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DELEGAZIONE CARITAS DELLA LOMBARDIA · Il Quarto Dossier degli Osservatori Regionali delle Povertà...

Date post: 15-Feb-2019
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DELEGAZIONE CARITAS DELLA LOMBARDIA RAC-CONTARE LA POVERTÁ: Dentro le Storie di Vita Quarto Dossier Regionale sulla Povertà in Lombardia I Quaderni della Delegazione Lombarda
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DELEGAZIONE CARITAS DELLA LOMBARDIA

RAC-CONTARE LA POVERTÁ: Dentro le Storie di Vita

Quarto Dossier Regionale sulla Povertà in

Lombardia

I Quaderni della Delegazione Lombarda

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Ringraziamenti

Il Quarto Dossier degli Osservatori Regionali delle Povertà e

delle Risorse in Lombardia, è stato realizzato da un gruppo di ricerca coordinato da don Francesco Gipponi, con la collaborazione di Giordano Vidale, sociologo esperto in analisi e ricerca sociale, così composto: Caritas di Bergamo: Livia Brembilla, Marco Zucchelli, Ivano Stentella Caritas di Brescia: Piero Brunori Caritas di Como: Luigi Nalesso, Roberto Bernasconi Caritas di Crema: don Francesco Gipponi, Claudio Dagheti,

Riccardo Ghilardi Caritas di Cremona: Alessio Antonioli Caritas di Lodi: Vittorio Maisano, Fiorangela Boccardi Caritas di Mantova: Davide Boldrini, Giordano Cavallari Caritas di Milano: Elisabetta Larovere, Angela Signorelli, Luciano

Gualzetti, Sara Zandrini, Emanuele Polizzi, Mario Mozzanica

Caritas di Pavia: Elia Moretti, Celestino Abbiati, Jose Baldi Caritas di Vigevano: Isabella Cargnoni, Andrea Balzi

Si ringraziano per i preziosi contributi don Roberto Rezzaghi, don Roberto Davanzo e il gruppo tematico regionale delle Politiche Sociali.

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Un sentito e caloroso grazie va ai centri di ascolto delle diocesi lombarde per il paziente e quotidiano lavoro di raccolta dati, ai volontari e agli operatori che hanno partecipato con competenza ed entusiasmo ai focus group, ai rappresentanti delle amministrazioni comunali, ai tecnici e agli operatori del terzo settore che hanno compilato le schede questionario. Tutte queste persone, con la loro conoscenza e disponibilità, hanno permesso arrivare a questa pubblicazione, densa di esperienza e maturità acquisita nel quotidiano lavoro di ascolto dei poveri.

Infine, un ultimo ringraziamento particolare è rivolto a tutti i direttori delle Caritas che hanno dato la loro completa disponibilità alla realizzazione di questo progetto. Quarto Dossier Regionale sulla Povertà in Lombardia A cura della Delegazione Caritas della Lombardia Settembre 2009

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Indice INTRODUZIONE pag 5 don Roberto Davanzo, Delegato Regionale Caritas

1. UN CENTRO PER LA POVERTÀ? pag 8 Analisi quantitativa e metodologia di lavoro dei Centri di Ascolto Giordano Vidale, Livia Brembilla, Luigi Nalesso

2. DALLA QUALITÀ DELLA VITA ALLA VITA DI

QUALITÀ pag 36 Giordano Vidale, Livia Brembilla, Luigi Nalesso

3. WELFARE E TUTELA SOCIALE pag 49

Analisi del contesto istituzionale e degli itinerari di partecipazione al welfare locale a cura del Gruppo Regionale Politiche Sociali

4. PROSPETTIVE

IL RUOLO DELLE CARITAS NEL NUOVO CONTESTO DEL WELFARE LOMBARDO pag 75 Marco Zucchelli, Luigi Nalesso ALCUNE PROSPETTIVE DI CARATTERE OPERATIVO pag 83 Giordano Vidale LA SOLIDARIETÀ COME “RACCONTO” DEL VANGELO DI CRISTO pag 91 don Roberto Rezzaghi

CONCLUSIONI pag 106 don Francesco Gipponi APPENDICE ALLEGATI BIBLIOGRAFIA

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INTRODUZIONE

La cornice in cui si colloca questo Quarto dossier regionale sulla

povertà è quella della crisi economico - finanziaria che, nei giorni in cui questo lavoro va in stampa, continua a mostrare in modo pesante le conseguenze sul piano occupazionale.

Una crisi da non sprecare, una crisi per ripartire: lo sappiamo bene che la parola “crisi” non ha solo un’accezione negativa ma che rimanda ultimamente alla nostra responsabilità di uomini.

Contro una concezione rassegnata e fatalista, quasi che il mercato, l’economia, la finanza, ecc., siano delle divinità contro cui è inutile illudersi di combattere, è necessario “assumere con realismo, fiducia e speranza le nuove responsabilità a cui ci chiama lo scenario di un mondo che ha bisogno di un profondo rinnovamento culturale e della riscoperta di valori di fondo su cui costruire un futuro migliore. La crisi ci obbliga a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno, a puntare sulle esperienze positive e a rigettare quelle negative. La crisi diventa così occasione di discernimento e di nuova progettualità. In questa chiave, fiduciosa piuttosto che rassegnata, conviene affrontare le difficoltà del momento presente” (Caritas in veritate, n. 21).

È in questa prospettiva di futuro che vanno lette le iniziative che le Diocesi lombarde hanno messo in atto come risposta di Chiesa alle difficoltà in cui si sono venute a trovare molte famiglie. Una risposta che non ha mai avuto la pretesa di sostituirsi agli interventi di competenza della pubblica amministrazione e che semmai quegli interventi ha voluto provocare. L’idea era chiara: dietro alle iniziative diocesane c’era l’intento anzitutto di favorire nella comunità cristiana una seria riflessione non tanto sulle cause della crisi, quanto sul come uscirne rafforzati, più scaltri, più attrezzati e consapevoli che il post-crisi dipenderà anche da scelte che riguarderanno ogni singolo. Così si esprimeva il Card. Tettamanzi nell’omelia della notte del Natale 2008: “C’è uno stile di vita costruito sul consumismo che tutti siamo invitati a cambiare per tornare a una santa sobrietà, segno di giustizia prima ancora che di virtù ... C’è una nuova primavera sociale fatta di volontariato, mutuo soccorso, cooperazione da far fiorire perché insieme – ne sono certo -, solo insieme è possibile

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affrontare e superare le difficoltà che sperimentiamo e che si prospettano”.

Una seconda serie di considerazioni va obbligatoriamente nella direzione di riconoscere come il primo strumento atto a mettere al centro i poveri sia quel “Centro di Ascolto” che dobbiamo imparare a considerare come il minimo sindacale metodologico in assenza del quale diventa pressoché impossibile un corretto approccio alla povertà. La storia e l’esperienza della Caritas in Italia, e ovviamente in Lombardia, sta a raccontare non certo l’unica forma di accostamento ai poveri e di impegno per il riconoscimento dei loro diritti, ma sicuramente la ricerca di un approccio impegnativo e moderno. Si tratta infatti di imparare a riconoscere che la lotta alla povertà deve fare i conti con la verità dell’uomo che, prima di essere povero di cose, è povero di relazioni. Illuminante, da questo punto di vista, la terza enciclica di Papa Benedetto XVI - Caritas in veritate - anche per il contributo che offre nel salvare la carità dai molti equivoci che la insidiano: “Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo. L’amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente [...] Un cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali [...] Senza la verità, la carità viene relegata in un ambito ristretto e privato di relazioni. È esclusa dai progetti e dai processi di costruzione di uno sviluppo umano di portata universale, nel dialogo tra i saperi e le operatività” (cfr. nn. 3 e 4). Di questa carità nella verità i “Centri di Ascolto” delle nostre Caritas sono testimonianza eloquente.

In conclusione, propongo una terza sottolineatura critica e un auspicio. Più volte, nel corso delle pagine che seguono, si fa riferimento ad uno dei nervi più sensibili nella lotta alla povertà: quello relativo alla collaborazione di realtà come le nostre Caritas con le pubbliche amministrazioni. Si tratta più in generale del modo di interpretare uno dei pilastri della Dottrina Sociale della Chiesa, di quel principio di sussidiarietà, tanto necessario, quanto frainteso nel suo concreto attuarsi. Ebbene, la nota critica riguarda la non infrequente riduzione di tale principio ad una prospettiva gestionale: la pubblica amministrazione si avvale delle nostre realtà, delle imprese sociali a noi variamente collegate,

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ma in una prospettiva - se così posso esprimermi - puramente economica. Costiamo meno di quanto costerebbe all’ente pubblico gestire in proprio certi servizi. Ne è prova il fatto che quando poi si tratta di mettersi sul piano programmatorio e progettuale, tendenzialmente finiamo per esserne esclusi. Basti andare a studiare le faticose vicende del Tavolo del Terzo Settore nel suo rapportarsi con la Regione Lombardia o la graduale perdita di entusiasmo dei nostri operatori nella partecipazione ai Piani di Zona. Di qui l’auspicio: che cresca la disponibilità da parte dell’ente pubblico a investire energie e risorse affinché si sviluppi un concetto di sussidiarietà basato su una reale programmazione partecipata. È lo stare quotidianamente coi poveri che ci abilita ad essere considerati non solo dei buoni ed economici gestori del sociale, ma anzitutto sapienti ed illuminati interpreti della lotta all’esclusione. don Roberto Davanzo Delegato Regionale Caritas

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1. UN CENTRO PER LA POVERTÀ?

Analisi quantitativa e metodologia di lavoro dei Centri di Ascolto

Giordano Vidale, Livia Brembilla, Luigi Nalesso

È chiaro che c’è modo e modo di parlare delle angosce

che travagliano l’umanità. Ma bisogna parlarne. Guai a tacerle, per amore del quieto vivere. Metterle tra parentesi,

magari con il pretesto di non turbare l’anima …, è un’operazione disonesta e alienante. E a pagare l’estratto conto di questo connivente silenzio

saranno sempre i poveri1. Don Tonino Bello

Una breve premessa Ancora oggi ci troviamo di fronte ad un concetto, quello di

povertà, molto dibattuto nella letteratura e nelle ricerche che di essa vogliono presentare i tratti principali. Possiamo affermare che vi sono differenti definizioni (tutte molto valide) che sottolineano diversi aspetti e sfaccettature del fenomeno in questione (Bezze M., Castegnaro A , 3/2005). Tuttavia, l’interrogativo sotto la lente d’ingrandimento riguarda gli aspetti fondamentali per la sua definizione che vogliamo considerare in questo rapporto. Normalmente si considera la povertà come una mancanza di risorse economiche e materiali – è il cosiddetto concetto monodimensionale. In effetti, sarebbe fuorviante pensare di poter definire e descrivere la povertà a prescindere completamente dalla dimensione economica. «Nel dibattito scientifico si fa sempre più rilevante il filone di pensiero che mette in dubbio la capacità di una sola variabile (il reddito) di descrivere compiutamente il fenomeno della povertà. (…) Prende cioè sempre più consistenza un concetto multidimensionale di povertà in base al quale la povertà si presenta non solo come una carenza di risorse monetariali, ma come deficit, ad esempio, di salute e di istruzione, come

1 Bello T., Vegliare nella notte: riflessioni sull’impegno cristiano nel servizio sociale e nella politica, Ed. San Paolo 1995. p.129.

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incapacità ad acquisire – e gestire – risorse, come mancanza di condizioni abitative adeguate, di relazioni significative, di supporto dai servizi, ecc. Quando mancano i beni essenziali e le possibilità/capacità di acquisirli si può dire che il soggetto è in condizione di povertà. In questo modo è possibile cogliere meglio le cause della povertà e quindi elaborare strategie più efficaci per combatterla» (Bezze M, 2007).

Presentiamo all’inizio di questo lavoro una definizione di povertà (che è una felice sintesi del nostro pensiero), per dire che Caritas in questo documento vuole sì parlare della povertà in Lombardia, ma, soprattutto, vuole ricordare costantemente chi sono i Poveri che ha incontrato, quali e quanti volti ha ascoltato, quali sono i bisogni principali e più rilevanti, e infine quali sono le risposte attuate secondo la metodologia di lavoro e l’organizzazione che i Centri di Ascolto si danno.

Così, come è stato sottolineato per il dossier dell’anno 2006 (Nalesso L., 2007), anche per questa edizione è importante ribadire che i dati di tipo quantitativo qui riportati non rispecchiano a pieno la reale capacità di intercettazione dei poveri da parte delle Caritas di Lombardia: la “rete” dei Centri di Ascolto risulta essere ben più sviluppata e capillare di quella che viene considerata in questo frangente2. Vi sono, infatti, tutti i servizi “segno” collegati alle Caritas (cooperative, case di accoglienza, ecc.) che non sono ancora stati presi in considerazione nella loro totalità per la costruzione di un lavoro completo sui bisogni raccolti dalle Caritas lombarde. Tra l’altro, non tutti i bisogni e le povertà emergono dal nostro campione in modo significativo: ad esempio, il problema della prostituzione non raggiunge lo 0,1% del campione, così come del tutto inconsistenti a livello di rilevazione quantitativa sono i problemi legati a maltrattamenti, abusi/pedofilia. Tali povertà, appunto, sono intercettate da altri servizi segno della Caritas presenti sul territorio lombardo, che ancora non rientrano in questa rilevazione.

Al termine di questa breve premessa è importante ricordare che per diverse variabili la non registrazione dei dati raggiunge una

2 Per il documento 2009 sono stati utilizzati 18 Centri di Ascolto delle diverse caritas diocesane. È un “campione rappresentativo” del lavoro di incontro con il disagio: basta pensare, infatti, che la sola Diocesi di Milano ha più di 290 Centri di Ascolto dislocati sul suo territorio.

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percentuale piuttosto elevata. È quindi indispensabile riproporre la necessità di un ulteriore sforzo di tutti gli operatori/volontari nel raccogliere le informazioni fondamentali delle persone incontrate secondo lo slogan “ti conto perché tu conti!”. Tuttavia tale problema non sembra inficiare in modo significativo la validità dei risultati raccolti ai fini di una comprensione dei principali tratti salienti dei “poveri” incontrati.

La metodologia di lavoro adottata La metodologia scelta per l’analisi dell’andamento della povertà

rilevata dai Centri di ascolto della Lombardia, è stata duplice: da una parte sono stati utilizzati i dati quantitativi raccolti dal campione di 18 Centri di Ascolto per gli anni 2007-2008, dall’altra sono state svolte indagini di tipo qualitativo con questionari a risposta aperta per la raccolta di storie di vita, questionari per indagare sulle condizioni essenziali di vita e lo svolgimento di focus group con volontari ed operatori di Centri di Ascolto.

L’obiettivo era quello di completare, attraverso un approfondimento qualitativo, le informazioni che si acquisiscono con i dati numerici, allo scopo di conoscere meglio alcuni percorsi di povertà e disagio che i Centri di Ascolto si sono trovati ad affrontare anche dopo l’avvio della fase di “crisi” nei primi 6 mesi del 2009.

Per la raccolta delle storie di vita sono stati consegnati ad operatori/volontari dei Centri di Ascolto questionari con 8 quesiti a risposta aperta (vedi allegato 1). I Centri di Ascolto coinvolti sono stati 15 su tutta la Regione (8 diocesani, 6 parrocchiali e 1 decanale) per un totale di 20 persone coinvolte (tra operatori/volontari) che hanno raccontato 30 storie di persone e/o famiglie e il loro percorso con il Centro di Ascolto. Agli operatori/volontari è stata richiesta l’individuazione di vicende emblematiche di persone che avessero vissuto una o più tipologie di disagio maggiormente evidenziate dai dati quantitativi: disagio economico (perdita di lavoro, nessun reddito, ecc.), disagio famigliare/relazionale e disagio materiale (mancanza di casa, mancanza di beni di prima necessità, ecc.), per poter indagare più a fondo il contesto sociale e famigliare, le cause e i vissuti dei singoli, i percorsi attivati dai Centri di Ascolto per affrontare le problematiche.

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Si è voluto raggiungere tale obiettivo chiedendo proprio a chi pensa e attiva la progettualità, di raccontare le storie incontrate, i percorsi e le azioni messe in campo per e con le persone in condizione di bisogno. Ciascun Centro di Ascolto coinvolto ha inviato da 1 a 4 storie di persone/famiglie che si sono rivolte al proprio servizio segno e delle quali gli operatori hanno ascoltato le richieste, evidenziato i bisogni, le problematiche ma anche le risorse, descrivendo i passaggi cardine effettuati nell’attuazione di progettualità condivise con le persone stesse e con le altre forze presenti sul territorio.

I percorsi di accompagnamento raccontati non si sono conclusi tutti, né quelli terminati lo sono stati globalmente in modo positivo: alcuni sono in fase di svolgimento con buoni risultati intermedi, altri sono in fase di impasse per l’insorgere di alcune difficoltà impreviste, in altri le persone o la rete di soggetti e servizi sul territorio rifiuta di collaborare.

Emerge con chiarezza, quanto il lavoro di rete con i soggetti che compongono le risorse di solidarietà locale (pubbliche e private) sia fondamentale nell’azione di accompagnamento svolto dai Centri di Ascolto. In tutte le storie, la sinergia di più attori consente non solo di tamponare il bisogno più immediato ma di accompagnare, stare vicino e sostenere chi si trova in quella condizione di difficoltà.

Un Centro per la povertà? 8.262: sono le persone incontrate nei 18 Centri di Ascolto

Caritas3. Per ciascuno di essi gli operatori dei Centri di Ascolto hanno

3 C’è una differenza sostanziale tra i 18 Centri di Ascolto che hanno contribuito a questo lavoro: vi sono tre livelli organizzativo – operativi differenti tra i Centri. Metà dei Centri di Ascolto sono “diocesani”, dipendono cioè “direttamente” dalla Caritas Diocesana. Cinque Centri di Ascolto (2 a Como e 3 a Milano) sono “decanali/zonali”. Gli ultimi quattro sono Centri di Ascolto Caritas parrocchiali. Sono definiti “decanali” o “zonali” i Centri di Ascolto che afferiscono a più parrocchie di un medesimo territorio. La parrocchia è l’entità ecclesiastica territoriale più “vicina” alla gente di un determinato territorio. Il territorio della residenza e la parrocchia che lo include sono questo luogo di sintesi, in quanto l’ambito geografico conserva ancora una indubbia valenza culturale, fornendo riferimenti affettivi e simbolici che contribuiscono a definire l’identità personale e collettiva. Nella concretezza del legame locale si definisce e si rafforza il senso dell’appartenenza, anche ecclesiale. La comunità nel territorio è basata su famiglie,

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dedicato almeno un colloquio di conoscenza. Rispetto al 2006, il campione preso in esame nel 2008 è più che raddoppiato: nel 2006 si sono incontrate 3.850 persone4.

Tavola. 1 Distribuzione delle persone per singola Diocesi

Frequenza 2008 Percentuale

2008

Frequenza 2006 (6 mesi)

Percentuale 2006

(6 mesi)

Bergamo 1.069 12,9 720 18,7

Brescia 202 2,4 76 2,0

Como 1.044 12,6 440 11,4

Crema 368 4,5 168 4,4

Cremona 117 1,4 97 2,5

Lodi 636 7,7 266 6,9

Mantova 1.326 16,0 506 13,1

Milano 2.076 25,1 1.091 28,3

Pavia 275 3,3 205 5,3

Vigevano 1.151 13,9 281 7,3

Totale 8.262 100,0 3.850 100,0

Fonte: Osservatorio regionale delle Caritas diocesane della Lombardia Confrontando i dati con quelli precedenti si noterà come i Centri

di Ascolto di Vigevano e Mantova hanno avuto un notevole aumento di persone: considerato il periodo di rilevazione di un anno e non più di sei mesi, il numero di persone passate dal Centro di Vigevano è addirittura raddoppiato.

sulla contiguità delle case, sul rapporto di vicinato. Nota CEI «Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia», 2004. 4 Tuttavia questo dato non deve per nulla sorprendere perché dal 2007 è cambiato il periodo della rilevazione: si è passati da 6 mesi (aprile – settembre) all’intero anno solare.

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Le informazioni raccolte dai Centri di Ascolto attraverso schede di rilevazione dei dati anagrafici confermano l’andamento secondo cui l’incontro con il disagio e la vulnerabilità sociale prende sempre più i tratti di un volto femminile (55,8%) e straniero. Ciò non si discosta dal dato nazionale e dalle precedenti rilevazioni: ancora una volta la presenza preponderante di donne nei Centri di Ascolto può essere spiegata sia dalla fragilità della condizione femminile in alcuni contesti, sia dal ruolo che le donne rivestono all’interno delle famiglie di appartenenza, per cui riescono a farsi portavoce delle situazioni di disagio che coinvolgono anche gli altri membri del nucleo di convivenza (Marinaro R , 2007).

I Centri di Ascolto Caritas si confermano come punto di riferimento importante per la popolazione straniera: oltre l’80% delle persone incontrate è risultata possedere una cittadinanza straniera, mentre gli italiani sono stati il 16,5% del campione5.

Come si può notare dalla tabella sottostante, in controtendenza rispetto ai dati nazionali dove negli ultimi anni viene sottolineato che più della metà della popolazione straniera proviene dai nuovi paesi dell’Unione Europea, le persone straniere incontrate nei Centri di Ascolto nel 2008 provengono per la maggior parte dai paesi latino americani e dall’Africa settentrionale.

Tavola 2. Distribuzione degli stranieri che accedono ai CdA

relativa alle prime 10 nazioni di provenienza; valori assoluti e percentuali6

Paese di Origine Frequenza Percentuale

Marocco 927 11,2

Romania 826 10,0

Ucraina 570 6,9

Ecuador 403 4,9

Perù 381 4,6

5 Dato mancante: 692 persone, ovvero il 8,4%. 6 L’undicesima nazione risulta la Moldavia con 167 persone. I dati del 2006 vedevano al primo posto la Romania (10%), seguivano il Marocco (9,1%), Ucraina (8,5%), Ecuador (5,8%), Perù (4,9%), Brasile (4,4%), Tunisia (3,4%), Bolivia (3,3%), Moldavia (3,2%), Albania (2,3%).

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Tunisia 304 3,7

Brasile 263 3,2

Albania 222 2,7

Nigeria 179 2,2

Bolivia 168 2,0

Fonte: Osservatorio regionale delle Caritas diocesane della Lombardia Come nel 2006, i Centri di Ascolto Caritas intercettano anche

persone che vivono nella “zona d’ombra” dell’irregolarità e della clandestinità. È evidente che l’intervento degli operatori nei confronti di coloro che sono sprovvisti di un regolare permesso di soggiorno, almeno in prima battuta, è limitato alla sfera della conoscenza e della risposta a problemi di prima necessità. Tralasciando la percentuale di coloro che sono in attesa di rinnovo del permesso di soggiorno e quella il cui dato non si conosce (il 25,9% del dato non è disponibile), sono 1.794 le persone immigrate prive di un permesso di soggiorno incontrate dai Centri di ascolto. Ciò significa che la maggioranza della popolazione straniera intercettata ha un regolare permesso di soggiorno. Constatiamo ancora che il fatto di possedere un regolare permesso di soggiorno non costituisce una solida condizione che protegge lo straniero da situazioni di disagio e di bisogno. Pur essendo il rilascio del permesso di soggiorno legato il più delle volte a una condizione di occupazione lavorativa e al possesso di un’abitazione, questi due elementi non sembrano assicurare alla persona immigrata un sufficiente grado di autonomia e di tenuta nel tempo. Da ciò ne consegue, e i dati a disposizione lo confermano, che gli stranieri irregolari sembrano rivolgersi sempre meno ai Centri di Ascolto della Caritas: tale dato richiede un ulteriore approfondimento da parte di Caritas, nel futuro, per comprendere quali siano i percorsi delle persone irregolari sul territorio lombardo, ma soprattutto a quali servizi si appoggiano maggiormente.

Il tema della dimora e del nucleo di convivenza sono le ultime due7 variabili che meritano di essere riprese brevemente e insieme: ai 7 La rimanente parte di dati viene integralmente riportata in allegato alla fine di questo testo.

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Centri di Ascolto il 50,6% delle persone incontrate ha un domicilio stabile e il 19,7% risulta essere persona senza dimora (a fronte di un dato mancante del 28,2%). Ma se incrociamo il nucleo di convivenza possiamo affermare che quasi il 70% della popolazione vive in un nucleo con i propri famigliari o parenti (40,4%), oppure con conoscenti o soggetti esterni alla propria famiglia (18,7%). Chi vive solo è 24,6%. Le persone senza dimora sono nella maggior parte coloro che vivono soli e «sono risultati senza domicilio stabile o in situazione di precarietà abitativa. Si tratta di persone che, con ogni probabilità, vivono condizioni diverse di grave disagio abitativo. Il metodo di classificazione adottato (che considera semplicemente la disponibilità o l’indisponibilità di un domicilio stabile) tiene conto della difficoltà oggettiva degli operatori dei Centri a cogliere con precisione il grado di precarietà abitativa di una persona e, di conseguenza, non consente di effettuare analisi più dettagliate in proposito»8(Marinaro R, 2007).

I (ris)Volti della povertà al Centro: i bisogni

Possiamo definire il bisogno come la condizione in cui viene a trovarsi una persona in un determinato momento della vita e che si caratterizza per una difficoltà più o meno estesa a far fronte ad una mancanza o un desiderio. Tale condizione può nascere da una situazione “occasionale” ed improvvisa come la perdita di una persona cara, oppure può assumere i tratti della cronicità e quindi manifestarsi in modo prolungato nel tempo. «La descrizione dei bisogni rappresenta “la fotografia” delle difficoltà di una persona in un determinato momento; può subire modifiche, ma può essere costante anche per lunghi periodi di

8 «considerato ciò, si può pertanto affermare che tale numero considera sia persone che vivono la condizione di “senza dimora”, secondo i canoni normalmente considerati (oltre la mancanza di una dimora stabile, anche l’assenza di reti informali di sostegno, precarie condizioni materiali di esistenza, ecc.) sia persone che vivono altre situazioni di grave disagio abitativo, non necessariamente in modo stabile (es. gli immigrati che si trovano temporaneamente nella zona del Centro di Ascolto per un lavoro stagionale o che sono appena arrivati in Italia). Marinaro R., Persone in difficoltà e interventi: i dati dei Centri di Ascolto della rete Caritas, in Rassegarsi alla povertà? Rapporto 2007 su povertà ed esclusione sociale in Italia, Il Mulino, 2007, pp. 207-223.

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tempo: più grave è la condizione di emarginazione o esclusione della persona, più difficili sono i percorsi da intraprendere per aiutarla a fuoriuscire dal bisogno o, meglio, dalla multidimensionalità dei bisogni (spesso sono tra di loro concatenati e si manifestano contemporaneamente, o in tempi successivi, sovrapponendosi nella storia di vita della persona)» (Ibidem). Parliamo di ris-Volti per dire che i bisogni sono legati alle persone che entrano in relazione in un Centro di Ascolto in una duplice direzione: c’è chi il bisogno lo porta con sé (fa parte della sua condizione in quel momento), è un tratto del suo volto. C’è chi, invece è chiamato a coglierne i significati in profondità, a delinearne le sfaccettature, indipendentemente dal fatto che i bisogni siano manifestati in modo esplicito. Si comprende, allora, la difficoltà e la delicatezza del lavoro degli operatori (volontari e professionisti) che nel Centro di Ascolto svolgono l’importante compito di ricercare relazioni significative per individuare il reale bisogno delle persone che hanno di fronte. Tuttavia questo non è sempre possibile per una molteplicità di fattori9, ma il grado di rilevazione degli stessi nel campione a nostra disposizione sembra rispecchiare i dati e le rilevazioni effettuate a livello nazionale.

9 Alcune situazioni sono molto delicate e una persona può non volerle manifestare. C’è poi la possibilità che alcune persone non siano ancora consapevoli della loro situazione e non vedano il reale bisogno perché in quel momento non hanno le capacità per farlo (si veda ad esempio il caso di quelle persone che non riescono a mantenere un posto di lavoro, non per la mancanza di capacità professionali, ma per problemi legati ad una “dipendenza da sostanze” di cui non ci si è ancora resi conto).

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Tavola 3. Percentuali di diffusione dei bisogni tra le persone10

Fonte: Osservatorio regionale delle Caritas diocesane della Lombardia

È sotto gli occhi di tutti che le principali problematiche rilevate nei Centri di Ascolto Caritas sono quelle legate alla povertà economica, alla presenza o meno di una occupazione/lavoro, alla disponibilità o meno di una abitazione. La lettura delle voci dettagliate dei bisogni, evidenzia che la povertà è legata principalmente ad una insufficienza del reddito attuale rispetto alle “normali” esigenze di vita (13,6%), oppure alla mancanza totale di un reddito (12,1%). Il reddito è strettamente legato al lavoro e al mantenimento dello stesso: il 23,7% dei bisogni rilevati è connesso ad una situazione di disoccupazione o di licenziamento/perdita del lavoro.

10 Le richieste possono essere espresse più volte, dalla stessa persone, in diversi colloqui. Le elaborazioni riportate qui di seguito, devono essere lette in questo modo: esse indicano la percentuale di persone che, almeno una volta, ha espresso una determinata richiesta. Lo stesso calcolo fatto per le richieste è riportato per i bisogni: in questo caso il dato deve essere letto come percentuale di persone per le quale è stato segnalato un determinato bisogno. Esempio: l’11,91% delle persone ha chiesto almeno una volta pronta e prima accoglienza.

Bisogni Frequenza Percentuale

Problematiche di occupazione/lavoro 4.899 27,7

Povertà – problemi economici 5.106 28,9

Problematiche abitative 2.446 13,8

Bisogni di migrazione/Immigrazione 1.823 10,3

Problemi famigliari 1.112 6,3

Problemi di salute 583 3,3

Problemi di istruzione 773 4,4

Dipendenze 257 1,5

Detenzione e giustizia 128 0,7

Handicap/disabilità 137 0,8

Altri problemi 408 2,3

Totale 17.672 100

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La terza condizione di bisogno evidenziata è quella legata all’abitare: il 7,2% delle persone incontrate risulta non avere una casa, oppure vive in una abitazione precaria e inadeguata11. Il 4,2% si trova ad avere una residenza provvisoria e temporanea legata, ad es. per gli stranieri, ad un lavoro stagionale. Infine si evidenzia che solamente per 10,3% dei bisogni degli stranieri sono rilevati come problemi legati alla condizione di immigrazione: tra questa l’irregolarità giuridica è il 6,9%.

