sottile, e per quanto riguarda Lars non

saprei dire con esattezza di quale delle due si tratta, benché nutra

qualche sospetto.»

«Dica a suo marito che ho trovato il dottore in ottima forma fisica

e per niente ingrassato.»

«Tutto qui?»

«Ricambia i saluti e vi aspetta in Lapponia.»

Se a fargli le domande fosse stato qualcun altro Prando avrebbe

aggiunto che il dottore aveva l’aria di uno normale, nonostante tutto.

Difficile ormai distinguere i normali dai matti, il che rende questo

mondo rimbambito ancora più problematico di quello che é, perché

113

chiunque può essere chissà chi. Ma siccome a interrogarlo è la

Lagerkviest, che non lo convince mai del tutto, preferisce non andare

oltre.

Lei sembra leggergli nel pensiero. «A parte le solite frasi di

circostanza è evidente che lei, avvocato, non si fida di me, altrimenti

sarebbe più sincero. Crede forse che la mia curiosità verso le sue

piccole scoperte quotidiane non sia sincera?»

«Non voglio sembrare scontroso e diffidente, e mi scuso se ho

dato questa impressione, ma mi sembra strano che il poco che faccio

possa suscitare l’attenzione di una ricercatrice. Non vedo come la mia

passione per Omero possa sfociare in una qualche scoperta. A meno

che le Lofoten non mi riservino delle sorprese,» aggiunge scherzando,

«è là che sono diretto.»

«Allora sia prudente, con il mare mosso in quell’arcipelago

insidioso si rischia di essere scaraventati contro gli altissimi scogli

circondati dai bassi fondali strapiombanti sul mare.»

«Ingaggerò un marinaio, non sono in cerca di guai.»

«Lo so, ma in un certo senso mi sento responsabile di un italiano

alla scoperta della Scandinavia, a maggior ragione di un italiano

sinceramente innamorato della nostra storia.»

Quanti complimenti, pensa Prando, chissà se poi sono sinceri. Se

in questo momento dovesse descrivere la Lagerkviest con

un’immagine userebbe la figura di un luccicante vaso di cristallo con

dentro un bel mazzo di fiori finti. Magari profumati. Più l’oggetto è

verosimile meglio inganna l’occhio.

Subito dopo aver lasciato la camera, l’indomani, compra

sottobanco dei filetti di salmone affumicato dall’aiuto cuoco. Per gli

spuntini fuori orario e i momenti di sconforto, spiega al giovane chef

mentre saccheggia il cesto del pane. Poi parte per la sua strada in

compagnia di alcuni inossidabili classici dei Queen sparati a manetta

dallo stereo della fedele Skoda. Ottimo impianto, deve riconoscere.

Fuori il paesaggio è maestoso: mare blu profondo da un lato e

montagne alte e precipiti dall'altro. Solo alcune coloratissime casette

in legno rivelano ogni tanto che questo non è un altro pianeta, ma

bensì il tetto incorruttibile di un mondo improvvisamente impazzito.

114

Verso mezzogiorno si ferma in un’area di sosta, a oltre dieci

chilometri dall’ultimo villaggio, dove su un tavolo di legno deposita

la bottiglia di birra e il sacchetto del suo pranzo al sacco, prima di

sedersi sulla lunga panca ricavata da un tronco di betulla. Alle sue

spalle, nelle pigre acque di un piccolo torrente guizza ogni tanto un

pesce solitario. In giro non c’è anima viva e sul vicino nastro d’asfalto

non scorrono che pochi, rari, veicoli. Il posto è decisamente

fuorimano, tanto che a un certo punto ha persino l’impressione di

vedere un orso all’estremo confine dell’area, dietro alcuni rovi, è una

sagoma scura che sembra rizzarsi ogni tanto su due zampe. Alzandosi

sulle punte e guardando meglio vede però solo uno stormo d’uccelli, e

nessun orso. Il silenzio è totale. Prando può quasi sentire il turbinio

dei pensieri nella sua scatola cranica: sono miriadi, alcuni epici, altri

più ordinari, il loro rincorrersi nella sua mente non finisce mai. E sul

podio, chi c’é?

Che domanda. Il fatto è che col passare del tempo sente una

misteriosa compenetrazione emotiva con lei. Questo pensiero gli fa

girare la testa. Per un momento teme, e al tempo stesso desidera, che

Circe Testarossa una buona volta si fermi e gli parli. Non si aspetta

una dichiarazione d’amore, solo due chiacchiere tra buoni amici. Lei

potrebbe congratularsi con lui perché sta compiendo un viaggio

scrupoloso che pochi altri avrebbero saputo affrontare con maggiore

dedizione. Lui le farebbe i complimenti per i suoi abiti sempre

all’ultima moda.

E se invece Circe Testarossa lo rimproverasse, se gli dicesse che ci

fai qui, tornatene in Italia, stai sprecando il poco tempo che ti resta?

Lui stesso ricade ogni tanto in questo pensiero, e sempre ha

l’impressione che il suo sguardo sia di breve gittata. Forse dovrebbe

sforzarsi di trovare il buono e il bello non solo nell’Età del Bronzo

nordica, che certo è stata un’epoca grandiosa per la formazione dei

miti che stanno alla base della cultura contemporanea, ma anche

nell’attuale Età del Petrolio, che pure ha i suoi lati positivi e un giorno

troverà il suo cantore. In fondo la vita degli esseri umani non è

cambiata e come sempre si risolve in un saliscendi di battesimi e

funerali, era così ai tempi di Omero ed è così ancora oggi.

Indubbiamente lo spessore morale e spirituale degli esseri umani

115

negli ultimi secoli si è ridotto in maniera consistente ma, se Lars

Danielsson ha ragione, e Prando non è in grado di smentirlo, gli

uomini sono vittime inconsapevoli dell’azione malvagia di qualche

antichissima casta di vendicativi semidei.

Non lo pensa per giustificarsi, al contrario lui è uno di quelli che

sostengono che chi si ferma muore. C’è sempre qualcosa che si può

fare per migliorare la propria condizione, anche quando tutto sembra

perduto. Non è nel suo stile stare ad osservare quanto male vada

questo mondo rimbambito cadendo nella tentazione di credere che

siccome la fine è vicina tanto vale aspettare che passi. Sbaglia chi

crede che non c’è più niente da dire perché è già stato detto tutto, si

sta creando un malinteso planetario nel quale lui personalmente non

desidera essere coinvolto, non adesso che il suo viaggio verso le

origini comincia a prendere forma.

La sera nella quiete della natura selvaggia si rilassa sulle rive di

un laghetto nel B&B suggeritogli da Anja Lagerkviest. Un posticino

delizioso arredato in perfetto stile nordico, se si esclude il gigantesco

poster incorniciato d’oro zecchino che troneggia sopra la consolle

dell’ingresso.

«William Blake!,» esclama col dito puntato sulla celebre

immagine del grande vecchio che appare nell’orbita solare da cui

tende verso l’esterno il compasso che ha in mano.

«Lei è un geometra?» Gli chiede interessata la signora Halvorsen,

un donnone che sprizza salute da tutti i pori.

«No, perché?»

«Non è da tutti riconoscere al volo il protettore dei geometri.»

Prando s’indigna. «Vorrà dire il dio architetto, l’Apollo iperboreo,

colui che con il suo raggio disegnò in principio i confini del cielo e

della terra.»

«Lo chiami come vuole. Il quadro apparteneva al mio povero

marito, che appunto faceva il geometra. Di più, non so.»

«Perdoni la foga, ma quando c’è di mezzo la storia mi faccio

spesso prendere la mano.»

«Non si preoccupi, a volte la stanchezza sferra tiri mancini. La

sauna è ancora calda, le consiglio di approfittarne.»

«Pensavo che in Norvegia ...»

116

«Mio marito era norvegese, ma io sono di Rovaniemi, e ho

conservato le sane abitudini del mio popolo. Gli asciugamani puliti

sono sulla panca. L’aspettiamo a tavola per le diciannove.»

Felice dell’inatteso fuori programma Prando si leva i vestiti per

entrare nella sauna. Nel locale regna un dolce tepore. Gli spruzzi

d’acqua sulle pietre roventi evaporano sfrigolando, la stufa ronza

bonaria. Passa quindi nell’attiguo salottino dedicato al relax, dieci

minuti in contemplazione del magnifico panorama che si vede dalla

finestra e, dulcis in fundo, una doccia appena tiepida.

Più tardi a tavola la signora Halvorsen lo vizia con i più squisiti

piatti a base di pesce. L’assiste ai fornelli sua figlia Kaja, che entra ed

esce dalla cucina con vassoi di salmone preparato in svariati modi,

fresco o affumicato, marinato o in casseruola, oppure accompagnato

da caprini locali, per evitare che l’ospite si stufi del salmone. La zuppa

di pesce che segue, insaporita con burro nostrano e patate lapponi,

profuma deliziosamente di erba cipollina selvatica raccolta sui monti.

Non mancano poi i toast di renna in crosta di formaggio gratinati sulla

pietra rovente, accompagnati da mirtilli palustri per esaltarne il gusto

selvatico. Né scarseggiano nei cestini le ciambelle speziate e i dolcetti

al miele da accompagnare a sciroppi a base di frutti di bosco, vodka e

caffè.

«Mi piace il nome che avete dato al B&B,» dice Prando.

«La Tana dell’Orso? Un’idea della buonanima. Io preferivo il

Rifugio del Cinghiale, più femminile, ma lui non ha voluto darmela

vinta. E siccome i soldi erano suoi, ho dovuto mollare.»

«Il cinghiale non mi sembra tanto più femminile dell’orso.»

«Non ha detto che è un appassionato di storia?»

«Si, perché?»

«Dovrebbe sapere che prima ancora di chiamarsi TERRA

DELL’ORSO, per via delle battaglie feroci a cui faceva da sfondo, la

regione a nord del circolo polare artico si chiamava TERRA DEL

CINGHIALE, i suoi abitanti vivevano in pace ed erano saggiamente

amministratati dalle donne.»

«E’ la prima che sento.»

«Come vede dalle donne c’è sempre qualcosa da imparare.»

117

Pungente questa brava massaia. Temperamento lappone. E chissà

che sotto la coperta della semplicità non si celi un tesoro di

conoscenze primordiali. Ora che ci pensa, è stata la Lagerkviest a

consigliargli questa casa. E allora? Mica vorrà uscirsene adesso che sta

mangiando divinamente con una delle sue teorie fantasiose. Vale

come sempre il celebre principio scientifico del “Rasoio di Occam”,

mai inventare ipotesi che non sono necessarie. In altre parole: più una

teoria è complessa, meno è plausibile.

Supposizioni a parte qualche giorno in più nella Tana dell’Orso se

lo sarebbe fatto volentieri, il posto è incantevole e il cibo squisito, ma

ha un programma da rispettare, deve partire.

Domattina alle otto.

Direzione: mare.

118

UNIVERSI PARALLELI

Giunge a Svolvær che è quasi l’ora di pranzo e, strano a dirsi, non

ha fame. Ha invece voglia di camminare. Lascia perciò la fedele Skoda

in un parcheggio e comincia a bighellonare senza meta. Trascorre il

pomeriggio gironzolando, nel tentativo di distogliere la mente da ogni

possibile pensiero, è nervoso.

Il mattino dopo si alza prestissimo, stanco di rigirarsi e di

aspettare l’arrivo del torpore profondo, che non s’è fatto vedere,

andando e venendo invece il sonno a strappi di un’ora. Avrebbe

dovuto dormire un po’ di più, starsene sotto le coperte almeno fino

alle nove, ma era eccitato all’idea di visitare l’arcipelago delle Lofoten,

il Regno di Circe, e le notti che precedono qualcosa d’importante sono

tutte uguali: nervi a fior di pelle, sogni travagliati e lenzuola a palla ai

piedi del letto.

Dopo la colazione scende al porto in cerca un bravo marinaio

disposto a portarlo in barca fino al Capo Lofotodden e un tipo che

sembra il boss del quartiere gli presenta Tor Nansen, pilota di un

moderno peschereccio con la prua arrotondata e la cabina dotata di

filodiffusione. Qualche soldo in più nel portafoglio fa sempre comodo,

dice il giovane marinaio, ma quanto pensa di stare in mare il

passeggero, tutto il giorno, mezza giornata, quanto, perché dal tempo

dipende il prezzo. Prando risponde che fino a mezzogiorno può

andare bene, considerando che sono le sette del mattino. Però non

vuole stare sempre in barca, rischiando magari d’intralciare l’attività

lavorativa del pescatore, si farà sbarcare in un posticino da

meditazione in cui fare merenda, pensare e camminare, e aspetterà

laggiù il ritorno del peschereccio. Affare fatto. Ritenendo di aver

raggiunto un buon accordo Tor Nansen finisce in fretta d’imbarcare il

suo carico, fa accomodare il passeggero a prua e leva l’ancora.

119

Prando prova sempre un impulso di eccitazione infantile quando

si molla l’ultima cima d’ormeggio e la barca si scosta vibrando dalla

banchina. Dal suo posto di osservazione vede Svolvær trasformarsi

nella miniatura di se stessa, con tutti i suoi tetti a punta e le minuscole

figure che si muovono sulla banchina. Strizzando più forte gli occhi

riesce persino a scorgere dietro gli alberi dritti dei pescherecci la

fedele Skoda parcheggiata nel piazzale di sosta. La mattina è

straordinariamente immobile sotto il cielo perlaceo. Giunta in mezzo

al porto la barca vira verso la diga foranea, ondeggiando rapidamente,

poi si dirige fuori, oltre il faro, dove il mare è seminato di isole e

isolette divise le une dalle altre da canali marini. Tor Nansen gli

spiega che in certe condizioni quei corridoi d’acqua diventano torrenti

burrascosi e creano enormi vortici, molto pericolosi, soprattutto in

prossimità della rupe minacciosa affacciata sullo stretto delimitato

verso sud da Mosken, l’isoletta a forma di cappello a tricorno dove si

forma il celeberrimo Maelstrom.

«Il gorgo di Cariddi!»

«Come?»

«No, niente, pensavo a una cosa che ho letto su un libro.»

Tor Nansen guarda Prando come si guarda un bambino appena

entrato in un negozio di giocattoli. «E’ la prima volta che viene da

queste parti?,» gli chiede.

«Diciamo di si, anche se negli ultimi mesi ho scaricato da google

tante di quelle immagini delle Lofoten da conoscere queste isole a

menadito.»

«Un arcipelago magnifico, vero?»

«Maestoso. Difficile pensare di essere duecento chilometri a nord

del Circolo Polare Artico, le spiagge bianche come il talco ricordano

piuttosto i Carabi e il mare cristallino fa pensare ai tropici.»

«E ancora non ha visto niente.»

«Dove ha intenzione di lasciarmi, in una delle spiagge di

Haukland? Mi piace quel posto.»

«Noooo, … niente roba per turisti, si vede a colpo d’occhio che lei

non è un visitatore qualsiasi, e io voglio offrirle un’escursione

indimenticabile.»

120

Prando non chiede di meglio, anche se non si spiega il motivo per

cui tutti quelli che incontra qui al nord pensino di lui che non è un

normale turista. Che lo circondi l’aura dell’alieno? Sarà perché i suoi

scatti non finiscono su facebook? O è per via del fatto che viaggia per

conto suo come un orso solitario? Ad ogni modo gli dà fastidio che

degli sconosciuti pensino di lui quello che non è.

Riporta lo sguardo sulle montagne inazzurrate dalla distanza, di

fianco alla barca, sulla tremula pianura delle acque. Adora l’acqua.

Tutti gli orsi adorano l’acqua. Soprattutto l'orso polare che proviene

dalla terra estrema degli déi, nuota simbolicamente nei fiumi infernali

del sottosuolo, comunica con gli spiriti, s’arrampica sugli alberi sino a

raggiungere le sfere celesti, muore in letargo durante l’inverno e

resuscita la primavera successiva. Nella sua complessità allegorica

l’orso bianco riassume ogni cosa: ha la calma, la gravità e la

profondità abissale della Terra, l'inquietudine dell'Aria e l’aggressività

del Fuoco.

«Le piace?,» gli chiede Tor Nansen.

«Moltissimo. Mi sembra di guardare la pagina di luglio del

calendario Save the Planet.» A dire la verità Prando preferirebbe stare

zitto, davanti a un simile spettacolo non servono parole, ma a quanto

pare il pescatore vuole guadagnarsi fino in fondo i soldi che è costato.

«Da quella parte c’è l’isola di Vestågøy, e quella tutta sassolini che

s’intravede a destra è la spiaggia di Eggum, abbastanza frequentata,

ma non affollata.»

«Mi sbarcherà laggiù?»

«No, gliel’ho detto, niente di turistico,» replica asciutto Tor

Nansen. «Là c’è l’isola di Austvågøya, con i picchi di Trolltindan

dominati dalla vetta del Fløya, che sovrasta Svolvær.»

Accompagnata dal suono virile delle parole del marinaio intanto

la barca scivola via veloce, tutta tesa, baldanzosa e leggera, come se da

un momento all’altro potesse davvero alzarsi in volo con un grande

balzo scricchiolante e, illuminata da sotto, fosse in grado di

trasformarsi in un baluginante vascello fantasma. O forse l’ha già fatto

e Prando non se n’è neppure accorto, è entrata in una dimensione

parallela imboccando una porta magica e adesso naviga in un mondo

sconosciuto con la volta del cielo sempre chiara, le distanze sognanti,

121

ampie e sicure, e quel senso d’immanenza, di cose che aspettano il

momento opportuno, in attesa di succedere.

Sogni? Fantasie? Mica tanto. La “teoria del multiverso” spiega che

il nostro mondo si trova in un numero infinito di universi contenuti in

mega-bolle che si originano una dall'altra. Il fatto che la nostra fisica,

compresa la quantistica, non riesca a spiegare esattamente come

funziona il meccanismo non vuol dire che spostarsi nello SPAZIO-

TEMPO tra dimensioni parallele all’interno di uno stesso universo sia

impossibile. Persino i presunti ufo che attraversano i nostri cieli

potrebbero provenire non da un altro pianeta ma da un'altra

dimensione, per questo li vediamo arrivare e scomparire subito dopo,

hanno trovato lo stargate che consente loro di venire da questa parte.

Forse anche gli esseri umani, quando muoiono, passano da una

all’altra di queste dimensioni parallele. Non ci sarebbe da stupirsi,

dopotutto una montagna di idee considerate pazze e stravaganti ieri

sono diventate reali oggi.

Estrae un fazzolettino dal pacchetto, gli lacrimano gli occhi, ma

non sta piangendo. Sono anni che si cura col collirio perché gli occhi

gli lacrimano di frequente, soprattutto la mattina, quando si sveglia.

La colpa è sua, ne è pienamente consapevole, perché si ostina a non

cambiare le lenti leggere degli occhiali che usa per leggere sostenendo

che ci si abitua a lenti sempre più spesse e si finisce per diventare

ciechi. «Navigare in mezzo a queste montagne mette soggezione,»

dice al suo timoniere dopo aver soffiato ben bene il naso. In realtà

avrebbe preferito continuare a far parlare la natura, che ha sempre

tante cose da suggerire, ma visto che il pilota è loquace non vuole

sembrare maleducato. Anche per questo motivo passa la maggior

parte del tempo per conto suo, per non dover fare niente per forza, è

una questione di libertà.

«A me queste montagne non fanno impressione, sarà perché ci

sono abituato,» dice con orgoglio il pescatore, che si comporta come

un vero lupo di mare. «Ecco la grotta che le dicevo,» indica col dito.

«SCILLA!» Il cuore di Prando accelera la corsa. Stando a quello

che ha studiato l’antro dell’atroce mostro dovrebbe trovarsi proprio qui.

Omero dice che lo si incontra arrivando da nord, lungo la costa, poco

prima di giungere nei pressi del gorgo di Cariddi.

122

«Vuole che mi avvicini?»

«Si, per favore.»

Mentre la barca scivola a pochi metri dalla riva Prando prova la

sensazione familiare di una possente aura occulta, oleosa, di un gusto

bluastro, tutto intorno allo scafo la magia pura si sparge leggera

nell’acqua marina.

Tor Nansen sembra impermeabile alla forza primordiale di

questo incanto. «L’ingresso è rivolto a nord,» spiega senza scomporsi,

«a una o due decine di metri sopra il livello del mare, e cioè verso

quello che a questa latitudine è il tramonto. Solo a mezzanotte il sole

si trova diritto davanti all’apertura e la grande cavità oscura

s’illumina completamente con dei colori mai visti.»

«C’è mai entrato?»

«Una volta, con mio padre, da ragazzo. Sembrava di stare in una

cattedrale gotica della preistoria. La pianta era una croce di enormi

dimensioni e la volta, segnata da croste magmatiche che proprio al

centro formavano una sorta di croce di Sant’Andrea, era alta decine di

metri.»

«Potrebbe essere stato un importante centro rituale legato al culto

del sole, forse correlato ad altri siti minori sparsi da qualche parte in

questo arcipelago che della magia sembra essere il ritratto.»

