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Diritto e Legislazione Scolastica · I DIRITTO E LEGISLAZIONE SCOLASTICA Istituti fondamentali per...

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DIRITTO E LEGISLAZIONE SCOLASTICA Istituti fondamentali per la comprensione del fenomeno giuridico nel contesto dell’attività didattica Dott. Filippo Marcacci Università degli Studi di Perugia S.S.I.S. VIII ciclo
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DIRITTO E LEGISLAZIONE SCOLASTICA Istituti fondamentali per la comprensione del fenomeno giuridico nel contesto dell’attività didattica

Dott. Filippo Marcacci

Università degli Studi di Perugia

S.S.I.S.

VIII ciclo

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DIRITTO E LEGISLAZIONE SCOLASTICA Istituti fondamentali per la comprensione del fenomeno giuridico nel contesto dell’attività didattica

INDICE SOMMARIO

Capitolo I

L’ORDINAMENTO GIURIDICO ITALIANO

1. Il fenomeno giuridico. Pag. 1

2. Gli ordinamenti giuridici o l’Ordinamento giuridico? 2

3. Il sistema delle fonti dell’ordinamento italiano. 5

4. la gerarchia delle fonti; 7

5. la Costituzione italiana. 11

Gerarchia delle fonti nell’ordinamento italiano – Schema 15

Capitolo II

LA TUTELA DEL SISTEMA DELLE FONTI

1. La Corte Costituzionale. 16

2. La questione di legittimità costituzionale. 18

2.1. In via incidentale. 18

2.2. In via principale. 21

3. Le altre funzioni della Corte Costituzionale. 22

Capitolo III

IL PARLAMENTO

1. La tripartizione dei poteri. 24

2. Composizione e funzioni del Parlamento. 25

3. Il potere legislativo. 28

3.1. Il procedimento ordinario. 29

3.2. Il procedimento aggravato. 34

Capitolo IV

IL GOVERNO

1. La funzione del Governo. 37

2. Composizione. 38

3. Formazione. 40

4. Il potere esecutivo e la funzione normativa. 42

4.1. Il Decreto Legge. 43

4.2. Il Decreto Legislativo. 44

Capitolo V

IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

1. La,funzione e il ruolo del Presidente della Repubblica. 46

2. Le attribuzioni. 48

3. 1 reati presidenziali. 50

Capitolo VI

LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

1. La funzione della Pubblica Amministrazione. 52

2. L’organizzazione della P.A. alla luce del principio di sussidiarietà. 54

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3. L’attività amministrativa. 56

4. Il potere amministrativo. 59

5. Atti & provvedimenti amministrativi. 61

6. Il procedimento amministrativo. 63

Capitolo VII

LA LEGISLAZIONE SCOLASTICA

1. I principi costituzionali dell’istruzione. 67

2. L’istruzione e il nuovo Titolo V Cost. 69

3. L’istituto scolastico. 70

4. Il ruolo del docente.. 74

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L’ORDINAMENTO GIURIDICO ITALIANO.

1. Il fenomeno giuridico. 2. Gli ordinamenti giuridici o l’Ordinamento

giuridico? 3. Il sistema delle fonti dell’ordinamento italiano. 4. la

gerarchia delle fonti; 5. la Costituzione italiana.

1. Il fenomeno giuridico.

Qualunque studio che si proponga di esaminare il fenomeno giuridico nella

sua vasta interezza incontra un comune ed imprescindibile punto di partenza,

l’individuazione del momento genetico della norma giuridica.

La valenza di una simile indagine manifesta il proprio momento di interesse

(per lo studioso come per l’interprete del diritto), nella codificazione del

significato stesso di “norma giuridica”, vista come fattore di produzione del

diritto stesso.

In tale ottica devono pertanto essere letti i contributi dei giuristi che nei secoli

si sono avvicendati nella ricerca di un archetipo volto a fornire una univoca

interpretazione del fenomeno normativo, partendo dalle radici del diritto

romano, passando attraverso le pragmatiche contaminazioni dei popoli scesi

dai territori del nord sino ad arrivare alle razionali spinte illuministiche che

hanno avuto il compito di portare a maturazione il laborioso recupero post-

medievale del pensiero moderno.

D’altra parte, una simile opera di interpretazione ha da sempre incontrato

come suo naturale sviluppo, l’esame del rapporto tra il diritto e i destinatari di

questo, i cittadini, sottoposti al rispetto del corpus di norme chiamate a

disciplinarne il comportamento sia come singolo che come parte delle

formazioni sociali più complesse che pure si muovono ed agiscono da sempre

sullo sfondo dei comandi che il diritto predispone a delimitazione del libero

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campo di azione dei soggetti. Ed è proprio seguendo tale alveo che la scienza

del diritto si è imbattuta nell’esame del fenomeno sociologico, direttamente

influenzato dai comandi, spesso perentori e ancor più frequentemente

impositivi, predisposti dal cd. DIRITTO.

È chiaro, già a questo punto della nostra modesta e quanto mai incompleta

indagine, che lo studio delle norme in sé considerate, qualunque sia il loro

ramo di appartenenza non può proseguire (anzi non può principiare) senza

l’individuazione di una definizione di che cosa sia il diritto inteso come vero e

proprio nucleo del fenomeno giuridico.

2. Gli ordinamenti giuridici o L’Ordinamento giuridico?

Per la funzione stessa del diritto, da individuare nella cd. “normazione”,

ovvero nella predisposizione di una disciplina al comportamento dei soggetti

di diritto, è possibile, come già affermato, collegare intimamente il fenomeno

giuridico al gruppo sociale, in un tempo destinatario ed oggetto delle norme

giuridiche.

Sulla scorta di tale riflessione è nata la cd. sociologia giuridica che, attraverso

lo studio dei gruppi sociali, si propone l’obiettivo di individuare l’elemento

genetico del diritto.

Sulla base di tale concezione, che vede in Gierke il suo massimo esponente, ha

trovato fondamento l’opera elaborativa di Santi Romano, il quale ha

sviluppato il pensiero prettamente sociologico del suo illustre predecessore e

di Hauriou, intuendo la limitatezza del concetto di comunità, per individuare

come nuovo centro elementare del fenomeno giuridico quello di istituzione,

giungendo, così, ad affermare come il diritto non si esaurisca in un complesso

di norme, di regole o precetti creati dalla comunità, ma sia, piuttosto,

l’istituzione stessa.

Ciò deve essere letto sulla scorta di una ideale identificazione che tale teoria

postulava, tra diritto e società (ubi socìetas, ibi ius), una concezione puramente

sociologica, fondata sulla dogmatica affermazione che tutto ciò che non

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superasse la sfera individuale non poteva dirsi “diritto”, stante

l’imprescindibile idea di ordine sociale immanente al concetto di diritto.

Questo perché nella teoria cd. Istituzionalista di Santi Romano, il diritto prima

di essere norma, prima di concernere un semplice rapporto o una serie di

rapporti sociali, è organizzazione, struttura, posizione della stessa società in

cui si svolge e che esso costituisce come unità, come ente per sé stante”.

È su tale base che la teoria in esame giungeva a formulare nei termini di

un’equazione “necessaria e assoluta”1 il rapporto tra diritto e istituzione, vista,

quest’ultima, come ente o corpo sociale in cui risulta del tutto superata la

dimensione puramente individuale dell’uomo.

Per Santi Romano l’istituzione è, dunque, organizzazione sociale ed

organizzazione sociale è ordinamento, un ordinamento sempre e

necessariamente giuridico, essendo scopo precipuo del diritto, quello

dell’organizzazione sociale, di modo che “ogni forza che sia effettivamente

sociale e venga quindi organizzata, si trasforma per ciò stesso in diritto”2.

Un limite contestato a Santi Romano è quello di aver raggiunto, sì, una

concezione in grado di trovare la matrice produttiva del diritto in seno alla

istituzione, ma di non essere riuscito a fornire con altrettanta profonda

convinzione un esaustivo significato interpretativo al concetto di istituzione.

Cosa resa ancor più evidente dalla equazione assoluta che secondo la teoria

istituzionalista lega diritto e istituzione: se diritto è istituzione e viceversa, il

rischio per coloro che si interroghino sulla genesi del fenomeno normativo, è

di cadere in un circolo vizioso fra i due termini dell’equazione, senza riuscire a

capire quale dei due sia preesistente (e dunque, produttivo dell’altro).

In aggiunta a ciò, è stato osservato che l’individuazione del diritto in seno ad

ogni istituzione comporta l’automatico riconoscimento di una pluralità di

ordinamenti giuridici all’interno di un singolo Stato, di tanti ordinamenti

quanti sono i gruppi sociali organizzati all’interno di questo.

Questa considerazione (che ha consegnato alla storia della scienza del diritto la

teoria di Santo Romano come teoria pluralista oltre che come istituzionalista),

ha evidenziato un ulteriore limite: se diritto è ogni corpo sociale organizzato,

1 Cfr. T. Martines, Diritto Costituzionale, Milano, 1994, p. 18 e ss.

2 Sono parole di Santi Romano in L’ordinamento giuridico, Firenze, 1951, p.25 e ss.

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si deve definire ordinamento e dunque diritto anche un’organizzazione

malavitosa, presentando questa i caratteri richiesti ma non definiti dalla teoria

di Santi Romano?

A superare i limiti della comunque evoluta concezione istituzionalista,

si è sviluppata l’opposta teoria cd. pura del diritto (o normativa), che,

attraverso l’opera interpretativa di Hans Kelsen, vede il diritto esaurirsi nelle

norme stesse, viste come comandi, come giudizi ipotetici, come schemi

qualificativi.

Si tratta indubbiamente di una teoria orientata a indagare sull’oggetto del

diritto e non su che cosa questo sia o debba essere.

Per Kelsen il diritto è ordinamento normativo del comportamento umano, un

sistema di norme che regolano il comportamento degli individui,

qualificazione giuridica di fatti esteriori.

Secondo tale teoria, il diritto, concepito, dunque, come insieme di comandi e

di qualificazioni, appare comunque riconducibile ad unità, vista come insieme

di norme che trovano il proprio fattore catalizzante in un comune fondamento

da cui dedurre la validità ma, soprattutto, l’esistenza stessa di ogni norma

giuridica. Kelsen immagina una Norma fondamentale, un archetipo primigenio

da cui far discendere ed, al tempo stesso, in cui far confluire tutte le norme che

costituiscono il diritto, l’ordinamento.

La razionalità del pensiero Kelseniano, spinge a configurare una collocazione

sistematica interna all’ordinamento stesso, ove le norme giuridiche si trovano

organizzate secondo il medesimo rapporto che lega norme “regolanti e norme

regolate, da collocare, quest’ultime al di sotto delle prime, in modo che una

norma di rango superiore costituisca il fondamento della validità della norma

a quella sottoposta”3. Veniva così definito un vero e proprio SISTEMA

GERARCHICO delle fonti del diritto, ovvero di quei fenomeni elaborativi e

creativi del diritto e dell’ordinamento giuridico che sono le norme giuridiche.

Effetto di tale teoria è quello di superare il pluralismo della precedente visione

di Santi Romano, per accogliere una più realistica concezione “monistica”

dell’ordinamento giuridico, da intendere come insieme delle norme giuridiche

3 V. Kelsen, la dottrina pura del diritto, (trad. it.), Torino, 1966, p. 9; per l’evoluzione del

pensiero Kelseniano v. Allgemeine Theorie der Normen, Wien 1979.

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in vigore e dunque come un corpus unico e singolo, non essendo concepibile,

all’interno di un unico stato, la presenza di più norme fondamentali da cui far

discendere più ordinamenti giuridici.

È sulla scorta di tale precisazione che si è giunti al perfezionamento della

teoria pura del diritto per opera di Mortati, il cui merito rimarrà quello di aver

operato una mediazione tra le due teorie, nella necessità di ricollegare il

fenomeno giuridico ad una concreta realtà sociale da cui questo non potrà mai

dirsi avulso. Di qui l’ultimo passaggio interpretativo del fenomeno giuridico

che, sulla scorta ed in applicazione della teoria normativa, vede nella norma

fondamentale l’istituzione, intesa come “fondamentale legge di vita, di cui

nessun gruppo può fare a meno, perché è essa che, rimanendo costante nel

tempo, presiede al suo svolgimento e lo caratterizza”4. Una norma

fondamentale che, nel pensiero di Mortati, è rappresentata dalla Costituzione,

“base dell’ordinamento in quanto identifica il fine fondamentale del gruppo

sociale e si pone come forza capace di assicurare l’osservanza e di garantire

il mantenimento delle regole essenziali al raggiungimento di tale fine”5.

3. Il sistema delle fonti dell’ordinamento italiano.

L’attuale ordinamento italiano si compone di numerose tipologie di norme,

aspetto che, alla luce della disamina appena compiuta, certo non deve destare

alcuna sorpresa, portando, anzi, il lettore a porsi la domanda di come

ricondurre ad una unità sistematicamente organizzata tutte le norme

attualmente vigenti nel nostro Paese.

In effetti tale sviluppo logico-interpretativo altro non è che l’applicazione

concreta alle norme che ci circondano e disciplinano, della teoria normativa

sviluppata da Kelsen e da Mortati.

4 V. Mortati, Costituzione (Dottrine generali), in Enc. del dir., XI, p. 152.

5 Cfr. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, tomo I, ed. rielaborata ed aggiornata, Padova,

1991, p. 9.

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Riflettendo su quanto abbiamo appena visto essere il fondamento e le

conclusioni della teoria in parola, possiamo rispondere che l’ordinamento

italiano è L’INSIEME DELLE NORME GIURIDICHE ATTUALMENTE VIGENTI NEL

NOSTRO PAESE.

