Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per le province
di Catanzaro, Cosenza e Crotone
Il Natale
nelle
minoranze
etniche
calabresi
2017
Maria Luisa Albamonte, Pietro Frappi, Nella Infelise, Nicla Macrì,
Lucia Trotta
Cosenza – Piazza Valdesi, 13
Printed by Tipolitografia F.lli Benvenuto, Srl in Cosenza
Manoscritto completato nel mese di Dicembre 2017
1a edizione
La Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per le province di
Catanzaro, Cosenza e Crotone, o chiunque agisca in suo nome, declina ogni
responsabilità per l’uso dei contenuti della presente pubblicazione.
Cosenza – Ufficio promozione e Divulgazione – 2017
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Catanzaro, Cosenza e Crotone, 2017.
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o perché di pubblico dominio.
Si ringrazia:
Antonella Romeo del Comune di Bova (RC)
Pietro Lanza, parroco della Chiesa del Santissimo Salvatore di rito
greco-bizantino in Cosenza
Flavia D’Agostino, presidente proloco di Civita (CS)
Domenico Iacovo, presidente dell’associazione Gàrdia d'O.c di
Guardia Piemontese (CS)
Claudia Stamile, imprenditrice, Stuzzicherie di Calabria in Guardia
Piemontese (CS)
Prefazione
La recente riforma del MIBACT ha comportato, accanto
all’estensione dell’autonomia di alcuni grandi Musei e
Parchi archeologici e monumentali e alla costituzione di
Poli Museali regionali, l’istituzione di Soprintendenze
uniche, con funzioni prevalenti di tutela, educazione e
ricerca. Nelle intenzioni, una rinnovata attenzione è
prevista per i beni demoetnoantropologici, così notevoli in
Calabria: purtroppo a tale disegno non è finora seguito un
supporto economico di sostegno adeguato, mentre è stato
ora assegnato al nostro Ufficio un funzionario specifico.
Tuttavia la Soprintendenza di Cosenza, da me diretta, pur
tra le difficoltà organizzative che possono immaginarsi con
la costituzione di un nuovo Ufficio, ha voluto attivare
iniziative sinergiche che permettessero la conoscenza, la
tutela e la valorizzazione di un vasto patrimonio, pubblico
e privato, finora alquanto trascurato. E’ nata così
l’iniziativa della mostra “L’età dell’eleganza”, che ha
comportato la ricerca e l’esposizione di abiti prodotti o
utilizzati in Calabria nel corso dell’Ottocento, sia quelli
delle classi nobiliari e borghesi, che quelli popolari,
splendida espressione di un orgoglio locale calabrese
ancora oggi non del tutto scomparso. Ne è risultato un
quadro esaustivo della ricchezza e bellezza della
produzione artigianale e proto-industriale calabrese,
ancora oggi esistente, in forma piuttosto flebile, ma che
andrebbe sostenuta e incoraggiata.
Segue ora, in occasione del Natale 2017, in sequela di una
serie già molto notevole, questo quaderno, dedicato ai
molti e diversificati riti e tradizioni popolari del Natale.
Come è noto, la Calabria fu terra di popoli e culture
diversificati, per la sua posizione chiave che costituisce un
ponte fra Oriente e Occidente, a partire dalle radici italiche
e magno-greche, cui si sovrapposero i coloni romani e gli
interessi degli appaltatori e dei commercianti romani e
campani. Seguirono poi, come ora sappiamo dai miei studi
in corso di stampa sulla rivista “Temporis signa” 2017, la
deduzione, all’epoca e per iniziativa di Ricimero, alla metà
del V secolo, di milizie barbare ariane, con funzione anti-
vandalica. In epoca più recente vi fu, fino all’istmo
lametino, la penetrazione dei Longobardi, e poi lo sciamare
di monaci dall’area siro-palestinese e le incursioni arabe, e
il sovrapporsi della chiesa latina a quella, a lungo
prevalente, di rito greco. Più di recente, all’epoca di
Ferrante d’Aragona, lo stanziamento di albanesi cattolici di
rito greco e poi, nel Cinquecento, l’emigrazione in Calabria
dei Valdesi. Tutte queste vicende hanno lasciato tracce nei
culti, nei monumenti, e nelle tradizioni religiose e popolari,
queste ultime oggetto del presente quaderno, si spera,
augurale per le prossime attività della Soprintendenza.
Mario Pagano
Soprintendente
Archeologia, belle arti e
paesaggio per le province
di Catanzaro, Cosenza e
Crotone
Indice
Introduzione………………………………………………………………………….….. I
Calò Christòjenna a cura di Nicla Macrì ……………………………………….. 1
Natallet për Arbёreshët a cura di Maria Luisa Albamonte ……………… 9
Bon Deineal! a cura di Nicla Macrì ………………………………….……………. 17
Il Natale nelle minoranze etniche calabresi
I
Introduzione
Terra di Calabria: riti e tradizioni
a cura di Pietro Frappi
Sono molte le tradizioni perpetrate nel tempo in terra di Calabria.
Le molteplici etnie che popolarono e popolano le plaghe calabresi
hanno aggiunto, nel tempo, secondo il proprio Credo, tradizioni e
manifestazioni ormai schematizzate che costituiscono un vero e
proprio patrimonio antropologico che per eterogeneità e
particolarità etniche, risulta essere fra i più ricchi d’Italia. Alla
autoctona comunità calabrese, si affiancano la grecanica,
l’arberësche, l’occitana, l’ebraica per proseguire in tempi moderni,
alla rumena, araba ed africana.
Ci sono tradizioni spettacolari, quelle che tutti conoscono, quelle
dove partecipare anche da turisti e magari fotografare. Poi ci sono
quelle che conoscono in pochi, quelle a cui non tutti possono
partecipare e ancora meno fotografare, sono quelle tradizioni fatte
anche di luoghi della memoria, luoghi della possibilità, dove la
visione è processuale, intima, riservata, esclusiva.