«Da noi si dice che un tempo la grotta era abitata da un terribile

mostro che divorava i naviganti,» continua il cicerone, «un orco

femmina con sei colli serpentini sormontati da altrettante teste

provviste di tre file di denti per bocca.»

«Si, conosco la storia. Solo una potente sciamana, detta la forzuta,

era in grado di dominare la bestia. Fu a lei che Odisseo si rivolse per

superare l’ostacolo incolume. Così, almeno, racconta Omero.»

«Riuscì a farcela?»

«Naturalmente.»

123

La navigazione continua attraverso stretti passaggi fra le isole

percorsi da forti correnti, a tratti la larghezza navigabile si riduce a

pochi metri e il percorso, specialmente lungo il versante occidentale,

diventa impegnativo. Tor Nansen sembra tuttavia sicuro del fatto suo

e Prando, che ha un carattere piuttosto ansioso, può godersi

l’escursione in tranquillità.

Relativamente parlando, perché sulla scia spumeggiante che si

srotola dietro di loro i suoi pensieri tornano inevitabilmente a lei. E’

qui, che abitava? Chi era in realtà? Una maga, una donna del suo

tempo, una dea piovuta da Orione, un essere misterioso venuto da

una dimensione parallela? Chi?

Persino nel nome Circe assomiglia in modo impressionante a

Ceridwen, la fattucchiera della mitologia celtica che distillava pozioni

magiche e trasformava gli esseri umani, compresa se stessa, in

animali. Kirke e Keridwenn. Le analogie sono così tante che potrebbe

trattarsi in realtà della stessa persona: Ceridwen diventerà la madre di

un personaggio eminente, Taliesin, mentre Circe partorirà il figlio di

Odisseo, Telegono, passato alla storia come assassino involontario del

padre. Prando si chiede se Omero non sia in realtà lo pseudonimo di

Telegono-Taliesin, un nome inventato di sana pianta, come

probabilmente é. Si volta verso Tor Nansen e, per un attimo, ha

persino l’impressione che il norvegese sia in grado di dare una

risposta alla sua domanda, e lo voglia fare. Poi però vede che quello

tace, allora lascia perdere. Tanto se anche si fosse degnato di parlare il

pescatore avrebbe detto solo qualche mezza verità, ormai li conosce i

lapponi, sa quanto siano gelosi dei loro segreti.

Torna al panorama, la vista è impagabile.

Del mare Prando apprezza la sua estraneità, il suo stare lì

indifferente. Si sente stordito quando guarda l’orizzonte stando in

mezzo al mare, gli sembra che non sia la barca, ma la massa d’acqua a

fluttuare. In balia delle onde tutto se ne va e tutto ritorna avvolto dai

suoni delle correnti e dagli zefiri pungenti. Persino le isole e i fiordi

visti dal mare hanno un aspetto diverso.

Guardando quelle insenature piene di storia Prando si chiede chi

furono i maestri di Kirke e Keridwenn e di tutte le altre donne che,

pur non avendo raggiunto la stessa popolarità, animano da millenni le

124

regioni artiche con i loro sortilegi. Lars Danielsson direbbe i

colonizzatori di Orione che ciclicamente visitano la Terra. Con poche

minime differenze Omero fa risalire i primi insegnamenti agli déi,

sottolineando nell’Odissea i rapporti di buon vicinato che si stabilirono

tra questi e gli umani via via che i contatti tra le due stirpi, divina e

terrena, si facevano più stretti. Alcinoo, che era un diretto discente di

Eurimedonte, il capo dei giganti superbi, si vantava di banchettare

insieme a loro sedendo dove loro sedevano, mentre Nausicaa era

orgogliosa di far sapere come la sua gente fosse a loro particolarmente

cara.

Loro, sempre loro. Non avendo argomenti per controbattere la

teoria fantascientifica del dottor Danielsson lui resta comunque della

sua idea: i cosiddetti déi non venivano propriamente da un altro

pianeta ma appartenevano alla razza dei giganti iperborei che in

ordine di tempo precedette quella degli uomini. Questi furono i

maestri di Kirke e di Keridwenn, nessun altro.

Come lo sa? Non lo sa, però gli sembra la spiegazione più logica.

Molti sono i parallelismi che potrebbe fare tra i numerosi personaggi

di statura gigantesca le cui gesta, presumibilmente tramandate dagli

Achei quando i rami della stirpe indoeuropea erano ancora indivisi,

sono narrate con minime variazioni sia dalla mitologia classica che da

quella celtica. La figura sciamanica di riferimento è Odino-Wotan e la

radice del suo nome già lo qualifica: wat sta infatti ad indicare la furia

divina, quella furia che venne facilmente, e abilmente, interpretata dai

colonizzatori cristiani come ferocia e spietatezza in combattimento da

parte dei guerrieri nordici. Mentre invece si trattava di un furore di

tutt’altro genere che indicava, si, l’essere fuori di sé, ma in una

dimensione sovrumana, in uno stato di grazia nel quale il combattente

era in grado di trasformarsi attingendo (da un universo parallelo?) ai

doni della saggezza, della virtù profetica e poetica. Per compiere gesta

memorabili il guerriero doveva padroneggiare l’Ond, la potente

energia cosmica che appartiene all’essenza dell’uomo, lo distingue e lo

qualifica, e per fare ciò doveva tornare alle ORIGINI, alla forza del

furore, al vigore dell’orso. Una scelta non priva di rischi, come rivela

la celebre storia dello sciamano Bordger di Way, che a furia di

assumere forma di orso un bel momento non riuscì più a tornare

125

indietro. Diventò definitivamente un orso, uccise il suo figlioletto nel

bosco e per punizione venne cacciato, fatto a pezzi e mangiato dagli

abitanti del villaggio.

Con gli occhi posati sulla pelle di metallo dell’oceano Prando si

chiede quanti tra gli orsi che oggi si aggirano in mezzo agli alberi

delle foreste nordiche sono stati un tempo uomini saggi e sapienti che

hanno dimenticato la loro saggezza e il loro nome nell’oblio del

mondo silvestre.

Se lo chiede perché sogna in gran segreto un futuro altrettanto

selvatico? O spera di riuscire un giorno a perdersi nei boschi, liberarsi

di ogni orpello e farsi crescere i peli a dismisura? Dice sul serio,

abituato com’è alle sue comodità?

Beh, anche se non sprizza testosterone da tutti i pori, non si può

mai sapere. Magari sotto l’apparenza dimessa dell’avvocato di

provincia si nasconde l’indole irriducibile di un autentico berserkir

capace di combattere con sopra la pelle nuda una camicia d’orso per

assorbire tutta la forza della belva.

Ha qualche difficoltà a vedersi nei panni del guerriero di Odino.

Non perché creda la cosa impossibile, ma perché non saprebbe dove

trovare la camicia d’orso. Su eBay non le vendono e le ultime in

circolazione pare siano state viste nel palazzo medioevale di qualche

eccentrico re tra un uovo di struzzo, un osso di gigante, un artiglio di

drago e un corno di liocorno. Quanto poi al fatto che dovrebbe gridare

e lanciarsi in danze frenetiche per entrare in uno stato simile alla

possessione, questo sarebbe l’ultimo dei problemi, l’esercizio fa

miracoli.

«Ecco, ci siamo.» Di colpo la voce profonda del norvegese lo

riporta in questo mondo. «La sbarcherò laggiù, ai piedi di quella cima

rocciosa. Non si annoierà tutta la mattina da solo? E’ sicuro di voler

rinunciare all’'emozione della pesca d'altura ai bordi del Maelstrom,

con la possibilità di avvistare balene? Davvero non vuole venire con

me?»

«No grazie, sto volentieri qualche ora per conto mio su una

piccola terra circondata dal mare. Mi dica dove mi trovo, è

sufficiente.»

126

«Siamo nella parte settentrionale dell’arcipelago, l’isola si chiama

Håja, un vero paradiso, per questo ce l’ho portata.»

« Aiaie!, dove non si capisce dov’è la tenebra e dov’è l’aurora.»

«Come dice, scusi?»

«No, niente. Facevo dei parallelismi tra questa e un’altra isola,

decisamente più famosa, che ...»

Si blocca. Un suono strano, sommesso e profondo, gli giunge

distintamente attraverso l’acqua. Come una musica … come un canto.

Tende l’orecchio.

Il pescatore però stronca all’istante ogni sua minima aspettativa.

«Non si faccia illusioni, non ci sono sirene da queste parti,» dice

stringendosi nelle spalle, «é l’isola che emette questo suono, da

qualche parte deve esserci un vecchio passaggio da cui la corrente fa

uscire l’aria.»

«Peccato, stavo già pregustando il fuori programma.»

Il rollio traballante che precede lo spegnimento del motore

necessario all’approdo blocca qualsiasi altra parola. Veloci ombre di

nuvole basse planano sulla superficie scintillante del mare. Sopra il

peschereccio il sole è un’ostia di oro bianco che tremolando scivola

pian piano al centro di quel vasto azzurro.

127

UN DONO DELL’ALTRO MONDO

Sbarca barcollando, con le ginocchia che escono di lato. E’ stato

seduto troppo a lungo, gambe e bacino si sono anchilosati. Saluta Tor

Nansen, che non tornerà prima di mezzogiorno, meglio così, pensa

pregustando il piacere di un’intera mattinata a disposizione per

gironzolare, guardare e fotografare, e fa qualche passo sulla sabbia.

Cammina per un po’ annusando l’odore di marcio delle alghe

spiaggiate prima di decidersi ad accorciare di altri due giri l’orlo dei

jeans e rimettere i piedi a mollo. Si spinge verso il largo, adesso il

mare gli arriva quasi alle ginocchia. Va avanti e indietro, terra e mare,

mare e terra, non riesce a stare fermo. C’è qualcosa nelle isole che lo

mette in agitazione. Il senso di circoscrizione, probabilmente, di essere

prigioniero di chissachì o chissacosa come dentro una fortezza. Dopo

circa mezz’ora di andirivieni si siede su uno scoglio largo e piatto e

manda un messaggio a Wilma.

“Mi trovo nelle terre che furono un tempo popolate dai giganti iperborei.

Sono nel cuore della nostra preistoria. Dovessi morire oggi, non avrei

rimpianti.”

La mattina è assolata e luminosa, l’acqua è meravigliosamente

chiara, può vedere giù fino in fondo, dove ci sono rocce verdi e banchi

di pesci guizzanti. Non sapendolo non si direbbe che i mari che

circondano Håja sono infidi, solcati da correnti nascoste e dai riflussi

di marea, così che le imbarcazioni virano per lo più al largo, con l’esito

felice che l’isola è risparmiata dalle gite domenicali e dal turismo

mordi e fuggi. Una manna dal cielo, per quanto lo riguarda.

Allontanarsi il più possibile dalla vita di tutti i giorni era in fondo ciò

che inizialmente aveva chiesto a questo viaggio, e non é un suo

problema se a Mestre qualche vecchio amico pensa che si è rintanato

128

nella solitudine delle foreste nordiche e dei mari artici per vivere in un

mondo di fantasia, un mondo di antichi ricordi e personaggi forse mai

esistiti. Le chiacchiere del prossimo non lo appassionano. Non più.

Guarda le onde infrangersi senza aggressività sugli scogli in un

silenzio irreale. Respira profondamente una ventina di volte,

ossigenandosi il sangue con tutta quella bellezza, mentre ombre di

nuvole gli corrono incontro sull’acqua, scuriscono l’aria intorno a lui

per un secondo e fuggono via.

Drrrr! … nell’euforia del momento ha dimenticato di spegnere

l’iPhone … drrrr! … Wilma non ha perso tempo, si è già documentata,

e vuole dire la sua.

“Ho cercato su wikipedia la voce “giganti”. Sembra che nelle ultime

zone vergini del pianeta continuino ad essere avvistati, segnalati e descritti,

residui deformi di quell’antica razza, e cioè uomini selvatici e yeti pelosi. Il

celebre alpinista Reinhold Messner, che alla ricerca dello yeti ha dedicato una

dozzina d’anni, ritiene che l’abominevole uomo alto più di due metri sia in

realtà un raro tipo di orso mai classificato zoologicamente a causa della sua

irreperibilità. Posso sapere cosa c’entrano orsi e giganti con la vita regolare di

un avvocato scapolo in pensione? E la Skoda Yeti sulla quale viaggi, ti è

capitata per caso o l’hai cercata? Comincio a pensare che la storia di Omero,

dell’Odissea, sia solo un pretesto. Sono tua sorella, a me puoi dirlo.”

Spegne il telefono e riprende a camminare spingendosi verso

l’interno. Trova la desolazione di quel posto congeniale. Si addice a un

aspirante orso, a un uomo che vuole disfarsi dell’impossibile, adesso

che si è liberato dei clienti, dei colleghi, delle segretarie e del lavoro,

perché non si può solo sopportare.

Cammina per oltre un chilometro e, quando arriva sul lato

sottovento dell’isola, la brezza cessa e lui crolla dolcemente per terra

in un silenzio vasto, piatto, mentre una scheggia di malinconia lo

raggiunge.

129

Non sa nemmeno lui perché, ma all’improvviso sente la

mancanza del cielo stellato, di una notte limpida e senza luna. Non lo

credeva possibile, però è successo: il buio gli manca. Neanche il primo

marito della Lagerkviest aveva tutti i torti, dopotutto.

Disteso a pancia all’aria con le mani sotto la nuca e gli occhi

chiusi comincia a sognare migliaia di stelle con varie sfumature di

luminosità e colore che splendono come diamanti incastonati in un

gigantesco diadema cosmico. Tra tutte spicca Orione, con le

brillantissime Rigel e Bertelgeuse, forse la costellazione più bella del

firmamento. Che davvero siano partiti da lassù i nostri creatori?

Esistono ancora, o sono morti? Continuano a monitorare i risultati dei

loro esperimenti, oppure ci ignorano, felici di essersi sbarazzati del

peso ingombrante della nostra presenza?

Chiude gli occhi e cambia registro. Adesso cerca di visualizzare le

magiche danze legate al mito degli amori di Orione con Aurora.

Omero descrive in modo sublime la festa rituale che dava inizio alla

bella stagione. Una cerimonia nata qui, nel regno artico degli déi,

quando la costellazione di Orione segnava l’equinozio di primavera e

il Dragone indicava il Polo Nord.

Non fa in tempo a chiedersi se, chissà, forse qualcuno da queste

parti celebra ancora questo rito, che sente dei rumori in lontananza.

Anzi, no, non dei rumori, sente il suono di un tamburo. COOOSA? Se

continua così, la sua immaginazione rischia di diventare un problema.

Eppure distingue i colpi perfettamente.

Apre gli occhi, si mette seduto e vede a pochi metri di distanza un

gruppo di danzatrici che avanza. Sette donne ruotano le gonne in una

danza sinuosa. I colori predominanti sono il nero, il bianco e il rosso. I

tre colori solari dell’alchimia, metafora del crogiolo dove gli déi, legati

all’arte della metallurgia, raccoglievano il prezioso metallo,

incandescente come un piccolo Sole, e poi lo lavoravano per

acquistare ricchezza e potere. All’improvviso s’irradia tutto attorno al

gruppo danzante l’eco di un coro lontano. Le danzatrici si levano il

mantello nero sotto il quale indossano un abito di luce bianca.

Distendono per terra alcune pelli di pecora tinte di rosso e ne

percorrono il perimetro per tre volte, a passi lenti e misurati, prima di

fermarsi su un lato, dove con un lieve inchino si prendono le mani in

130

segno di mutua sorellanza. Dopo un po’ si staccano, la mano destra

volta al cielo per ricevere il dono del Sole, la mano sinistra volta alla

Terra per dispensare al mondo l’energia piovuta dall’alto. Cominciano

a girare da destra a sinistra in un ampio vorticoso cerchio, che pian

piano si stringe. Aurora sta per congiungersi al Sole. Le ampie gonne

bianche alzate come tende pudiche proteggono la sacra unione da

occhi indiscreti mentre il ritmo dei tamburi aumenta ad una velocità

sempre più serrata. Le danzatrici si muovono freneticamente, mimano

con movimenti simbolici l’atto sessuale, il sesso diventa l’ingrediente

principale della danza, che sembra fatta per convincere gli organismi

del creato, qualunque essi siano, ad accoppiarsi e a riprodursi, per

prevenire l’estinzione.

Imbarazzato Prando distoglie lo sguardo stuzzicandosi l’orecchio

con un dito che guarda poi meditabondo. E’ sicuro che non sia uno

dei suoi soliti sogni ad occhi aperti? Strano a dirsi, ma si, è sicuro. E

allora, come mai adesso la spiaggia è deserta? Che domanda, perché le

danzatrici sono tornate nella dimensione parallela dalla quale erano

venute. La “teoria del multiverso” è sempre valida.

A catena gliene viene in mente un’altra, non meno interessante.

Si alza in piedi e tira forte un sasso contro lo scoglio più vicino.

L’intenzione è quella di produrre un gran rumore, di attirare

l’attenzione. Se quella che gli scienziati chiamano “teoria degli eventi

non locali” è vera, un evento causato o generato in un luogo

dell’esistenza può causare sincronicamente un altro evento di incerta

natura, qualità e magnitudine, in un altro luogo o tempo

dell’esistenza. In altre parole: il sasso che ha appena lanciato contro la

roccia potrebbe potenzialmente richiamare da un’altra dimensione,

dal passato o dal futuro, le sette danzatrici.

Aspetta qualche minuto, ma niente.

Una teoria è pur sempre una teoria. Fa qualche passo, si sistema

la visiera del berretto blu da marinaio bretone e cambia spalla alla

tracolla. E’ solo in quel luogo primordiale impregnato di magia, e

molto probabilmente lo è sempre stato, non ci sono danzatrici, né

tamburi, è bene che se ne faccia una ragione.

131

La brezza salmastra, il rumore delle onde, quella luce solare

vivida, abbacinante, che sembra incorporare tutto sommessamente in

qualcos’altro, rendono la delusione sopportabile.

Forse non è la teoria che non funziona, forse è colpa delle sue arti

magiche, decisamente imperfette. Dopotutto non è ancora un orso

matricolato, ma un semplice apprendista.

All’improvviso lo prende quella sensazione, come se qualcuno si

fosse messo a camminare in silenzio al suo fianco, qualcuno che è

un’altra persona, ovviamente, anche se comincia a risultargli persino

familiare. Cammina in punta di piedi e forse è sempre stata lì. Sente

chiaramente il tintinnio metallico dei suoi bracciali e pensa che, non

appena sarà di nuovo a casa, si farà vedere da un bravo psichiatra.

Lentamente una cantilena armoniosa e incessante comincia a

scandire i passi della visitatrice, la melodia è di tre note soltanto e la

PAROLA che viene ripetuta è così antica da avere perso ogni

significato, come un segnale stradale che rimane ancora in piedi

quando la strada è stata chiusa al traffico.

Vede la visitatrice chiaramente.

Ha gli occhi aperti ed è sicuro di stare bene.

Circe Testarossa si avvicina a lui cantando quell’unica PAROLA

vuota. E’ bellissima. Indossa una blusa beige a mezze maniche, con

una gonna dello stesso colore traforata fin sopra il ginocchio, e porta

stretta in vita una cintura in bronzo fissata davanti con una piastra

ornamentale rotonda a forma di sole raggiante. La sua figura è alta e

slanciata. Il viso è un ovale perfetto con una bella bocca piena, naso

dritto, occhi color foresta e ciglia lunghe. La pelle bianca è

leggermente abbronzata dal sole, che ha fatto anche emergere qualche

efelide. I capelli rossi come il fuoco sono adagiati in una rete fatta a

maglia. E’ la prima volta che Prando vede Circe con i capelli raccolti,

forse perché è la prima volta che la incontra in versione domestica.

L’ha incontrata praticamente dappertutto lungo questo suo viaggio in

Scandinavia, ma mai prima d’ora in casa sua.

Per il tempo di due pulsazioni, pensa di fuggire.

Per il tempo di una, decide di restare.

Sarà la solita apparizione, tra un istante lei svanirà senza lasciare

traccia, piantandolo in asso come tutte le altre volte, e lui rimarrà in

132

compagnia dei suoi dubbi. Chiude gli occhi, conta fino a cinque e poi

li riapre. C’è ancora, ed è incredibilmente vicina. Gli sorride, anche.

«Benvenuto, » dice.

Ha parlato, Circe ha parlato! E solo adesso lui capisce che nel suo

timbro di VOCE si nasconde il vero incantesimo. E’ una VOCE

sensoriale, che ha luce, vita, calore e persino spessore. E’ una VOCE

che ha splendore e lucentezza, anche se quella lucentezza contrasta

con lo sguardo obliquo dei suoi bellissimi occhi verdi.

Prando è lusingato: pensa che se quella donna stupenda gli ha

dato del tu forse è perché non lo vede così grasso e decrepito. Si

rinfranca all’improvviso. Molto, anzi. Si rinfranca enormemente. Già

solo per un simile incontro ravvicinato vale la pena di essere lì su

quella spiaggia dimenticata dagli uomini e da dio con il rischio,

magari, di venire trasformato in cinghiale.

