Decreto 22 aprile 1960; Pres. Benedicenti P., Est. Della Valle, P. M. Lepore (concl. conf.);Curatore fall. Travaglia (Avv. Ancona) c. Travaglia (Avv. Serafini) e Guasconi (Avv. Procaccini)Source: Il Foro Italiano, Vol. 83, No. 8 (1960), pp. 1407/1408-1409/1410Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23152200 .
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1407 PARTE PRIMA 1408
a differenza di quanto disponeva l'art. 158 cod. civ. abrog.,
neppure più consente il recesso del socio (. . .) essendo, come è noto, il diritto di recesso del socio ora limitato tas
sativamente alle ipotesi di cambiamento dell'oggetto o del
tipo di società ovvero di trasferimento della, sede sociale
all'estero » (Cass., Sez. I, 19 agosto 1950, n. 2480, Pres. Pel
legrini, Est. Lanzara, Foro it., 1951, I, 890). Va ritenuta la nullità dell'impugnato patto.
L'appello deve essere accolto.
Per questi motivi, ecc.
CORTE D'APPELLO DI MILANO.
Decreto 22 aprile 1960 ; Pres. Benedicenti P., Est. Della
Valle, P. M. Lepore (conci, conf.) ; Curatore fall.
Travaglia (Avv. Ancona) c. Travaglia (Avv. Sera
fini) e Guasconi (Avv. Procaccini).
Società — Fallimento — Rigetto dell'istanza «li
estensione di ialliinento individuale a società —
Legittimazione del curatore al reclamo — Sussi stenza — Autorizzazione del giudice delegato —
Necessità (R. d. 16 marzo 1942 n. 267, disciplina del
fallimento, art. 147, 22, 31, 25, n. 6).
Il curatore è legittimalo, previa autorizzazione del giudice
delegato, a reclamare alla corte d'appello avverso il decreto
del tribunale che respinge la sua istanza di estensione di
un fallimento individuale ad una società occulta. (1)
La Corte, eco. — Letto il reclamo proposto il 26 novem
bre 1959 dal rag. Angelo Bettinelli, curatore del Fallimento
Travaglia avverso il decreto 11 novembre 1959 con cui il Tri bunale di Milano ha respinto l'istanza diretta ad ottenere che
la dichiarazione di fallimento pronunciata con sentenza 10
febbraio 1956 nei confronti del Travaglia Antonio fosse este
sa, a norma dell'art. 147 legge fall., alla società di fatto esi stente tra il fallito predetto, la di lui moglie Plora Guasconi e la di lui figlia Jole Travaglia, nonché ai soci in proprio, os serva che, pur dovendosi ritenere perfettamente ammissibile in rito, in via di massima, l'impugnazione, da parte del Cura
tore, del decreto reiettivo della cosiddetta « domanda di estensione del fallimento » proposta dal Curatore a norma
dell'art. 147 legge fall., devesi tuttavia dichiarare impro ponibile, nella specie, il reclamo del rag. Bettinelli non essen
done stata autorizzata la presentazione da parte del giu dice delegato competente.
La questione che l'istanza del Bettinelli propone non è affatto nuova, e già altre volte in passato questa Corte ebbe a trattarla giungendo peraltro, in due successive decisioni emesse il 26 luglio 1957 (Foro it., 1957, I, 1731) ed il 1° ot tobre 1958 (id., Eep. 1958, voce Società, n. 217), a conclu sioni nettamente difformi da quella sopra enunciata. Ma
per quanto molto sia stato scritto e detto in proposito, specie in questi ultimi tempi, dagli studiosi della materia non è stata sino ad oggi raggiunta una soluzione pacifica e defi
nitiva, forse anche perchè, stante la inimpugnabilità del j decreto che la corte d'appello emette ai sensi del 2° comma dell'art. 22 legge fall., è necessariamente mancato purtroppo l'intervento chiarificatore ed autorevole del Supremo col
legio che, non avendo mai dovuto affrontare e risolvere
espressamente il problema, si è accontentato di esprimere il proprio pensiero in via meramente incidentale ed orien tativa con rilievi che innegabilmente avvalorano però la tesi che ora qui si sostiene (cfr. Cass. 26 ottobre 1956, n. 3973, id., Eep. 1956, voce Fallimento, n. 185, in cui
(1) La Corte milanese muta la propria giurisprudenza, riaf fermata da ultimo con i provvedimenti 26 luglio 1957 (Foro it., 1957, I, 1731) e 1 ottobre 1958 (id., Rep. 1958, voce Società, n. 217).