Alle feste religiose si affiancano le tradizioni culinarie, contadine e
paesane, sparse in tutto l’arco dell’anno: il morzello di baccalà per
Introduzione
II
il venerdì santo a Catanzaro, il pranzo rituale dell’invito a San
Giuseppe a Guardia Piemontese, le frittole di maiale o “caddara” a
Catanzaro per il periodo natalizio, i “ginetti” di Roggiano Gravina in
occasione delle feste pasquali e la torta degli ziti tipici dolci dei
pranzi nuziali, la “mussulupa” tipico formaggio ellefone (Bova) da
accompagnare alla “lestopitta” ed ai “maccheroni al sugo di capra”
nei periodi pasquali più precisamente nella domenica delle Palme
quando a Bova si celebra il rito delle Pupazze. “A Gerocarne
(comune che dista circa 3 Km da Soriano Calabro) durante il rito in
onore di San Rocco i fedeli usavano acquistare Mostaccioli presso
le bancarelle per poi porli in casse di legno presso la Chiesa del
Santo. Infine i fedeli riacquistavano all’asta i Mostaccioli di Soriano
Calabro per poi consumarli. E ancora, come ricorda Martino Michele
Battaglia, docente presso l’Università degli studi di Messina, i
Mostaccioli di Soriano Calabro vengono usati dai fedeli anche come
ex-voto anatomorfi (braccia, seni, gambe, cuori, piedi, mani e così
via) in numerosi Santuari Calabresi e in tutto il Mezzogiorno spesso
eseguiti anche su commissione.” (Sergio Straface)
Nei festeggiamenti del Natale, i Calabresi rimangono legati al
classico, tutto inevitabilmente in famiglia, dal cenone del 24
Dicembre allo scambio dei regali, per non tradire il vecchio detto:
Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi. Nel Catanzarese a tavola
non devono mancare 13 pietanze, forse in riferimento ai 13
apostoli. A Cassano le pietanze devono essere 9, quanto i mesi
d'attesa di una gravidanza. Fervidi i preparativi con il supporto
anche dei vicini perché avere meno piatti in tavola non è di buon
Il Natale nelle minoranze etniche calabresi
III
auspicio. I piatti principali che si preparano sono: baccalà, broccoli,
spaghetti con le alici, con la mollica di pane abbrustolita, finocchi,
zucca fritta. E durante tutto il periodo natalizio, si consumano "i
cullurialli" o zeppole, delle tipiche ciambelle fritte. A Cosenza e in
Sila è immancabile sulle tavole la pasta 'mullicata con le acciughe.
Sempre nel cosentino è ancora d'usanza fare il pane di Natale "u
Natalisi". Si diceva che addirittura i morti si scomodassero per fare
il pane perché "a Pasqua e a Natali si susinu i morti a far u pani".
La sera della vigilia, la tavola si lascia apparecchiata con le pietanze
ancora nei piatti, in attesa che "u bomminiallu" (il Bambino Gesù)
venga a mangiare. A spasso per le vie si possono trovare anche gli
zampognari che suonano davanti ai presepi pregustando il vino e
le fritture che ogni padrone di casa offre loro come ricompensa.
Molti villaggi calabresi conservano costumi di origine greca e
romana anche per quanto riguarda le pratiche e i rituali di nozze.
L'usanza più antica riferita ai rituali di nozze è senz'altro quella del
matrimonio per ratto, derivata direttamente dalle consuetudini
spartane e latine, rivendicazione del diritto della forza e
documentata dalle pinakes di Locri, tavolette votive in terracotta
su cui è rappresentata la scena di Plutone che rapisce Proserpina.
Del matrimonio per ratto restano solo il ricordo di alcuni gesti
simbolici che compiva l'uomo per mostrare alla comunità e alla
famiglia della fanciulla, la sua assoluta intenzione di prendere
moglie. Era uso in molti villaggi che il pretendente si avvicinasse
alla ragazza nei giorni di festa, all'uscita dalla chiesa e con gesto
deciso togliesse dal capo il fazzoletto che le giovani usavano
Introduzione
IV
durante la funzione religiosa, tagliando con un coltello i nastri
dell'abito della ragazza. Questi gesti mostravano
inequivocabilmente alla comunità il diritto acquisito sulla promessa
sposa, tanto che la fanciulla veniva detta scapigliata o segnata, per
indicare l'appartenenza al giovane che aveva compiuto il rituale.
A Trebisacce e molti altri paesi dell'Alto Ionio era costume portare
il corredo in corteo festoso dalla casa della famiglia della sposa a
quella dello sposo: questa usanza è ancora viva nei paesi del
Magreb e rappresenta un momento di festa per l'intera comunità.
Nel banchetto, il giovane portava un canestro pieno di pane e
intonava un inno di auguri. Il corteo nuziale avveniva fra canti e
lancio di fiori e semi: quando la sposa giungeva sulla soglia della
sua nuova casa trovava ad attenderla la suocera che le offriva in
dono del miele, dei semi, della seta o gli strumenti del telaio,
simbolo del suo nuovo status e della sua nuova appartenenza.
Prima che si perdesse completamente l'uso del costume popolare,
le spose non portavano l'abito bianco, ma indossavano per le nozze
il costume della festa adornandolo con abbondanza di nastri e di
gioielli. Grande importanza aveva la cintura con cui la sposa legava
in vita il grembiule e il nodo con cui lo annodava drappeggiandolo
sul fianco sinistro, in maniera del tutto simile al nodus herculeus
dell'abito nuziale delle spose latine, nodo rituale che veniva sciolto
dallo sposo la notte delle nozze.
Sia i Greci che i Latini commemoravano i morti nel mese di
febbraio, il mese delle purificazioni, celebrando le Antesterie e le
Feriali, con offerte votive di cibo e vini sulle tombe, in questo
Il Natale nelle minoranze etniche calabresi
V
periodo era credenza che i morti uscissero dalle dimore dell'Ade e
vagassero ansiosi di cibo sulla terra; solo con offerte rituali,
banchetti e danze, i vivi potevano placare quelle anime e rafforzare
il loro legame con i morti.
I calabresi conservano memoria di questo antico costume nei
banchetti di carnevale dove, in molti paesi, si mangia e si beve in
suffragio delle anime dei propri morti; a Lago si usava ergere un
catafalco in ricordo dei trapassati intorno al quale venivano posti
pane, vino, uova e legumi.
Nei paesi di origine albanese ancora oggi si cuoce una focaccia di
forma particolare, bucata al centro, la pizzàtuglit, simile per forma
e funzione ai pani dei morti di cui parla Tucidide.
I rituali funebri ricordano molto da vicino le usanze antiche.