«Tieni,» Circe gli porge una coppa d’oro con dentro qualcosa di

liquido, «festeggiamo questo incontro.»

Ecco, pensa Prando, ci siamo, tra un attimo sarò un essere ispido

che goffamente vaga grufolando sulla sabbia. Odisseo schivò il

pericolo di trasformarsi in porco grazie all’intervento del dio Hermes

che gli suggerì di correggere il vino offertogli dalla maga con il moly,

un impiastro probabilmente a base di una radice di artemisia. Lui

invece il moly non ce l’ha, nessuno può aiutarlo ormai, neanche

Wilma. Rassegnato al suo destino prende la coppa e ne beve il

contenuto tutto d’un fiato. Non è cattivo. Sa di olio di fegato di

merluzzo. Con un retrogusto vagamente amarognolo, come di cicoria

appena tagliata.

Circe si avvicina, ora gli sta proprio di fronte. E’ alta quanto lui,

un metro e ottantaquattro centimetri, però è larga la metà. L’aria

crepita con piccole esplosioni di carisma mentre si fissano. Gli butta

via la coppa e lo prende per mano. Vanno vicino a uno scoglio che

non sembra uno scoglio, ma più un confetto gigante, o un uovo di

drago, fosco come la cenere. Si fermano. Con pochi precisi gesti Circe

si toglie il mantello di lana rossa e lo apre per terra. Ci si siede sopra e

invita Prando a lasciarsi cadere. «Rilassati,» dice scompigliandogli i

quattro capelli che gli restano.

Si avvicina a lui sempre di più.

133

Lo accarezza.

Si amano.

Il culo bianco di Circe preme sul rosso del mantello. Mani

intrecciate. Gambe aperte. Caos d’indumenti maschili strappati di

dosso e gettati lontano. Con grande fracasso acqua marina che

sollevata attraverso le insenature si schianta con scoppi di spuma

simili a panna sulla pietra preistorica.

Prima di rialzarsi Circe prende con la sua mano sinistra la mano

destra di Prando e ci mette dentro un triskele d’ambra grande come

un’ostia. E’ così ben inciso che palpando le tre spirali che lo formano

quasi Prando percepisce il turbinare delle energie di passato e futuro

riuniti nel continuo infinito presente in cui tutto esiste

contemporaneamente.

«In cambio del tuo dono,» dice.

«?»

Circe gli prende la mano libera e l’appoggia delicatamente al suo

ventre piatto. Un sussulto. Prando capisce che qualcosa sta nascendo

là dentro, un qualcosa che senza volerlo ha contribuito a generare.

Non riesce a crederci: lui padre, per la prima volta padre, un padre di

sessant’anni, reso tale da una madre divina.

Dev’essere stato colto da un attacco di pazzia fulminante. Muove

la testa frastornato. Nello stesso istante il mare si solleva in un’onda

lunga, così che può vedere l’orlo del sole contro l’orlo dell’oceano: un

bagliore dorato e improvviso, davanti a lui, un bagliore accecante che

gli fa lacrimare gli occhi. Estrae un fazzolettino dal pacchetto di

plastica e si soffia il naso. Gli piacerebbe dire qualcosa d’importante,

ma non essendo ancora un vero orso, né uno sciamano, non conosce le

PAROLE che contano, quelle che hanno una cadenza grandiosa come

il ritmo delle maree o l’equilibrio dei giorni e delle notti in eterna

successione. Si trattiene, e alla fine non dice nulla.

Purtroppo mentre i suoi occhi si asciugano e ricominciano a

mettere a fuoco le immagini, si accorge di essere di nuovo solo in quel

luogo ai confini del mondo. E’ confuso. Il cervello gli vortica sotto

l’impeto della passione, un’unica cosa continua ad essere reale per lui,

e cioè la morbida carne ed il calore profumato di Circe, che nel

frattempo è sparita.

134

Solo il triskele gli è rimasto in mano.

Preso da una frenesia indescrivibile si mette a cercare il suo

amore, guarda dietro gli scogli, muovendosi velocemente,

disperatamente, cerca con gli occhi dappertutto. Finché un suono

vagamente famigliare non si diffonde nell’aria, come un rintocco

sordo e ritmato. Subito si dirige verso quel segnale, e vede che

proviene da un palazzo di pietra nascosto dalle fronde, si tratta del

battito del pettine che va su e giù sulla tela che adesso Circe sta

tessendo. Ma come fa per avvicinarsi al palazzo ai rumori domestici si

mescolano note selvagge, che producono un effetto perturbante. Da

quell’angolo ombroso, misto al suono di casa, si sentono adesso

arrivare strane voci e clangori agghiaccianti: ruggiti di leoni esasperati

che si ribellano alle catene, rumori di cinghiali che squassano le

gabbie, ululati di lupi enormi dai denti aguzzi, belve inferocite in cui

la dea ha rinchiuso per sempre uomini ingenui, mutandoli dal loro

primitivo aspetto.

Prando procede coraggiosamente, non teme nulla, non gl’importa

cosa potrebbe succedergli. Si blocca solo quando alla repellente

ambiguità dell’impasto sonoro si mescola un dolce canto femminile.

Pochi istanti, poi il suono della tessitura con i gemiti e le grida degli

animali detenuti gradualmente si dissolvono, sopraffatti dal rumore

delle foglie al vento, sconfitti infine da quell’antica PAROLA vuota.

Ora c’è solo un bosco davanti ai suoi occhi arrossati.

Un minuto dopo, neanche più quello.

135

DE PROFUNDIS

I gabbiani strillano come fanno di solito e il sole scalda, non

avendo altra alternativa, la sabbia marina. Prando ha la sensazione

che tanto più rimarrà seduto per terra, tanto più troverà una

spiegazione. Ma non è così. Come se ne rende conto comincia a sudare

freddo. Ha PAURA di buttare via gli ultimi anni della sua vita dietro

ai sogni. PAURA di stare male per amore, a sessant’anni suonati, la

mente di nuovo distratta da una donna, mentre il tempo stringe e i

suoi pensieri dovrebbero essere rivolti altrove. Ha PAURA persino di

alzare lo sguardo da terra. Sa che se vedesse il Volto della sua PAURA

riflesso nell’acqua potrebbe perdersi per sempre.

Con gli occhi socchiusi guarda il sole. Adesso ricorda la storia di

Re Adils, della dinastia svedese degli Yngling, i Mutanti che prima

della battaglia mangiavano il cuore degli orsi per trasformarsi essi

stessi in orsi e così fare a pezzi i nemici. Adils nacque quando il

sangue degli déi si stava ormai esaurendo nelle vene degli Yngling.

Insicuro del suo potere un giorno entrò nel buio boschetto dov’era il

tumulo di suo padre per vedere come se la cavava con quella pratica.

Prima salì sul tumulo e pregò Odino di aiutarlo a preservare il sangue

della Mutazione nella sua famiglia. Poi ridiscese, si fece largo tra i

rami e andò a piazzarsi tra due frassini, dove cominciò ad ansimare

come un orso. Piegò a tenaglia la mano sinistra e gli spuntarono gli

artigli, piegò la mano destra e gli crebbe una chiazza di pelo bruno sul

dorso, ma quando gonfiò il petto per farlo diventare il petto di un orso

non accadde nulla. Per quanti sforzi facesse, percuotendosi il torace

fino a coprirlo di lividi, non riuscì a diventare un orso. Sfogò quindi la

sua rabbia lanciando una raffica di imprecazioni. Il nostro sangue è stato

indebolito dalle donne!, lo sentivano gli alberi gridare sgomento. Ma

inesorabilmente gli artigli tornarono ad essere flaccide dita. Andò

allora a consultare i lapponi, che in cambio di bestiame e oro rosso gli

136

offrirono latte di renna e buoni consigli. Non devi nutrirti a casaccio

del cuore di orso, gli dissero i lapponi, mangialo invece quando il sole

sgocciola nelle paludi come sangue e il vento odora di ghiaccio. E

ricorda di tenere sempre a portata di mano una Camicia d’Orso per

poterla indossare ogniqualvolta ne avrai bisogno. Re Adils fece come

gli avevano detto e per almeno due secoli i suoi discendenti andarono

avanti a trasformarsi con facilità. Intanto la voce circolava e la pratica

dei Re Orso cominciava a diventare comune tra i vichinghi di alto

lignaggio. La stoffa fatta di peli aggrovigliati di queste camicie però

puzzava di grasso e di sangue e alle donne non piaceva. I più giovani

cominciarono così a snobbarla, diminuì gradualmente la ferocia in

battaglia degli Yngling, e giunse il giorno in cui l’ultima generazione

di quelli che un tempo erano stati i Mutanti fu costretta a lasciare le

bianche foreste di betulla, teatro della furia primordiale degli avi, per

scappare in Norvegia. Questo è quello che succede agli uomini

quando danno retta alle donne.

Prando si getta con tutta la sua dignità in avanti. Alzandosi in

piedi tiene il braccio che regge il dono risolutamente lungo il fianco.

Chiude le dita intorno al triskele e lo fa scivolare in tasca, prima di

muovere il primo passo. Camminare contribuisce a rilassarlo e il

flusso di sangue e di adrenalina che scorre nel suo corpo agisce come

un tonico, ma la mente lo tormenta come una scimmia impazzita.

Accelera il passo cercando di non prestarle ascolto, eppure

presagendo, cercando di non pensare all’infelice momento, non

troppo lontano, in cui dovrà darsi delle spiegazioni logiche.

In cerca di conforto infila una mano nella tracolla, prende

l’iPhone con l’intenzione di scrivere a Wilma e vede che sono le dodici

in punto, mezzogiorno. Ancora non è riuscito a completare il suo

messaggio che parte la prima vibrazione, è Anja Lagerkviest. Di solito

l’istinto gli invia un allarme rosso quando vede quel nome, ma in

questo momento il buon senso gli dice: premi il bottone e parla con

lei, una voce umana servirà a sviare dal collasso il tuo sistema

nervoso.

«Complimenti avvocato Prandolin, alla fine ce l’ha fatta a

raggiungere le Lofoten.»

«Scusi il tono dimesso, ma ho un forte mal di testa.»

137

«Si prenda un’aspirina,» gli consiglia premurosa, «o qualche

goccia di novalgina,» sembra sinceramente preoccupata. Ma quale

donna non dà questa impressione, quando parla con un uomo.

«Purtroppo ho lasciato tutto in albergo,» confessa lui desolato,

«passerà, mi auguro.»

«Ha per caso mangiato le polpette di carne in salsa marrone?

Sono piuttosto pesanti da digerire.»

«Non tocco cibo da ieri sera, forse ho bevuto qualcosa che mi ha

fatto male.»

«Occhio ai beveroni!, per varcare i confini della percezione

qualcuno da quelle parti assume ancora come principio attivo

l’amanita muscaria.»

«Non si preoccupi, sono culturalmente cresciuto a scuola dallo

stregone sul cammino del cuore indicato da don Juan nei libri di

Castaneda, l’uso di sostanze allucinogene mi è familiare, in un certo

senso, e non è neanche molto lontano dal mio modo d’intendere la

vita.»

«Ammette quindi di avere assunto droga.»

«Non ho detto questo.»

«Confesso la mia sorpresa, avvocato, posso sapere almeno cos’ha

bevuto, chi le ha servito da bere, e dove. Potrei consigliarla, se fosse

più preciso.»

A Prando nel frattempo è completamente passata la voglia di

parlare. Vorrebbe troncare quel terzo grado, tornare a camminare

sulla spiaggia, inspirare a pieni polmoni l’aria marina e cercare di

mettere in fila le idee, ma non vuole essere scortese con la Lagerkviest,

che invece marcia come un soldato.

«Se non è amanita, potrebbe essere oppio tebano.»

«Intende dire la droga nominata esplicitamente nella ricetta della

pomata delle streghe fornita da Gerolamo Cardano?»

«Proprio quella. Nel profondo nord circola ancora, per quanto ne

so.»

«E degli amuleti sciamanici cosa mi dice, anche quelli sono ancora

in uso da queste parti?»

«Perché me lo chiede?» La voce della Lagerkviest cala di un tono,

mostrando l’ombra di un’emozione.

138

«Era una semplice curiosità, niente di più. Ora vorrà scusarmi,

ma vedo in lontananza il mio barcaiolo di ritorno dalla pesca

d’altura.»

La Lagerkviest non se la beve. «Ho l’impressione che voglia

scaricarmi, avvocato Prandolin. Posso sapere perché mi ha fatto quella

domanda? Cosa le importa degli amuleti sciamanici? Qualcuno le ha

dato qualcosa?»

«Come ben sa lo sciamanesimo artico m’interessa in quanto tale, e

si dà il caso che i talismani rientrino in questa sfera d’indagine.»

«Potrei darle delle dritte, se si confidasse.»

«Cosa vorrebbe che le dicessi?»

«Che amuleto le hanno dato?»

«Nessuno, come glielo devo dire.»

Solo l’idea lo fa ghignare tra i denti: vuoi vedere che la

Lagerkviest è in cerca del tocco magico e spera in gran segreto che

l’avvocato di provincia trovi il bene prezioso per poi portarglielo via

con chissà quale imbroglio. E la bionda rifatta, c’entra anche lei in

questa storia? E il baffone che sa di fumo? Tutti in gara per il primo

premio? Eppure da eruditi quali sono i professori dovrebbero sapere

che quando un tesoro viene cercato da qualcuno a cui esso, per una

ragione qualsiasi, non è destinato, l’oro si trasforma in un pericolo

mortale.

Ma di quale tesoro parla?

E il predestinato, chi sarebbe, lui?

Non gli risulta di essere un mago, né uno sciamano. Nessuno

oggi diventa più mago con quattro paroline studiate, come invece

accadeva nell’Età dell’Oro, quando la magia allo stato naturale era

largamente accessibile e i soggetti predisposti se ne avvalsero nella

guerra degli umani contro gli dèi. Grandi e pirotecniche furono le

battaglie che ne seguirono, il sole veleggiava nel cielo, i mari

ribollivano mentre uragani spaventosi devastavano la Terra. Alla fine

gli uomini-maghi ebbero la meglio, gli déi sopravvissuti all’atroce

conflitto si ritirarono nella dimensione misteriosa dalla quale erano

venuti e l’antica libera magia si disperse pian piano sulla Terra.

In realtà sta divagando per non affrontare il problema.

139

Precauzione inutile perché gira e rigira continua a tornare là come

i salmoni: lei, sempre lei, dove sarà, come starà, lo penserà? Magari in

questo momento la sta sfiorando una vaga nostalgia del caro vecchio

Prando. Magari ha capito di avere incontrato uno degli ultimi

gentiluomini rimasti sulla faccia della terra, massiccio e caldo come un

orso, rassicurante, proprio simpatico, e al tempo stesso estremamente

sensibile. E semplice, anche. Magari desidera rivederlo.

Magari. Magari. Magari.

Su una spiaggia deserta i magari ti divorano. Fino a che punto è

lecito dare carta bianca ai propri sentimenti? O meglio: perché lui è

sempre così molle quando c'é di mezzo il cuore? Se solo avesse fatto

progressi apprezzabili sulla strada dell’orso, invece di dispiacersi

adesso potrebbe reagire con virile determinazione e fare quello che

avrebbe fatto al posto suo un vero uomo nordico dell’Età del Bronzo,

che neanche conosceva il vocabolo AMORE, nell’accezione corrente

del termine. A quei tempi le persone si relazionavano con l’altro sesso

solo quando era in gioco il potere, piccolo o grande che fosse, che da

sempre su questo pianeta muove, e sovente volge in dramma, le

alterne vicende degli uomini. Persino le ragioni del contendere, sotto

le mura di Troia, pur identificandosi con il rapimento di Elena,

andavano al di là dell’attrazione fatale per la bella fedifraga. E la vera

posta in palio nella drammatica partita fra Odisseo e i pretendenti di

Penelope era il géras, la dignità regale connessa al matrimonio, non la

paziente regina. C’erano una volta, come ci sono oggi, memorabili

Momenti d’Amore, ma ciò che davvero contava era il momento, non il

seguito. Un po’ come nei film sentimentali hollywoodiani: l’ultima

scena mostra i protagonisti felici e contenti, il dopo non frega niente a

nessuno.

Si dirige lemme lemme verso la riva dove Tor Nansen arriverà tra

poco. Ancora il peschereccio non si vede all’orizzonte, ma non tarderà

di molto. Inganna il tempo dell’attesa meditando. Spera in questo

modo di vuotare la mente del turbinio di pensieri che nel suo stato

attuale non riesce a riordinare. Sceglie la posizione del semiloto con la

gamba sinistra sopra e una respirazione rettangolare, per meglio

canalizzare l’energia lungo la spina dorsale, condizione ideale per

liberare la mente e favorire il vuoto.

140

Per un po’ perde la percezione del corpo e del tempo.

Poi la terra sotto di lui si mette a vibrare, lentamente, come se

stesse rilasciando una frequenza subsonica. Forse un messaggio. Da

lontano giunge alle sue orecchie una specie di canto. Spalanca gli

occhi. Un’ombra scivola dietro lo scoglio più alto lesta come un filo di

fumo portato dal vento. Come la vede sospende immediatamente la

concentrazione, l’ansia si legge sul suo volto spaventato, facendogli

curvare le larghe spalle. E’ in piedi adesso, i suoi occhi stanno

monitorando ogni anfratto dello spazio visivo. La spiaggia però è

deserta. Un puntino nero all’orizzonte annuncia Tor Nansen che viene

dal mare. Tra loro c’è il contatto degli occhi e della carne, mentre il

pescatore tende il braccio e gli prende la mano in una stretta virile per

aiutarlo a salire in barca.

«Com’è andata, le è piaciuta l’isola?»

«Moltissimo,» risponde Prando, chiudendosi subito dopo in un

mutismo pensieroso.

Odisseo non giunge a Circe completamente inatteso. Molto prima

d’incrociare l’eroe per i sentieri di Aiaie, Hermes preannuncia alla dea

che, un giorno, un mortale l’avrebbe raggiunta e conquistata. In buona

sostanza fu lui, Hermes, il noto maneggione e messaggero degli déi, il

vero regista dell’incontro. E nel suo caso, il faccendiere non potrebbe

essere Tor Nansen? Con quale intento lo ha sbarcato ad Håja? Chi è, in

realtà, il pescatore? Marinaio e sciamano sono in fondo due facce della

stessa medaglia, entrambi operano con i poteri del cielo e del mare,

cavalcano le creste alzate dalla luna e usano i grandi venti per

avvicinare ciò che è remoto. E lui, qual’è il suo ruolo in questa storia?

Quello del pesce che ha abboccato all’amo, chiaro.

Seduto a poppa guarda malinconico la spiaggia di Håja

allontanarsi. Si sente come le mogli e madri dei marinai del passato

che nei loro abiti scuri stavano là immobili sulla riva con gli occhi

puntati sui loro uomini che andavano per mare, non agitavano le

braccia, non gridano, ma si limitavano a guardare la barca che

rimpiccioliva e rimpiccioliva, vista da terra, via via che la distanza

aumentava.

Nel suo caso è l’isola che sta diventando un puntino.

Lui, invece, uno straccio.

141

Lasciare questo arcipelago con i suoi misteri magici intrecciati

saldamente al glorioso passato gli costa una cifra. Sta male. E’ triste da

morire. Forse dovrebbe trovare il coraggio di fermare la barca e

chiedere a Tor Nansen di tornare indietro. Potrebbe prendere in

considerazione l’ipotesi di vivere qui, e starci fino alla fine. In fondo

chi glielo fa fare di tornare a casa in un mondo dilaniato dalla

violenza, per farsi spolpare dal fisco, comprare prodotti che non gli

servono, beccarsi un bel cancro a causa dell’inquinamento atmosferico

e ascoltare le stupidaggini urlate dai media. Qui potrebbe stare bene,

il ricordo del lavoro portato avanti come avvocato nella provincia

veneziana verrebbe dimenticato e lui potrebbe iniziare la sua nuova

vita sentendosi a pieno titolo un discendente dell’eroe di Itaca.

E’ alterato emotivamente, se ne rende conto.

Il rimpianto si trasforma presto in risentimento.

Ora ce l’ha con se stesso, ce l’ha con Tor Nansen, ce l’ha con il

mondo intero. Soprattutto ce l’ha con Circe che senza una

giustificazione evidente lo ha usato, raggirato, sedotto e abbandonato.

Perché, cos’altro si aspettava? Rimugina sulla domanda senza

davvero voler trovare la risposta, saggiandola con circospezione, con

le punte più nude del pensiero. E’ tutto così torbido e confuso.

Eppure non riesce a liberarsi della convinzione che lei rappresenti

una sorta di ultima spiaggia, non soltanto per quanto riguarda la sfera

affettiva, ma per … beh! …, non osa dirlo apertamente ma dentro di

lui è così che la pensa. A sessant’anni il problema della morte non è

secondario, e la scelta di essersi negato in passato la soddisfazione di

fare dei figli oggi gli pesa. La sua mano destra non dimenticherà mai

quel brivido, la sensazione di paternità che ha provato mentre il

palmo ascoltava discreto ciò che avveniva nella pancia di Circe. E

com’era dolce lo sguardo verdemare di lei mentre lui cercava di

mantenere il contatto, le dita affusolate affabilmente intrecciate alle

sue.