Questo ci permette di analizzare, preliminarmente allo studio specifico delle

norme di cui si compone il nostro ordinamento, alcuni fenomeni che,

influenzando la vita e la funzione delle fonti, interagiscono con l’elemento di

produzione del diritto in Italia.

Nella definizione poc’anzi fornita di ordinamento giuridico italiano, abbiamo,

infatti, evidenziato due caratteristiche nuove rispetto alla definizione di

ordinamento inteso come insieme di norme giuridiche. Occorre, invero,

evidenziare in primis che non tutte le norme giuridiche, finiscono a costituire

automaticamente l’ordinamento di un Paese, ma solo quelle cd. VIGENTI, quelle

norme, cioè, che sono in vigore nell’attualità dell’esame delle fonti.

Da ciò deriva l’analisi del cd. fenomeno della SUCCESSIONE DI LEGGI NEL

TEMPO.

Questo fenomeno è, in realtà, ciò che permette al nostro ordinamento di

evolvere, riuscendo ad aggiornare il proprio contenuto normativo, attraverso il

venir meno dell’efficacia di quelle norme ormai desuete in quanto non più

aderenti alle esigenze e alla connotazioni contingenti dello Stato.

Anche sotto tale profilo, pertanto, è possibile riscontrare la rilevanza

dell’opera interpretativa di Mortati, al quale, come visto, si deve il richiamo

alla dimensione sociologico-istituzionale dello studio dell’ordinamento

giuridico.

In base a quanto detto, pertanto, è possibile affermare che la materia di cui si

compone l’ordinamento giuridico (l’insieme delle norme giuridiche), si trova

delimitata due ordini di limiti:

- limiti di carattere temporale norme che sono

attualmente in vigore;

- limiti di carattere spaziale (o territoriale) norme vigenti all’interno

del nostro territorio.

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Ciò posto, possiamo addentrarci nello studio, sia pure sommario,

dell’ordinamento giuridico italiano, di quel corpus di norme che costituisce e

produce il diritto in Italia.

Occorre, in questo senso, evidenziare come le norme giuridiche non siano mai

poste da una sola ed unica fonte, essendo possibile affiancare alla norma base

elementare degli attuali ordinamenti statali individuata nella LEGGE,

numerose altre norme, derivanti dai decreti legge, dai decreti legislativi, dalle

leggi regionali ecc.

Nella loro variegata complessità tutte le norme appena elencate assurgono

pacificamente al ruolo di fonte, ossia di fenomeno produttivo di diritto.

Ciò che, tuttavia, appare ormai imprescindibile, a questo punto della nostra

analisi, è l’individuazione di un valido e stabile criterio che permetta di

assegnare una collocazione sistematica ad ogni fonte che componga il nostro

ordinamento.

In tale ottica, il criterio comunemente assunto fa riferimento alla forza di ogni

fonte come elemento di collocazione dell’una rispetto alle altre.

Per forza di una norma viene intesa “la capacità di innovare rispetto alle

norme preesistenti, modificandole o abrogandole, o di resistere alle

innovazioni che venissero introdotte da norme non dotate della stessa forza”6.

In applicazione di tale concetto si è, così, raggiunta la definizione di una scala

gerarchica lungo la quale è possibile collocare i singoli tipi normativi, le

singole fonti del diritto, sulla base della dipendenza di una norma dall’altra.

In pratica, quando una norma trarrà il proprio contenuto da un’altra norma,

quest’ultima sarà posta su un gradino superiore rispetto alla prima. Per lo

stesso principio, la fonte sottoordinata non potrà modificare la norma ad essa

sovraordinata dovendone, anzi, rispettare ed applicare il contenuto e, dunque,

anche la relativa forza modificatrice.

La concreta inderogabilità applicativa di tale schema trova conferma anche nel

caso in cui il criterio in esame non venga rispettato, magari, perché una norma

abbia violato il dettato di una norma ad essa superiore, ponendovisi in

contrasto. Di fronte ad una simile ipotesi, l’ordinamento giuridico, a tutela

della sua unitarietà, ha previsto il meccanismo della illegittimità della norma

6 Cfr. Falcon, Lineamenti di diritto pubblico, Padova, 2003, p. 34.

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di rango inferiore che contrasti con una norma superiore. Illegittimità che

comporta la non applicabilità della norma contrastante con lo stesso

ordinamento in quanto violativa del criterio basilare di collocazione gerarchica

delle norme di cui questo si compone. La non applicabilità della norma

illegittima significa garantire la prevalenza della norma sovraordinata su

quella inferiore avversa che dovrà essere modificata in senso compatibile con

il resto del sistema o, in estrema ipotesi, espunta dall’ordinamento.

4. La gerarchia delle fonti.

Ciò posto, in applicazione degli assunti normativisti già esaminati, trovandoci

a dover elaborare uno schema gerarchico lungo cui distribuire le varie fonti del

diritto italiano, siamo già in grado di individuare con certezza l’elemento

primario, la norma fondamentale da cui derivano e a cui si debbono riferire

tutte le fonti derivate che hanno il compito di tessere il fitto schema di

comandi giuridici che presiedono al comportamento dei destinatari del diritto,

quelli che nella teoretica Hobbesiana dello Stato vengono definiti i consociati.

Stiamo chiaramente parlando della COSTITUZIONE.

Scendendo, poi, di un gradino questa decrescente scala gerarchica delle

fonti, troviamo quelle norme che sono deputate a modificare il testo della

Costituzione, le uniche norme che, al di là della stessa carta costituzionale,

possono produrre norme di rango costituzionale: le LEGGI COSTITUZIONALI E LE

LEGGI DI REVISIONE COSTITUZIONALE. Tali due tipi normativi, rispettivamente

deputati ad integrare il testo della costituzione o, nel secondo caso, a

modificarne il contenuto, si pongono immediatamente al di sotto della norma

fondamentale. Ciò pur avendo, queste, una efficacia modificativa sulla norma

ad esse sovraordinata. L’apparente incongruenza del sistema gerarchico, viene

superata dalla considerazione che l’esistenza stessa dei due tipi di norme in

esame, viene a dipendere, in realtà, dall’esistenza della Costituzione. È

lapalissiano, infatti, che la ragion d’essere di norme che modificano o

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integrano il testo di una norma, verrebbe negato dall’inesistenza di quella

stessa norma che ne rappresenta il fine ultimo. È’ dunque per tale empirica ma

innegabile considerazione che le leggi costituzionali e di revisione

costituzionali, pur potendo modificare il contenuto della Costituzione, non

vengono poste sullo stesso gradino gerarchico, ma su un piano

immediatamente inferiore a questa.

Una fonte di produzione del diritto che si colloca su un piano del tutto

peculiare, sia per l’origine che per le caratteristiche che le sono proprie, è la

NORMA COMUNITARIA AUTOAPPLICATIVA.

Si tratta di quel tipo norme provenienti dall’Unione Europea, titolare di un

potere normativo cd. sovranazionale, in quanto posto al di sopra degli Stati

che ne fanno parte in forza del riconoscimento da questi stessi compiuto verso

il potere normativo superiore dell’Unione.

La particolarità di tali norme risiede nel fatto di trovare origine in una

dimensione, per così dire, extra-ordinamentale, pur avendo applicazione

diretta all’interno dell’ordinamento italiano come di quello di ogni altro stato

membro. Ciò costituisce un’eccezione alla naturale regola che vede le norme

comunitarie ordinarie oggetto di un’attività di recepimento da parte degli stati-

membri, i quali sono chiamati a dare attuazione alle norme comunitarie

ordinarie attraverso l’emanazione di leggi proprie di ogni singolo

ordinamento. In questo caso, dunque, non si porrà alcun problema di ordine

sistematico per l’interprete il quale si troverà di fronte a norme proprie di

quello Stato, come tali facilmente collocabili all’interno del sistema delle fonti

ad esso proprio.

La differenza fondamentale che distingue le norme autoapplicative sta proprio

nel fatto di non aver bisogno del meccanismo del recepimento, essendo tali

norme (il cui campo è limitato a materie secondarie ma di cui rileva la

necessità di una disciplina uniforme tra stati) rivolte non già ai singoli Stati-

membri, quanto direttamente ai cittadini di questi. Ed occorre evidenziare

come la conseguenza di tale fenomeno di autoapplicabilità, rende le norme

dotate di tale carattere parte del fenomeno di produzione del diritto, con ciò

delineandone il ruolo di fonte del diritto, da inquadrare, in quanto tale, nella

scala gerarchica delle fonti.

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Il fatto di provenire da una dimensione sopranazionale, di trovare una

applicazione diretta e preferenziale (e dunque anche in deroga alle norme

vigenti all’interno dell’ordinamento), permette di collocare tali norme

autoapplicative ad un gradino secondo solamente alle norme di rango

costituzionale, nella soglia cd. SOVRAPRIMARIA.

Scendendo ulteriormente, abbandonato il gruppo delle “norme di rango

costituzionale” ed attraversato il gradino sovraprimario, giungiamo alle norme

di “rango primario”, categoria rappresentata essenzialmente dalla legge

ordinaria. Con tale espressione si suole identificare la legge del Parlamento,

dell’organo che nel nostro Paese è titolare del potere legislativo. Ed in questo

sta la ordinarietà di questa fonte che rappresenta l’elemento tipico, l’unità di

misura, del nostro ordinamento. Accanto a questo elemento di ordinarietà, ve

ne è, tuttavia, un altro, ancor più rilevante, rappresentato dalla necessità di

distinguere tali leggi del Parlamento da quelle, già esaminate, deputate ad

incidere sul testo della Costituzione, le quali, provenendo sempre e

ovviamente dall’organo titolare del potere legislativo, debbono essere

chiaramente distinte, nella loro eccezionalità, dalle leggi comuni, dalle leggi,

appunto, ordinarie.

Proseguendo in questo “dantesco” cammino lungo i gradini del nostro

ordinamento, ci troviamo ora ad esaminare un caso particolare, rappresentato

da norme che non rientrano propriamente nel novero delle leggi ordinarie in

quanto non provengono dal Parlamento ma dal Governo. Un’eccezione che

trova giustificazione o nella ricorrenza di situazioni gravi ed urgenti da

disciplinare o nell’emanazione, da parte del Parlamento, di una legge-delega

volta a autorizzare il Governo (che è titolare del potere esecutivo e non

legislativo) ad emanare atti desinati ad avere la medesima forza della legge.

Tali atti, nelle rispettive ipotesi delineate sono i DECRETI LEGGE e i DECRETI

LEGISLATIVI.

La forza di questi atti, detti, appunto, anche “atti aventi forza di legge” è pari a

quella della legge ordinaria, ma solo in presenza dei presupposti sopra

esaminati e comunque ricollegabili al potere del Parlamento, da cui dipende,

dunque, la legittima esistenza di queste norme. Tale aspetto ha spinto i giuristi

a collocare tali fonti su un gradino appena inferiore a quello della legge

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ordinaria, per collocarli nel grado di fonte sub-primaria del nostro

ordinamento.

Del pari, un’altra fonte sub-primaria, questa volta autonoma è

rappresentata dalle leggi regionali. Queste norme venivano collocate a livello

secondario, ma, a partire dal 2001, con l’operata riforma del Titolo V della

Costituzione, hanno subito una riqualificazione che ha imposto l’introduzione

di questo nuovo gradino alla scala gerarchica.

Questo perché con la riforma costituzionale citata, il ruolo delle Regioni e il

potere legislativo di cui sono titolari è stato sviluppato in applicazione del

principio di sussidiarietà, potenziando l’ente più vicino al cittadino, con il

risultato di conferire alle Regioni un potere normativo pari a quello statale

nell’ambito, però, delle materie di competenza esclusiva ed entro i confini del

territorio regionale.

Tali limiti sono i responsabili di una qualificazione sub-primaria delle norme

regionali rispetto a quelle statali, che, tuttavia, entro il limite di competenza e

territoriale, sono comunque destinate a cedere il passo di fronte ad una diversa

disposizione normativa regionale. Di qui l’ulteriore elemento dell’autonomia,

in quanto frutto dell’autonomo potere legislativo fornito alle regioni dalla

nuova stesura dell’art. 117 Cost., che si dispiega verso tutte le materie non

riservate allo Stato come ente centrale.

Ancora in basso incontriamo le fonti di rango secondario, rappresentate

essenzialmente dai regolamenti, norme il cui potere è delimitato spesso alla

disciplina di organi dell’amministrazione pubblica, per fare un esempio, e che,

pertanto, si trovano sottoposti a tutte le norme sin qui esaminate.

Ancora inferiori risultano, da ultimo, quelle fonti di produzione del

diritto che vengono definite fonti-fatto, per evidenziarne la stretta connessione

con fattori meramente fattuali, anziché formali di produzione istituzionale.

Si tratta essenzialmente della cd. CONSUETUDINE, fonte che deriva dalla

coscienza che un gruppo sociale avverte, di un comportamento come

imprescindibilmente dovuto, pur senza che nessuna norma abbia statuito

alcunché in tal senso. Siamo indubbiamente alla soglia minima del fenomeno

di produzione del diritto.

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5. La Costituzione Italiana.

Chiarita quale debba essere la struttura fondamentale del nostro ordinamento e

quale sia l’articolata collocazione da dare ad ogni singola tipologia normativa

da cui far dipendere il fenomeno di produzione del diritto, è giunto il momento

di approfondire l’esame della norma fondamentale, quella che Kelsen definiva

gründnorme, norma fondamentale, e che il pensiero di Mortati ha ravvisato

nella Costituzione.