Quando una famiglia viene colpita da un lutto, si spegne il fuoco e
le donne sciolgono i capelli, mentre gli uomini restano col cappello
e non si rasano. La consuetudine del pianto delle prefiche era
comune in tutti i paesi della Calabria e ancora perdura in alcuni
villaggi: alcune donne erano chiamate per piangere intorno al
catafalco del morto e svolgevano la loro funzione a pagamento.
Anche fra i congiunti era importante che vi fossero delle aperte
manifestazioni di dolore, tanto che nella tradizione popolare si
tramandano vari canti funebri e lamentazioni che compiono le
donne parenti del defunto accompagnate dagli altri conoscenti che
partecipano al lutto.
Nella città di Bisignano le famiglie più legate alla tradizione usano
ancora porre accanto al cadavere un braciere in cui arde l'incenso,
Introduzione
VI
perpetuando un rituale di purificazione della casa e degli uomini
contaminati dalla morte, simile in tutto alla suffitio dei Romani.
Come presso gli antichi Greci, anche i calabresi danno una grande
importanza agli onori funebri e hanno grande orrore della loro
mancanza considerando che questo possa impedire la pace nel
regno dei morti. Per favorire l'ultimo viaggio e sconfiggere gli spiriti
maligni che erano nell'aria, gli antichi usavano percuotere con forza
su dei vasi di rame. Ovidio ricorda come per compiere il rituale si
dovessero percuotere l'uno contro l'altro dei bacili fabbricati a
Temesa, l'antica città mineraria calabrese. Col Cristianesimo la
tradizione originaria è stata sostituita dal suono delle campane che
più è intenso e prolungato, più è utile al defunto.
Ad Atene si usava tenere dei banchetti funebri il terzo, il nono e il
trentesimo giorno dalla morte, reputando che i giorni multipli di tre
potessero essere dei momenti di crisi e lo spettro potesse ritornare
nella casa che aveva lasciato; il consumo di cibo rituale allontanava
i pericoli di contaminazione con il regno delle ombre e assicurava
ai vivi la protezione del defunto che diveniva un antenato benefico
per la famiglia. La stessa consuetudine è viva in tutti i paesi della
Calabria, ma i banchetti rituali sono stati sostituiti dalle funzioni
religiose e dalla partecipazione all'Eucaristia. (Vivere Calabria)
Così come si celebra la morte, i calabresi d’etnia ebrea celebrano il
ritorno alla vita per la ritrovata libertà, sul finire del periodo estivo
i Rabbini delle diverse comunità ebraiche, con i loro payot o boccoli
laterali giungono a Santa Maria del Cedro per raccogliere
personalmente i “frutti dell’albero più bello”. Frutti da impiegare
Il Natale nelle minoranze etniche calabresi
VII
durante la festa del Sukkoth, la festa delle Capanne celebrata
durante la prima metà di Ottobre, e in particolare per preparare
il lulav da adoperare durante le preghiere.
Dopo la raccolta, ogni singolo frutto viene attentamente
ispezionato, e questo perché la tradizione ebraica prescrive che il
frutto sia “immacolato”, senza macchie, dalla forma conica, deve
conservare il peduncolo e soprattutto deve essere di una pianta
non innestata e preferibilmente al quarto anno di produzione.
Durante la festa del Sukkoth (festa che commemora
l’attraversamento del deserto per raggiungere Israele) gli ebrei
usano costruire capanne e preparare il lulav. Il lulav è formato da
un ramo di palma, due rami di salice e tre di mirto, infine un cedro
è posto sulla sua base e impugnato per essere agitato in diverse
direzioni.
Tradizioni e usanze prosperano dunque nell’ospitale terra di
Calabria, tramandate da una generazione all'altra, esse
costituiscono testimonianze vive di una cultura contadina legata
alla natura e alle stagioni, ai cicli della vita, ai riti ed alla devozione
religiosa.
Introduzione
VIII
Pane benedetto natalizio
Il Natale nelle minoranze etniche calabresi
1
Calò Christòjenna
a cura di Nicla Macrì
Assoluta, eterna, fatata, non pura rappresentazione estetica, ma
elemento palpitante, la bellezza assume in determinati luoghi una
tale espressione di potenza, quasi prepotenza, supremazia, una
spontanea concentrazione e concertazione di qualità e condizioni,
da catturare e dominare i nostri sensi, diventando incanto. La
Calabria custodisce in sé diversi territori con tali fattezze:
considerata nella sua totalità, l’“Area Grecanica” è uno di questi.
Gli occhi sono la guida istintiva, imparziale, sincera e sicura per
recepire tanta bontà, ammaliati, “aggrediti”, captati da
un’esposizione che obbliga all’attenzione, alla resa incondizionata
dello spirito, del riconoscere e riconoscersi parte dell’immensa,
generosa manifestazione di molteplici componenti: valli ai limiti
della praticabilità, rocce, paesaggi, specie in alcuni periodi
dell’anno, trascendenti da ogni materialità, ascese ardite, antichi
borghi arroccati incredibilmente, monasteri, ruderi di castelli
imperiosi e dominanti, e di contro, fiumare (Amendolea), cascate
(Colella, Puzzurrati, Maesano, quest’ultima in particolare, nota
meta del Parco Nazionale dell’Aspromonte) a compensare la
Calò Christòjenna
2
durezza della terra, con la levità di fluidi e colori come il verde
della vegetazione, come le infinite sfumature del mare rilucente di
toni accesi e tenui, verso cui, con progressiva dolcezza, rocce e
pendii vanno lentamente a digradare. Apertura degli occhi su diluvi
di luce.
Natale culla di luce, della “Luce del Mondo”, in tale contesto si
espande come eco vibrante tra spirito e materia. L’ Area Grecanica
si sviluppa per circa 500 kmq, custodisce storia, arte, cultura,
natura e paesaggio che, pur avendo subito ineludibili calamità
naturali e fenomeni di spopolamento, si sono come autoprotetti, a
causa di collegamenti assai difficoltosi, sia per percorribilità che per
situazioni climatiche proibitive in lunghi periodi dell’anno, tipiche
dell’entroterra aspro, come quell’ “Aspromonte”, fascinoso e
possente, in cui è immersa. Ne fanno parte diversi comuni, tra cui
Bagaladi, Bova, Condofuri, Melito Porto Salvo, Roccaforte del
Greco, Roghudi, cui vanno aggiunti i numerosi abitanti spostatisi
da queste zone verso Reggio Calabria, nelle località S. Giorgio
Extra, Modena, Arangea e Sbarre. Tutta l’area, quindi è un inno
sfavillante alla natura sovrana e caparbia, fissata nei toponimi che
ricordano di volta in volta, l’asprezza di cardi e dirupi, la forza dei
buoi, la dolcezza delle mandorle e della “bellezza che viene da Dio”,
avvolta nella storia e nel velo sottile di leggende e tradizioni. Luoghi
conservativi per loro stessa essenza e per necessità, ospitano da
tempi lontani comunità greche, considerato che la Calabria, per la
sua posizione geografica ha rappresentato punto essenziale di
Il Natale nelle minoranze etniche calabresi
3
collegamento ed approdo nelle svariate rotte che segnarono il
Mediterraneo.