I Poveri al Centro! I 18 Centri di Ascolto Caritas presi in esame hanno rilevato in tutto il 2008, 29.801 richieste12 differenti e attuato 28.573 interventi diversi. Un dato interessante che emerge dai focus group effettuati per la realizzazione di questo lavoro, fa rilevare come i Poveri si indirizzino al Centro con aspettative differenti: il Centro di Ascolto diventa il primo e facile approdo per le richieste di stranieri residenti o appena giunti in Italia, cioè per coloro che sono maggiormente carenti nelle reti di sostegno sociale e che non possono (non sanno o temono di) rivolgersi alle strutture sociali pubbliche di assistenza e di accompagnamento. Per gli italiani il Centro di Ascolto diventa molte volte “l’ultimo approdo”, soprattutto per chi si trova in una situazione di marginalità sociale molto evidente, ma anche per chi, al contrario, si trova in una condizione di forte difficoltà di cui non aveva mai avuto esperienza e stenta a chiedere aiuto.

11 Questo dato si discosta dalla rilevazione a livello nazionale dove la percentuale di mancanza di casa o di abitazione inadeguata e precaria raggruppata nella voce “problematiche abitative” raggiunge quasi il 15%. Cfr. tavola 17 Macro-voci di bisogno per cittadinanza degli utenti in AA.VV Rassegnarsi alla povertà? Rapporto 2007 su povertà ed esclusione sociale in Italia, Il Mulino, 2007, p. 218. 12 «la richiesta rappresenta ciò che la persona domanda esplicitamente durante i colloqui con l’operatore del Centro di ascolto. Non sempre la richiesta coincide con il bisogno rilevato, in parte perché relativa alle aspettative che la persona ha verso il Centro stesso (“cosa riesco ad ottenere”), in parte perché la persona può non avere piena consapevolezza del proprio disagio o avere difficoltà nell’affrontarlo. In questi ultimi casi, diventa particolarmente importante l’opera del Centro di Ascolto, ossia l’accoglienza tramite l’azione di ascolto e, laddove possibile, la successiva presa in carico e l’accompagnamento alla persona nella ricerca di un progetto di uscita dalla situazione di disagio». Marinaro R. ibid.

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La molteplicità delle richieste e degli interventi effettuati dice la “vocazione” dei Centri di Ascolto a non essere sportelli a “senso unico”, cioè luoghi in cui si può chiedere solamente una determinata prestazione specialistica. I Centri di Ascolto non sono sportelli univoci: sono luoghi in cui una serie di persone, grazie ad esperienza e professionalità, mettono i poveri al centro del loro operare, perché sono in grado di offrire non solo una “professionalità” ma risposte ed ascolto diversificato e pronto ad accogliere ogni persona che accede al Centro. Per questo motivo i Centri di Ascolto ricevono richieste di alloggio, di ascolto a vari livelli, di beni e servizi materiali, di coinvolgimento di altri enti, di consulenze professionali diversificate, di ricerca di lavoro, di orientamento rispetto ai servizi presenti sul territorio, di sostegno in problematiche di tipo sanitario, di richieste legate ad un aiuto per il completamento o il miglioramento del livello di istruzione, di un sostegno socio assistenziale, di sussidi economici.

Tavola 4. Percentuali di diffusione delle richieste e degli interventi

Richieste Freq. Percentuale Interventi Freq. Percentuale

Beni e servizi materiali

14.163 47,5 Beni e servizi materiali

13.434 47,0

Ascolto 6.662 22,4 Ascolto 7.799 27,3

Lavoro 2.888 9,7 Lavoro 1.868 6,5

Alloggio 1.873 6,3 Alloggio 1.248 4,4

Sussidi economici

1.067 3,6 Orientamento 1.104 3,9

Sanità 1.011 3,4 Sanità 899 3,1

Orientamento 686 2,3 Coinvolgimenti 778 2,7

Coinvolgimenti 602 2,0 Sussidi Economici

681 2,4

Consulenza professionale

437 1,5 Consulenza professionale

394 1,4

Altre richieste 226 0,8 Altre richieste 175 0,6

Sostegno socio-assistenziale

97 0,3 Scuola/ Istruzione

102 0,4

Scuola/ 89 0,3 Sostegno 91 0,3

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Istruzione socio-assistenziale

Totale 29.801 100 28.573 100

Fonte: Osservatorio regionale delle Caritas diocesane della Lombardia

Le richieste di beni e servizi materiali risultano essere le più frequenti tra le persone che i Centri di Ascolto hanno incontrato: sono questioni da risolvere nell’immediato dietro le quali spesso gli operatori leggono bisogni ben più complessi e che richiederebbero un tempo maggiore e un lavoro ulteriormente articolato della semplice consegna di un pacco viveri.

La risposta più frequente è, infatti, di tipo materiale: ciò avviene perché, molto spesso, intorno al Centro di Ascolto ruotano (oppure ne sono parte integrante) altri servizi: mense, guardaroba per la distribuzione di indumenti, igiene personale/docce, ecc.

Questo dato ci permette di sviluppare almeno due brevi riflessioni.

La prima: rispetto ai beni di prima necessità vi è una sostanziale corrispondenza nei dati, tra richieste e interventi (entrambe hanno una percentuale intorno al 47%). I Centri di Ascolto si confermano essere Centri di prima e pronta necessità in grado di soddisfare le richieste legate alla sfera della “sopravvivenza”.

L’accesso ai beni di prima necessità permette inoltre agli operatori del Centro di Ascolto di tenere monitorate le situazioni di povertà incontrata e di “utilizzare” l’accesso ai servizi come punto di contatto con le persone per un eventuale percorso di autonomia con le stesse.

«Abbiamo aperto il banco alimentare Caritas. È su progetto: (la persona che passa dal Centro di Ascolto) ottiene questo pacco per due - tre mesi, ma potrebbe essere rinnovato su progetto. La persona deve dimostrare comunque che sta facendo dei percorsi. » (Focus group CdA Beata Vergine Addolorata in Morsenchio – Milano)

Vi è tuttavia un forte rischio che emerge da questo primo dato: un sostanziale appiattimento tra la richiesta di beni e l’erogazione degli stessi. Come per altre voci, i dati a disposizione ci dicono che ci si ferma

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nella maggior parte dei casi ad una “progettualità del piatto di pasta”: il progetto con la persona non va oltre il semplice monitoraggio e l’unico intervento possibile è quello della soddisfazione delle richieste di prima necessità senza alcun altro tipo di intervento13.

Come diceva don Milani, dare le stesse cose in situazioni diverse è la più grande ingiustizia che si possa commettere: per questo motivo risulta fondamentale l’azione di Ascolto all’interno del Centro. È prassi dei Centri di Ascolto ascoltare chiunque si presenti, ma soprattutto la scelta tendenziale è quella di separare la parte di ascolto da quella di distribuzione degli aiuti concreti.

«Abbiamo separato ascolto e assistenza. Non abbiamo una programmazione di massima sull’ascolto: avviene secondo bisogni e desideri delle persone che si avvicinano. Quelli nuovi si presentano spontaneamente e vengono accolti, mentre per le famiglie che assistiamo da tempo c’è un certo iter: noi garantiamo una certa assistenza, quindi anche una fruizione di beni per un certo periodo di tempo, dopo di ché chiediamo che rivengano all’ascolto a frequenza stabilite. Quando arriva una persona nuova entra nell’ufficio, cerchiamo di accoglierla facendola presentare, cercando di avere qualche informazione preliminare, come la residenza che è molto importante perché da noi vengono anche da altri posti, perché siamo un Cda interparrocchiale, tre parrocchie, ma di fatto assiste tutto il vicariato di Codogno. Quindi dopo la conoscenza iniziale, c’è la richiesta di documenti e si entra nel merito della questione: l’accoglienza deve stabilire subito se ci sono delle condizioni minime per andare avanti. In linea di massima il primo ascolto è di conoscenza, difficilmente si entra nel merito però capita anche delle volte che già nel primo ascolto si riesce a focalizzare quale è il problema emergente e a stabilire una continuità, rimandare di una settimana, o a intervenire immediatamente perché ci sono anche casi molto gravi. L’occasione è l’ascolto: si rivede chi c’è, a volte, c’è una persona a volte un’altra, in quel momento si rivede la situazione.» (Focus group CdA interparrocchiale di Codogno – Lodi)

13 Molto dipende dalla disponibilità delle persone a farsi accompagnare e sostenere, tuttavia la scelta di corrispondere alle richieste di prima necessità è dovuto in parte anche ad un massiccio numero di persone che accedono al centro e alle numerose richieste a cui i Centri di Ascolto devono far fronte: si intravede la sottile e pericolosa logica dell’auto-selezione da parte delle persone che si incontrano al Centro. Si inizia un sostanziale percorso e progettualità solo con coloro che si presentano più spesso al Centro di Ascolto, ma non è detto che questi siano coloro che hanno un maggiore bisogno di un supporto progettuale.

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Ciò che fa la differenza nel mettere i poveri al centro è arrivare a capire che la funzione dell’ascolto diventa l’attività fondamentale e imprescindibile del Centro: non solo il semplice e primo ascolto (valido per il 22,1% degli interventi) ma l’ascolto con discernimento e progetto. Purtroppo i dati a disposizione evidenziano una riduzione, nel giro di due anni, di questo tipo di ascolto da un 8,2% al 2,7%. Tuttavia, è proprio la necessità di seguire in modo approfondito le persone che si presentano con più frequenza al Centro per differenti bisogni e richieste, che sta facendo attuare ai Centri di Ascolto un salto di qualità nel modo di ascoltare:

«Il nostro centro di ascolto ultimamente viaggia su due binari paralleli che si confrontano. Il gruppo del centro di primo ascolto che si occupa di un ascolto iniziale e che dà un aiuto alle prime necessità, quindi se uno ha voglia torna sennò non torna; poi il venerdì c’è l’angolo dei progetti dove vengono presi in carico i casi che hanno bisogno di essere seguiti per un certo periodo. Se un caso va seguito per due, tre quattro mesi si lavora in rete, si lavora con la Caritas, con gli altri centri di ascolto, con gli assistenti sociali. Stiamo investendo moltissime energie anche nel lavoro progettuale. Il progetto deve avere una durata: insieme si stabiliscono quali sono le priorità. Non le dico io ma nemmeno tu, insieme lo decidiamo. Spesso e volentieri è successo che c’era la persona che voleva tenere le redini in mano e dire: la prima cosa che a me serve è questa. No! Insieme si stabilisce l’ordine di priorità. Dobbiamo però tenere conto che il progetto ha un termine: ed è secondo noi la parte più dolorosa da affrontare perché sicuramente le situazioni molto difficili per le famiglie che incontriamo non permettono di intravedere la fine.» (Focus group CdA Sant’Alessandro in Colonna – Bergamo)

Un Centro per i Poveri! (ad alcune condizioni) «Il Centro di Ascolto della Caritas diocesana è il luogo privilegiato (perché consegnato dalla tradizione e confermato dall’esperienza) in cui si intessono relazioni con i poveri, maestri e pulpito del parlare e dell'agire di ogni Caritas. All’interno del Centro di Ascolto diocesano operano sia volontari sia collaboratori retribuiti. Nel Centro di Ascolto gli operatori lavorano in équipe. Periodicamente si confrontano su come supportare le diverse persone incontrate. Questo permette di armonizzare i criteri di intervento e rendere omogeneo lo stile di lavoro» ( Atti del Convegno CEI, gennaio 2008).

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Il nodo dei nodi ancora oggi sembra risiedere nell’accompagnamento e nel coinvolgimento delle comunità e dei territori nell’azione di sostegno alle persone attraverso una duplice direzione: la competenza degli operatori e il lavoro di rete. Sollecitati da povertà e ingiustizie, sempre più gravi e urgenti, si rischia di far perdere ai Centri di Ascolto la loro principale funzione che è quella di ricordare a tutta la comunità che i poveri e non i servizi, l’amore e non le prestazioni, sono i luoghi attraverso cui si è costantemente provocati nel proprio modo di operare e di essere a servizio. Per questo è importante ribadire che il Centro di Ascolto è per i poveri, per dare spazio all’umano condiviso e non alle prestazioni di efficienza o alla ricerca di una «certificazione di qualità».

Il lavoro dei focus group ha permesso di far emergere come prassi consolidata il lavoro di equipe e la scelta di una formazione permanente in cui persone con esperienze e professionalità diverse si confrontano per la presa in carico e l’accompagnamento delle persone incontrate:

«Il lavoro del centro è basato innanzitutto sul lavoro di equipe, che viene svolta settimanalmente tra gli operatori che lavorano stabilmente nel centro, per un lavoro di coordinamento, di confronto e di progettazione, rispetto alle persone che frequentano il centro ed alle diverse problematiche che emergono.» (Focus group CdA Casa San Simone – Mantova). «L’anno scorso abbiamo deciso di darci un po’ una qualifica e se prima l’ascolto era fatto dai volontari pieni di tanto entusiasmo, oggi giorno bisogna essere sempre più qualificati. Dall’anno scorso, dall’autunno dell’ano scorso, ci siamo formati con una persona qualificata che proviene da una lunga esperienza fatta in Caritas diocesana e questo ci ha favorito molto nell’ascolto perché non basta ascoltare ma bisogna anche saper selezionare l’ascolto, dare delle risposte che siano qualificate, non basta dare il pacco e tutto quello che ne consegue.» (Focus gruop CdA di Sarezzo, Val Trompia – Brescia). Merita particolare attenzione la richiesta di orientamento

rispetto ai servizi del territorio associata anche alla richiesta di coinvolgimento di altri enti/associazioni nel supporto ai bisogni delle persone incontrate. Qui si gioca l’importante lavoro di rete che i Centri di Ascolto sono sempre più chiamati a svolgere. Vi è già la consapevolezza dell’importanza di un orientamento qualificato: negli

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interventi la percentuale rispetto alle richieste è quasi raddoppiata (3,9%). È sul coinvolgimento di altri enti, e delle reti principali di supporto, la sfida su cui si deve giocare il lavoro dei Centri di Ascolto nei propri territori. Il coinvolgimento arriva solo nel 2,7% degli interventi. Questo vuol dire che non fa parte di una prassi consolidata dei Centri di Ascolto ma diventa di particolare supporto alla persona in casi significativi e particolarmente impegnativi. Questo dato emerge dalla rilevazione delle storie di vita che i Centri di Ascolto hanno prodotto. Da tutto il lavoro dei racconti di vita emerge un particolare dato significativo: il Centro di Ascolto è in grado di coinvolgere maggiormente tutta la sfera dei servizi socio-assistenziali, sanitari, di supporto economico e materiale ma vi è una carenza evidente sui servizi socio-educativi e di supporto relazionale nonostante la sua dichiarata vocazione ad una attenzione pedagogico - relazionale. È su questa parte che i Centri di Ascolto devono aprirsi nel loro modo di operare.

È evidente, in questo senso, il “vuoto” di contatti con Parrocchie e Caritas Parrocchiali come “servizi” di sostegno relazionale: sono scarsamente considerati e disponibili.

A supportare questa lettura sono stati prodotti alcuni schemi di rappresentazione delle Azioni di aiuto14 emersi dalle «Storie di Vita»: ne riportiamo solo alcuni esempi.

In ciascuna area territoriale di azione dei Centri di Ascolto sono

presenti servizi ed attività che possono essere ricondotti a 5 ambiti: socio-assistenziale; socio-sanitario; socio-educativo; supporto-relazionale e di accompagnamento; supporto economico e materiale. Abbiamo voluto schematizzarli per dare una più chiara percezione dell’azione di aiuto dei Centri di Ascolto, collocando i diversi servizi coinvolti nel lavoro di rete e nell’accompagnamento delle persone dentro gli ambiti sopra citati.

14 Tutti gli Schemi di rappresentazione delle Storie di vita sono pubblicati in appendice

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Uomo senza residenza disoccupato15

AMBITO SOCIO ASSISTENZIALE

Dormitorio Caritas

Drop In LILA

Dormitorio Comunale

Ambulatorio per Senza Dimora

Micro Credito Caritas

Agenzie Interinali

L’uomo era stato inserito al dormitorio comunale della città di Como dalla Caritas di Torino e si era rivolto al Cda per avere aiuto per la ricerca di lavoro e per l’accesso alla mensa a marzo 2008.

«Inizialmente gli operatori hanno inviato il suo curriculum ad alcune agenzie e hanno contattato le strutture di Milano per un’accoglienza in quanto voleva spostarsi a cercare lavoro. Successivamente ci siamo messi in contatto con la Lila, che gestisce il drop-in in cui era stato ospitato dopo la chiusura del dormitorio comunale. Lo abbiamo poi aiutato nell’effettuazione di visite mediche per un’eventuale domanda d’invalidità per epilessia, che non è poi stata presentata. Il signore, infatti, è dal 2004 senza residenza ed ha usufruito del nostro ambulatorio per poter accedere alle visite specialistiche. A febbraio 2009 abbiamo aiutato lui e altre 3 persone ad aprire la Partita Iva per iniziare un’impresa di volantinaggio e l’abbiamo ospitato

15 Storia di Vita del Centro di Ascolto di Como.

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nel nostro dormitorio per un mese, in attesa dell’inserimento in una struttura più adatta. Il Cda ha consentito l’accesso all’ambulatorio per senza fissa dimora e al microcredito attivato dalla nostra Caritas. il Cda lo ha ospitato nel dormitorio e ancora adesso gli fornisce la mensa e il vestiario. Il Cda non ha potuto attivare i Servizi Sociali in quanto l’uomo è senza residenza da alcuni anni. Abbiamo lavorato con lui per un anno circa».

Per questa situazione il Cda ha garantito l’erogazione di: mensa e vestiario; ha lavorato con l’utente creando una relazione di fiducia per un anno.

Famiglia tunisina regolare con diverse necessità16

AMBITO SOCIO ASSISTENZIALE

Assistente SocialeArea Minori

Centro Aiuto alla Vita

A2A

Agenzie Interinali

Assistente SocialeArea Minori

Centro Aiuto alla Vita

Signore tunisino, di circa 40 anni, con permesso di soggiorno, ma senza lavoro da circa tre mesi, con moglie e un bimbo di 1 mese. Ha necessità economiche, di ricerca lavoro, e necessità di sostegno a moglie e bimbo.

16 Storia di Vita del Centro di Ascolto Sant’Alessandro in Colonna - Bergamo

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«Il Centro di Ascolto ha contattato il Centro Aiuto alla Vita di Bergamo che ha accompagnato e sostenuto la sig.ra negli ultimi mesi di gravidanza e ha fornito aiuto economico per le necessità più urgenti e per il bimbo. Il Centro di Ascolto ha preso contatti con l’assistente sociale del Comune di Bergamo (area Minori) per pianificare una strategia di interventi comuni, in attesa di un’eventuale inserimento lavorativo presso una cooperativa. Nell’ultimo incontro con assistente sociale del Comune e con operatrice Centro Aiuto alla Vita, l’operatore del Centro di Ascolto ha condiviso un programma di intervento che comprende, da parte del Comune la possibilità di accedere ad un contributo per affitti e bollette arretrate e l’inserimento in graduatoria per un appartamento a canone di locazione agevolato, e da parte del Centro di Ascolto e del Centro Aiuto alla Vita sostegno per il bimbo e la mamma. Il Centro di Ascolto ha coinvolto il marito in alcuni semplici lavori per dare la possibilità di avere qualche, anche se pur modesta, entrata. Sono stati presi contatti con cooperative lavoro e con agenzie interinali per eventuali possibilità di lavoro. Il Centro di Ascolto ha contattato la BAS energie per regolamento e possibilità di dilazione delle bollette metano».

Il Centro di Ascolto ha dato un sostegno alla moglie, in Italia da pochi mesi, attraverso l’accompagnamento per visite sanitarie del bambino, in quanto la moglie non conosce la lingua italiana. L’obiettivo è quello di costruire una rete di relazioni che permettano alla mamma di non essere isolata. Il Centro di Ascolto ha coinvolto il marito in alcuni semplici lavori per dare la possibilità di avere qualche, anche se pur modesta. Il Comune pensa alla possibilità di far accedere ad un contributo per affitti e bollette arretrate e l’inserimento in graduatoria per un appartamento a canone di locazione agevolato.

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LA POVERTÀ AL CENTRO? I Racconti di vita

Légala agli altri la luce che non hai, la forza che non possiedi, la speranza che senti vacillare in te, la fiducia di cui sei privo.

Illuminali del tuo buio. Arricchiscili con la tua povertà.

Regala un sorriso quando hai voglia di piangere. A. Manzoni

In alcune circostanze il lavoro dei Centri di Ascolto diventa fondamentale per il sostegno e l’accompagnamento di persone/famiglie che a partire da un racconto superficiale e di immediato interesse per il loro bisogno, scelgono nel tempo di affidarsi e di essere accompagnate per un tratto della loro vita dal Centro di Ascolto. Saper raccontare la storia di una persona è segno di averla accolta, ascoltata conosciuta, accompagnata. Qui viene presentato, in sintesi, questo metodo di lavoro e di accoglienza dei Centro di Ascolto delle situazioni più significative intercettate nell’anno 2008.

Le persone/famiglie che sono arrivate ai Centri di Ascolto,

facendo una o più richieste di tipo pratico, sono state costantemente invitate dagli operatori/volontari a presentarsi e a raccontare parte del proprio vissuto personale.

Saper ascoltare e accogliere le parole, i silenzi e i messaggi del corpo di coloro che vengono a bussare alla porta del Centro di Ascolto è diventata la prerogativa preponderante di volontari ed operatori Caritas. La lettura dei bisogni e delle risorse dei singoli e delle famiglie è avvenuta in questo spazio di ascolto, in cui tra le due parti in causa si crea una relazione che con il tempo tende a diventare di aiuto e di fiducia reciproca. Ogni racconto di vita17, raccolto dal Centro di Ascolto, ha al suo interno una molteplicità di problematiche e bisogni che sono strettamente interconnessi fra di loro, concausa l’uno dell’altro.

17 La maggior parte delle necessità è emersa in modo indiretto nei racconti: queste sono state raccolte, prese in mano e rilette dagli operatori alla luce proprio delle peculiarità di ciascuna narrazione.

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Più della metà delle storie di vita riportate dagli operatori dei Centri di Ascolto hanno visto protagoniste persone/famiglie la cui richiesta principale è stata quella di un sostegno economico. Dietro a tale domanda, le problematiche sono risultate molto differenziate: vi è una parte di famiglie che non riesce a far fronte a spese ordinarie di gestione familiare (come il pagamento di bollette, dell’affitto, delle tasse scolastiche ecc.) a causa della perdita del lavoro o della cassa integrazione di uno o più membri della famiglia. Vi è un’altra parte di persone che ha contratto debiti per acquistare beni come una casa, i mobili, e altri beni non di prima necessità, che senza più il lavoro, si trova a non riuscire a fare fronte ai pagamenti e al mantenimento della propria famiglia. La necessità di aiuto economico deriva quindi direttamente dalla perdita di lavoro o dalla cassa integrazione da parte di uno o entrambi i coniugi, ma non solo: anche i problemi di salute(citati in 7 storie) sono una delle cause che creano esigenze di sostegno finanziario, in quanto le persone non sono più in grado di lavorare, o lo sono solo in parte, per il sopraggiungere di malattie croniche oppure di una gravidanza a rischio. Chi perde il lavoro spesso subisce le conseguenze della situazione di grave crisi economica mondiale. In alcuni racconti degli operatori emerge tuttavia anche la sottolineatura dell’incapacità, antecedente alla crisi, di mantenere un posto di lavoro e di gestire le entrate economiche in modo consapevole e responsabile. Ciò che appare un problema lavorativo per alcuni, è una questione di carenza socio-culturale ed educativa per altri. Queste problematiche si ritrovano in almeno 10 storie, all’interno di contesti familiari isolati, in cui la rete familiare stessa o quella amicale è debole e non riesce a supportare chi è in difficoltà. L’isolamento e la difficoltà ad avere un sostegno acuisce i problemi, creando ulteriori bisogni e affaticando ancora di più le famiglie e anche i singoli che si trovano e si sentono soli nell’affrontare le problematicità. Tale situazione non riguarda solamente gli stranieri sia regolari sia irregolari (che spesso non hanno una rete familiare in Italia), riguarda anche famiglie e persone italiane che vivono, per scelta oppure per una concatenazione di diversi fattori, in condizioni di isolamento sociale e di solitudine.

Questa constatazione, emersa proprio dalla lettura delle storie di vita, ricalca la condizione “dell’istituzione famiglia” in Italia: «La

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conseguenza è che mai come oggi, dal secondo dopoguerra, le famiglie in Italia si sentono sole. Sovraccaricate di responsabilità, sempre meno in grado di aiutare i propri membri più deboli, indotte spesso a fare un passo indietro rispetto ad importanti scelte di vita, come ad esempio fare figli» ( Del Boca D. e Rosina A , 2009). La richiesta di beni materiali diventa spazio di apertura per un lavoro di accompagnamento, di sostegno psicologico ed emotivo, di tessitura di relazioni per i Centri di Ascolto che riescono o hanno le forze per cogliere tale sfida. L’essere in condizioni di difficoltà porta a chiedere beni per soddisfare bisogni di prima necessità ma successivamente può innescare percorsi di accompagnamento e attivazione della rete territoriale di servizi.

Alcuni Centri di Ascolto sembrano aver iniziato a raccogliere questa provocazione, con una duplice peculiarità: la capacità di leggere i problemi e i bisogni di chi si presenta al Centro di Ascolto, contestualizzandone la storia all’interno della propria comunità e del proprio territorio; l’abilità di intessere reti di lavoro con i servizi (formali e informali) che sono presenti sul territorio stesso, cercando alleanze e condivisione di competenze e professionalità allo scopo di sostenere e accompagnare le persone con i loro bisogni.

I volontari e gli operatori dei Centri di Ascolto hanno compreso che non possono occuparsi in modo generico delle persone che hanno dei disagi: per riuscire a lavorare per e con le persone è indispensabile individuare i loro problemi, i bisogni che ne derivano, i percorsi e le reti di sostegno che si possono attivare.

La parte preliminare, che è fondamentale e cruciale, risulta quella del colloquio di ascolto: in questa porzione di tempo i volontari costruiscono un ambiente protetto in cui la persona possa raccontare sé stessa, la sua storia, i suoi vissuti di dolore e le sue fatiche. A volte le informazioni escono in condizioni e in momenti inaspettati, come è accaduto in questo Centro di Ascolto:

«Il marito si è rivolto al nostro Centro perché voleva frequentare il corso di italiano offerto in collaborazione da Caritas e Migrantes. Si è rivolto a me in qualità di referente del corso (non di operatrice del

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Centro di Ascolto): inizialmente il bisogno espresso era soltanto la scarsa conoscenza della lingua. Con il passare del tempo, conoscendolo meglio, sono venuta a sapere che c’erano anche difficoltà economiche a causa del fatto che la moglie non poteva lavorare (perché incinta di 2 gemelle), mentre lui lavorava come autista per conto del cognato che non lo pagava ma li aiutava nella gestione economica (affitto, bollette, ecc.)».

Spesso accade che per creare un clima di fiducia ed instaurare una

reale relazione tra operatore e persona ascoltata ci vogliano più incontri, proprio perché chi si rivolge ai Centri di Ascolto fatica a mettersi a nudo e a raccontare le proprie difficoltà. L’utilizzo da parte dei volontari delle risposte “immediate”, di prima assistenza, come la consegna della borsa alimentare, contribuisce ad attivare un contatto: la consegna settimanale o bisettimanale del bene materiale “obbliga” la persona in condizione di bisogno a recarsi al Centro di Ascolto e consente all’operatore/volontario di incontrarla con regolarità e poter avere dei colloqui che pian piano incrementano la conoscenza e la fiducia. La consegna di beni materiali è quindi importante perché coloro che lo richiedono ne hanno estrema necessità, ma è cruciale anche per quello che si crea oltre il pacco viveri stesso. Il lavoro di conoscenza svolto dai volontari consente di distinguere i bisogni che possono essere gestiti, presi in carico e risolti, da quelli che non sono di competenza o ai quali il Centro di Ascolto non riesce a fare fronte. Questo non significa abbandonare le persone ma sopperire a delle necessità improrogabili e pensare a chi e cosa attivare passata l’emergenza. Gli operatori e i volontari sono consapevoli che la conoscenza che si crea è spesso realisticamente parziale e sarebbe un’illusione pensare di aver scoperto la giusta direzione di lavoro o la soluzione definitiva ai problemi di questa o quella famiglia.

Nelle storie di vita raccolte il lavoro di accompagnamento è il passaggio che segue l’ascolto e la consegna del bene materiale: le persone e le famiglie vengono accompagnate dagli operatori che costruiscono con loro e con la rete di servizi del territorio, un

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percorso di fuoriuscita dalla situazione di bisogno che tenga conto della condizione e delle risorse di tutti gli attori coinvolti.

Ogni storia ha bisogno di essere seguita nella sua specificità ed ogni territorio può mettere in campo alcune risposte e risorse che i soggetti presenti possono garantire. I percorsi di accompagnamento che si creano nei paesi della provincia Lombarda non sono i medesimi che vengono attivati nelle città capoluogo. Le macro-problematiche che le persone e le famiglie vivono sono spesso trasversali in tutta la regione (problemi economici, mancanza di lavoro, problemi di salute, ecc.), ma si sviluppano in maniera differente nei diversi territori e trovano anche soluzioni eterogenee a seconda delle reti di sostegno attivate. Ad esempio le storie di coloro che hanno difficoltà economiche e situazioni debitorie, vengono seguite in modi differenti a seconda delle letture dei bisogni e delle risorse presenti nei territori:

«Nel 2000 moglie e marito perdono il lavoro, per il fallimento dell’azienda nella quale entrambi lavorano. Un operatore Caritas riceve le confidenze della signora che dice di avere problemi economici e le indica il Centro di Ascolto. Durante l’ascolto l’operatore comprende che potrebbe rivolgersi ad un usuraio per onorare gli impegni già presi (mutuo per la casa, rate per i mobili, utenze). Dal fallimento dell’azienda infatti hanno ricevuto una sola liquidazione, nonostante l’interessamento di un avvocato del lavoro. I tre figli, adulti e sposati, non possono aiutarli. La signora trova un secondo impiego, ma il marito lavora solo saltuariamente prima di avere una occupazione stabile. Le entrate non sono sufficienti, i debiti aumentano, viene bloccata l’erogazione del gas. Prendiamo contatto con i creditori, che sono irremovibili ed anzi hanno iniziato azioni di pignoramento. Comprendiamo che buona parte del debito è per interessi e azioni legali. Anticipiamo il saldo per il debito gas, con l’accordo di restituzione a piccole rate. Chiediamo l’intervento della Fondazione S. Bernardino. Otteniamo Carta Equa che viene successivamente rinnovata.»

