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LA VITA NUOVA DI DANTE ALIGHIERI ACCOMPAGNATA DAI COMMENTI di MAX DURAND FARDEL PARIGI 1898 nella traduzione italiana di Angelo Gemmi
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  • LA VITA NUOVA

    DI

    DANTE ALIGHIERI

    ACCOMPAGNATA DAI COMMENTI

    di

    MAX DURAND FARDEL

    PARIGI

    1898

    nella traduzione italiana

    di

    Angelo Gemmi

  • PREFAZIONE

  • a Vita Nuova è un romanzo d'amore, inno dell'amor glorioso, lamento dell'amore infranto. È anche un ro-

    manzo psicologico che differisce da quelli che la nostra letteratu-ra contemporanea ama, per l'elevatezza e la purezza dei senti-menti espressi e il silenzio osservato sulle sensazioni provate.

    L

    È anche un libro di memorie in cui il poeta annota, quasi giorno per giorno, le impressioni nuove e ingenue di un'anima che il contatto con il mondo, non aveva ancora che appena sfio-rato. Se la Divina Commedia non è che assai imperfettamente conosciuta in Francia, e alla maggior parte di quegli stesi che la leggono nella sua lingua originale, essa non è propriamente un linguaggio familiare che in una parte della sua vasta concezio-ne, si può dire che la Vita Nuova è sconosciuta presso di noi. Siamo sì abituati ad accostare il dolce nome di Beatrice al gran-de nome di Dante, ma è tutto.

    La biblioteca nazionale non possiede che due traduzioni del-la Vita Nuova. Tutte e due si trovano nascoste, e sono rimaste grandemente ignorate, in una traduzione della Divina Comme-dia: una di Delecluze, annessa ad una traduzione della Comme-dia di Brizeux (1891), priva di note o commenti, l'altra di Seba-stian Réal, quest'ultima assai incompleta1.

    La Vita Nuova,non è, come la Commedia, una creazione fantastica e sibillina, uscita interamente da una delle immagina-zioni più straordinarie che si siano imposte alla posterità. È una storia vera la cui forma romanzesca non fa che aggiungersi alla potenza di vita che l'anima.

    È la storia, infantile dapprima, poi romanzesca, quindi pate-tica, di due amanti del XIII secolo. Ci permette di gettare i no-stri sguardi su di un'epoca curiosa, mal conosciuta, periodo di transizione tra il crepuscolo morente del medioevo e l'aurora del rinascimento. La Vita Nuova, è un'opera piena di fascino e sug-gestiva al più alto grado. È un'opera umana, il cui interesse non si limita ai personaggi ch'essa mette in scena o all'epoca in cui si muovono.

    1 La Vita Nuova è molto più familiare agli inglesi. Tra il 1862 e il 1895, non se ne contano meno di quattro traduzioni letterali. Inoltre, due edizio-ni italiane, con introduzione e note in inglese, sono state pubblicate recen-temente a Londra da Whitehead e da Perini.

  • INTRODUZIONE

    I

    utta la storia di Dante è racchiusa in tre date precise. Nacque a Firenze nel 1265, fu elevato al priorato, la

    più alta magistratura del suo paese, nel 1300. morì a Ravenna nel 1321, all'età di 56 anni. Dopo aver preso parte, per un tem-po assai breve, al governo della repubblica fiorentina, fu im-provvisamente precipitato giù dal potere, dal gioco mortale delle fazioni e, vittima di accuse infami, condannato nel 1301 alla confisca della sua modesta fortuna, all'esilio e al boia se fosse ritornato nella sua patria.

    T

    La sua esistenza durante questi lunghi anni d'esilio, è rima-sta molto oscura. Si sa che errò di ospitalità in ospitalità, di ca-stello in castello, di convento in convento salendo le scale degli altri e mangiando il pane altrui. Si seguono le sue tracce a Ve-rona, Padova, Siena, Bologna, Cremona, presso tale o talaltro personaggio, di questi tiranni che si dividevano le province, le città, i castelli, tagliando ciascuno, a loro volta, questa sventu-rata Italia la cui sorte gli strappava tanti eloquenti rimproveri.. lo si segue anche a Parigi, dove il suo soggiorno è stato senza alcun dubbio contestato a torto.

    Divenuto ghibellino dopo il suo esilio1, si era in un primo tempo unito ad alcuni sforzi per riaprire la loro patria ai suoi compagni di esilio. È così che avrebbe preso parte nel 1304, ad un tentativo armato dei Ghibellini esiliati contro la Firenze guelfa e che più tardi avrebbe voluto trascinare contro Firenze l'imperatore Enrico VII, Arrigo, disceso in Italia per ristabilir-

    1 I Guelfi rappresentavano le franchigie comunali, e i Ghibellini i privi-legi feudali (Ozanam)

    IX

  • vi l'autorità dell'impero. Ma non indugiò a separarsi da un par-tito che non gli offriva altro che soggetti di disgusto o testimo-nianze d'impotenza.

    La sua esistenza si manifestava allora, da un tempo all'al-tro, per mezzo di lettere, un piccolo numero delle quali è perve-nuto fino a noi, con proteste vibranti, qualche intervento diplo-matico , proclami improntati al più ardente patriottismo verso l'Italia che ancora non esisteva, ma i cui tronconi divisi, sem-bravano riunirsi nel suo cuore mediante un segreto intuito. Proprio durante questo periodo, le prime parti del suo poema cominciarono a diffondersi presso il popolo.

    La vita che conduceva all'epoca, si rivela oggi a noi dalle opere dettategli da quelle che si possono chiamare le sue idee fisse: vale a dire la costituzione monarchica della società civile sotto lo scettro dell'impero, affianco alla società teocratica sot-to il pallio del papato, la nobilitazione della lingua volgare del suo paese, la correzione di una società confusa e depravata e la contemplazione della morte, a cui dobbiamo la Divina Comme-dia.

    Della prima parte della sua vita non ci resta quasi alcuna traccia che abbia potuto attirare l'attenzione o il ricordo dei suoi contemporanei. Non abbiamo che la Vita Nuova, che si pensa esser stata scritta nel 1291 o 1292, o forse più tardi, ma sicuramente prima del 1300. a questa non si possono aggiunge-re che alcune poesie leggere e gli studi assidui di cui ci informa il Convivio1. Questi ultimi dovevano aver riempito soprattutto il tempo trascorso tra la morte di Beatrice e la sua elezione alla carica di Priore.

    È ancora a questa fase della sua vita che appartiene il suo matrimonio. Dante ha sempre taciuto sul posto che quest'unio-ne aveva potuto occupare nel suo cuore o influire sulle scelte della sua vita. È il nome di Gemma Donati, non si ricollega or-mai più a quello glorioso di Dante che per la discendenza che gli ha dato.

    1 Trattato II, capitolo XIII

    X

  • II

    o pensato che era opportuno rammentare i tratti principali dell'esistenza del poeta della Vita Nuova,

    non è però questo il posto adatto per dilungarsi a questo ri-guardo. Quanto alle sue differenti opere come il De Vulgari Eloquentia o il De Monarchia, sembrerebbe difficile assegnar-gli una data, particolarmente in relazione alla Vita Nuova, che deve unicamente occuparci qui. Per quanto riguarda il Convi-vio, è un'opera di grande respiro che Whitehead pensa essere stata iniziata prima del suo priorato (1300) e continuata più tardi nei giorni dell'esilio1. Secondo quanto il suo autore an-nunciava, si deve credere che non l'abbia portata a termine. Vorrei a questo punto tentare solo di ricostruire un po' la per-sonalità del poeta durante il periodo che corrisponde alla pas-sione per Beatrice e quello che ha fatto seguito alla morte della Donna Gentile.

    H

    Non possediamo, a questo riguardo, che un numero molto esiguo di nozioni. Ciò nonostante, mi sembra possibile farsene un'idea non troppo lontana dalla realtà. La famiglia di Dante, della quale ci si compiace di far risalire l'origine a tempi assai remoti, non sembrava aver avuto a Firenze che una posizione sociale molto modesta.

    Perse suo padre all'età di dieci anni. Gli Alighieri erano senza dubbio agiati, Dante stesso aveva, all'epoca del suo prio-rato, diverse proprietà, tanto a Firenze quanto nei dintorni, di cui non conosciamo l'entità, e la cui confisca accompagnò la sua condanna all'esilio. Si potrebbe dire, se questa espressione fosse stata in voga, che apparteneva ad una borghesia agiata.

    1 Whitehead, edizione italiana della Vita Nuova, London, 1893

    XI

  • Circa la figura di suo padre, non se ne sa nulla. E questo si-lenzio assoluto nei ricordi rimastici di quest'epoca, come nell'o-pera del figlio, fa pensare che non occupasse una posizione di rilievo nella società fiorentina. Non lo si cita che nel commento di Boccaccio a proposito dell'invito che gli fu rivolto da Folco Portinari e in occasione del quale condusse con sé suo figlio Dante ancora fanciullo.

    Dante aveva perso precocemente la madre (Bella) e suo pa-dre si era risposato. Non sappiamo la parte che la sua matrigna ha potuto prendere ai primi anni della sua vita, ed alla sua educazione. Checché ne sia, quest'ultima sembra essere stata molto accurata e non ci si può impedire di notare che tutto, nelle sue abitudini di un'estrema cortesia, nella delicatezza e raffinatezza del suo linguaggio, sembrerebbe recare l'impronta di un'educazione femminile.

    Boccaccio afferma che mostrò un'attitudine precoce agli studi teologici e filosofici. Era del resto il campo in cui si eser-citava quasi esclusivamente, pressappoco, la scolastica di allora. Dante stesso1 ci dice che ciò non avvenne che dopo la morte di Beatrice, e quindi tra i venticinque e i trent'anni che si mise a seguire le scuole dei religiosi e dei filosofi, essendosi, senza dub-bio limitato, fino a quel momento, a studi elementari e che gra-zie a ciò che sapeva di grammatica ed alla sua propria intelli-genza, si mise in condizione, nel giro di trenta mesi di studio, di andare a cercar consolazione negli scritti di Boezio e di Tul-lio (è così che chiama sempre Cicerone).

    Non sembrerebbe aver saputo il greco, che del resto non era ancora molto diffuso in quest'epoca. Ma acquisì ben presto, nozione di tutto. Aveva familiarità con la cosmografia e l'a-strologia (l'astronomia) di quei tempi.

    Aveva molto gusto per le arti, per la musica soprattutto e aveva studiato disegno presso il suo amico Giotto e Cimabue. Quanto alla poesia, benché si fosse esercitato a rimare già in giovane età, è al suo amore per Beatrice, morta nel 1290 ch'egli stesso fa risalire lo sviluppo delle sue predisposizioni poetiche. Si sarebbe invece abbastanza incerti sulla parte che avrebbe po-tuto prendere alla sua educazione, Brunetto Latini, di cui parla

    XII

  • nella Divina Commedia con espressioni di tenera riconoscen-za1.

    Brunetto era nato a Firenze nel 1210 e vi è morto nel 1284. era a Parigi nel 1263 ed ha a lungo soggiornato in Francia. Non rientrò a Firenze che nel 1266, con gli altri esiliati Guelfi. Non è quindi che dall'età di 19 anni che Dante poté intrattenersi con lui, perché si tratta probabilmente più di un'amicizia intel-lettuale che di un insegnamento propriamente detto. Non si possono prendere alla lettera le testimonianze eccessive che noi troviamo nella Vita Nuova, della passione di Dante per Beatri-ce. Non bisognerebbe raffigurarselo, come si sarebbe tentati di fare, nell'atto di passare il suo tempo a percorrere le strade alla ricerca di questa bellezza da cui il suo cuore non poteva disto-gliersi. Ciò sarebbe, dice Del Lungo, farne un Dante ridicolo2.