Dal clamore delle fiorenti e potenti colonie della “Magna Grecia”,
nello snodarsi di una storia millenaria, spessa, costellata di arrivi,
allontanamenti e ritorni, com’è nella dinamica degli eventi, densa
d’arte, pensiero, religione, le presenze di Greci in Calabria
seguirono alterne vicende, di cui oggi rimane traccia nelle comunità
grecaniche, in luoghi, memorie, usanze, nella lingua. Il greco di
Calabria, anche grecanico, idioma attivo nella minoranza linguistica
greca d’Italia, era parlato in determinate parti della Calabria
Meridionale fino ai secc. XV e XVI e secondo alcuni studiosi
potrebbe avere una matrice ellenistico-bizantina, e per altri, basti
pensare a Gerhard Rohlfs, il grande “Maestro di Grecanico”, essere
discendenza del greco parlato nella Magna Grecia, conservando
parole sconosciute che potrebbero risalire finanche al periodo
dorico. Il grecanico sopravvive ed è ancora parlato, specie dagli
anziani, pur se in una dimensione familiare, a Bova, Chorio di
Roghudi, Roccaforte del Greco, Gallicianò di Condofuri che
comprende nel suo territorio la maggior presenza di parlanti la
lingua greca di Calabria è per questo è considerata l’” Acropoli”
dell’area, mentre Bova ne è la capitale e Motta S. Giovanni ne è la
porta d’accesso.
Tratti comuni si ritrovano nei vari riti natalizi conservati nella
memoria ed alcuni ancora praticati, comunque da mettere in
relazione con l’importanza che canto e danza hanno per le
Calò Christòjenna
4
comunità grecaniche, tanto da scandire gli avvenimenti importanti
della vita, ed intesi come mezzi di comunicazione, socializzazione
ed occasione, in particolare per la danza, di mostrare destrezza e
capacità per gli uomini, garbo nel portamento e bellezza del corpo
per le donne.
Varie sono le rappresentazioni dei presepi viventi: a Bova, nel
Borgo di Pentedattilo ed a Bagaladi, dove, da segnalare
particolarmente, ogni anno, dal 26 dicembre al 6 gennaio si tiene
la rappresentazione di uno splendido presepe composto da oltre
200 figuranti, esteso per tutto il paese ed arricchito da musiche
natalizie eseguite con ciaramelle, organetti e tamburelli,
unitamente ad esposizione di vecchie usanze artigiane e contadine
e degustazione di pane caldo, frittole e crespelle. In molti paesi, ed
in parte è ancora attivo, sin dai primi giorni di dicembre si
eseguivano nel corso della giornata, musiche di Natale con le
“ciarameddhe” ed ogni giorno, a partire dal 16 dicembre, dalle
quattro del mattino si celebravano messe.
L’usanza delle “ninarelle” ancora presente a Bova ed a Motta S.
Giovanni, con qualche variante nel testo, prevede che nei giorni
della novena, precedenti il Natale, i bambini si rechino di casa in
casa, cantando una novena diversa per ogni giornata, con
l’accompagnamento di uno “strumento” artigianale costituito da
campanelli legati con nastri e lembi di stoffa ad un cerchio di legno,
spesso ricavato da un vecchio setaccio (crivo). I testi delle ninarelle
sono semplici ed armoniosi: ad esempio, nel 1° giorno- “Novi iorna
Il Natale nelle minoranze etniche calabresi
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di noveni/ novi iorna di diurnati/ e li diuni chi faciti/ oh a Maria ‘nci
prusintati”; nel 2° giorno “Sutta un pedi di nucilla/ c’è na bella
nachicella/ pi ‘nnacari lu bambinu/ oh San Giuseppe e San
Giacchinu/; nel 7° giorno, riferita alla “luce” “Luci, luci bella stella/
pi la via di Galilea/ l’angiuleddhi sunnu partuti/ oh pi rrivari lu
Messia”; nell’ultimo giorno: “Chi ‘iurnata d’alligrizza/ tuttu u
mundu è cuntintizza/ cuntintizza di pasturi/ pirchì nasciu nostru
signuri”. Alla fine dell’ultima ninarella è previsto che i bambini
posino davanti alle case i tamburelli con la richiesta di doni (noci,
frutti, dolci, qualche soldino).
Altra usanza è quella dei “cathamini” (ogni mese), consistente nella
previsione, osservando le condizioni del tempo, ogni giorno dal 13
al 24 dicembre, di come sarà il tempo nei 12 mesi dell’anno
successivo. La notte della vigilia, dopo la messa di mezzanotte,
rituale ancora presente, molte persone accendono dei pezzi
d’abete, portati come fiaccole per illuminare il cammino, con cui si
va di casa in casa, cantando una “ninarella” ed accettando un
bicchiere di vino, in segno d’augurio. Alle fiaccole possono far
seguito veri e propri falò accesi nelle piazze principali, contornati
da canti e danze. La mattina di Natale, consuetudine prevede che
i bambini si rechino in visita presso i nonni ed i padrini per far loro
gli auguri, recando con sé le “cirmùddhe”, sacche da riempire con
i doni ricevuti.
Le varie usanze citate sono state oggetto di un meritorio progetto
di recupero dei beni culturali del paese, organizzato dal Comune e
Calò Christòjenna
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dall’Associazione Proloco di Motta S. Giovanni con la collaborazione
dell’allora Soprintendenza per i Beni Archeologici della Calabria, in
Reggio Calabria, dal titolo “Dicembre all’Antiquarium”, svoltosi dal
13 al 28 dicembre 2014, presso l’Antiquarium di Leucopetra.