No, non se n'é dimenticato.

Sta parlando di un fantasma, lo sa bene.

Si chiede perché una cosa tanto assurda è toccata proprio a lui.

Non si sente diverso dagli altri, ma evidentemente deve esserlo.

Qualche piccolo particolare genetico. Un cromosoma che solo il suo

142

corpo grande e grosso possiede. Spesso ha notato che quando i fiori

recisi in un vaso cominciano ad afflosciarsi ce n’è uno che per un po’

resta dritto. Il superstite di solito si gira dalla parte opposta, distoglie

lo sguardo dai suoi simili a capo chino che un tempo gli facevano

compagnia, assorbe acqua e luce finché può, anche se sente che le

sottili foglie inferiori stanno perdendo vigore. Non sa spiegare

neanche lui ciò che gli è successo. Non c’è un motivo valido. Non c’è

una ragione. Non è fiorito dopo. Non era il più sano. Ma adesso che è

rimasto solo è diventato il più bello.

E’ una fortuna, o una disgrazia? Non gli risulta che ci sia un

premio finale per il fecondatore di Circe. Né una pena da scontare, in

realtà. Solo un mistero senza soluzione, con l’aggiunta di un uomo che

ormai nella sua sofferenza c’è dentro fino al collo e non si vergogna di

ammetterlo.

Bene, bravo, complimenti. Voleva diventare un orso, il campione

mondiale della mascolinità, e alla fine i suoi sforzi si sono persi tra

mille spifferi, facendolo precipitare in un attimo. Un uomo dell’Età del

Bronzo non ci sarebbe mai cascato. Un orso, neanche a parlarne. Le

tradizioni europee sono piene delle storie di accoppiamenti tra la bella

e la bestia, ma nessun cacciatore è mai diventato schiavo della sua

preda, o viceversa. Memorabile è il caso di Cefalo, l’aitante cacciatore

che non essendo riuscito ad avere un figlio dalla moglie, desideroso di

avere una discendenza, si rivolse all’oracolo di Delfi che gli consigliò

di unirsi alla prima creatura di genere femminile che avesse incontrato

durante il viaggio di ritorno. Cefalo incontrò un’orsa, si unì a lei e gli

nacque un figlio, Arcisio, il quale avrà tra i suoi discendenti

nientepopòdimenoché il prode Odisseo. L’uomo nuovo. L’avvenire

dell’umanità.

Prando invece un tempo non ce l’ha, non appartiene al passato e

nemmeno al presente, figuriamoci al futuro. Non può contare su

eredità genetiche di natura ursina, né su alleati divini. E’ solo un

PICCOLO uomo con il cuore TENERO e la mente FRAGILE.

Stringe i pugni fino a fermare il sangue mentre la barca vira a

destra. Durante la manovra intravede su un promontorio un

viandante solitario che pare aver già fatto un lungo viaggio. La sua

fisionomia non sembra umana e sta filando verso l’entroterra. Prando

143

guarda così fisso che i suoi occhi cominciano a lacrimare. Prende un

fazzolettino e si soffia il naso. Alla fine non può esimersi dal

concludere che no, il viandante solitario non può essere un orso, non

ci sono orsi su queste isole. Però potrebbe essere il suo lato ursino che

finalmente si mostra, lo stesso che poco fa su Håja ha preso forma e si

è realizzato. Così come la spiegazione potrebbe essere ancora più

semplice. William Blake, uno che di visioni se ne intendeva, dice che

ogni uomo porta nel cuore il mare il cielo la terra, e tutto ciò che

guarda, benché gli sembri esterno, si trova dentro di lui.

«Ha fatto delle belle foto?,» chiede Tor Nansen.

Ah già, il marinaio, Prando se n’era quasi dimenticato. «Si, grazie,

se mi dà il suo indirizzo di posta elettronica gliene spedisco a casa

qualcuna.»

«Mi dispiace, non ho un computer. E nemmeno un telefono

cellulare. Ma vivo bene lo stesso.»

«Non ne dubito.»

«Dove va adesso, nord o sud?»

«Sud.»

Un attimo prima che Tor Nansen glielo chiedesse Prando pensava

di andare verso nord, in Carelia, perché non gli sembrava giusto avere

saltato quella tappa del viaggio, ma all’improvviso non ne ha più

voglia. Non farà come Odisseo che saggiamente istruito da Circe

lasciò Håja abbandonandosi alla corrente del golfo, risalì fino in cima

alla costa norvegese, piegò verso est addentrandosi nel Mar Bianco e

poi raggiunse lungo plaghe deserte e sempre più inospitali le case

putrescenti dell’Ade. O, come direbbe Lars Danielsson, le sale

operatorie sotterranee dei colonizzatori venuti da Orione. Sfortunato

com’è non uscirebbe vivo da un incontro ravvicinato con uno zombi

assetato di sangue se, per ipotesi, dovesse trovare per davvero la fossa

che introduce nel Regno dei Morti. La sua Circe non gli ha fornito

alcuna indicazione, anzi, se n’è andata senza neanche salutare.

Sta diventando patetico. Ma cosa ci può fare se dappertutto vede

il suo sorriso, sente la sua voce, il suo profumo. Odia se stesso per la

situazione in cui è sprofondato: un no, grazie, un rifiuto cortese, senza

offesa, sarebbe stato sufficiente. Non doveva cedere, ha sbagliato, si

144

metterebbe volentieri a urlare per sfogarsi, se potesse. Ma dal posto di

comando Tor Nansen lo guarda di sottecchi e non lo perde d’occhio.

Non gli resta che rassegnarsi. Rannicchiato nel suo angolo si sente

come una grossa, matura, cipolla rossa di Tropea, di cui i pensieri

sono la sbucciatura. Una volta eliminate tutte le illusioni che

avvolgono il cuore, viene fuori la verità. E della cipolla sbucciata il suo

succo irritante e salutare. In entrambi i casi, c’é da piangere.

Sbarca dal peschereccio e ringrazia il suo nocchiero. Stancamente

raggiunge il piazzale dove ha parcheggiato la Skoda e sale in

macchina con l’intenzione di raggiungere l’albergo che ha prenotato.

Strada facendo però cambia idea, andrà prima a fare un giro dei

dintorni, ha bisogno di distrarsi per scaricare la tensione. E’ deluso e

demoralizzato. Nello stereo c’è Iconoclast dei Symphony X, un album

scontato, a tratti noioso, che ascolta fino in fondo lo stesso, quasi

dovesse espiare una giusta pena. Quando è stanco di guidare si ferma

nel silenzio. Forse è troppo solo, forse dovrebbe stare di più in mezzo

alla gente, parlare con qualcuno che non sia un fantasma. Si ferma sul

bordo della carreggiata e manda un messaggioa Wilma.

“Ho appena lasciato il regno incantato della maga Circe: posto stupendo,

natura primordiale, paesaggi da urlo. Dovresti venirci, almeno una volta.

Non si può dire di conoscere il mondo senza aver visitato le Lofoten.”

In realtà avrebbe voluto confidarsi, chiedere consiglio. Cos’è

meglio, accettare un amore o rifiutare se stesso, che si traduce nel non

poter accettare un amore? Il parere di una donna è prezioso quando ci

sono di mezzo i sentimenti. Ma ormai si è spinto troppo avanti, e là

dove sta andando neanche Wilma può più seguirlo.

Spegne l’iPhone e lo posa sul cruscotto. Appoggia la testa al

sedile. Chiude gli occhi e cerca di non pensare. I pensieri non rendono

l’uomo meno mortale, i pensieri servono solo a complicarti la vita. Il

vuoto dura meno di un minuto. Riapre gli occhi. Ha il terrore sia di

ricordare troppo bene quanto è accaduto, sia di farsi venire un infarto

subito dopo averlo ricordato. Il rimorso per essere caduto di nuovo

nella trappola dell’amore lo induce a domandarsi se non sia meglio

voltare pagina all’istante e metterci una pietra sopra, prima che sia

145

troppo tardi. Il fatto che l’oggetto della sua disperazione sia molto

probabilmente un fantasma non cambia la sostanza dei fatti. Allunga

il braccio e sostituisce il cd. Il sound elegante di Steve Lukather lo

aiuta a darsi un contegno, per un po’. Finché il bisogno di un tonico

ad elevato tasso alcolico non si fa sentire, allora pesca dal contenitore

trasparente l’ultimo degli Whitesnake, che parte sparato con un

poderoso riff iniziale. Ma sulle note di Fare Thee Well il suo stato

emotivo crolla di nuovo.

Il pezzo è troppo carico.

O lui troppo stupido.

Se è vero che una rock band è come una bottiglia d’annata, nel

senso che invecchiando la sostanza migliora – guarda i Muse, che

hanno incominciato come un gruppetto commerciale qualsiasi e

adesso fanno quello che fanno - altrettanto non si può dire degli esseri

umani, che col passare degli anni diventano corti di cervello. Testardi

come muli. Ottusi.

Diciamocelo: ha fallito.

E’ un uomo fallito del suo tempo.

O forse solo un uomo di un tempo fallito.

Anche ammesso che l’incontro e l’amplesso siano il frutto della

sua fantasia e che in realtà Circe su quella spiaggia con lui non ci sia

mai stata, ha sbagliato lo stesso. Prova ne è il fatto che da tre ore non

fa che pensare a lei, mentre la sua materia grigia dovrebbe essere

impiegata altrove, adoperata a studiare Omero e riflettere sulla magia

dei suoi luoghi, quando non proficuamente utilizzata per ritrovare LA

STRADA DELL’ORSO.

A momenti, se n’era dimenticato. Colpa del mal di testa, che non

gli dà tregua. Quando poi sbirciando nello specchietto retrovisore

intravede il suo sguardo comatoso e stupido, l’angoscia aumenta di

colpo e il dolore cresce in proporzione. Come ha potuto in poche ore

ridursi in questo stato? Che orrore. Dopo anni di astinenza fisica e

sentimentale aveva completamente dimenticato quanto si può

arrivare a stare male per amore.

Una vibrazione. Proviene dal cruscotto. Afferra l’iPhone con un

gesto rabbioso: è la volta buona che manda la Lagerkviest a farsi

fottere, ne ha piene le scatole dei suoi buoni consigli. No, è Wilma.

146

«Ho trovato su Google la ricetta di una specialità che viene fatta risalire

ai tempi della maga Circe. Bisogna mischiare nel vino del cacio, della farina

d’orzo e del miele. Con questa miscela accompagnata a qualche parolina

magica le sapienti donne del nord fregavano i cocomeri che venivano dal sud.

Occhi aperti, fratellone, non farti cogliere impreparato.»

147

L’ORSO RITROVATO

Dopo alcune curve mozzafiato non si vede che tundra, e ancora

tundra, pochi modesti villaggi, qualche accampamento lappone, fiordi

spogli e scure montagne brulle. Quassù il sole di mezzanotte durerà

fino al ventidue luglio, il che significa che ci sono ancora dieci giorni

buoni di luce piena.

Nel pomeriggio Prando arriva a Tromsø, la cosiddetta Parigi del

Nord, costruita quasi interamente su un’isola a trecentocinquanta

chilometri sopra il Circolo Polare Artico. L’albergo che gli hanno

consigliato è piccolo, sei stanze con bagno, ma molto ordinato. La

camera profuma di fresco e appare rifatta da poco, tutto è in ordine.

Sul comodino c’è un omaggio un po’ kitsch della direzione: un

portachiavi a forma di boccale di birra.

Un’istigazione al bere per turisti depressi?

Ha poco da lamentarsi, dopotutto se l’è cercata. Invece di seguire

l’esempio del suo guru che, comprensibilmente attratto dalle belle

donne, le rapisce e le feconda senza preamboli, né conseguenze

sentimentali, c’è cascato come un pollo. Fin dall’inizio di questo

viaggio non ha fatto altro che alimentare fantasia e illusioni, e alla fine

s’è innamorato di un fantasma.

Si chiede quali alternative aveva. Può un uomo civilizzato

diventare un orso? L’orso corre velocemente sulle morene, sulle

distese di ghiaccio, e afferra i pesci a mani nude nei fiumi tumultuosi

che attraversano la foresta. E’ libero. L’uomo civilizzato invece no.

L’orso dorme all’aperto sia d’estate che d’inverno senza ammalarsi

mai. E’ sano. L’uomo civilizzato, invecchiando, sempre più gracile.

L’orso ha il compito di mantenere l'armonia tra i vari elementi della

natura. L’uomo civilizzato, cosa ne sa della natura?

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Si siede in poltrona, vicino al telefono c’è un biglietto-invito per il

“Rorbua Pub”, chiude alle dieci di sera, molto bene, un po’ di musica

dal vivo servirà a tirarlo su di morale. Guarda verso l’esterno, la

finestra dà sul retro della strada e la vista non è un granché. Niente

luce limpida, niente volo dei gabbiani, niente sana gente artica a

spasso, solo aria che sa di pesce.

Il pub è un locale caratteristico costruito con tavolati grezzi che

evocano la casa di un pescatore. La band di stasera ha un sound tra

l’industrial metal e il noise, roba pesante. Prando ordina una Ringnes

al banco. Non passano tre minuti che viene abbordato dal solito

avventore in cerca di compagnia.

O, almeno, crede.

Finché non si gira.

«Cos’è quella faccia? Pensava di essere l’unico pensionato in giro

per il mondo?» E’ il falegname in pensione Erkki Hannikainen che

parla, proprio lui, si, quello del traghetto per Helsinki.

Prando è di sasso. «Non ci credo,» dice.

Il finlandese si fa una sonora risata, prima di portare la caraffa

alla bocca e bere un sorso. «Scommetto che é qui per la Trollstigen,

tutti i meridionali che vengono al nord fanno quella strada, e hanno

ragione, perché le montagne che la circondano reggono

tranquillamente il confronto con le vostre Alpi e Pirenei.»

«Spiacente di deluderla, sono diretto a Tosenfjorden.»

«Pescavo anch’io, da giovane, adesso invece preferisco venire al

pub.» Lo dice senza manifestare alcun senso di colpa. «Fossi in lei,

comunque, una puntatina alla Trollstigen me la farei. Quel passo è

uno dei percorsi più suggestivi all'interno dei fiordi norvegesi. Dal

Kongen e dal Bispen si gode di panorami di straordinaria bellezza.»

«Non ne dubito, ma è a Tosenfjorden che sono diretto.»

«Se non è un pescatore, che cavolo ci va a fare laggiù?»

«A visitare le terre dei ciclopi.»

«La sa una cosa?»

«Dica.»

«Trovo inquietante l’accanimento con cui certuni hanno

intrapreso ad esumare le vestigia di epoche passate e di civiltà

149

scomparse delle quali, a mio parere, sono assolutamente incapaci di

comprendere qualcosa.»

«Non c’è nessuna esumazione in corso, la mia è una semplice

visita turistica.»

«Dicono tutti così. E’ una moda pericolosa, mi creda, non si sa

mai cosa può saltar fuori dal passato.»

«Non so di cosa parla.»

«Imprevedibili sono le influenze sottili legate alle antiche vestigia

che vengono messe per così dire in libertà senza che coloro che

indagano ne abbiano il minimo sospetto.»

«Per quale motivo dovrei aver paura di cose morte e sepolte?»

«Ma sa che lei è un bel tipo.» Poi, rivolto al barista: «Due

Ringnes.» E ancora, verso Prando: «Offro io questo giro, il prossimo lo

paga lei.»

«Sbaglio, o sta cercando di spaventarmi?»

«Semmai di metterla in guardia. Comunque, se non le spiace,

preferirei cambiare discorso.»

«Perché?»

«Per scaramanzia. Ha mai letto la bibbia?»

«Solo la Genesi, per il suo interesse storico.»

«Ricorda il capitolo VI?»

«Molto bene. Parla della razza che ci ha preceduto, la razza dei

giganti, che poi furono i nostri maestri. Dopo aver imparato da loro

tutte le arti ce ne siamo sbarazzati in modo cruento, bestie ignoranti

che non siamo altro.»

«E se fossero stati i giganti ad andarsene, a ritirarsi?»

«La Genesi non lo dice.»

«La bibbia è uno dei libri di storia più letti e più antichi del

mondo, ma non è l’unico. »

«Meno male che ha bevuto solo due birre.»

«E lei, allora, che pensa di andare a Tosenfjorden a fare un’allegra

scampagnata?»

«Mica è proibito calpestare la terra che calpestarono i giganti, e

dopo di loro i ciclopi, respirare la loro stessa aria, vedere i luoghi che

scelsero per vivere e scattare qualche foto.»

«Fa male a prenderla sottogamba, fossi in lei ci starei attento.»

150

«Non crederà che possa saltare fuori all’improvviso l’orco delle

montagne?»

«Alla sua,» dice il falegname in pensione Erkki Hannikainen

alzando il boccale pieno di liquido ambrato e spumeggiante. «Non

esiti a chiamarmi, in caso di bisogno.» Apre il portafoglio e gli dà il

suo biglietto da visita, che in realtà è il biglietto da visita di una

compagnia assicurativa, ma con scritto dietro il suo numero di

cellulare.

Seguendolo con gli occhi dal vetro dipinto a mano della vetrina

Prando lo osserva mentre sale in macchina con l’agilità di un gatto,

nonostante l’età. Non sente sbattere la portiera a causa della musica

sparata dai Marshall come mille cannoni, però vede l’Audi nera

allontanarsi a sobbalzi, portandosi via il conducente nella sua nuvola

profetica. Come scompare, ordina un’altra Ringnes e sposta

l’attenzione alla musica, che poi era quello che inizialmente aveva

intenzione di fare.

Rientra in albergo poco prima della mezzanotte in uno stato di

leggera ebbrezza e provvisoria tranquillità. Le parole sibilline di Erkki

Hannikainen non lo hanno scosso più di tanto e la presenza dell’ex

falegname a Tromsø gli è sembrata piuttosto normale. Un caso,

probabilmente. Si spoglia le scarpe e si sdraia sul letto. In mano

stringe l’inseparabile triskele d’ambra, che ormai gli è diventato

necessario come il tasbeeh per il buon mussulmano. Non vuole

pensare a lei, non adesso, non riuscirebbe più a dormire, si concentra

invece sul POTERE DEL SORRISO, e sorride, sorride senza sosta,

allargando la bocca in un sorriso sempre più ampio; ed è il più bel

sorriso che abbia mai fatto in vita sua. In fondo non ha di che

lamentarsi, la salute è discreta, il patrimonio anche, non è più giovane,

ma neanche vecchio, e per di più sta facendo un viaggio fantastico che

lo porta a muoversi in una geografia del mistero in cui si respira l’aria

che ispirò le antiche gesta dei personaggi favolosi che hanno

infiammato la sua fantasia. Sarebbe un ingrato irriconoscente se si

lamentasse.

Mettendosi seduto per bere un sorso d’acqua, e cacciare giù la

mezza pillola serale per la pressione, nota che sopra il comodino c’è il

paesaggio dipinto a tempera di un fiordo. Si alza per esaminare da

151

vicino il quadro e, osservando l’atmosfera che gli sembra di poter

cogliere in quel livido mare, vede una macchia scura dietro il

promontorio che somiglia alla prua di una nave. La nave di Odisseo

che torna a casa? Il viaggio dell’eroe sta per concludersi? E il suo?

Odisseo dopo l’esperienza con Circe non sembra più così

penosamente e disperatamente disorientato, le forze centrifughe che

lo tengono lontano da Itaca, da se stesso, saranno ancora attive per un

po’, con la differenza che adesso l’eroe sa cosa fare.

Lentamente immaginazione e memoria lo trasportano al limitare

di un bosco del Trentino un giorno d’estate della fine degli Anni

Sessanta. Mentre si trovava in quel luogo silenzioso e senza vento, le

foglie degli alberi e dei cespugli cominciarono a fremere

all’improvviso sollevando da terra inspiegabili mulinelli e nella sua

mente questioni inattese. Ricorda che quel giorno era ancora molto

giovane, non aveva mai avuto una ragazza, né sapeva cosa avrebbe

fatto da grande. Lo avrebbe molto sorpreso sapere che quarant’anni

più tardi avrebbe desiderato tornare alla situazione di quel giorno,

cioè, avrebbe desiderato trovarsi di nuovo davanti al bosco eccitato

dalla sua presenza senza aver fatto ancora nulla di speciale nella vita.

Inaspettatamente lo prende una profonda nostalgia di casa. I suoi

pensieri vengono all’improvviso catturati da quel piccolo elastico del

subconscio capace di dare la carica al salmone e spingerlo a tremila

miglia di distanza attraverso strani mari. Ma i salmoni ce l’hanno poi

l’inconscio? O quella roba lì è appannaggio dei falliti che sanno solo

leggere libri scritti da altri e poi si riempiono la testa di grilli parlanti?