In quest’ottica, tenuto conto del ruolo assolutamente fondamentale che riveste

la Costituzione per il nostro ordinamento, saremmo, forse, portati a vedere nel

tenore della carta costituzionale un carattere essenzialmente programmatico,

come si trattasse di una norma il cui contenuto, fissato in via meramente

affermativa di principio, necessitasse di un ulteriore intervento legislativo

finalizzato a conferirle attuazione concreta. Niente di più distante dalla realtà:

La Costituzione Italiana, come atto normativo, anzi come l’Atto normativo per

eccellenza, è composta da disposizioni (articoli) dotate di pieno effetto

giuridico, essendo in grado di produrre, modificare o estinguere altre regole,

vincoli, qualificazioni giuridiche, situazioni giuridiche soggettive (diritti,

interessi, obblighi ecc.).

Ciò premesso e chiarito, appare opportuno, prima di entrare nel merito

dell’esame delle norme della Costituzione, delinearne i caratteri peculiari.

La Costituzione Italiana è, infatti, una costituzione: scritta, votata, lunga,

rigida, aperta (o flessibile).

Il primo carattere distintivo sembra avere un contenuto quanto mai

scontato: la Costituzione è elaborata in una stesura scritta. Tale elementare

assunto, tuttavia, si colora di toni di maggior spessore ove si consideri che tale

connotazione ha, in realtà, il precipuo effetto di rendere il testo costituzionale,

nella sua basilare funzione normativa di principio, immutabile pur di fronte

alla sua ripetuta e costante applicazione. Ed è proprio questo aspetto a rendere

oggettivo il contenuto stesso della Costituzione, di quella norma fondamentale

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del nostro ordinamento che è, senza dubbio, anche l’ultima norma che possa

ragionevolmente essere abbandonata al rischio di rielaborazioni conseguenti

ad ogni singola applicazione ai diversi casi concreti.

Il carattere votato della Costituzione italiana, pone la nostra Carta in

contrapposizione alle cd. costituzioni ottriate, ovvero a quelle costituzioni che

venivano “concesse” dal sovrano dalla cui volontà, in tal modo, veniva a

dipendere il riconoscimento dei diritti dei sudditi.

L’evoluzione dello stato moderno, tuttavia, ha chiaramente relegato tale tipo di

costituzioni sul piano meramente storiografico dello studio del diritto.

Occorre, tuttavia, precisare in quale senso la nostra costituzione possa dirsi

votata, stante che il popolo Italiano non ha, in realtà, mai partecipato, tramite il

proprio voto, alla stesura del testo della Costituzione.

In effetti, il carattere votato deriva dal fatto che il popolo italiano ha espresso

la propria opinione elettorale nella scelta dei componenti l’assemblea che ha

avuto il compito di redigere il testo della Costituzione. È attraverso il voto

popolare, espresso a suffragio universale, diretto e segreto, che, infatti, è stata

eletta l’Assemblea Costituente.

L’opera dei 75 componenti l’Assemblea, ha prodotto una costituzione

che viene definita come lunga, connotazione che certo non dipende dal mero

numero di articoli di cui si essa si compone ma che fa, invece, riferimento al

contenuto stesso della norma fondamentale. Questa, in effetti, è costituita da

due grossi corpi. Un primo, deputato a riconoscere e garantire i principi

fondamentali posti alla base dello Stato unitamente ai diritti e alle libertà

fondamentali dei cittadini, seguito da un secondo corpo in cui viene

organizzata e disciplinata la struttura funzionale dello Stato, attraverso

l’individuazione e la definizione degli organi di cui questo si compone e per

mezzo dei quali opera. Una simile articolazione distingue la nostra

costituzione da altre carte fondamentali in cui è riscontrabile magari solo la

prima parte e che, per tal via vengono definite corte (come il Bill of Rights).

Ma l’elemento di più spiccata connotazione è forse rappresentato dalla

natura rigida della Costituzione.

La rigidità in questione indica la scelta operata dai Costituenti di creare un

sistema normativo in cui, posta al vertice la Costituzione, si è cercato di

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rendere quanto mai stabile il contenuto della norma fondamentale. Ciò per due

ordini di ragioni: per una logica necessità di coerenza interna del sistema

normativo (che ad ogni modifica facilmente operata alla Costituzione avrebbe

potuto soffrire una devastante riscrittura di tutte le norme a questa

sottordinate) e, in secondo luogo, per tutelare il delicato e fondamentale

contenuto della Costituzione (si pensi, in particolare alla prima parte) dal

rischio di rimaneggiamenti poco meditati se non addirittura dolosamente

operati.

Ciò ha portato l’Assemblea a prevedere un rigido e complesso meccanismo

come unica via per operare modifiche al testo della Costituzione: il

procedimento aggravato che viene imposto al Parlamento per la emanazione di

quelle uniche norme che possono vantare una simile forza innovatrice, le leggi

costituzionali e le leggi di revisione costituzionale.

Il già ristretto margine di innovazione del testo costituzionale è poi

ulteriormente delimitato dalla possibilità di sottoporre a modifica solo alcune

norme della Costituzione, per effetto di limiti espressi (come nel caso dell’art.

139 Cost., che esplicitamente preclude la sottoposizione a revisione della

forma repubblicana democratica), oppure di tutti i limiti impliciti che

impediscono la modificabilità di quei principi fondamentali che ormai sono

divenuti immanenti ad ogni moderno stato liberale-democratico.

Pur tuttavia, è inevitabile sottolineare la necessità di prevedere la possibilità

per la Costituzione stessa di vedere aggiornato il proprio contenuto alle mutate

esigenze dello Stato e dei cittadini, specie in considerazione della tendenziale

stabilità delle norme costituzionali, la cui vita è destinata a snodarsi lungo

svariati lustri.

È in ossequio a tale esigenza che la Costituzione può essere definita aperta (o

flessibile), un carattere che, ictu oculi, potrebbe apparire in contrasto con

l’appena esaminata connotazione rigida ma che, ad una più attenta lettura, si

dimostra, anzi, caratteristica complanare e presupposta a quella appena

esaminata.

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Gerarchia delle fonti nell’ordinamento

Italiano

Costituzione

Leggi Costituzionali / Leggi di Revisione Costituzionale

Norme di rango COSTITUZIONALE

Norme comunitarie autoapplicative

Norme di rango SOVRAPRIMARIO

Legge ordinaria del Parlamento

Norme di rango PRIMARIO

Atti aventi forza di legge (dec. legge dec. legisl.)

Leggi regionali in materie di competenza regionale

Fonti SUB-PRIMARIE Fonti SUB-PRIMARIE

AUTONOME

Regolamenti

Usi e consuetudini

Norme di rango SECONDARIO

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LA TUTELA DEL SISTEMA DELLE FONTI.

1. La Corte Costituzionale. 2. La questione di legittimità costituzionale. 2.1.

In via incidentale. 2.2. In via principale. 3. Le altre funzioni della

Corte Costituzionale.

1. La Corte Costituzionale.

La Corte Costituzionale, secondo la struttura delineata dall’Assemblea

costituente, è l’organo collegiale attraverso il quale il nostro ordinamento

svolge la cd. funzione nomofilattica, la funzione di tutela, per così dire, interna

all’ordinamento stesso. Una tutela rivolta verso il sistema normativo e i criteri

che ne presiedono l’organizzazione e il funzionamento.

Ed in questo risiede, appunto, la funzione di protezione della norma (dal greco

nomos- filachìa, ovvero tutela della legge), intesa come la norma

fondamentale.

La funzione in parola, è in pratica la forma di tutela predisposta a garanzia

della reale preminenza della Costituzione rispetto alle altre norme, preminenza

che, come già visto, ove non rispettata, determina l’illegittimità della fonte

sottordinata che si ponga in contrasto con la Norma fondamentale.

Illegittimità, come sappiamo, vuol dire possibile disapplicazione della norma

colpita da tale sanzione ed, eventualmente, anche abrogazione della stessa.

Ma come si realizza concretamente tale effetto?

Posto che una simile situazione certo non può essere ricollegata alla

determinazione dei consociati, si è scelto di individuare, all’interno della

struttura dello Stato, un organo deputato proprio alla verifica della rispondenza

del dettato delle norme che costituiscono il nostro ordinamento, rispetto alla

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norma da cui questo discende. Tale organo è, appunto, la Corte Costituzionale,

l’organo che, con un’espressione quanto mai atecnica potremmo definire “il

giudice delle leggi”.

La Corte si compone di 15 giudici costituzionali, scelti fra: magistrati di

giurisdizioni superiori (Cassazione, Consiglio di Stato ecc.), professori

ordinari di discipline giuridiche e tra avvocati con almeno 20 anni di

professione. Ad operare la scelta all’interno dei contesti elencati è previsto che

provvedano vari organi, ciascuno per un quota uniforme dei componenti. In

questo modo, un quinto dei giudici costituzionali è nominato dal Presidente

della Repubblica, un quinto dal Parlamento riunito in seduta comune (Camera

e Senato si riuniscono congiuntamente) ed il rimanente quinto dalle supreme

magistrature ordinarie e amministrative (dei 5 componenti 3 sono scelti dalla

Corte di Cassazione, 1 dal Consiglio di Stato e 1 dalla Corte dei Conti).

I componenti della Corte Costituzionale durano in carica 9 anni e non sono

rieleggibili in quanto si è considerato che la prospettiva della prosecuzione del

mandato avrebbe potuto incidere assai negativamente sulla imprescindibile

serenità di giudizio che deve guidare i giudici costituzionali.

Diversa è, invece, la posizione del Presidente, eletto dalla stessa Corte

Costituzionale per tre anni, che gode della rieleggibilità salvo, in ogni caso, il

venir meno della carica alla scadenza dei nove anni.

Lo status di membro della Corte Costituzionale si caratterizza, poi, per la

titolarità di immunità analoghe a quelle parlamentari, che garantiscono

l’impossibilità di perquisizioni personali, intercettazioni e applicazione di

provvedimenti restrittivi della libertà personale senza preventiva

autorizzazione dell’organo di appartenenza.

In particolare, giova inoltre ricordare come, al fine di garantirne la libera

indipendenza di opinione, i giudici costituzionali non siano sindacabili né

possano essere perseguiti per le opinioni espresse e per i voti dati

nell’esercizio delle loro funzioni13

.

La Corte Costituzionale svolge tali funzioni con la partecipazione del numero

minimo di 11 giudici, che si riuniscono in udienze pubbliche, cui segue la

deliberazione in camera di consiglio adottata alla maggioranza dei voti.

13

V. L. Cost. 11 marzo 1953, n. 1, art. 5.

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2. La questione di legittimità costituzionale.

Come detto, la funzione precipua della Corte Costituzionale è quella di

garantire il rispetto della Costituzione, in primo luogo dalle possibili

incompatibilità di norme di rango inferiore con le disposizioni in essa

contenute.

Ciò viene realizzato attraverso un sindacato a cui i giudici costituzionali

sottopongono la norma sospettata di essere costituzionalmente illegittima.

Tale sindacato può avvenire secondo due possibili vie, quella cd. principale e

quella incidentale.

2.1. La questione di legittimità costituzionale in via incidentale.

La possibilità di attivare la Corte Costituzionale è sottratta alla autonoma e

diretta disponibilità dei cittadini.

Ciò nel senso che il singolo cittadino non può rivolgersi al “giudice delle

leggi”, con la stessa relativa facilità con cui si rivolge ad un giudice ordinario.

Il motivo di ciò, si riscontra indubbiamente nella necessità di controllare il

ricorso al sindacato di legittimità costituzionale, che si caratterizza per una

efficacia definita erga omnes, in quanto destinato a dispiegare effetto in capo a

tutti i cittadini.

In ciò risiede la prima ed evidente differenza rispetto ai giudizi (civili,

amministrativi o penali) che vengono incardinati direttamente dai soggetti

destinatari delle norme del nostro ordinamento. Giudizi la cui risoluzione ha

un’efficacia limitata ai soggetti che hanno preso parte al giudizio stesso e che

perciò sono i destinatari della sentenza con cui il giudice adito pone fine alla

controversia insorta tra le parti che si sono a questi rivolte.

La declaratoria di illegittimità costituzionale, invece, porta con sé l’effetto

caducativo dell’efficacia della norma accertata come illegittima che, in tal

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modo, viene espunta dall’ordinamento, con conseguenze estese a tutti i

destinatari di quella norma.

Per tale ragione e, in particolare, per la delicatezza del giudizio e dei suoi

effetti, il nostro ordinamento prevede, dunque, la possibilità per il cittadino di

ottenere un accertamento sulla legittimità di una norma, ma unicamente in

forma mediata, indiretta.

In primo luogo, infatti, la proposizione della questione di legittimità

costituzionale di una norma viene a dipendere dalla instaurazione di una

controversia innanzi ad un magistrato, sia esso civile, penale, amministrativo,

ecc.

Solo nel contesto di una causa in corso, infatti, il cittadino, che sia parte

processuale di quel processo, può sollevare la questione, sostenendo la

violazione da parte di una determinata norma di una o più disposizioni della

Costituzione.

In primo luogo, occorre osservare che tale questione di legittimità vede

interlocutore della parte che la solleva non certo la Corte Costituzionale,

quanto, piuttosto, il giudice che dovrà decidere la controversia nel cui ambito è

nata la questione stessa.

La ragione di questo passaggio risiede nella necessità di alcune operazioni

preliminari che il giudice chiamato ad applicare la norma sospettata di

illegittimità, deve compiere in conseguenza dell’avvenuta formulazione della

questione di legittimità costituzionale.

Tali operazioni sono rappresentate dal preliminare giudizio di non manifesta

infondatezza della questione, che dovrà, pertanto, apparire fondata su

plausibili e documentati motivi di diritto, in mancanza dei quali la

proposizione della questione medesima presso la Corte risulterebbe destituita

di ogni interesse e valore.