Altra usanza, ancora presente in alcuni luoghi è la sfilata, per le
strade di vari paesi, nel giorno di Natale, di pastori, annunciati dal
suono di campanacci e tamburi, insieme alle proprie capre, mucche
e con asini al seguito, bardati a festa, per chiedere, bussando alle
porte delle varie case, qualche dono (cibo, dolci, soldi) che, chi
desidera, pone nelle ceste di vimini legate, quale soma, sugli asini.
Il pasto della vigilia, nel ricordo della tradizione, è ricco di pesce,
dolcetti fritti con impasto di patate, frittelle lievitate e fritte nell’olio
con acciughe e zucchero a Motta S. Giovanni; la “carni di poveri”,
“i ciciari zukkarati” con procedimento di cottura nella sabbia per
essere, ancora caldi, avvolti nello zucchero, le “zzippùli” (Zeppole)
e i “curùnesci”, frittelle di pasta dolce, a Condofuri; i “pretali”, dolci
con fichi, mandorle, noci, miele e vino cotto, la “pignolata” e i
Preparazione dei "Pretali" "Pretali"
Il Natale nelle minoranze etniche calabresi
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“nacatuli” a Bova (e non solo) ed ovunque abbondanza di
mandorle, arance, fichi, fichi d’india.
Il periodo natalizio e la vigilia sono naturalmente allietati da canti,
tra i quali, diffuso in Calabria, con precise attestazioni nel reggino
(S. Martino di Taurianova, Laureana di Borrello), nel vibonese (Vibo
Valentia, Dinami, Tropea, S. Onofrio) e nel catanzarese
(Guardavalle), recante alcune varianti testuali, è “Allestitivi, cari
amici”, dolce ed armonioso: “Allestitivi, cari amici,/ che su Jorna di
Natali,/ o chi festa, o chi trionfali/ gloria Patri!”, “Risplendenti chi
siti a li Celi/ risplendenti chi siti a la grutta,/ risplendenti pe’ ll’aria
tutta/ ch’è maiestosa”. E che dire della disarmante semplicità di un
canto tramandato in Aspromonte “A mezzanotti nesciu nostru
Signuri/ scuru ca facie ‘nta ‘na gruttella/” ed in altra strofa “n’
Angiulu di lu Celu scindiu’nterra/ e cantau lu nostru Ddiu la
ninnarella”.
Il nostro grande conterraneo Corrado Alvaro affermò, riferendosi
all’Aspromonte, “E’ una vita alla quale occorre essere iniziati per
capirla, esserci nati per amarla, tanto è piena, come la contrada,
di pietre e di spine”, percepibile, per chi ne è all’esterno, nel senso
di pienezza e fierezza impresse in cose, persone, natura. Ed è
proprio su tanta pietra, su tanta spina, che arriva dolcissimo il
Natale, aiutandoci a ritrovarci e riconoscerci in memorie e
gestualità comuni, con la levità di un’Immensa Luce, che,
strappandoci alla freddezza del buio, illumina il mondo.
Calò Christòjenna
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Bivongi (RC) – Monastero di San Giovanni Theristis
Il Natale nelle minoranze etniche calabresi
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Natallet për Arbёreshët
a cura di Maria Luisa Albamonte
A partire dalla seconda metà del ‘400 ci fu una notevole
immigrazione di albanesi verso le regioni meridionali, sollecitati da
Alfonso I d’Aragona, che si serviva di questa popolazione, costituita
per lo più da soldati di ventura, per rafforzare le proprie truppe. E’
con l’arrivo di Giorgio Castriota Scanderbeg (Gjergj Kastrioti
Skënderbeu in albanese), in aiuto degli Aragonesi contro gli
Angioini, che il fenomeno assume notevole rilievo. Molti dei soldati
giunti al suo seguito, decisero di stabilirsi sulle nostre terre e
soprattutto dopo la morte di Scanderbeg nel 1468, quando le forze
dell’Impero Ottomano presero il sopravvento, gli Albanesi
preferirono l’esilio alla servitù. Questo spiega come l’esodo verso il
Sud della nostra penisola non fu una emigrazione di gruppi
sbandati e disorganizzati, ma un vero e proprio trasferimento di
una popolazione decisa a conservare i propri caratteri culturali e
religiosi. Caratteristici e originali, gli arbëreshe costituiscono
ancora oggi, un patrimonio antropologico-culturale e architettonico
urbanistico molto ricco.
Natallet për Arbёreshët
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L’evento centrale del ciclo delle festività invernali è il solstizio
d’inverno, che segna il momento del ritorno del sole, presupposto
della rigenerazione periodica della natura, che culmina nella
primavera. Per questo motivo esso fu celebrato da tempo
immemorabile da tutte le religioni e reinterpretato
successivamente dal Cristianesimo come Natività di Gesù Cristo,
luce del mondo.
La maggior parte delle ritualità folkloristiche di questo periodo, che
conservano tracce di culto religioso e festeggiamenti antichissimi è
concentrata per gli arbëreshe intorno al Natale.
Gli Italo-Albanesi di Calabria della Eparchia di Lungro, Diocesi della
Chiesa Cattolica, di osservanza bizantina, si preparano alla festa
della nascita di Gesù Cristo, con un periodo di quaranta giorni,
chiamato Quaresima di Natale, che inizia il 15 novembre e si
conclude il 25 dicembre.
Le ufficiature liturgiche di questo periodo presentano, con forme
letterarie belle e nello stesso tempo contrastanti, una serie di
personaggi e di figure che riepilogano l’attesa fiduciosa e la miseria
dell’umanità. La preparazione della celebrazione dell’evento si
intensifica nelle due domeniche precedenti il Natale. Gesù, Figlio di
Dio, per incarnarsi non disdegna la meschinità umana, non crea un
corpo nuovo, speciale, ma prende il corpo medesimo dell’uomo,
infirmato nel peccato e assoggettato alla morte.
In questo tempo liturgico gli inni presentano la Vergine Maria che
si dirige verso la grotta per partorire, Ella invita la terra tutta a
Il Natale nelle minoranze etniche calabresi
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coinvolgersi nella danza della festa per la bellezza che avrà
l’umanità redenta.
Dal 20 dicembre iniziano i giorni della proeorthia (pre-festa) e la
preparazione diventa più intensa in tutti gli uffici della preghiera e
si canta nell’antica lingua greca il tropario: Preparati, o Betlemme,
a tutti si apre l’Eden; esulta o Èfrata, poiché nella grotta sta per
fiorire dalla Vergine l’albero della vita. Il di lei seno appare come
un giardino spirituale, nel quale germoglia il frutto divino, e noi
mangiandone vivremo e non morremo come Adamo. Cristo nasce
per rialzare la decaduta immagine dell’uomo.