«La famiglia è composta da 4 persone: padre, che, dopo aver perso il lavoro, stava beneficiando del sussidio di disoccupazione, la madre, che non lavorava, e due figli di circa 10 e 13 anni. Essi si sono rivolti al

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parroco che li ha indirizzati al Centro di Ascolto. Sono stati ascoltati e ne è emerso un bisogno di tipo prevalentemente economico: essi dovevano pagare l’affitto arretrato, le spese mediche e dei finanziamenti. I primi interventi economici sono stati repentini (alcuni giorni): si è attivata la Caritas, che ha consentito l’accesso ad un fondo per il sostegno delle famiglie in difficoltà; si è attivata la parrocchia, che ha messo in campo risorse economiche e di sostegno alimentare. Poi si è proseguito l’accompagnamento».

Questa è la forza dei Centri di Ascolto: riuscire a leggere nella loro specificità i problemi delle persone e delle famiglie che vivono nei propri territori e aiutare le persone stesse ad attivarsi per avere risposte in base alla tipologia di bisogno, alla storia e alle peculiarità di ciascuno. La progettualità, la condivisione nel lavoro di rete con gli altri servizi, l’accompagnamento della famiglie sono le modalità e i passaggi con cui una parte dei Centri di Ascolto sta iniziando a promuovere le capacità di chi è in difficoltà, evitando di ricadere in interventi puramente assistenzialistici che sarebbero controproducenti e non farebbero altro che mantenere la situazione di disagio inalterata. Accompagnare significa ascoltare, orientare, sostenere, consiliare, dare conforto e sostegno psicologico. Le storie di vita raccolte hanno raccontato della vicinanza a malati cronici soli, invalidi, persone con esperienze passate di tossicodipendenza, donne incinte separate, famiglie numerose socialmente isolate e dei tentativi di riattivazione delle reti di solidarietà locale e del capitale sociale di cui sono portatori tali soggetti. I Centri di Ascolto che le hanno raccolte e poi raccontate hanno fatto propria la convinzione che lasciare le famiglie meno sole significa accrescere la loro facoltà di essere risorsa per il ben-stare collettivo.

Ripartiamo dai Poveri! Il breve excursus sui poveri incontrati dai Centri di Ascolto e sul

modo di far fronte alle richieste che prendono voce nell’incontro con le persone, ci porta ancora una volta a vedere la sfida attuale dei Centri di Ascolto che scelgono costantemente di essere luogo di relazione e dove

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la continua preparazione e prontezza nelle risposte viene offerta gratuitamente per dare spazio all’incontro e all’umano condiviso.

«Spesso la povertà non è frutto di circostanze sfortunate, ma è l’esito di un’organizzazione economica e sociale in cui sono ritenuti legittimi lo sfruttamento, la disuguaglianza, la discriminazione. L’amore che si fa solidale non può non farsi anche impegno per la giustizia. Spesso i poveri sono senza voce. Occorre chi dia voce ai loro diritti, alla loro dignità; occorre chi sappia trasformare la denuncia in un progetto di società giusta per tutti. E in questo modo, come hanno scritto i vescovi italiani nel 1981, con gli ultimi e con gli emarginati potremo tutti recuperare un migliore livello di vita» (Perego G., 2009):

«Innanzitutto, bisogna decidere di ripartire dagli "ultimi", che sono il segno drammatico della crisi attuale. Fino a quando non prenderemo atto del dramma di chi ancora chiede il riconoscimento effettivo della propria persona e della propria famiglia, non metteremo le premesse necessarie a un nuovo cambiamento sociale. Gli impegni prioritari sono quelli che riguardano la gente tuttora priva dell’essenziale: la salute, la casa, il lavoro, il salario familiare, l’accesso alla cultura, la partecipazione. Bisogna, inoltre, esaminare seriamente le situazioni degli emarginati, che il nostro sistema di vita ignora e perfino coltiva: dagli anziani agli handicappati, dai tossicodipendenti ai dimessi dalle carceri o dagli ospedali psichiatrici. Perché cresce ancora la folla di "nuovi poveri"? Perché a una emarginazione clamorosa risponde così poco la società attuale? Le situazioni accennate devono entrare nel quadro dei programmi delle amministrazioni civiche, delle forze politiche e sociali che, garantendo spazio alla libera iniziativa e valorizzando i corpi intermedi, coinvolgano la responsabilità dell’intero paese sulle nuove necessità» (Consiglio Permanente Cei , 23 ottobre 1981). Il lavoro di incontro con i poveri parte dalla scelta di avere

costantemente uno sguardo dal basso, cioè di condivisione delle situazioni e dei pesi di ciascuno, prima ancora che di preoccupazione nella risoluzione di questi.

E ciò acquista un valore ancora più alto se questo sguardo assume i tratti di un volto che ascolta, progetta, educa nella relazione.

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«Resta un’esperienza di eccezionale valore l’aver imparato … a guardare i grandi eventi della storia universale dal basso, dalla prospettiva degli esclusi, dei maltrattati, degli impotenti, degli oppressi e dei derisi, in una parola, dei sofferenti … Tutto sta nel non far diventare questa prospettiva dal basso un prender partito per gli eterni insoddisfatti, ma nel rispondere alle esigenze della vita in tutte le sue dimensioni; e nell’accettarla nella prospettiva di una soddisfazione più alta, il cui fondamento sta veramente al di là del basso e dell’alto» (Bonhoeffer D, 1996).

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2. DALLA QUALITÀ DELLA VITA ALLA VITA DI QUALITÀ

Giordano Vidale, Livia Brembilla, Luigi Nalesso

Usando il linguaggio che indica

negli ultimi i destinatari dell’impegno di solidarietà e di aiuto, si può dire che oltre agli ultimi,esistono i penultimi, i quartultimi.

La scala sociale è fatta di molti gradini. … la povertà è l’ultimo gradino di un fenomeno più generale: la disuguaglianza.

Ermanno Gorrieri 18

Il tema della povertà oggi – più di ieri – non può essere affrontato, trattato ed approfondito senza che siano tenuti in considerazione – oltre agli elementi economici – tutti i fattori, le condizioni, le opportunità che fanno parte del contesto della vita dell’individuo, sia personali che sociali. Non è e non può essere solo ed esclusivamente una questione di maggiori o minori capacità economiche a disposizione – elemento che ha caratterizzato nel passato la questione povertà. Oggi devono necessariamente essere considerate anche tutte le altre categorie di risorse:

⇒ Risorse interne della persona che le sono proprie in termini di capacità, competenze, valori, affettività, carattere; risorse psichiche e fisiche, risorse funzionali e strumentali, di esperienze e di conoscenze, professionali ed umane;

⇒ Risorse esterne alla persona ma facenti parte del proprio contesto di vita, sociali e ‘territoriali’; risorse occupazionali, risorse di mobilità e di residenzialità, culturali, formative, storico-temporali.

18 Ermanno Gorrieri, 2002, Parti uguali tra disuguali. Povertà, disuguaglianza e politiche redistributive nell’Italia di oggi, Il Mulino, Bologna.

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La persona quindi oggi vive sempre di più in una dinamica flessibile di osmosi e dialogo tra le risorse proprie di uomo-donna individuo e le risorse esterne di contesto sociale e territoriale.

La società contemporanea quasi quotidianamente – anche nel nostro contesto nazionale – “sforna” statistiche frutto di indagini e approfondimenti che di volta in volta si focalizzano su specifiche situazioni per meglio conoscere la realtà della vita delle persone.

Dobbiamo però ricordare che non deve mai essere dato agli indicatori statistici campionari un valore diverso da quello che di fatto si propongono e devono avere: gli indicatori statistici campionari sono sicuramente indizi sempre utili a comprendere i fenomeni ma possono non fornire risposte univoche e soprattutto non possono essere singolarmente utilizzati per dare interpretazioni definitive. Tale osservazione vale anche per i dati presentati nel primo capitolo: anche con quelle informazioni infatti non possiamo trarre conclusioni e formulare giudizi che siano validi una volta per tutte. Possiamo invece considerarle per meglio comprendere le azioni che da parte dei nostri servizi possono essere avviate per approfondire alcune specifiche questioni oppure per capire meglio le singole situazioni che si presentano.

Contemporaneamente si è fatto strada quello che possiamo definire il “concetto multidimensionale” della povertà e ciò soprattutto nel dibattito e nel confronto scientifico, mentre permangono tuttora filoni di pensiero che portano a realizzare, come già ricordato nel primo capitolo, studi monodimensionali che potremmo definire di “scopo”. Essi sono infatti prodotti approfondendo aspetti che sono strettamente dipendenti dagli obiettivi del soggetto che indaga o che commissiona l’indagine, e comunque tutti prevalentemente centrati sui comportamenti delle persone, generati e/o in rapporto con i fattori e le risorse esterne alle stesse.

Attualmente possiamo anche confrontare due tipologie di povertà che ci vengono proposte da diverse indagini, riprese, tra l’altro, dal Libro

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bianco sul futuro del modello sociale che il Ministro del welfare ha presentato nel maggio scorso:

⇒ la povertà assoluta ⇒ la povertà relativa

Oggi la soglia di povertà assoluta è costruita dall’ISTAT tenendo

conto delle tipologie famigliari, delle ripartizioni geografiche, delle dimensioni del comune di residenza; in realtà quindi non ci troviamo di fronte ad una soglia, ma a tante soglie, quante sono le combinazioni possibili fra i tre criteri. Quindi anche le ricerche istituzionali hanno iniziato a sentire la necessità di ampliare con nuove metodologie l’individuazione della povertà. Quello che ci interessa in particolar modo in questa sede non è tanto entrare nel dibattito sulle diverse opzioni di calcolo e di indicizzazione per l’individuazione di quanti e quali siano “poveri” oggi nel nostro Paese, ma piuttosto l’osservazione che anche nei “luoghi” istituzionali, deputati all’osservazione dei fenomeni sociali, si è ritenuto opportuno e non più trascurabile, considerare la persona non solo per le sue “capacità” economiche ma anche per le condizioni della sua presenza in contesto famigliare e sociale.

La nostra attenzione, orientata dalla mission della Caritas e dei Centri di Ascolto, deve portarci a riflessioni ulteriori, che tengano soprattutto in considerazione paritariamente, se non prioritariamente, le risorse interne proprie della persona-uomo. Ciò che deriva da tale individuazione è soprattutto la prospettiva con la quale ci si vuol porre di fronte al tema della povertà. Infatti, pur riconoscendo che la povertà è un fenomeno e una questione sociale e che come tale deve anche essere affrontata, non vogliamo però dimenticare che la povertà è anche - e per noi soprattutto – una questione individuale della persona.

Anche nella lettura dei dati ISTAT si evidenzia che il problema della povertà nella sua consistenza e nella sua portata non può essere visto solo come fatto esterno, disgiunto dalla persona; molto spesso infatti – ed anche qui si hanno alcune indagini specifiche – si può ipotizzare un problema di povertà quantomeno soggettiva. La povertà

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soggettiva indica, infatti, la percezione degli individui circa l’adeguatezza del proprio reddito individuale o famigliare a condurre una vita considerata dignitosa.

Una delle questioni approfondite nel lavoro di indagine in collaborazione con i Centri di Ascolto, è stata quella della verifica della diversità delle osservazioni e delle azioni di volontari ed operatori in rapporto alla collocazione territoriale. I dati dai quali si è partiti indicavano, infatti, delle differenze sia nelle modalità di accedere ai Centri sia nei bisogni proposti dalle persone. Per effettuare una rilevazione e una rilettura efficace dei risultati, si è suddiviso il territorio regionale in tre macro-aree: - i grandi capoluoghi comprendenti grosso modo le province di Milano, Brescia e Bergamo; - la fascia pedemontana, comprendente le province di Varese, Como, Sondrio, Lecco e le valli del bergamasco e del bresciano; - la fascia della bassa lombarda con le province di Pavia, Lodi, Cremona, Mantova. Nell’ambito di queste tre diverse aggregazioni si sono prodotti due percorsi di approfondimento: - uno realizzato con incontri focus group tra responsabili, operatori e volontari dei Centri di Ascolto; - l’altro realizzato attraverso la raccolta di opinioni ed osservazioni (scheda-questionario “livelli di vita”) di ‘interlocutori sociali’ privilegiati della comunità territoriale (amministratori locali, parroci, associazioni di volontariato non confessionali).

Dalle schede-questionario “livelli di vita” emerge che la variabile beni economici in tutti i territori e per tutti i 3 livelli di osservazione sociale, è considerata prioritaria per il mantenimento di una vita dignitosa, eccetto che per alcune “associazioni di volontariato non confessionale” della bassa Lombardia per le quali la priorità di valutazione viene assegnata agli elementi materiali, con particolare attenzione alla casa. Gli aspetti spirituali e religiosi sono costantemente gli ultimi nella valutazione di importanza per il mantenimento di una vita dignitosa, inferiori anche a quelli di carattere culturale.

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Inoltre i referenti di comunità che hanno risposto, ritengono che il non avere figli sia elemento essenziale per il mantenimento di un livello di vita dignitoso; questa situazione abbinata a quella del vivere in famiglia mette la propria vita al riparo quasi certo da insicurezze e povertà.

Nello stesso tempo le persone anziane vengono indicate come coloro che hanno il maggior tasso di vulnerabilità, mentre la fascia di età 45-64 anni è quella maggiormente protetta e con migliori garanzie.

Da queste osservazioni e dalle indicazioni dei testimoni privilegiati, si evidenzia una tendenza marcata a definire le condizioni di vita dignitosa e sostenibile in base ad immagini fornite dal livello globale, che non derivano invece anche dall’esperienza del livello locale. L’idea che emerge della persona “media” è un’idea generalista, maggiormente o esclusivamente fondata sull’immagine sociale esterna e non su quella personalistica legata principalmente all’individuo con i suoi valori, le sue difficoltà, le sue capacità. Anche per persone impegnate socialmente e con importanti ed esclusive possibilità di osservazione, come quelle che hanno partecipato alla rilevazione, prevale la visione generalista, quella prodotta dalle comunicazioni di massa; si è maggiormente proiettati nella visione del “globale” piuttosto che confermare le proprie osservazioni sul “locale”. Usare le osservazioni che ci propongono i mass-media dà maggiore sicurezza e certezza invece che costruire opinioni con le proprie dirette osservazioni del quotidiano, tanto che molto spesso noi decidiamo di non osservare più! Vediamo i fatti che ci accadono intorno ma, fino a quando non toccano direttamente la nostra vita e il nostro interesse, non li mandiamo nel circuito dell’intelligenza e del pensiero che produce opinioni e non solo fotogrammi!

L’immagine dell’altro e la percezione della sua situazione personale è, in partenza, strettamente e maggiormente legata a ciò che ci è trasferito prevalentemente dai mezzi di informazione e diventa quindi il bagaglio informativo nella questione che la persona ci propone.

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Anche chi ha un impegno personale nello specifico settore, diventa gioco-forza omologato e quindi portatore di una base informativa di tipo “generalista”; solo nel momento in cui la persona si trova di fatto all’interno di una situazione specifica, la percezione – che a quel punto diventa vissuto – cambia, tanto da arrivare ad una sua propria individuazione soggettiva. È solo nell’incontro attento e partecipato che possono mescolarsi la visione generalista con quella locale ed anche l’osservazione oggettiva con le sensazioni soggettive e personali: la comprensione dei fatti, delle situazioni, dei problemi, non può che avvenire in un rapporto diretto tra persona e persona, nell’incontro tra individui che assumono un atteggiamento di rispetto nella reciprocità.

Ed è per questo motivo che la logica con la quale si vuole procedere nell’approfondimento è principalmente una logica che vede affrontare prioritariamente le questioni che riguardano la persona, con le sue risorse, con le sue caratteristiche, con le sue storie e con le sue esperienze.

Qualità della vita? Le indagini monodimensionali di tematiche vaste (come può

essere la povertà), essendo proposte prevalentemente in modo separato, producono l’effetto di indurre nell’individuo una percezione di miglioramento della qualità della vita anche se poi direttamente la specifica persona non ha alcun effettivo riscontro positivo.

In generale oggi si riscontra nel nostro territorio regionale – attraverso vari indici e requisiti – il miglioramento dei servizi sanitari in particolare quelli specialistici (ospedalieri); molte – e tutti noi ne potremmo ricordare di conosciute – sono le persone che di fronte ad un loro problema di salute lamentano una non adeguata risposta. Alcuni di tali riscontri sono sicuramente caratterizzati da una marcata interferenza di valutazione soggettiva (che comunque dovrebbe essere tenuta in considerazione) ma altri sono invece ben sostenuti da dati e osservazioni oggettive condivisibili.

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La logica, quindi, non può che essere quella di rimettere al centro la persona, con tutta la sua forza e la sua debolezza di individuo che ha diritto ad una “vita di qualità”.

Questo passaggio non vuole apparire dialetticamente un giocare con le parole, ma vuole essere invece il focus del nostro ragionamento; nel momento in cui riconosciamo la persona centrale nella sua presenza sociale, riconosciamo il valore della sua vita e quindi vogliamo lavorare e produrre attenzioni e benefici affinché la sua vita possa essere un’esistenza di valore non solo per sé stessa, ma anche per il suo contesto famigliare e sociale. La ricerca di “qualità della vita” porta la persona a cercare prevalentemente tutte quelle soluzioni operative, organizzative e strumentali che tendenzialmente gli possono permettere di vivere meglio o il più adeguatamente possibile; per far ciò l’individuo ha a disposizione:

- la propria esperienza ed i propri valori; - il raffronto con la vita delle altre persone ed i valori sociali propri

della sua cultura; - le informazioni che gli provengono dalla società sia quella locale

sia – oggi sempre più – quella globale.

L’attuale dispersione dei valori umani e sociali sta portando a centrare sempre maggiormente l’attenzione da parte degli individui – soprattutto quelli più fragili – sulle informazioni provenienti dall’esterno e soprattutto a dare alle soluzioni strumentali un riconoscimento valoriale, soppiantando a volte quasi totalmente, la propria esperienza ed i propri valori. La nostra società è di fatto impostata prevalentemente sul consumo dei beni e ciò per sostenere adeguatamente le necessità di mantenimento/incremento della produzione. Altre operazioni invece dovrebbero essere fatte: quelle di stimolare la produzione di beni relazionali, come amicizia e conoscenza, il cui «consumo» - oltretutto – «non diminuisce le scorte esistenti ma le aumenta» (S. Latouche, 2008). Le persone cercando la qualità della vita, di fatto acquisiscono comportamenti, modalità e stili di vita a volte non coerenti con propri bisogni di persona, ma prevalentemente invece in risposta a bisogni di

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riconoscimento sociale e di immagine del sé prodotti dalla cultura sociale dominante.

«… gli italiani hanno problemi che non ci aspettavamo. Ragionavamo prima di famiglie che prendono stipendi netti di 1900 euro al mese e non ce la fanno. E sono convinti del fatto che devono essere aiutati perché non ce la fanno: fa niente se però hanno dei debiti dovuti a finanziarie varie, per cose assurde non necessarie. Prima lavoravano in due, adesso se ha perso il lavoro il capofamiglia peggio ancora, ma è bastato che avesse perso il lavoro solo la moglie che faceva part-time che sono andati in crisi nera …» (Focus group, CdA di Nembro- Bergamo)

È evidente in questi casi che l’equilibrio tra esperienza personale e immagine proposta dai mass media si sia decisamente spostato a favore della seconda e si fondi prevalentemente su processi di impoverimento culturale e valoriale con effetti anche pesanti sull’autonomia economica; questo sbilanciamento ha incidenza particolarmente nelle situazioni di tipo famigliare e con la presenza di minori e produce di fatto importanti effetti di esclusione.

Altre volte l’impoverimento è frutto di carenza di autonomia funzionale e competenza operativa nel momento in cui non è presente un continuativo ed effettivo sostegno economico (sia esso prodotto dal lavoro piuttosto che da altre soluzioni saltuarie o continuative di accompagnamento); anche se apparentemente il risultato può essere lo stesso – impoverimento ed esclusione – le due situazioni, in quanto causate da elementi di partenza differenti, dovranno essere considerate ed accompagnate in modo diverso anche nella modalità di ricerca della condivisione e della responsabilità personale. Soprattutto di fronte ai bisogni di autonomia e di sopravvivenza, la persona deve essere sostenuta ed aiutata a sentirsi maggiormente protagonista e responsabile della propria situazione e delle proprie scelte, per arrivare ad affrontare il proprio presente rimettendo a frutto la propria esperienza ed i propri valori.

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Vita di qualità! L’esperienza di vita è sempre un fatto individuale e personale già

quando essa è positiva, tanto più quando è negativa. L’unica logica con cui affrontare la povertà è quella di considerarla strettamente legata alla persona; la povertà è la condizione in cui si trova la persona-individuo, mentre a volte la società e la comunità sembra vogliano affrontarla come se fosse un oggetto-soggetto indipendente dalla persona. Nel nostro ragionamento vogliamo, nella sostanza, allontanarci dall’effetto massificante delle indagini sulla qualità della vita che producono immagini distorte e mistificanti. Non vogliamo farci trascinare dall’onda ma vogliamo noi “cavalcare” l’onda per arrivare a realizzare meglio il nostro servizio di aiuto alle persone in situazione di difficoltà: rimettere la persona al centro delle attenzioni della nostra Comunità è l’unico modo e il più efficace che abbiamo per farlo. La povertà è costrizione – o a volte scelta - a stare al di sotto delle minime opportunità di vita: quello che è l’autonomia/autosufficienza per la vita funzionale dell’uomo, parallelamente la povertà lo è per la vita sociale.

Anche recentemente si è riflettuto sull’aumento in termini numerici ed in termini percentuali delle persone che nel nostro Paese sono al di sotto della soglia di povertà. La soglia non è solo un insieme di valori collegati alla possibilità economica ma, come già in precedenza indicato, anche di capacità di riconoscere e di opportunità a mantenere relazioni con il contesto sociale del luogo di vita nel proprio tempo. Il cambiamento principale intervenuto nell’ultimo trentennio consiste certamente nella diminuita influenza del reddito nel determinare le condizioni di vita delle persone. Da un lato si è attenuato il legame causale fra carenza di reddito e soddisfacimento di alcuni fondamentali bisogni – salute, istruzione – mentre dall’altro si sono diffuse situazioni di disagio sociale anche in famiglie dotate di reddito superiore alla soglia di povertà. I percorsi di ingresso e gli elementi di mantenimento nella situazione di povertà si sono negli ultimi anni ampiamente differenziati: il tipo “ideale”

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di povero – senza soldi, analfabeta, disoccupato, malato, male o non alloggiato, con problemi famigliari, senza relazioni sociali, volgare, brutto, sporco ecc. – non rappresenta più la maggioranza degli indigenti.

La povertà è diventata una situazione personale che non ha valenza comunitaria; anzi di fatto la povertà è una situazione nettamente in contrasto con la vita comunitaria/sociale, provocata e fondata su elementi di unicità, costruita su significatività sociali. In una linea ideale tra benessere/ben-stare e malessere/mal-stare, la soglia di povertà è la trasversale che collega le risorse interne con le risorse esterne, che si combinano in osmosi ed integrazione nel percorso della vita della persona; risorse che nascono da due diverse categorie di risposte funzionali alla vita:

⇒ autonomia: psichica, fisica ed economica; ⇒ competenza e capacità: al lavoro, alla mobilità, alle relazioni

paritarie.

Ciò porta ad avere una raffigurazione che permette di comprendere anche le prospettive di azione nelle quali condurre il nostro rapporto con la persona che si trova nella condizione di povertà.

BBEENNEESSSSEERREE//BBEENN--SSTTAARREE

COMPETENZE/CAPACITA’ Lavoro Economica Mobilità Fisica Relazioni paritarie Psichica

AUTONOMIA

MMAALLEESSSSEERREE//MMAALL--SSTTAARREE

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L’equilibrio di combinazione nel tempo delle peculiarità

componenti la categoria “autonomia” con le componenti della categoria “competenze/capacità”, permette alla persona di stare in una situazione di benessere nelle diverse fasi delle età della vita. Ogni persona ha nelle diverse fasi della vita percezioni sue proprie, tanto che può succedere che persone con scarsa autonomia economica abbiano sensazioni di ben-stare in quanto ben sostenute da competenze di relazioni paritarie, mentre persone anche in possesso di elevate competenze lavorative e di mobilità, ma con scarsa autonomia psichica, vivano sensazioni di malessere.

Queste diverse situazioni sono ben evidenziate nella pratica quotidiana e hanno trovato riscontro anche nei racconti fatti in occasione dei focus group, realizzati nelle fasi di preparazione del presente rapporto. In tal senso particolarmente significative sono state alcune sottolineature che sono emerse nel momento dell’individuazione delle categorie che attualmente trovano accoglienza nel lavoro di ascolto dei Centri Caritas: una delle tipologie maggiormente presenti era costituita infatti da “famiglie/persone incapaci di gestire la propria vita quotidiana”.

Con i focus group si è indagato quali sono attualmente le categorie di bisogno che in maggior misura accedono ai Centri di Ascolto della Caritas; ciò ha fatto emergere alcuni significativi tratti di omogeneità che, visti singolarmente, possono permettere considerazioni operative da parte di ciascuno dei Centri attivi in Lombardia.

Ciò che abbiamo raccolto ci porta ad affermare che le condizioni che mettono in situazione di criticità-povertà la vita delle persone, tanto da portarle ad accedere ai Centri di Ascolto, oggi sono costituite prevalentemente da:

⇒ avere carichi di responsabilità tutelare ed assistenziale – figli, famigliari non autonomi, ecc.;

⇒ essere famiglia numerosa; ⇒ essere straniero;

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⇒ non avere rete famigliare di supporto; Tali elementi sono tutti correlati con quello di tipo economico prodotto dall’assenza parziale o totale del lavoro o dalla sua instabilità.

Tuttavia la fragilità della persona e la difficoltà economica presente e di prospettiva, non bastano più a spiegare l’impoverimento; le condizioni sociali del territorio, della comunità nella quale si vive, sono oramai altrettanto importanti tanto da delineare marcate differenze nelle situazioni delle persone e delle loro famiglie in diversi territori.

Ciò che abbiamo potuto osservare dalle informazioni raccolte per la predisposizione del rapporto, porta alla constatazione di una certa omogeneità dei bisogni che emergono nelle tre diverse macro-aree territoriali; ma vi sono differenze relativamente apprezzabili sotto l’aspetto sia statistico che di sostanza.

Le reti locali della solidarietà Ciò che, invece, può essere certamente messo in rilievo è quanto

è emerso negli incontri di focus group e che porta ad osservare modalità concrete di dare le risposte da parte dei Centri di Ascolto che hanno peculiarità diverse tra i diversi territori. E le differenze che si constatano sono prevalentemente derivanti da:

- diversità degli attori-soggetti che sono cresciuti nella Comunità locale;

- diversità delle modalità di dare disponibilità ad accompagnare e sostenere i bisogni delle persone;

- diversità delle opportunità messe in campo dalla Comunità locale; - diversità dell’incidenza ‘sociale’ della Comunità Ecclesiale nella

Comunità Locale; - diversità delle esperienze di accompagnamento realizzate dal

Centro di Ascolto.

Il Centro di Ascolto di fatto con la sua presenza più o meno incisiva, è soggetto di promozione e di attivazione della Comunità locale, sia ecclesiale che civile, in una prospettiva di solidarietà.

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Il Centro di Ascolto non ha solo il compito di accogliere il bisogno della persona ma anche di ricercare e riconoscere disponibilità sia personali che di gruppi ed istituzioni, al fine di promuovere e realizzare una rete comunitaria di attenzione alla persona, con prospettive di aiuto e di solidarietà.

Ed è così allora che noi possiamo riconoscere la presenza di “reti di solidarietà” diverse nei vari territori ed avere quindi disponibilità ed offerte differenti a fronte di uguali bisogni accolti dai Centri di Ascolto; e, ad ogni azione di aiuto che viene messa in campo dalla Comunità, in occasione di una richiesta di una persona, si incrementa la capacità di solidarietà di tutta la Comunità.

LE RETI LOCALI DELLA SOLIDARIETÀ Sono la formalizzazione della sostanza solidaristica di una

Comunità – relazioni di aiuto - che si aggrega senza regole precostituite e solo successivamente alla raccolta della richiesta di aiuto di una persona. Quindi le reti locali hanno una duplice specificità: - quella relativa al luogo e al tempo nei quali si costituiscono - quella relativa alla singolarità della persona in situazione di

bisogno e alla esperienza di vita passata ed attuale. In tutto ciò e nella capacità di relazione sta il valore, la significatività,

l’unicità della Comunità ecclesiale all’interno della Comunità locale.

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3. WELFARE E TUTELA SOCIALE Analisi del contesto istituzionale e

degli itinerari di partecipazione al welfare locale a cura del Gruppo Regionale Politiche Sociali

Introduzione Il racconto del fenomeno della povertà in una regione ampia e

complessa come la Lombardia non può prescindere dalla ricostruzione del quadro istituzionale e storico delle politiche che nel corso degli ultimi venti anni sono state attivate per combattere, contenere e governare le forme varie della povertà. Come infatti insegna un’importante tradizione degli studi sulla protezione sociale in Europa (Castel 1995, 2003, Procacci 1998), la povertà, nelle moderne società industriali, non è un fenomeno che si produca naturalmente nella corso della libera dinamica socio-economica. Esso è piuttosto un prodotto complesso dell’interazione tra diversi fattori, ed in particolare tra le forme di sviluppo economico in auge in un certo periodo storico, i modelli familiari vigenti e più in generale degli stili di vita che plasmano le formazioni sociali e le specifiche politiche di trattamento e di regolazione sociale attivate dai vari livelli di governo. Non è possibile capire cioè come si riproducano le forme di povertà se non si pone attenzione a come tutte queste dinamiche si intreccino reciprocamente e a quali effetti esse abbiano le une sulle altre. Occorre altresì aggiungere – anche se non è questa la sede per tracciare i paradigmi di possibili e ulteriori sviluppi – che il mutato scenario socioculturale postmoderno, con la rimozione e la censura di ogni possibile metanarrazione condivisa, cresce le solitudini esistenziali e genera nuove ed inedite fragilità relazionali: le povertà adolescenziali e giovanili sono spesso espressione di gravi deprivazioni esistenziali, che portano le persone a vivere forme trasgressive di marginalità, in assenza – perché orfane – di un qualunque orizzonte di senso. Un tempo senza luoghi, o meglio il tempo dei “non luoghi” (Augé 1993); un tempo ove, dopo la celebrazione della “morte di Dio” (Nietzsche), si annida la stagione della “morte del prossimo” (Zoja 2009). Povertà assolute e povertà relative, soprattutto nella ricca Lombardia intrecciano fragilità esistenziali nuove, sistemiche ed infrasistemiche;

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sono possibili protesi ad una mancata identità le forme di uso, pluriuso, abuso di droghe (vecchie e nuove), di alcol, di fumo, di psicofarmaci, le dipendenze non da sostanze.