Altra operazione che il giudice dovrà compiere è quella finalizzata ad

accertare la rilevanza della questione rispetto ai fatti di causa.

Con tale espressione si intende che il giudice, chiamato a risolvere la

controversia dovrà accertare di non avere la possibilità di applicare, con

risultati equipollenti, altra norma rispetto a quella tacciata di illegittimità

costituzionale. Ove si aprisse tale prospettiva, infatti, ragioni di economia

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istituzionale e di tutela da possibili strumentalizzazioni che potrebbero

coinvolgere la funzione nomofilattica, instraderebbero il giudice stesso verso

la preferibile applicazione di una norma diversa rispetto all’attivazione di un

delicato e complesso sindacato avente ad oggetto norme dell’ordinamento.

Ove, comunque, le due descritte valutazioni prodromiche dovessero

confermare al giudice la sommaria fondatezza della questione sollevata e

l’impossibilità di ricorrere a diversa disposizione di legge, allora,

indubbiamente, sorgerebbe per quel giudicante l’impossibilità di statuire sulla

controversia incardinata presso di lui dalle parti contrapposte.

All’esito di simili verifiche il giudice, pertanto, non potrà far altro che

sospendere il proprio giudizio, inesorabilmente arrestato dall’impossibilità di

applicare una norma ictu oculi in contrasto con la Costituzione. Sospeso,

dunque, il giudizio, il giudice redigerà una relazione attestante le valutazioni

compiute (ordinanza di remissione), con cui accompagnerà la trasmissione del

fascicolo di causa alla Corte Costituzionale perché svolga il proprio sindacato

di legittimità costituzionale. È per questa funzione di “mittente- proponente”

della questione di legittimità che il giudice viene definito come giudice a quo,

giudice dal quale proviene l’impulso che incardina presso la Corte

Costituzionale il giudizio sulla legittimità costituzionale di una norma.

Un aspetto peculiare che riguarda il sindacato di legittimità effettuato

dalla Corte è quello relativo agli strumenti attraverso i quali si pronuncia il

giudice delle leggi: le sentenze.

Queste possono essere innanzitutto di due basilari tipi, sentenze di

accoglimento e sentenze di rigetto, a seconda, rispettivamente, che la

questione venga accolta, con relativa declaratoria di illegittimità e conseguente

caducazione, oppure, che la questione venga, invece, rigettata, con declaratoria

di piena legittimità della norma sottoposta al giudizio della Corte

Costituzionale.

Di particolare interesse sono le sentenze di accoglimento, le quali si

distinguono a loro volta in sentenze interpretative e in sentenze additive.

Le prime sono sentenze con cui la Corte, accogliendo la q.l.c., chiarisce quale

sia l’interpretazione da seguire per superare il contrasto normativo.

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In pratica, in questa ipotesi il testo della norma illegittima può anche rimanere

immutato per effetto dell’interpretazione che a questo viene data. La

particolare valenza di questa tecnica è quella di scongiurare il vuoto normativo

conseguente alla mera declaratoria di illegittimità che determinando

l’espunsione della norma dall’ordinamento, comporta la necessità

dell’intervento del legislatore al fine di colmare lo spazio lasciato, per tal via,

scoperto all’interno dell’ordinamento.

Diverso è il caso delle sentenze additive, con cui la Corte si pronuncia

affermando un particolare tipo di illegittimità, questa volta conseguente ad una

mancanza del testo di legge. Mancanza che viene colmata dalla sentenza

additiva estendendo il contenuto della disposizione normativa fino a

ricomprendere ipotesi di per sé non previste dalla quella norma.

In particolare, il fenomeno estensivo della disciplina normativa oggetto di tali

sentenze ha permesso di evidenziare una efficacia produttiva di diritto di tali

pronunzie in quanto, a ben vedere, la Corte in effetti, aggiungendo alla legge

sottoposta al suo vaglio disposizioni in origine da questa non previste,

determina la nascita di nuove norme, di nuovi comandi, in pratica produce

diritto.

In coerenza con tale considerazione, le sentenze additive della Corte

costituzionale vengono collocate all’interno della gerarchia delle fonti, sul

piano delle norme di rango primario, essendo perfettamente in grado di

modificare (e financo di abrogare) le norme collocate su tale gradino.

2.2. La questione di legittimità in via principale

Altra via che conduce alla attivazione della Corte Costituzionale, è

rappresentata dal giudizio in via principale. Giudizio che ha per oggetto la

proposizione di una Q.L.C. presentata in via diretta, principale, appunto.

Tuttavia, abbiamo già osservato come tale possibilità di adire direttamente la

Corte sfugga a determinati soggetti: i cittadini.

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Per tal via, occorre indagare quali siano i soggetti autorizzati ad adire in via

principale la Corte Costituzionale.

Questi possono essere lo Stato (il Governo) nei confronti delle Regioni, le

Regioni nei confronti dello Stato oppure più regioni tra di loro.

Tra questi soggetti, si incardina così un giudizio, pendente dinnanzi alla Corte,

che si atteggia in modo analogo ai giudizi che ordinariamente intercorrono tra

i cittadini. La particolarità, oltre che dalla natura dei soggetti coinvolti, è data

dall’oggetto del contendere che è rappresentato, anche in questo caso, da una

norma, di cui si sostiene l’illegittimità costituzionale perché emanata da

soggetto diverso da quello che si assume titolare del relativo potere normativo.

Così, ad esempio, il Governo impugnerà presso la Corte Costituzionale una

norma regionale emanata nell’ambito di una determinata materia, lamentando

la sottrazione, da parte di quella regione, del potere di legiferare sul quella

stessa materia.

Occorre osservare come questo tipo di sindacato abbia subito, negli ultimi

anni, un notevole impulso, dovuto alla riforma del Titolo V della Costituzione,

operato con la L. Cost. 3/2001 che ha ridefinito il rapporto Stato/regioni,

assegnando un ampio e non delimitato potere legislativo autonomo in capo alle

Regioni, con conseguente travaso di competenze dall’ambito statale a quello

regionale. Aspetto che ha lasciato un notevole margine di incertezza circa la

chiara e univoca collocabilità di alcuni comparti nell’ambito di competenza

dello Stato anziché delle regioni, a tutto vantaggio di tale tipo di sindacato

costituzionale.

3. Le altre funzioni della Corte Costituzionale.

A chiusura di questa sin troppo rapida e superficiale trattazione della Corte

Costituzionale, giova precisare come le funzioni dell’organo che nella struttura

del nostro Stato è posto a salvaguardia della Costituzione, conoscano altre due

importanti ipotesi, i conflitti di attribuzione e i cd. reati presidenziali.

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I primi si verificano tra Stato e Regioni e tra Regioni, quando entrambi i

soggetti rivendicano un determinato potere, oppure quando vengano lamentato

dall’uno il cattivo esercizio del potere delle altre o viceversa. Come intuibile,

nella prima ipotesi ci troviamo di fronte ad una situazione analoga a quella

trattata a proposito del giudizio in via principale. In effetti, quel tipo di

giudizio può essere visto come un’ipotesi specifica di conflitto di attribuzione,

dal momento che l’oggetto del conflitto di attribuzione (l’attribuzione di un

potere ad un ente anziché all’altro) ben può coinvolgere il potere legislativo,

facendo confluire in un unico giudizio le due ipotesi.

Altra funzione precipua della Corte Costituzionale è il giudizio cui viene

sottoposto il Presidente della Repubblica quando messo in stato di accusa dal

Parlamento in seduta comune per alto tradimento o per attentato alla

Costituzione, gli unici reati presidenziali.

In questo caso, la Corte svolge funzioni giudicanti assimilabili a quelle di un

giudice penale, al quale si sostituisce in considerazione della delicatezza

dell’ipotesi e della connotazione dell’”imputato” che, venendo meno agli

obblighi assunti verso la Costituzione e il Paese ha, di fatto, violato la norma

fondamentale del nostro ordinamento. Ma l’esame verrà ripreso trattando della

figura del Presidente della Repubblica.

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IL PARLAMENTO

1. La tripartizione dei poteri. 2. Composizione e funzioni del

Parlamento. 3. Il potere legislativo. 3.1. Il procedimento ordinario.

3.2. Il procedimento aggravato.

1. La tripartizione dei poteri.

Prima di in iniziare lo studio dei singoli organi in cui si articola la struttura

istituzionale del nostro Stato, appare opportuno chiarire la portata di un

principio fondamentale, posto alla base delle scelte a tal fine operate dal

Costituente. Il principio in parola è il principio di tripartizione dei poteri il

quale postula che ognuno dei tre poteri fondamentali di uno Stato (potere

legislativo, potere esecutivo e potere giudiziario) debba essere conferito ad un

organo diverso ed autonomo rispetto ad altro organo titolare di un diverso

potere dello Stato.

In tale modo, verrà configurata una struttura composta di vari organi, ciascuno

dei quali risulterà titolare di uno solo dei tre poteri, il cui esercizio, per effetto

della reciproca autonomia dei singoli organi, si estrinsecherà in modo

uniforme, coerente, ma indipendente rispetto all’esercizio del diverso potere

da parte del relativo titolare.

Secondo tale principio, attraverso questa diversificazione del potere, si ottiene

un fondamentale effetto di garanzia di democraticità, eliminando il rischio di

possibili accentramenti assolutistici in capo a pochi soggetti se non,

addirittura, in capo ad un singolo che, potendo influenzare l’esercizio degli

altri poteri fondamentali, di fatto, acquisirebbe il ruolo di titolare incontrastato

dell’egemonia Statale.

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Questi profili, tipicamente post-rivoluzionari ma essenziali nella loro

affermazione di principio, hanno avuto una evidente conferma della loro

imprescindibile attualità all’esito della seconda guerra mondiale, quando ci si è

universalmente confrontati con i fenomeni assolutistici-dittatoriali di quel

periodo storico. In tale ottica, l’Assemblea Costituente ha avvertito la

imprescindibile esigenza di garantire il nostro Paese dal rischio di poter

nuovamente essere vittima di gestioni accentrate ed incontrollate dei poteri

propri di uno Stato.

In applicazione, dunque, del principio di tripartizione dei poteri, il dettato della

Costituzione ha predisposto una struttura composta da tre organi fondamentali,

il PARLAMENTO, il Governo e la Magistratura, rispettivamente titolari del

potere LEGISLATIVO, del potere Esecutivo e del potere Giudiziario, i quali

vengono esercitati in modo coerente ma del tutto autonomo essendo tali organi

posti su un piano di assoluta e reciproca indipendenza.

Ove, per ipotesi, non dovesse essere rispettata tale distribuzione del potere, si

verificherebbe un lesione del principio liberale-democratico in parola, che si

concretizzerebbe in un conflitto di attribuzioni del quale si occuperebbe, come

visto, la Corte Costituzionale in qualità di organo a sé stante votato a garantire

il rispetto della Costituzione.

Occorre, comunque, evidenziare la predisposizione di forme di collegamento

tra i singoli organi (quali il rapporto di fiducia che lega Governo e Parlamento)

finalizzati a ridurre ai minimi termini il rischio del verificarsi di simili

situazioni.

2. Composizione e funzioni del Parlamento

Fatta tale doverosa premessa, ci addentriamo ora nell’esame del Parlamento

quale organo titolare del potere, forse, più delicato e preminente, il potere

legislativo, ovvero il potere di “fare le leggi”.

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Prima di esaminare il procedimento attraverso il quale vengono prodotte le

“leggi”, occorre soffermarsi su quale sia ragion d’essere di tale organo, la sua

composizione e le funzioni che gli sono proprie.

Il Parlamento ha come precipua ragion d’essere quella di rappresentare il

popolo e ciò viene realizzato già con il procedimento di formazione di questo

organo, i cui componenti vengono eletti direttamente dal popolo attraverso le

elezioni. Con l’esercizio del diritto di voto, giova ricordarlo, il popolo esercita

quella sovranità che la Costituzione riconosce e garantisce all’art. 1, secondo

comma: “La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei

limiti della Costituzione”.

In effetti, quando l’elettore sceglie di conferire il proprio voto ad una

determinata compagine politica, sceglie gli esponenti di quella compagine

come rappresentanti della sovranità che appartiene indissolubilmente a quel

singolo cittadino. Parimenti, e per l’effetto, i singoli parlamentari sono titolari

di un mandato di rappresentanza politica che li rende rappresentanti del popolo

che li ha eletti, così che tutto ciò che viene posto in essere dal Parlamento, in

realtà, è frutto del potere sovrano del popolo. Ciò è particolarmente

interessante ove si rifletta sull’esercizio del potere legislativo, del potere,

quindi, di formulare comandi destinati a disciplinare il comportamento dei

destinatari delle leggi, i cittadini.

Secondo l’appena esaminato principio di rappresentatività, infatti, se il

cittadino elegge i componenti del Parlamento e questi, in nome e per conto del

popolo che li ha eletti, formulano comandi che si rivolgono ai medesimi

cittadini, si può osservare che, sia pure in forma mediata, sia lo stesso popolo a

darsi delle regole per il tramite dei suoi rappresentati.

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Ed in ciò, forse, risiede l’elemento su cui maggiormente si fonda il carattere

democratico del nostro Paese, la cui forma viene, per quanto esposto, definita,

appunto, una forma DEMOCRATICA-PARLAMENTARE, con ciò

evidenziando quale sia l’organo direttamente eletto dal popolo quale proprio

rappresentante.

Chiarito, dunque, come qualunque funzione o potere di cui è titolare il

Parlamento viene da questo esercitato in nome e per conto del popolo sovrano,

dobbiamo ora esaminare la struttura di questo organo, che si fonda sul

principio di bicameralismo perfetto.