    Se ha potuto concepire dalla sua infanzia, una passione che non doveva mai estinguersi (a parte le eclissi passeggere), si deve credere che, in quest'animo straordinario, il pensiero e l'immaginazione, non hanno dovuto mostrare una precocità minore.

    Il disordine in cui viveva la società di allora, i rivolgimenti incessanti che subiva il governo del suo paese, lo spettacolo umiliante e scandaloso che offriva la chiesa, dal trono di San Pietro fino alle ultime ramificazioni del mondo ecclesiastico, hanno dovuto far sbocciare ben presto, in questa testa possen-te, e in questo cuore di una meravigliosa sensibilità, molti sogni strani e concezioni straordinarie, agitarsi molti dubbi cocenti, forse formarsi anche già delle fantasmagorie deliranti.

    Dante conduceva, in questa prima giovinezza, una vita ab-bastanza ritirata3 e non sembrava aver precisamente vissuto in società nel senso in cui intendiamo questa parola, dove forse la sua situazione personale non ve lo chiamava e dalla quale il proprio carattere poteva allontanarlo. Ciò nonostante, aveva degli amici tra i giovani della sua età e sembrava averli anche

    1 Inferno, canto XV2 Isidoro Del Lungo, Beatrice nella vita e nella poesia3 Lumini, giornale dantesco

    XIII

  • tra i giovani letterati più distinti, i rimatori, come li si chiama-va allora, ed era egli stesso un rimatore.

    Del resto, egli stesso non ci illumina di più sul suo genere di vita o sulle sue abitudini. Si può notare che, sia nei racconti in prosa della Vita Nuova, sia nei versi che questi incornicia-no, non si discosta un istante da ciò che riguarda Beatrice, sia che si tratti di incidenti propri o del suo pensiero.

    I costumi erano senza dubbio molto debosciati a Firenze. Boccaccio ci dice che è un motivo di meraviglia (una piccola maraviglia) che, in tempi in cui si fuggiva ogni piacere onesto e che non si pensava che a procurarsene di conformi alla pro-pria lascivia, Dante avesse potuto amare diversamente1. D'altra parte, il poeta stesso ha espresso lo sbalordimento che poteva causargli il dominio che tanta giovinezza aveva potuto eserci-tare sulle sue passioni ed i suoi impulsi.

    Tuttavia, se la passione per Beatrice non ha sofferto alcuna macchia, non sembrerebbe di poter dire altrettanto per quanto riguarda altri periodi della sua esistenza. Il severo rimprovero che si fa indirizzare dall'ombra di Beatrice alla sommità del Purgatorio2, è una confessione toccante dello sviamento di cui testimonia un pentimento così vivo.

    A quale epoca si possono far risalire queste allusioni a certi incidenti dei quali si è creduto di trovare qualche indizio nell'o-pera del poeta e che la leggenda (o dovremmo dire la maligni-tà) ha raccolto?

    È senza dubbio agli anni seguiti alla morte di Beatrice. Non è che allora che li sappiamo riempiti da studi ai quali si dedicava con un tale fervore e dalle preoccupazioni della vita politica in cui aveva fatto ingresso, che possiamo attribuirgli con qualche verosimiglianza, abitudini di dissipazione3.

    1 Commento di Boccaccio2 Canto XXXI3 Ozanam crede che il soggiorno di Dante a Parigi debba essere riporta-

    to ad un periodo compreso tra il 1294 e il 1299, vale a dire tra la morte di Beatrice e l'elezione del poeta al priorato e che è in quest'epoca ch'ebbero luogo i disordini di cui si accusa egli stesso. Cosa che mi parrebbe difficil-mente accettabile (vedi l'epilogo)

    XIV

  • Quando la Beatrice del Purgatorio gli rimprovera, sotto il velo dell'allegoria, di essersi abbandonato alle vanità del piace-re, quando non aveva più la scusa della giovinezza e dell'ine-sperienza1. Dante ci lascia chiaramente indovinare che è al tempo della sua maturità, vale a dire della sua vita errante di esiliato, che devono essere ascritte le sue debolezze e i suoi ri-morsi.

    C'è ancora un punto che vorrei toccare. Ci si è compiaciuti di vedere nella Divina Commedia una costruzione architettoni-ca (Giuliani) il cui piano sarebbe stato deciso dal poeta da tem-po immemorabile e la cui concezione risalirebbe alle epoche stesse della sua giovinezza; e ci si basa su molti passaggi della Vita Nuova la cui interpretazione è, in effetti, abbastanza pro-blematica.

    Io non credo che sia così. La Vita Nuova è un'opera che straripa di giovinezza e d'illusione; è sulle rive di un chiaro ru-scello o negli ambienti mondani che la scena si svolge ed i dolo-ri più atroci sono rivestiti da una dolcezza infinita, e se il cuore si rivolta, ciò non avviene che contro la natura ed i suoi impie-tosi decreti, e l'animo del poeta non sembra raggiunto che dalle ferite che questi ultimi gli provocano.

    La Divina Commedia, è l'opera di un'età matura, e che ha attraversato le esperienze più terribili e le prove più crudeli del-la sua vita. È l'espressione delle amarezze, dei rancori, delle in-dignazioni che lasciano le delusioni, le iniquità e i tradimenti. È il grido di un cuore torturato dalla malignità degli uomini. Io non penso quindi che il poeta della Vita Nuova, quando la scrisse, abbai avuto l'intuizione della Divina Commedia. Quan-to ai passaggi cui ho appena alluso, e sui quali tornerò nel mio commento, bisogna credere che sarebbero stati introdotti da tardive interpolazioni

    1 Non ti dovea gravar le penne in giuso,ad aspettar più colpo, o pargoletta

    o altra vanità con sì breve uso.Novo augelletto due o tre aspetta;ma dinanzi da li occhi d'i pennutirete si spiega indarno o si saetta".

    XV

  • III

    e si vuole capire la costruzione e, se posso dire così, l'e-conomia letteraria della Vita nuova, è necessario get-

    tare uno sguardo sullo stato della letteratura nel medioevo. Du-rante il lungo periodo a cui si è dato questo nome, mentre i mo-naci, chini sui manoscritti eroici dell'antichità, preparavano per il rinascimento un'eredità che le conservavano piamente ed una gioventù avida di sapere si affollava da ogni parte verso le celebri scuole di allora, — per battersi a colpi di sillogismi sulla groppa della scolastica, — due lingue si formavano; l'italiana e la francese. Dopo essersi scrollate di dosso il giogo del latino, esse si producevano nei loro rispettivi idiomi, informi dappri-ma, poi divenuti poco a poco capaci di vivere di vita propria.

    S

    Nelle regioni che dovevano divenire un giorno il cuore della Francia, i racconti, i favolelli (fabliaux), i misteri, erano ispira-ti alla libertà, all'ironia, alla familiarità, spesso grossolana, da cui Boccaccio ha attinto tutto ciò che in seguito gli è stato aspramente rimproverato. Le canzoni di gesta vi avevano da poco unito i loro accenti eroici e una poesia detta cortese, me-scolata a favole pagane e leggende cristiane, si era fatta strada nelle nobili residenze per mezzo dei trovatori e dei trovieri. Ma in generale la lingua d'Oil (la lingua dei trovieri) non oltrepas-sava l'idillio e la pastorale e raramente si elevava fino alle re-gioni eteree in cui si ponevano le lingue del mezzogiorno1.

    1 Questo quadro, benché superficiale, non si riferisce che a ciò che si potrebbe chiamare la letteratura corrente del tempo. C'erano già, nella Francia di allora, una letteratura alta, quella dell'epopea, una delle nostre glorie nazionali, della satira e queste grandi cronache in cui Joinville e Villehardhouin annunciavano le memorie dalle quali siamo sommersi og-gidì.

    XVI

  • Nei paesi del sole, in Provenza e in Italia, c'erano versi e versi d'amore, in cui i rimatori di allora, come tanti nostri mo-derni, non intrattenevano diversamente i loro lettori o uditori, che con le loro estasi o disperazioni. Queste produzioni leggere che la stampa non poteva ancora conservare, si tenevano come delle reliquie, si comunicavano nell'intimità, erano indirizzate ai letterati alle donne e scambiate a mo' di corrispondenza, pas-sando di mano in mano, come d'altronde i prodotti di una vena meno personale, si lasciavano divulgare da giullari e menestrel-li.

    È cosi che Dante stesso, Guido e tutta la schiera dei rimato-ri della lingua del si o della lingua d'Oc, fino a Petrarca, prelu-devano agli accenti più virili della Divina commedia o della Gerusalemme Liberata. Dante, la cui opera doveva sopravanza-re l'epoca in cui viveva, apparteneva ancora a quella per i sog-getti dei suoi primi saggi lirici. Amava, come tanti suoi con-temporanei, riprodurre in rime gli avvenimenti che avevano colpito la sua attenzione, come le emozioni del suo cuore e le fantasticherie della sua immaginazione.

    La passione che occupò la fine della sua infanzia e la sua adolescenza, alla cui storia è consacrata la Vita Nuova, forni-sce ai suoi istinti poetici, come dichiara egli stesso, una materia feconda e siccome si era già esercitato di buon'ora alle cose ri-mate, tutti gli incidenti della sua vita amorosa e i drammi che potevano ricollegarvisi, divennero i soggetti delle canzoni, dei sonetti e delle ballate che formano la trama della Vita Nuova. Qualche tempo dopo la morte della donna ch'egli aveva amato, la fonte delle sue espansioni liriche si era inaridita, egli le rac-colse e le riprodusse in questo piccolo libro se non testualmen-te, almeno secondo il significato ch'esse avevano. Ma prima ne fece una scelta, le ritoccò, vi introdusse senza dubbio più di un'interpolazione e le incorniciò con una prosa che ci aiuta a ricostruire questa dolce e tenera storia, malinconica aurora dei giorni tempestosi che il destino gli preparava.

    XVII

  • IV

    uella che più sopra ho chiamato l'economia letteraria della Vita Nuova, è del tutto particolare. Ci ricorda

    questi monumenti compositi in cui si ritrovano lo stile e l'epoca delle costruzioni che vi si sono sovrapposte. Gli elementi di cui essa consta, possono essere ricondotti a tre ordini differenti:

    Q

    I. Una prosa che ci espone il racconto. Il suo sviluppo compren-de la successione di avvenimenti, d'impressioni e sentimenti la cui evoluzione costituisce l'ossatura stessa dell'opera

    II. Dei versi sotto forma di canzoni, sonetti, ballate che si ricol-legano ai momenti che seguono l'azione del poema

    III. Delle spiegazioni, divisioni e suddivisioni all'infinito, le qua-li, conformemente alle regole della scolastica, si rapportano alla struttura e al significato di ciascuna delle poesie.

    Il tutto è contenuto in quarantatré capitoli. Ma questa esposizione non è precisamente conforme all'ordine cronologi-co della composizione. Non c'è dubbio che la prima emanazio-ne della Vita Nuova appartiene ai piccoli poemi in cui l'autore ci inizia ai sentimenti intimi la cui espressione rimata è la tra-ma vera della sua opera. Ciascuno di essi è il quadro, compiuto nella sua concisione, di uno stato d'animo sollecitato dalle cir-costanze esterne o dalla propria immaginazione.