Parlare delle nuove traiettorie di sviluppo della povertà dunque,

significa anche guardare, oltre che alla fenomenologia dei bisogni che cambiano, anche a quali siano i modelli di politica di welfare adottati in Italia e in Lombardia e ai modi concreti con cui questi modelli sono stati attuati e interpretati dai diversi attori locali: operatori pubblici, terzo settore, famiglie, utenti. Le modalità con cui storicamente queste politiche di welfare si sono prodotte inoltre, non possono essere viste solo come delle ricette diverse che si sono susseguite l’una all’altra negli anni partendo ogni volta da zero. Le politiche, infatti, nella loro messa in opera lungo gli anni, producono servizi, strutture, posti di lavoro, aspettative di intervento da parte degli utenti. In questo modo esse arrivano a creare degli assetti relativamente stabili di regole, di routine quotidiane, di relazioni tra persone e tra organizzazioni. Questi assetti, una volta stabili nel tempo, non sono velocemente modificabili con una semplice riforma legislativa o una delibera di giunta regionale. Qualsiasi loro cambiamento avviene per lo più in maniera incrementale, tramite processi di apprendimento progressivi. Presentare le politiche per la povertà quindi, significa anche tenere conto di questa loro stratificazione nel tempo e della relativa dipendenza che dalle passate politiche possono avere le successive politiche adottate dai governi e messe in opera dai vari soggetti che ne sono coinvolti.

Oltre ai motivi intrinseci al fenomeno stesso della povertà,

l’interesse per le politiche sociali adottate a livello regionale è diventato negli ultimi anni ancora più rilevante per un motivo riguardante l’attuale fase storica delle politiche. Negli ultimi 15 anni infatti, abbiamo assistito in Italia ad un processo di riforma dei sistemi di welfare sociale e sanitario, e al progressivo spostamento dei poteri legislativi e di governo del comparto sociale e socio-sanitario dallo stato centrale alle regioni e ai comuni. Per quanto riguarda il comparto socio-sanitario, le varie riforme degli anni ’90 hanno modificato, anche in maniera contraddittoria, il profilo dei sistemi sanitari locali, portando ad un forte processo di ristrutturazione organizzativa, nel segno dell’aziendalizzazione e della

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razionalizzazione economica, nel segno del contenimento della spesa. Per quanto riguarda il comparto socio-assistenziale, è stata la legge 328/2000, in maniera più organica, ad aver rappresentato il più ampio scenario di riforma dei servizi e interventi sociali, nel segno dell’integrazione locale e della sussidiarietà verticale e orizzontale, e riconoscendo il ruolo non solo gestionale ma anche progettuale e programmatorio del terzo settore. Per quanto riguarda invece il processo di devoluzione dei poteri a livello locale, è stata la riforma del titolo V della Costituzione del 2001 a sancire, al livello giuridicamente più alto, il passaggio da un governo nazionale ad un governo regionale delle politiche sociali e l’introduzione del principio di sussidiarietà come criterio regolatore dell’intervento pubblico. Sono infatti state rivisitate le competenze legislative (esclusive dello stato, concorrenti tra stato regioni, residuali delle regioni). In questa prospettiva si è strutturata una sorta di welfare a scalare: previdenza (competenza esclusiva dello stato), sanità (competenza concorrente tra stato e regioni); assistenza (competenza residuale delle regioni).

Queste riforme sono in buona misura ancora in corso di

sedimentazione e altre riforme che vanno nella stessa direzione sono oramai prossime. Soprattutto l’orientamento alla regionalizzazione sembra destinato ad accentuarsi ulteriormente con l’imminente passaggio alla fase del cosiddetto federalismo fiscale, già sancita nei mesi scorsi dal parlamento, a larga maggioranza19. È quindi difficile fare una valutazione complessiva dei vari processi di riforma occorsi negli ultimi 10 anni. Quel che però diversi osservatori vedono delinearsi già da alcuni anni (Costa 2009, Bifulco 2005, Mirabile 2005) è l’emergere di una moltiplicazione dei sistemi di welfare all’interno dello stesso territorio nazionale e dunque ad un cambiamento del carattere stesso del welfare, come sistema di protezione sociale universalistico e omogeneo. Un cambiamento che, a giudizio di alcuni sta producendo una preoccupante forma di frammentazione della solidarietà.

19 Ci si riferisce, tra l’altro, alla LEGGE 5 maggio 2009, n. 42 Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione. G. U. n. 103 del 6.5.2009

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Nel momento in cui andiamo a guardare le politiche rivolte alla povertà in Lombardia, ci troviamo dunque di fronte ad un quadro complesso, fatto di interdipendenze con le dinamiche sociali ed economiche, di sistemi di servizio ed intervento stratificati negli anni, e di nuovi poteri regolativi delle autorità locali e soprattutto regionali. Leggere e interpretare questo quadro significa saper discernere le trasformazioni sociali di lungo periodo, ed in larga parte ineluttabili, dai cambiamenti più contingenti e più riconducibili a specifiche scelte politiche e ideologiche adottate dai decisori politici che hanno costruito il sistema di welfare lombardo. La stabilità del governo lombardo degli ultimi 15 anni, inoltre, consente di intravedere con maggiore chiarezza un disegno piuttosto coerente e organico di riforma del sistema di welfare, sui cui esiti sono possibili delle considerazioni sintetiche, in parte già avviate dalla letteratura (Gori 2005, Ranci Ortigosa Loschiavo 2005).

Anche di questo quadro e delle sue considerazioni critiche può servirsi la riflessione delle Caritas lombarde sul fenomeno della povertà e sui modi per rispondervi come comunità cristiana e come comunità civile.

1. Il contesto del welfare lombardo Per poter collocare la politica dei servizi sociali della Lombardia, anche solo dal punto di vista della produzione normativa, occorre riferirsi al quadro più generale della legislazione sanitaria, sociosanitaria e socio assistenziale e ancora prima a quanto è prescritto dalla Carta Costituzionale. La Costituzione infatti riconosce la funzione e l’esercizio della solidarietà, quale dovere inderogabile della Repubblica (art. 2), consolida la dimensione costitutiva ed istitutiva dei diritti sociali (art. 3, comma 2), accanto e in correlazione (con)sequenziale ai diritti civili e politici (art. 3, comma 1), riconosce specificamente il diritto alla tutela della salute (art. 32) e il diritto (o l’interesse legittimo) all’assistenza (art. 38), nel rapporto di una possibile attuazione regionale, sia dal punto di vista legislativo che amministrativo (artt. 117 e 118).

Nella storia del dopoguerra assistiamo a diverse fasi della

delineazioni di questi principi a livello locale. Una prima fase della legislazione (di settore) vede consolidarsi interventi differenziati (per categorie o per problemi) sino all’istituzione delle Regioni a statuto

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ordinario20. Una seconda fase si riferisce ai primi (timidi e restrittivi) trasferimenti di funzioni dallo Stato alle regioni: DPR 4/1972 (sanità), DPR 9/1972 (beneficenza pubblica). Una terza fase vede contestualmente l’approvazione di un legge di riordino del trasferimento (organico) di funzioni dallo stato alle regioni: L. 382/1975 e conseguente DPR 616/1977, che definisce puntualmente l’assistenza sociale e la sua attribuzione ai comuni (artt. 22 e 25) ed insieme l’assistenza sanitaria, con l’individuazione delle unità sanitarie locali e la conseguente integrazione con i servizi socioassistenziali e l’istituzione del servizio sanitario nazionale (L. 833/1978). Una quarta fase vede accentuarsi (con le cd. leggi Bassanini: L. 59/1997; L. 127/1997; L. 191/1998; L. 50/1999) il decentramento amministrativo (ben oltre la L. 382/1975) pur sempre a costituzione invariata (cfr. in particolare il D. Lgsl. 112/1998) e vede approvata la legge quadro sui servizi sociali (L. 328/2000), costruita secondo il paradigma quasi parallelo della terza riforma sanitaria (per il diritto soggettivo, per il livelli essenziali delle prestazioni, per l’integrazione sociosanitaria, per la programmazione a cascata ecc.). L’ultima fase è relativa alla stagione della revisione del titolo V della Costituzione repubblicana, soprattutto con la determinazione delle competenze legislative esclusive dello Stato (tra cui la previdenza; e per il nostro assunto i “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e politici, che devono essere garantiti sul tutto il territorio nazionale” – art. 117, secondo comma m)), delle competenze concorrenti tra Stato (cui spetta solo la definizione dei principi generali) e Regioni (tra cui la sanità) e di tutte le altre (non nominate tra le esclusive e le concorrenti) di residuali competenze regionali (tra cui l’assistenza).

2.1 Le prime due fasi della politica regionale di welfare La Lombardia, nella prima fase della sua costituzione, dà attuazione

in maniera incrementale e alle nuove competenze che le sono state attribuite dai decreti di trasferimento di poteri del 1972 (DPR 4/72 e al DPR 9/72). In particolare in questa fase viene data attenzione agli asili

20 Per un approfondimento del quadro normativo: Scenario sociolegislativo: qualche percorso storico (dei) nei servizi alla persona in Mozzanica C.M., Marginalità e devianza.Itinerari educativi e percorsi legislativi, Monti, Saronno 2002, pp. 41-69

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nido (L.R. 39/1972 e s.m. e i.), agli anziani (L.R. 16/1974 e s.m. e i.), ai soggiorni per minori (L.R. 56/1974), ai movimenti migratori (L.R. 67/1975), ai consultori familiari (L.R. 44/1976), allo scioglimento degli ECA (L.R. 23/1978), al trasferimento delle funzioni sociali ai comuni (L.R. 45/1979), alle vittime del terrorismo e della criminalità (L.R. 8/1980), ai disabili (L.R. 76/1980), alla prevenzione delle tossicodipendenze (Regolamento regionale n. 2/1977).

Per quanto riguarda l’ambito sanitario, è di particolare rilievo la

costituzione dei comitati sanitari di zona, anticipazione delle future Unità sanitarie locali (USL), per la gestione associata (trasformati poi in consorzi sanitari di zona) di funzioni preventive di tutela della salute (L.R. 37/1972 e s.m. e i.). Altri interventi di rilievo programmatorio, prima della riforma sanitaria, sono il piano ospedaliero della Regione Lombardia per il quinquennio 1974-1978 (L.R. 55/1974) e la disciplina dell’assistenza ospedaliera (L.R. 5/1975). Molte altre leggi nel decennio hanno rivisto, finanziato, aggiornato soprattutto il piano ospedaliero. E’ una fase di rodaggio della Regione, che vede emergere un modello di organizzazione dei servizi ancora frammentato e residuale, sebbene appaia già chiaro l’orientamento della Regione ad implementare i servizi alla persona in maniera integrata tra le diverse istituzioni locali.

È però solo nella seconda parte degli anni ‘70 che inizia a costituirsi un vero e proprio sistema universalistico dei servizi socio-assistenziali e socio-sanitari, con l’attuazione del DPR 616/1977, nel quale vengono attribuite ai comuni le competenze dell’assistenza (cfr. artt. 22-25 del DPR 616/77) e soprattutto con l’entrata in vigore della L. 833/1978 che istituisce il Sistema Sanitario Nazionale. I principi fondamentali della riforma del ‘78 ripartiscono le competenze tra Stato, Regioni e Comuni (con il momento attuativo delle USL) e affermano la programmazione come opportunità di attuazione del diritto soggettivo di tutela della salute. A caratterizzare tale modello è inoltre il pagamento della sanità “a pioggia”, sul versante dei fattori produttivi, e l’unitarietà gestionale che garantisce l’integrazione tra ospedale e territorio (l’ospedale è un presidio delle USL) e tra sociale e sanitario (essendo unico il soggetto gestore, il

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Comune21). In questa linea la Regione Lombardia definisce l’ordinamento dei servizi di zona (L.R. 35/1980 e s.m. e i.) individuando circa cento unità sanitarie locale (rectius Unità SocioSanitarie Locali - USSL) e contestualmente regolandone l’organizzazione e il funzionamento (L.R. 39/1980 e s.m. e i.). Nei servizi in cui è articolata l’USSL, il servizio n. 5 viene riferito all’ambito socio-assistenziale (per la gestione associata degli stessi servizi per i comuni) e la gestione dei servizi sanitari e socio-assistenziali può essere affidata anche ai soggetti privati ma solo di tipo non profit. Successivamente viene definita con regolamento regionale, l’individuazione delle materie e delle funzioni di competenza dei servizi dell’unità sociosanitaria (Reg. reg. 2/1981) e vengono infine identificate le norme sulla costituzione e il riparto del fondo sanitario regionale sul bilancio, la contabilità e l’amministrazione del patrimonio in materia di competenza delle unità sociosanitarie locali (USSL) (L.R. 106/1980 e s.m. e i.)22. È utile qui ricordare come il principio della programmazione, anche se non ha portato all’emanazione di un Piano Sanitario Regionale (anche dopo l’approvazione del primo piano sanitario nazionale – DPR 1.3.1994, per il triennio 94-96), ha visto l’approvazione di importanti progetti obiettivo, tra cui : la tutela della salute mentale (reiterato, con significative innovazioni, dal 1967 al 1995 per quattro volte), la tutela della condizione anziana, il progetto obiettivo tossicodipendenza (approvato solo dalla Giunta Regionale e non mai approvato dal Consiglio Regionale) e alcoldipendenza, il progetto obiettivo materno-infantile ed il

21 Anche se può assumere le differenziate forme del: comune associato, singolo, già associato (cfr. comunità montana) e frazione di Comune metropolitano. 22 Si susseguono in questo periodo molte altre norme sulla sanità, in parte attuative della legge quadro, in parte innovative: norme in materia di igiene e sanità pubblica per la tutela della salute nei luoghi di lavoro e del funzionamento dei presidi multizonali di igiene e prevenzione (L.R. 64/1981); norme per la promozione dell’educazione sanitaria motoria e sportiva (L.R. 66/1981); disciplina degli accertamenti e delle certificazioni medico-legali relativi agli stati di invalidità civile, alle condizioni visive e al sordomutismo (L.R.9/1982); provvedimenti per la tutela sociosanitaria dei malati di mente e per la riorganizzazione dei servizi psichiatrici (L.R. 67/1984); norme per la salvaguardia dell’utente e dell’istituzione dell’ufficio di pubblica tutela (L.R. 48/1988); norme di organizzazione, programmazione ed esercizio delle attività in materia di tossicodipendenza (L.R. 51/1988), da cui verrà, successivamente, scorporata la tutela, la cura e la riabilitazione per l’alcoldipendenza (L.R. 62/1990).

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progetto obiettivo handicap (vedi Allegato n. 1 al primo piano socioassistenziale regionale 1988-1990).

A completamento della definizione di questo modello di welfare

lombardo, viene introdotta nel 1986, una legge-quadro di riorganizzazione e programmazione dei servizi socio-assistenziali: la L.R. 1/1986, successivamente modificata con L.R. 25/1990. Si tratta di una legge di grande rilievo istituzionale e di alto profilo promozionale, che ha come asse portante la scelta della famiglia come soggetto dei diversi servizi ed interventi: prevenzione delle difficoltà, sostegno, promozione e aiuto, eventuale sostituzione. Essa struttura i criteri per la definizione dei servizi socio-assistenziali che devono essere gestiti a livello dell’USSL (rectius dei comuni associati per l’USSL, che ne è lo strumento operativo) e quelli che possono essere gestiti dai comuni singoli. Tale raccordo garantisce una strutturale integrazione sociosanitaria, a livello funzionale ed istituzionale (anche con l’applicazione delle normative relative al socio-assistenziale di rilievo sanitario di cui al DPCM 8.8.198523). Segue, per una corretta programmazione e organizzazione dei servizi socio-assistenziali, il primo piano socio-assistenziale regionale24, con il quale vengono definiti i servizi socio-assistenziali di pertinenza esclusiva dell’USSL (malattia mentale, tossicodipendenza e materno infantile), di pertinenza ordinaria dell’USSL (con possibilità di esclusione per i comuni di adeguata dimensione e con possibile deroga consiliare per gli altri: anziani non autosufficienti, disabili gravi, interventi per minori sottoposti a provvedimento dell’autorità giudiziaria minorile, in sede civile e in sede amministrativa), di pertinenza del comune singolo: resta inteso che i comuni che si associano, possono “delegare” l’USSL a gestire propri servizi (come aveva previsto il già citato art. 30 della L. 730/1983). Il piano socio-assistenziale definisce inoltre gli standard strutturali e gestionali per i servizi (pubblici e privati non profit) che svolgono le attività dei servizi e presidi, oggetto della programmazione regionale. Il

23 Attuativo dell’art. 30 della L. 730/1983 (finanziaria 1984). 24 di cui alla Deliberazione del Consiglio Regionale n. IV/871 del 23.12.87 “Piano socioassistenziale per il triennio 1988-1990 in BURL, 1° Supplemento Straordinario al n. 11 del 16.3.1988”. Il Piano sconterà lunghi anni di proroghe e di conseguenti modificazioni ed integrazioni.

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piano individua al proprio interno le procedure per la garanzia dell’appropriatezza delle differenziate unità d’offerta: sono definiti gli standard strutturali e gestionali per l’autorizzazione al funzionamento (di inizio e fine triennio del piano regionale, per le unità d’offerta già esistenti), per consentire agli enti di poter adeguarsi, laddove non lo fossero; è delegata all’accertamento e al rilascio dell’autorizzazione l’Amministrazione Provinciale; gli standard per l’idoneità al convenzionamento (necessario per tutti coloro che gestiscono servizi della e per la programmazione regionale; obbligatoria dunque per l’ente pubblico se gestore: di inizio e di fine triennio per le unità già esistenti); alla fine è definito lo standard programmatorio, per tutte le unità d’offerta, della rete socio-assistenziale e sociosanitaria, che dovrà essere raggiunto “a regime” ed obbligatorio, sin dall’inizio, per le nuove strutture che richiedono autorizzazione e convenzionamento.

Il modello lombardo, in questa fase, può essere definito come un modello di tipo laburista (lab) per la sua caratterizzazione di intervento universalistico a forte valenza programmatoria, di individuazione delle unità d’offerta identificate da precisi requisiti e standard strutturali, gestionali ed organizzativi (per garantire efficienza, efficacia ed appropriatezza di risposte al cittadino), per la strutturale e funzionale integrazione sociosanitaria, con l’attivazione del comitato di coordinamento dei sindaci di ogni USSL, per l’individuazione condivisa delle funzioni socioassistenziali da attribuire al comune singolo o al comune associato (USSL).

2.2 La terza fase della politica regionale di welfare

Il quadro disegnato da questo sistema viene però radicalmente modificato negli anni ’90, sia in seguito a modificazioni legislative nazionali che regionali. Il primo grande cambiamento avviene in seguito all’approvazione della seconda riforma sanitaria nazionale (L. 421/1992 e conseguenti DD. LLgsl. 502/1992 517/1993). Tale riforma apre un vulnus, soprattutto per l’integrazione sociosanitaria, per il fatto dell’individuazione della USSL, non come strumento operativo dei Comuni (in genere associati o già associati o singoli o frazionati per l’area metropolitana) ma di un’azienda pubblica e per la contestuale possibilità di riconoscere, per i presidi a larga complessità, l’aziendalizzazione separata dell’ospedale. Questa riforma innesca dunque un meccanismo di

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separazione tra territorio ed ospedale e tra sanità ed assistenza, anche se con possibili forme di ricomposizione come quella data dallo strumento della delega, a carico, per la spesa, del delegante: cf. art. 3, comma 3 del D.Lgsl. 502/1992)25.

L’altro importante fattore di cambiamento è quello seguito al cambio

di legislatura regionale del 1995, con l’avvento della prima giunta Formigoni: un cambiamento drastico consentito anche dalla novità dell’investitura diretta di cui gode, con la nuova legge elettorale, il presidente della giunta (chiamato da allora anche governatore). L’avvento di questo nuovo governo regionale porta ad una nuova concezione del sistema dei servizi alla persona, riassumibile nei seguenti principi:

1) libertà di scelta dell’utente; 2) libertà del soggetto erogatore anche privato, sia profit che non

profit e conseguente diritto all’accreditamento; 3) separazione tra soggetto acquirente e soggetto erogatore; 4) scelta da parte dell’utente delle prestazioni dal miglior offerente,

anche al di là di una rigida programmazione, ritenuta abbastanza superflua nell’orizzonte di un quasi mercato.

Tali principi, sono stati certamente resi possibili dal nuovo assetto

normativo e organizzativo disegnato dalla seconda riforma sanitaria nazionale. Tale riforma nazionale tuttavia lasciava una grande libertà alle Regioni di attuarla secondo diversi modelli possibili. Il modello assunto dalla Regione dunque, appare come una deliberata scelta culturalmente orientata verso i principi che possono essere qualificati come liberali (lib) di “quasi mercato”, o di “competizione regolata”. Tale modello ha avuto

25 Nella prima fase attuativa, la Regione ridisegna gli ambiti territoriali (si passa da 100 a 44 USSL), con la L.R. 28/1993 e tenta di mantenere la dimensione dell’integrazione sociosanitaria, individuando una serie di competenze socio-assistenziali di “interesse regionale”, che per questa ragione possono essere attribuite all’azienda sanitaria locale (sono, sostanzialmente quelle funzioni che nella precedente legislazione erano state attribuite, gestionalmente, alla USSL, come comune associato). Il passaggio poteva sembrare ai limiti della legittimità: quel progetto di legge regionale di riordino, in attuazione della seconda riforma sanitaria, fu rinviato dal Commissario di governo non relativamente ai profili accennati, ma per problemi concernenti il bilancio e fu lasciato (de)cadere dal Consiglio regionale, anche per l’ormai imminente fine della legislatura.

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attuazione innanzitutto nell’ambito sanitario, che costituisce il maggior settore di impegno per le Regioni e successivamente nell’ambito socio-assistenziale e socio-sanitario.

Per quanto riguarda l’ambito sanitario è stata la L.R. 31/1997, con le

successive, numerose modifiche, a disegnare il nuovo sistema. In tale sistema la Regione ha voluto separare nettamente le funzioni di acquirente dei servizi (le Aziende sanitarie) e quelle di fornitore (Aziende ospedaliere e tutti gli enti erogatori dei servizi accreditati). Un unico Ospedale/Azienda, in linea generale per ogni provincia, comprendente tutti i presidi ospedalieri, anche i più piccoli, i poli specialistici della medicina, la neuropsichiatria infantile e la stessa psichiatria26. In questo modello l’ASL va alla ricerca dell’erogatore più conveniente: per i volumi, per l’appropriatezza della cura, per le tariffe. Con tale legge si è scelto di “concentrare” nell’ospedale azienda tutta (o quasi) l’attività sanitaria (con l’afferenza della psichiatria e della neuropsichiatria); l’ASL, in questo modello, mantiene le funzioni minimali di “erogazione” (prevenzione e medicina di base). Il primo Piano sociosanitario 2002-200427 radicalizza ulteriormente il modello, “esternalizzando” le funzioni dell’ASL (rafforzando le cd. funzioni di Programmazione, Acquisto e Controllo – PAC) e favorendo la trasformazione dell’ospedale azienda in soggetto (privato/pubblico?) quale “fondazione di partecipazione”, con parificazione agli altri soggetti privati accreditati28.

26 Salvo un’iniziale sperimentazione per Lodi, Pavia e Sondrio (conclusa dopo l’approvazione del Piano sociosanitario regionale 2002-2004 con l’attribuzione aziendale anche per i tre poli ospedalieri soggetti alla sperimentazione). 27 Deliberazione Consiglio Regionale 13 marzo 2002 - n. VII/462 “Piano Sociosanitario Regionale 2002-2004” 2° Supplemento straordinario al BURL n. 13 del 28.3.2002 28 Va in questa linea la DGR dell’8.8.2003 – n. 7/14049 “Linee guida regionali per l’adozione del piano di organizzazione e funzionamento aziendale delle aziende sanitarie della Regione Lombardia”, che prevede l’istituzione del dipartimento PAC e l’eventuale, successiva esternalizzazione delle funzioni di erogazione dell’ASL e la DGR del 5.8.2004 – n. 7/18575 “Linee guida per l’attivazione di collaborazioni tra Aziende sanitarie pubbliche e soggetti privati”.

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L’approvazione della terza riforma sanitaria nazionale (L. 419/1998 e D. Lgsl. 229/1999), ha parzialmente mutato il quadro normativo nazionale e indotto dei mutamenti nei sistemi sanitari regionali29. Rispetto al modello lombardo, tale riforma ha riaperto un canale di integrazione tra Comuni e ASL, istituendo le assemblea dei sindaci di distretto, la conferenza dei sindaci (e consiglio di rappresentanza) a livello ASL, la Conferenza regionale per la programmazione sociosanitaria e sanitaria. Nelle ASL lombarde sono quindi stati istituiti i Dipartimenti delle Attività SocioSanitarie Integrate (ASSI), per la gestione dell’integrazione sociosanitaria e dei rapporti con gli enti locali. I mutamenti in questione però non hanno modificato il carattere essenzialmente lib del modello lombardo, che è stato anzi accentuato con la forte spinta sullo strumento dei voucher sociosanitari, ossia di una sorta di buoni forniti al cittadino dalle ASL per acquistare prestazioni presso gli enti erogatori che siano accreditati per servizi socio-sanitari (poi utilizzati dalla Regione Lombardia anche per l’assistenza sociale, per la scuola e per la formazione professionale). Data l’importanza di questo strumento, vediamo più nello specifico le sue caratteristiche.

Il voucher è garantito al cittadino portatore di bisogno (la diagnosi è

del medico di base), indipendente dalla condizione, dall’età e dal reddito, oltre che per il disabile ospite in Comunità Alloggio Sociosanitaria, per pazienti critici o per pazienti di alta complessità. Tale strumento consente al cittadino di comprare servizi sul mercato dei soggetti accreditati dalla Regione, e gli conferiscono quindi una possibilità di scelta, funzionale alle proprie preferenze ed esigenze. Allo stesso tempo però i voucher sono strumenti che presentano alcune elementi di complessità. È stato notato infatti (Bifulco 2005) come tali strumenti configurino un rapporto di tipo contrattuale tra utente e soggetto erogatore, nel quale sull’utente

29 Giova ricordare come la L.R. 31/1997 fosse in contrasto con la terza riforma sanitaria. Si costituì una Commissione mista che concluse i lavori, affermando la necessità di rivedere il quadro normativo (o nazionale o regionale). In effetti fu la L. 405/2001 (legge di conversione, con modificazioni, del D.L. 347/2001) a legittimare l’organizzazione regionale della Lombardia, con particolare riferimento alla possibilità di sperimentazioni gestionali, assunte dalle Regioni e alla libertà delle Regioni di definire le Aziende ospedaliere (soggette a forte limitazione istitutiva da parte del D.Lgsl. 229/1999).

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ricade l’intera responsabilità di individuare quale sia l’offerta migliore e di esigere un trattamento adeguato anche una volta iniziato il rapporto di servizio. Questa responsabilità presuppone una competenza e una capacità contrattuale che spesso è carente, soprattutto nei soggetti deboli che necessitano dei servizi in questione. Inoltre, essi espongono il cittadino al rischio di non vedere garantiti i livelli essenziali di assistenza. Non è chiaro infatti cosa succeda al cittadino bisognoso quando, per esempio, il voucher per l’Assistenza Domiciliare Integrata (soprattutto il profilo per pazienti terminali) non sia sufficiente a remunerare le prestazioni.

Per quanto riguarda l’ambito dei servizi socio-assistenziali e socio-sanitari, la Regione Lombardia ha assunto un orientamento coerente con quello dei servizi sanitari e socio-sanitari, anche se con alcune importanti differenze, derivate anche dal differente quadro normativo nazionale. Nel 2008, infatti la Regione, completando e armonizzando una serie di mutamenti che erano già avvenuti in forma più graduale ma sostanziale negli anni precedenti, ha approvato la L.R. 3/2008 denominata “Governo della rete degli interventi e dei servizi alla persona in ambito sociale e sociosanitario” 30. Tale legge assume particolare valore e significato, nel contesto della riforma del Titolo V della costituzione (L. cost. 3/2001), che riserva, per l’assistenza, una competenza pressoché esclusiva alle regioni, salvo che per i livelli essenziali di assistenza (LIVEAS). Con essa le prescrizioni della L. 328/2000 (in vigore sino all’approvazione di una legge quadro regionale31) sono venute meno.

La riforma del 2008, oltre a mettere a regime una serie di modificazioni avvenute nel corso degli ultimi 15 anni, ha introdotto novità sotto vari aspetti, anche con orientamenti di segno diverso, in seguito alla discussione avvenuta in Consiglio Regionale e con le parti sociali. Vediamone dunque i punti principali.

Anzitutto la legge 3/2008, se da una lato traduce in norme di legge delle regole che precedentemente erano state assunte attraverso solo atti amministrativi, dall’altro introduce un notevole processo di

30 1° Suppl. Ordinario al n. 12 del 17.3.2008. 31 Ai sensi della L. 131/2003.

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delegificazione, ossia di spostamento di importanti momenti relativi alle funzioni attuative e regolative dal Consiglio Regionale, sede pluralista e pubblica del confronto, alla Giunta Regionale, sede del potere esecutivo, come nel caso della definizione delle unità d’offerta sociali e sociosanitarie. In secondo luogo la legge introduce la definizione di ulteriori LEA e LIVEAS ulteriori rispetto a quelli nazionali (anche se poi, a livello attuativo, ne subordina l’introduzione proprio alla definizione di quelli nazionali, inesistenti nel caso dei LIVEAS). In terzo luogo essa abroga l’autorizzazione al funzionamento delle unità d’offerta, lasciando il solo obbligo di comunicazione per quelle sociali e di denuncia d’inizio di attività – DIA - per quelle sociosanitarie, con successivo accreditamento. In quarto luogo la legge istituisce nuove modalità di presa in carico degli utenti, con nuove definizioni di funzioni, come la codificazione di un piano personalizzato degli interventi e nuovi uffici, come il segretariato sociale, pensato come luogo unitario sul territorio di presa in carico degli utenti, l’Ufficio di pubblica tutela (UPT) e l’Ufficio di Relazione con il pubblico (URP). Inoltre la legge introduce nuove forme di collaborazione progettuale tra pubblico e privato, disegnando un rapporto più organico di collaborazione con il terzo settore e definisce in maniera più puntuale i compiti della Regione, della Provincia, del Comune e delle ASL, confermando lo strumento del Piano di Zona come momento programmatorio fondamentale dei servizi locali. Infine la legge promuove percorsi di formazione continua per le professioni sociali e sociosanitarie.