Il Parlamento è, infatti, composto da due camere Camera dei Deputati e

Senato, distinte per numero ed età dei componenti (630 Deputati di età non

inferiore ai 25 anni e 315 Senatori di non meno di 40 anni), ma dotate degli

stessi poteri, esercitati autonomamente ma congiuntamente.

Concretamente, esercizio autonomo ma congiunto del potere da parte di

ciascuna camera significa che, posta la chiara equivalenza del potere e delle

funzioni, la Camera dei Deputati, ed esempio, opera (e quindi delibera) senza

alcun controllo o interferenza da parte del Senato e viceversa. L’esercizio del

potere di ciascuna camera, tuttavia, confluisce verso un unico risultato,

l’adozione di un provvedimento (che può essere l’emanazione di un testo di

legge o qualunque altro atto rientrante nei poteri parlamentari) che appartiene

al Parlamento e non già ad una singola camera, le cui deliberazioni sono così

destinate a fondersi in un’unica manifestazione di potere. È questo il valore

della perfezione del principio bicameralista accolto dalla nostra Costituzione e

che permettere di differenziare la nostra forma parlamentare da quelle in cui le

due ali del Parlamento, non avendo gli stessi poteri, si trovano collocate

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gerarchicamente l’una al di sotto dell’altra in un rapporto di controllato-

controllore.

Quanto alle funzioni del Parlamento, al di là del preminente potere legislativo,

sono rimessi a tale organo il potere di:

- nominare in seduta comune il Presidente della Repubblica;

- deliberarne, in seduta comune, la messa in stato d’accusa;

- conferire (e revocare) la fiducia al Governo.

Si tratta di funzioni che integrano l’esigenza di collegamento del Parlamento

con altri organi che, come nel caso del Governo, pur agendo in modo

assolutamente autonomo nell’esercizio del potere che gli è proprio, è

comunque sottoposto ad una sia pur blanda forma di controllo da parte del

Parlamento nella sua qualità di organo rappresentativo del popolo che ne

determina la preminenza rispetto agli altri organi.

3. Il potere legislativo.

L’esercizio del potere proprio del Parlamento è costituito dal potere

legislativo, quel potere di formulare comandi giuridici che già abbiamo

collocato nel contesto della rappresentanza politica e, vista la valenza

produttiva di diritto, nel sistema delle fonti, definendo la legge, ossia la norma

proveniente dal Parlamento, come la fonte tipica del nostro ordinamento, da

collocare in posizione primaria rispetto a tutte le fonti che non appartengano al

rango costituzionale o al contesto sopranazionale.

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In quest’ottica, dobbiamo, comunque, precisare come oltre alla legge

ordinaria, provengano dal Parlamento anche le uniche fonti in grado di

apportare modifiche al testo della Costituzione: le leggi costituzionali e di

revisione costituzionale.

Tale fondamentale differenziazione delle caratteristiche, dei contenuti e

della funzione di queste ultime norme rispetto a quelle ordinarie, si riverbera

anche sul piano delle modalità dell’esercizio del potere legislativo, la cui

manifestazione segue, dunque, due possibili itinera:

- iter ordinario per l’approvazione delle leggi ordianarie;

- iter aggravato per l’approvazione delle leggi costituzionali e di

revisione costituzionale.

3.1. Il procedimento ordinario.

L’iter di formazione della legge viene definito come una “serie ordinata di

atti ed attività occorrenti per dare vita ad una legge”.15

Tuttavia, ai fini di un corretto ed esaustivo inquadramento del processo di

formazione della legge, si deve precisare come l’intero iter si compia per opera

di più soggetti, che intervengono a fasi susseguenti, così che la produzione

ultima della norma può essere definita come il prodotto dell’attività di più

soggetti, tra cui, sicuramente, il ruolo preminente è riservato all’attività del

Parlamento.

15

L’espressione è di Falcon, Op. cit., p. 264.

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Detto questo, la prima fase che incontra l’iter di formazione della legge è

quella detta dell’INIZIATIVA, ovvero la fase in cui l’iniziativa, appunto, di un

soggetto si trasforma in impulso dell’intera macchina procedimentale per

effetto della presentazione del cd. progetto di legge (formulazione di massima

degli articoli di cui si dovrà comporre l’emananda legge).

I soggetti che possono formulare tale impulso, di cui è destinatario il

Parlamento possono essere i cittadini, mediante la raccolta di 50.000 firme

allegate alla bozza del testo di legge, oppure il Governo, 5 Consigli Regionali,

oppure ancora il Comitato Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL).

Questo per quanto riguarda l’iniziativa cd. esterna che, ovviamente, si affianca

alla naturale iniziativa interna al Parlamento, che può infatti attivarsi anche

dietro iniziativa di ciascun membro delle Camere.

Espletata l’iniziativa, si apre la fase dell’APPROVAZIONE, interamente affidata al

Parlamento che dovrà approvare il medesimo testo di legge mediante

votazione effettuata da parte di ciascuna Camera. Per giungere, tuttavia, a tale

effetto, esistono vari tipi di procedure.

La procedura normale (altrimenti detta in sede referente) prevede

l’assegnazione da parte del Presidente dell’assemblea ad una commissione

permanente, organo parlamentare che ha il compito, in questo caso, di

esaminare il testo della proposta di legge, eventualmente modificandolo per

poi presentarlo all’assemblea, unitamente ad una relazione illustrativa.

Tale testo approvato dalla commissione viene poi discusso in via generale in

aula, per essere poi discusso ed eventualmente approvato articolo per articolo.

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Successivamente si passa al voto finale che ha lo scopo di verificare che quella

formulazione del testo di legge goda ancora del favore della maggioranza

dell’assemblea.

Terminata questa ulteriore fase, il testo passa poi all’altra Camera, presso la

quale avverrà il medesimo iter.

Ove anche la seconda Camera approvi lo stesso identico testo, la futura legge

passerà alla fase della promulgazione. Nel diverso caso in cui la seconda

Camera dovesse dissentire sulla formulazione del testo approvato dalla prima

Camera l’iter legis incontra una battuta d’arresto.

Ove, infatti, la seconda Camera dovesse apportare delle modifiche a quanto

già approvato dalla prima, il testo modificato dovrà ritornare a quest’ultima

perché lo riapprovi conformemente agli emendamenti proposti, così da

garantire la totale corrispondenza della deliberazione di ciascuna delle

Camere. Solo a questo punto l’iter riprenderà il suo corso verso la

promulgazione.

La fase di approvazione, tuttavia, può seguire altre vie ed essere così realizzata

in sede deliberante quando alla commissione è conferito anche il potere di

discutere ed approvare i singoli articoli, procedendo anche al voto finale,

oppure secondo la procedura di approvazione cd. redigente, ove la

commissione discute ed approva il testo di legge lasciando, tuttavia,

all’assemblea la votazione finale.

Tali ultime alternative procedurali sono state predisposte al fine di scongiurare

il più possibile il cd. fenomeno della “navetta” che si verifica quando le due

Camere si rimpallano il testo di legge apponendo continui emendamenti a

quanto approvato dall’altro ramo del Parlamento. Le alternative analizzate,

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tuttavia, non possono essere adottate ove oggetto di approvazione siano testi di

leggi costituzionali, elettorali, di bilancio o di ratifica di trattati internazionali,

ipotesi di fronte alle quali è d’obbligo il ricorso al procedimento deliberante.

Ad ogni buon conto, terminata l’approvazione del testo di legge da parte delle

Camere, questo viene trasmesso al Presidente della Repubblica affinché

provveda alla promulgazione. Tale fase è costituita materialmente

dall’apposizione della firma presidenziale con cui viene disposta la

pubblicazione della norma nella Gazzetta Ufficiale.

Da un punto di vista giuridico e istituzionale, tuttavia, il valore della

promulgazione risiede in un preliminare ma basilare controllo di legittimità su

quella norma che sta per entrare in vigore. Controllo da riferire alla

Costituzione e che vede impegnata non già la Corte Costituzionale16

, bensì il

Presidente della Repubblica, chiamato a compiere tale verifica preliminare in

forza del suo ruolo di garante super partes dei valori costituzionali.

Ove il Presidente dovesse riscontrare un palese profilo di illegittimità, infatti,

potrà rifiutare la firma, apponendo il cd. veto sospensivo, il cui effetto è quello

di rispedire alle Camere il testo di legge, accompagnato da un messaggio

contenente le indicazioni delle valutazioni che hanno precluso la

promulgazione.

Se, tuttavia, pur di fronte al veto sospensivo, le Camere dovessero portare alla

promulgazione lo stesso identico testo di cui il Presidente ha già rifiutato la

firma, quest’ultimo sarebbe costretto a procedere alla promulgazione. Il

motivo è rappresentato dal già trattato ruolo preminente del potere legislativo e

16

La scelta di sottrarre al potere della Corte tale tipo di sindacato è stata motivata dalla

necessità defatigatoria di evitare che la Corte medesima si debba pronunciare su tutte le leggi

da promulgare, a tutto vantaggio di una più efficace tutela del sistema nei confronti di norme

già in vigore e quindi pienamente efficaci.

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dell’organo che ne è titolare il quale, se il Presidente avesse avuto il potere di

opporre il veto sospensivo ad oltranza, sarebbe, di fatto, finito sotto l’egida del

potere presidenziale con notevoli rischi per l’assetto democratico del Paese.

Occorre, inoltre, evidenziare come assieme al Presidente apponga la propria

firma il Guardasigilli e il Ministro competente per materia i quali si assumono

la responsabilità politica della legge che non potrebbe essere assunta da

Presidente dal momento che il ruolo di garante della Costituzione ha imposto

una non responsabilità politico-istituzionale di questo.

L’ultima fase del procedimento di formazione della legge è rappresentata dalla

pubblicazione del testo di legge nella Gazzetta Ufficiale. Tale fase, detta anche

integrativa dell’efficacia, ha lo scopo di portare a conoscenza di tutti i cittadini

il contenuto della nuova legge che sta per entrare in vigore, visto che con la

pubblicazione la legge non dispiega ancora i suoi effetti cogenti, cosa che

accadrà, infatti, trascorsi 15 giorni dall’avvenuta pubblicazione. Tale periodo,

detto vacatio legis ha la funzione di permettere a tutti i destinatari della norma

di prendere visione e coscienza del testo della legge, prima che questo acquisti

la forza di obbligare al rispetto del suo contenuto. Entrata in vigore la legge,

infatti, non verrà ammessa ignoranza e chiunque non dovesse uniformarsi al

dettato normativo potrà essere sanzionato a prescindere dal fatto di non aver

avuto concreta conoscenza di quella nuova norma, dal momento che, terminata

la vacatio legis, l’ordinamento presumerà che tutti la conoscano.

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3.2. Il procedimento aggravato.

Come sappiamo il Parlamento, quale titolare del potere legislativo, è deputato

alla redazione ed approvazione delle uniche fonti con cui è possibile

modificare il testo della Costituzione.

Le leggi costituzionali e le leggi di revisione costituzionale vengono, infatti,

discusse ed approvate dal Parlamento secondo lo schema referente ma

sappiamo che la caratteristica rigida della nostra Costituzione impone al

Parlamento l’adozione del cd. procedimento aggravato.

Tale iter legis, tipico ed applicabile esclusivamente ai due casi in esame, si

caratterizza per una maggiore complessità delle fasi e delle procedure che il

Parlamento deve seguire. Ciò al fine di garantire una maggiore democraticità e

meditazione circa le modifiche da apportare alla norma fondamentale.

Sostanzialmente, l’aggravamento del procedimento è dato dal fatto che le

Camere sono chiamate ad approvare 2 volte il medesimo testo di legge

costituzionale. Ciò significa che terminata la discussione ed approvazione del

testo da parte di una Camera, questo verrà trasmesso alla seconda Camera per

poi essere di nuovo ritrasmesso alla prima che lo invierà nuovamente alla

seconda per l’ultima e definitiva approvazione.

Per evitare poi che le modifiche in discussione possano essere determinate o

perlomeno influenzate da tendenze temporanee del Parlamento, la

Costituzione ha previsto che tra la prima e la seconda “tornata” debba

trascorrere un lasso di tempo di almeno 3 mesi.

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Particolarmente rilevante è poi l’ulteriore elemento di aggravamento del

procedimento che richiede, in sede di seconda approvazione, la maggioranza

assoluta delle singole Camere (il voto della maggioranza non già dei presenti,

come nel procedimento ordinario, bensì dei componenti di ogni Camera).

Sempre in tema di maggioranze deliberative, è stata data particolare attenzione

alla maggioranza con cui è stato approvato in sede di seconda votazione il

testo di legge costituzionale. Ove, infatti, venisse raggiunta una maggioranza

superiore ai 2/3 della singola Camera, la norma passerà nelle mani del

Presidente per la promulgazione che seguirà le medesime modalità previste

per la legge ordinaria, per essere poi regolarmente pubblicata.

Nel diverso caso in cui non venga raggiunta la citata maggioranza qualificata,

per i cittadini si aprirà la possibilità di richiedere un referendum sospensivo

ovvero una consultazione popolare con cui il popolo sarà chiamato a

manifestare la propria volontà in merito alle modifiche da operare sul testo

della Costituzione, il cui iter di formazione rimane, nel frattempo, sospeso in

attesa dell’esito referendario.

Tale istituto ha una valenza particolare in quanto rappresenta un tipico

strumento di democrazia diretta (al pari del referendum abrogativo) nel senso

che permette al popolo di influire direttamente e non mediatamente sul potere

legislativo, formulando precise indicazioni sulla operabilità o meno di

determinate modifiche.