    Se si vuole rapportare tutto ciò alle abitudini letterarie del-l'epoca, si potrà seguire la genesi di ognuna di queste poesie in cui l'autore riproduceva, secondo la forma dettatagli dai tempi e dal suo genio, le sue impressioni e i suoi pensieri del momen-to. Questo abbraccia un arco di tempo di sedici anni, se li si vuole contare dal primo (1274) in cui nacque l'amore di Dante

    XVIII

  • per Beatrice, fino alla morte di quest'ultima (1290); ma in real-tà il racconto non elenca le sue peripezie che per una durata di tre o quattro anni.

    È dopo la morte di Beatrice che il poeta ha radunato le espressioni dei suoi stati d'animo e ha dato loro corpo scriven-do, con i ricordi, la prosa che serve a collegarle. Per ragioni che non conosciamo, ha lasciato fuori un certo numero di componi-menti rimati che erano certamente stati composti nello stesso periodo e che si riconnettono agli stessi soggetti e alle stesse idee di quelli conservati in questo piccolo libro.

    Nella maggior parte delle edizioni italiane della Vita nuo-va, il testo del poema è seguito da un'appendice comprendente: altre rime spettanti alla Vita nuova. Tutte queste poesie (rime), sonetti, canzoni, ecc... non occupano un egual posto nel poema. Io ho riprodotto nei commenti quelli che mi son sembrati rifar-si più direttamente a tale o talaltro capitolo, vale alle circostan-ze che vi sono correlate.

    È quindi ai primi anni che hanno seguito la morte di Bea-trice che bisogna rapportare questo lavoro di ricostruzione. Ci si accorda in genere nel porlo tra il 1291 e il 1292, come la composizione della prosa che avviluppa, la poesia come la pol-pa di un frutto ne avvolge il nocciolo.

    È probabile che abbia rimaneggiato i prodotti della sua ispirazione giornaliera e non si saprebbe dubitare che vi abbia introdotto più di una interpolazione, perché vi sono diversi passaggi della Vita Nuova la cui interpretazione non sembre-rebbe possibile che mediante una tale supposizione.

    Questa prosa ci aiuta a stabilire la filiazione delle circo-stanze che hanno sollecitato o ispirato i brani poetici. Essa non è sovente che la preparazione a questi ultimi e lo stesso raccon-to può così riprodursi sotto due forme successive. Talvolta que-sta doppia espressione di avvenimenti o d'impressioni identi-che, si presenta sotto due forme un po' differenti. È come un motivo musicale che il compositore ripete in un tono differente o con degli sviluppi nuovi.

    XIX

  • V

    l presente lavoro non è un'opera di erudizione. È stato condotto sul testo di fraticelli e Quello di Giuliani. I te-

    sti che hanno potuto seguire questi due sapienti editori della Vita Nuova, avevano dovuto subire molte vicissitudini. Io non so se tutti gli sforzi dell'erudizione italiana perverranno a ri-pristinarli nella loro purezza originale; è da tempo che vi si la-vora. Un recente fascicolo pubblicato dalla Società Dantesca Italiana1, ci fornisce un gran numero di esempi delle infinite varianti che hanno potuto introdurvi gli errori, le disattenzio-ni, le fantasie di numerose generazioni di copisti.

    I

    Mi è parso che queste varianti e queste correzioni vertesse-ro soprattutto su delle lettere o delle sillabe, raramente su paro-le intere, senza parlare della punteggiatura che ha dovuto essere spesso difettosa. Ma non mi è sembrato che le intenzioni del-l'autore abbiano avuto a soffrirne. E quel che deve interessarci qui sono unicamente i suoi sentimenti, il suo pensiero, la sua immaginazione.

    Non c'è forse uno solo degli incidenti della vita di Dante o uno dei passaggi della sua produzione poetica che non sia stato l'oggetto di disquisizioni contraddittorie vertenti sul valore dei testi trasmessi alla posterità (dal momento che i manoscritti originali sono scomparsi), o sulle date e la successione degli av-venimenti a cui fanno allusione. Siccome tutto è straordinario, nella vita come nell'opera del poeta, non si è potuti pervenire a determinare, con una qualche precisione, neppure l'epoca approssimativa in cui queste opere sono state concepite o si sono succedute.

    1 Bollettino della Società Dantesca Italiana, Firenze, dicembre 1896

    XX

  • E ancora, come conciliare l'enormità e la diversità dell'ope-ra, presa nel suo insieme, con un'esistenza così profondamente movimentata. Si tratta anche di un'epoca che sembrava dover essere preclusa alla sua attività letteraria.

    Dopo la tributazione che ha seguito la morte di Beatrice (1290), noi vediamo la sua esistenza riempita dal lavoro e dallo studio; dedica anni, trenta mesi, (Il Convivio) allo studio del la-tino che fino ad allora non conosceva che imperfettamente e in cui doveva trovare i suoi autori prediletti, all'assidua frequenta-zioni delle lezioni dei filosofi e dei teologi. Poi il suo ingresso ufficiale nella vita pubblica1 e il suo priorato, di durata breve ma intensa, quindi i primi anni dell'esilio e l'agitazione politi-ca a cui si associò...ecco qui, se si considera la vita che poteva condurre, molti soggetti di stupore, di una sorta, si potrebbe dire, di vertigine.

    I commenti al testo concernenti le interpretazioni della parte simbolica e filosofica del poema, hanno per fine allo stes-so tempo, di ricondurre allo spirito del lettore la personalità del poeta e il quadro della sua epoca e del suo ambiente, nonché le immagini che han dovuto colpire i suoi occhi.

    Ho chiesto lumi ad alcuni degli storici dell'opera di Dante Alighieri, a Carducci, a Del Lungo, alle recenti e compendiose pubblicazioni di Leynardi2 e Scherillo3, a numerosi articoli del giornale dantesco, ecc... notizie sui fatti contemporanei all'ope-ra; ho voluto conoscere le loro opinioni e i pareri personali.

    1 Si fece ammettere, nel 1295, nella sesta delle sette arti maggiori, quella dei medici e degli speziali. Era una condizione richiesta per l'ingresso nel-la vita pubblica

    2 Luigi Leynardi, la psicologia nell'arte della Divina Commedia, Torino, 1894

    3 Michele Scherillo, alcuni capitoli della biografia di Dante, Torino, 1896

    XXI

  • VITA NUOVA

    DI

    DANTE ALIGHIERI

  • I. In quella parte del libro de la mia memoria, dinanzi a la quale poco si potrebbe leggere, si trova una rubrica la quale dice: "Incipit vita nova". Sotto la quale rubrica io trovo scritte le parole le quali è mio intendimento d'asemplare in questo li-bello; e se non tutte, almeno la loro sentenzia.

    II. Nove fiate già appresso lo mio nascimento era tornato lo cielo de la luce1 quasi a uno medesimo punto, quanto a la sua propria girazione, quando a li miei occhi apparve prima la glo-riosa donna de la mia mente, la quale fu chiamata da molti Beatrice, li quali non sapeano che si chiamare. Ella era in que-sta vita già stata tanto, che ne lo suo tempo lo cielo stellato era mosso verso la parte d'oriente de le dodici parti l'una d'un gra-do2, sì che quasi dal principio del suo anno nono apparve a me, ed io la vidi quasi da la fine del mio nono. Apparve vestita di nobilissimo colore3, umile ed onesto, sanguigno, cinta e ornata a la guisa che a la sua giovanissima etade si convenia. In quello punto dico veracemente che lo spirito de la vita, lo quale dimo-ra ne la secretissima camera de lo cuore, cominciò a tremare sì fortemente che apparia ne li mènimi polsi orribilmente; e tre-mando, disse queste parole: «Ecce deus fortior me, qui veniens dominabitur mihi4». In quello punto lo spirito animale, lo quale dimora ne l'alta camera ne la quale tutti li spiriti sensitivi por-tano le loro percezioni5, si cominciò a maravigliare molto, e parlando spezialmente a li spiriti del viso, sì disse queste paro-le: «Apparuit iam beatitudo vestra6». In quello punto lo spirito naturale, lo quale dimora in quella parte ove si ministra lo nu-

    1 Il sole2 Rivoluzione che si compie in cento anni (tutto quel cielo si muove se-

    guendo il movimento della stellata spera, da occidente a oriente, in cento anni uno grado). Tutti questi passaggi si riconducono alla concezione del-la cosmografia celeste che si trova sviluppata in maniera molto estesa nel Convivio (trattato II, capitoli II e XV)

    3 Beatrice è sempre rappresentata, fin nelle regioni celesti, vestita di rosso, colore senza dubbio nobile agli occhi del poeta.

    4 Ecco un dio più forte di me che venendo mi dominerà5 Il cervello6 Già appare la vostra beatitudine

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  • trimento nostro1, cominciò a piangere, e piangendo, disse que-ste parole: «Heu miser, quia frequenter impeditus ero dein-ceps2!». D'allora innanzi dico che Amore segnoreggiò la mia anima, la quale fu sì tosto a lui disponsata, e cominciò a pren-dere sopra me tanta sicurtade e tanta signoria per la vertù che li dava la mia imaginazione, che me convenia fare tutti li suoi piaceri compiutamente. Elli mi comandava molte volte che io cercasse per vedere questa angiola giovanissima; onde io ne la mia puerizia molte volte l'andai cercando, e vedèala di sì nobili e laudabili portamenti, che certo di lei si potea dire quella paro-la del poeta Omero: "Ella non parea figliuola d'uomo mortale, ma di Deo3". E avegna che la sua imagine, la quale continua-mente meco stava, fosse baldanza d'Amore a segnoreggiare me, tuttavia era di sì nobilissima vertù, che nulla volta sofferse che Amore mi reggesse sanza lo fedele consiglio de la ragione in quelle cose là ove cotale consiglio fosse utile a udire. E però che soprastare a le passioni e atti di tanta gioventudine pare alcuno parlare fabuloso, mi partirò da esse; e trapassando molte cose, le quali si potrebbero trarre de l'esemplo onde nascono queste4, verrò a quelle parole le quali sono scritte ne la mia memoria sotto maggiori paragrafi.

    III. Poi che furono passati tanti die, che appunto erano compiuti li nove anni5 appresso l'apparimento soprascritto di questa gentilissima, ne l'ultimo di questi die avvenne che questa mirabile donna apparve a me vestita di colore bianchissimo, in mezzo a due gentili donne, le quali erano di più lunga etade; e passando per una via, volse li occhi verso quella parte ov'io era molto pauroso, e per la sua ineffabile cortesia, la quale è oggi

    1 Fraticelli: lo spirito vocale2 Sventurato che sono, io verrò a trovarmi spesso ben imbarazzato! Noi

    troviamo più volte il termine impeditus, impiegato nel senso di imbaraz-zato, dubbioso

    3 È di Elena che passa davanti alla folla che Omero parla in termini si-mili

    4 Vale a dire dal mio spirito5 Dante aveva allora 18 anni e Beatrice pressappoco 17

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  • meritata nel grande secolo1, mi salutoe molto virtuosamente, tanto che me parve allora vedere tutti li termini de la beatitudi-ne. L'ora che lo suo dolcissimo salutare mi giunse, era ferma-mente nona di quello giorno; e però che quella fu la prima volta che le sue parole si mossero per venire a li miei orecchi, presi tanta dolcezza, che come inebriato mi partio da le genti, e ri-corsi a lo solingo luogo d'una mia camera, e puòsimi a pensare di questa cortesissima. E pensando di lei mi sopragiunse uno soave sonno, ne lo quale m'apparve una maravigliosa visione, che me parea vedere ne la mia camera una nèbula di colore di fuoco, dentro a la quale io discernea una figura d'uno segnore di pauroso aspetto2 a chi la guardasse; e pareami con tanta leti-zia, quanto a sé, che mirabile cosa era; e ne le sue parole dicea molte cose, le quali io non intendea se non poche; tra le quali intendea queste: «Ego dominus tuus3». Ne le sue braccia mi pa-rea vedere una persona dormire nuda4, salvo che involta mi pa-rea in uno drappo sanguigno leggeramente; la quale io riguar-dando molto intentivamente, conobbi ch'era la donna de la sa-lute, la quale m'avea lo giorno dinanzi degnato di salutare. E ne l'una de le mani mi parea che questi tenesse una cosa, la quale ardesse tutta; e pareami che mi dicesse queste parole: «Vide cor tuum5». E quando elli era stato alquanto, pareami che disve-gliasse questa che dormia; e tanto si sforzava per suo ingegno, che la facea mangiare questa cosa che in mano li ardea, la qua-le ella mangiava dubitosamente. Appresso ciò, poco dimorava che la sua letizia si convertia in amarissimo pianto; e così pian-gendo, si ricogliea questa donna ne le sue braccia, e con essa mi parea che si ne gisse verso lo cielo; onde io sostenea sì grande angoscia, che lo mio deboletto sonno non poteo sostenere, anzi si ruppe e fui disvegliato. E mantenente cominciai a pensare, e