Si tratta dunque di una legge complessa, i cui esiti dipendono in parte

rilevante dal processo di attuazione ancora in corso. Si può dire però che essa, pur introducendo un condivisibile sforzo di promozione del principio di sussidiarietà e di riconoscimento della libera scelta dell’utente, risenta del limite fondamentale di essere costruita attorno all’obiettivo di liberalizzazione e razionalizzazione del sistema dell’offerta dei servizi (peraltro già quasi compiutamente riorganizzata con deliberazioni della Giunta regionale). Ciò significa che nel concepirla (e finora anche nell’attuarla), il legislatore regionale non sembra essere partito tanto dal riconoscimento del diritto dei cittadini a ricevere una risposta efficace e integrata ai loro mutevoli bisogni sociali e socio-sanitari, secondo la logica costituzionale dei livelli essenziali di assistenza,

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quanto dalla volontà di riordinare il sistema delle unità d’offerta secondo una logica di quasi mercato. Anche il principio di sussidiarietà, dichiarato come uno dei cardini della legge, risulta schiacciato sulla dimensione gestionale, mentre risulta più debole la dimensione programmatoria e progettuale. Fatta questa premessa generale, vediamo nel prossimo paragrafo, come la legge 3/2008 si ponga nei confronti delle tema del contrasto alle forme di povertà.

3. Le politiche di lotta alle povertà

3.1 La lotta alle povertà nella legge 3/2008 e nel processo attuativo Un importante principio affermato dalla legge regionale 3/200832

riguardo alle povertà si trova anzitutto nell’art. 1, comma 1, laddove si afferma che “la presente legge, al fine di promuovere condizioni di benessere e inclusione sociale della persona, della famiglia e della comunità e di prevenire, rimuovere o ridurre situazioni di disagio dovute a condizioni economiche, psico-fisiche o sociali disciplina la rete…” e nell’articolo 6, nel quale si stabilisce che“in base agli indirizzi dettati dalla Regione e ai parametri successivamente definiti dai comuni, accedono prioritariamente alla rete delle unità d’offerta sociali le persone in condizioni di povertà o con reddito insufficiente, nonché le persone totalmente o parzialmente incapaci di provvedere a se stesse o esposte a rischio di emarginazione, nonché quelle sottoposte a provvedimenti dell’autorità giudiziaria che rendono necessari interventi assistenziali”.

Tale articolo prevede quindi un’attenzione particolare per l’accesso ai

servizi delle persone con scarso reddito e in generale per le persone a rischio di emarginazione. Inoltre, nel successivo articolo 7, si richiamano i diritti fondamentali delle persone e delle famiglie, tra i quali si segnalano in particolare: scegliere liberamente le unità d’offerta; essere presi in carico in maniera personalizzata e continuativa ed essere coinvolte nella

32 Per un approfondimento della L.R. 3/2008 si rinvia al testo, elaborato dalla Caritas, Delegazione Regione Lombardia: Partecipare agli itinerari del welfare. Legge regionale 3/2008. Sussidio formativo per volontari e operatori sociali e sociosanitari, Milano 2009.

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formulazione dei relativi progetti (lettera f); ricevere una valutazione globale, di norma scritta, del proprio stato di bisogno (lettera g).

Questi articoli costituiscono un importante riconoscimento della

necessità di fornire servizi che tengano conto delle caratteristiche personali delle persone in stato di bisogno. Essi però sono attualmente resi poco efficaci dalla mancata introduzione dei LIVEAS. Attualmente infatti, la loro mancata approvazione a livello nazionale rende difficile l’approvazione, da parte dell’amministrazione lombarda, dei LIVEAS da introdurre a livello regionale. Inoltre nella stessa legge manca l’attribuzione di risorse specifiche alle azioni in favore delle fasce più povere, come invece accadeva nella legge 328/2000, che all’articolo 28 aveva introdotto uno specifico articolo con il compito di definire interventi urgenti per le situazioni di povertà, con specifico finanziamento. Da notare, a questo proposito, anche l’assenza di ogni tipo di ammortizzatore sociale per le situazioni di disoccupazione, come ad esempio il reddito minimo di cittadinanza (o reddito minimo di inserimento), che pure è stato sperimentato in altre regioni italiane, nonché presente stabilmente in quasi tutti i sistemi di welfare europei. Tale misura appare oramai uno degli strumenti fondamentali per i welfare europei, come misura non solo per le persone che hanno perso il lavoro, ma più in generale per sostenere tutte le persone che per diversi motivi in un certo periodo della loro vita si trovano in situazione di svantaggio e non riescono ad accedere autonomamente al lavoro. Si tratta cioè di una misura generale di inserimento sociale volta a evitare l’ingresso in quelli che la letteratura chiama gabbie della povertà, ossia circoli viziosi in cui la carenza di reddito, la mancanza di lavoro dignitoso e le condizioni di scarsa occupabilità si alimentano a vicenda, finendo per rendere sempre più difficile l’uscita dalla condizione di esclusione sociale.

Da questi elementi di principio, la legge regionale 3/2008 emerge

come una norma che, più che fornire strumenti diretti di lotta alla povertà, dispone un quadro regolativo complessivo all’interno del quale istituzioni e attori locali possono collocare, se lo ritengono e con risorse proprie, delle misure specifiche di contrasto alla povertà. Come in tutte le leggi quadro inoltre, anche nel caso di questa legge, l’effettiva capacità di azione della norma dipende in gran parte dal momento attuativo. Da

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questo punto di vista, la capacità della legge di prendere in carico le persone in situazione di bisogno, di introdurre servizi innovativi, così come di integrarsi con altri strumenti e altre risorse, dipende dalla possibilità che i vari livelli istituzionali chiamati in causa (Regione, Comuni e Provincie) sappiano effettivamente attivare gli strumenti introdotti, confermati o permessi dalla legge. Questa dipendenza dal processo applicativo è tanto più vero nel caso della legge 3, in quanto essa in molti articoli menziona il ruolo dei territori e dei soggetti che vi operano. Essa insiste molto, in particolare, sul coinvolgimento del Terzo settore nelle fasi di programmazione, pianificazione e attuazione delle politiche sociali di territorio. Oltre la metà degli articoli ha riferimenti espliciti nei confronti delle diverse espressioni dei vari soggetti menzionati all’articolo 3 comma 1 della legge33, con rapporto a volte di consultazione, di collaborazione, di partecipazione, di adesione, sottoscrizione, valorizzazione e/o realizzazione34. Proprio il livello locale è, infatti, quello nel quale appare più opportuno convogliare gli sforzi e richiamare le sinergie per combattere i fenomeni della povertà e della grave marginalità. La multiformità del bisogno e la carenza di relazioni tende infatti a connotare tali fenomeni e proprio questo rende particolarmente utile agire su questi problemi a partire dalle risorse materiali, di conoscenza e relazionali che le formazioni sociali che abitano il territorio possono portare. Da questo punto di vista, possiamo dire che il processo attuativo abbia finora faticato e tardato a implementare le innovazioni che la legge stessa conteneva, in particolare dal punto di vista dell’attivazione del segretariato sociale e del coinvolgimento dei gruppi della società civile nel momento programmatorio e progettuale locale. Due esempi di questa scarsa attenzione: nella distribuzione dei fondi per le politiche sociali sono mancati completamenti di criteri di premialità che sostengano i distretti che dimostrano buoni risultati in termini di coinvolgimento e di

33 Si tratta (1) degli enti pubblici (Comuni, province, ASL ecc); (2) delle persone fisiche, delle famiglie e dei gruppi informali di aiuto e solidarietà; (3) dei soggetti del terzo settore, delle organizzazioni sindacali e degli altri soggetti di diritto privato; (4) degli enti riconosciuti delle confessioni religiose, con le quali lo Stato ha stipulato patti, accordi o intese. 34 In 14 articoli la L.R. 3/2008 evoca il rapporto con il terzo settore, utilizzando 10 termini differenziati, per qualificare il rapporto stesso.

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innovazione; nella carenza di coinvolgimento del tavolo regionale del terzo settore nella fase di attuazione della legge regionale 3/2008.

Il percorso attuativo della legge ha dunque mostrato finora alcuni

importanti limiti. Tuttavia, meritano di essere notate alcune misure attuative che hanno ripreso il discorso della lotta alla povertà in maniera specifica. Per esempio le linee guida per la costruzione dei nuovi Piani di Zona nel triennio 2009 – 2011. Esse cercano, infatti, di recuperare la dimensione della povertà ed emarginazione ed in particolare riconfermano l’area della povertà ed emarginazione come una di quelle aree attorno alle quali costruire la programmazione.

In tema di inclusione sociale, si dice, con formula forse un po’

vaga, che i Piani di zona dovranno “assicurare una regia in grado di uniformare le azioni rivolte a specifiche fasce di utenza con quelle previste per tutte le categorie di cittadini che hanno problemi di reinserimento, contrastando tanto il fenomeno della recidiva quanto l’insorgere di tensioni nel contesto sociale, nella logica delle pari opportunità e nel rispetto della programmazione locale”. Le linee guida però contengono anche altri riferimenti importanti, come la possibilità di ampliare il fondo di solidarietà anche a favore di situazione di emarginazione e povertà, il considerare la famiglia come riferimento trasversale per l’attuazione dei nuovi Piani di Zona e il promuovere lo stretto raccordo con i Piani integrati locali di salute.

A fronte di questi segnali ancora deboli di attenzione alla

questione del contrasto alle forme di povertà, è utile segnalare, in sede di attuazione della legge, alcuni punti su cui appare auspicabile un impegno delle istituzioni locali. In generale, si può richiamare la necessità di mettere in campo non più forme di intervento provvisorie, come appare spesso nell’assetto attuale, bensì percorsi che sappiano incidere nel medio-lungo periodo. In secondo luogo, vi è la necessità di adottare non più interventi settoriali ma risposte di sistema che agiscano in maniera integrata sui vari fronti del problema, ossia il sostegno economico, abitativo, lavorativo e sociale. È poi opportuno promuovere studi e ricerche che, da un punto di vista quantitativo e qualitativo, monitorino la mutevole fenomenologia del fenomeno della vulnerabilità. Infine, si

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auspica il sostegno alla sperimentazione di nuove modalità di intervento, arrivando poi a mettere a regime le sperimentazioni risultate valide.

Oltre al quadro regolativo generale sulle politiche sociali e alla sua applicazione, è utile presentare anche, tra le politiche che mirano a combattere la povertà, due filoni che sono stati particolarmente presenti nel contesto lombardo degli ultimi anni: le misure di contrasto agli effetti della crisi economica mondiale che ha toccato anche la Lombardia, e le politiche di coesione sociale.

3.2 Le misure anticrisi Come oramai ampiamente noto, la crisi economico-finanziaria

partita dagli Stati Uniti nel 2007/2008 ha attraversato in maniera drammatica tutte le economie occidentali. Pur partendo dal sistema finanziario, essa si è ripercossa velocemente sull’intero sistema produttivo, provocando notevoli conseguenze in termini di aumento della disoccupazione. Di fronte alla crisi, i governi nazionali e locali europei si sono adoperati con soluzioni che riparassero dal rischio di povertà almeno le persone e le famiglie colpite dalle situazioni più drammatiche che si sono prodotte negli ultimi mesi. Anche in Italia e in Lombardia, sono stati prodotti alcuni provvedimenti urgenti per prevenire gli effetti della crisi in termini di impoverimento delle fasce di popolazione ad essa più esposte. Le misure prese finora vanno soprattutto incontro alla necessità di sostenere economicamente le famiglie con redditi più bassi e quelle più numerose nell’accesso ad alcuni beni primari: alimenti, mutui, affitti. Si tratta quindi di trasferimenti economici in forma di bonus fiscali, sconti sulle tariffe o di contributi diretti. Tra le misure principali adottate dagli enti pubblici possiamo ricordare: la Legge 2/2009 (Bonus fiscale per famiglie a basso reddito, Tariffa sociale energia, Tetto ai mutui variabili, Fondo per il credito dei nuovi nati), il Buono Famiglia per nuclei familiari numerosi della Regione Lombardia; il Piano Alziamo la Testa della Provincia di Milano (sostegno per l’abitare, per le fasi cruciali della vita, per gli anziani a seguito di eventi malavitosi, per i gruppi di acquisto familiare) e l’aumento di trasferimenti ordinari alle famiglie deciso da diversi comuni.

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Accanto alle misure anticrisi assunte dagli enti pubblici, vanno però menzionate anche le iniziative assunte dal mondo ecclesiale. Esse, infatti, oltre ad avere effettivamente contribuito ad alleviare situazioni di disagio causate dalla crisi, hanno anche svolto un ruolo di stimolo alle stesse istituzioni pubbliche nell’attivare misure di sostegno alle famiglie in difficoltà. Anche da parte delle Diocesi, infatti, vi è stata la consapevolezza della necessità di non trovarsi impreparati di fronte al bisogno di offrire risposte organizzate alla crisi. Ciò ha significato in molti casi attivare reti di solidarietà diffuse che fossero insieme capillari sul territorio ed in connessione con le realtà ecclesiali già attive su questi fronti e supportate dai livelli diocesani delle Caritas. Concretamente, le misure attivate dalle Diocesi lombarde sono state diverse. Una delle principali è stata l’istituzioni di fondi speciali per il sostegno ai nuclei familiari nei quali sia venuto meno un reddito da lavoro. Il più noto esempio è quello del Fondo Famiglia Lavoro, istituito dall’Arcivescovo di Milano, Cardinal Tettamanzi, con uno stanziamento di un milione di euro, che ha raggiunto i 5 milioni di euro nell’estate del 2009, con contributi provenienti da varie fonti, e che viene erogato con criteri e meccanismi che vedono una sinergia continua tra livello parrocchiale, decanale e diocesano. Altre diocesi si sono orientate verso progetti di microcredito e il potenziamento delle iniziative ordinarie di sostegno alle famiglie povere. In altri casi, come a Pavia, si è attivata una sinergia più diretta con le istituzioni locali, nelle loro iniziative di sostegno alle famiglie in difficoltà per via della crisi.

Per far fronte a questo delicata fase economica, anche la Conferenza Episcopale ha istituito un fondo, nazionale e straordinario, di garanzia orientato alle necessità delle famiglie, lanciando una Colletta Nazionale il 31 maggio 2009 in tutte le diocesi e le parrocchie. Si tratta di un fondo destinato a supportare con un prestito le famiglie più numerose e monoreddito che, improvvisamente si sono viste private dell’unica fonte di sostentamento. Il fondo è attivo a partire dal 1° settembre 2009. Le parrocchie indicano i possibili destinatari del prestito alla Caritas diocesana o ai patronati cattolici, che attestano l’effettiva presenza dei requisiti richiesti secondo i criteri definiti a livello nazionale, e segnalano la banca a cui rivolgersi. La banca avvia in tempi molto brevi l’iter per concedere il prestito, che sarà erogato mensilmente. La modalità di

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intervento prevede che a ciascuna famiglia sarà erogato un contributo massimo di € 500 mensili per un anno, per un totale di € 6.000. Il contributo potrà essere prorogato per un secondo anno e per lo stesso importo, se permangono le condizioni di necessità iniziali. Se viene meno lo stato di necessità, l’erogazione viene sospesa. La restituzione del prestito alla banca inizierà nel momento in cui la famiglia disporrà nuovamente di un reddito certo, e comunque non prima di uno o due anni, e avrà la durata massima di cinque anni.

Una prima considerazione che si può generalmente fare in generale ma soprattutto sulle misure istituite dagli enti pubblici, è che queste intervengono nell’alleviare solo un sintomo della crisi, ossia la difficoltà nell’accesso ad alcuni beni. Ciò è comprensibile soprattutto per gli enti locali come Comuni e Provincie, i quali non dispongono di molte leve alternative a questa. Inoltre si tratta di misure più facilmente attivabili e riconoscibili direttamente dai cittadini, soprattutto in un periodo nel quale il problema del caro vita è presente già da circa 7-8 anni nel nostro paese. Ma bisogna anche osservare che proprio perché tali misure agiscono solo sui sintomi della crisi, esse non aggrediscono nessun meccanismo strutturale di riproduzione della povertà. Esse in particolare non intervengono sul vero problema sociale generato dalla crisi e cioè l’aumento della disoccupazione, ossia di un fenomeno di fronte al quale le presenti misure sono dei meri palliativi. Esse sono quindi misure tampone, che però possono avere una utilità per le famiglie che ne beneficiano. L’effettivo ammontare dei benefici per ogni famiglia è però in molti casi troppo molto limitato (anche perché i benefici non sono cumulabili tra di loro) per incidere significativamente sul bilancio familiare. Inoltre, si può rilevare una scarsa organicità tra le diverse misure, cioè una frammentazione di contributi simili tra le diverse amministrazioni che non facilitano la semplicità e l’efficacia delle stesse.

Si rileva poi una criticità importante nel tipo di criteri utilizzati per

accedere ad alcune misure. Nel caso della Social Card, ad esempio, tali criteri da una parte sono spesso molto complessi, rendendo difficile capire agli utenti chi davvero vi può accedere, dall’altro essi possono essere ciechi di fronte alle numerose situazioni nelle quali degli utenti, pur essendo effettivamente bisognosi, non posseggono alcuni requisiti

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formali. Ciò suggerisce l’opportunità, come indicato anche da altre recenti riflessioni sul tema (Caritas Italiana e Fondazione Zancan 2008), di utilizzare non solo criteri amministrativi per l’accesso a questi benefici, ma lasciare anche uno spazio alle competenze professionali e relazionali degli operatori, pur con standard oggettivi e trasparenti.

La natura di tali misure, in ogni caso, è inevitabilmente temporanea e non sembra in grado di incidere in maniera sistematica sul processo di impoverimento delle famiglie toccate dalla crisi. Appare quindi opportuno, di fronte al problema drammatico della disoccupazione creato dalla crisi, pensare anche a misure strutturali sul nostro sistema di welfare. Possiamo qui soffermarci su due obiettivi di riforma del nostro sistema di welfare, tra loro complementari:

1. Costruire un vero sistema di ammortizzatori sociali che consenta a chi

perde il lavoro di non cadere sotto la soglia della povertà ed entrare nel circolo vizioso dell’indigenza. Tale sistema dovrebbe essere ispirato al principio dell’universalismo selettivo, ossia servire tutti coloro che si trovano in una condizione di bisogno, privilegiando i più fragili. Oggi invece l’unico ammortizzatore sociale presente in Italia è la cassa integrazione, ossia uno strumento che dipende da un negoziato politico-sindacale che protegge i lavoratori a tempo indeterminato. Esso lascia scoperti tutti i lavoratori precari, i quali costituiscono una fetta molto ampia dei lavoratori italiani. Si produce così quello che alcuni studiosi chiamano “effetto Matteo”, cioè il principio enunciato dall’evangelista Matteo secondo cui “A chi ha sarà dato e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”.

2. Promuovere un deciso e cospicuo investimento in servizi sociali per le famiglie, in particolare per quelle che hanno particolari oneri di cura (di anziani, di minori o di disabili): asili nido, assistenza domiciliare, servizi diurni e residenziali, ecc. La carenza di questi servizi è uno dei grandi limiti del sistema di welfare italiano, che da sempre è caratterizzato in larghissima parte da trasferimenti economici alle famiglie e in minima parte da servizi socio-assistenziali (Caritas Italiana Zancan 2008). Investire sull’offerta di servizi per le famiglie avrebbe due effetti positivi:

a. In primo luogo, l’accesso su larga scala a questi servizi permetterebbe a molte famiglie con figli di non dover far

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rinunciare al lavoro uno dei due genitori (e cioè la donna nella quasi totalità dei casi) e così poter beneficiare di due redditi da lavoro invece che di uno solo. Come infatti riporta sempre il rapporto sulle povertà di Caritas Italiana, sono soprattutto le famiglie numerose a dover rinunciare al lavoro di entrambi i coniugi e quindi a finire più spesso sotto la soglia di povertà. Ciò, se da un lato permette di risparmiare i costi di cura, ha in realtà dei costi molto più alti per le famiglie, in quanto le priva di un reddito da lavoro, oltre che rendere difficile il reinserimento delle donne dal mercato del lavoro, una volta che le esigenze di cura familiare vengano meno.

b. In secondo luogo questo investimento in servizi sociali permetterebbe di occupare in tali servizi proprio molte delle persone, soprattutto donne, che attualmente non lavorano o hanno perso il lavoro. È quanto accade in altri paesi europei, anche non lontani dal nostro (come Francia e Germania) dove effettivamente i tassi di occupazione femminile sono più alti e soprattutto vi sono tassi di natalità più alti. Ciò consentirebbe a molte famiglie di disporre di due redditi da lavoro e di non produrre disoccupazione di lungo periodo nelle donne-madri.

La maggior offerta di servizi sociali per le famiglie avrebbe senz’altro un costo elevato, ma si tratterebbe in realtà non di un costo ma di un investimento. Possiamo chiamarlo investimento proprio perché, come dimostrato da alcuni importanti studi (Esping Andersen 2000, Saraceno 2003), produce in realtà, nel medio periodo, un beneficio economico per le casse pubbliche, in quanto, con l’aumento dei tassi di occupazione, aumenta anche il gettito fiscale.

3.3 Le politiche di coesione sociale La seconda traiettoria che si sta delineando negli ultimi anni come

possibile forma di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale è quella che fa riferimento ai programmi di coesione sociale (Ranci Torri, 2007). Si tratta di un filone di interventi, più o meno sistematici, che mirano ad intervenire non tanto su singole fasce di popolazione svantaggiata, quanto su aree urbane o rurali relativamente circoscritte e che presentano

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livelli medi o alti di densità di popolazione a rischio di esclusione sociale: anziani non autosufficienti, famiglie a basso reddito e scarse opportunità di integrazione (sia italiane che straniere), persone con problemi di salute mentale, ecc. L’idea che sta alla base di questi interventi è che le situazioni di marginalità e di esclusione possano essere combattute non solo dotando i singoli di sussidi o servizi specifici, ma anche dotando i luoghi di vita degli abitanti di un territorio di spazi e servizi che facilitino innanzitutto la relazione tra persone, tra gruppi, tra gli stessi servizi e contribuiscano così a generare quel capitale sociale che viene riconosciuto come una risorsa primaria per evitare le derive di esclusione sociale. Presupposto di questa forma di intervento è dunque l’idea che la povertà e l’esclusione sociale abbiano una fondamentale dimensione relazionale e che il lavorare sulla promozione di relazioni, dunque sulla coesione sociale, significhi rafforzare le persone maggiormente vulnerabili (Negri 2006), nel far fronte ai fattori che generano le spirali di povertà, come la mancanza del posto di lavoro per giovani e persone di mezza età, la perdita dell’autosufficienza fisica per gli anziani, l’eccessivo carico di cura domestica per le donne.

Legata a questa centralità della dimensione di coesione sociale dei

territori, vi è l’idea che essa possa essere non solo una fonte di sostegno in sé per le persone, ma possa anche funzionare da moltiplicatore di ulteriori forme di sostegno reciproco, nella misura in cui facilita il generarsi di forme di mutualismo, ossia di messa in valore comune delle risorse materiali e umane che le persone possono mettere reciprocamente in campo, una volta che sia instaurata tra esse una relazioni di fiducia. In termini pratici, questo può concretizzarsi nella scelta di costituire gruppi di acquisto familiare, di costituire nidi e servizi per le famiglie a gestione condominiale, di creare esperienza di co-housing, di aumentare le forme di scambio, come le banche del tempo, ecc. Il tema del mutualismo è d’altra parte un tema che fa parte del patrimonio storico della tradizione cooperativistica e anche per questo intreccio con il tema della coesione sociale viene riscoperto negli ultimi anni come una nuova frontiera di azione per molte attività dell’associazionismo e del terzo settore (Guadagnucci 2007, Biolghini 2008).

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Su questa idea di coesione sociale si stanno dunque moltiplicando, negli ultimi anni, i progetti territoriali, provenienti da fonti diverse. Una gran parte di essi è stata spinta dai programmi di sviluppo locale e di riqualificazione urbana promossi dell’Unione Europea e implementati poi dalle istituzioni locali e in particolare da quelle regionali. Ne sono un esempio, per il caso lombardo i bandi di coesione sociale sviluppati negli anni 2006-2008 (Luppi 2009) e in certa misura anche i contratti di quartiere attivati nel corso degli anni 2000 (Vicari 2005). Altre volte però, questi progetti sono generati dall’iniziativa non di istituzioni locali, bensì di enti non profit, come è il caso delle Fondazioni bancarie o dei Centri di Servizio al Volontariato. Risulta a questo proposito interessante l’esperienza in corso in Lombardia di un bando di coesione sociale promosso dalla Fondazione Cariplo e che sta generando diversi laboratori di progettazione di iniziative che lavorano su questo tema in diversi territori della regione.

È forse presto per dare una valutazione dell’effettivo impatto di

questi progetti sulla popolazione. Si può però rilevare come essi abbiano effettivamente dimostrato di saper attivare un coinvolgimento congiunto di molti soggetti delle istituzioni locali e della società civile locale, e che rappresentino una frontiera di lavoro promettente per il futuro. Stanno tuttavia emergendo anche degli elementi di criticità in tali progetti. Vi è innanzitutto un problema generale che emerge in questi programmi (Alietti 2009) e cioè il rischio che l’attenzione sulla dimensione locali e sulla dimensione del consenso faccia perdere di vista le questioni che stanno all’origine dei processi di impoverimento, ossia le cause di fondo che attengono ad un livello almeno sovra locale e che sono prodotte da un conflitto tra interessi. Si tratta di una critica che però si riferisce più alla mancanza di altre misure più di fondo che non ai limiti dimostrati in sé dai programmi di coesione sociale. Tra i principali elementi critiche che invece vengono segnalati sul merito di tali programmi vi è ad esempio la gestione spesso difficile delle partnership molto complesse e a cui molti soggetti sembrano a volte aderire per la possibile distribuzione di finanziamenti per i propri singoli progetti, più che per la costruzione di nuovi interventi comuni. Più difficile, inoltre, appare il coinvolgimento del volontariato e della cittadinanza pura a questi progetti, spesso ideati e gestiti su misura delle organizzazioni più professionali. Infine, un tema di

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fondo su cui l’attenzione sta iniziando ad emergere riguardo ai progetti di coesione sociale (Ranci Torri 2007), è quello relativo all’intreccio con il tema dello sviluppo economico locale, il quale appare spesso troppo avulso da tali progetti, con il rischio di non rendere possibile una sostenibilità nel tempo di tali progetti e un loro aggancio sistematico con il tema fondamentale del radicamento territoriale dell’impresa e del lavoro.

4. La Caritas nel contesto attuale L’insieme delle politiche qui presentate disegna uno scenario nuovo

del welfare regionale, figlio dei mutamenti del quadro socio-economico della nostra regione, delle trasformazioni culturali e demografiche avvenute con negli ultimi 20 anni e del ciclo di politiche che sono state attivate dalle amministrazioni regionali e locali tra gli anni ’90 e oggi. Di fronte ad un tale scenario le istituzioni pubbliche locali passano dall’essere decisori e gestori unici o dominanti dei servizi pubblici alla persona all’essere principalmente finanziatori e regolatori della governance di un sistema multilivello, nel quale gioca una pluralità di attori del non profit, del profit e del pubblico stesso. Le diverse espressioni della società civile sono chiamate anch’esse a ricoprire un nuovo ruolo, nell’ottica della sussidiarietà orizzontale. Tale nuovo ruolo ha certamente una rilevante componente gestionale ma ha anche una fondamentale dimensione di riflessione e di ideazione che sta alla base dell’attività di elaborazione delle politiche stesse. Un ruolo che può essere declinato sia in termini di advocacy e promozione dei diritti di cittadinanza delle persone, sia in termini progettuali e programmatori.

Tra i soggetti della società civile chiamati a svolgere questi nuovi ruoli la Caritas ha senz’altro una parte di grande rilievo, sia per la sua presenza capillare sul territorio, diocesana e parrocchiale, sia per il mandato che il suo stesso statuto le chiede. Per un approfondimento sulle vie di azione ed intervento a cui le Caritas sono chiamate si rimanda al capitolo successivo: “Prospettive”.

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4. PROSPETTIVE

IL RUOLO DELLE CARITAS NEL NUOVO CONTESTO DEL WELFARE LOMBARDO

Marco Zucchelli e Luigi Nalesso «La vostra azione non può esaurire i suoi compiti nella pura

distribuzione di aiuto ai fratelli bisognosi […]. Al di sopra di questo aspetto puramente materiale dello vostra attività emerge la sua prevalente funzione pedagogica, il suo aspetto spirituale, che non si misura con cifre e bilanci, ma con la capacità che essa ha di sensibilizzare le chiese locali e i singoli fedeli al senso e al dovere della carità, in forme consone ai bisogni e ai tempi. Mettere a disposizione dei fratelli le proprie energie e i propri mezzi non può essere solo il frutto di uno slancio emotivo e contingente, ma deve essere la conseguenza logica di una crescita nella comprensione della carità, che, se è sincera, scende necessariamente a gesti concreti di comunione con chi è in stato di bisogni» (Paolo VI, settembre 1972).

La Caritas nasce con il principale obiettivo di far crescere l’habitus della carità nelle singole persone come pure nelle comunità nel loro insieme. Si capisce fin da subito che la logica della Caritas non è quella di produrre e gestire molti servizi. I servizi sono da promuovere, e sostenere, poiché “la vera carità scende per sua natura a gesti concreti, a risposte precise alle diverse domande di aiuto.” Ma i servizi e le opere promosse dalla Caritas sono pensati come espressione della comunità cristiana, e non delegati agli “addetti ai lavori”.

La scelta pedagogica della Caritas parte da fatti concreti e approda ad altri fatti. I fatti da cui parte sono le situazioni presenti sui territori: anziani non autosufficienti, immigrati non integrati, malati che richiedono assistenza, famiglie senza lavoro e senza reddito, ecc. I fatti a cui approda sono costruiti in una duplice direzione: l’azione culturale che ha l’obiettivo di aiutare a scoprire le povertà e le sofferenze del territorio, nella loro diffusione e nelle loro cause, e a maturare il compito e il dovere di intervenire; l’azione organizzativa per rispondere alle domande di aiuto, che prevede forme di accoglienza, di accompagnamento, di

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coinvolgimento di altri enti, di coordinamento delle realtà ecclesiali. In questo modo la Caritas aiuta innanzitutto le comunità cristiane a essere stimolo per la comunità civile nel presentare il bisogno, nel pensare il servizio, nel valutarlo nella sua funzionalità e significatività (Perego G., 2009, p. 258).