Il motivo per cui è stato previsto un simile e complesso meccanismo è

rappresentato dalla necessità di rimettere al popolo la possibilità di intervenire

sul procedimento di formazione della norma laddove i suoi rappresentati si

orientino in modo frastagliato, lasciando intendere che le modifiche in

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discussione possano non essere condivise da una base sufficientemente vasta

del popolo. È naturale, tuttavia, che la modifica del testo della Costituzione

non può prescindere, stante gli effetti che vi si ricollegano, dalla condivisione

del più ampio numero possibile di cittadini.

In ogni caso deve precisarsi che la possibilità di richiedere il referendum

sospensivo è una facoltà rimessa al popolo e non un passaggio obbligato. In

effetti la Costituzione precisa che, ove venga raggiunta una maggioranza

approvativa dei 2/3, 500.000 elettori, 5 Consigli Regionali o 1/5 dei

componenti di ciascuna Camera possono richiedere che venga indetto il

referendum sospensivo. Richiesta che, per evitare il protrarsi di un disagevole

stato di incertezza, deve essere presentata entro 3 mesi dalla pubblicazione del

testo che viene disposta prima della promulgazione e senza che questa entri in

vigore, proprio al fine di permettere la formulazione della richiesta

referendaria (si tratta di una forma di pubblicità anomala conseguente al

mancato raggiungimento di una maggioranza superiore ai 2/3).

Se in questi 3 mesi non viene avanzata nessuna richiesta, la legge potrà

passare alla promulgazione all’esito della quale verrà pubblicata regolarmente

sulla Gazzetta Ufficiale secondo le normali previsioni. In caso contrario l’esito

referendario influenzerà in modo risolutivo l’iter legis che, in caso di esito

contrario, si arresterà definitivamente e la legge costituzionale o di revisione

costituzionale non verrà ad esistenza. Nel diverso caso di esito favorevole,

invece, l’iter riprenderà il suo corso con la promulgazione e la conseguente

entrata in vigore conseguente alla pubblicazione (regolare) nella Gazzetta

Uffciale.

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IL GOVERNO.

1. La funzione del Governo. 2. Composizione. 3. Formazione. 4. Il

potere esecutivo e la funzione normativa. 4.1. Il Decreto Legge. 4.2.

Il Decreto Legislativo.

1. La funzione del Governo.

Il Governo, nella struttura istituzionale accolta dalla nostra Costituzione,

risulta titolare del potere esecutivo, il potere, cioè, di dare esecuzione alle leggi

e, dunque, al frutto dell’attività del Parlamento il quale, come visto, si situa,

anche sotto tale profilo, su un piano leggermente preminente, pur nel rispetto

di quella autonoma gestione dei singoli poteri postulata dal principio di

tripartizione dei poteri.

Potere esecutivo, vuol dire, pertanto, muoversi in coerenza con l’indirizzo del

Parlamento per l’attuazione concreta del contenuto della legge. Alla luce di

tale considerazione, è apparsa evidente la necessità di garantire tale uniformità

e coerenza tra i poteri dello Stato, anche attraverso la predisposizione di una

disciplina a ciò orientata, sia della formazione che del funzionamento

dell’organo esecutivo.

È a tale finalità, infatti, che si deve la definizione del rapporto istituzionale che

deve intercorrere tra i due organi citati, il rapporto di fiducia, che, come

vedremo, rappresenta il vero e proprio presupposto imprescindibile per

l’esistenza e l’esercizio delle funzioni del Governo.

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2. Composizione.

Il Governo è un organo costituzionale complesso, in quanto la sua

composizione consta di due organi, il Presidente del Consiglio dei Ministri e i

singoli Ministri i quali, nella loro qualità di organi indipendenti tra di loro,

sono in grado di manifestare verso l’esterno una autonoma volontà. Resta,

tuttavia, il fatto che Presidente del Consiglio e singoli Ministri costituiscono,

insieme, il Consiglio dei Ministri, al quale vanno, di massima, riferiti tutti i

poteri che la Costituzione e le leggi affidano, senza nulla precisare, al

Governo19

.

In effetti, nel testo dell’art. 92 della Costituzione si legge testualmente una

formulazione che lascia su un piano di sostanziale identificabilità il concetto di

Governo con quello di Consiglio dei ministri:“il Governo della Repubblica è

costituito dal Presidente del Consiglio e dai ministri, che costituiscono

insieme il Consiglio dei ministri”.

Per quanto riguarda il cd. sotto-organo rappresentato dal Presidente del

Consiglio, la carta costituzionale individua i compiti di questi nella direzione

della politica generale del Governo e ne è responsabile, nel mantenimento

della unità di indirizzo politico e amministrativo, promuovendo e coordinando

l’attività dei ministri.

Ad una prima lettura potrebbe sembrare che la Costituzione abbia così

ritagliato in capo al Presidente del Consiglio un ruolo di assoluta preminenza e

controllo sull’operato dei ministri (peraltro nominati su proposta dello stesso

Presidente del Consiglio) e, conseguentemente, quasi una titolarità dei poteri

del Governo.

In realtà, tuttavia, una simile conclusione potrebbe solo in parte dirsi fondata.

La funzione direttiva della politica del Governo, ad esempio, non costituisce

indice dell’esistenza in capo al Presidente di un potere di determinazione di

questa, che, invece, spetta unicamente al Consiglio dei ministri che esercita

collegialmente tale potere, deliberando su ogni questione relativa all’indirizzo

politico fissato dal rapporto fiduciario con le Camere.

19

Cfr. Falcon, op.cit., p.223.

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Alla luce di ciò, la preminenza della figura del Presidente si sostanzia,

piuttosto, in un potere di rappresentanza del Governo oltre, naturalmente, a

poteri di gestione dell’attività deliberativa di questo, come la convocazione del

Consiglio dei ministri e la fissazione dell’ordine del giorno, mentre, per il

rimanente “l’autorità di cui gode e la sua capacità di imprimere una effettiva

unità di indirizzo politico governativo dipendono piuttosto dalle sue doti

personali e dalle circostanze politiche in cui operi”20

.

Per quanto attiene, invece, al ruolo e ai poteri del Consiglio dei

ministri, occorre precisare che la Costituzione non fornisce indicazioni

esplicite in tal senso, tanto che la funzione di determinazione dell’indirizzo

politico e, soprattutto, amministrativo si trova sancita in una legge ordinaria, la

L. 400 del 1988 cui viene demandata la massima parte della disciplina del

funzionamento dell’organo esecutivo.

Nel contesto di tale potere fondamentale il Consiglio deve essere visto come

l’organo assolutamente più elevato della pubblica amministrazione, le cui

funzioni sono da inquadrare come esplicazione concreta e periferica

dell’applicazione delle leggi e, con ciò, del potere esecutivo.

Ogni singola amministrazione, infatti, ha come vertice di potere e di

organizzazione il ministro nella sua qualità di titolare del ministero

competente per la singola materia di attività delle varie amministrazioni, che

sono, dunque, organizzate per ministeri (o dicasteri).

Il fatto che il vertice venga individuato nei singoli ministri anziché in capo al

Consiglio, ci permette di evidenziare la assenza di qualsivoglia gerarchia tra

questo e i ministri che lo compongono. La Costituzione stessa, infatti, precisa

come i ministri siano responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei

Ministri e individualmente per gli atti dei loro dicasteri (art. 95, comma 2

Cost.).

Da ultimo, nella complessa struttura governativa, fatta di numerosi

organi (comitati, sottosegretariati, commissariati) che, per ragioni di

concretezza espositiva siamo costretti a tralasciare, meritano, inoltre,

menzione i cd. ministri senza portafoglio che si distinguono dai ministri a tutti

gli effetti per il fatto di non essere a capo di un ministero. I ministri senza

20

L’espressione è di Falcon, op. cit., p. 225.

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portafoglio sono pertanto nominati presso la Presidenza del Consiglio dei

ministri, relativamente ad incarichi particolari, specificatamente individuati e

che, pertanto, configurano tali soggetti come una figura per così dire

eventuale, sia per presenza che per numero.

3. Formazione.

Il legame che intercorre tra Parlamento e Governo, come abbiamo già detto,

riveste un ruolo imprescindibile per l’esistenza e il funzionamento

dell’Esecutivo.

A ciò, senza dubbio, si ricollega la procedura prevista dalla Costituzione per la

formazione del Governo, nell’ambito della quale, infatti, svolge un ruolo

decisivo il Parlamento.

In primo luogo, la vita del Governo si trova, infatti, collegata alla durata in

carica delle Camere in quanto, in ogni caso, all’esito delle elezione, quando

dunque si forma il nuovo Parlamento, il Governo deve presentare le proprie

dimissioni. Ciò al fine di garantire una perfetta rispondenza tra maggioranza

parlamentare scelta dal popolo e composizione dell’organo chiamato a dare

attuazione all’operato del rappresentante della sovranità popolare.

Tuttavia, il Governo, oltre che per questa fisiologica evenienza, può essere

costretto a dimettersi anche in conseguenza dell’approvazione della cd.

mozione di sfiducia votata a suo danno da una Camera. Anche in questo caso,

il Governo, non potendo più contare sul sostegno e sull’intesa con il

Parlamento è costretto a presentare al Presidente della Repubblica le

dimissioni, come conseguenza di quella che viene definita come crisi

Parlamentare, per evidenziare l’origine del venir meno del rapporto di fiducia.

A conferma della struttura complessa del Governo, sta la possibilità per il

Parlamento di colpire con la mozione di sfiducia anche singoli ministri, oltre

che l’intero Esecutivo, con l’effetto di un onere di dimissione limitato al

singolo ministro, cosa che, quindi, non determina la caduta del Governo che

potrà continuare a svolgere il proprio mandato.

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È poi da precisare come al fine di mantenere una certa unitarietà e capacità

degli organi costituzionali all’adempimento di attività imprescindibili, sia stata

prevista la cd. prorogatio, ossia un prolungamento in vita del Governo

dimissionario al solo fine di compiere quegli atti di ordinaria amministrazione

senza i quali, in attesa della nomina del nuovo esecutivo, si verificherebbe una

paralisi istituzionale.

Vediamo ora quale procedura sia prevista per la nascita di un nuovo

Governo.

La prima fase è rappresentata dalle consultazioni che il Capo dello Stato

compie al fine di accertare quali siano i parametri in virtù dei quali il futuro

Governo potrà contare sulla fiducia delle Camere.

In tal senso, dunque, verranno consultati i Presidenti delle due Camere, i capi

dei gruppi parlamentari e i segretari dei partiti politici.

Sulla scorta di tali consultazioni, il Presidente della Repubblica individuerà un

soggetto cui verrà affidato l’incarico di formare il nuovo Governo. Costui,

secondo una costante prassi costituzionale, accetterà l’incarico con riserva,

così da non vincolare le decisioni del Presidente della Repubblica nel caso di

fallimento del mandato (che viene definito esplorativo) volto alla formazione

del nuovo Governo.

Il soggetto incaricato, che tendenzialmente diverrà il nuovo Presidente

del Consiglio, inizierà, così, una serie di consultazioni e valutazioni volte ad

individuare i soggetti cui affidare i ministeri e le materie che, non rientranti in

altri dicasteri, abbisognano della nomina di specifici ministri senza

portafoglio.

Una volta completato l’ipotetico organico, il futuro Governo si presenterà al

cospetto del Presidente della Repubblica il quale nominerà dapprima il

Presidente del Consiglio e, successivamente, i singoli ministri da questi

proposti. È a questo punto che le dimissioni del Governo uscente verranno

accettate con decreto del Presidente della Repubblica, controfirmato dal neo-

nominato Presidente del Consiglio.

A questo momento, tuttavia, il Governo non assume ancora le proprie funzioni

in quanto ciò accadrà solo in seguito al giuramento che i componenti

rassegneranno nelle mani del Presidente della Repubblica. La fase successiva,

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tuttavia, è quella cui è rimessa l’effettiva e definitiva instaurazione del

Governo come titolare, a tutti gli effetti, dei poteri che gli competono.

Entro 10 giorni dal giuramento, infatti, il nominato Governo dovrà redigere il

cd. programma di Governo con il quale entro lo stesso termine dovrà

presentarsi alle Camere per ottenere da queste la fiducia, che verrà votata

proprio sulla scorta del programma, che segnerà, così, le linee guida e gli

impegni che il Governo stesso si assumerà nei confronti del Parlamento e,

quindi, del popolo.

Da ciò si comprenderà più compiutamente la ragione che impone le dimissioni

del Governo colpito da sfiducia e che, del pari, impediscono il definitivo

insediarsi del Governo che non dovesse ottenere la fiducia in questa ultima

fase della sua formazione.

4. Il potere esecutivo e la funzione normativa.

Abbiamo sopra chiarito la valenza del principio di tripartizione dei poteri,

affermando come l’applicazione di questo imponga la diversificazione di tali

poteri attraverso l’assegnazione di ogni singola funzione dello Stato ad

altrettanti organi autonomi tra loro.

Ciò significa che ad esercitare il potere legislativo non può che essere il

legittimo titolare di questo, il Parlamento.

Nella gerarchia delle fonti, abbiamo tuttavia incontrato due norme che

sembrano apparentemente contraddire questo dogma. Si tratta dei decreti

legge e dei decreti legislativi, fonti che si caratterizzano per una forza pari a

quella della legge ordinaria ma che, anziché provenire dal Parlamento,

provengono dal Governo il quale, come appena visto, è titolare del diverso

potere esecutivo.

Ad un esame più approfondito dell’iter di formazione di queste norme e dei

presupposti su cui si fondano, non sfuggirà al lettore come ciò che è chiamato

ad esercitare il Governo non sia un vero e proprio potere legislativo (come

potere discrezionale e autonomo), quanto, piuttosto, un mero esercizio di una

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funzione, delegata all’Esecutivo dal Parlamento, per ragioni di celerità o di

opportunità.