Prima di coricarsi scrive una mail a Wilma.

“Ricordi quando da ragazzi andavamo in Trentino con papà e mamma?

Era divertente. Quante lunghe camminate in montagna e in mezzo ai boschi

abbiamo fatto insieme, poi durante la sosta ci sedevamo in disparte lontani

l’uno dall’altra a meditare in solitudine. Non ho mai capito chi cerca nel

chiasso ciò che solo nel silenzio si può trovare.”

Mentre appoggia l’iPhone sul comodino considera che tutta

l’infelicità degli uomini deriva da una sola causa: dal non sapersene

stare per conto proprio. Si spoglia le scarpe e si prepara per il sonno.

152

Un buon sonno. Sceglie il pigiama azzurro a quadretti cachi, che è

quello che preferisce. Guardandosi di profilo allo specchio ha persino

l’impressione di essere leggermente dimagrito. Petto in fuori e pancia

in dentro, fa un giro per la stanza come se la vedesse in quell’istante

per la prima volta. Sorride, non smette di sorridere, e di colpo tutto gli

sembra nuovo: i passi che fa, le assi di legno che calpesta, l’aria che

respira. Sistemandosi l’elastico dei calzoni pensa che se l’umanità

sapesse SORRIDERE, se sapesse vedere più spesso il mondo in modo

diverso, se capisse che all’improvviso ogni cosa può essere nuova

intorno ad essa, non avrebbe nemmeno più bisogno di star dietro al

pensiero della morte.

Un argomento che lo sfiora di rado. L’orso non pensa alla morte.

L’orso è il più antico simbolo della resurrezione che si conosca. La

femmina resuscita i suoi piccoli dopo averli partoriti prematuramente

semplicemente leccandoli. Dà loro forma per farli diventare

pienamente orsi nella consapevolezza che neanche l’orso nasce orso, lo

diventa. Doppio bip. Wilma è ancora sveglia.

“Pensa per te, invece di badare alla massa chiassosa. Gli sciocchi

intanto, lo dice Platone, non wikipedia, non tendono al bello e al bene e alla

beatitudine spirituale perché sono soddisfatti di se stessi. E non vi tendono

neppure i saggi, perché tutte queste cose le possiedono già. Ma solo quelli che

stanno a metà strada fra gli intelligenti e gli scemi, vale a dire tu ed io e gli

altri che vedi appostati in qualche angolo sperduto a contemplare in estasi il

paesaggio.”

Si mette sotto le coperte e punta la sveglia alle sette. Una

precauzione inutile, perché il giorno seguente si alza con quaranta

minuti di anticipo. Non sa spiegarsene il motivo, ma è in gran forma.

Sente che il Prando di stamattina non è il Prando che ieri sera è andato

a letto. Questo Prando è un uomo nuovo. Inaspettatamente il mondo

intorno a lui è diventato più virile, più pericoloso, pervaso di una

risata segreta: il SUO mondo, e lui in esso. Questa folgore improvvisa,

inattesa, non è esattamente quel che s’aspettava da una bella dormita,

però è successo. E lui non può fare a meno di sentire che in qualche

153

modo qualcosa come una benedizione gli è stata concessa, anche se

non immagina da chi. Una benedizione di provenienza ignota.

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UN INCONTRO COLOSSALE

Dopo un sonno profondo e privo di sogni Prando riparte

l’indomani alla volta di Tosenfjorden in compagnia di What if …, dei

sempreverdi Mr.Big, un album non nuovo nei contenuti ma

assolutamente godibile nell’insieme. Nel fiordo la stagione della pesca

al salmone è in pieno svolgimento, mentre quella dell’aringa partirà

solo a fine agosto, il che significa che a pranzo avrà l’imbarazzo della

scelta: merluzzo, scorfano, pesce gatto o halibut?

Un problema decisamente succulento. Alla fine decide per il suo

piatto preferito: stoccafisso cotto al vapore in acqua di verbena con

contorno di germogli di spinaci crudi e sedano rapa stufato con le

patate in casseruola. Da bere sceglie una Lettøl, perché durante il

giorno preferisce stare su una birra leggera, e per finire si concede una

porzione abbondante di rommergrøt con zucchero e cannella. Una

passeggiata in riva al mare risolve infine il problema della digestione.

Cammina con l’immancabile triskele d’ambra in mano. Tenerlo

fra le dita, stringerlo e portarlo ogni tanto alle labbra, accarezzarne

con il mento i contorni arrotondati, sono gesti ormai familiari. Quando

tornerà a Mestre si farà fare dall’orafo una montatura leggera da

appendere alla catenina d’oro che porta al collo, così non rischierà di

perdere il suo tesoro, non se lo perdonerebbe mai.

Avendo modo di osservare da vicino la notevole apertura del

fiordo, che garantisce il continuo ricambio di acqua e ossigeno, capisce

nel frattempo come mai la pesca da queste parti va a gonfie vele.

Pensa alle scorpacciate di pesce che di sicuro si saranno fatti i ciclopi

dell’Età del Bronzo e li immagina alle prese con reti da posta e a

strascico mentre seminudi torreggiano su questa insenatura bella e

selvaggia dove oggi tanti anonimi pescatori vengono a pescare,

rilassare i nervi e riposare, mentre ai loro piedi l’acqua mormora

intorno a pietre che un tempo ha coperto e celato alla vista.

155

Un impellente bisogno di concretezza lo spinge verso una vecchia

betulla. Abbraccia l’albero e sente la corteccia rugosa grattarlo sul

collo. Si stacca dall’albero ringraziandolo. Gli ha dato di volta il

cervello, per caso? Alza una mano e si guarda le dita. Pare che siano

del numero giusto. E’ già qualcosa.

Si lascia cadere ai piedi della vecchia betulla. Secondo un’antica

credenza gli alberi emanano l’alito delle persone che vivono nelle città

sepolte e sedersi alla loro ombra è un buon sistema per ricevere

consigli, pensare ... e mangiare.

Tira fuori dalla tracolla una mela, già che c’è anche un pacchetto

di crackers senza glutine. Taglia il frutto automaticamente, quasi

senza guardare, e spunta inattesa dal torsolo la stella a cinque punte, il

simbolo dei Grandi Maghi e dei Grandi Sapienti. Sono segni che non

si possono ignorare. Rinvia l’attacco ai crackers e comincia a fissare il

pentagramma. La linea centrale percorsa fino al suo termine sbocca di

nuovo nell’inizio. Segue due o tre volte con l’indice il percorso delle

cinque dimensioni, che vanno dal visibile all’invisibile, dal mondo

conosciuto all’immensità dell’universo, passando per l’aldilà.

Immagina Circe fuori dal suo palazzo in meditazione sotto un melo

selvatico mentre ripete con lui quel gesto e, lancinante, lo colpisce il

dolore dell’assenza di chi aveva ritenuto che lo seguisse, di chi tanto

proteggeva questo suo viaggio con amorevole interesse, e adesso non

c’è più. Perché, perché se n’è andata? Inutile chiederselo, all’interno

della tanto famosa nullità dell’uomo in generale e della non meno

nota nullità del suo transito terrestre, esistono momenti privilegiati

che bisogna saper cogliere e sfruttare, solo questo. Torna alla sua mela

ripetendo con l’indice teso il percorso delle cinque dimensioni. Lo fa

senza un motivo preciso, tanto per tenere il dito impegnato, e già che

c’è esprime anche un desiderio.

No, non quel desiderio. Sebbene sia tentato, non lo nega, perché in

fondo è un sentimentale, tutto ciò che serve a un individuo per

innamorarsi a prima vista è una fervida immaginazione, e purtroppo

lui ce l’ha. Il desiderio che vuole esprimere adesso ha piuttosto a che

fare con lo stato di orsaggine che spera ancora di conquistare. Gli ci

vuole una spinta per recuperare un po’ di fiducia in se stesso. Per uno

come lui che attraverso la preistoria artica sta cercando di resuscitare

156

il proprio innato istinto maschile un incontro con un ciclope sarebbe il

massimo. Un vero antropofago avido di cervella umane, alto tre metri,

con due occhioni sporgenti, grandi e tondi in mezzo alla fronte.

Impossibile?

Beh, la fantasia non è proibita.

Neanche il gioco, fino a prova contraria.

Completamente immerso nel silenzio della natura si alza in piedi,

lascia cadere a terra lo smanicato beige di goretex e in maniche di

camicia comincia a muoversi in mezzo agli alberi come l’uomo dei

boschi, il selvatico della zona, lo yeti del nord, l’orso lappone, l’ultimo

vero maschio sopravvissuto sulla faccia della terra. Prova anche

l’andatura, procede con piglio virile camminando con passi sicuri e

misurati. Lo stile l’ha copiato dal film King Kong. Come amico degli

orsi si sente vicino anche agli scimmioni. In genere si pensa che

l’abominevole uomo cammini in modo goffo, ma è un’opinione

sbagliata, il vero selvatico cammina nel bosco leggero come una

piuma, vuole passare inosservato. A casa sua Prando ha poco spazio.

Non ce la fa a provare bene le andature. Nel giardino di Wilma non

può, perché i nipoti lo scoprirebbero e le foto dei suoi esperimenti

privati finirebbero in pasto al popolo di facebook. In questo bosco

remoto invece è libero di fare quello che gli pare. Con le facce

potrebbe esercitarsi dovunque, è vero, ma sa che non lo farebbe lo

stesso, mentre qui non ci sono ostacoli.

In questo posto sperduto sente di potersi calare finalmente nella

sua selvaticità. Da quando ha imboccato la strada dell’orso è la prima

volta che prova questa sensazione, e non vuole farsela scappare. Negli

ultimi giorni ha immagazzinato inconsciamente un repertorio di

espressioni e movimenti abominevoli che adesso sfoggia apertamente

e si propone di perfezionare. Sempre che qualche cercatore di funghi

non lo interrompa sul più bello. Improbabile. Non a quest’ora del

pomeriggio e in una vegetazione tanto fitta e perduta. Si concentra al

massimo. Pensa al selvatico e comincia a parlare al suo posto. La voce

profonda è fondamentale. Si sta calando seriamente nella parte,

quando vede per terra delle ORME. Piedi giganteschi. Non fa in

tempo a chinarsi per osservare da vicino le impronte, che l’iPhone

comincia a vibrare.

157

«Ah, buongiorno signora Lagerkviest. No, non si preoccupi, stavo

esaminando alcune orme che ho trovato per terra, portano in

direzione sud.»

«Orme, che genere di orme?»

«Orme enormi.»

«Non mi dica che ha trovato il rifugio segreto della bestia nera.»

Finge di scherzare, ma il tono della sua voce tradisce un leggero

turbamento.

«Quale bestia nera?»

«Il ciclope irsuto e gigantesco descritto dai racconti leggendari. Il

saggio del bosco che conosce i ritmi ed i segreti della natura. E’ sicuro

che si tratti di orme?»

«Direi proprio di si.» In cuor suo Prando lo spera. «Le confesso

che un incontro ravvicinato col sapiente del bosco non mi

dispiacerebbe.»

«Non ha paura?»

«E di che, non sarebbe la prima volta che un uomo di città batte

con l’astuzia l’uomo dei boschi.»

«Come si chiamava quel poeta italiano che mise in versi la

massima nordica di non dare confidenza agli sconosciuti?»

«Antonio Porta: mi chiamo Nessuno, abito non so dove e dico

non so che cosa.»

«Ecco, bravo, segua il suo esempio. Qui al nord usiamo questa

precauzione da sempre, da Odisseo che gabba Polifemo alla vicenda

dell’orco Stalo alle prese con un lappone furbo e coraggioso, la storia

ci è testimone. Quindi, nel caso dovesse incontrare l’abominevole

uomo dei boschi, si guardi bene dal pronun …»

Bzzzz … clac. Fine della conversazione. Evidentemente in quel

posto isolato il cellulare non riceve il segnale. Meglio così. Continua a

seguire le orme gigantesche, arrivando in una valle fitta di alberi. La

lunga navata frondosa fa risuonare i suoi passi da un lato all’altro del

bosco, rimandandoglieli indietro moltiplicati. Quando è stanco di

camminare si siede su una roccia e cerca di orientarsi. Probabilmente,

si è perso. Amen. Sebbene irritante, la cosa non lo preoccupa.

158

Il bosco si presenta molto interessante e magari alberga elfi e

folletti, forse gnomi. In effetti, già due volte gli è parso di scorgere

strane facce verdi sbirciarlo dai rami. Ha sempre desiderato incontrare

un elfo. Anche se in questo momento il suo massimo desiderio è

quello d’incontrare un ciclope. Ma si accontenta anche di un elfo. O di

un folletto alato. La sua Wendy. Gli manca solo quella.

Portando alla bocca una deliziosa pralina ripiena di crema al

cioccolato riflette sulla proverbiale riservatezza nordica.

Probabilmente l’abitudine di non presentarsi subito agli estranei, o,

comunque, non prima che l’altro abbia concretamente dimostrato le

sue buone intenzioni, affonda le sue radici in convinzioni

antichissime. Per ritrovarne le origini bisogna andare indietro fino

all’epoca primordiale in cui lo sciamano, che per primo ebbe con i

nomi un rapporto speciale, usava le parole per guarire colpire

combattere e trasformare. Conoscere i nomi era il suo mestiere, la sua

arte. Per intessere la magia di una cosa, o di una persona, egli doveva

prima di tutto scoprire il vero nome di quella cosa, o di quella

persona. La sua vita era interamente dedicata a scoprire i nomi delle

cose, e a scoprire i modi di scoprire quei nomi, e le azioni magiche che

faceva erano imperniate sulla conoscenza, la riscoperta e il ricordo, di

quell’antica e vera lingua della creazione. Gli altri della tribù lo

imitavano perché all’interno di ogni villaggio era lo sciamano che

dettava legge. Persino i cacciatori si preparavano alla chetichella per la

caccia dell’orso ritenendo che la belva fosse in grado di comprendere

il linguaggio degli uomini e, di conseguenza, indovinare le loro

intenzioni. Nei giorni che precedevano la spedizione evitavano di

pronunciare il nome della vittima, o di fare allusioni in grado di

insospettirla, e davano l’impressione di disinteressarsi della caccia,

mentre invece facevano preparativi in gran segreto. Soprattutto non si

sbottonavano con le loro donne, incapaci di tenere la lingua a freno. Il

minimo pettegolezzo sarebbe bastato a mandare tutto all’aria.

Chissà come ci rimarrebbero gli antenati se vedessero la brutta

fine che hanno fatto le parole, oggi decimate dalla scure delle

immagini. I nomi invece registrano ultimamente una leggera

inversione di tendenza. Ancora non si è arrivati al punto di credere

che la rivelazione del nome possa esporre il suo proprietario a

159

possibili aggressioni per mezzo di arti magiche da parte di eventuali

nemici che ne venissero a conoscenza, però dilaga a livello planetario

la moda del nickname, dell’avatar. Evidentemente una forma di

autodifesa, di protezione, un modo per stare lontano dai pericoli,

perché non si sa mai.

In compagnia dei suoi pensieri Prando s’inoltra sempre più

profondamente nella vegetazione. Tutto è bello lì nel bosco, tra i

lustrini bianchi e viola. Toccandogli appena il viso le foglie più

giovani, pettegole, sussurrano circolarmente come segreti mentre i

rami proiettano ombre sulle ombre, e parallelamente aumenta in lui la

consapevolezza di quella foresta antica, mai sfiorata da mani umane,

sembrerebbe, con esemplari di alberi che sembrano usciti da una

macchina del tempo. In tutti i suoi viaggi non ha mai visto forme

simili, enormi, grezze, decisamente preistoriche. Manca Yggdrasil, il

sempre verde Frassino-Mondo, incoronato di rugiada, con accanto il

Pozzo del Fato, e poi c’è tutto.

A un certo punto entra in una valle così stretta e profonda che la

luce del giorno riesce a stento a penetrare. Una valle fredda e

selvaggia, del tipo dove uno s’aspetterebbe d’incontrare …

«Vieni avanti, non avere paura.» Il metallo pesante della voce

ricorda il rumore di passi di scarponi chiodati sull’asfalto.

«Oh, ehm, bé,» farfuglia Prando, «i ciclopi sono pericolosi.»

«Balle,» dice l’essere gigantesco, coperto soltanto da una pelle in

vita, barbuto e capelluto. Brandisce anche un albero sradicato,

probabilmente una giovane betulla.

«Siamo sicuri?»

«Ma certo. Come ti chiami?»

Silenzio di tomba.

«Vedo che ve la tramandate di padre in figlio, questa paura

infantile.» Fa una pausa per lisciarsi la barba. «Vorrà dire che ti

chiamerò Trippone.»

«E io, Barbanera. Se posso.»

«Fai pure.»

«Se non ce l’hai con me, perché adesso mi sbarri la strada?»

«Mi hai chiamato tu.»

«Io?»

160

«Nella tua mente, mi hai chiamato nella tua mente.»

«Vuoi dire che io ti ho pensato, ed eccoti qui?»

«Si.»

«E’ magia?»

«Chiamala come vuoi.»

«Ma ho pensato a draghi, elfi, giganti e gnomi tutta la vita, e non

è mai successo niente.»

«Forse non l’hai mai fatto nel posto giusto. In certe zone del

mondo la frontiera tra il pensiero e la realtà è un po’ diversa dal

normale.»

«E come è successo?»

«Io so soltanto che ero nella mia caverna e mi stavo facendo gli

affari miei, poi tu mi hai pensato ed eccomi qui. Quindi, naturalmente,

cercherò di essere gentile con te.»

«Sei rimasto l’ultimo della tua razza, o ce ne sono altri come te in

questi boschi?»

«Calma, Trippone, non ho detto che sono al tuo servizio. Fino a

prova contraria sei entrato tu nel mio territorio, tocca a me fare la

prima domanda.»

«Cosa vuoi sapere?»

«Sei un eroe o uno sciamano? Non che cambi di molto, perché i

primi sono una manica di esaltati egocentrici assetati di fama e

ricchezza, incapaci di camminare e parlare allo stesso tempo, mentre i

secondi sono una congrega di pazzi che borbottano parole

incomprensibili e fanno gesti astrusi, però sarei curioso di saperlo.»

«Né l’uno, né l’altro.»

«Impossibile. Queste due categorie di umani sono le uniche in

grado di mettersi in contatto con le entità che abitano altre

dimensioni. Tu di quale corporazione fai parte?»

«Nessuna, te l’ho detto. Sono uno qualunque. Un uomo in

viaggio liberato dal nome, dalla firma e dal passaporto come mezzo di

verifica.»

«Ho capito, sei uno di quelli.»

«Quali?»

«I soliti che dicono di amare la natura e bazzicano nei boschi in

cerca di non sanno bene neanche loro cosa. Confesso che quando vi

161

vedo mi domando ogni volta come ha potuto la vostra specie ridursi

in questo stato.»

«Sapessi quante volte me lo chiedo anch'io.»

«Dovete essere il frutto di un’involuzione, perché una volta

eravate tutti molto più alti e muscolosi, più possenti di qualunque

decatleta moderno, vivevate più a lungo e non vi ammalavate mai.

Mentre oggi siete fragili come un tappeto di foglie secche e avete

paura del nulla.»

«L’impatto dell’agricoltura e l’aumento della densità della

popolazione purtroppo hanno avuto su di noi un effetto devastante.

E’ stato come se a un certo punto qualcuno avesse deciso che per fare

il contadino era necessaria una struttura più agile e leggera. Il risultato

è davanti ai tuoi occhi. »

«Che poi il corpo è il problema minore.»

«Era inevitabile che calando le dimensioni fisiche calassero anche

quelle cerebrali. Negli ultimi diecimila anni abbiamo perso una

porzione di materia grigia pari a una pallina da tennis, dipende dal

fatto che il cervello assorbe circa un quarto dell’energia prodotta dal

corpo.»

«Ma se passate il vostro tempo mangiando!»

«Il cibo che ingeriamo però ha poca sostanza. Facciamo il pieno di

calorie ma ci mancano i micronutrienti, le vitamine e i minerali,

decisivi per la crescita.»

«Poveracci, eppure non mi fate pena.»

«Perché?»

«Guardati intorno, Trippone: ti sembra che l’ambiente sia rimasto

quello di prima?»

«Si, lo ammetto, è colpa nostra. Adesso però siamo pentiti.»

«Ah, davvero.»

«Cerca di capire, lavoriamo tutto il giorno come macchine, non

abbiamo più tempo per niente, neanche per pensare.»

«Tu però il tempo ce l’hai, altrimenti non te ne andresti a zonzo

per i boschi libero di farti gli affaracci tuoi.»

«Proprio questo è il problema: quando la libertà arriva, il tempo

stringe.»

162

«Pfff!!» Sbuffa il ciclope. «Creature imperfette regolarmente

perdute nei loro labirinti mentali. Stupido io che spreco il mio tempo a

parlare con te,» conclude indignato. Guarda Prando un’ultima volta

dall’alto in basso, gli gira la schiena e se ne torna a passi da gigante

nella dimensione misteriosa da cui è sbucato.