    1 Nell'altra vita2 Questo personaggio è l'amore3 Io sono il tuo signore4 Si è visto in questa nudità, un simbolo di verginità. L'opinione espres-

    sa da altri autori, che Beatrice era già sposata a quell'epoca, non si sa-prebbe conciliare con questa attribuzione simbolica

    5 Guarda il tuo cuore

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  • trovai che l'ora ne la quale m'era questa visione apparita, era la quarta de la notte stata; sì che appare manifestamente ch'ella fue la prima ora de le nove ultime ore de la notte1. Pensando io a ciò che m'era apparuto, propuosi di farlo sentire a molti, li quali erano famosi trovatori in quello tempo: e con ciò fosse cosa che io avesse già veduto per me medesimo l'arte del dire parole per rima, propuosi di fare uno sonetto, ne lo quale io sa-lutasse tutti li fedeli d'Amore; e pregandoli che giudicassero la mia visione, scrissi a loro ciò che io avea nel mio sonno veduto. E cominciai allora questo sonetto, lo quale comincia: "A cia-scun'alma presa".

    A ciascun'alma presa, e gentil core,nel cui cospetto ven lo dir presente,in ciò che mi rescrivan suo parvente,salute in lor segnor, cioè Amore.

    Già eran quasi che atterzate l'oredel tempo che onne stella n'è lucente,quando m'apparve Amor subitamente,cui essenza membrar mi dà orrore.

    Allegro mi sembrava Amor tenendomeo core in mano, e ne le braccia aveamadonna involta in un drappo dormendo.

    Poi la svegliava, e d'esto core ardendolei paventosa umilmente pascea:appresso gir lo ne vedea piangendo2.

    Questo sonetto si divide in due parti; che la prima parte sa-luto e domando risponsione, ne la seconda significo a che si dee rispondere. La seconda parte comincia quivi: "Già eran".

    A questo sonetto fue risposto da molti e di diverse senten-zie; tra li quali fue risponditore quelli cui io chiamo primo de li miei amici, e disse allora uno sonetto, lo quale comincia: "Vede-sti al mio parere onne valore3". E questo fue quasi lo principio

    1 Vedi il capitolo XXX per quanto concerne il numero 92 Vedi il commento del capitolo III3 Questo amico è Guido Cavalcanti, uno dei poeti più stimati di quest'e-

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  • de l'amistà tra lui e me, quando elli seppe che io era quelli che li avea ciò mandato. Lo verace giudicio del detto sogno non fue veduto allora per alcuno, ma ora è manifestissimo a li più sem-plici1.

    IV. Da questa visione innanzi cominciò lo mio spirito natu-rale2 ad essere impedito ne la sua operazione, però che l'anima era tutta data nel pensare di questa gentilissima; onde io diven-ni in picciolo tempo poi di sì fràile e debole condizione, che a molti amici pesava de la mia vista; e molti pieni d'invidia già si procacciavano di sapere di me quello che io volea del tutto cela-re ad altrui. Ed io, accorgendomi del malvagio domandare che mi faceano, per la volontade d'Amore, lo quale mi comandava secondo lo consiglio de la ragione, rispondea loro che Amore era quelli che così m'avea governato. Dicea d'Amore, però che io portava nel viso tante de le sue insegne, che questo non si potea ricovrire. E quando mi domandavano: «Per cui t'ha così distrutto questo Amore?», ed io sorridendo li guardava, e nulla dicea loro.

    V. Uno giorno avvenne che questa gentilissima sedea in parte ove s'udiano parole de la regina de la gloria, ed io era in luogo dal quale vedea la mia beatitudine: e nel mezzo di lei e di me per la retta linea sedea una gentile donna di molto piacevo-le aspetto, la quale mi mirava spesse volte, maravigliandosi del mio sguardare, che parea che sopra lei terminasse. Onde molti s'accorsero de lo suo mirare; ed in tanto vi fue posto mente, che, partendomi da questo luogo, mi sentio dicere appresso di me: «Vedi come cotale donna distrugge la persona di costui»; e nominandola, eo intesi che dicea di colei che mezzo era stata ne la linea retta che movea da la gentilissima Beatrice3 e termina-va ne li occhi miei. Allora mi confortai molto, assicurandomi che lo mio secreto non era comunicato lo giorno altrui per mia

    poca.1 Si troveranno più risposte nel commento al capitolo III2 La mia salute3 La festa della Vergine

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  • vista. E mantenente pensai di fare di questa gentile donna schermo de la veritade; e tanto ne mostrai in poco tempo, che lo mio secreto fue creduto sapere da le più persone che di me ragionavano. Con questa donna mi celai alquanti anni e mesi1; e per più fare credente altrui, feci per lei certe cosette per rima, le quali non è mio intendimento di scrivere qui, se non in quan-to facesse a trattare di quella gentilissima Beatrice; e però le la-scerò tutte, salvo che alcuna cosa ne scriverò che pare che sia loda di lei.

    VI. Dico che in questo tempo che questa donna era scher-mo di tanto amore, quanto da la mia parte, sì mi venne una vo-lontade di volere ricordare lo nome di quella gentilissima ed acompagnarlo di molti nomi di donne, e spezialmente del nome di questa gentile donna. E presi li nomi di sessanta le più belle donne de la cittade ove la mia donna fue posta da l'altissimo sire, e compuosi una pìstola sotto forma di serventese2, la quale io non scriverò: e non n'avrei fatto menzione, se non per dire quello che, componendola, maravigliosamente addivenne, cioè che in alcuno altro numero non sofferse lo nome de la mia don-na stare, se non in su lo nove, tra li nomi di queste donne.

    .VII. La donna co la quale io avea tanto tempo celata la mia

    volontade, convenne che si partisse de la sopradetta cittade e andasse in paese molto lontano: per che io quasi sbigottito de la bella difesa che m'era venuta meno, assai me ne disconfortai, più che io medesimo non avrei creduto dinanzi. E pensando che se de la sua partita io non parlasse alquanto dolorosamente, le persone sarebbero accorte più tosto de lo mio nascondere, pro-puosi di farne alcuna lamentanza in uno sonetto; lo quale io scriverò, acciò che la mia donna fue immediata cagione di certe parole che ne lo sonetto sono, sì come appare a chi lo intende. E allora dissi questo sonetto, che comincia: "O voi che per la via".

    1 Sembrerebbe difficile credere che questo maneggio sia durato per anni2 Sorta di poesia comune fra i trovieri e i trovatori

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  • O voi, che per la via d'Amor passate,attendete e guardates'elli è dolore alcun, quanto 'l mio, grave;e prego sol ch'audir mi sofferiate,e poi imaginates'io son d'ogni tormento ostale e chiave.Amor, non già per mia poca bontate,ma per sua nobiltate,mi pose in vita sì dolce e soave,ch'io mi sentia dir dietro spesse fiate:«Deo, per qual dignitatecosì leggiadro questi lo core have?»Or ho perduta tutta mia baldanza,che si movea d'amoroso tesoro;ond'io pover dimoro,in guisa che di dir mi ven dottanza.Sì che volendo far come coloroche per vergogna celan lor mancanza,di fuor mostro allegranza,e dentro dallo core struggo e ploro.

    Questo sonetto ha due parti principali; che ne la prima in-tendo chiamare li fedeli d'Amore per quelle parole di Geremia profeta che dicono: "O vos omnes qui transitis per viam, atten-dite et videte si est dolor sicut dolor meus", e pregare che mi sofferino d'audire; nella seconda narro là ove Amore m'avea po-sto, con altro intendimento che l'estreme parti del sonetto non mostrano, e dico che io hoe ciò perduto. La seconda parte co-mincia quivi: "Amor, non già".

    VIII. Appresso lo partire di questa gentile donna fue piace-re del segnore de li angeli di chiamare a la sua gloria una don-na giovane e di gentile aspetto molto, la quale fue assai grazio-sa in questa sopradetta cittade; lo cui corpo io vidi giacere san-za l'anima in mezzo di molte donne, le quali piangeano assai pietosamente. Allora ricordandomi che già l'avea veduta fare compagnia a quella gentilissima, non poteo sostenere alquante lagrime; anzi piangendo mi propuosi di dicere alquante parole de la sua morte, in guiderdone di ciò che alcuna fiata l'avea ve-duta con la mia donna. E di ciò toccai alcuna cosa ne l'ultima

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  • parte de le parole che io ne dissi, sì come appare manifestamen-te a chi lo intende. E dissi allora questi due sonetti, li quali co-mincia lo primo: "Piangete, amanti," e lo secondo: "Morte villa-na".

    Piangete, amanti, poi che piange Amore,udendo qual cagion lui fa plorare.Amor sente a Pietà donne chiamare,mostrando amaro duol per li occhi fore,

    perché villana Morte in gentil coreha miso il suo crudele adoperare,guastando ciò che al mondo è da laudarein gentil donna sovra de l'onore1.

    Audite quanto Amor le fece orranza,ch'io 'l vidi lamentare in forma vera2

    sovra la morta imagine avenente;

    e riguardava ver lo ciel sovente,ove l'alma gentil già locata era,che donna fu di sì gaia sembianza.

    Questo primo sonetto si divide in tre parti: ne la prima chiamo e sollìcito li fedeli d'Amore a piangere e dico che lo se-gnore loro piange, e dico «udendo la cagione per che piange,» acciò che s'acconcino più ad ascoltarmi; ne la seconda narro la cagione; ne la terza parlo d'alcuno onore che Amore fece a que-sta donna. La seconda parte comincia quivi: "Amor sente"; la terza quivi: "Audite".

    Morte villana, di pietà nemica,di dolor madre antica,giudicio incontastabile gravoso,poi che hai data matera al cor doglioso,ond'io vado pensoso,di te blasmar la lingua s'affatica.E s'io di grazia ti vòi far mendica,

    1 Vale a dire che la morte può spogliare una persona di tutto ciò che af-fascina nella sua persona, ma non l'onore che la contraddistingueva

    2 L'amore rappresenta qui Beatrice che era ella stessa presente a questa scena dolorosa

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  • convènesi ch'eo dicalo tuo fallar d'onni torto tortoso,non però ch'a la gente sia nascoso,ma per farne crucciosochi d'amor per innanzi si notrica.Dal secolo hai partita cortesiae ciò ch'è in donna da pregiar vertute:in gaia gioventutedistrutta hai l'amorosa leggiadria.Più non vòi discovrir qual donna siache per le propietà sue canosciute.Chi non merta salute1

    non speri mai d'aver sua compagnia.