4.1. Il Decreto Legge.

Nel caso del decreto legge il presupposto fondante l’esercizio delle funzioni

normative da parte del Governo risiede in una particolare situazione di

emergenza che richieda l’approntamento di una disciplina normativa di

carattere primario in tempi assolutamente rapidi.

L’esempio è senz’altro offerto dal verificarsi di calamità naturali che

richiedano l’immediata disponibilità di risorse e di una disciplina di situazioni

contingenti che solo una norma di carattere primario può fornire.

I tempi operativi del Parlamento, in effetti, certo non possono garantire una

risposta, in termini di legge, sufficientemente celere e, dunque, di fronte alla

improcrastinabile necessità ed urgenza, la Costituzione ha previsto questa

apparente eccezione alla usuale ripartizione dei poteri.

Non è a caso che tale disciplina è stata definita come una eccezione

meramente apparente, perché in realtà il decreto legge, emanato dal Governo

all’esito della discussione ed approvazione collegiale da parte del Consiglio

dei Ministri, è, in realtà, destinato a fronteggiare una emergenza nelle more

dell’intervento parlamentare. Ciò significa che la ragion d’essere di tale norma

è limitata al tempo tecnico necessario al Parlamento per disciplinare con legge

ordinaria la situazione contingente.

È per tale ragione che il decreto legge, all’esito della sua approvazione viene

promulgato dal Presidente della Repubblica ed entra in vigore il giorno

seguente la sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.

La caratteristica peculiare del decreto legge è, tuttavia, quella di avere un

durata determinata, rimanendo in vigore per 60 giorni dalla sua pubblicazione.

Decorso tale termine si aprono due ipotesi: se lo stato di emergenza dovesse

venire meno e con esso la necessità di una relativa disciplina normativa, il

decreto decade e viene considerato come mai esistito; se, invece, le circostanze

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che ne hanno richiesto l’emanazione dovessero permanere, allora il decreto,

per non decadere con gli effetti sopra illustrati, dovrà, entro lo stesso termine

di 60 giorni, essere convertito in legge dal Parlamento, cui viene presentato il

decreto nel giorno seguente la sua emanazione affinché possa così iniziare

l’iter di conversione (assolutamente identico a quello di una legge ordinaria).

Terminato l’iter di conversione, la legge ordinaria che verrà emanata sostituirà

il decreto legge nella disciplina della materia, con la possibilità di operare

anche modifiche al testo originario di questo.

Una ulteriore possibilità è fornita dalla prassi, invalsa soprattutto alcuni anni

orsono, che permette la reiterazione del decreto legge che, in tal modo viene

prorogato in attesa della sua conversione. L’applicazione incontrollata di tale

consuetudine ha, però, richiesto la modifica della L. 400/88 al fine di

scongiurare il rischio di una reiterazione a tempo indeterminato che portava ad

una pericolosa quanto aberrante trasformazione di una norma a carattere

temporaneo in una norma in grado di soppiantare (con tutte le conseguenze del

caso) la legge del Parlamento.

4.2. Il Decreto Legislativo.

Nel diverso caso del decreto legislativo, ciò che legittima il Governo

all’esercizio di funzioni normative è, non già uno stato di fatto, quanto un vero

e proprio atto normativo, anzi, una legge del Parlamento, la legge delega.

Le ragioni che spingono il Parlamento a delegare le funzioni normative al

Governo sono essenzialmente da ricercare o in una limitazione del carico da

parte del titolare del potere legislativo, specie per materie non particolarmente

delicate, oppure nel particolare contenuto tecnico che taluni interventi

normativi possono richiedere e che i parlamentari potrebbero essere in grado

di valutare in modo approssimativo, certamente non al livello tecnico di un

ministro, specie nel caso si tratti di un cd. Governo tecnico, composto da

soggetti realmente impegnati nel contesto di competenza di quel dicastero che

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reggono (si pensi a quanti primari e/o professori universitari di medicina

hanno ricoperto il ruolo di ministro della salute).

Qualunque sia la ragione di opportunità che consigli al Parlamento questa via,

sicuramente più celere ed efficace, ciò che caratterizza il decreto legislativo è

il suo presupposto, la delega per mezzo della quale vengono dati gli indirizzi e

tracciati i paletti di confine dell’attività delegata al Governo.

Decisivo, anche al fine dell’imprescindibile rispetto dei due autonomi poteri

dei soggetti coinvolti da tale tipo di norma, è il rispetto di tali indicazioni. Ove,

infatti, il Governo si dovesse discostare dalla traccia contenuta nella legge

delega, il decreto legislativo che ne deriverebbe sarebbe radicalmente

illegittimo per eccesso di delega. Su tale violazione si potrebbe pronunciare la

Corte Costituzionale, la quale sanzionerebbe il decreto abnorme con la già

vista declaratoria di illegittimità costituzionale per violazione dell’art. 76

Cost., che afferma, appunto che “L'esercizio della funzione legislativa non può

essere delegato al Governo se non con determinazione di principi e criteri

direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti.”

Come si può, a questo punto, empiricamente notare, la ragione che permette di

affermare con sicurezza l’assenza di qualsivoglia potere legislativo in capo al

Governo, affermando anche l’inesistenza di ogni eccezione al normale riparto

di poteri, sta proprio nel necessario intervento del Parlamento. Senza questo,

infatti, l’attività del Governo cade, o per il mancato intervento di ratifica e

conversione o per la mancanza di una preventiva e specifica delega entro cui

contenere l’intero contenuto decretale.

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IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA.

1. La,funzione e il ruolo del Presidente della Repubblica. 2. Le attribuzioni. 3.

1 reati presidenziali.

1. La funzione e il ruolo del Presidente della Repubblica.

Quella del Presidente della Repubblica Italiana è una figura sui generis nel

contesto degli organi che la Costituzione ha posto a fondamento della struttura

istituzionale del nostro Paese.

Le ragioni sono molteplici. Il Presidente della Repubblica è titolare di

numerose attribuzioni, che si diramano sino all'interno dei tre singoli poteri

dello Stato, il che farebbe legittimamente pensare ad una figura assolutamente

centrale nell'organizzazione statale. Un organo monocratico, dotato di un forte

potere, che fosse in grado di influenzare, partecipandovi, le scelte e l'esercizio

dei tre poteri fondamentali, tuttavia, si sarebbe posto su un piano di assoluta

incompatibilità con i criteri e i principi assunti a fondamento dell'opera della

costituente al fine di garantire il nostro Stato dal rischio di concedere troppo

potere nelle mani di pochi.

Proprio in ossequio a tale esigenza, la figura del Presidente della Repubblica, è

stata configurata dall'art. 87 Cost., come garante dell'unità nazionale, un ruolo

che lo vede rappresentante dello Stato sia all'interno (nella vita istituzionale e

politica), sia verso l'esterno (nei rapporti internazionali).

In questo senso, dunque, le prerogative che il Presidente può manifestare verso

il potere legislativo, esecutivo o giudiziario, devono sempre essere lette

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nell'ottica di una funzione di garanzia che la funzione presidenziale ricopre

anche verso la Costituzione e i valori in essa contenuti.

Certamente, una figura dal così alto significato si deve necessariamente

collocare super partes, nel senso di non essere coinvolto nelle dialettiche che

dividono le compagini politiche e che vincolerebbero le scelte del Presidente

agli effetti che possano da queste derivare anziché all'equilibrio e alla tutela

dell'ordine costituzionale.

Da un punto di vista strettamente funzionale, invece, si deve rammentare che il

Presidente viene eletto, tra i cittadini i possesso dei diritti civili e politici che

abbiano compiuto i 50 anni di età, dal Parlamento in seduta comune (Camera e

Senato si riuniscono in un'unica seduta) che deve raggiungere la maggioranza

dei 2/3 dell'assemblea, la quale, solo in questo caso, si compone anche di tre

delegati per ogni Regione, eletti dal Consiglio Regionale in modo che sia

assicurata la rappresentanza delle minoranze.

Una volta eletto e dopo aver prestato giuramento di fedeltà alla Repubblica, il

Presidente assume a tutti gli effetti il proprio mandato della durata di 7 anni

(due anni in più rispetto al Parlamento, che conta su un mandato

quinquennale) nel corso dei quali gode della irresponsabilità affermata dall'art.

90 Cost., a lettera del quale Il Presidente della Repubblica non è responsabile

degli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni.

Trenta giorni prima della scadenza del mandato vengono indette le elezioni per

la nomina del nuovo Presidente in attesa del quale i poteri del Presidente

uscente verranno prorogati al fine di garantire continuità alla figura

istituzionale.

Dopo la cessazione dalla carica, l'ex Presidente assume, di diritto, la carica di

senatore a vita salvo sua espressa rinunzia.

Nel contesto dell'esigenza di continuità nelle funzioni del Presidente, deve

essere, infine, esaminata la disciplina predisposta per l'ipotesi di impedimento

che, ove temporaneo, vede il Presidente del Senato assumere ad interim le

vesti di Presidente della Repubblica fino al rientro del titolare, mentre nel caso

di impedimento permanente non rimarrebbe altra strada che l'indizione di

nuove elezioni.

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2. Le attribuzioni.

Come detto, il ruolo del Presidente della Repubblica ne determina funzioni di

carattere meramente rappresentative e funzioni volte alla garanzia imparziale

dei fondamenti della Costituzione.

In tale direzione è possibile distinguere le attribuzioni segnate dall'art. 87 Cost,

a seconda del potere fondamentale in cui si estrinsecano.

A livello legislativo, il Presidente della Repubblica, come visto, promulga le

leggi, ma è titolare anche del potere di inviare messaggi alle Camere,

attraverso i quali può fornire indicazioni su aspetti di rilievo che devono essere

considerati in sede di approvazione di una legge o per sollecitare l'iniziativa

legislativa ove si avvertisse l'esistenza di un vuoto legislativo.

Collegato al potere di promulgazione delle leggi è il già esaminato potere di

veto, finalizzato ad un controllo sommario sulla legittimità costituzionale della

legge che sta per entrare in vigore. Ove il Presidente, infatti, dovesse ravvisare

profili di incostituzionalità, potrà, con messaggio motivato, rimandare alle

Camere il testo di legge, affinché venga modificato in conformità alla

Costituzione. Qualora, tuttavia, il Parlamento dovesse approvare nuovamente

lo stesso testo di legge senza apportarvi le modifiche indicate, il Presidente

non potrà opporre nuovamente il veto sospensivo e sarà costretto a procedere

alla promulgazione. L'epilogo dimostra come la promulgazione e il potere di

veto non siano in realtà dei poteri in senso stretto quanto degli atti formali.

Ciò che, invece, può essere definito a pieno titolo come "potere", nella sua

accezione di potestà autonoma discrezionalmente esercitata è il potere di

scioglimento anticipato delle Camere.

Si tratta di un potere il cui esercizio comporta effetti assolutamente gravi per la

vita istituzionale del paese, dal momento che, comportando lo scioglimento

dell'organo rappresentativo del popolo, potenzialmente priva il popolo stesso

dello strumento di esercizio della sovranità di cui è titolare.

Le circostanze che possono giustificare una simile scelta sono ricollegabili ad

una manifesta stasi del momento deliberativo del Parlamento verificatasi,

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ripetutamente, a causa di un margine di maggioranza minimo che può essere

cancellato dall'assenza di pochi parlamentari con l'effetto di impedire il

raggiungimento di una maggioranza. Si pensi all'esempio che vede una

compagine politica vincere le elezioni con uno scarto di voti minimo (2%). La

composizione del Parlamento dovrà rispettare il più possibile tali proporzioni,

il che significa che all'interno delle due assemblee la maggioranza che

determina la formazione della volontà dell'organo è rappresentata da un

numero di seggi molto vicino a quelli ricoperti dalla compagine di minoranza.

Questo scarto minimo potrebbe essere facilmente colmato dall'assenza dei

deputati o Senatori, così che il numero dei presenti che rendano voto

favorevole all'approvazione di una legge potrebbe essere uguale a quello dei

contrari con il risultato di non riuscire a formare alcuna maggioranza

deliberativa. Il Parlamento, come ogni altro organo collegiale, in mancanza di

una maggioranza si blocca non potendo formare alcuna volontà. Ma in

un’ipotesi ancora più macroscopica, per le stesse ragioni, si potrebbe arrivare

all'approvazione di leggi per il voto favorevole della compagine che non ha

raggiunto la vittoria elettorale con un conseguente, completo sovvertimento

del rapporto di rappresentanza politica.

Va da sé che la possibilità di formare una volontà aderente all'esito elettorale

in tempi concreti e con una certa stabilità è presupposto e, al tempo stesso,

obiettivo imprescindibile della rappresentatività di cui è titolare il Parlamento

che, ove venga a trovarsi in queste circostanze, certo non permette al popolo di

esercitare alcuna sovranità.

Si tratta, perciò, di una situazione di stallo che colpisce l'organo

istituzionalmente più importante con conseguenze tali da pregiudicare la forma

repubblicana democratica parlamentare su cui si fonda lo Stato italiano. Di

fronte ad una tale situazione, il costituente, ha conferito al garante dell'unità e

dei principi costituzionali il potere di risolvere la stasi sciogliendo

anticipatamente le Camere e indicendo nuove elezioni per la costituzione di un

nuovo Parlamento che sia in grado di svolgere la propria funzione.

Un potere che vista la gravità delle conseguenze che ne derivano, non può

essere esercitato dal Presidente negli ultimi sei mesi del suo mandato

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(semestre bianco) in quanto si è ritenuto che potesse offrire la possibilità di

strumentalizzazioni.