Solo soletto in mezzo al bosco Prando tira fuori dalla tasca il suo

AMULETO e lo guarda timoroso. Stenta a credere che il triskele

d’ambra sia davvero un oggetto, come la lampada di Aladino, capace

di esaudire i desideri di chi lo possiede, ma deve essere questa l’unica

spiegazione plausibile, non ne vede altre.

Un momento: stava strofinando la mela, quando ha espresso il

suo desiderio, non il triskele.

L’amuleto di Circe però ce l’ha sempre in mano e spesso senza

volerlo lo sfrega con le dita, per abitudine. Potrebbe non essersi

accorto di quello che faceva, mentre lo faceva, così come un attimo

prima dell’apparizione potrebbe non aver notato il fumo azzurro, che

pure ci sarà stato.

Su una cosa non ha dubbi: il ciclope era reale, così com’era reale il

suo disgusto nei confronti degli uomini, esseri intrinsecamente

obsoleti, insufficienti e poco pratici, con quelle due gambette storte, le

mani maldestre e il cervello costantemente pronto a rigettare nel

mondo le energie terrificanti che lo abitano.

Ma se il ciclope era reale, cosa avviene adesso?

Prando si deve aspettare l’inevitabile colpo di ritorno?

Barbanera ha detto che se ne stava nella sua caverna a farsi gli

affaracci suoi prima che lui lo chiamasse. Quindi, se è vero che

quando si effettua qualcosa contro la volontà di qualcuno può

accadere che le energie che vengono liberate si rivoltino contro chi le

ha scatenate, per lui a questo punto le cose si mettono male. Erkki

Hannikainen lo aveva avvertito, le antiche vestigia non vanno

riesumate, non si sa mai cosa può saltar fuori dal passato, lui però ha

pensato bene di non dargli retta.

Sarà utile che tagli la corda, e alla svelta, deve raggiungere la

strada statale e farsi riportare dalla fedele Skoda nel mondo … reale?

Non è questo il momento di porsi domande. Mette una mano

sulla roccia umida sforzandosi di orientarsi. Dunque, vediamo, è

163

arrivato dall’altopiano, quindi per tornare indietro dovrebbe scendere

attraverso quella cupa foresta di pini laggiù, dietro quegli enormi

massi frastagliati. La cosa non lo attira per niente, ma non ha scelta.

Avanza prevenuto, vede pericoli nascosti negli angoli più bui,

trasale ad ogni fruscio e nota movimenti sospetti dappertutto. Alcuni

alberi sono così grandi da fare paura, sembrano antichi come il mondo

e devono averne viste di tutti i colori nel corso della loro esistenza.

Prando ci passa sotto in punta di piedi, spera che questi giganti verdi

siano tolleranti nei confronti del genere umano, confida nella loro

comprensione, nella loro saggezza. Nessuno su questa terra ha più

buon senso degli alberi, che non potendo muoversi hanno una

quantità infinita di tempo per pensare. Cosa che fanno in modi

sconosciuti agli umani, i quali invece non stanno mai fermi

abbastanza a lungo in un posto da prendersi il tempo necessario per

fare un ragionamento come si deve.

Abbassa delicatamente un vecchio ramo e lo guarda da vicino.

Avrà fatto le giuste deduzioni? Gli alberi pensano? Ragionano?

Possono comprendere un concetto come la pazienza? Fanno qualcosa

o si limitano a rimanere radicati al loro luogo di nascita nutrendosi dei

minerali che riescono a sottrarre alla terra mentre il tempo passa e il

mondo cambia intorno ad essi? A proposito, ha sentito una risata la

settimana scorsa, nel parco nazionale di Oulangan Kansallispuisto,

quando percorrendo il Sentiero dell’Orso è inciampato in una radice

ed è ruzzolato per terra ...

164

L’APPARENZA INGANNA

A Bergen piazza l’auto in un parcheggio vicino al porto di Vågen

e poi si mette a gironzolare in mezzo alle bancarelle del Fisketorget, il

coloratissimo mercato del pesce, ottimo per gli spuntini all'aperto. Per

la modica cifra di 3 euro compra, e divora in mezzo minuto, un

succulento involtino di salmone affumicato. A seguire, per poco più

del doppio, circa 7 euro, un’insalata di granchio fresca e profumata.

Non fa freddo, però piove. Poco o tanto qui piove

trecentocinquanta giorni all’anno. Forse andava meglio ai tempi di

Omero, quando c’era l’optimum climatico e questa regione era la

Scheria abitata dai Feaci, i grandi navigatori dell’antico mondo

nordico. Adesso invece l’aria è costantemente umida. Mentre il mare

ha conservato il caratteraccio delle origini. Prando lo guarda entrare

con prepotenza nella terra e immagina la zattera di Odisseo spinta a

riva dai flutti tempestosi. Vede l’eroe sballottato da cavalloni enormi

che lotta per sopravvivere. L’albero si spezza e la vela si strappa.

Quando tutto sembra perduto appare la Dea Bianca sotto forma di

folaga che porge al naufrago un provvidenziale velo da stendere sul

petto. Non si tratta di un talismano qualsiasi, ma di una protezione

che garantisce l’immortalità. Adesso la dea marina parla all’eroe,

Prando non sente esattamente le parole che dice ma pensa che gli stia

fornendo istruzioni dettagliate per la restituzione del magico dono:

quando avrai toccato con le mani la terra, si raccomanda la dea, sciogli

il velo nel livido mare e gettane i resti lontano più che puoi dalla riva

senza guardare dove vanno a finire. Odisseo annuisce, e da quel gesto

Prando comprende che non appena l’eroe giungerà al sicuro presso la

foce del fiume dei Feaci eseguirà alla lettera l’ordine della sua

salvatrice, portando così a termine il rito della restituzione. Regola che

lui personalmente non ha alcuna intenzione di rispettare. Il giorno che

165

si troverà nei guai nessuna divinità si scomoderà per andare a

soccorrerlo, per cui si terrà il triskele, e guai a chi glielo tocca.

Perché tanto accanimento?

Semplice: l’amuleto è tutto ciò che ha di lei.

Quando lo stringe in pugno immagina di prendere Circe tra le

braccia, sollevarla e tenerla focosamente stretta al cuore, sentire le sue

fragili ossa, tenere nel palmo l’uovo del suo cranio lanoso, annusare

l’odore della sua pelle lattea e il sapore argenteo del suo sudore. Deve

riconoscere che è stata scaltra a nascondere sotto un velo di fragilità

tanto potere, questo lo ha ingannato.

Ma chissà, forse neanche per lei saranno tutte rose e fiori. Cara,

dolce, perfida Circe. Non è facile essere teneri e allegramente crudeli,

pieni di paure e pronti a realizzare progetti impossibili. Si guarda

intorno con gli occhi pieni d’amore. Se solo si degnasse di apparire

ancora una volta, almeno una, si accontenterebbe anche di vederla

attraversare la strada. Resta in attesa per un minuto abbondante, in

bilico tra sogno e realtà, sospeso in qualche modo come fosse in aria,

no, non in aria, ma in qualche altro elemento non terreno, magico, e

gli pare di non avere mai conosciuto tanta felicità.

La fiducia nel colpo di scena però cala velocemente, e quando si

esaurisce del tutto lo prende una voglia matta di fare dietrofrónt.

Vorrebbe tornare indietro e vivere per sempre su Håja, l’isola

dimenticata, con il sedere al caldo sulla sabbia e la faccia abbronzata

rivolta all’oceano sconfinato. Quella sarebbe la libertà, si, la gioia di

guardare in silenzio i giorni passare, segnare le stagioni, osservare le

maree di primavera e le aurore estive, superare le bufere dell’inverno.

Vita vera, pura esistenza e nient’altro. Finché non arriva il momento

in cui con un grande Ta-daa! si spalanca la porta segreta tra i mondi e

la dea balza fuori dal Regno dell’Impossibile per incontrare il suo

orsacchiotto preferito.

Toglie il berretto da marinaio bretone e si passa una mano tra i

radi capelli castani, a dispetto del tempo che passa. Un lampo di sano

realismo gli suggerisce che per i teneroni maturi come lui è una

fortuna che gli amori romantici siano destinati a rimanere nel mondo

dei sogni. Non c’è niente di più devastante, per uno della sua età, di

un rapporto di coppia stabile e duraturo. C’è il rischio di passare gli

166

ultimi anni in pantofole davanti alla televisione con il gatto

acciambellato sulle ginocchia. Una prospettiva alla quale non vuole

nemmeno pensare. In fondo ha solo sessant’anni e qualche giorno e

una discreta quantità di tempo ancora da vivere.

Preso da mille pensieri cammina tutta la mattina tra deliziosi

vicoli e strade acciottolate in mezzo a colorate case in legno con il tetto

spiovente. Il centro storico è piccolo e compatto, quasi interamente

compreso tra Byfjorden e de syv fjell, letteralmente le sette montagne,

benché le cime siano nove. Nel tardo pomeriggio raggiunge l’albergo

dove ha prenotato la stanza, il Thon Hotel Rosenkrantz, situato in una

comoda posizione centrale. Tutte le camere sono dotate di TV a

schermo piatto, dispongono di un’ampia scrivania sotto la finestra,

nonché di una zona soggiorno con riviste di viaggio. Quelle negli

alberghi non mancano mai. Probabilmente sono le più sfogliate al

mondo. Sarà perché l’uomo di oggi ha il ballo di San Vito e non riesce

a stare fermo in nessun posto troppo a lungo. Si direbbe che pensi che

è sempre meglio ALTROVE. Ma esiste ancora un ALTROVE da

raggiungere? Il viaggio di totale spaesamento è ancora possibile in un

mondo cablato, internazionalizzato, pieno di non luoghi e di luoghi

tra loro lontani e, almeno in apparenza, differenti? Oppure il viaggio

geografico andrebbe ripensato nei termini di un viaggio

dimensionale? Per quanto lo riguarda Prando ha abbandonato da

tempo la vita on the road e oggi ritiene che l’unica avventura ancora

possibile sia quella della conoscenza, della coscienza.

Il mattino dopo scende dal letto pieno di energia. Il bello della

vita è che le cose cambiano, l’imprevisto può sempre capitare e spesso

è positivo. Sono giorni che non si sente così bene. Che l’incontro con il

ciclope abbia pungolato in lui lo spirito dell’orso, mandandolo alle

stelle? E dire che all’inizio pensava fosse una fantasia infantile,

un’illusione, un sogno, adesso però ha cambiato idea.

In un baleno si fa la barba e raduna le sue cose.

Ha voglia di mettersi in macchina, macinare chilometri, lasciarsi il

passato alle spalle, dimenticare.

167

E’ in procinto di abbandonare la camera d’albergo, quando vede

che vicino alla tenda della finestra c’è una valigia rossa. Una valigia

da donna. Rimane attonito. Cosa ci fa una valigia da donna nella sua

stanza? Non sarà che magari ieri sera la cameriera incaricata di

portare all’ingresso il bagaglio di una cliente, s’è sbagliata?

Impossibile, qui al nord sono tutti così precisi. Si fa coraggio e sposta

la valigia con circospezione, come se dentro ci fosse una bomba a

orologeria in procinto di esplodere. Senza voler girare troppo attorno

alla questione, la mette in corridoio. Non è sua, punto. Scende alla

reception con l’idea di dire che ha trovato una valigia nella sua stanza

e che l’ha lasciata nel corridoio del primo piano, ma quando è

nell’ascensore gli viene in mente che qualcuno potrebbe pensare male,

accusarlo di averla aperta per rubare qualcosa, gl’italiani all’estero

non godono di una grande reputazione, così finisce per risalire su.

Raccoglie le sue poche cose , ridiscende, paga il conto e se ne va.

Di lì a poco è di nuovo in mezzo al mare. Attraversare lo

Skagarrak sul traghetto che da Bergen porta a Hirtshals non è

pericoloso nei mesi estivi, quando il mare è meno agitato del solito e i

venti sbuffano soltanto. La navigazione però è lunga, oltre 16 ore, e i

viaggiatori devono trovarsi qualcosa da fare nel frattempo. Un

ragazzone sui quaranta, bottiglia di birra in mano, sorriso stampato e

occhietto alcolico, sembra avere individuato in Prando il suo svago.

«Rasmus Holberg, piacere, venditore di automobili, usato sicuro

a prezzi imbattibili.»

«Non devo cambiare l’auto, sono di passaggio.»

«Ho qualcosa anche a noleggio, venga a trovarmi.»

«La terrò presente.»

«Deutch?»

«Italiano. E lei?»

«Danese. Vedo che viaggia da solo, come me, sposato o

divorziato?»

«Mai avuta una moglie in vita mia.»

«Che fortuna! Io sono in attesa di divorzio.»

«Mi dispiace.»

«A me, no. Era una pazza criminale.»

«Ha ucciso qualcuno?»

168

«No, però ne ha combinate di tutti i colori. I primi dieci anni sono

filati via lisci, abbiamo avuto anche tre figli, poi ho cominciato a

vederla per quello che era veramente, e pian piano ho scoperto il suo

vero genio per le avventure al limite della legalità. Nessuno, a parte

mia figlia Maja, ha mai sospettato che fosse la forza segreta dietro i

numerosi strani avvenimenti che hanno sbalordito i nostri compaesani

in questi ultimi anni.»

«Per esempio?» Prando è curioso.

«Il giorno di San Patrizio di due anni fa, i polli di Faaborg

fuggirono in massa dall’allevamento di Niels Møller invadendo la

città; ma soltanto Maja ed io sapevamo che fu mia moglie ad aprire le

gabbie. L’incidente, per dirla tutta, servì a sensibilizzare l’opinione

pubblica sulla tragica sorte dei polli destinati all’industria alimentare,

e fece si che le maestranze si pronunciassero sulla chiusura di alcuni

allevamenti intensivi presenti in zona.»

«Una buona cosa, direi.»

«Si vede che non si trovava a Faaborg in quei due giorni di

parapiglia. Avrebbe dovuto vedere che disastro: almeno una dozzina

di ciclisti rischiarono di rompersi l’osso del collo, le automobili

sbattevano contro i pali, dovendo evitare decine di galline

starnazzanti, il camioncino delle poste sfondò la vetrina del

fruttivendolo e a Jesper, il barbiere, si alzò la pressione così tanto che

cominciò a colargli il sangue dal naso.»

«Un bel casino.»

«Può dirlo forte. E mia moglie, cosa faceva?»

«Mi ha rubato le parole di bocca.»

«Se la rideva. Si mise il tailleur blu, quello che indossa nelle

grandi occasioni, il colletto bianco della camicia ben visibile, i polsini

di seta fuori dalle maniche della giacca. Scese in piazza, dove c’erano

le troupe televisive venute apposta da Copenaghen per filmare

l’avvenimento e, con stampata in faccia la dolce espressione di

sublime rassegnazione davanti ai casi inspiegabili della vita, dichiarò

che i giovani di oggi sono ormai incontrollabili, per divertirsi

combinano un mare di guai e gli adulti dovrebbero farsi un esame di

coscienza, prima che sia troppo tardi.»

«Che faccia tosta!»

169

«Mantenni il segreto, sebbene conoscessi in ogni particolare come

mia moglie riuscì, in meno di due ore, a mettere in ginocchio la città.

La perdonai, come già avevo fatto altre volte in passato. Lei giurò che

non l’avrebbe fatto mai più, e io volli crederle. Invecchierà, mi dissi,

metterà la testa a posto. L’idea mi diede un senso di sollievo… e un

po’ di tristezza.»

«Ma …?»

«Un mese più tardi eravamo daccapo. Così, dopo che la

centralina che regolava i semafori della città andò in tilt causando la

serie d’incidenti stradali che può facilmente immaginare, decisi di

chiedere il divorzio. Basta, è finita, non voglio più saperne di quella

strega.» Conclude scolandosi d’un fiato il resto della birra. «Tutte così

le donne. Streghe. Beato lei che è scapolo.»

Prando non commenta, non lo fa mai, senza prima aver sentito

l’altra campana. Glielo hanno insegnato anni e anni di pratica forense.

Perché si fa presto a dare giudizi e tirare conclusioni, si fa presto a dire

STREGA, spesso però le apparenze ingannano. Anche Circe è passata

alla storia come la capostipite di tutte le streghe del mondo, la perfidia

femminile fatta persona, ma chi può dire se questa è davvero la verità.

In fondo, mica li andava a cercare lei tutti quegli sprovveduti che si

facevano trasformare in porci. Circe non ha mai invitato nessuno a

casa sua, cantava per sé, non per attirare gli uomini, erano loro che la

cercavano. Persino quando giocava col fuoco del suo charm sembrava

farlo con un’altra se stessa, per passare il tempo, una specie di

diversivo per combattere la noia che le procurava quel viavai di

avventurieri ambiziosi e sfortunati che andavano a schiantarsi sulla

sua isola. Ma quando infine arriverà l’uomo giusto, fingendo tra

l’altro di essere uno dei tanti, abbasserà la guardia, diventando con ciò

ancora più grande, rinuncerà all’immunità del dominio e accetterà la

vulnerabilità dei corpi, la sua e quella del suo amante. Nell’intenzione

di vivere il suo Momento d’Amore fino in fondo Circe dimostrerà di

non essere quel satanasso che ci hanno descritto per secoli ma solo

una donna intelligente, e sapiente, che sta immobile al centro della

tela che gli altri le tessono intorno per poter decidere all’ultimo

minuto a che gioco giocare. Indubbiamente alcuni suoi

comportamenti possono sembrare ambigui, se li si vede da una parte

170

sola. Ma siamo sinceri: quale donna, trovandosi nei panni di Circe,

dopo aver smascherato tutte le bugie e i sotterfugi di tanti squattrinati

giramondo non si sarebbe divertita a ridicolizzare in loro quella vuota

smania d’immortalità che li spingeva a farsi sbattere dal mare di costa

in costa? Erano loro che si lanciavano a capofitto in situazioni che poi

non sapevano gestire, non era lei la strega.

«Mi sta ascoltando?» Chiede il venditore di automobili Rasmus

Holberg. «Non sarà per caso uno di quei debosciati che stanno dalla

parte delle donne? Italiano, ha detto?»

Tornato sulla terra dalle sue elucubrazioni Prando fa cenno di si

col capo. Sinceramente non gliene importa un fico delle beghe

matrimoniali del tizio che ha di fronte. Andasse a cimentare qualcun

altro, se ha tanta voglia di parlare. Lui sta bene da solo, gli piace

pensare in silenzio.

E’ un ORSO ormai.

Un ORSO fatto.

E l’orso non ha bisogno di nessuno. Questa sua propensione alla

solitudine ha probabilmente indotto qualche osservatore poco attento

a dipingerlo nei secoli come una creatura afflitta e malinconica. Ma è

un giudizio superficiale. Si fa presto a tirare delle conclusioni. Si fa

presto a dire questa è una strega, l’altro è un infelice, e l’altro ancora è

un pazzo scatenato. Poi, magari, si scopre che è vero il contrario.

171

RITORNO A ITACA

La visita di Faaborg si conclude in poche ore perché la cittadina è

piccola e molto concentrata. Dopo una passeggiata nel centro storico

Prando scende al porto e sale su uno dei battelli che portano ad

Avernakø e Lyø. La traversata gli consente di osservare da vicino le

isolette più occidentali dell’arcipelago, in mezzo alle quali un tempo

scorazzavano senza legge i pirati di Tafo. Sta pensando divertito alla

carica di un gruppo agguerrito di precursori smargiassi di Jack

Sparrow quando ad occidente "là, verso la notte" appare all’improvviso

l'ultima isola dell'arcipelago, Lyø, l'Itaca di Odisseo.

A differenza della sua omonima greca essa coincide in modo

stupefacente con le indicazioni di Omero. Non solo per la posizione,

ma anche per le caratteristiche topografiche e morfologiche. C’è

persino lo stretto fra Itaca e Same, dove i pretendenti di Penelope si

appostarono per tendere l'agguato a Telemaco. Le sue dimensioni

sono ridotte, 6 kmq di superficie appena, circa la metà di Capri, ciò

nonostante non mancano le strade, che si dipartono tutte dal centro,

dove sorge un tipico piccolo villaggio danese.

Prando noleggia una bicicletta dietro l'imbarcadero con

l’intenzione di esplorare ogni angolo di Lyø, vuole rivoltare l’isola

come un calzino e fotografare tutti i suoi splendidi scorci marini.

Monta in sella ed esce dal villaggio lasciandosi alle spalle i pioppi

allineati e i giardini all’inglese. Anche l’interno è molto curato,

coltivato a grano e ortaggi, con i bovini al pascolo e tanti piccoli stagni

che ospitano intere famiglie di papere e segnalano l’abbondanza di

acqua dolce. I pozzi perenni citati nell’Odissea. Qua e là non manca

qualche rilievo, anche se di altezza modesta, con la sua copertura di

alberi.

Drinnn … ti pareva, sempre sul più bello.

Scende dalla bici e risponde.