In senso contrario alla decisione riportata, v. App. Catania 11 gennaio 1960, retro, 837, con nota di richiami.
si è detto che, pronunciato con decreto il rigetto della istanza di fallimento o di estensione del fallimento, è sempre possibile riproporre tale istanza, « indipendentemente dal reclamo contro il decreto alla corte d'appello »).
La tesi della irreclamabilità del decreto reiettivo da
parte del curatore (ed è appena il caso di avvertire che nei confronti del creditore il problema non può seriamente porsi, dal momento che la legge 16 marzo 1942 n. 267 ha, come con icastica espressione è stato detto in dottrina, « espro priato » i creditori dal diritto di chiedere l'estensione del
fallimento) si affida principalmente a tre distinte consi
derazioni, rispettivamente fondate sulla lettera dell'art. 23, sul mancato richiamo dell'art., 22 da parte dell'art. 147 e sulla natura, infine, della singolare iniziativa concessa al curatore in tema di estensione del fallimento.
Muovendo dal rilievo che l'art. 23 dichiara « non soggetti a gravame » i decreti pronunciati dal tribunale in materia
fallimentare, si sostiene cioè, innanzi tutto, che il principio accolto dalla legge in esame è quello della non impugnabilità dei provvedimenti e che, tranne che la possibilità del gra vame non venga di volta in volta espressamente stabilita, ad esso deve pertanto il giudice attenersi, se non vuole scon finare nella illegalità e nell'arbitrio.
Si aggiunge poi che una conferma ulteriore della irre clamabilità del decreto reiettivo emesso dal Tribunale nel caso che ne occupa è data dal fatto che l'art. 147, mentre
dichiara, da una parte, opponibile la sentenza che dispone l'estensione, dall'altra tace del tutto del decreto di rigetto, astenendosi dal richiamare comunque quell'art. 22 in cui il diritto del creditore di reclamare contro il decreto, che
respinge il ricorso per la dichiarazione di fallimento, è inop pugnabilmente riconosciuto.
Come ultimo argomento, si sostiene infine che, per quanto la legge parli di « domanda », l'iniziativa accordata al cura tore consiste in effetti, in essa esaurendosi, in una pura e
semplice facoltà di segnalare al tribunale una particolare situazione di fatto, suscettibile, per il suo contenuto eco
nomico-giuridico, di dar luogo ad una « estensione » della dichiarazione di fallimento a soggetti non ancora colpiti dalla procedura concorsuale in precedenza aperta.
Si dice cioè che, quale organo dell'ufficio fallimentare, il curatore non è titolare di un vero e proprio diritto di azione indipendente ed autonomo, ma ha soltanto una gene rica facoltà di « denuncia » e di « segnalazione », che si con suma nel momento stesso in cui viene esercitata e che, qual siasi esitp e qualsiasi accoglienza abbia presso il tribunale, non può mai conferire al curatore il potere d'insorgere, mediante reclamo alla corte d'appello, contro il provvedi mento di un organo gerarchicamente superiore.
E si aggiunge che, quand'anche si volesse respingere una impostazione siffatta e ritenere la sussistenza di un autonomo diritto di azione, si dovrebbe, quanto meno sul piano logico, negare egualmente la reclamabilità del decreto reiettivo, stante la concettuale impossibilità di ammettere che il giudice delegato s'induca ad autorizzare un atto di ribellione contro il tribunale, di cui egli stesso fa
parte ed in cui svolge, come è noto, un ruolo di primaria importanza.
Nessuna di tali considerazioni regge però ad una più attenta ed approfondita critica.
Ed invero, posto che la norma contenuta nell'art. 23, in quanto costituente un tipico caso di deroga al principio del doppio grado di giurisdizione, e quindi della impugna bilità in genere dei provvedimenti giudiziari, che domina nel vigente sistema processuale, deve essere interpretata restrittivamente e non consente, di conseguenza, di essere considerata come istitutiva, nel processo di fallimento, del l'opposto principio della non impugnabilità, pensa la Corte che a togliere ogni giuridica consistenza al primo dei rilievi addotti dai sostenitori della tesi, che qui si vuol censurare, possa essere sufficiente il richiamo del disposto dell'art. 22
giacché esso, mentre limita e circoscrive, da una parte, in misura notevole la portata e l'ampiezza del successivo art. 23 alla cui sfera di applicazione sottrae uno dei più importanti provvedimenti relativi alla esecuzione collettiva, lascia chiaramente intendere, dall'altra, che il decreto reiet
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
tivo, per la rilevanza e la molteplicità degli interessi che di solito coinvolge, non può sfuggire alla imperiosa esigenza di un nuovo e più approfondito esame del.giudice superiore.