    Questo sonetto si divide in quattro parti: ne la prima parte, chiamo la Morte per certi suoi nomi propri; ne la seconda, par-lando a lei, dico la cagione per che io mi muovo a biasimarla: ne la terza, la vitupero; ne la quarta, mi volgo a parlare a indif-finita persona, avvegna che quanto a lo mio intendimento sia diffinita. La seconda comincia quivi: "poi che hai data"; la terza quivi: "E s'io di grazia"; la quarta quivi: "Chi non merta salute".

    IX. Appresso la morte di questa donna alquanti die, avven-ne cosa per la quale me convenne partire de la sopradetta citta-de e ire verso quelle parti dov'era la gentile donna ch'era stata mia difesa, avegna che non tanto fosse lontano lo termine de lo mio andare quanto ella era. E tutto ch'io fosse a la compagnia di molti, quanto a la vista, l'andare mi dispiacea sì, che quasi li sospiri non poteano disfogare l'angoscia che lo cuore sentia, però ch'io mi dilungava da la mia beatitudine. E però lo dolcis-simo segnore2, lo quale mi segnoreggiava per la vertù de la gen-tilissima donna, ne la mia imaginazione apparve come peregri-no leggeramente vestito e di vili drappi. Elli mi parea disbigot-tito, e guardava la terra, salvo che talora li suoi occhi mi parea che si volgessero ad uno fiume bello e corrente e chiarissimo, lo quale sen gìa lungo questo cammino là ov'io era. A me parve

    1 È a Beatrice che si indirizzano questi ultimi due versi. Vivere in sua compagnia è come vivere in cielo

    2 l'amore

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  • che Amore mi chiamasse, e dicèssemi queste parole: «Io vegno da quella donna la quale è stata tua lunga difesa, e so che lo suo rivenire non sarà a gran tempi; e però quello cuore che io ti fa-cea avere a lei, io l'ho meco, e pòrtolo a donna la quale sarà tua difensione, come questa era». E nominòllami per nome, sì che io la conobbi bene. «Ma tuttavia, di queste parole ch'io t'ho ra-gionate se alcuna cosa ne dicessi, dille nel modo che per loro non si discernesse lo simulato amore che tu hai mostrato a que-sta e che ti converrà mostrare ad altri». E dette queste parole, disparve questa mia imaginazione tutta subitamente, per la grandissima parte che mi parve che Amore mi desse di sé; e, quasi cambiato ne la vista mia, cavalcai quel giorno pensoso molto ed accompagnato da molti sospiri. Appresso lo giorno, cominciai di ciò questo sonetto, lo quale comincia "Cavalcan-do".

    Cavalcando l'altr'ier per un cammino,pensoso de l'andar che mi sgradia,trovai Amore in mezzo de la viain abito leggier di peregrino.

    Ne la sembianza mi parea meschino,come avesse perduta segnoria;e sospirando pensoso venia,per non veder la gente, a capo chino.

    Quando mi vide, mi chiamò per nome,e disse: «Io vegno di lontana parte,ov'era lo tuo cor per mio volere;

    e rècolo a servir novo piacere».Allora presi di lui sì gran parte,ch'elli disparve, e non m'accorsi come1.

    Questo sonetto ha tre parti: ne la prima parte dico sì co-m'io trovai Amore, e quale mi parea; ne la seconda dico quello ch'elli mi disse, avegna che non compiutamente per tema ch'a-vea di discovrire lo mio secreto; ne la terza dico com'elli mi di-

    1 Vedi commento al capitolo IX

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  • sparve.La seconda comincia quivi: "Quando mi vide"; la terza: "Allora presi".

    X. Appresso la mia ritornata mi misi a cercare di questa donna, che lo mio segnore m'avea nominata ne lo cammino de li sospiri; e acciò che lo mio parlare sia più brieve, dico che in poco tempo la feci mia difesa tanto, che troppa gente ne ragio-nava oltre li termini de la cortesia; onde molte fiate mi pesava duramente. E per questa cagione, cioè di questa soverchievole voce che parea che m'infamasse viziosamente, quella gentilissi-ma, la quale fue distruggitrice di tutti li vizi e regina de le vir-tudi, passando per alcuna parte, mi negò lo suo dolcissimo sa-lutare, ne lo quale stava tutta la mia beatitudine. Ed uscendo alquanto del proposito presente, voglio dare a intendere quello che lo suo salutare in me virtuosamente operava.

    XI. Dico che quando ella apparia da parte alcuna, per la speranza de la mirabile salute nullo nemico mi rimanea, anzi mi giugnea una fiamma di caritade, la quale mi facea perdona-re a chiunque m'avesse offeso; e chi allora m'avesse domandato di cosa alcuna, la mia risponsione sarebbe stata solamente 'Amore', con viso vestito d'umilitade. E quando ella fosse al-quanto propinqua al salutare, uno spirito d'amore, distruggen-do tutti li altri spiriti sensitivi, pingea fuori li deboletti spiriti del viso, e dicea loro: «Andate a onorare la donna vostra»; ed elli si rimanea nel luogo loro. E chi avesse voluto conoscere Amore, fare lo potea, mirando lo tremare de li occhi miei. E quando questa gentilissima salute salutava, non che Amore fos-se tal mezzo che potesse obumbrare a me la intollerabile beati-tudine, ma elli quasi per soverchio di dolcezza divenia tale, che lo mio corpo, lo quale era tutto allora sotto lo suo reggimento, molte volte si movea come cosa grave inanimata. Sì che appare manifestamente che ne le sue salute abitava la mia beatitudine, la quale molte volte passava e redundava la mia capacitade.

    XII. Ora, tornando al proposito, dico che poi che la mia beatitudine mi fue negata, mi giunse tanto dolore, che, partito

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  • me da le genti, in solinga parte andai a bagnare la terra d'ama-rissime lagrime. E poi che alquanto mi fue sollenato questo la-grimare, misimi ne la mia camera, là ov'io potea lamentarmi sanza essere udito; e quivi, chiamando misericordia a la donna de la cortesia, e dicendo «Amore, aiuta lo tuo fedele», m'addor-mentai come uno pargoletto battuto lagrimando. Avvenne qua-si nel mezzo de lo mio dormire che me parve vedere ne la mia camera lungo me sedere uno giovane vestito di bianchissime vestimenta, e, pensando molto quanto a la vista sua, mi riguar-dava là ov'io giacea; e quando m'avea guardato alquanto, pa-reami che sospirando mi chiamasse, e diceami queste parole: «Fili mi, tempus est ut praetermictantur simulacra nostra1». Allora mi parea che io lo conoscesse, però che mi chiamava così come assai fiate ne li miei sonni m'avea già chiamato; e ri-guardandolo, parvemi che piangesse pietosamente, e parea che attendesse da me alcuna parola; ond'io, assicurandomi, comin-ciai a parlare così con esso: «Segnore de la nobiltade, e perché piangi tu?». E quelli mi dicea queste parole: «Ego tanquam centrum circuli, cui simili modo se habent circumferentiae par-tes; tu autem non sic2». Allora, pensando a le sue parole, mi pa-rea che m'avesse parlato molto oscuramente, sì ch'io mi sforza-va di parlare, e diceali queste parole: «Che è ciò, segnore, che mi parli con tanta oscuritade?». E quelli mi dicea in parole vol-gari: «Non dimandare più che utile ti sia». E però cominciai al-lora con lui a ragionare de la salute la quale mi fue negata, e domandàilo de la cagione; onde in questa guisa da lui mi fue risposto: «Quella nostra Beatrice udio da certe persone, di te ragionando, che la donna la quale io ti nominai nel cammino de li sospiri, ricevea da te alcuna noia; e però questa gentilissi-ma, la quale è contraria di tutte le noie, non degnò salutare la tua persona, temendo non fosse noiosa. Onde con ciò sia cosa che veracemente sia conosciuto per lei alquanto lo tuo secreto per lunga consuetudine, voglio che tu dichi certe parole per

    1 Figlio mio, è tempo di finirla con queste simulazioni2 Io sono come il centro di un cerchio di cui tutte le punte sono a egual

    distanza da esso; non è così per te (io sono sempre lo stesso, tu cambi) commento di Giuliani

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  • rima, ne le quali tu comprendi la forza che io tegno sopra te per lei, e come tu fosti suo tostamente da la tua puerizia. E di ciò chiama testimonio colui che lo sa, e come tu prieghi lui che li le dica; ed io, che son quelli, volentieri le ne ragionerò; e per questo sentirà ella la tua volontade la quale sentendo, conoscerà le parole de li ingannati. Queste parole fa che siano quasi un mezzo, sì che tu non parli a lei immediatamente, che non è de-gno; e no le mandare in parte sanza me, ove potessero essere intese da lei, ma falle adornare di soave armonia, ne la quale io sarò tutte le volte che farà mestiere1». E dette queste parole, sì disparve, e lo mio sonno fue rotto. Onde io ricordandomi tro-vai che questa visione m'era apparita ne la nona ora del die; e anzi ch'io uscisse di questa camera, propuosi di fare una balla-ta, ne la quale io seguitasse ciò che lo mio segnore m'avea im-posto; e feci poi questa ballata, che comincia: "Ballata, i' vo'".

    Ballata, i' vo' che tu ritrovi Amore,e con lui vade a madonna davante,sì che la scusa mia, la qual tu cante,ragioni poi con lei lo mio segnore.Tu vai, ballata, sì cortesemente,che sanza compagniadovresti avere in tutte parti ardire;ma se tu vuoli andar sicuramente,retrova l'Amor pria,ché forse non è bon sanza lui gire;però che quella che ti dee audire,sì com'io credo, è ver di me adirata:se tu di lui non fossi accompagnata,leggeramente ti faria disnore.Con dolze sono, quando se' con lui,comincia este parole,appresso che averai chesta pietate:«Madonna, quelli che mi manda a vui,quando vi piaccia, vole,sed elli ha scusa, che la m'intendiate.Amore è qui, che per vostra bieltatelo face,come vol,vista cangiare:dunque perché li fece altra guardarepensatel voi, da che non mutò 'l core».Dille: «Madonna, lo suo core è stato

    1 Vedi commento al capitolo XII

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  • con sì fermata fede,che 'n voi servir l'ha 'mpronto onne pensero:tosto fu vostro, e mai non s'è smagato».Sed ella non ti crede,dì che domandi Amor, che sa lo vero:ed a la fine falle umil preghero,lo perdonare se le fosse a noia,che mi comandi per messo ch'eo moia,e vedrassi ubidir ben servidore.E dì a colui ch'è d'ogni pietà chiave2,avante che sdonnei,che le saprà contar mia ragion bona3:«Per grazia de la mia nota soavereman tu qui con lei,e del tuo servo ciò che vuoi ragiona;e s'ella pel tuo prego li perdona,fa che li annunzi un bel sembiante pace».Gentil ballata mia, quando ti piace,movi in quel punto che tu n'aggie onore.

    Questa ballata in tre parti si divide: ne la prima dico a lei ov'ella vada, e confòrtola però che vada più sicura, e dico ne la cui compagnia si metta, se vuole sicuramente andare e sanza pericolo alcuno; ne la seconda dico quello che lei si pertiene di fare intendere; ne la terza la licenzio del gire quando vuole, raccomandando lo suo movimento ne le braccia de la fortuna. La seconda parte comincia quivi: "Con dolze sono"; la terza quivi: "Gentil ballata".

    Potrebbe già l'uomo opporre contra me e dicere che non sa-pesse a cui fosse lo mio parlare in seconda persona, però che la ballata non è altro che queste parole ched io parlo: e però dico che questo dubbio io lo intendo solvere e dichiarare in questo libello ancora in parte più dubbiosa; e allora intenda qui chi qui dubita, o chi qui volesse opporre in questo modo.