La Caritas, infatti, ha tra i suoi principali compiti il coordinamento delle iniziative e delle opere caritative assistenziali di ispirazione cristiana, la promozione del volontariato, la formazione degli operatori pastorali della carità e del personale di ispirazione cristiana impegnato nei servizi pubblici e privati. È dovere della Caritas “promuovere la testimonianza della carità della comunità ecclesiale italiana, in forme consone ai tempi e ai bisogni, in vista dello sviluppo integrale dell’uomo, della giustizia sociale e della pace, con particolare attenzione agli ultimi e con prevalente funzione pedagogica”. Tale ruolo pastorale impegna la Caritas ad essere presente in quei luoghi e in quei momenti dove si discutono i diritti delle persone, si programmano le risposte ai bisogni, si tutelano i diritti di cittadinanza e la loro esigibilità. Lo “stare” nei territori, il radicarsi in essi, essere realmente luoghi della comunità, essere costruttori e sperimentatori di reti e legami significa rendere reale ed efficace il principio di solidarietà, che nasce dalla conoscenza del bisogno, dall’analisi delle richieste di aiuto, di cura, di prevenzione, dalla scelta di dar loro evidenza, insieme alla ricerca e al riconoscimento delle risorse e delle potenzialità che lo stesso territorio e le singole persone possono offrire. Solidarietà significa allora anche assumersi la responsabilità dell’advocacy delle voci più deboli, riportandole dignitosamente al pari delle altre, finalizzata anche alla partecipazione attiva, in modi e tempi adeguati, della programmazione regionale.

Uno dei “luoghi” privilegiati per una presenza sociale significativa sono quelli per la costruzione e attuazione dei Piani di Zona. La nuova legge regionale riconferma il ruolo dei Piani di Zona nella formazione di sistemi locali di intervento, che sappiano individuare obiettivi strategici e di priorità nella costruzione di politiche sociali e nel contempo, che siano in grado di valorizzare e mettere in rete tutte le risorse presenti sul territorio, tra cui quelle di espressione ecclesiale.

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Nell’attuazione dei Piani di Zona, l’esperienza vissuta concretamente, ci porta a dire che la Caritas è stata chiamata a svolgere la specificità del proprio ruolo di conoscenza dei bisogni, di promozione dello sviluppo integrale dell’uomo e di tutela dei soggetti deboli. Inoltre i Centri di Ascolto, diffusi su tutto il territorio regionale, sono stati punti di osservazione privilegiati per percepire le necessità emergenti nelle singole realtà.

La legge 3 della Regione Lombardia, nell’articolo 18 riferito al Piano di Zona, recupera e valorizza nuovamente il momento della prevenzione, che diventa elemento prioritario per il Piano stesso. Riprendere il tema della prevenzione vuol dire avere uno “sguardo d’insieme” sul territorio, su quale territorio si sta costruendo e sui fattori di rischio che disgregano il tessuto sociale ed impediscono a tutti i cittadini di “stare bene”. In questo ambito la Caritas e più in generale le Chiese locali hanno molto da dire se fanno la fatica di riflettere sui cambiamenti in atto nei propri territori, in un tessuto sociale sempre più globalizzato e sempre più preoccupato e timoroso di perdere la propria identità.

Per fare in modo che questa presenza “sul territorio”, sia significativa, Caritas ha due concrete particolari attenzioni: una nella fase di costruzione del processo e una sui singoli contenuti.

Nel processo. Le ultime leggi nazionali e regionali, fanno del coinvolgimento del terzo settore (accezione che pure nei sui limiti intende raggruppare tutti i soggetti del privato sociale, compreso anche degli enti riconosciuti dalle confessioni religiose) un punto di forza dei nuovi modelli di welfare. Esse prevedono la partecipazione dei soggetti del territorio alla programmazione dei servizi alla persona sia nella fase legislativa prevista a livello regionale (in particolare tramite la presenza al tavolo regionale di rappresentanza del terzo settore), sia nella fase di coordinamento provinciale (tramite un tavolo di rappresentanza del terzo settore per ogni Asl) che in tutti gli ambiti territoriali. Ciò che accomuna tutte queste diverse articolazioni del processo di partecipazione è il fatto che tutte le realtà di una comunità, di un territorio, sono chiamate a collaborare per leggere, individuare, realizzare, verificare le necessità di tutti e di ciascuno, finalizzate al bene comune. Se si è realmente consapevoli e ci sono le condizioni di partecipazione, il Piano di Zona

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diviene un patto di solidarietà, dove ognuno partecipa con il proprio specifico ruolo, con le proprie particolari azioni e risorse, ma con una responsabilità comune: quella di costruire una comunità per tutti, a partire dalle persone con maggiori difficoltà. Questo processo deve essere strutturato, reso stabile con percorsi e strumenti non occasionali e non solo consultivi, ma di reale compartecipazione e corresponsabilità. La sfida, infatti, è nella capacità di mediare tra il proprio ruolo e l’istituzione di una rappresentanza realmente condivisa. Ciò che si deve evitare è di ridurre la Caritas ad un mero strumento di erogazione di servizi sociali e non di promozione pastorale che ha a cuore sia la tutela dei diritti di tutti sia il desiderio di promuovere solidarietà nelle comunità.

I contenuti. È evidente che, al di là dei criteri di partecipazione al processo, ciò che conta sono le modalità per individuare i bisogni, la costruzione delle singole risposte (interventi e servizi), la definizione delle priorità e la successiva fase di verifica. Diventa a tal proposito sempre più necessario il richiamo ai Livelli Essenziali di Assistenza, cioè a quelle condizioni di vita che devono essere garantite a tutte le persone, proprio per evitare forme di povertà o di marginalità sociale. Vi è cioè uno stretto legame tra livelli essenziali di assistenza e la presa in carico della persona considerata non tanto una “categoria di bisogno” quanto piuttosto nella sua unicità. È un’attenzione che si traduce in impegno verso la costruzione di un tessuto sociale attento ai diritti ed alla giustizia, un’intenzionalità pedagogica aperta al confronto e determinata nell’edificazione della Comunità, una concretezza di servizio alla Comunità, in particolare verso coloro che non risultano rappresentati e non hanno voce.

L’essere presenti ai vari gruppi di lavoro previsti nei Piani di Zona, allora, non nasce dal desiderio di “avere qualcosa da gestire” o da ottenere da un punto di vista economico, quanto piuttosto dalla volontà di “esserci” in questi luoghi e in questi tempi per testimoniare l’attenzione della Chiesa verso gli ultimi. Anche le osservazioni, per quanto possono essere critiche nei confronti di alcune scelte istituzionali, nascono da Comunità che conoscono bene i volti della sofferenza e che cercano, pur con i tanti limiti, di essere protagonisti nel rispondere ai bisogni di chi è in difficoltà e nel costruire e promuovere nuove forme di impegno sul territorio.

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L’impegno pastorale delle Caritas, in questo nuovo scenario

sociale, si può allora articolare secondo alcune linee fondamentali, emerse nella recente riflessione delle Caritas Lombarde sulla legge regionale 3/2008. Proviamo qui a sintetizzare tali linee. • Riscoprire e valorizzare il territorio, inteso come luogo per

testimoniare la propria fede, a partire proprio dalla tutela e valorizzazione degli ultimi. I nuovi spazi di partecipazione che si aprono, e in particolare quelli della “rappresentanza ai tavoli di zona”, richiedono una nuova capacità delle Chiese locali a conoscere meglio i bisogni del proprio territorio, sapere riconoscere le priorità, sapere valorizzare le proprie e altrui risorse, sapere leggere con competenza i cambiamenti sociali in atto e le criticità emergenti.

• Formare gli operatori e i volontari che si ritrovano intorno alla Chiesa locale e che hanno deciso di impegnarsi in forme di rappresentanza. Un compito che consiste nel ricercare e rafforzare gli elementi fondativi, condivisi ed inalienabili del proprio impegno nel sociale e nel politico, inteso come luogo e spazio per la costruzione del “bene comune”. Uno dei più importanti risvolti concreti di tale compito è, ancora una volta, la necessità di abituarsi sempre più alla partecipazione alle sedi programmatorie che le nuove norme introducono o confermano nelle politiche sociali locali.

• Promuovere e organizzare le rete e il coordinamento locale tra i soggetti di ispirazione cristiana. In un modello di servizi sociali che pone al centro non più il singolo Comune, ma un territorio più ampio – l’Ambito – cioè un insieme di territori, si pone la necessità di valorizzare e promuovere l’opportunità di costruire una rete fra le varie Comunità ecclesiali e, più in generale, di tutte quelle forme di impegno sociale di gruppi ed associazioni di ispirazione cristiana. È la possibilità di saper tessere una rete a “maglie forti” sui vari territori, con le realtà presenti e vicine alla sensibilità della Chiesa, tra le stesse Parrocchie, imparando a lavorare insieme, promovendo di fatto una intenzionalità pedagogica, indispensabile per far maturare la consapevolezza della necessità di costruire o potenziare le Caritas, al fine di condividere, ove possibile, comuni rappresentanze.

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• Rappresentare e tutelare i bisogni condivisi con la rete, prendendo parte, con impegno e competenza, al lavoro dei tavoli dei Piani di Zona. Ciò significa anche sapere mettere in campo, dove ve ne siano le condizioni e la disponibilità, una capacità di gestione di servizi (Centri di Ascolto, servizi per minori, case di accoglienza, opere segno, ecc) che possano essere efficaci nel loro obiettivo e allo stesso tempo sappiano testimoniare l’attenzione agli ultimi.

La metodologia di lavoro che le Caritas lombarde si danno per

svolgere questi compiti è quella di cercare di far crescere “dal basso”, dalle stesse Parrocchie coinvolte direttamente o attraverso i soggetti promossi (associazioni, Cooperative, le stesse Caritas), le forme e le modalità di rappresentanza, potendo contare sul supporto formativo e di conoscenza garantito dalle Caritas diocesane.

In un tempo caratterizzato da una forte ristrettezza economica che

contrae le risorse disponibili per garantire la qualità della vita a tutti i cittadini, da un modello culturale liberista che sembra valorizzare in modo ideologico il principio della libertà individuale a scapito di principi di solidarietà e condivisione, sempre più anche alla Chiesa è chiesto un aiuto per rispondere ad alcuni bisogni: molto spesso è una richiesta di aiuto “funzionale”, legata cioè al mantenimento o al potenziamento di servizi e quasi mai è una richiesta di aiuto per pensare, per capire, per costruire progetti. È sempre più necessario avere a cuore il destino delle persone, specialmente di quelle che non hanno voce per esprimere il loro disagio e la propria sofferenza. Soprattutto lo sforzo è di riuscire a capirle, a rappresentarle, a proporre risposte più efficaci, a fare un cammino con loro, vedendo in essi il Volto di un Dio che ama, che tramite noi cerca di entrare nella vita delle persone e di comunità.

A volte le Parrocchie si muovono in modo scoordinato e

frammentario. Spesso si sentono domande di questo tipo: a chi fare riferimento per un problema? Chi è in grado di “tirare le fila?” Siamo in grado di coordinare una presenza e dare spazio a forme di rappresentanza nel rapporto con le Istituzioni?

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Al di là delle motivazioni teologiche e/o pastorali, l’utilità sociale

del nostro operare non si misura solo dal numero di interventi assistenziali che si riesce a sviluppare, ma anche dalla capacità di stare dentro questi cambiamenti, facendo sentire alta la voce, che non è altro che quella di chi si trova in condizioni di bisogno, portata da una Chiesa che cerca di testimoniare e vivere la carità.

Al di là delle tante opportunità educative che i nuovi modelli di welfare ci costringono a riscoprire o valorizzare (l’imparare a leggere i bisogni, ad “esserci”, a rappresentarsi, a porre servizi segno, ecc.), si deve però segnalare come queste opportunità ci aiutino a costruire nel territorio nuovi legami, nuove appartenenze. Se ieri era la fabbrica, oggi è la città il luogo da osservare per capire cosa sta succedendo nel mondo sociale contemporaneo. È il luogo delle differenze, della comunicazione e della simbologia delle identità.

Abbiamo allora le città metropolitane che vivono la fatica delle periferie, della ostruzione di connettività, di transitività e mobilità, cioè di strutture che garantiscono un collegamento, ma di tipo biunivoco e che permettano di potersi muovere liberamente senza pericolo di essere fermato, scippato, picchiato e via dicendo. Ma è anche il luogo della città dormitorio, che si svuota che non trova più la sua piazza, la sua Chiesa, sostituiti dai centri commerciali. È lo spezzarsi del tessuto urbano: sempre più spesso parliamo di povertà riferita non solo a persone ma a pezzi di città. È la povertà di chi non ha futuro perché non lo vede, perché non ha futuro. E vive l’angoscia del domani e vive la violenza come strumento per scaricare le frustrazioni, per diventare qualcuno.

Alla Caritas, e più in generale alla Chiesa, contribuire ad attuare la nuova legge regionale in materia sociale, vuol dire allora incrociare concretamente la promozione di una compiuta cittadinanza per tutte le persone. Oggi assistiamo al passaggio da una società a legami forti ad una società che dà via libera all’iniziativa e all’autonomia del soggetto, indebolendo i propri legami comunitari. Ciascuno cerca di tutelare i suoi interessi: ciò che sempre più sta venendo a mancare è l’impegno a tradurre sul terreno dell’azione politica il valore della solidarietà. Da

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cristiani dovremmo andare oltre: recuperare la dimensione della fraternità, dell’ospitalità a mio “fratello”, come segno e strumento per la testimonianza della carità come elemento costitutivo della propria fede. Soprattutto il nostro compito è quello di essere generatori di speranza, capaci ogni giorno di costruire sogni ad occhi aperti, di non perdere la convinzione che cambiare le situazioni è possibile.

In sintesi, alla luce di quanto detto, e in attesa di aprire nuove prospettive di lavoro in questa direzione, la Caritas dovrà tenere conto di alcune attenzioni e stili:

• «Indicare concretamente uno stile di prossimità che privilegia la relazione umana, la compagnia, la presa in carico, l’empatia, la condivisione come traduzione della “legge dell’incarnazione”. Prestare attenzione alla persona, quindi, in quanto soggetto e fine di ogni intervento.

• Favorire la cura delle relazioni primarie: familiari, di buon vicinato, di appartenenza sociale e culturale, perché la persona sia aiutata nella presa di coscienza attiva della propria identità e ricchezza e sia messa in grado di stabilire relazioni costruttive in una logicità armoniosa.

• Promuovere la partecipazione nelle decisioni di iniziative culturali, educative, formative, informative, ricreative attraverso un’attenta e rispettosa consultazione di soggetti/destinatari e un’assemblearità normale che coinvolga tutte le agenzie del territorio con cui pensare, definire, e verificare progetti comuni adeguati, rispettosi di ogni peculiarità e ambito.

• Rendere la comunità un’esperienza educativa alla partecipazione, alla corresponsabilità, capace di maturare sussidiarietà diffusa anche negli stili e nei comportamenti, affinché partecipare significhi effettivamente sentirsi parte, giocare la propria parte con libertà e responsabilità.

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• Aiutare la comunità parrocchiale a pensarsi soggetto di cittadinanza territoriale che si confronta in rete con i diversi membri della società civile intorno alla costruzione, ciascuno per la propria parte di responsabilità e competenze, di risposte alle istanze comunitarie. I cristiani diventano così costruttori sociali di legami forti, di patti tra cittadini, ricollocando al centro i più deboli, superando pietismi e assistenzialismi e puntando decisamente all’autopromozione.

In tale prospettiva molte attenzioni e impegni, a partire dal volontariato, diventano risorsa da valorizzare, capitale umano di cui ogni persona è portatrice» (Nozza V., Pasini G., 2008).

ALCUNE PROSPETTIVE DI CARATTERE OPERATIVO Giordano Vidale

Colui che dà un soldo al povero,

vien benedetto con sei benedizioni; ma chi lo conforta con le parole,

ne ottiene undici35. S.J.Agnon

Il percorso di preparazione e di stesura di questo quarto dossier

regionale sulla povertà, nella fase di ideazione e realizzazione, si è posto alcuni obiettivi che sono il prodotto delle esperienze precedenti e del lavoro ormai pluriennale della Caritas Diocesane nell’organizzazione operativa dei Centri di Ascolto. Uno dei principali propositi è, infatti, coerente con la volontà e la necessità che il rapporto oltre a consegnare alcuni “segni” identificativi della povertà in Lombardia e alcune tracce dell’attività realizzata dai Centri di Ascolto, diventi soprattutto strumento di confronto e

35 Agnon S.J., Il torto diventerà diritto, Bompiani 1966, pag.104

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approfondimento circa le prospettive di lavoro ed il ruolo dei Centri di Ascolto Caritas nel prossimo futuro.

Quindi ciò che interessa ora è soprattutto individuare su quali percorsi procedere e con quali prospettive operative. È quindi fondamentale riprendere i punti di riferimento dai quali si è partiti nella riflessione, che, solo sinteticamente, vengono di seguito riportati. Le considerazioni di partenza La povertà non è condizione prerogativa di alcune categorie sociali; è avvenuta una modificazione delle condizioni che portano alla povertà nell’attuale situazione congiunturale economica mondiale. Gli obiettivi ante Bisogna arrivare ad una migliore conoscenza della povertà ma meglio ancora dei poveri che accedono ai nostri Centri di Ascolto; è importante effettuare un approfondimento circa l’organizzazione e le metodologie di lavoro dei Centri di Ascolto; è necessario sostanziare attraverso osservazioni dirette ed indirette l’unicità e la diversità della condizione di povertà; diventa fondamentale sottolineare l’influenza della Comunità nella possibilità di generare reti di solidarietà positive e di accoglienza della persona in situazione di povertà; si constata che le condizioni della vita delle persone si diversificano anche in corrispondenza delle situazioni territoriali – città, valli, bassa.

Per una prospettiva di lavoro Per il Centro di Ascolto la questione centrale non è la “povertà”

ma il POVERO-persona con la sua domanda di vita (il futuro), con la sua esperienza di vita (il passato). Il Centro di Ascolto deve allora essere sempre di più il luogo del “limite” dove i limiti si incontrano: il Centro di Ascolto non è “onnipotente” anche se farebbe comodo avere un luogo dove tutto si potesse fare e dove a tutto potesse essere data risposta!

Il Centro di Ascolto non deve limitare l’accoglienza delle persone: non c’è limite alla soglia ma alle forze ed alle capacità del Centro. E allora la soglia di questo limite di non-onnipotenza può

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essere ogni volta spostata in occasione dell’incontro con il limite-povertà della persona che si presenta all’ascolto; è nell’ascolto reciproco e nell’incontro delle capacità e delle risorse della persona con le capacità e le risorse della Comunità, di cui il Centro di Ascolto è riferimento, che possono essere individuate le risposte per dare soluzione ai problemi della persona. Nello stesso tempo tale azione di incontro produce non solo uno spostamento dei limiti per la singola persona, e quindi la rimette in cammino per il futuro, ma anche uno spostamento del limite delle opportunità e delle risorse della Comunità, che diventa così sempre più capace di accoglienza e di accompagnamento. In questo modo il Centro di Ascolto è il luogo del limite che diventa punto di incontro; incontro di persone che si fa accoglienza, nodo della rete che dà forza e consistenza alla rete stessa e che dà quindi la possibilità alla rete di diventare sempre più tessuto che contiene e raccoglie e che tiene insieme la Comunità, le relazioni e le persone. Non possiamo permetterci di correre il rischio che i Centri di Ascolto si modellino sulle richieste delle persone; nella nostra osservazione – vedi capitolo primo – è stato rilevato che, a volte, i Centri di Ascolto assumono metodologie di risposta di tipo assistenzialista, innescando un meccanismo di risposta diretta – certamente più facile ed immediato – al bisogno espresso dalla persona. Si perde quindi il fondamento della “catena metodologica” - accoglienza, ascolto, attivazione di risorse personali e della Comunità – propria della mission di promozione della persona e di pedagogia alla solidarietà di cui il Centro è portatore.

Il Centro di Ascolto non può quindi essere un “distributore di prestazioni” ma un “distributore di accoglienza della Comunità” per la messa in agito della capacità di aiuto dei singoli e dei gruppi della Comunità.

In questo modo risulta essere anche chiara la differenza tra l’azione che è propria del Centro di Ascolto da quella propria del servizio sociale delle istituzioni pubbliche – Comuni. Perché una persona va al Centro di Ascolto?

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Essenzialmente perché è in una situazione di bisogno e non perché vuole il riconoscimento di un suo diritto di cittadinanza, come invece dovrebbe avvenire – ma non sempre ancora è così – per l’accesso al servizio sociale pubblico. Certo è più facile e diretto accedere al Centro di Ascolto; non devo prendere l’appuntamento, non devo giustificare e documentare la mia situazione economica e a volte addirittura viene data immediata risposta al mio bisogno! L’assistente sociale è meno accessibile, bisogna essere residenti, avere la cittadinanza e inoltre successivamente, si potrebbe essere segnalati ad altre autorità competenti.

Tuttavia è fondamentale che il Centro di Ascolto continui a distinguersi dal servizio pubblico – non tanto per l’eventuale immediatezza della risposta al bisogno della persona – ma per la diversa modalità della presa in carico: prevalentemente di tipo amministrativo e di tutela civile quella del servizio pubblico, prevalentemente di tipo comunitario e di tutela morale quella del Centro di Ascolto. Non devono crearsi confusioni e deve essere chiaramente mantenuta la mission che porta i Centri di Ascolto a prendersi il carico non della povertà ma della persona, senza standardizzazione nelle risposte ma nell’attivazione volta per volta, caso per caso, delle migliori, più opportune ed adeguate soluzioni operative di incontro tra persona e Comunità.

In una prospettiva di lavoro dei Centri di Ascolto dove la persona-povero sia centrale in tutte le attenzioni operative ed organizzative, non può essere tralasciato di sottolineare e mettere in evidenza il ruolo fondamentale che viene realizzato dalle persone – volontari e non – che operano per l’accoglienza. Il Centro di Ascolto non ci sarebbe senza le persone-operatori che in modo così attento e carico di calore umano mettono a disposizione il loro tempo e la loro competenza; lo fanno ciascuno in modo diverso perché diverse sono le loro esperienze di vita, ma lo realizzano “insieme” perché hanno la convinzione che la reciprocità ed il donare hanno ancora significato e valore nelle relazioni tra le persone.

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In ragione delle esperienze raccolte possiamo ora anche mettere in fila alcune opportunità che già oggi sono tenute in considerazione, opportunità che possono nello stesso tempo essere viste come prospettive e linee di lavoro che, integrandosi insieme, diventano il comune denominatore del modello operativo dei Centri di Ascolto delle Diocesi Lombarde.

La motivazione delle persone che operano nei Centri di Ascolto: deve essere costantemente verificata, sostenuta, “premiata”, affinché possa diventare costante rilancio della volontà di operare nella prospettiva di aiuto agli altri. La motivazione non è e non può essere sempre la stessa, quasi come fosse una dotazione accessoria ed immutabile che una persona ha a disposizione, ma subisce continue modificazioni in ragione degli incontri con gli altri e quindi delle esperienze di vita vissute. Diventa quindi indispensabile operare per accompagnare queste motivazioni nel loro cambiamento, nella loro crescita e nella loro maturazione. Non possiamo permetterci di perdere questo inestimabile valore che le persone hanno saputo far emergere e mettere a disposizione degli altri attraverso i Centri di Ascolto!

La competenza in termini operativi e di attivazione delle risorse: accogliere le persone, saperle ascoltare, osservarle nei loro comportamenti, entrare nei loro problemi non è mai semplice. Bisogna avere una marcia in più per sapere osservare, raccogliere, approfondire senza giudicare ma avviando un percorso di condivisione dei problemi e delle questioni di vita dell’altro. Questa marcia in più nasce in parte da una capacità propria della persona – il buon senso, la prudenza – in parte deve essere coltivata attraverso specifici percorsi di preparazione sui temi dell’osservazione – cosa osservare, come osservare – della comunicazione – verbale e non verbale, cosa comunicare, come ascoltare – e dell’attivazione delle energie della persona e delle risorse della Comunità. È l’operatore del Centro di Ascolto che mette in moto le leve affinché le presenze strumentali e di persone – individui e gruppi – possano diventare opportunità di azione di aiuto; è l’operatore del Centro di Ascolto che contribuisce alla costruzione delle “reti locali della solidarietà”.

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E per far ciò l’operatore del Centro di Ascolto in parte attingerà a sue doti personali di osservatore attento ed integrato nella rete sociale, in parte usufruirà di momenti di approfondimento che possano incrementare e migliorare la sua competenza nel valutare le possibilità date dalle leggi e dalle regole della vita civile e nel mettere in relazione le risorse operative espresse e non, presenti nel proprio territorio. Il Centro di Ascolto lavora con le persone e per le persone e pertanto deve perseguire l’obiettivo di acquisire credito nei confronti delle persone che compongono la Comunità Locale; è un accreditamento sociale e non istituzionale, è un accreditamento di valori e non di requisiti tecnici ed amministrativi. Non si vuole in tal senso sminuire il valore e la portata dei processi istituzionali per migliorare i servizi, vogliamo semplicemente evidenziare la differenza di contenuti che può essere portata mettendo al centro del nostro lavoro la persona.

La forza e la consistenza della rete delle offerte della Comunità: la rete delle offerte della Comunità non è e non può essere esclusiva peculiarità del Centro di Ascolto; non nasce da sola ma è diretta conseguenza della complessiva storia “sociale” del territorio, passata e presente. È compito dei Centri di Ascolto partecipare attivamente sia con azioni dirette sia con interventi indiretti, alla realizzazione e programmazione della rete delle offerte di solidarietà della Comunità Locale. L’accoglienza della persona con il suo bisogno non può e non deve essere la sola azione del Centro di Ascolto, essa deve essere l’avvio di una sequela di iniziative che portano a dare frutto e consistenza alla capacità di accoglienza della Comunità. Non si vuole il Centro di Ascolto ai “tavoli della programmazione”, non è il suo posto; lì vi devono partecipare, nella nostra logica, la Comunità ecclesiale e la Caritas come organismo pastorale. Il Centro di Ascolto deve muoversi all’interno, nelle pieghe del territorio, per individuare, sollecitare, stimolare risorse e capacità sopite o nascoste, che possano diventare energie ed opportunità nuove ed incrementali della Comunità. Questa opera viene realizzata stando dentro la Comunità come persone/volontari impegnati nella relazione con le altre persone che vivono nella Comunità stessa; il Centro di Ascolto non ha la porta chiusa, è costantemente aperto anche negli orari in cui non si realizza

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l’accoglienza, perché gli operatori sono persone-operatori non solo nei locali del Centro ma nelle vie, nelle piazze, nelle case della Comunità. È anche attraverso questa disponibilità e questo impegno che l’operatore professionale che lavora nei Centri di Ascolto diventa anche operatore-volontario con competenza professionale in quanto il suo impegno – alla pari degli altri volontari – non è solo legato ad un orario di lavoro ma è espressione di un impegno di uomo-donna persona all’interno della Chiesa.

La capacità organizzativa che diventa “metodologia della relazione”: una delle peculiarità dei Centri di Ascolto deve essere la capacità di lavorare insieme, occupandosi di compiti ed aspetti diversi. L’accoglienza e la relazione sono il segno distintivo dei Centri ed in tal senso devono quindi essere individuate di volta in volta le modalità organizzative, gli strumenti operativi e le prassi informative e di comunicazione da attuare. Tutto ciò però in stretta correlazione con alcuni elementi di partenza che diventano fondamentali:

- l’atmosfera solidaristica e di carità che ha dato origine al Centro di Ascolto in quella Comunità Ecclesiale;

- il tessuto sociale della Comunità Locale; - le domande di accoglienza provenienti dalle persone; - le possibilità professionali e volontarie a disposizione.

Questi elementi fondamentali in partenza non devono però essere mai dimenticati in quanto l’organizzazione di un servizio alle persone deve costantemente avere la capacità di modellarsi al continuo cambiamento che gli stessi elementi nel tempo vanno ad assumere. Un servizio che si occupa delle persone, che fa della relazione la sua linfa vitale non può rimanere immutato per anni: deve continuamente modellare la propria organizzazione e la propria attività a seguito dei cambiamenti degli elementi sui quali si è fondato e soprattutto deve avere la capacità di essere inseguitore di nuove capacità e di diverse competenze, per ampliare la propria dotazione missionaria ma anche e, soprattutto, per ingrandire la relazione tra e con le persone.

Nel percorso di preparazione del rapporto attraverso gli incontri e i focus group, ma anche con la raccolta del materiale e la lettura dei dati

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e delle informazioni della attività dei Centri di Ascolto, ho avuto modo di incontrare molte persone, alcune direttamente, altre indirettamente. Sono stati incontri importanti e stimolanti. Mi sono accorto che molti di loro sono uomini e donne sapienti, secondo la definizione per la quale la sapienza è equilibrio tra alcune specifiche conoscenze tecniche ed il resto dell’esperienza della vita. Ritengo che tali persone abbiano davvero una marcia in più che si esprime anche attraverso il dono:

- del silenzio – nell’ascolto; - dello sguardo – nell’osservare e nel rispettare; - della disponibilità – nell’accogliere e nell’accompagnare.

E che infine abbiano l’intuizione come dotazione personale, in equilibrio tra esperienza e voglia di vivere. I Centri di Ascolto delle Diocesi Lombarde – ma sicuramente anche quelli delle altre Diocesi del nostro Paese – sono costruiti e portati avanti quotidianamente da queste persone, alle quali dobbiamo tanto e verso le quali dobbiamo impegnare tutte le nostre migliori energie e volontà per non disperdere questo grande patrimonio di umanità e di solidarietà.

LA SOLIDARIETÀ COME “RACCONTO” DEL VANGELO DI CRISTO.

don Roberto Rezzaghi

L’ambizioso proposito del nuovo dossier regionale lombardo è quello di “raccontare” la povertà. Ma è veramente possibile farlo? Ecco il dubbio che attraversa in modo diverso un po’ tutti i contributi che lo compongono.

Il sospetto non dipende solo dal fatto che “per diverse variabili la non registrazione dei dati raggiunge una percentuale piuttosto elevata”. Si sa, spesso i nostri operatori sono più coinvolti e motivati dai volti delle persone concrete che si presentano ai Centri di Ascolto, che non da aridi questionari da compilare, anche se sanno bene che sono importanti.