Si tratta quindi, non già di stabilire se nella materia fal
limentare viga il principio della non impugnabilità piuttosto che non quello della impugnabilità, ma di vedere unicamente
se, per il solo fatto di non averlo espressamente richiamato, abbia o non voluto l'art. 147 escludere l'applicabilità del
l'art. 22 al decreto, con cui il tribunale si sia rifiutato di
pronunciare l'estensione del fallimento ad altri soggetti. Ed infatti, una volta accertato che la situazione creata
dal decreto, che rigetta la domanda di « estensione » pro
posta dal curatore, equivale sostanzialmente a quella che si
determina allorché venga respinta l'istanza di fallimento
avanzata dal creditore, giacché nell'un caso e nell'altro
si ha in effetti un rifiuto da parte del tribunale di emettere
la dichiarazione di fallimento di cui era stato richiesto, non si comprende davvero per quale motivo i fautori della
tesi della non reclamabilità si debbano ostinare ad escludere
la possibilità di applicare anche al secondo caso, in via ana
logica, la norma dettata per il primo caso, dimenticando in
tal modo che, stante l'innegabile identità della ratio, l'ap
plicazione analogica del capoverso dell'art. 22 s'impone come
una insopprimibile esigenza di giustizia. Essi non considerano evidentemente che, come la dot
trina più autorevole ha avuto più volte occasione di rile
vare, l'art. 147, nella angusta e poco felice espressione usata, non esaurisce tutti i possibili casi di « estensione », ma si
limita ad indicarne, in via esemplificativa, uno soltanto, lasciando così al giudice la più ampia facoltà di applicare la norma ai casi analoghi, (particolare menzione merita, sul punto, la sentenza 15 luglio 1957, n. 2922 (Foro it.,
1957, I, 1625), in cui la Suprema corte regolatrice ebbe ad
affermare che l'articolo in oggetto è applicabile per via
d'interpretazione estensiva, rectius « analogica », anche al
caso in cui si scopra l'esistenza di una società dopo il fal
limento di un imprenditore individuale) ; e non considerano
che, una volta ammessa una tale possibilità, non è più lecito dare al mancato richiamo letterale dell'art. 22 un
significato, per così dire, divietativo, che non trova alcuna
giustificazione nella logica del sistema.
L'elemento grammaticale, contrastato com'è da quello
logico e da quello sistematico, non è sufficiente a far ritenere
che, ripudiando il noto principio romanistico secondo il
quale ubi eadem est ratio legisjbi eadem est legis dispositio, abbia voluto il legislatore, restandosene sordo ed indif
ferente ai motivi che lo spingevano verso tutt'altra solu
zione, sancire la irreclamabilità del decreto reiettivo.
La norma racchiusa nel 1° capoverso dell'art. 22 devesi
ritenere pertanto applicabile anche al decreto che rigetta la domanda di estensione proposta dal curatore, potendosi il silenzio, mantenuto in proposito dal citato art. 147, attri
buire ad un vero e proprio difetto tecnico della legge, che
da difetti non va certo esente, 0 alla intima convinzione,
da parte del legislatore, che sulla proponibilità in via di
analogia del reclamo di cui al suddetto art. 22 non avrebbe
avuto l'interprete il benché minimo dubbio.
L'espresso richiamo che dell'opposizione ex art. 18
10 stesso art. 147 fa nel suo 3° comma, per il caso che il
tribunale disponga la chiesta estensione, ha forse contribuito
ad alimentare la confusione e l'incertezza ; ma in una legge notoriamente difettosa com'è quella fallimentare, (nella
quale, per tacer d'altro, si fa dipendere dall'intrinseco con
tenuto positivo o negativo del provvedimento del giudice così la forma che questo assume, sentenza o decreto, come
11 tipo della impugnazione proponibile, che è l'appello nel
primo caso e il reclamo nel secondo caso), non può certa
mente destar meraviglia l'inserimento di una norma di cui,
stante l'ampiezza della statuizione contenuta nel 1° comma
di detto art. 18, si sarebbe potuto benissimo fare a meno
senza che ciò desse luogo a giustificate perplessità di carat
tere esegetico. Resta il terzo ed ultimo argomento ; ma esso, per la
estrema fragilità dei due rilievi su cui poggia, è al pari degli
altri fin qui esaminati, privo del tutto di consistenza giu
ridica.