    XIII. Appresso di questa soprascritta visione, avendo già dette le parole che Amore m'avea imposte a dire, mi comincia-ro molti e diversi pensamenti a combattere ed a tentare, ciascu-

    2 l'amore3 Questo vuol dire senza dubbio: era per non compromettervi

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  • no quasi indefensibilemente; tra li quali pensamenti quattro mi parea che ingombrassero più lo riposo de la vita. L'uno de li quali era questo: buona è la signoria d'Amore, però che trae lo intendimento del suo fedele da tutte le vili cose. L'altro era que-sto: non buona è la signoria d'Amore, però che quanto lo suo fedele più fede li porta, tanto più gravi e dolorosi punti li con-viene passare. L'altro era questo: lo nome d'Amore è sì dolce a udire, che impossibile mi pare che la sua propria operazione sia ne le più cose altro che dolce, con ciò sia cosa che li nomi sègui-tino le nominate cose, sì come è scritto: "Nomina sunt conse-quentia rerum". Lo quarto era questo: la donna per cui Amore ti stringe così, non è come l'altre donne, che leggeramente si muova dal suo cuore. E ciascuno mi combattea tanto, che mi facea stare quasi come colui che non sa per qual via pigli lo suo cammino, e che vuole andare e non sa onde se ne vada; e se io pensava di volere cercare una comune via di costoro, cioè là ove tutti s'accordassero, questa era via molto inimica verso me, cioè di chiamare e di mettermi ne le braccia de la Pietà. E in questo stato dimorando, mi giunse volontade di scriverne paro-le rimate; e dìssine allora questo sonetto, lo quale comincia: "Tutti li miei pensier".

    Tutti li miei pensier parlan d'Amore;e hanno in loro sì gran varietate,ch'altro mi fa voler sua potestate,altro folle ragiona il suo valore1,

    altro sperando m'aporta dolzore,altro pianger mi fa spesse fiate;e sol s'accordano in cherer pietate,tremando di paura, che è nel core.

    Ond'io non so da qual matera prenda;e vorrei dire, e non so ch'io mi dica:così mi trovo in amorosa erranza.

    1 Ci sono due lezioni differenti: Fraticelli legge folle, versione che ho se-guito. Giuliani legge forte, che starebbe ad indicare come questo pensiero sia più forte

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  • E se con tutti vòi far accordanza,convènemi chiamar la mia nemica,madonna la Pietà1, che mi difenda2.

    Questo sonetto in quattro parti si può dividere: ne la prima dico e soppongo che tutti li miei pensieri sono d'Amore; ne la seconda dico che sono diversi, e narro la loro diversitade; ne la terza dico in che tutti pare che s'accordino; ne la quarta dico che volendo dire d'Amore, non so da qual parte pigli matera, e se la voglio pigliare da tutti, convene che io chiami la mia ini-mica, madonna la Pietade; e dico «madonna» quasi per disde-gnoso modo di parlare. La seconda parte comincia quivi: "e hanno in loro"; la terza quivi: "e sol s'accordano"; la quarta qui-vi: "Ond'io non so".

    XIV. Appresso la battaglia de li diversi pensieri avvenne che questa gentilissima venne in parte ove molte donne gentili erano adunate; a la qual parte io fui condotto per amica perso-na, credendosi fare a me grande piacere, in quanto mi menava là ove tante donne mostravano le loro bellezze. Onde io, quasi non sappiendo a che io fossi menato, e fidandomi ne la persona, la quale uno suo amico a l'estremitade de la vita3 condotto avea, dissi a lui: «Perché semo noi venuti a queste donne?». Al-lora quelli mi disse: «Per fare sì ch'elle siano degnamente servi-te». E lo vero è che adunate quivi erano a la compagnia d'una gentile donna che disposata era lo giorno; e però, secondo l'u-sanza de la sopradetta cittade, convenia che le facessero com-pagnia nel primo sedere a la mensa che facea ne la magione del suo novello sposo. Sì che io credendomi fare piacere di questo amico, propuosi di stare al servigio de le donne ne la sua com-pagnia. E nel fine del mio proponimento, mi parve sentire uno mirabile tremore incominciare nel mio petto da la sinistra par-te e distendersi di subito per tutte le parti del mio corpo. Allo-

    1 Come Dante stesso spiega, è per ironia che chiama Madonna pietà, la mia nemica

    2 Vedi il commento del capitolo XIII3 Cioè alla morte. È un'allusione all'incidente che avverrà tra poco

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  • ra dico che io poggiai la mia persona simulatamente ad una pintura, la quale circundava questa magione; e temendo non al-tri si fosse accorto del mio tremare, levai gli occhi, e mirando le donne, vidi tra loro la gentilissima Beatrice. Allora fuoro sì di-strutti li miei spiriti per la forza che Amore prese veggendosi in tanta propinquitade a la gentilissima donna, che non ne ri-masero in vita più che li spiriti del viso; e ancora questi rimase-ro fuori de li loro istrumenti, però che Amore volea stare nel loro nobilissimo luogo per vedere la mirabile donna. E avvegna che io fossi altro che prima, molto mi dolea di questi spiritelli, che si lamentavano forte e diceano: «Se questi non ci infolgoras-se così fuori del nostro luogo, noi potremmo stare a vedere la maraviglia di questa donna così come stanno li altri nostri pari». Io dico che molte di queste donne, accorgendosi de la mia trasfigurazione, si cominciaro a maravigliare, e ragionan-do si gabbavano di me con questa gentilissima; onde lo ingan-nato amico di buona fede mi prese per la mano, e traendomi fuori de la veduta di queste donne, sì mi domandò che io avesse. Allora io riposato alquanto, e resurressiti li morti spiriti miei, e li discacciati rivenuti a le loro possessioni, dissi a questo mio amico queste parole: «Io tenni li piedi in quella parte de la vita, di là da la quale non si puote ire più per intendimento di ritor-nare1». E partitomi da lui, mi ritornai ne la camera de le lagri-me; ne la quale, piangendo e vergognandomi, fra me stesso di-cea: «Se questa donna sapesse la mia condizione, io non credo che così gabbasse la mia persona, anzi credo che molta pietade le ne verrebbe». E in questo pianto stando, propuosi di dire pa-role, ne le quali, parlando a lei, significasse la cagione del mio trasfiguramento, e dicesse che io so bene ch'ella non è saputa, e che se fosse saputa, io credo che pietà ne giugnerebbe altrui; e propuòsile di dire, desiderando che venissero per avventura ne la sua audienza. E allora dissi questo sonetto, lo quale comin-cia: "Con l'altre donne".

    Con l'altre donne mia vista gabbate,e non pensate, donna, onde si movach'io vi rassembri sì figura nova

    1 Cioè credeva che sarebbe morto

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  • quando riguardo la vostra beltate.

    Se lo saveste, non porìa Pietatetener più contra me l'usata prova,ché Amor, quando sì presso a voi mi trova,prende baldanza e tanta securtate,

    che fère tra' miei spiriti paurosi,e quale ancide, e qual pinge di fore,sì che solo remane a veder vui:

    ond'io mi cangio in figura d'altrui,ma non sì ch'io non senta bene alloreli guai de li scacciati tormentosi1.

    Questo sonetto non divido in parti, però che la divisione non si fa se non per aprire la sentenzia de la cosa divisa; onde, con ciò sia cosa che per la sua ragionata cagione assai sia ma-nifesto, non ha mestiere di divisione. Vero è che tra le parole dove si manifesta la cagione di questo sonetto, si scrivono dub-biose parole, cioè quando dico che Amore uccide tutti li miei spiriti, e li visivi rimangono in vita, salvo che fuori de li stru-menti loro. E questo dubbio è impossibile a solvere a chi non fosse in simile grado fedele d'Amore; ed a coloro che vi sono, è manifesto ciò che solverebbe le dubitose parole: e però non è bene a me di dichiarare cotale dubitazione, acciò che lo mio parlare dichiarando sarebbe indarno, o vero di soperchio.

    XV. Appresso la nuova trasfigurazione, mi giunse uno pen-samento forte, lo quale poco si partìa da me, anzi continuamen-te mi riprendea, ed era di cotale ragionamento meco: «Poscia che tu perviene a così dischernevole vista, quando tu se' presso di questa donna, perché pur cerchi di vedere lei? Ecco che tu fossi domandato da lei, che avrestù da rispondere, ponendo che tu avessi libera ciascuna tua vertude, in quanto tu le rispondes-si? » Ed a costui rispondea un altro umile pensero, e dicea: «S'io non perdessi le mie vertudi, e fossi libero tanto che io le potessi rispondere, io le direi che, sì tosto com'io imagino la

    1 Vedi il commento del capitolo XIV

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  • sua mirabile bellezza, sì tosto mi giugne uno desiderio di veder-la, lo quale è di tanta vertude, che uccide e distrugge ne la mia memoria ciò che contra lui si potesse levare; e però non mi ri-traggono le passate passioni da cercare la veduta di costei». Onde io, mosso da cotali pensamenti, propuosi di dire certe pa-role, ne le quali, escusandomi a lei da cotale riprensione, pones-se anche di quello che mi diviene presso di lei1; e dissi questo sonetto, lo quale comincia: "Ciò che m'incontra".

    Ciò che m'incontra ne la mente, more,quand'i' vegno a veder voi, bella gioia;e quand'io vi son presso, i' sento Amoreche dice: «Fuggi, se 'l perir t'è noia».

    Lo viso mostra lo color del core,che, tramortendo, ovunque pò s'appoia2;e per la ebrietà del gran tremorele pietre par che gridin: «Moia, moia».

    Peccato face chi allora mi vide,se l'alma sbigottita non conforta,sol dimostrando che di me li doglia,

    per la pietà, che 'l vostro gabbo ancide,la qual si cria ne la vista mortade li occhi, c'hanno di lor morte voglia3.

    Questo sonetto si divide in due parti: ne la prima dico la cagione per che non mi tengo di gire presso di questa donna; ne la seconda dico quello che mi diviene per andare presso di lei; e comincia questa parte quivi: "e quand'io vi son presso". Ed anche si divide questa seconda parte in cinque, secondo cin-que diverse narrazioni: che ne la prima dico quello che Amore, consigliato da la ragione, mi dice quando le sono presso; ne la seconda manifesto lo stato del cuore per esemplo del viso; ne la

    1 Sembrerebbe che Dante abbia pianto molto, sia con le parole che con le azioni, il riso canzonatorio di Beatrice. Ma non si è spiegato maggior-mente su questo argomento

    2 Qui il cuore è preso per la persona. Allusione alla scena di pagina 413 Vedi il commento al capitolo XV

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  • terza dico sì come onne sicurtade mi viene meno; ne la quarta dico che pecca quelli che non mostra pietà di me, acciò che mi sarebbe alcuno conforto; ne l'ultima dico perché altri doverebbe avere pietà, e ciò è per la pietosa vista che ne li occhi mi giu-gne; la quale vista pietosa è distrutta, cioè non pare altrui, per lo gabbare di questa donna, la quale trae a sua simile operazio-ne coloro che forse vederebbono questa pietà. La seconda parte comincia quivi: "Lo viso mostra"; la terza quivi: "e per la ebrie-tà"; la quarta: "Peccato face"; la quinta: "per la pietà".