172

«Buongiorno signora Lagerkviest. Sono a Itaca, si, abbastanza, sto

facendo una pedalata in mezzo ai campi, no, niente di che. Mi stavo

chiedendo se sotterrate da qualche parte ci sono ancora le radici

dell’abete gigantesco attorno al quale Odisseo costruì la casa e il letto

nuziale.»

«Ci vorrebbe la verga del rabdomante per scoprirlo. Comunque

sono contenta che le interessi, quelle costruzioni avevano un

significato altamente simbolico.»

«Se lo dice lei.»

«Per gli uomini del passato costruire la casa attorno a un albero

era un atto significativo, prima ancora di essere un sistema

ingegnoso.»

«Capisco cosa vuol dire: l’albero fatto di radici tronco e foglie, per

sua natura partecipa dei tre diversi strati dell’essere, cielo terra e

inferi.»

«E’ un piacere parlare con lei, avvocato. Non è facile trovare tanta

sensibilità in un essere umano.»

«Ha intenzione di farmi arrossire?»

«Dico sul serio. Oggi sono tutti così distratti, ciechi, davanti alla

realtà oggettiva del simbolo, al suo enorme potere espressivo. Di

troppe cose s’è persa la memoria, ormai.»

«Eppure non c’è strumento migliore del simbolo per tramandare

insegnamenti e pensieri.»

«E per rivelare strutture e caratteri altrimenti inaccessibili che

fanno parte di mondi sconosciuti ma reali, anche se non evidenti

nell'esperienza immediata.»

«Si vede che dobbiamo toccare il fondo per trovare la forza di

risalire. Siamo alla fine del nostro ultimo ciclo, dopotutto.»

«Ha ragione. Come va il suo viaggio? L’ultima volta che ci siamo

parlati stava seguendo delle orme, ha poi trovato qualcosa?»

«No, niente.»

La risposta di Prando è rapida, forse un po' troppo, e la

Lagerkviest non se la beve. Ricomincia così la tiritera del come mai

l’avvocato non si fida di lei, e dire che il suo desiderio di fare da

guida, seppure a distanza, di un italiano alla scoperta della

Scandinavia è totalmente disinteressato, dettato unicamente

173

dall’amore che nutre da sempre per l’Italia, la sua arte, il suo cibo, bla

bla, bla bla.

A differenza del solito Prando non tenta neanche di giustificarsi,

taglia corto, saluta educatamente e chiude la comunicazione. Solo una

settimana fa non ne avrebbe avuto il coraggio. Si sarebbe fatto mille

scrupoli e, pur di non urtare la sensibilità dell’interlocutore, non

avrebbe esitato a offendere la propria. Il Prando di oggi però non è

più quel Prando. Adesso la sera, dopo una giornata piena, quando si

sente particolarmente stanco, pensa a com’è cambiata la sua vita negli

ultimi tempi. E’ un’altra vita. E lui, un altro uomo. Si sente rinvigorito,

conversa ad alta voce con se stesso senza timore, dorme sonni leggeri,

sempre all’erta, come un orso che si rispetti, ma riposanti.

Se solo riuscisse a dimenticare Circe, a non vivere la sua

mancanza come un pugno nello stomaco ogni volta che ci pensa,

potrebbe dire di stare bene come non è mai stato in vita sua. Ma

chissà, forse col tempo potrebbe venire anche a lui la forza di carattere

di Odisseo, che riuscì a lasciare Circe per proseguire da solo la sua

avventura esistenziale. Se l’eroe fosse ancora vivo, gli chiederebbe

come ha fatto.

Guarda l’ora, già le undici. Salta in sella e riprende a pedalare.

Sopra di lui volano allodole, gabbiani, gazze e pavoncelle. Verso

l’estremità occidentale dell’isola scopre un dolmen formato da alcune

pietre poste verticalmente che ne sostengono una più grande messa in

orizzontale. Ferma la bicicletta che, in effetti, guardandola bene,

sembra anch’essa risalire all’Età del Bronzo, e sfoglia la guida in cerca

di notizie. Scopre così che il dolmen viene chiamato la campana perché

se lo si colpisce in un certo punto suona.

Non resiste alla tentazione di provare.

E’ vero, suona! Batte altre due volte con un grosso sasso che ha

trovato per terra, e dopo la terza si siede lì accanto per godersi in

silenzio le vibrazioni sottili dell’AUM dell’universo che risuonano

tutto intorno. Il sole è tiepido. Il cielo è un soffitto di colore turchino

intenso sempre più chiaro, non si scorge neppure una nuvola. L’aria è

immobile e frizzante e la luce dura e tagliente come un coltello dà

ancora più rilievo alle pieghe e ai contorni della terra: sembra un

giorno creato per assistere a eventi di enorme portata.

174

Infila le mani nella tracolla e prende un succo di mela. Già che c’è,

anche un tramezzino. Il danbo, un formaggio a pasta gialla cosparso

di piccoli buchi, si sposa a meraviglia col prosciutto di Lesø. Mastica

meticolosamente per non perdersi neanche un grammo di sapore. Già

pregusta il biscotto al burro che chiuderà lo spuntino, quand’ecco in

lontananza apparire qualcuno.

Trasale. Perché tanta paura, cosa teme, quand’è stata l’ultima

volta che un suo simile lo ha fatto spaventare? Non sa spiegare la sua

reazione, però sente un brivido freddo lungo il braccio. Lo sente

scorrergli nelle spalle come acqua gelida e prendere forza. Il braccio si

leva in alto di propria volontà. Prando sente che la sua bocca si apre e

si chiude e che la lingua si muove mentre una voce che non è la sua,

una voce che risuona cavernosa come un colpo di grancassa battuto

dentro un vecchio armadio, pronuncia un saluto che si gonfia nell’aria

come una nube carica di vapore.

«SALVE,» dice la voce.

Il personaggio misterioso non risponde.

A questo punto i piedi di Prando prendono da soli una decisione,

assolutamente azzardata, dal suo punto di vista. Lo fanno progredire

di alcuni metri. Un passo dopo l’altro mette a fuoco la fisionomia dello

sconosciuto. Sarà alto almeno due metri e il cappello conico che porta

in testa conferisce all’intera figura un’aria eminente. Si chiede chi può

essere il pazzo scatenato che va in giro conciato in quel modo a

mezzogiorno di un martedì lavorativo.

No, non ci crede ... ma … è LUI! Lo comprende sulla base di una

singolare conoscenza remota, a livello istintivo, e poi lo riconosce

dalla cicatrice lasciata dalle zanne del cinghiale sulla sua gamba

sinistra quand’era poco più che un bambino, il marchio del suo primo

successo come combattente, che sarà in seguito il più importante

segno di riconoscimento della sua identità eroica. Cinque denti della

povera bestia decorano ancora un lembo del cappello a punta

testimoniando l’impeto guerriero del suo proprietario. Un vezzo da

vecchio soldato. Un’abitudine antica. Ogni maschio nordico dell’Età

del Bronzo portava in battaglia amuleti a forma di cinghiale a tutela

da tutti i pericoli.

175

Prando guarda incredulo quel volto vagamente familiare

incorniciato dai lunghi capelli chiari, quasi bianchi, gli occhi accesi e

indomabili, la bocca con un paio di denti in meno, ma sorridente.

Prova un senso di felicità immensa: in modo del tutto inatteso

incontra dopo cinquemila anni Odisseo, il capostipite dell’uomo

contemporaneo. Se dovesse morire oggi, non avrebbe rimpianti.

«Vieni, avvicinati,» gli dice l’eroe. Tutta la sua persona emana

una sconfinata voglia di vivere e una profonda fiducia nell’esistenza.

«Se lo desideri, puoi dirmi il tuo nome, altrimenti non importa.

Parlerò lo stesso con te, visto che mi hai chiamato.»

Prando ha la lingua paralizzata, di colpo è diventato balbuziente

e gli tremano le ginocchia. Di fronte a lui c’è Odisseo, una cosa

pazzesca! Prima il CICLOPE, e adesso l’EROE di Itaca. Solo il triskele

di Circe può aver reso possibile questi due miracoli, non c’è altra

plausibile spiegazione a prodigi del genere.

Senza un motivo apparente apre la mano davanti agli occhi di

Odisseo e gli mostra il talismano che stringe in pugno. Non dice una

parola, perché non vuole compromettersi in anticipo, o, peggio,

perdere la reputazione. Sa bene quanto gli antichi fossero abili

nell’arte del tessere discorsi e considerassero l’eloquenza e l’astuzia

requisiti di grande pregio in una persona.

«Vedo che sei stato scelto dalla sciamana come maschio

riproduttore, segno che noi due abbiamo qualcosa in comune.»

«E’ impossibile.»

«Non ti sottovalutare, uomo.»

«Ma é assurdo. Capisco te, che sei il risultato di un grande lavoro

svolto nel tempo per tramandare il potere di quelle creature che da

sottoterra irradiano la loro luce su tutto ciò che esiste. Ma, io? Non

credo di capire il vero significato di questa faccenda,» confessa con un

filo di voce, «puoi spiegarmelo?»

«Saprai senz’altro che le arti magiche sono inutili contro la morte.

Un mago può vivere più a lungo di un uomo comune, ma non è

immortale. Tutte le sue parole segrete non possono procrastinare

neppure di un’ora la venuta della sua morte.»

«E’ un problema?»

176

«Si, se il mago è donna. Le donne sono morbosamente legate al

loro corpo mortale e sono disposte a tutto pur di non vederlo

invecchiare e morire. La sciamana però ha trovato un sistema per

aggirare l’ostacolo»

«Neanche gli déi sono arrivati a tanto, non si può sconfiggere la

morte.»

«Ma la si può ingannare. Senti qua cos’ha inventato la sciamana:

quando le sue sembianze arrivano a trent’anni d’età lei le riproduce

sotto forma di una nuova creatura, identica nell’aspetto all’originale e

dotata di pari capacità, che ha il compito di assicurare la continuità

della specie. Il vecchio stampo resta in vita ancora qualche anno,

giusto il tempo di addestrare il nuovo, dopodiché si polverizza come

va in polvere qualsiasi altro corpo, ma senza rimpianto perché il soffio

che lo anima è immortale.»

«Dunque tua figlia è stata il primo anello della catena.»

«La tua, l’ultimo.»

Le ginocchia di Prando cominciano a cedere. Ha le idee piuttosto

confuse. Non riesce a credere a quello che ha appena sentito. Prende

tempo e tergiversa. «Si dice che da te la sciamana abbia avuto anche

un maschio, Telegono, oltre alla femmina, Cassifone. Telegono ti

uccise per sbaglio, e una volta avvedutosi dell'errore, trasferì il tuo

cadavere ad Håja, conducendo con sé Telemaco e Penelope. Alla fine

Telegono sposò Penelope e Telemaco si mise con Cassifone. O con la

sciamana, che a quanto pare è la stessa persona.»

«Per colpa dei greci la storia della mia vita è finita sulla bocca di

tutti, ma solo una minima parte di ciò che si racconta in giro è vera.

Ad esempio la giovane che tu chiami Cassifone, mia figlia, in realtà si

chiamava Sirkel e, come ti dicevo, era il prolungamento fisico della

madre, così come in seguito sua figlia lo fu di lei. Sono millenni che la

sciamana si garantisce l’immortalità grazie alla sopravvivenza di

Sirkel. Come maschio riproduttore sceglie sempre un esemplare di

discendenza artica, un uomo nelle cui vene scorre senza intralcio il

fluido primordiale creato dagli déi, il quale viene ricompensato con

un triskele d’ambra capace di soddisfare tre suoi desideri.»

Per quanto lo riguarda Prando pensa che stavolta la sciamana ha

preso un granchio. Lui è nato a Mestre, non al Polo Nord, i suoi avi

177

erano tutti veneziani e a memoria d’uomo non si ricordano nell’albero

genealogico supereroi, o sciamani, o qualcosa del genere. Si vede che a

furia d’ingannare il prossimo Circe è stata a sua volta ingannata. Non

entra comunque nel merito della sua insignificante vicenda personale

perché non è di sé che vuole parlare con l’eroe. «Sarei curioso di

sapere quali sono stati i tuoi tre desideri,» dice timidamente, «ma non

so se posso chiedertelo.»

«Ormai è acqua passata, si può parlarne: tornare a Itaca, vivere

abbastanza da vedere i miei due figli maschi diventare uomini, morire

tra le braccia di Sirkel. Devo dire che la sciamana è stata di parola.»

«Qual’è il vero significato dell’amuleto?»

«Ti consiglio di cambiare domanda, se c’è ancora qualcosa che

vuoi sapere da me, perché una volta che ti avrò svelato il segreto del

triskele dovrò sparire dalla tua vita per sempre.»

«Sono talmente tante le cose che vorrei chiederti, che non so da

che parte incominciare,» ammette. «Una curiosità almeno me la puoi

levare: perché te ne sei andato, dove hai trovato la forza di lasciarla?»

«Sono rimasto ad Aiaie un anno intero, senza mai desiderare di

andarmene. Poi i miei compagni hanno cominciato a protestare per la

lunga permanenza sull’isola, mi hanno messo alle strette, volevano

riabbracciare le loro famiglie e così alla fine, sentendomi responsabile

della sorte del gruppo, ho ceduto. Fosse stato per me, non l’avrei fatto,

non c’è uomo al mondo capace di allontanarsi volontariamente da una

donna simile. Sebbene la separazione sia sempre relativa perché la

sciamana è un’esperta di nodi, ne conosce di complessi e astuti,

difficilissimi da sciogliere, e quello di Sirkel ne è il massimo esempio.

Attraverso la figlia della figlia di sua figlia lei è presente fino alla fine

del tempo nelle vicende esistenziali degli uomini che sceglie come

maschi riproduttori.

«Tu, almeno, hai conquistato il suo amore.»

«Non so di cosa parli.»

Prando si vergogna con se stesso per quello che ha appena detto.

Vorrebbe anche chiedere a Odisseo come mai fino a quel momento

non ha pronunciato neppure per sbaglio il nome di Circe,

continuando invece a chiamarla la sciamana, ma si trattiene per evitare

un’altra figuraccia. Però, sai che botto se si scoprisse che Circe si

178

chiamava in realtà Vattelapesca, sarebbe la rivelazione del secolo. «Ti

sono grato per la tua benevolenza,» si limita a dire con rispetto, «credo

di aver saputo abbastanza da te, adesso sono pronto per conoscere il

segreto dell’amuleto.»

«Sappi allora che il triskele è la sintesi della sciamana nel suo

triplice aspetto: vergine, madre-figlia e madre-nonna. Forte è il suo

legame con il sole, l’astro che, sorgendo e tramontando, avvicina e

allontana i suoi raggi lungo le stagioni e regola i cicli di morte e

rinascita sulla Terra. Il suo potere scende dall’artico, dalle Terre dei

Morti, dove le anime dei vili fanno aiai lamentando la degradazione

del passaggio a livelli di vita inferiori, mentre le anime dei saggi

tacciono perché ormai sono in pace. Al maschio riproduttore che ha il

privilegio di ottenerlo, il triskele dà la possibilità di viaggiare tre volte

nel tempo, vivere altre vite, conoscere altri mondi, guardare in faccia il

proprio destino e affrontarlo.»

Desolato Prando assiste inerme al dissolvimento della figura di

Odisseo, che svanisce velocemente via via che il suo discorso volge al

termine. L’ultimo lampo di luce gli fa cogliere il nesso tra le due

apparizioni, quella del CICLOPE e questa dell’EROE: selvaticità e

mascolinità sono in fondo due facce della stessa medaglia, segno che

qualcuno da qualche parte gli sta mandando dei segnali. Ma chi, la

sua adorata mamma dall’aldilà o l’angelo custode da una dimensione

parallela? Apre il pugno e resta qualche istante in contemplazione del

triskele, prima di risollevare la testa. Quando lo fa sente il mondo

attorno rabbrividire e spostarsi, assumere colori più vividi,

deformarsi, distaccarsi da lui e dalla sua concezione della realtà e

mutarsi invece in ciò che è veramente, non più seducente apparizione,

non più mistero, non più parte della sua immaginazione. E lui, lì in

mezzo, infine?

179

IL SOGNO

Dal cielo fattosi di colpo scuro si alza senza preavviso il vento. Le

gocce prendono a cadere sempre più fitte. L’aria è pesante, ora che

sulla scena si è spenta la luce umida e pungente che circondava la

figura dell’eroe. In che misura qualcuno degli eventi accaduti negli

ultimi minuti abbia un fondamento nella realtà Prando non ne ha

idea. Come del resto se ciò che con tanta disinvoltura si ha l’abitudine

di chiamare REALTÀ esista davvero. L’unica cosa di cui può essere

ragionevolmente certo è che ha i brividi. Comincia a fare freddo, un

freddo cane. Tira fuori dalla tracolla il maglione di lana blu e se lo

infila, prima di inforcare la bicicletta e mettersi a pedalare come un

forsennato.

Il vento contro mette impietosamente in evidenza la trippa.

Colpa del blu, che segna le forme.

A parte il fatto che non c'é niente di male a mettere su un po’ di

ciccia quando l’estate sta per andarsene e l’autunno è alle porte, il suo

guru lo spiega chiaramente. Prima di entrare in letargo appare più

lardoso del solito, ha l’andatura pesante e l’aspetto un po’ sfatto,

accentuato da una certa sonnolenza che lo fa apparire più vecchio di

quello che è. I lapponi lo chiamano in dialetto l’antenato, il gigante

con la pelliccia, colui che dorme d’inverno. Ma al primo segnale della

primavera ecco quello che sembrava un nonno uscire dalla tana snello

come un adolescente e più vispo che mai. Studia il cielo, le nuvole e i

venti, e se il tempo é propizio si lecca la zampa sinistra, gira su stesso,

spezza qualche ramo in cerca di cibo, brontola un po’ contro qualche

acciacco che l’anno precedente non c’era, si fa un bagno purificatore,

rigenerante, e si rimette in pista con ancora più grinta.

Arriva in albergo bagnato fradicio, si leva i vestiti inzuppati

d’acqua e si scalda le ossa con una lunga doccia tiepida.

Piacevolmente avvolto nell’accappatoio guarda fuori dalla finestra e

180

ripensa agli eventi prodigiosi in cui è stato coinvolto. Non sarà facile

metabolizzarli. Potrebbe cominciare dandosi una calmata, forse

dovrebbe pensare seduto sul suo divano, mangiare nella sua cucina,

dormire nel suo letto. C’è un tempo per le scorribande e un tempo per

tornare all’ovile. Prende l’iPhone e manda un messaggio a Wilma.

“Piove e fa freddo. L’inverno nordico non tarderà a mostrare il suo naso

rosso, le sue labbra screpolate e le sue mani rovinate dai geloni. Presto

arriveranno le violente perturbazioni che resero così difficile il rientro in

patria di Odisseo e dei reduci troiani, la pioggia infinita descritta da Omero

getterà le basi per il male alle ossa e la neve cadrà per lunghi mesi. Torno a

casa.”

Inaspettatamente lo prende la nostalgia dei vecchi amici con i

quali finisce immancabilmente di tornare sulle stesse cose che si sono

già detti centinaia di volte negli ultimi sei o sette anni. Da settimane

non pensava a loro, però adesso li ha tutti davanti agli occhi: Ale,

Peppo, Luciano, Giova, il Cava. Vorrebbe riabbracciare Wilma,

scherzare con i ragazzi e farsi una partita a tennis con suo cognato

Ezio, un giocatore quasi imbattibile.

Ma come, solo ieri pensava di poter stare per sempre ad Håja

sdraiato con le chiappe al sole a rimirare il mare, e oggi vuole

tornarsene a casa? Non gli sembra di essere un po’ troppo volubile?

E’ che le cose sono cambiate, molto cambiate, e allontanarsi dal

nord adesso non gli pesa come invece solo pochi giorni fa gli sarebbe

pesato enormemente. Come per obbedire a un ordine superiore la sua

mente è improvvisamente diventata lucida e consapevole che questo

mondo primordiale lavato dal sale, con le sue spiagge deserte, la

quiete dei suoi boschi e i fiori viola della tundra artica, si trovano da

sempre nel suo paesaggio cerebrale. Prima non se ne rendeva conto,

adesso invece si.

181

Si sdraia sul letto e riassume mentalmente gli ultimi avvenimenti.

Pensa a questo suo viaggio come a un viaggio epico e a lui come a un

odisseo, ormai senza patria, in procinto di ripartire ancora una volta,

l’ultima, verso la sua Itaca. Lo fa con una forza inedita perché dopo

l’incontro di oggi è come se avesse ricevuto un segnale, un messaggio

d’incoraggiamento da tutti i maschi riproduttori che lo hanno

preceduto e ormai si sono liberati del loro involucro materiale. Fatti

onore, gli hanno detto in coro, adesso tocca a te, e lui non vuole

deluderli. Quindi d’ora in poi cercherà di camminare per il mondo

con un passo più leggero, quasi gioioso, malgrado la vecchiaia che

avanza, perché ormai è uno di loro.

Bip bip … è Wilma.