Il Fobo Italiano — Volume LXXX1I1 — Parte /-91,
In sostanza per suffragare la tesi della inimpugna bilità si dice che, allorché chiede che il fallimento venga esteso ad altri soggetti, il curatore non si avvale di un diritto di
azione, ma esercita, nell'interno dell'ufficio cui appartiene, un particolare munus publicum, consistente nel segnalare al tribunale un complesso di elementi di fatto suscettibili
di portare ad un allargamento in senso soggettivo della
procedura fallimentare già in corso. E si aggiunge, ad inte
grazione di questo primo rilievo, che, quando anche si
volesse definire « azione » una iniziativa siffatta, si rica
drebbe egualmente nella irreclamabilità del relativo decreto di rigetto, giacché in ogni caso, per intuitive ragioni di logica coerenza, il giudice delegato si guarderebbe bene dall'au
torizzare la impugnativa di un provvedimento a lui stesso
per buona parte attribuibile.
Ma i due rilievi non convincono.
Quanto al primo, basterà infatti dire soltanto, per rile
varne l'intrinseca inconsistenza, che, per effetto della posi zione assunta nel processo fallimentare quale sostituto
processuale del fallito e dei creditori (cfr. Cass. 31 ottobre
1958, n. 4103, Foro it., 1957, I, 1209), il curatore ha gli stessi diritti e le stesse facoltà (e forse anche maggiori, come
in tema di revocatoria ex art. 67 legge fall, e 2901 cod. civ.)
spettanti all'uno e agli altri; che il potere di provocare l'estensione del fallimento deriva da quella tale « espro
priazione » che, come si è detto dianzi, è stata dalla legge attuata in danno dei creditori ed in favore del curatore ; che col distinguere tra dichiarazione « di ufficio » e dichia
razione « su domanda del curatore » si è Voluto affermare
inequivocabilmente l'esistenza di un vero e proprio diritto
di azione col conseguente diritto al gravame, ed infine che, col qualificare « domanda » (termine senza dubbio più tecnico che non quello di « ricorso » usato nell'art. 6) l'atto
con cui si realizza praticamente l'esercizio di tale diritto, l'art. 147 ha inteso riferirsi a quello che nel sistema proces suale costituisce il tipico strumento di proposizione del l'azione in giudizio (art. 99 cod. proc. civ.).
Quanto poi al secondo rilievo è appena il caso di rilevare
che la pretesa « impossibilità », (meglio sarebbe, comunque, parlare di « difficoltà »), di ottenere dal giudice delegato l'autorizzazione al reclamo potrebbe costituire, tutt'al
più, un inconveniente che non solvet argumentum, e che
nella pratica quotidiana è però frequentissimo il caso che
lo stesso giudice delegato, che ha redatto la sentenza sfa
vorevole alla curatela, autorizza quest'ultima a proporre
impugnazione, dimostrando in tal modo di non, essere affatto
dominato dal mito della infallibilità.
Trattandosi di impugnativa di un provvedimento avente
natura giurisdizionale contenziosa, il reclamo proposto dal
rag. Bettinelli avrebbe dovuto ottenere pertanto la previa autorizzazione del giudice delegato, a norma degli art. 31 e
25, n. 6, legge fallimentare.
Ma questa non risulta data, ond'è che il reclamo stesso
deve essere dichiarato improponibile. Per questi motivi, ecc.
CORTE D'APPELLO DI MESSINA.
Sentenza 23 febbraio 1960 ; Pres. Cipolla P. P., Est.
Rizzo ; Mannino (Avv. Cacciola) c. Brunetto (Avv.
Magnera).
Servitù — Fondo intercluso — Accesso a torrente
di pubblico transito — l*assa«|<|io coattivo — Am
missibilità (Cod. civ., art. 1051).
Il proprietario del fondo intercluso può chiedere il passaggio coattivo sul fondo vicino per raggiungere il torrente su cui
si esercita il pubblico transito. (1)
(1) 1. — Ritengo che la decisione sia esatta anche se la
dottrina si è pronlinciata in senso opposto (v. Scaduto, Servitù
di passaggio necessario, in Circ. giur., 1931, pag. 29 ; I)eiana,
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