La vigilia della festa è caratterizzata dalle “Grandi Ore”, uffici
speciali che si ritrovano solamente alla vigilia dell’Epifania e il
Venerdì Santo e che solennizzano ulteriormente il tempo
dell’attesa. Si continua con il Vespro e la Liturgia di San Basilio.
Tempo di attesa e di digiuno, per prepararsi al degno incontro con
la Luce che illumina, l’acqua che toglie la sete, il cibo superiore ad
ogni altro cibo, per ricevere il quale si è disposti a rinunciare a
qualsiasi cosa.
Gli inni della festa, nella esecuzione e nell’ascolto del canto
(kalimere), uniscono i fedeli nella preghiera degna da elevarsi a
Dio per la somma misericordia e trovano completamento nella
iconografia del Natale.
Natallet për Arbёreshët
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Chiunque si avvicina all’icona del Natale o canta gli inni di festa
viene invitato a rendersi partecipe dello stupore e della gioia degli
angeli, piegando la mente, con umiltà, come i magi, di fronte a ciò
che la mente ritiene impossibile e ad unirsi al canto di gioia dell’inno
Natività – Icona della Chiesa Santissimo Salvatore in Cosenza
Il Natale nelle minoranze etniche calabresi
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natalizio: I Ghènnisis su, Christèo Theòs imòn, *anètile to kòsmo*
to fòs tis gnòseos; *en aftì gar i tis àstris latrèvondes *ipò astèros
edhidh°skondo *se proskinìn* ton Ilion tis dhikeosìnis, * ke se
ghinòskin ex ìpsus * Anatolìn. Kìrie, dhòxa si. (La tua Natività, o
Cristo Dio nostro, fece spuntare nel mondo la luce della verità. Per
essa infatti gli adoratori degli astri vennero ammaestrati da una
stella da adorare Te, sole di giustizia, e a riconoscere Te aurora
celeste; o Signore, gloria a Te).
Le feste tradizionali tendono a scomparire, facendo sì che con loro
scompaiano in molti paesi arbëreshe, anche le feste religiose,
tradizioni profane e i canti a esse legati. Si può comunque dire che
presso gli albanesi d’Italia, la maggior parte delle usanze annuali
hanno valore sia dal punto di vista teologico che popolare. Le
cerimonie si succedono secondo il calendario solare. Presso molte
comunità arbëreshe sopravvivono ancora oggi riti particolari che il
popolo tuttora rispetta.
Il Natale richiama alla riconsacrazione degli affetti e dei legami ed
è il momento in cui il popolo si abbandona più liberamente alla
frivolezza.
Gli Albanesi d’Italia sono ricchi di tradizioni popolari oltre che
religiose; si rivivevano e si rivivono per l’occasione antiche usanze
tramandate da secoli, tra cui quella di imbandire la tavola avendo
cura di offrire ai commensali non meno di tredici pietanze,
probabilmente in riferimento alla cena degli apostoli.
Natallet për Arbёreshët
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A San benedetto Ullano si usa preparare dei pani che raffigurano
pupazzetti in curiosi atteggiamenti rappresentanti Capodanno e
l’Epifania (Kapudhani e Befania). La sera della vigilia nei paesi della
zona del Pollino si metteva ad ardere nel camino un grosso ceppo
(Kucari) che si era conservato per l’occasione. Ma in quella sera
bisognava lasciare la mensa imbandita, perché si credeva che Gesù
visitasse la casa.
A Frascineto, nell’ebbrezza della festa i fanciulli solevano cantare:
“La notte di Natale galli e galline vanno per danze” e si credeva che
non solo gli animali parlassero, ma anche gli alberi fiorivano e
davano frutti, che scorrevano dai fiumi olio, miele e le fontane e gli
oggetti mutavano in perle e oro. A San Benedetto Ullano, Santa
Sofia, Caraffa di Catanzaro, Pallagorio, la vigilia di Natale la piazza
principale del paese diventava il focolare di tutti (Vatra Katundit),
intorno al quale, dopo la cena, la comunità si riunisce per aspettare
tra canti e balli la messa di mezzanotte. Tutti i paesani
concorrevano a dare un po’ di legna dalla propria riserva affinchè
il fuoco riuscisse bene. La sera della vigilia verso le sei in chiesa si
radunava il popolo per la celebrazione del vespro con la lettura del
vecchio testamento che predice la nascita del Redentore. Uscendo
dalla chiesa si dava fuoco alla grande catasta di legna; attorno a
esso, dopo il cenone si radunavano Karramunxa e tamburelli.
Secondo la credenza popolare il fuoco veniva acceso per il Bambino
che nato in una fredda mangiatoia si sarebbe riscaldato con il
fuoco, che assumeva un sacro significato. Anticamente si andava
a raccogliere la cenere e si conservava nelle case, poi quando si
Il Natale nelle minoranze etniche calabresi
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scatenava qualche tempesta che poteva rovinare la campagna la
si spargeva per aria e la tempesta sarebbe dovuta cessare.
A Caraffa il fuoco veniva acceso verso le 22,00 e i balli e i canti
intorno a esso andavano avanti fino all’alba, tanto che per i tre
giorni consecutivi l’area intorno al fuoco simbolo del mutare delle
cose, diventava il centro della vita del paese.
A Falconara si formava un corteo che a lume di candela con in testa
gli zampognari si dirigeva in chiesa, spari di fucili completavano lo
stupendo spettacolo folkloristico.
Un’altra consuetudine è quella di prendere nota, dal 13 al 24
dicembre, delle condizioni climatiche; ogni giorno equivale ad un
mese dell’anno successivo corrispondente alle condizioni
metereologiche che si sono verificate in quei giorni.
La tradizione culinaria presso gli arbëreshe, durante il periodo
natalizio, prevede la preparazione di dolci: krustulë, kanalleta,
bukunote, petulla.
Anche l’Epifania viene festeggiata con la stessa solennità del
Natale, resistono ancora antiche usanze: durante la notte
dell’Epifania bisognava, secondo le credenze popolari, pensare
anche agli animali che erano nelle stalle e dar da mangiare anche
a loro, perché potevano parlare come racconta una leggenda, nella
quale si narra che un uomo a mezzanotte passò vicino a una stalla
e sentì le bestie che si lamentavano per il modo in cui le aveva
Natallet për Arbёreshët
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trattato, ma solo per averle ascoltate, durante la notte sarebbe poi
morto.