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Neppure è sufficiente pensare che a insidiare la realizzazione del lodevole proposito sia la difficoltà di definire con precisione che cosa sia la povertà. Ci hanno spiegato come essa non possa essere intesa in modo “monodimensionale”, cioè non sia identificabile solo con “una mancanza di risorse economiche e materiali”, perché in sede scientifica oggi si tende sempre più ad intenderla come un complesso concetto “multidimensionale”, suscettibile di definizioni diverse in rapporto a molteplici e mutevoli parametri, che spaziano dalla carenza di risorse monetarie, al deficit di salute, di istruzione, alla mancanza di relazioni umane significative e altro ancora.

Oltre a tutto ciò - anzi più di questo – c’è dell’altro da chiarire: che cosa vuol dire, per i credenti, “raccontare”? Cerchiamo di capirlo alla luce della esperienza umana più elementare ed autentica, nella quale si incarna la storia della salvezza, per trarre qualche orientamento utile al nostro agire pastorale.

1. Il “raccontare” come esperienza di ospitalità Non c’è bisogno di disperdersi nella copiosa letteratura narrativa per

capire che cosa significhi “raccontare”. Lo possiamo imparare semplicemente osservando un bambino. Chi di noi non ha mai raccontato una favola ad un bambino? E chi, in questa esperienza, non ha avuto modo di constatare la potenza di quel “C’era una volta...”. Spesso basta questa frase per catturare l’attenzione di un intero gruppo di piccoli, prima chiassosi e svogliati. Subito, come per incanto, si volgono verso il narratore, incollano i loro occhi spalancati su di lui e si dispongono in ascolto silenzioso e attento, senza perdere una parola. La relazione che si instaura tra l’adulto e il minore nel racconto di una favola è fortissima.

Perché accade ciò? Che cosa scatta nelle dinamiche della narrazione? Solo l’esposizione di una storia? Ma allora perché i bambini spesso chiedono a nonni e genitori di raccontare loro favole che già conoscono, come “Cappuccetto rosso”, “Cenerentola” o “Biancaneve e i sette nani”? Anzi, se un maldestro narratore, per stanchezza o disattenzione, nel raccontare cambia qualche particolare della storia, non è raro constatare come il bambino intervenga per correggerlo e richiamarlo all’ordine.

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Ciò che egli chiede all’adulto con la favola, infatti, non è solo la trama di una storia, ma prima ancora la sua presenza, il suo interesse: la disponibilità ad ospitarlo nell’orizzonte del suo vissuto e dei suoi significati. Con i simboli e le metafore della favola, che contiene sempre tematiche umane forti (l’amore, la nascita, la morte, il male, il pericolo, ...) il bambino chiede all’adulto di essere guidato in una esperienza rassicurante, che lo aiuti ad affrontare, esorcizzare e gestire le paure e le incertezze che gli nascono di fronte alla vita. Crescendo, egli diventa sempre più consapevole di essere debole e incompetente nel mondo in cui abita, che avverte come foresta insidiosa, dove è chiamato ad affrontare grandi prove e difficoltà.

Nessuna favola trasmessa dalla televisione, anche se narrata con l’uso di accattivanti cartoni animati, per il bambino è importante come quella raccontata dal vivo dalla mamma, dal papà, dalla nonna, cioè dagli adulti di cui si fida e che sono per lui significativi dal punto di vista educativo. Attraverso la storia che gli narrano, e anche attraverso il modo con cui lo fanno (il tono della voce, i commenti con cui la arricchiscono, le risposte che danno alle sue domande, ...) il bambino inizia a conoscere e ad assimilare il loro mondo interiore, etico e spirituale, lo fa suo, e in esso comincia a capire e a distinguere che cosa è il bene e che cosa è il male, quale importanza abbiano valori come l’amore, il sacrificio, la generosità, la gratuità e altro ancora. Lungi dall’essere una fuga dalla realtà, per il bambino il racconto è esperienza di “ospitalità esistenziale”, che comincia ad attrezzarlo per la vita36. In assenza di altri saperi e competenze, che acquisirà crescendo, riceve così i primi strumenti per interpretare, abitare e governare il mondo.

2. L’ospitalità di Dio, nelle parabole di Cristo In modo diverso dai bambini, anche gli adulti amano i racconti. Li

cercano continuamente nei romanzi, nelle proiezioni cinematografiche, nelle canzoni. Come mai? Forse solo per nostalgia infantile? In alcuni casi sì. Può darsi che anche l’adulto, in certi momenti della vita, cerchi

36 Cfr. B. Bettelheim, Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe, Feltrinelli, Milano 1987. In particolare p. 12-17: Le fiabe e la situazione esistenziale.

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nel racconto fantastico un modo per evadere da una quotidianità noiosa, complicata o pesante.

Molto spesso no. Anche chi è contento della sua vita e ha l’impressione di dominarla ama il racconto. In esso vive esperienze umane profonde, che riguardano il mondo dei significati dell’esistenza, e attraverso i linguaggi metaforici della narrazione alimentano e arricchiscono l’orizzonte della sua vita, aprendola alla trascendenza. Etimologicamente la parola “metafora” vuol proprio dire “porto oltre” (dal greco µετά φέρω), cioè conduco a percepire ciò che non posso più di tanto vedere e toccare, ma che pure intuisco, esiste, apprezzo e dà senso all’impegno della mia vita.

Per questo non deve stupirci se anche Gesù, nell’annunciare un messaggio così importante come quello del Regno di Dio, dal quale dipendono le sorti dell’umanità, usa la forma del racconto. Ciò di cui intende parlare, infatti, attiene proprio alle cose che sfuggono in ampia parte all’osservazione e alla verifica sperimentale, “scientifica”, e per questo non possono essere neppure più di tanto oggetto di sondaggi e rilevazioni statistiche.

È facile il confronto tra l’esperienza del racconto di una favola ai bambini, cui abbiamo accennato, e la predicazione di Gesù, che raccontava parabole. Nel vangelo troviamo situazioni come questa: “Si riunì attorno a lui una folla enorme, tanto che egli, salito sulla barca, si mise a sedere stando in mare, mentre tutta la folla era a terra lungo la riva”. Insegnava loro molte cose con parabole e diceva loro nel suo insegnamento “Ascoltate. Ecco, il seminatore uscì a seminare ...” (Mc. 4,1-3) ed esorta “Fate attenzione a quello che ascoltate ...” (Mc 4,24). Commenta l’evangelista: “Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere” (Mc. 4,33).

Come i bambini di cui dicevamo, anche coloro che ascoltavano Gesù si scoprivano coinvolti in storie che li riguardavano, e vivevano l’esperienza di un “lieto annuncio” capace di intercettare i loro bisogni, le loro speranze: gli aneliti più profondi della loro umanità (J.L. Klink, 1985, pp.53-54). Nella ricerca di senso si sentivano compresi, interpretati, accolti da quel Gesù che raccontando faceva loro vivere un sogno: quello

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di una esistenza buona, riuscita, in un regno di gioia e di amore senza fine37.

Può essere utile precisare che la consuetudine di Gesù a raccontare, nel nuovo testamento, non è diversa da quella usata nell’antichità dai maestri di Israele. Anzi, si può ricordare che la Bibbia, prima di essere scritta, in gran parte per secoli e secoli è stata narrata, trasmessa oralmente. Mosè stesso prescrive: «Quando sarete entrati nella terra che il Signore vi darà, come ha promesso, osserverete questo rito. Quando i vostri figli vi chiederanno: “Che significato ha per voi questo rito?”, voi direte loro “È il sacrificio della Pasqua per il Signore, il quale è passato oltre le case degli israeliti in Egitto, quando colpì l’Egitto e salvò le nostre case”...» (Es 12, 25-27). Il contesto della narrazione è quello della celebrazione della Pasqua: esperienza fondante del popolo di Israele, nella quale si conserva la memoria di una liberazione, l’attesa fiduciosa di una salvezza futura promessa da Dio; ma anche quella di una consuetudine a trasmettere attraverso il racconto, di generazione in generazione, la storia comune, nella quale i piccoli venivano introdotti. Così essi erano aiutati a scoprirsi come appartenenti al popolo eletto, destinatari ed eredi delle promesse fatte da Dio ai loro antenati e oggetto del suo amore premuroso.

3. La vocazione della Chiesa all’ospitalità. Com’è noto, Gesù oltre a “raccontare” la buona novella, coinvolse

nella sua missione anche i discepoli. Già durante il tempo del ministero terreno aveva mandato gli apostoli a due a due a predicare (Mc 6,7), e dopo la resurrezione, prima di salire al cielo, «disse loro: “Andate in tutto il mondo e proclamate il vangelo ad ogni creatura” ... Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la parola con i segni che la accompagnavano» (Mc 16,15.20).

37 Tra i metodi esegetici più moderni c’è anche quello della “esegesi narrativa”, particolarmente attento al punto di vista dei destinatari e al loro coinvolgimento. In merito si veda ad esempio: Resseguie J.L., L’exégèse narrative du Nouveau Testament. Une introduction, Lessius, Bruxelles 2009.

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Il ministero dei discepoli, non meno di quello di Gesù del quale sono resi partecipi, è un’espressione di ospitalità salvifica: la loro predicazione e i racconti delle parabole del Regno, infatti, sono offerta di solidarietà e lieto annuncio per chi nella vita è in ricerca.

Da allora la Chiesa non ha mai smesso di interpretarsi come chiamata a portare l’unico vangelo di Cristo in parole e opere, a tutti, senza distinzione. Come ci ricordava il documento «Evangelizzazione e testimonianza della carità», «In realtà, il pane della parola di Dio e il pane della carità, come il pane dell’eucaristia, non sono pani diversi: sono la persona stessa di Gesù che si dona agli uomini e coinvolge i discepoli nel suo atto di amore al Padre e ai fratelli» (n. 1).

Il recuperare questa consapevolezza ci permette di ricondurre più facilmente ad unità tante nostre fatiche, all’interno di un’unica riconosciuta progettualità, che ci viene donata innanzitutto dall’alto ed è poi affidata alla responsabilità delle nostre realizzazioni. A volte, infatti, può capitare che molte difficoltà e problemi del nostro operare derivino proprio dal non condividere in modo chiaro e fino in fondo questo progetto complessivo. Si rischia di dare per scontato che gli obiettivi perseguiti da ciascuno siano chiari e comuni; così come si considera ovvio che la direzione di marcia sia per tutti la stessa. Ma non sempre è così, o resta così in modo costante.

Ci è stato ricordato come anche la motivazione di chi opera nei nostri Centri “non è e non può essere sempre la stessa”, perché “subisce continue modificazioni”38. Per questo va costantemente verificata, alimentata, educata. Essa è strettamente legata alla fede, che a sua volta è dimensione dinamica della nostra personalità, in continua evoluzione: può crescere, ma anche andare in crisi, e così avviene della nostra carità. Com’è noto, le tre virtù teologali, fede speranza e carità, si alimentano reciprocamente; ma nello stesso modo si condizionano nella crisi. Non stupisce, dunque, che per la qualità della nostra carità sia decisivo l'annuncio costante e la meditazione assidua della parola di Dio (G. Papola, 2008).

Tra carità e vangelo esiste una simbiosi inscindibile. Infatti «Senza questa forma di evangelizzazione, compiuta attraverso la carità e la 38 Dossier, p. 87.

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testimonianza della povertà cristiana, l’annuncio del vangelo, che pure è la prima carità, rischia di essere incompreso o di affogare in quel mare di parole a cui l'odierna società della comunicazione quotidianamente ci espone. La carità delle opere assicura una forza inequivocabile alla carità delle parole» (Giovanni Paolo II, 2001).

Da qui la necessità, che nei Centri di ascolto Caritas si sia sempre più capaci, da credenti, di accogliere per “raccontare” e proporre una storia di salvezza che innanzitutto ha coinvolto noi stessi, impegnati a viverla con coerenza, e che di conseguenza siamo in grado di narrare in modo credibile, attraverso la testimonianza concreta della carità, a coloro che si presentano per chiedere aiuto. È in questo modo che, come ci è stato richiesto, potremo convertire sempre più le nostre strutture da “distributori di prestazioni” a “distributori di accoglienza” autentica39, di valenza esistenziale.

4. Saper raccontare la nostra povertà e la nostra salvezza Non è facile essere credibili nel racconto della nostra salvezza, senza

avere il coraggio di ammettere a noi stessi le nostre povertà. Anche se abbiamo di che mangiare, la casa e un lavoro sicuro, non possiamo parlare dell’esperienza dell’amore di Dio per noi, tacendo il fatto che siamo bisognosi, fragili e incoerenti.

Vivere la povertà significa essere consapevoli dei propri limiti, delle proprie debolezze, del proprio peccato, e quindi di non essere autosufficienti e pienamente liberi. Solo chi prende coscienza di essere radicalmente bisognoso può invocare aiuto e affidarsi a qualcuno. Non a caso, nella parola di Dio, la povertà è metafora della fede. Gesù “alzati gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio” (Lc 6,20). Al giovane ricco, che cerca la vita eterna, dice “se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; e vieni! Seguimi” (Mt 19,21).

La parola di Dio ci insegna, senza ombra di dubbio, che la povertà radicale è il peccato, che tutti ci coinvolge, nessuno escluso. Neppure gli apostoli di Gesù. Il capitolo sesto del vangelo di Giovanni, che narra la moltiplicazione dei pani e il lungo dialogo di Gesù con coloro che

39 Dossier, p. 85.

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volevano farlo re, si conclude con una considerazione amara. Dopo la bella professione di fede di Pietro, che dice «“Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il santo di Dio”. Gesù riprese “Non sono forse io che ho scelto voi, i Dodici? Eppure uno di voi è un diavolo”»(Gv 6, 68-70).

Che significa questa fase? Forse che anche Gesù si è sbagliato e ha preso tra i suoi, per così dire, un “cavallo zoppo”? Gesù non si sbaglia: tutti gli apostoli, in quanto uomini come noi, erano “cavalli zoppi”. Nel versetto successivo, l’ultimo del capitolo, l'evangelista si premura di precisare che Gesù alludeva a Giuda, che stava per tradirlo; ma basterebbe andare un poco oltre nella lettura del vangelo, per rendersi conto che tutti gli apostoli, nell'orto degli ulivi, fuggirono abbandonando Gesù nelle mani dei suoi persecutori, e lo stesso Pietro, per ben tre volte, negò di averlo mai conosciuto.

Come si vede, non è possibile raccontare la storia della salvezza senza narrare anche la storia della povertà umana, che è nel contempo consapevolezza del limite, invocazione di aiuto rivolta a Dio e cammino di conversione sostenuto e orientato dalla fede. Nel Preconio della veglia pasquale la chiesa inneggia al Cristo risorto cantando, con le parole di S.Agostino e S.Tommaso: “O felice colpa che meritò di avere un così grande redentore!”.

Del resto, è proprio la consapevolezza della nostra personale povertà, e di quella di tutta la comunità dei credenti, che ci consente di comunicare con i bisognosi: di porci al livello di chi si presenta ai nostri Centri con una povertà diversa dalla nostra, e di entrare in dialogo con loro, instaurando rapporti umani autentici. Dall’altra parte, è la testimonianza di questa nostra consapevolezza, che consente ad essi di non sentirsi troppo inferiori, e di avere il coraggio di chiederci di più del semplice cibo o dell’abito pulito: l’ospitalità nell'orizzonte della nostra storia di salvezza, per conoscerla e abitarla insieme a noi. Quando ciò accade, essi possono scoprire importanti risposte alla loro ricerca di senso, che a volte eccedono le domande stesse con cui si erano presentati.

Così avviene che, all’interno di questi legami di solidarietà, che favoriscono la fiducia reciproca, si creino anche le condizioni favorevoli per itinerari personali e comunitari, capaci di dare concretezza alla auspicata metodologia dei nostri Centri, chiamati a superare le risposte di

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tipo meramente assistenziale, attraverso la “catena metodologica” accoglienza–ascolto–attivazione di risorse personali e della comunità40.

5. Insegnare a raccontarsi Uno dei dati sui quali vale la pena di riflettere, nella lettura delle

“Percentuali di diffusione delle richieste e degli interventi”41, è il fatto che subito dopo i “Beni e servizi materiali” (47,5 %) la seconda richiesta che gli utenti rivolgono ai nostri Centri è l’ “ascolto” (22,4%). Solo molto dopo viene il lavoro (9,7%) o l’alloggio (6,3%). Per ultimo, cercano “Scuola/Istruzione” (0,3%).

La significativa richiesta di ascolto ha anche spinto qualche Caritas a separare le strutture deputate a questa attività da quelle destinate all'assistenza, e qualche altra si è data una organizzazione ancora più articolata, separando il centro di primo ascolto da quello che segue i progetti.

Se nella graduatoria delle richieste è scontato che al primo posto ci sia “l’erogazione di beni e servizi”, non lo è che al secondo ci sia il semplice “ascolto”, con un valore percentuale così significativo. Che cosa hanno da raccontare coloro che chiedono di essere ascoltati? Quali sono le loro storie di vita? Quali le loro paure, i loro problemi?

Il dossier ci aiuta a capire che spesso anche dietro ad una semplice richiesta di sostegno materiale ci sta una domanda di senso, di cui a volte gli stessi interessati non sono pienamente consapevoli. Questa ignoranza, in fondo, è la loro povertà più radicale, perché nessuna vita umana è votata semplicemente alla “sopravvivenza”. Per questo siamo stati giustamente esortati a vigilare, affinché i nostri Centri, con la loro efficienza nell’erogazione dei beni che vengono richiesti, non rischino di appiattirsi sulla “progettualità del piatto di pasta”42: non è questo il loro fine specifico.

È invece importante che in essi si aiutino le persone a “raccontarsi” veramente e il più possibile completamente, cioè a prendere 40 Dossier, p. 85. Cfr. anche Caritas Italiana, Osservare per animare. Guida per l'osservazione e l'animazione della comunità cristiana e del territorio, Chromamedia, Roma 2009. 41 Dossier, p. 19. 42 Dossier, p. 21.

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consapevolezza della propria personale ricerca esistenziale e a verbalizzarla, per poterla valutare e orientare correttamente verso il suo compimento, attraverso le progettualità che si potranno costruire insieme.

Gesù Cristo non apprezza i sogni di piccolo cabotaggio, di chi si accontenta, mortificando le aspirazioni umane più profonde, che Dio stesso a iscritto nel cuore di ogni uomo, quando lo ha creato a propria immagine e somiglianza. Quando la gente, affascinata dai suoi prodigi e interessata al pane che aveva saputo moltiplicare, cercava Gesù per farlo re, egli non esitò a scandalizzarla dicendo con franchezza: “Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà.” (Gv 6, 26-27).

Queste parole, dette da chi ha appena sfamato una moltitudine di persone, non possono certo essere interpretate come disprezzo nei confronti della cura dei bisogni materiali o come fuga da essi. Sono parole che invece ci riconducono al senso ultimo di ogni intervento caritativo operato dal credente: mentre noi raccontiamo con gesti di amore la gioia di essere coinvolti nella salvezza di Cristo, siamo chiamati ad aiutare i nostri interlocutori a conoscere se stessi in profondità, per educare e far crescere le loro domande di salvezza, che vanno oltre la richiesta del buono pasto o della borsa degli alimenti.

Educare alla libertà di scelta, all’autonomia nella gestione economica della propria vita, alla responsabilità nei confronti degli altri, alla capacità di intessere con essi relazioni positive è già molto; ma non è ancora tutto. Come ci ricordava già l’antropologo Mircea Eliade, è anche importante aiutare le persona a “squarciare il tetto della casa”, cioè aprirla alla stima della trascendenza: al religioso43. Esiste, infatti, una dimensione positiva della povertà, che consiste nella consapevolezza dei propri limiti, e nella invocazione di Dio creatore, al quale ci si affida. È una povertà che, a differenza dell’indigenza materiale, non toglie mai dignità alla vita umana, ma anzi la arricchisce, perché l’aiuta a riscoprire ciò che davvero conta

43 Cfr. M. Eliade, Spezzare il tetto della casa. La creatività e i suoi simboli, Jaca Book, Milano 1988, p.149-157.

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nell’esistenza, e alla sua luce, a relativizzare invece tanti falsi bisogni. È la povertà di cui parla Gesù nel vangelo, quando invita i discepoli a non preoccuparsi troppo delle cose materiali e a fidarsi della provvidenza divina, dicendo loro “Guardate gli uccelli del cielo ... Osservate come crescono i gigli del campo ...” (cfr. Mt 6, 25-34).

6. Attivare percorsi narrativi di qualità Anche se siamo costretti a constatare che “Gli aspetti spirituali e

religiosi sono costantemente gli ultimi nella valutazione di importanza per il mantenimento di una vita dignitosa, inferiori pure a quelli di carattere culturale”44, non dobbiamo cadere nell’errore di credere che allora la gente che bussa alle porte dei nostri Centri non abbia fame e sete di Dio. Se così fosse, davvero non ci sarebbe sostanziale distinzione nel confronto con altre strutture assistenziali civili. Anche nei nostri Centri, infatti, si finirebbe per interpretare il fenomeno della povertà come un semplice prodotto culturale, che se non è “monodimensionale” in senso tecnico, lo è in forma sostanziale, nel senso che è sempre ricondotto e risolto, in un modo o in un altro, all’interno di un orizzonte che prescinde dal trascendente, e si coltiva l’illusione che lì possa essere risolto.

Restringendo l’ampiezza della domanda, appiattita ai bisogni materiali o al massimo psicologico -relazionali, le risposte dei nostri progetti verrebbero ridisegnate al ribasso, e diventerebbero inesorabilmente di tipo filantropico. Ma in questo caso le nostre strutture non sarebbero più, come richiesto, strumenti di educazione alla “carità”, perché i mezzi finirebbero per sostituirsi ai fini, e la via da percorrere diventerebbe la meta raggiunta.

Ecco perché è importante non stancarsi nell’impegno di potenziare la qualità dell’ascolto, trasformandolo in itinerario di vera promozione umana, che porti le persone, per gradi, a scoprire in se stesse non solo le potenzialità soggettive di tipo psicologico e culturale, il cui sviluppo in taluni casi sarebbe sufficiente per mettere i soggetti in grado di procurarsi da soli il pane quotidiano; ma anche la fame per il significato di un altro pane, che un giorno don Milani rimproverava a Pipetta, un suo ragazzo

44 Dossier, p. 39.

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impegnato in politica, di non avergli più chiesto45. Per questo è importante rivisitare certe categorie che usiamo nelle nostre progettualità, come quelle di “qualità della vita”, o “dignità della persona”.

Ci è stato detto che esiste un problema di povertà soggettiva “percepita”, che può portare a considerare il proprio reddito individuale o familiare inadeguato per condurre una vita considerata “dignitosa”; ma non di rado la dignità della vita è definita in rapporto a parametri consumistici, di matrice individualistica. Così capita che per conservare questa “qualità” della vita si scelga di “non avere figli”, di “continuare a vivere in famiglia” e di considerare i deboli, persone anziane o disabili, come un’insidia alla vita “dignitosa”46. Ci vuol poco a capire che i nostri Centri non possono limitarsi a dare risposte puntuali alle richieste oggettivamente sbagliate che derivano dalla mentalità espressa da questi comportamenti.

Qui la povertà da affrontare è di tipo culturale, e la risposta da dare non può essere solo la prestazione assistenziale, alla quale pure sarà importante non sottrarsi, per poter costruire rapporti interpersonali. Ciò significa, in concreto, che bisognerà avere la capacità di aiutare le persone a rileggere in modo diverso la loro situazione, e a convertire i loro valori di riferimento. Molto spesso, infatti, la povertà non è un problema di beni materiali o di soldi, ma di mentalità e di cultura.

Da qui la necessità di operare in rapporto ad una antropologia integrale, considerando il soggetto in tutte le sue dimensioni, senza escludere la sua fame e sete di trascendenza. Solo così saremo davvero capaci di aiutarlo a liberarsi dai lacci e dalle contraddizioni che ci sono stati decritti. Per far questo, infatti, è indispensabile il riferimento ad una istanza critica esterna e sicura: ecco perché, per mettere veramente al centro il povero, è importante prima saperci mettere Dio. Egli è il miglior garante dei diritti autentici di ogni persona, a partire dagli ultimi.

45 Gli dice: “Ti manca il pane? che vuoi che me ne importasse a me, quando avevo la coscienza pulita di non averne più di te, che vuoi che me ne importasse a me che vorrei parlarti solo di quell'altro Pane che tu dal giorno che tornasti da prigioniero e venisti colla tua mamma a prenderlo non m'hai più chiesto”. Don Lorenzo Milani, San Donato a Calenzano, 1950, in: L. Milani, Lettere di don Lorenzo Milani. Priore di Barbiana, S.Paolo, Roma 2007, p. .21-22. 46 Dossier, p. 40.

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7. Saper coinvolgere nel racconto le nostre comunità La storia di salvezza che siamo chiamati a raccontare e a promuovere

è una storia di persone, non di individui, cioè di soggetti che vivono in relazione, e che possono essere se stessi soltanto come parte di una comunità47.

Coloro che bussano alle nostre porte, anche quando si presentano da soli, portano con sé i rapporti umani ai quali sono geneticamente legati e la cultura che in essi hanno ricevuto ed elaborato. Così anche i nostri operatori si relazionano con loro muovendo ciascuno dalla propria storia personale, che è essenzialmente una storia di fede, e quindi storia di un incontro con Dio avvenuto nella comunità credente. Lì hanno ricevuto il battesimo e maturato la decisione per il loro impegno caritativo; lì ancora lo alimentano e lo rinnovano attingendo all'esperienza della parola e dell'eucaristia.

Questo retroterra non è accessorio. Ogni servizio pastorale specializzato non ha come soggetto ultimo il singolo operatore, ma la sua comunità di appartenenza, che è la chiesa. E la chiesa, a sua volta, è radicata in Cristo attraverso l’esperienza sacramentale. Tutta la pastorale della chiesa, infatti, è partecipazione ministeriale all'azione dell’unico vero e buon pastore, che è e rimane solo Cristo. Quando Gesù, dopo la resurrezione, sale al cielo, non delega i discepoli a sostituirlo, ma li invia per continuare una missione che resta sua, assicurando “io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20).

Capire questa struttura di fondo, può orientarci a comprendere meglio la natura dei nostri servizi caritativi, e anche il modo di gestirli. In particolare può aiutaci a comprendere l'importanza di coltivare il loro rapporto con la comunità credente. È noto infatti che uno dei nodi irrisolti per i Centri di ascolto sia il coinvolgimento delle comunità. Non di rado essi soffrono il “ ‘vuoto’ di contatti con Parrocchie e Caritas Parrocchiali”48. A volte si lamenta addirittura che sia più facile coinvolgere le strutture assistenziali civili che non le comunità parrocchiali. Ciò evidentemente deve esser motivo di seria riflessione. Solo il legame costante e vitale con le comunità, infatti, consente ai nostri

47 Cfr. Roger B., De l'individu à la personne, detours historiques, in: Nouvelle revue théologique, 131 (2009) p. 570-587. 48 Dossier, p. 24.

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Centri e ai loro operatori di non perdere identità, motivazioni ed efficacia specifica.

Va anche precisato, però, che questo rapporto non è da considerarsi in modo riduttivo, solo sotto il profilo della “prestazione d’opera” o del “vivaio” al quale attingere per trovare nuovi operatori. Esiste, infatti, un’altra importante sinergia, da non sottovalutare, che consiste nella capacità che può avere la comunità di contrastare gli aspetti più problematici della cultura sociale, che producono e alimentano molte povertà, di fronte alle quali poi si trovano i nostri operatori.

Giustamente si è lamentato che “La nostra società è di fatto impostata prevalentemente sul consumo dei beni” con la conseguenza di una dispersione dei “valori umani e sociali” soppiantati spesso da quelli strumentali, che valgono perché “servono”. Si è anche auspicato che, in alternativa, si sappia stimolare la produzione di beni relazionali, come l’amicizia, la conoscenza, che tra l’altro “non diminuisce le scorte esistenti ma le aumenta”49.

Altrettanto giustamente, si è osservato come spesso anche noi rischiamo di operare i nostri interventi caritativi muovendo da una visione “generalista, quella prodotta dalle comunicazioni di massa” 50 così che la nostra immagine dell’altro e la percezione della sua situazione personale rischia di essere già viziata in partenza e di compromettere un vero ascolto e una conoscenza adeguata della persona. Però è anche vero che i mezzi di comunicazione sono a loro volta condizionati dalla cultura sociale, dal momento che subiscono la severa schiavitù del “telecomando”. Le reti televisive e radiofoniche, non meno degli altri media che vivono di pubblicità, trasmettono ciò che la gente chiede. Quindi la nostra responsabilità rischia di essere strabica, se oltre ai mezzi di comunicazione non prende in seria considerazione anche agli altri strumenti culturali attraverso i quali la mentalità comune viene formata e modellata. Ecco perché l’attenzione deve allargarsi al più ampio orizzonte dell’impegno politico, amministrativo, scolastico e della produzione culturale in genere51.

49 Dossier, p. 42. 50 Dossier, p. 40. 51 Questa, in fondo, è la consapevolezza che sta alla base del “Progetto culturale” nel quale si sta impegnando ormai da anni la Chiesa italiana.

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Queste ed altre simili richieste di conversione, però, non possono gravare sulle fragili spalle dei Centri di Ascolto, né è lecito pretendere dai soggetti che si affacciano ad essi per chiedere aiuto, ancor più fragili, di saper reagire da soli alla pressione mediatica e culturale che provoca in loro bisogni indotti e contraddizioni esistenziali.

Compete soprattutto alla comunità cristiana esercitare la sua funzione profetica nei confronti di una cultura sociale che produce povertà sempre nuove e diverse. È la comunità credente, nel suo insieme, ad essere chiamata in causa per “raccontare” la sua storia di salvezza e renderla credibile, entrando in un dialogo critico ma costruttivo con la società e la sua mentalità. A lei spetta l’elaborazione e la testimonianza di nuovi modelli di comportamento, veramente rispettosi della persona e dei suoi valori, e il gioioso annuncio di una vita sensata perché cristiana.

Per far questo, oltre che attingere alla parola di Dio e all’eucaristia, la comunità può certamente essere molto aiutata dal rapporto con la “struttura” Caritas, in particolare i “Centri di Ascolto”, gli “Osservatori delle povertà e delle risorse” e i “Laboratori”, là dove esistono e sanno vivere una feconda sinergia. Questi strumenti di educazione alla carità, usati nel rispetto della loro natura e perseguendo le loro finalità specifiche di carattere pedagogico e pastorale, le consentono certamente di conoscere meglio le ricadute esistenziali di certe miopie etiche e di certi riduzionismi antropologici oggi molto diffusi.