“Fino a stamattina ero convinta che fossi tu, con i tuoi discorsi, a

trasmettermi la passione per i luoghi omerici e il profondo nord. Poi ho letto

su Google l’articolo di un ingegnere di Mestre che fa risalire le origini della

nostra città a Mestle, alleato dei Troiani, il quale sarebbe giunto in Veneto al

seguito di Antenore che, secondo Tito Livio, è il mitico fondatore di Padova.

Ce l’abbiamo nelle vene il sangue artico, fratellone. Dici che se vado a scuola

di stregoneria sono ancora in tempo a diventare una sciamana? Ci pensi,

Wilma la Maga di Mestre: pozioni magiche e nodi d’amore, soddisfatti o

rimborsati.”

«Hey, signore, siamo arrivati.»

Prando batte gli occhi per allontanare dalla mente i veli del

sonno. «Come, dove?»

E’ in automobile, ma non al volante della fedele Skoda.

Si trova seduto sul sedile posteriore di un taxi.

QUEL TAXI! Capelli fiammeggianti, pelle lattea, occhi verdi

magnetici. E’ lei che guida: Circe Testarossa! Per poco non sviene per

la sorpresa. E perché parla in inglese, adesso. Vuole fare la preziosa,

prendere le distanze, sottolineare la loro diversità, dopo quello che c’è

stato tra loro? Glielo chiede.

«Mi scusi,» risponde educatamente la taxista, «non credo che ci

conosciamo, e comunque non parlo l’italiano. Però mi piace la sua

182

lingua, un giorno potrei studiarla. Con il lavoro che faccio, più lingue

conosco migliori saranno i guadagni.»

«Ma come, tu, voglio dire, noi, l’isola di Håja, l’amuleto.»

«Si sente bene?»

«Non tanto.»

Il mondo gli si è appena spiaccicato in faccia come una gigantesca

torta di panna montata. E’ confuso, ha le vertigini e gli sta venendo la

nausea. Abbassa il finestrino dell’auto per prendere un po’ d’aria, si

slaccia il colletto della camicia, respira profondamente nel tentativo di

rilassare i nervi, e vede all’ingresso di un distributore di benzina un

grande display che alterna la segnalazione dell’ora con quella della

data: mercoledì 2 giugno ore 17:48. Sarà rotto.

«Che giorno è oggi?,» chiede per sicurezza alla rossa del taxi.

«Il due giugno,» è l’agghiacciante conferma.

«Che ora è?»

«Le 17:48.»

«E’ sicura?

«Strasicura.»

«Non è possibile.»

«Lo è, invece. L’ho presa a bordo mezz’ora fa dal terminal del

Kastrup e adesso siamo diretti all’Hotel Marittime, esattamente come

mi aveva chiesto. Ha cambiato idea, per caso?»

«Mi sono addormentato nel suo taxi e lei non sa una parola

d’italiano, è così? Ma allora: il viaggio, le avventure, gli incontri?»

La rossa lo guarda con un sorriso enigmatico, ma comprensivo,

mentre la sua testa comincia a girare. Mondi dentro mondi. Scolorano

l’uno nell’altro. Prando è al tempo stesso qua e là, allora e adesso,

come per magia. Che pena dover ammettere che ha sognato tutto, s’è

addormentato in macchina come fanno i vecchi e i bambini. Non c’è

mai stata una Circe, né un’isola di Håja. Erano frutto della sua

immaginazione anche Anja Lagerkviest, il dottor Danielsson, la

bionda rifatta, il baffone alla nicotina, il maître di lungo corso Ilmari

Korhonen, il falegname in pensione Erkki Hannikainen e il pescatore

norvegese Tor Nansen. Eppure ha stretto le loro mani e parlato con

loro, hanno trascorso del tempo insieme e si sono scolati tanta buona

birra. E il ciclope, anche lui era un sogno? E l’eroe?

183

Pensare che era così contento dei progressi fatti negli ultimi giorni

sulla strada dell’orso. Aveva individuato persino il filo rosso che

legava le sue nuove conoscenze l’una all’altra, vecchio balordo che

non è altro.

Animato dall’ultimo barlume di speranza prende l’iPhone e

controlla tutti i messaggi in entrata e in uscita. Niente di nuovo, tutta

roba vecchia. NESSUNA chiamata di Anja Lagerkviest, NESSUNA

mail di Wilma, NESSUNA prenotazione d’albergo. Neanche la Wilma

affettuosa che lo ha seguito in questo viaggio era reale. E’ pazzesco.

E il biglietto da visita di Erkki Hannikainen, quello che il

falegname gli ha dato a Tromsø? Con le mani che tremano si fruga

nelle tasche, guarda nel portafoglio, cerca dappertutto, rovista nella

tracolla, ma non c’è niente. Si è trattato di un gigantesco bluff,

nient'altro che nomi fittizi cui si è compiaciuto di affidare la sua

inquietudine, i suoi interessi culturali, la sua ironia, i suoi amori

mancati. Personaggi del suo teatrino interiore, invenzioni della sua

mente, anche se gli sono sembrati vivi come non mai e tutti

generosamente disposti a dialogare e confrontarsi. In poco più di

mezz’ora sogno e realtà si sono confusi in dialoghi immaginari,

situazioni irreali in cui personaggi viventi hanno conosciuto fantasmi

illusori, vissuto vicende inesistenti, affrontato colloqui favolosi.

Qualcosa di simile agli eteronomi di Pessoa, con la differenza che

invece di alternarsi nella stanza d’ospedale del loro inventore morente

i suoi personaggi hanno dovuto affrontare un lungo viaggio.

E adesso? Prima dell'ultimo addio gli eteronomi di Pessoa

ringraziano il padre che ha donato loro un nome e una vita

dimostrando affetto e riconoscenza, mentre i suoi non sembrano essere

altrettanto devoti. Sono spariti così, senza neanche salutare. Che ce

l’abbiano con lui perché al contrario del grande poeta portoghese non

ha intenzione di morire insieme a loro? Non cambierà certo idea per

farli contenti.

Fissa la rossa intenta a guidare e pensa all’immobilità che vive

negli abissi degli specchi. Non è il mondo reale che si riflette lì. E’ un

luogo completamente diverso, un altro universo, fatto con malizia a

imitazione di questo, per sedurre e lusingare. Qualunque cosa è

184

possibile laggiù, persino che i morti ritornino in vita. Così come allora,

dopo migliaia di anni.

185

LA PARTENZA

«Siamo arrivati.»

«Ah, bene. Quanto le devo?»

«Duecento. Grazie.»

Quando scende dal taxi non si sente affatto la stessa persona che

mezz’ora fa vi è salita. E se, invece, fosse sei settimane fa? E’

innegabile comunque che una brusca inversione di rotta è avvenuta

nel frattempo. Ha la sensazione di essersi evoluto in un organismo

infinitamente più complesso, non che creda di essere migliore o

peggiore di com’è stato, solo diverso. Quando si è verificato il

cambiamento non saprebbe dirlo. Sarà avvenuto per gradi, come la

maggior parte dei cambiamenti. O forse tutto d’un botto, come un

miracolo. Ma che qualcosa sia accaduto in quel lasso di tempo è fuori

discussione.

Avrà modo di esaminare la cosa in camera più tardi. Adesso deve

fare un passo avanti, e spicciarsi, ne va della sua integrità mentale,

non può rimanere per sempre su quel marciapiede a guardare, come

un cretino, il flusso del traffico urbano pensando a quello che poteva

essere ma non è stato.

S’incammina lemme lemme davanti al suo trolley mentre scende

in lui un lungo vuoto in cui le voci tacciono e i rumori della città

riempiono lentamente lo spazio lasciato dalla loro assenza. Finché non

parte un debole ronzio da una delle tasche dello smanicato beige. C’è

un messaggio di Wilma.

“Tutto ok?”

La risposta è sintetica.

“Viaggio tranquillo. Arrivo adesso in città. Sono un po’ stanco. Ci

sentiamo domani.”

186

In realtà è completamente a terra. Dopo pochi metri si lascia

cadere su una panchina vuota, sedendosi accanto al suo bagaglio. Ha

il respiro corto e gli gira la testa. Sopra di lui le nubi corrono veloci

come in un film muto degli Anni Venti. Chiude gli occhi per un

attimo. Quando li riapre, le nubi sono tornate al loro posto.

Lui invece no, lui non ce l’ha un posto.

E per di più LEI gli manca da morire.

Perché, perché, chiede al lampione di ghisa che ha di fianco

picchiandoci il palmo della mano contro, cos’ho fatto di male per

dover patire da vivo le pene dell’inferno, mica sarò condannato a

desiderare la donna di un sogno fino alla fine dei miei giorni. Il

lampione però non sembra interessato ai suoi problemi personali.

Come dargli torto. Persino ai suoi orecchi le parole che gli escono

dalla bocca hanno un suono penoso. Decisamente patetico.

Allarmato dall’idea che qualcuno possa averlo visto e sentito, e di

conseguenza lo prenda per pazzo, si guarda attorno guardingo.

Nessuno bada a lui, per fortuna. Si vergogna della sua reazione, della

sua debolezza, ma non può combatterla. Appoggia il gomito sul

trolley e la testa sul palmo della mano. Vorrebbe tanto piangere. Non

troppo, perché quando piange l’uomo deve risparmiare, non piange a

calde lacrime, non spreca liquido prezioso fabbricato in segreto nel

fondo del suo cuore maschio, dove l’accesso è vietato alle donne e ai

minori. Però due lacrimucce ci starebbero bene, date le circostanze.

Mette la mano in tasca per tirar fuori il pacchetto di kleenex.

Meglio tenersi pronti. La sua d’altra parte è una vita vissuta

all’insegna della prevenzione, e non è che si può cambiare carattere a

sessant’anni. Al posto del soffice fagottino le dita toccano però

qualcosa di solido, liscio e rotondo. Sarà il suo omphalos personale

fasciato nella rete, pensa, o qualche altra carabattola che si porta

dietro, in effetti dovrebbe smetterla con questo vizio infantile … ma …

E’ IL TRISKELE! … allora ...

Serra il pugno sul talismano e sente la pelle premere contro le

sfaccettature della pietra magica. Distingue ogni spigolo, ogni

superficie liscia, ne ricrea nella mente l’immagine. Poi chiude gli

occhi. Non ha bisogno di starci a pensare, sa perfettamente quale sarà

il suo terzo ed ultimo desiderio.

187

Vuole vederla per l’ultima volta.

Non qui però, non in città, in mezzo alla gente.

Vuole vederla a casa sua, in riva al mare. Non sa bene perché la

pensa così, però ha il terrore di trovarsela davanti sulla terraferma. Il

mare invece, in un certo senso, lo rassicura. Sarà perché l’acqua è il

suo elemento, la sua matrice. Sarà perché è nato in una città di mare.

Sarà perché dal fondo marino salgono tempeste e mostri, ma non

potenze maligne, quelle appartengono alle tenebre racchiuse nel

ventre cavo della terra. Sarà quel che sarà.

E se, invece, scegliesse di non rivederla mai più?

Forse sarebbe la cosa più giusta.

Con un po’ d’impegno potrebbe dimenticare l’intera faccenda,

vera o falsa che sia, non ha importanza. Un colpo di spugna e via,

tutto finito.

«Scusi, le dispiace,» dice qualcuno alle sue spalle.

Si gira. «Che mi venga un colpo: Tor Nansen!»

Che ci fa a Copenaghen il pescatore norvegese? O, lo sciamano

lappone? A questo punto il dubbio è legittimo.

L’altro non fa una piega. «Può riprendermi mentre cammino

verso quel monumento laggiù?» Parla come se niente fosse, come si

parla a uno sconosciuto, uno mai visto prima. «No, stia pure seduto

dov’é, non c’è bisogno che si alzi, l’importante è che inquadri la croce

celtica.»

«Quella scolpita in basso?» Prando sta al gioco, vuole vedere fin

dove arriva la congiura ordita alle sue spalle, perché di questo si

tratta, ormai è chiaro.

«Si, quella. Sono un collezionista di simboli, e quando non lavoro

sul mio peschereccio giro il mondo in cerca di antichi segni.»

«Ah, davvero. Conosce per caso Anja Lagerkviest.»

«Mai sentita nominare.»

«Naturalmente.»

«Ha capito di quale fregio parlo?»

«Ma certo, non sono rimbambito.»

«E’ splendido, non trova. Osservandolo attentamente si ha la

sensazione di vivere qualche altro tempo oltre al presente.»

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«Sarà perché sentiamo la mancanza delle cose perdute, o la

speranza in quelle che vogliamo succedano. Sarà il residuo dei nostri

sogni, o il bisogno delle cose passate che non abbiamo vissuto, e per

questo speriamo che ritornino.» Esita un istante, prima di decidersi.

«Dia qua la videocamera, ci penso io.»

Bilancia il peso, inquadra la croce celtica e regola la distanza.

Finché qualcosa di anomalo non appare sul display: CIRCE SULLA

SPIAGGIA DI HÅJA! Ha i capelli raccolti e il mantello chiuso intorno

alla gola. Eppure non sembra una giornata ventosa. C’è anche il

sonoro: parole tutte strascicate, con trilli e strani indugi sulle note.

«Canta delle balene grigie e degli albatri e della corrente Oceano,»

dice Tor Nansen lo sciamano, che adesso è seduto accanto a lui sulla

panchina. «Quando sono tristi le nostre donne non cantano le gesta

tragiche degli eroi e dei re che ricordano le tradizioni degli uomini,

ma esprimono i loro sentimenti nel linguaggio della natura.»

Prando si sente soffocare, un attacco di asma psichica,

probabilmente. «Posso sapere cosa diavolo succede,» dice a Tor

Nansen, «qualcuno ha deciso di farmi impazzire, o sono finito su

candid camera?»

«Ssstt! …»

Messo a tacere dallo sciamano, e non sapendo più cosa pensare,

Prando sbadiglia. Uno sbadiglio dovuto all’eccesso di adrenalina, non

alla stanchezza. Fissa gli occhi sul display e tende l’orecchio. Sente

Circe imitare il grido fischiante del delfino e intessere la melodia

intorno a quel suono. Si lascia andare, segue lo sciabordio regolare

delle onde, e scivola gradualmente verso il sonno.

Un sonno vero e reale.

Un sonno profondo.

Sulla spiaggia di Håja non c’è nessun vivente. Eccetto lui, che

ascolta il canto di Circe seduto in disparte, per non disturbare. Sotto i

piedi della dea l’acqua è un labirinto di canali azzurri e di bassi

fondali verdi. Alle sue spalle un sipario di scogliere e rocce. Alcune

sono piatte, coperte o semicoperte dallo sciacquio delle onde, rivestite

di anemoni e cirripedi e felci marine sottili come nastri. Altre si

ergono ripide dal mare, in pareti e guglie, e ci sono archi e semiarchi,

torri scolpite, forme fantastiche di animali estinti, corna di alci e teste

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di draghi, tutti enormi, deformati, indistinti, come se in quel luogo la

vita fremesse semiconscia nella pietra. Le onde del mare vi battono

con un suono che sembra un respiro. In una di quelle rocce, da sud, si

scorgono chiaramente le spalle incurvate di un uomo, chino e

pensieroso sopra l’acqua in movimento. Ma come Prando cambia

posizione, guardando la scogliera da nord, l’aspetto umano sparisce

di colpo e la massa calcarea rivela una grotta in cui il mare entra ed

esce creando un tuono cavernoso e risonante che dialoga senza

remore col canto di … Circe?

Si chiede come ha fatto a non pensarci, nonostante un’infinità di

indizi gli siano passati sotto il naso per settimane e i suoi personaggi,

con la bionda rifatta in testa, abbiano fatto di tutto per fargli capire chi

fosse in realtà il misterioso poeta dietro le cui tracce si stava

muovendo.

Circe è Omero.

Omero è Circe.

Ecco perché la maga più famosa del mondo occupa un posto

centrale all’interno dell’Odissea. “Omero” le dedica quasi un intero

canto: nessun’altra, fra le avventure narrate in prima persona dall’eroe

di Itaca, ha così ampio spazio. Circe è in pratica il baricentro della

storia, le avventure che la coinvolgono sono la chiave di volta del

viaggio di Odisseo, insieme alla discesa nel Regno dei Morti di cui

costituiscono il presupposto, e rappresentano il momento in cui, dopo

tante difficoltà, le cose per il protagonista cominciano a muoversi nel

senso giusto.

Deve ammettere che non ci aveva pensato.

Stupido ignorante, che non è altro.

Tutto il suo studiare, e cercare, non sono serviti a niente se

neanche ha dato la giusta importanza all’abitudine degli artisti di ogni

epoca di celare se stessi dietro una propria invenzione. I più celebri

pittori italiani mettevano il loro viso in un angolo oscuro della tela.

Shakespeare nascondeva il suo nome, un bel nome, William, nei

drammi, qua una comparsa, là un clown. Joyce affidò se stesso

all’uomo del Mackintosh, che attraversava il sogno del suo celebre

libro. E Circe ha messo Odisseo in primo piano per avere mano libera

nella stesura del testo. Niente di più ovvio.

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L’anonimato del narratore fino a ieri era la regola. Mentre oggi gli

artisti spendono soldi ed energie per far conoscere al mondo la

propria individualità, come se non sapessero che un nome non ha

senso, è l’opera che continua il suo cammino grazie al passaggio della

conoscenza da una generazione all’altra, che sopravvive, anche

attraverso le riscritture e gli ammodernamenti che via via si rendono

necessari a potenziarne l’impianto narrativo. L’autore, quello

originario, può tranquillamente scomparire, per quel che serve.

Nessuno mai sentirà la sua mancanza.

Prando si sveglia di soprassalto.

Un forte dolore alle tempie gli fa prendere la testa tra le mani.

Si strofina gli occhi. Li riapre.

Che ora è? Le 18:30. Si è appisolato sulla panchina di un giardino

pubblico come un vecchio bacucco. Gli costa ammetterlo, ma

purtroppo l’energia non è più quella di una volta. Allunga la mano

per afferrare il Jyllands Posten che qualcuno ha abbandonato in un

angolo e legge l’oroscopo. Giornata favorevole a nuovi incontri. Un

atto di generosità può avere conseguenze impreviste. Presto inizierai

un viaggio indimenticabile. Il tuo cibo fortunato è la Nutella. Se il

cielo si annuvola, può darsi che piova. Si alza lentamente, afferra il

manico del trolley e s’incammina verso l’albergo.

Su con la vita, ha lasciato Mestre poche ore fa ed è già stanco?,

andiamo bene. Avanza chiedendosi se ce la farà a macinare tutti quei

chilometri in macchina, se mai arriverà a Capo Nord. Forse Wilma

aveva ragione, si è prefissato una meta troppo ambiziosa, decisamente

al di sopra delle sue possibilità. Sta per compiere sessant’anni, caso

mai se lo fosse dimenticato, avrebbe dovuto partire in comitiva, i

pensionati viaggiano in fila indiana dietro una guida munita di

ombrellino arcobaleno e seguono itinerari poco stressanti studiati a

tavolino.

Beh, ormai è in ballo, tanto vale ballare. Prima però, dice

sottovoce, Nutella mia ti odo chiamarmi …

Si ferma e guarda se nei dintorni c’è per caso un negozio di

alimentari. Negativo. Solo boutique, caffè e porcellane danesi.

Prosegue fino al semaforo, con la speranza che almeno la cucina

dell’albergo sia in grado di soddisfare il desiderio di qualcosa di dolce

191

che lo domina. Mentre aspetta il verde per attraversare la strada viene

abbordato da un ragazzone sui trenta che gli allunga un depliant

giallo e nero.

«Uomo con la valigia, non mi scappi. Concessionaria Rasmus

Holberg, usato sicuro a prezzi imbattibili. Se cerchi un’auto a nolo,

l’hai trovata. L’indirizzo è sul retro.»

«Proprio di una vettura ho bisogno, tante grazie.»

«Resti in città o te ne vai a zonzo per il paese?»

«La seconda che hai detto.»

«Allora ho quello che fa per te: Skoda Yeti color indaco, benzina,

autoradio, abs, cerchi in lega, climatizzatore con chiusura

centralizzata. Ti aspetto lunedì.»

«Saluti.»

Verde. Attraversa. L’Hotel Marittime è dall’altra parte della

strada. L’impressione è buona. Vediamo che ora s’è fatta. Infila una

mano nella tracolla per prendere l’iPhone e tira fuori un triskele

d’ambra grande come un’ostia. Non si ricorda neppure in quale

mercatino dell’usato l’ha acquistato. Dovrebbe smetterla di riempirsi

le tasche di oggetti inutili, Wilma glielo rimprovera continuamente,

ma cosa ci può fare se le cose vecchie gli piacciono. Vorrà dire che

terrà il triskele come portafortuna fino al suo rientro in Italia. Lo userà

come scacciapensieri. Perché ha intenzione di non pensare a niente

nelle prossime settimane, vuole divertirsi, e non dubita che ci riuscirà,

ci mancherebbe altro che non si divertisse in vacanza, si divertirà fino

all’ultimo. Da quando è andato in pensione ha cominciato a credere

nella purificazione dell’anima attraverso il gioco e il divertimento, e

da quel momento la sua vita è cambiata.


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