Nella maggior parte delle comunità arbëreshe l’Epifania ripropone
il battesimo di Gesù, dopo la messa era ed è consuetudine recarsi
in processione verso la fontana pubblica per la benedizione
dell’acqua da parte del sacerdote.
Chiesa del Santissimo Salvatore - Cosenza
Il Natale nelle minoranze etniche calabresi
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Bon Deineal!
a cura di Nicla Macrì
Natale è storia di luce, stelle, cielo. Dal cielo, imprendibile, non
assoggettabile a misurazioni spaziali e temporali, così sfuggente a
criteri di quantificazione e materializzazione, si muovono immagini,
sensazioni, comunicazioni che mirabilmente ed inaspettatamente
accostano e fondono pensieri, percezioni, idealità, nutrimento della
sentimentalità umana. Dal cielo, prorompente ed avvolgente
provengono segni, elementi, colori che paiono trasferire,
“sottrarre” a tanta potente rarefatta evanescenza, il Natale,
magico, sacro, divino per trasferirlo e consegnarlo alla terra, agli
uomini.
Natale è evento di luce. È preceduto nel calendario gregoriano dalla
Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria, ricorrenza che
fa da battistrada alle festività natalizie, giorno in cui nelle case si
dà inizio all’allestimento dell’albero e del presepe ed alla
preparazione di tipiche pietanze che si riproporranno anche per la
vigilia natalizia. È anticipato da quella che è la vera e propria porta
aperta sui festeggiamenti natalizi, legata al solstizio d’inverno del
calendario giuliano, la festa di Santa Lucia Vergine e Martire che
Bon Deineal!
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ricorda la Santa, martorizzata con l’asportazione degli occhi e la
decapitazione, protettrice, a pieno titolo, della vista, oggetto di
grande devozione, al centro di riti assai diffusi, tutti convergenti
nel celebrare la luce, segno di vita e rinascita. Si pensi alla Svezia
dove la Santa è reputata la “Regina della Luce”, considerato che il
13 dicembre, data della ricorrenza, segna il ritorno della luce, nel
superamento del giorno più corto dell’anno, ed è salutata con
processioni guidate da ragazze che impersonano Lucia, e affollate
da bambini, tutti rigorosamente vestiti con tuniche ed abiti bianchi,
con in mano candele accese e con corone di candele elettriche
poste in testa; si pensi all’imponente processione della statua
argentea reliquiario della Santa, a Siracusa, sua città natale,
sorretta da fortissima vibrante partecipazione popolare e costellata
da accensione di ceri e fuochi d’artificio, e si pensi anche alle
singole espressioni di devozione sparse per varie città italiane, tra
cui la nostra amata Cosenza, dove per l’intera giornata del 13
dicembre vengono celebrate messe ed accese candele in segno di
ringraziamento, nella piccola chiesa dedicata alla Santa, ubicata in
un vicolo del centro storico. Ed ancora antesignano del Natale è,
non a caso, il solstizio d’inverno foriero della crescita quotidiana
della luce e del progressivo lento accorciarsi e sfinire del buio.
Su tutti questi eventi prorompe la vivida luce della cometa, la stella
di Betlemme per indicare la nascita di Gesù, annunciata sempre da
una creatura celestiale, l’Arcangelo Gabriele. Luce, contro le
tenebre, del manifestarsi agli uomini del bambino scansato a
ricerche affannose e vicende drammatiche, il figlio di Dio, luce –
Il Natale nelle minoranze etniche calabresi
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guida dell’umanità che adulto, rivelerà <<Io sono la luce del
Mondo, chi segue me non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce
della vita>> (Giov., 8,12), <<Finchè sono nel mondo, sono la luce
del Mondo>> (Giov. 9,5).
Natale avvolge con la sua grande luce la storia, il mondo che ne
mutua ed assorbe significati, miscelandoli con riti e culture
provenienti dalle più ampie latitudini. La Calabria, con la sua
grande comunità cristiana, ricca di variegate bellezze naturali, così
spiccate e copiose, tali da conferirle, tra le altre, una dimensione
potentemente spirituale, non poteva non essere luogo di
attenzione, accoglienza, celebrazione del Natale con riti ed usanze
che risentono di energie comuni che popolano il pianeta, che si
accostano, incontrandosi, a volte scontrandosi, per ritrovarsi e
riconoscersi in gestualità, movenze, parole, un’altalena della
memoria - immagine. Ad un’osservazione attenta si nota come riti
ed usanze natalizie (e non solo) delle minoranze etniche e
linguistiche presenti nel nostro territorio regionale, tra cui la
comunità occitano valdese di Guardia Piemontese, in provincia di
Cosenza, si siano armonizzate con quelle della popolazione
calabrese.
I seguaci del Valdismo, movimento di pensiero e religioso così
denominato, secondo tradizione, da Valdo di Lione,
rappresentazione simbolica di una continua “fuga in Egitto”, ebbero
sorte assai travagliata. In contrasto con la Chiesa Cattolica, e per
non essersi attenuti al divieto di predicazione evangelica, furono
Bon Deineal!
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scacciati da Lione e cercarono riparo tra la Francia meridionale e
l’Italia Settentrionale, in Lombardia e Piemonte, nelle valli alpine di
Chisona, Pellice e nella Val d’Angrogna ed in seguito, per ovviare a
situazioni d’impoverimento, si spinsero in Puglia ed in Calabria: S.
Vincenzo La Costa, Rose, Montalto Uffugo, Guardia Piemontese,
“La guardia” che da loro estese la denominazione in “Piemontese”
furono le località in cui si stabilirono dedicandosi ad agricoltura,
pastorizia, eccellendo nell’arte della lavorazione di seta, lana,
cotone, canapa e ginestra. A Guardia, cittadina gemellata dal 1981
con il comune di Bobbio Pellice, in provincia di Torino, di forte e
nutrita presenza valdese, fu attuata la tragica strage del 5 giugno
1561, ricordata, a perenne memoria, dalla Porta del Sangue, non
certo la prima cui furono sottoposti i Valdesi in secoli di cruente
persecuzioni a loro danno.