    XVI. Appresso ciò, che io dissi questo sonetto, mi mosse una volontade di dire anche parole, ne le quali io dicesse quat-tro cose ancora sopra lo mio stato, le quali non mi parea che fossero manifestate ancora per me. La prima de le quali si è che molte volte io mi dolea, quando a mia memoria movesse la fan-tasia ad imaginare quale Amore mi facea. La seconda si è che Amore spesse volte di subito m'assalia sì forte, che 'n me non rimanea altro di vita se non un pensero che parlava di questa donna. La terza si è che quando questa battaglia d'Amore mi pugnava così, io mi movea quasi discolorito tutto per vedere questa donna, credendo che mi difendesse la sua veduta da que-sta battaglia, dimenticando quello che per appropinquare a tan-ta gentilezza m'addivenia. La quarta si è come cotale veduta non solamente non mi difendea, ma finalmente disconfiggea la mia poca vita. E però dissi questo sonetto, lo quale comincia: "Spesse fiate".

    Spesse fiate vègnonmi a la mentele oscure qualità ch'Amor mi dona,e vènnemi pietà, sì che soventeio dico: «Lasso! avvien elli a persona?»;

    ch'Amor m'assale subitanamente,sì che la vita quasi m'abbandona:càmpami uno spirto vivo solamente,e que' riman, perché di voi ragiona.

    Poscia mi sforzo, ché mi voglio atare;e così smorto, d'onne valor vòto,vegno a vedervi, credendo guerire:

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  • e se io levo li occhi per guardare,nel cor mi si comincia uno tremoto,che fa de' polsi l'anima partire1.

    Questo sonetto si divide in quattro parti, secondo che quat-tro cose sono in esso narrate; e però che sono di sopra ragiona-te, non m'intrametto se non di distinguere le parti per li loro cominciamenti. Onde dico che la seconda parte comincia quivi: "ch'Amor"; la terza quivi: "Poscia mi sforzo"; la quarta quivi: "e se io levo".

    XVII. Poi che dissi questi tre sonetti, ne li quali parlai a questa donna, però che fuoro narratori di tutto quasi lo mio stato, credendomi tacere e non dire più, però che mi parea di me assai avere manifestato, avvegna che sempre poi tacesse di dire a lei, a me convenne ripigliare matera nuova e più nobile che la passata. E però che la cagione de la nuova matera è dilet-tevole a udire, la dicerò, quanto potrò più brievemente.

    XVIII. Con ciò sia cosa che per la vista mia molte persone avessero compreso lo secreto del mio cuore, certe donne, le qua-li adunate s'erano, dilettandosi l'una ne la compagnia de l'altra, sapeano bene lo mio cuore, però che ciascuna di loro era stata a molte mie sconfitte; ed io passando appresso di loro, sì come da la fortuna menato, fui chiamato da una di queste gentili donne. La donna che m'avea chiamato, era donna di molto leg-giadro parlare; sì che quand'io fui giunto dinanzi da loro, e vidi bene che la mia gentilissima donna non era con esse, rassicu-randomi le salutai, e domandai che piacesse loro. Le donne era-no molte, tra le quali n'avea certe che si rideano tra loro. Altre v'erano che mi guardavano, aspettando che io dovessi dire. Al-tre v'erano che parlavano tra loro. De le quali una, volgendo li suoi occhi verso me e chiamandomi per nome, disse queste pa-role: «A che fine ami tu questa tua donna, poi che tu non puoi sostenere la sua presenza? Dilloci, ché certo lo fine di cotale

    1 Vedi il commento al capitolo XVI

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  • amore conviene che sia novissimo». E poi che m'ebbe dette que-ste parole, non solamente ella, ma tutte l'altre cominciaro ad attendere in vista la mia risponsione. Allora dissi queste parole loro: «Madonne, lo fine del mio amore fue già lo saluto di que-sta donna, forse di cui voi intendete, ed in quello dimorava la beatitudine, ché era fine di tutti li miei desiderii. Ma poi che le piacque di negarlo a me, lo mio segnore Amore, la sua merze-de, ha posto tutta la mia beatitudine in quello che non mi puo-te venire meno». Allora queste donne cominciaro a parlare tra loro; e sì come talora vedemo cadere l'acqua mischiata di bella neve, così mi parea udire le loro parole uscire mischiate di so-spiri.

    E poi che alquanto ebbero parlato tra loro, anche mi disse questa donna che m'avea prima parlato, queste parole: «Noi ti preghiamo che tu ne dichi ove sia questa tua beatitudine». Ed io, rispondendo lei, dissi cotanto: «In quelle parole che lodano la donna mia». Allora mi rispuose questa che mi parlava: «Se tu ne dicessi vero, quelle parole che tu n'hai dette in notifican-do la tua condizione, avrestù operate con altro intendimento1». Onde io, pensando a queste parole, quasi vergognoso mi partìo da loro, e venia dicendo fra me medesimo: «Poi che è tanta bea-titudine in quelle parole che lodano la mia donna, perché altro parlare è stato lo mio?». E però propuosi di prendere per mate-ra de lo mio parlare sempre mai quello che fosse loda di questa gentilissima; e pensando molto a ciò, pareami avere impresa troppo alta matera quanto a me, sì che non ardia di comincia-re; e così dimorai alquanti dì con disiderio di dire e con paura di cominciare.

    XIX Avvenne poi che passando per uno cammino, lungo lo quale sen gìa uno rivo chiaro2 molto, a me giunse tanta volon-tade di dire, che io cominciai a pensare lo modo ch'io tenesse; e pensai che parlare di lei non si convenia che io facesse, se io non parlasse a donne in seconda persona, e non ad ogni donna, ma solamente a coloro che sono gentili e che non sono pure

    1 Vedi il commento al capitolo XVIII2 Era probabilmente il Mugnone

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  • femmine. Allora dico che la mia lingua parlò quasi come per se stessa mossa, e disse: "Donne ch'avete intelletto d'amore". Que-ste parole io ripuosi ne la mente con grande letizia, pensando di prenderle per mio cominciamento; onde poi ritornato a la sopradetta cittade, pensando alquanti die, cominciai una can-zone con questo cominciamento1, ordinata nel modo che si ve-drà di sotto ne la sua divisione. La canzone comincia: "Donne ch'avete".

    Donne ch'avete intelletto d'amore,i' vo' con voi de la mia donna dire,non perch'io creda sua laude finire,ma ragionar per isfogar la mente.Io dico che pensando il suo valore,Amor sì dolce mi si fa sentire,che s'io allora non perdessi ardire,farei parlando innamorar la gente:E io non vo' parlar sì altamente,ch'io divenisse per temenza vile;ma tratterò del suo stato gentilea respetto di lei leggeramente,donne e donzelle amorose, con vui,ché non è cosa da parlarne altrui.Angelo clama in divino intellettoe dice: «Sire, nel mondo si vedemaraviglia ne l'atto che proceded'un'anima che 'nfin quassù risplende».Lo cielo, che non have altro difettoche d'aver lei, al suo segnor la chiede,e ciascun santo ne grida merzede.Sola Pietà nostra parte difende2,ché parla Dio, che di madonna intende:«Diletti miei, or sofferite in paceche vostra spene sia quanto me piacelà ov' è alcun che perder lei s'attende,e che dirà ne lo inferno: «O malnati,io vidi la speranza de' beati».Madonna è disiata in sommo cielo:or vòi di sua virtù farvi savere.Dico, qual vuol gentil donna parere

    1 Non è un esempio curioso del metodo di lavoro o di composizione del poeta? Noi lo vedremo più in là, riprenderlo due volte per scrivere un so-netto

    2 Dio ha pietà di noi conservandocela

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  • vada con lei, chè quando va per via,gitta nei cor villani Amore un gelo,per che onne lor pensero agghiaccia e père;e qual soffrisse di starla a vederediverria nobil cosa, o si morria;E quando trova alcun che degno siadi veder lei, quei prova sua vertute,ché li avvien ciò che li dona salute,e sì l'umilia ch'ogni offesa oblia.Ancor l'ha Dio per maggior grazia datoche non pò mal finir chi l'ha parlato.Dice di lei Amor: «Cosa mortalecome esser pò sì adorna e sì pura?»Poi la reguarda, e fra se stesso giurache Dio ne 'ntenda di far cosa nova.Color di perle ha quasi in forma1, qualeconvene a donna aver, non for misura;ella è quanto de ben pò far natura;per esemplo di lei bieltà si prova.De li occhi suoi, come ch'ella li mova,escono spirti d'amore inflammati,che fèron li occhi a qual che allor la guati,e passan sì che 'l cor ciascun retrova:voi le vedete Amor pinto nel viso,là 've non pote alcun mirarla fiso.Canzone, io so che tu girai parlandoa donne assai, quand'io t'avrò avanzata.Or t'ammonisco, perch'io t'ho allevataper figliuola d'Amor giovane e piana,che là ove giugni tu dichi pregando:«Insegnàtemi gir, ch'io son mandataa quella di cui laude so' adornata».E se non vuoli andar sì come vana,non restare ove sia gente villana;ingègnati, se puoi, d'esser palesesolo con donne o con omo cortese,che ti merranno là per via tostana.Tu troverai Amor con esso lei;raccomàndami a lui come tu dei2.

    1 Ripete spesso che il pallore è il colore dell'amore e la tinta di perla ne è il tipo

    2 Vedi il commento al capitolo XIX

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  • Questa canzone, acciò che sia meglio intesa, la dividerò più artificiosamente che l'altre cose di sopra. E però prima ne fo tre parti: la prima parte è proemio de le sequenti parole; la secon-da è lo intento trattato; la terza è quasi una serviziale de le pre-cedenti parole. La seconda comincia quivi: "Angelo clama"; la terza quivi: "Canzone, io so che". La prima parte si divide in quattro: ne la prima dico a cu' io dicer voglio de la mia donna, e perché io voglio dire; ne la seconda dico quale me pare avere a me stesso quand'io penso lo suo valore, e com'io direi s'io non perdessi l'ardimento; ne la terza dico come credo dire di lei, acciò ch'io non sia impedito da viltà; ne la quarta, ridicen-do anche a cui ne intenda dire, dico la cagione per che dico a loro. La seconda comincia quivi: "Io dico"; la terza quivi: "E io non vo' parlar"; la quarta: "donne e donzelle". Poscia quando dico: "Angelo clama", comincio a trattare di questa donna. E dividesi questa parte in due: ne la prima dico che di lei si com-prende in cielo; ne la seconda dico che di lei si comprende in terra, quivi: "Madonna è disiata". Questa seconda parte si divi-de in due; che ne la prima dico di lei quanto da la parte de la nobilitade de la sua anima, narrando alquanto de le sue vertudi effettive che de la sua anima procedeano; ne la seconda dico di lei quanto da la parte de la nobilitade del suo corpo, narrando alquanto de le sue bellezze, quivi: "Dice di lei Amor". Questa seconda parte si divide in due: che ne la prima dico d'alquante bellezze che sono secondo tutta la persona; ne la seconda dico d'alquante bellezze che sono secondo diterminata parte de la persona, quivi: "De li occhi suoi". Questa seconda parte si divi-de in due: che ne l'una dico deli occhi, li quali sono principio d'amore; ne la seconda dico de la bocca, la quale è fine d'amore. E acciò che quinci si lievi ogni vizioso pensiero, ricòrdisi chi ci legge che di sopra è scritto che lo saluto di questa donna, lo quale era de le operazioni de la bocca sua, fue fine de li miei desideri mentre ch'io lo potei ricevere. Poscia quando dico: "Canzone, io so che tu", aggiungo una stanza quasi come ancel-la de l'altre, ne la quale dico quello che di questa mia canzone desidero; e però che questa ultima parte è lieve a intendere, non mi travaglio di più divisioni. Dico bene che, a più aprire lo in-

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  • tendimento di questa canzone, si converrebbe usare di più mi-nute divisioni; ma tuttavia chi non è di tanto ingegno che per queste che sono fatte la possa intendere, a me non dispiace se la mi lascia stare, ché certo io temo d'avere a troppi comunicato lo suo intendimento pur per queste divisioni che fatte sono, s'el-li avvenisse che molti le potessero audire.