Per questo, oltre che con i poveri; oltre che con le strutture assistenziali civili di cui si ha bisogno per operare in modo efficace, sarebbe forse il caso di investire più risorse umane per informare le nostre comunità ecclesiali, coinvolgerle a tutti i livelli e instaurare con esse rapporti più stretti. Non sarebbero certo risorse stornate dai bisogni dei poveri, ma al contrario un investimento capace di produrre frutti molto positivi a loro vantaggio, anche se non immediatamente verificabili.

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CONCLUSIONI don Francesco Gipponi

Siamo di fronte ad un lavoro che pone sul tavolo diverse

questioni: tutte dicono, ancora una volta, la scelta di Caritas di affrontare in modo competente e non privo di interrogativi il suo stare accanto ai poveri, con lo stile che le è proprio dell’ascoltare, osservare e discernere. Vorrei provare, in questo senso, a riguardare tali questioni e a rilanciarle come temi di riflessione e di ulteriore approfondimento, per un “rac-contare la povertà” sempre più centrato su un sapere nato dall’esperienza, dalla scelta di stare ogni giorno dentro le storie di vita delle persone che la Caritas quotidianamente intercetta.

Dai primi contributi di questo dossier emerge come centrale la

questione di provare a passare da una politica dei “diritti sulla carta”, ad una politica delle opportunità e della responsabilità dentro un coinvolgimento di tutta la comunità! È il primo messaggio con cui vogliamo congedarci da questo lavoro.

L’esperienza degli operatori nei nostri Centri di Ascolto e le storie di vita ci ricordano costantemente la scelta di ricercare, offrire e creare opportunità nuove, dentro una società, la nostra, che ha vissuto un recente passato nel quale le rivendicazioni dei diritti hanno permesso a molte categorie di persone di raggiungere ottime possibilità. Constatiamo, tuttavia, che non sempre l’acquisizione dei benefici ha generato la presa di coscienza dei doveri maturati verso quella stessa società che così tanto ha incrementato il proprio benessere. Anzi si può dire che il dualismo diritti-doveri ha creato moltissime conflittualità, introducendo il concetto del diritto individuale, in netto contrasto, o quanto meno in alternativa, al concetto di comunità capace di riconoscere i diritti di tutti. È proprio questa conflittualità all’interno della società che deve aprire alla possibilità di ricercare, anche nelle nostre riflessioni, l’opportunità di “separarsi” dalla politica dei diritti per adottare una politica che ci veda coinvolti nella ricerca delle opportunità. Ogni persona è un’opportunità per la comunità e ad ogni persona devono essere offerte opportunità in quanto membro attivo di una comunità. La questione della “solidarietà” che bene i nostri Centri di Ascolto

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vivono non può più distinguersi dalla scelta del “lavorare in rete” secondo una logica di “responsabilità” (istituzionale e non) condivisa.

Assume, allora, un’importanza fondamentale la capacità di rilanciare la centralità dell’Uomo che non è semplicemente un numero o un portatore di bisogno a cui offrire dei servizi, anche se di qualità, ma una persona da ascoltare perché portatore di un bisogno che non è esclusivamente il suo, ma quello della comunità in cui è inserito/a. I nostri Centri di Ascolto sono in grado di offrire un ascolto qualificato, che cerca di non fermarsi solo alle informazioni principali. Ed è per questo che risulta sempre di più evidente la necessità che il primo riconoscimento da ricercare nei nostri Centri non sia quello legato alla “distribuzione di beni” ma quello legato alla “distribuzione di ascolto”. Proprio per questo, i Centri di Ascolto devono tendere all’obiettivo di “accreditarsi”: ma l’unico e il principale “credito” i nostri Centri lo devono cercare esclusivamente con le persone in situazione di bisogno e con le Comunità di cui le persone sono parte, per rilanciare, prima di tutto, la loro appartenenza alla comunità stessa. L’istituzione pubblica, che non è sopra la comunità, ma ne fa parte, deve essere coinvolta perché si consolidino quelle prassi che facilitano la conoscenza, la fiducia e la collaborazione anche di tipo formale, per attivare percorsi di graduale cambiamento e processi di normalizzazione.

Dobbiamo, inoltre, portare l’attenzione, e dedicare un approfondimento, sull’evoluzione dei nostri Centri di Ascolto. I Centri di Ascolto, se sono considerati espressione della capacità di una comunità di ascoltare cosa si muove al suo interno - proprio perché la riguarda – devono attuare nuove prassi per non farsi travolgere dall’esigenza di diventare specialisti di quel servizio che a nome di tutti e “investito di delega” assolva ad un dovere di ascolto: l’ascolto non è altro che la condivisione delle fatiche che alcuni nella comunità portano, con la consapevolezza che il bene di quelle persone è il bene della comunità e nella comunità ritornano per essere accompagnati. In questa comunità i Centri di Ascolto lavorano perché sia la comunità sempre pronta ad ascoltare e accompagnare le storie di vita.

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Alla riflessione sul ruolo e le potenzialità dei Centri di Ascolto si lega in modo imprescindibile l’attenzione al ruolo dell’Osservatorio Regionale della Povertà. Se l’occhio attento ai processi sociali rimane un compito indispensabile, credo sia necessario affiancare una specifica attenzione nel favorire le possibilità del confronto esperienziale, fondamentali per un percorso di conoscenza, di formazione e supporto alla motivazione di volontari e operatori Caritas.

Le persone che operano all’interno dei Centri di Ascolto, siano essi operatori o volontari, vanno costantemente sorretti da una formazione che tenga alta la motivazione del loro essere lì e del loro impegno, perché il rischio di centrare l’attenzione sul servizio svolto e sulla sua ottimizzazione, a discapito della relazione con le persone, è sempre molto forte.

In sintesi, l’approfondimento deve percorrere l’analisi della natura e dello stile di lavoro dei Centri di Ascolto e degli Osservatori, che si delineano sempre più come strumenti nelle mani delle nostre comunità e perdono sempre più il loro carattere di servizio specialistico. La condivisione con la comunità e l’azione educativa all’interno della stessa, permette di ridare corpo e centralità all’azione di ascolto e di accompagnamento nel lavoro di promozione umana e di autonomia per l’uscita dai percorsi di assistenza.

Vale la pena di ritornare ora sui rapporti con le istituzioni e sui processi di partecipazione alla programmazione locale. Non si tratta credo di offrire dei servizi alla pari di altre associazioni o enti gestori del terzo settore, ma di rivisitare e ricostruire le reti intra-Caritas, per consolidare le reti intra-Comunità ecclesiale così da giungere, con responsabilità e consapevolezza, alla partecipazione alle reti di solidarietà della Comunità locale.

Un ultimo spunto nasce dal desiderio di dare capacità alle Comunità di non settorializzare i punti di vista, ma di aprirli al grande panorama della vita e dei suoi componenti per saper percepire ed accogliere con maggior accuratezza nei loro significati i problemi di povertà che di volta in volta emergono nelle nostre Comunità.

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E la nostra attenzione deve essere capace di riferirsi il più possibile alle povertà che toccano le persone più indifese, con minori tutele e garanzie che maggiormente ci interpellano nel nostro essere uomini e cristiani. Ciò ci porta a considerare – in linea generale – una possibile emergenza di povertà che attualmente poco o nulla ‘emerge’ attraverso il nostro lavoro di ascolto e di accoglienza: la crisi della famiglia e la poca e scarsa attenzione che viene posta attualmente dalle politiche sociali in termini di protezioni, garanzie e tutele, porta ad evidenziare gravi situazioni di abbandono educativo e relazionale per un numero sempre maggiore di minori, sia italiani che stranieri. Tale situazione è rilevata e presa in carico dai servizi solo nel momento in cui assume un rilievo di carattere giuridico – intervento del Tribunale per i minorenni – e non ha la possibilità di essere affrontata se non in termini di interventi e prestazioni prescrittive. I nostri Centri di Ascolto attualmente non hanno alcuna possibilità di intervento in tali contesti, se non nel momento in cui non si colleghino con funzioni di accoglienza e di accompagnamento per le famiglie dei minori, che tuttavia si presentano con altri tipi di richiesta di aiuto. In tal modo si perde l’opportunità di intervenire con maggiore tempestività, prevenendo situazioni di contrasto ed abbandono. Dovranno essere pensati percorsi ed occasioni per “entrare in contatto” direttamente con i minori, antecedentemente al momento in cui si trovino in tali situazioni. Ciò potrebbe essere favorito dall’avvio di relazioni operative e collaborazioni tra il Centro di Ascolto e le attività ed i servizi per i minori attivi all’interno delle nostre Comunità, con particolare riferimento a quelli di tipo ecclesiale (oratori, scuole per l’infanzia parrocchiali, ecc.). Questo, assieme ad altri, potrebbe essere un modo per creare sempre maggiori legami tra i Centri di Ascolto e le Comunità di riferimento, diventando veri e propri (pro)motori di reti locali della solidarietà.

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APPENDICE

Centri di ascolto coinvolti nel campione regionale

Diocesi Centri di Ascolto

Bergamo Centro di Primo Ascolto e Coinvolgimento Diocesano “Porta dei Cocci”

Brescia Centro di Ascolto Diocesano di Brescia

Como Centro di Ascolto Diocesano don Renzo Beretta Coordinamento servizi “Porta Aperta”

Crema Centro di Ascolto Migrantes Centro di ascolto “Casa della Carità”

Cremona Centro di Ascolto Diocesano Caritas Cremonese Lodi Centro di Ascolto Diocesano “Antonietta Boccalari “

Mantova Centro di Ascolto Servizi Accoglienza “C.A.S.A. San Simone”

Ambrosiana

Centro di Ascolto S. Maria del Suffragio – Milano Centro di Ascolto S.Agnese- Somma Lombardo Centro di Ascolto Decanale S. Nicolò – Lecco Centro di Ascolto S. Maria Assunta - Canegrate Centro di ascolto Decanale di Monza Centro di ascolto “il Faro” – San Giuliano Milanese Centro di Ascolto S. Stefano – Sesto S. Giovanni

Pavia Centro di Ascolto Diocesano di Pavia Vigevano Centro di Ascolto Diocesano “Don Tarcisio Comelli”

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Dati statistici raccolti dai Centri di Ascolto campione DATI ANAGRAFICI DELLE PERSONE ASCOLTATE/ACCOMPAGNATE

Distribuzione secondo la diocesi

Frequenza Percentuale BERGAMO 1.069 12,9 BRESCIA 202 2,4 COMO 1.044 12,6 CREMA 368 4,5

CREMONA 117 1,4 LODI 636 7,7

MANTOVA 1.326 16,0 MILANO 2.076 25,1

PAVIA 273 3,3 VIGEVANO 1.151 13,9

Totale 8.262 100,0

Distribuzione per classe di età Frequenza Percentuale

Validi minore di 15 anni 105 1,3 15 - 24 anni 695 8,4 25 - 34 anni 2.144 26,0 35 - 44 anni 2.355 28,5 45 - 54 anni 1.721 20,8 55 - 64 anni 844 10,2 65 e oltre 387 4,7 Totale 8.251 99,9

Mancanti Mancante di sistema 11 0,1 Totale 8.262 100,0

Distribuzione secondo il genere

Frequenza Percentuale non specificato 3 0,0

femmine 4.612 55,8 maschi 3.647 44,1 Totale 8.262 100,0

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Distribuzione secondo lo stato civile Frequenza Percentuale

non specificato 396 4,8 celibe o nubile 2.813 34,0 coniugato/a 3.536 42,8

Separato/a legalmente 547 6,6 divorziato/a 412 5,0

vedovo/a 370 4,5 altro 188 2,3

Totale 8.262 100,0

Distribuzione secondo il titolo di studio Frequenza Percentuale

Validi non specificato 416 5,0 analfabeta 74 0,9 nessun titolo 235 2,8 licenza elementare 1.065 12,9 licenza media inferiore 2.892 35,0 diploma professionale 911 11,0 licenza media superiore 1.121 13,6 diploma universitario 89 1,1 laurea 418 5,1 altro 944 11,4 Totale 8.165 98,8

Mancanti Mancante di sistema 97 1,2 Totale 8.262 100,0

Distribuzione secondo il tipo di cittadinanza

Frequenza Percentuale non specificato 2.695 32,6

apolide 1 0,0 cittadinanza italiana 1.188 14,4

cittadinanza non italiana 4.291 51,9 doppia cittadinanza 78 0,9

altro 9 0,1 Totale 8.262 100,0

112

Distribuzione secondo la nazione della cittadinanza Frequenza Percentuale

Validi non specificato 472 5,7 Afganistan 8 0,1 Albania 222 2,7 Algeria 62 0,8 Angola 4 0,0 Argentina 7 0,1 Armenia 3 0,0 Australia 1 0,0 Austria 2 0,0 Azerbaigian 1 0,0 Bangladesh 43 0,5 Belgio 2 0,0 Benin 12 0,1 Bielorussia 3 0,0 Bolivia 168 2,0 Bosnia-Erzegovina 3 0,0 Brasile 263 3,2 Bulgaria 58 0,7 Burkina Faso 47 0,6 Cambogia 1 0,0 Camerun 44 0,5 Ceca, Repubblica 5 0,1 Cile 3 0,0 Cina 3 0,0 Colombia 9 0,1 Congo 8 0,1 Congo, Rep. Dem. (ex Zaire) 4 0,0 Costa d'Avorio 212 2,6 Croazia 6 0,1 Cuba 6 0,1 Dominica, isola 2 0,0 Dominicana, Repubblica 34 0,4 Ecuador 403 4,9 Egitto 100 1,2 El Salvador 74 0,9 Eritrea 81 1,0 Estonia 1 0,0

113

Etiopia 22 0,3 Filippine 41 0,5 Francia 4 0,0 Gambia 1 0,0 Georgia 86 1,0 Germania 2 0,0 Ghana 90 1,1 Giappone 1 0,0 Grecia 2 0,0 Guatemala 1 0,0 Guinea 18 0,2 Haiti 2 0,0 Honduras 1 0,0 India 53 0,6 Iran 3 0,0 Iraq 21 0,3 Israele 2 0,0 Italia 1.362 16,5 Iugoslavia (Serbia-Montenegro) 12 0,1 Kenia 5 0,1 Lettonia 2 0,0 Libano 6 0,1 Liberia 13 0,2 Libia 1 0,0 Lituania 3 0,0 Macedonia 7 0,1 Madagascar 2 0,0 Malesia 1 0,0 Mali 9 0,1 Marocco 927 11,2 Mauritania 7 0,1 Maurizio-Mauritius, isole 4 0,0 Messico 2 0,0 Moldavia 167 2,0 Montenegro 4 0,0 Nepal 2 0,0 Nicaragua 3 0,0 Niger 1 0,0 Nigeria 179 2,2

114

Pakistan 26 0,3 Palestina, territori occupati 4 0,0 Paraguay 1 0,0 Perù 381 4,6 Polonia 41 0,5 Portogallo 6 0,1 Regno Unito 1 0,0 Romania 826 10,0 Ruanda 1 0,0 Russia 23 0,3 Sao Tomè e Principe 1 0,0 Seicelle, isole 2 0,0 Senegal 90 1,1 Serbia 19 0,2 Sierra Leone 7 0,1 Siria 6 0,1 Slovacchia 22 0,3 Slovenia 3 0,0 Somalia 23 0,3 Spagna 3 0,0 Sri Lanka 112 1,4 Sudan 14 0,2 Svizzera 1 0,0 Tanzania 1 0,0 Togo 54 0,7 Tunisia 304 3,7 Turchia 35 0,4 Ucraina 570 6,9 Uruguay 6 0,1 Uzbekistan 3 0,0 Venezuela 5 0,1 Zambia 1 0,0 Zimbabwe 1 0,0 Altro Stato 1 0,0 Totale 8.040 97,3

Mancanti Mancante di sistema 222 2,7 Totale 8.262 100,0

115

Distribuzione per possesso del permesso di soggiorno Frequenza Percentuale

Validi non specificato 2.141 25,9 si 3.381 40,9 no 1.794 21,7 in attesa 418 5,1 altro 229 2,8 Totale 7.963 96,4

Mancanti Mancante di sistema 299 3,6 Totale 8.262 100,0

Distribuzione secondo la dimora abituale

Frequenza Percentuale non specificato 2.333 28,2

ha domicilio 4.179 50,6 è senza fissa dimora 1.629 19,7

altro 121 1,5 Totale 8.262 100,0

Distribuzione secondo la condizione professionale Frequenza Percentuale

Validi non specificato 753 9,1 Occupato 1.199 14,5 Disoccupato/a 5.342 64,7 In servizio di leva o servizio civile 1 0,0 Casalinga/o 283 3,4 Studente 110 1,3 Inabile parziale o totale al lavoro 102 1,2 Pensionato/a 306 3,7 Altro 160 1,9 Totale 8.256 99,9

Mancanti Mancante di sistema 6 0,1 Totale 8.262 100,0

116

Distribuzione per appartenenza ad un gruppo nomade Frequenza Percentuale 4.998 60,5

NO 3.223 39,0 SI 41 0,5

Totale 8.262 100,0

Distribuzione secondo la tipologia di persone con cui vivono

Frequenza Percentuale Validi non specificato 1.123 13,6

Solo 2.029 24,6

In nucleo con

propri familiari o parenti

3.341 40,4

In nucleo con conoscenti o

soggetti esterni alla propria famiglia

1.541 18,7

Presso istituto, comunità, ecc.

130 1,6

Altro 67 0,8

Coabitazione di più

famiglie 26 0,3

Totale 8.257 99,9

Mancanti Mancante di

sistema 5 0,1

Totale 8.262 100,0

Distribuzione secondo il numero dei conviventi Frequenza Percentuale

Validi 0 5.470 66,2 1 795 9,6 2 701 8,5 3 585 7,1 4 340 4,1 5 197 2,4 6 77 0,9

117

7 21 0,3 8 8 0,1 9 3 0,0 10 2 0,0 11 3 0,0 12 1 0,0 13 1 0,0 14 1 0,0 Totale 8.205 99,3

Mancanti Mancante di sistema 57 0,7 Totale 8.262 100,0

Distribuzione secondo la convivenza con il coniuge/partner Frequenza Percentuale

Validi non specificato 2.992 36,2 Si, è convivente 2.180 26,4 No, non è convivente 2.961 35,8 Totale 8.133 98,4

Mancanti Mancante di sistema 129 1,6 Totale 8.262 100,0

Distribuzione secondo il numero di figli minori conviventi Frequenza Percentuale

Validi 0 6.365 77,0 1 879 10,6 2 593 7,2 3 230 2,8 4 67 0,8 5 34 0,4 6 7 0,1 Totale 8.175 98,9

Mancanti Mancante di sistema 87 1,1 Totale 8.262 100,0

118

Distribuzione secondo il numero di figli rimasti in patria Frequenza Percentuale

Validi 0 6.162 74,6 1 614 7,4 2 678 8,2 3 300 3,6 4 113 1,4 5 47 0,6 6 16 0,2 7 9 0,1 8 3 0,0 9 2 0,0 10 1 0,0 22 1 0,0 Totale 7.946 96,2

Mancanti Mancante di sistema 316 3,8 Totale 8.262 100,0

Distribuzione secondo il numero di figli minori rimasti in patria Frequenza Percentuale

Validi 0 7.021 85,0 1 448 5,4 2 293 3,5 3 117 1,4 4 43 ,5 5 14 0,2 6 4 0,0 7 1 0,0 9 1 0,0 Totale 7.942 96,1

Mancanti Mancante di sistema 320 3,9 Totale 8.262 100,0

119

BISOGNI

Freq.

% sul totale utenti

Abitazione precaria/inadeguata 186 2,25 Mancanza di casa 1081 13,08 Residenza provvisoria 736 8,91 Sfratto 96 1,16 Sovraffollamento 228 2,76 Altro - problematiche abitative 119 1,44 Arresti domiciliari 10 0,12 Detenzione 12 0,15 Libero con procedimenti penali in corso 8 0,10 Misure alternative alla detenzione 2 0,02 Misure di sicurezza 1 0,01 Altri provvedimenti restrittivi della libertà personale 6 0,07 Post-detenzione 69 0,84 Coinvolgimento in criminalità/devianza 6 0,07 Altro - detenzione e giustizia 14 0,17 Da alcool 97 1,17 Da droga 92 1,11 Da farmaci 10 0,12 Da gioco 11 0,13 Da tabacco 6 0,07 Ex-dipendente 37 0,45 Altro - dipendenze 4 0,05 Problemi familiari 68 0,82 Abbandono 8 0,10 Aborto 2 0,02 Allontanamento dal nucleo di membri della famiglia 41 0,50 Accoglienza parenti (visita detenuti, degenti, ecc.) 34 0,41 Assistenza sociale e sanitaria di conviventi/parenti 23 0,28 Conflittualità di coppia 99 1,20 Conflittualità con parenti 71 0,86 Conflittualità genitori-figli 73 0,88 Divorzio/separazione (anche di fatto) 292 3,53 Fuga da casa 14 0,17

120

Abbandono del tetto coniugale 11 0,13 Gravidanza/puerperio 117 1,42 Maltrattamenti e trascuratezze 30 0,36 Maternità nubile/genitore solo 93 1,13 Morte congiunto/familiare 25 0,30 Altro - problemi familiari 111 1,34 Handicap organico/fisico/sensoriale 81 0,98 Handicap psico-mentale 43 0,52 Altro - handicap/disabilità 13 0,16 Espulsione 32 0,39 Irregolarità giuridica 1224 14,81 Minore non accompagnato 2 0,02 Pagamento rimesse/mantenimento della famiglia di origine 94 1,14 Profugo/rifugiato 97 1,17 Richiedente asilo 61 0,74 Ricongiungimento familiare 37 0,45 Riconoscimento titoli 5 0,06 Tratta di esseri umani 6 0,07 Traffico di esseri umani 4 0,05 Altro - bisogni in migrazione/immigrazione 261 3,16 Abbandono scolastico 38 0,46 Analfabetismo 32 0,39 Problemi linguistici/scarsa conoscenza della lingua italiana 695 8,41 Ritardo e difficoltà scolastiche 4 0,05 Altro - problemi di istruzione 4 0,05 Cassa integrazione/mobilità 12 0,15 Disoccupazione 3896 47,16 Lavoro nero/lavoro minorile 403 4,88 Licenziamento/perdita del lavoro 293 3,55 Mobbing/molestie 4 0,05 Sottoccupazione (sfruttamento, lavori precari, gravosi, deq) 158 1,91 Altro - problemi di occupazione/lavoro 133 1,61 Accattonaggio 65 0,79 Indebitamento/cattiva gestione del reddito 109 1,32 Nessun reddito 2140 25,90

121

Povertà estrema (persona senza dimora, gravemente emarginata 149 1,80 Protesto/fallimento 7 0,08 Reddito insufficiente rispetto alle normali esigenze 2410 29,17 Indisponibilità economica rispetto ad esigenze straordinarie 208 2,52 Usura 3 0,04 Altro - povertà/problemi economici 15 0,18 Abuso sessuale/pedofilia 3 0,04 Maltrattamento (non in famiglia) 5 0,06 Problemi amministrativi, contabili, burocratici 26 0,31 Problemi psicologici e relazionali 147 1,78 Prostituzione 11 0,13 Solitudine 121 1,46 Altri problemi 95 1,15 Problemi di salute 9 0,11 Tumori 30 0,36 Malattie cardiovascolari 33 0,40 Demenza 8 0,10 AIDS/Sieropositività 25 0,30 Malattie infettive 14 0,17 Condizioni patologiche post-traumatiche 58 0,70 Malattie mentali 79 0,96 Altro - problemi di salute 327 3,96 Totale bisogni 17672 Totale persone 8262

122

RICHIESTE

Freq. % sul totale utenti

Alloggio 1 0,01 Pronta e prima accoglienza (ostello, dormitorio, tende ecc.) 984 11,91 Accoglienza in casa famiglia/comunità alloggio 75 0,91 Accoglienza in istituto/pensionato/casa di riposo 25 0,30 Accoglienza a lungo termine (casa, appartamento in affitto) 110 1,33 Accoglienza di parenti 4 0,05 Altro - Alloggio 23 0,28 Altre richieste/interventi 104 1,26 Ascolto (semplice/primo ascolto) 3032 36,70 Ascolto con discernimento e progetto 401 4,85 Altri tipi di ascolto 349 4,22 Alimenti e prodotti per neonati 91 1,10 Apparecchiature e/o materiale sanitario 16 0,19 Attrezzature, strumenti di lavoro 3 0,04 Biglietti per viaggi 162 1,96 Buoni pasto 40 0,48 Igiene personale, bagni/docce 774 9,37 Mensa 1282 15,52 Mezzo di trasporto 11 0,13 Mobilio, attrezzatura per la casa 292 3,53 Vestiario 2420 29,29 Viveri 2457 29,74 Altro - beni e servizi materiali 74 0,90 Coinvolgimento di gruppi di laici di volontariato 11 0,13 Coinvolgimento di persone o famiglie 12 0,15 Coinvolgimento enti privati o del terzo settore 124 1,50 Coinvolgimento enti pubblici 317 3,84 Coinvolgimento di parrocchie e/o gruppi parrocchiali 17 0,21 Altro tipo di coinvolgimento 6 0,07 Consulenza professionale 20 0,24 Consulenza professionale amministrativo-contabile 8 0,10 Consulenza professionale legale 191 2,31

123

Consulenza professionale psico-sociale 13 0,16 Altri tipi di consulenze professionali 7 0,08 Lavoro part-time 317 3,84 Lavoro saltuario, occasionale 35 0,42 Stagionale 9 0,11 Tempo pieno 1789 21,65 Altro tipo di lavoro 45 0,54 Orientamento 8 0,10 Orientamento a servizi socio-sanitari 112 1,36 Orientamento per esigenze abitative 82 0,99 Orientamento per pratiche burocratiche, legali 120 1,45 Orientamento per problemi familiari 18 0,22 Orientamento per problemi occupazionali/pensionistici 117 1,42 Altro tipo di orientamento 149 1,80 Analisi, esami clinici 89 1,08 Farmaci 182 2,20 Operazioni chirurgiche 9 0,11 Ospedalizzazione 2 0,02 Visite mediche 258 3,12 Altro - sanità 46 0,56 Corsi di formazioni professionale 4 0,05 Corsi di lingua italiana 76 0,92 Doposcuola/sostegno scolastico 1 0,01 Altro - scuola/istruzione 3 0,04 Affidamento familiare 3 0,04 Assistenza al nucleo familiare 3 0,04 Assistenza domiciliare 1 0,01 Compagnia 40 0,48 Trasporto/accompagnamento a servizi 14 0,17 Altro - sostegno socio-assistenziale 7 0,08 Sussidi economici 51 0,62 Sussidi economici per acquisto di alimentari 45 0,54 Sussidi economici per alloggio 98 1,19 Sussidi economici per pagamento bollette/tasse 236 2,86 Sussidi economici per spese sanitarie 55 0,67 Sussidi economici per altri motivi 222 2,69 Microcredito/prestito 43 0,52

124

totale richieste espresse almeno una volta 17745 totale utenti 8262 INTERVENTI

Freq. % sul totale utenti

Alloggio 1 0,0 Pronta e prima accoglienza (ostello, dormitorio, tende ecc.) 1078 13,0 Accoglienza in casa famiglia/comunità alloggio 43 0,5 Accoglienza in istituto/pensionato/casa di riposo 12 0,1 Accoglienza a lungo termine (casa, appartamento in affitto) 96 1,2 Accoglienza di parenti 1 0,0 Altro - Alloggio 17 0,2 Altre richieste/interventi 175 2,1 Ascolto (semplice/primo ascolto) 6326 76,6 Ascolto con discernimento e progetto 779 9,4 Altri tipi di ascolto 694 8,4 Alimenti e prodotti per neonati 241 2,9 Apparecchiature e/o materiale sanitario 9 0,1 Biglietti per viaggi 167 2,0 Buoni pasto 45 0,5 Igiene personale, bagni/docce 1498 18,1 Mensa 1797 21,7 Mezzo di trasporto 3 0,0 Mobilio, attrezzatura per la casa 247 3,0 Vestiario 3538 42,8 Viveri 5808 70,3 Altro - beni e servizi materiali 81 1,0 Coinvolgimento di gruppi di laici di volontariato 19 0,2 Coinvolgimento di persone o famiglie 24 0,3 Coinvolgimento entir privati o del terzo settore 189 2,3 Coinvolgimento enti pubblici 483 5,8 Coinvolgimento di parrocchie e/o gruppi parrocchiali 60 0,7 Altro tipo di coinvolgimento 3 0,0

Consulenza professionale 29 0,4 Consulenza professionale amministrativo-contabile 11 0,1 Consulenza professionale legale 318 3,8 Consulenza professionale psico-sociale 26 0,3 Altri tipi di consulenze professionali 10 0,1 Lavoro part-time 268 3,2 Lavoro saltuario, occasionale 19 0,2 Stagionale 1 0,0 Tempo pieno 1517 18,4 Altro tipo di lavoro 63 0,8 Orientamento 9 0,1 Orientamento a servizi socio-sanitari 306 3,7 Orientamento per esigenze abitative 119 1,4 Orientamento per pratiche burocratiche, legali 179 2,2 Orientamento per problemi familiari 27 0,3 Orientamento per problemi occupazionali/pensionistici 265 3,2 Altro tipo di orientamento 199 2,4 Analisi, esami clinici 80 1,0 Farmaci 252 3,0 Prestazioni infermieristiche 1 0,0 Operazioni chirurgiche 6 0,1 Ospedalizzazione 5 0,1 Visite mediche 503 6,1 Altro - sanità 52 0,6 Corsi di formazioni professionale 3 0,0 Corsi di lingua italiana 97 1,2 Doposcuola/sostegno scolastico 1 0,0 Altro - scuola/istruzione 1 0,0 Assistenza al nucleo familiare 1 0,0 Compagnia 55 0,7 Trasporto/accompagnamento a servizi 26 0,3

125

Altro - sostegno socio-assistenziale 9 0,1 Sussidi economici 86 1,0 Sussidi economici per acquisto di alimentari 85 1,0 Sussidi economici per alloggio 37 0,4 Sussidi economici per pagamento bollette/tasse 226 2,7 Sussidi economici per spese sanitarie 42 0,5 Sussidi economici per altri motivi 189 2,3 Microcredito/prestito 16 0,2 Totale 28573

126

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