Porta del Sangue
Guardia Piemontese (CS) (Archivio Storico Fotografico, SABAP-CS)
Il Natale nelle minoranze etniche calabresi
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L’asse ideale Occitania – valli piemontesi - meridione d’Italia è
quindi quello attraverso cui hanno circolato e sono state
trasportate idee, cultura, usanze, avvolte in una comune matrice
intellettuale e religiosa.Provenienti dalla Provenza, mutuati nelle
valli Piemontesi, e tra gli Occitani d’Italia sono riconoscibili riti con
ampi richiami tra loro. La tradizione tipica natalizia occitana
contempla il presepio detto “Betelen” o “Bèlem”, dal nome di
Betlemme. In proposito numerosi ed interessanti gli affreschi sulla
Natività presenti in diverse località delle valli occitane (Sampeyre
in Val Varaita, Marmora in Val Maira), pregevoli opere pittoriche
ricche di simbologia.
La Messa di mezzanotte, risalente al V secolo, è preceduta dalla
veglia, ”contenitore” di rappresentazioni sacre, musica, con antichi
canti sulla Natività, i Novè, riservati inizialmente solo agli
ecclesiastici, ed in seguito diffusi tra la popolazione. Una nota laude
del XVI secolo, cantata e tramandata nella comunità cuneese,
Rielaborazione grafica di un affresco delle valli occitane
raffigurante la Natività
Bon Deineal!
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recita la gloria della Nascita “Venite lieti pastori/ venite alla
capanna/ a sentire cantare gloria ed osanna/ troverete giacere sul
fieno chi ha creato il cielo e la terra/ alla gioia apriamo il cuore/ il
Natal del Salvatore/ solleciti venite con amore/ nel ciel vedrete
lucente una stella”.
Altra tradizione tipica degli occitani di Piemonte è ricordare
Gelindo, il primo pastore che si narra accorse ad adorare Gesù
appena nato, offrendogli un piccolo agnello: così nelle valli occitane
ed in Provenza un pastore si presenta alla messa di Natale con gli
abiti da lavoro, portando una candela ed un piccolo agnello in
offerta al prete, accompagnato dalla musica di flauti e tamburi. La
cena della Vigilia, opportunità per variare, un’alimentazione che in
altri tempi, in contesti di vita essenziale, si articolava in maniera
piuttosto scarna, è abbondante, a base di “maigre” con esclusione
della carne rossa, prevede “lo merluç”, e “lo capon” un tempo
preferito dai nobli e dai ricchi e “las binhas abo la crama, o lo pan
de farina de melha pastandeaa abo lo lach e qualque grana de
fenolh sarvatge”. Ancora nel cibo consuetudini tipiche della
Provenza mutuate nelle valli occitane, con la preparazione dei 13
dolci di Natale, raffiguranti Cristo ed i 12 apostoli, disposti in tavola
contemporaneamente, da assaggiare per scacciare il maligno e
quale segno augurale, a ricordo dei quattro ordini religiosi
mendicanti, a base di noci e nocciole, simbolo degli Agostiniani,
fichi secchi per i Francescani, mandorle per i Carmelitani, uva passa
per i Domenicani, il tutto di corredo alla Focaccia d’Arles, detta
“pompa a l’oil” o “gibassiè”, un pane simbolo del Cristo, simile ad
Il Natale nelle minoranze etniche calabresi
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una ruota a quattro raggi, da non tagliare, ma rompere a mano
come l’ostia. Tutto servito alla fine del “Gros Souper”, pasto magro,
ma abbondante costituito da sette portate, a ricordo delle sette
piaghe di Cristo.
Tra i riti natalizi occitani, le persone anziane ricordano le questue
fatte di casa in casa, sia da poveri che da abbienti, in segno di
umiltà o l’usanza delle donne di filare, tra Natale e Santo Stefano,
un po’ di lana per creare una croce disposta quale adorno sulle
mantelle, benaugurante e protettiva.
In tali varie usanze circola un’emozionalità vicina a quella delle
tradizioni natalizie calabresi: la partecipazione alla Messa di
mezzanotte, la cena della Vigilia con tredici portate ed a base di
pesce ed i “cuddureddi” preparati per l’Immacolata e come pasto
Natale in famiglia
Bon Deineal!
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diurno della vigilia di Natale; il pane di Natale calabrese, ricco di
decorazioni a strisce ed a croce fatte con l’impasto di farina; i dolci,
come la “pitta ‘mpigliata”, infarcita di uva passa, miele, noci, pinoli;
alla strina natalizia che propone comunque, pur riverente, festosa
e cantata, una richiesta d’accoglienza ed offerta “Senza essere
chiamati simu vinuti/ oi simu vinuti/ ari patruni avia i bon truvati/
chini di gintilizza e curtisia; Sentu lu strusciu di lu tavulinu/di lu
tavulinu/ è u patruni ca pripara u vinu; Sento lu strusciu di la
tavulata/ di la tavulata / è a signora ca porta a suprissata/ è a
signora ca porta a suprissata; Sento lu strusciu di la cascitella/ di
la cascitella /chisti su i guagliuni ca piglianu a custatella/ chisti su
i guaglioni ca piglianu a custatella; Nun è vrigogna si purtamu la
strina/ la strina l’ha lassata nostru Signuri/ la strina l’ha lassata
nostru Signuri”.
Natale favola, ricordo, festa, sacramento, accarezzato dal sottile
filo che abbraccia il pianeta congiungendo sentimenti, idee,
evocazioni comuni a luoghi e persone distanti tra loro, tanto
diverse quanto simili, come la luce, le stelle, il cielo.
Il Natale nelle minoranze etniche calabresi
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Chiesa di Sant’Andrea Apostolo – Guardia Piemontese (CS)
Per contattare la SABAP-CS
Di persona
Informazioni possono aversi direttamente presso l’URP, la cui sede è presente in
Piazza Valdesi, 13 – Cosenza, nella Sede Centrale.
Potrete trovare tutti i riferimenti sul sito
http://www.archeologiabelleartiepaesaggiocosenza.beniculturali.it
Telefonicamente o per email
La SABAP-CS è contattabile direttamente
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Informazioni possono aversi direttamente presso l’Ufficio Promozione e
Divulgazione, la cui sede è presente in Piazza Valdesi, 13 – Cosenza, nella Sede
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- al numero 0984/75905 – 06 – 07 int. 3212;
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