    XX. Appresso che questa canzone fue alquanto divolgata tra le genti, con ciò fosse cosa che alcuno amico l'udisse, volon-tade lo mosse a pregare me che io li dovesse dire che è Amore1, avendo forse per l'udite parole speranza di me oltre che degna. Onde io pensando che appresso di cotale trattato, bello era trattare alquanto d'Amore, e pensando che l'amico era da ser-vire, propuosi di dire parole ne le quali io trattassi d'Amore; e allora dissi questo sonetto, lo qual comincia: "Amore e 'l cor gentil".

    Amore e 'l cor gentil sono una cosa,sì come il saggio in suo dittare pone,e così esser l'un sanza l'altro osacom'alma razional sanza ragione.

    Fàlli natura quand'è amorosa,Amor per sire e 'l cor per sua magione,dentro la qual dormendo si riposatal volta poca e tal lunga stagione.

    Bieltate appare in saggia donna2 pui,che piace a gli occhi sì, che dentro al corenasce un disio de la cosa piacente;e tanto dura talora in costui,che fa svegliar lo spirito d'Amore.E simil fàce in donna omo valente3.

    Questo sonetto si divide in due parti: ne la prima dico di lui in quanto è in potenzia; ne la seconda dico di lui in quanto

    1 Quest'amico sarebbe Forese Donati; padre della sua sposa Gemma che ha accompagnato i due poeti per qualche tratto nel Purgatorio (Giuliani). Il poeta è Guido Guinizzelli (al cor gentile rempaira sempre amore)

    2 Saggia deve avere qui un significato particolare, e che è in relazione con omo valente dell'ultimo verso

    3 Vedi il commento al capitolo XX

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  • di potenzia si riduce in atto. La seconda comincia quivi: "Biel-tate appare". La prima si divide in due: ne la prima dico in che suggetto sia questa potenzia; ne la seconda dico sì come questo suggetto e questa potenzia siano produtti in essere, e come l'u-no guarda l'altro come forma materia. La seconda comincia quivi: "Fàlli natura". Poscia quando dico: "Bieltate appare", dico come questa potenzia si riduce in atto; e prima come si riduce in uomo, poi come si riduce in donna, quivi: "E simil fàce in donna".

    XXI. Poscia che trattai d'Amore ne la soprascritta rima, vènnemi volontade di volere dire, anche in loda di questa genti-lissima, parole per le quali io mostrasse come per lei si sveglia questo Amore, e come non solamente si sveglia là ove dorme, ma là ove non è in potenzia, ella, mirabilemente operando, lo fa venire. E allora dissi questo sonetto, lo quale comincia: "Negli occhi porta".

    Negli occhi porta la mia donna Amore,per che si fa gentil ciò ch'ella mira;ov'ella passa, ogn'om vèr lei si gira,e cui saluta fa tremar lo core,

    sì che, bassando il viso, tutto smore,e d'ogni suo difetto allor sospira:fugge dinanzi a lei superbia ed ira.Aiutatemi, donne, farle onore.

    Ogne dolcezza, ogne pensero umilenasce nel core a chi parlar la sente,ond'è laudato chi prima la vide.

    Quel ch'ella par quando un poco sorride,non si pò dicer né tenere a mente,sì è novo miracolo e gentile1.

    Questo sonetto sì ha tre parti. Ne la prima dico sì come questa donna riduce questa potenzia in atto, secondo la nobi-lissima parte de li suoi occhi; e ne la terza dico questo medesi-mo, secondo la nobilissima parte de la sua bocca: e intra queste due parti è una particella, ch'è quasi domandatrice d'aiuto a la

    1 Vedi il commento al capitolo XXI

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  • precedente parte ed a la sequente, e comincia quivi: "Aiutate-mi, donne." La terza comincia quivi: "Ogne dolcezza". La prima si divide in tre; che ne la prima parte dico sì come virtuosa-mente fae gentile tutto ciò che vede, e questo è tanto a dire quanto inducere Amore in potenzia là ove non è; ne la seconda dico come reduce in atto Amore ne li cuori di tutti coloro cui vede; ne la terza dico quello che poi virtuosamente adopera ne' loro cuori. La seconda comincia quivi: "ov'ella passa"; la terza quivi: "e cui saluta". Poscia quando dico: "Aiutatemi, donne," do a intendere a cui la mia intenzione è di parlare, chiamando le donne che m'aiutino onorare costei. Poscia quando dico: "Ogne dolcezza," dico quello medesimo che detto è ne la prima parte, secondo due atti de la sua bocca; l'uno de li quali è lo suo dolcissimo parlare, e l'altro lo suo mirabile riso; salvo che non dico di questo ultimo come adopera ne li cuori altrui, però che la memoria non puote ritenere lui né sua operazione.

    XXII. Appresso ciò non molti dì passati, sì come piacque al glorioso sire lo quale non negòe la morte a sé, colui che era sta-to genitore di tanta maraviglia quanta si vedea ch'era questa nobilissima Beatrice, di questa vita uscendo, a la gloria eternale se ne gìo veracemente. Onde, con ciò sia cosa che cotale partire sia doloroso a coloro che rimangono e sono stati amici di colui che se ne va; e nulla sia sì intima amistade come da buon padre a buon figliuolo e da buon figliuolo a buon padre; e questa don-na fosse in altissimo grado di bontade, e lo suo padre, sì come da molti si crede e vero è, fosse bono in alto grado; manifesto è che questa donna fue amarissimamente piena di dolore. E con ciò sia cosa che, secondo l'usanza de la sopradetta cittade, don-ne con donne e uomini con uomini s'adunino a cotale tristizia, molte donne s'adunaro colà dove questa Beatrice piangea pieto-samente: onde io veggendo ritornare alquante donne da lei, udio dicere loro parole di questa gentilissima, com'ella si la-mentava; tra le quali parole udio che diceano: «Certo ella pian-ge sì, che quale la mirasse doverebbe morire di pietade». Allora trapassaro queste donne; ed io rimasi in tanta tristizia, che al-cuna lagrima talora bagnava la mia faccia, onde io mi ricopria

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  • con porre le mani spesso a li miei occhi: e se non fosse ch'io at-tendea audire anche di lei, però ch'io era in luogo onde se ne gìano la maggior parte di quelle donne che da lei si partìano, io mi sarei nascoso incontanente che le lagrime m'aveano assalito. E però dimorando ancora nel medesimo luogo, donne anche passaro presso di me, le quali andavano ragionando tra loro queste parole: «Chi dee mai essere lieta di noi, che avemo udita parlare questa donna così pietosamente?». Appresso costoro passaro altre donne, che veniano dicendo: «Questi ch'è qui, piange né più né meno come se l'avesse veduta, come noi ave-mo». Altre dipoi diceano di me: «Vedi questi che non pare esso, tal è divenuto». E così passando queste donne, udio parole di lei e di me in questo modo che detto è. Onde io poi, pensando, propuosi di dire parole, acciò che degnamente avea cagione di dire, ne le quali parole io conchiudesse tutto ciò che inteso avea da queste donne; e però che volentieri l'averei domandate, se non mi fosse stata riprensione, presi tanta matera di dire come s'io l'avesse domandate ed elle m'avessero risposto. E feci due sonetti; che nel primo domando in quello modo che voglia mi giunse di domandare; ne l'altro dico la loro risponsione, pi-gliando ciò ch'io udio da loro sì come lo mi avessero detto ri-spondendo. E comincia lo primo: "Voi che portate la sembianza umile", e l'altro: "Se' tu colui c'hai trattato sovente".

    Voi, che portate la sembianza umile,con li occhi bassi mostrando dolore,onde venite che 'l vostro colorepar divenuto de pietà simile?

    Vedeste voi nostra donna gentilebagnar nel viso suo di pianto Amore?Ditelmi, donne, che 'l mi dice il core,perch'io vi veggio andar sanz'atto vile.E se venite da tanta pietate,piàcciavi di restar qui meco alquanto,e qual che sia di lei no 'l mi celate.

    Io veggio li occhi vostri c'hanno pianto,e vèggiovi tornar sì sfigurate,che 'l cor mi triema di vederne tanto.

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  • Questo sonetto si divide in due parti: ne la prima chiamo e domando queste donne se vegnono da lei, dicendo loro che io lo credo, però che tornano quasi ingentilite; ne la seconda le pre-go che mi dicano di lei. La seconda comincia quivi: "E se veni-te".

    Qui appresso è l'altro sonetto, sì come dinanzi avemo nar-rato.

    Se' tu colui, c'hai trattato sovente1

    di nostra donna, sol parlando a nui?Tu risomigli a la voce ben lui,ma la figura ne par d'altra gente.

    E perché piangi tu sì coralmente,che fai di te pietà venire altrui?Vedestù pianger lei, che tu non puipunto celar la dolorosa mente?

    Lascia pianger a noi e triste andare(e fa peccato chi mai ne conforta),che nel suo pianto l'udimmo parlare.

    Ell'ha nel viso la pietà sì scorta,che qual l'avesse voluta miraresarebbe innanzi lei piangendo morta2.

    Questo sonetto ha quattro parti, secondo che quattro modi di parlare ebbero in loro le donne per cui rispondo; e però che sono di sopra assai manifesti, non m'intrametto di narrare la sentenzia de le parti, e però le distinguo solamente. La seconda comincia quivi: "E perché piangi"; la terza: "Lascia pianger a noi"; la quarta: "Ell'ha nel viso".

    XXIII. Appresso ciò per pochi dì, avvenne che in alcuna parte de la mia persona mi giunse una dolorosa infermitade, onde io continuamente soffersi per nove dì amarissima pena; la

    1 In questo secondo sonetto, Dante dà la parola alle donne a cui si era rivolto nel precedente

    2 Vedi il commento al capitolo XXII

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  • quale mi condusse a tanta debolezza, che me convenia stare come coloro li quali non si possono muovere. Io dico che ne lo nono giorno, sentendo me dolere quasi intollerabilmente, a me giunse uno pensero, lo quale era de la mia donna. E quando èi pensato alquanto di lei, ed io ritornai pensando a la mia debili-tata vita; e veggendo come leggero era lo suo durare, ancora che sana fosse, sì cominciai a piangere fra me stesso di tanta miseria. Onde, sospirando forte, dicea fra me medesimo: «Di necessitade convene che la gentilissima Beatrice alcuna volta si muoia». E però mi giunse uno sì forte smarrimento, che chiusi li occhi e cominciai a travagliare sì come farnetica persona ed a imaginare in questo modo; che ne lo incominciamento de lo errare che fece la mia fantasia, apparvero a me certi visi di don-ne scapigliate, che mi diceano: «Tu pur morrai»; e poi, dopo queste donne, m'apparvero certi visi diversi e orribili a vedere, li quali mi diceano: «Tu se' morto». Così cominciando ad errare la mia fantasia, venni a quello ch'io non sapea ove io mi fosse; e vedere mi parea donne andare scapigliate piangendo per via, maravigliosamente triste; e pareami vedere lo sole oscurare, sì che le stelle si mostravano di colore ch'elle mi faceano giudicare che piangessero; e pareami che li uccelli volando per l'aria ca-dessero morti, e che fossero grandissimi terremuoti. E maravi-gliandomi in cotale fantasia, e paventando assai, imaginai alcu-no amico che mi venisse a dire: «Or non sai? la tua mirabile donna è partita di questo secolo». Allora cominciai a piangere molto pietosamente; e non solamente piangea ne la imaginazio-ne, ma piangea con li occhi, bagnandoli di vere


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