Nell'ambito del potere esecutivo le funzioni del Presidente della Repubblica si

sostanziano nella nomina del Presidente del Consiglio e, su proposta di questo,

dei singoli ministri, nella dichiarazione dello stato di guerra deliberato dalle

Camere, nell'annullamento, su un piano amministrativo, degli atti illegittimi di

qualunque autorità e nella decisione sui ricorsi straordinari presentati contro

provvedimenti amministrativi, nonché nel potere di scioglimento dei Consigli

Regionali, provinciali e comunali nei casi previsti dalla legge.

Su un piano giudiziario, il Presidente della Repubblica presiede il Consiglio

Superiore della Magistratura (organo di autogoverno della magistratura),

nomina un terzo dei componenti della Corte Costituzionale e può, in singoli

casi, concedere la grazia o commutare le pene.

3. I reati presidenziali.

Si è detto in precedenza della irresponsabilità del Presidente della Repubblica,

configurandola come non responsabilità per gli atti compiuti nell'esercizio

delle sue funzioni.

Una simile prerogativa, d'altronde, ben si collega con il ruolo di garante super

partes che la Costituzione gli ha conferito e che, senza meno, sarebbe

gravemente pregiudicato da una eventuale ricaduta degli effetti politici,

giudiziari ecc. che dovessero derivare al Presidente in conseguenza

dell'esercizio delle sue funzioni.

È in applicazione di tale assunto, ad esempio, che, in sede di promulgazione, è

previsto l'istituto della controfirma ministeriale, in forza del quale, unitamente

al Presidente della Repubblica, che firma attestando una sostanziale

conformità alla Costituzione, il testo di legge viene controfirmato dal ministro

proponente e dal Presidente del Consiglio dei ministri, quali si assumono la

responsabilità politico-istituzionale della legge promulgata.

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Per lo stesso principio di irresponsabilità, il Presidente della Repubblica si

trova in uno stato di immunità che, anche sul piano penale, ammette due

uniche eccezioni: l'alto tradimento e l'attentato alla Costituzione. Le due

ipotesi costituiscono gli unici reati per i quali il Presidente può essere

sottoposto a giudizio e si verificano, rispettivamente, nel caso di divulgazioni

di segreti inerenti la difesa del Paese a potenza nemica e, nel secondo caso,

nella tenuta di un comportamento istituzionale atto a sovvertire l'ordine

costituzionale.

Qualora il Presidente dovesse incorre in una di queste ipotesi estreme di reato

è previsto un particolare procedimento che prende il posto di quello che per i

cittadini è il processo.

È in primo luogo necessario che venga votato lo stato d'accusa del Presidente,

che corrisponde ad una sorte di denuncia, che il Parlamento deve votare in

seduta comune a maggioranza assoluta dei suoi membri. Deliberata la messa

in stato d'accusa, il Presidente (che nel frattempo è tenuto per prassi a

dimettersi) si presenta alla Corte Costituzionale che, riunita in composizione

allargata con l'aggiunta di altri 16 membri scelti tra cittadini di almeno 50

anni, in possesso dei diritti civili e politici, ha il compito di giudicare sulla

sussistenza o meno del reato ascritto. Da notare che la Corte Costituzionale, in

questo caso, svolge una funzione giudicante in senso stretto, compiendo

valutazioni assimilabili a quelle di un giudice penale. Certo, la rilevanza dei

fatti e l'assoluta specialità dell’"imputato'' hanno portato ad individuare in capo

a tale organo, anziché in capo alla magistratura, il potere di effettuare un

simile sindacato, tanto più che, ove si rifletta sul ruolo di garante che la

Costituzione ha assegnato al Presidente della Repubblica, apparirà chiaro

come la realizzazione di questi reati integri anche (e soprattutto) una profonda

violazione dei principi costituzionali che, alla luce dei fatti, vedono come

unico e forte garante proprio la Corte Costituzionale.

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LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE.

1. La funzione della Pubblica Amministrazione. 2. L’organizzazione della

P.A. alla luce del principio di sussidiarietà. 3. L’attività amministrativa. 4. Il

potere amministrativo. 5. Atti & provvedimenti amministrativi. 6. Il

procedimento amministrativo.

1. La funzione della Pubblica Amministrazione.

Parlando dei poteri dello Stato, abbiamo tracciato un filo conduttore che lega il

primario potere di fare le leggi, con il conseguente potere di dare attuazione a

queste, la cui tutela risulta affidata al potere di controllo sul rispetto concreto

delle norme in vigore, attraverso la repressione di eventuali violazioni delle

stesse.

In questo insieme di attività e funzioni, dobbiamo ora occuparci di come,

concretamente, possa essere data attuazione al dettato delle norme in vigore

nel nostro Paese.

L’attività del Governo, come visto, si sostanzia, infatti, in un’attività di

carattere centrale, istituzionale che, come tale, è ancora caratterizzata da un

consistente livello di astrattezza che impedisce di ravvisare negli atti

dell’Esecutivo la concreta e ultima applicazione del dettato normativo nei

confronti del singolo cittadino.

Oggetto della presente analisi è, infatti, la verifica di come, concretamente, il

singolo cittadino percepisca la gestione e la realizzazione degli interessi di cui

si è fatto portatore, garante e promotore lo Stato.

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Quest’ultima considerazione, ci permette, innanzitutto, di evidenziare un

fondamentale presupposto: lo stato agisce per la tutela e la realizzazione di

interessi che appartengono, tendenzialmente, a tutti i cittadini.

Interessi come quello alla salute, all’istruzione, al lavoro, sono senza dubbio

comuni a tutti i cittadini, al di là delle interpretazioni ideologiche a questi

applicabili. Per capire la centralità assoluta della gestione di tali interessi

(definibili come interessi pubblici) è sufficiente volgere lo sguardo verso la

struttura di cui si compone il Governo, titolare del potere di attuare la

disciplina normativa. All’esito di una simile verifica, scopriremo una assoluta

rispondenza di ogni singolo Ministero ad altrettanti interessi comuni a tutti i

cittadini così da creare autonomi e coordinati centri di potere esecutivo, volti

alla disciplina di ogni singolo interesse pubblico.

Il Ministero dell’Istruzione, università e ricerca, sarà, per tal via, titolare di un

fascio di poteri orientati, nell’ambito dell’attività esecutiva, alla

predisposizione di strumenti, previsti dalle norme vigenti, strumentali alla

migliore gestione dell’interesse all’istruzione dei cittadini.

L’attività del ministero, qualunque esso sia e qualunque sia il suo campo

operativo, certo non può avere come destinatari i singoli cittadini che

richiedano l’attuazione di un interesse pubblico. Sarebbe inimmaginabile che

l’iscrizione di ogni singolo bambino ad un istituto scolastico possa dipendere

da un provvedimento ministeriale. Lo stesso è a dirsi per ogni altra attività

esecutiva (basti pensare a cosa accadrebbe se ogni adempimento anagrafico,

fiscale ecc., dovesse essere realizzato a Roma, presso gli uffici del Ministero

competente).

Da tali considerazione emerga chiara la necessità di una struttura periferica

capillare, cui lo Stato possa conferire poteri specifici al fine di dare attuazione

specifica agli interessi pubblici, in modo da gestire uniformemente tutte le

singole situazioni che ne facciano richiesta.

È questa la funzione della Pubblica Amministrazione che si colloca pertanto

all’immediata dipendenza dei ministeri e, dunque, del Governo, partecipando

come strumento operativo all’esercizio del potere esecutivo.

Corollario di ciò è la necessità di diversificazione della P.A. in tante

amministrazioni quanti sono i settori di interesse dello Stato, anzi, è più

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corretto affermare la netta rispondenza tra interessi pubblici e amministrazioni

pubbliche chiamate alla gestione concreta degli stessi.

Per quanto nel linguaggio corrente l’espressione “pubblica amministrazione”

sia utilizzato in senso generale per indicare la burocratica struttura statale, alla

luce di questa sommaria valutazione, dobbiamo concludere che la struttura

amministrativa è senz’altro basata su un concetto pluralista di riparto di

competenze affidate a numerosi centri di interesse e, dunque, a numerose

“pubbliche amministrazioni” che agiscono in completa e reciproca autonomia

gestionale sotto l’indirizzo e il controllo del ministero competente.

In questo modo, le singole pubbliche amministrazioni vengono configurate

come strumenti di cui si servono i ministeri per curare a livello periferico i

bisogni dei cittadini. Sillogisticamente, si può quindi affermare che, se un

interesse pubblico corrisponde ad un bisogno dei cittadini e che oggetto

dell’attività dei singoli ministeri di cui si compone il Governo è la cura degli

interessi pubblici, in attuazione delle norme vigenti e attraverso le strutture

della P.A., posta la corrispondenza e unitarietà dell’attività amministrativa con

quella governativa, possiamo affermare conclusivamente affermare che scopo

della funzione amministrativa è quello di soddisfare in concreto i pubblici

interessi della comunità attraverso la soddisfazione del bisogno sociale.

2. L’organizzazione della P.A. alla luce del principio di sussidiarietà.

Strutturalmente parlando, la P.A. può essere definita come un insieme di

organi e uffici preposti allo svolgimento dell’attività di gestione dell’interesse

pubblico in cui si sostanzia l’attività amministrativa.

Ciò significa che all’interno di ogni singola amministrazione dello Stato,

indipendentemente dalla materia o dalla collocazione, periferica o centrale di

questa, troveremo vari centri di potere in grado di formare e/o manifestare

giuridicamente verso l’esterno la volontà dell’amministrazione di

appartenenza (organi) e tutta una serie di ulteriori strutture, deputate alla mera

esecuzione materiale dell’attività posta in essere dai primi, pur senza essere

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titolari di alcun potere e senza poter manifestare all’esterno la volontà

dell’ente di appartenenza (uffici).

Ma l’aspetto più attuale e rilevante della organizzazione della funzione

amministrativa è offerto dallo studio dei cd. Enti territoriali o Enti Locali.

Tali enti, che l’art. 114 Cost. individua nelle Regioni, Province, Città

metropolitane e Comuni sono enti cui è demandato il compito di gestione

(articolata su scala territoriale secondo uno schema a cerchi concentrici) dei

singoli organi delle varie amministrazioni, creando così, una struttura

periferica attraverso cui lo Stato è in grado di coordinare l’attività

amministrativa.

Recentemente, tuttavia, il ruolo degli enti locali ha subito una profonda

reinterpretazione alla luce del cd. principio di sussidiarietà che è stato assunto

nell’organizzazione dello Stato e che ha, di fatto, ribaltato il rapporto

cittadino/Stato.

Questa sorta di rivoluzione copernicana è stata operata dapprima attraverso

l’emanazione del D.lgs 267/00 che ha riordinato le funzioni e la disciplina

generale degli Enti Locali e, successivamente, con la fondamentale riforma del

Titolo V della Costituzione che esaminiamo ora nei suoi effetti

amministrativistici dando per acquisite le considerazioni già svolte a livello

legislativo.

Attraverso questi impianti normativi si è voluto spostare il punto focale

dell’attività non solo amministrativa ma dello Stato stesso verso il cittadino. In

tal modo il bisogno del cittadino è, oltre che oggetto, anche punto di partenza

per la individuazione dell’ente titolare del potere di gestione di quel interesse

pubblico, secondo un cammino che partendo, dunque, dal singolo risale a

ritroso la struttura periferica dello Stato sino a giungere agli organi centrali. In

questo risiede il concetto di sussidiarietà che assegna il potere di gestione

dell’interesse all’ente autonomo più vicino al cittadino. L’art. 118 Cost.

prevede, infatti, che “Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni

salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario, siano conferite a Province,

Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà,

differenziazione ed adeguatezza”.

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Il vantaggio per il cittadino è evidente in quanto come interlocutore non avrà

più enti distanti, sia geograficamente che strutturalmente, che spesso

determinavano un rimpallo delle sue esigenze destinate a perdersi nei meandri

della ciclopica struttura amministrativa. Oggi l’interlocutore diretto delle

esigenze del singolo è l’ente più vicino a questo e solo ove tale ente si

dimostrasse carente del concreto potere di gestione si risalirebbe alla Provincia

ed eventualmente alla Regione, risalendo progressivamente la struttura

organizzativa dello Stato.

3. L’attività amministrativa.

“I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che

siano assicurati il buon andamento e la imparzialità dell'amministrazione.”

Questo è il dettato dell’art. 97 con cui la Costituzione apre la sezione dedicata

alla P.A.

Dalla disposizione riportata possiamo dedurre quali siano i principi

fondamentali cui la P.A. deve soggiacere nell’esercizio delle funzioni sopra

esaminate.

In primo luogo, il fatto che i pubblici uffici siano organizzati secondo

disposizioni di legge ci permette di evidenziare una esplicita sottoposizione

dell’attività amministrativa al dettato della legge (principio di legalità).

Nella valutazione di questo rapporto di dipendenza rispetto alla legge non si

deve, tuttavia, rimanere legati al dato meramente testuale in quanto

l’applicazione del principio di legalità non è limitato all’aspetto organizzativo

interno della P.A. ma si espande verso la evidente e imprescindibile disciplina

esterna dell’attività che la P.A. pone in essere. È sicuramente lampante che

nell’ambito delle scelte discrezionali che le competono, la P.A. deve scegliere

il comportamento più efficace tra quelli che la legge consente e secondo i

termini previsti dalla legge.

Un simile assunto, per quanto apparentemente banale, è, in realtà, l’elemento

che ci permette di segnare la linea di confine della attività amministrativa

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come legittima, potendo, conseguentemente approntare i mezzi di difesa cui il

singolo ricorrere a difesa dei propri interessi, lesi da un’attività illegittima

perché posta in violazione del principio in parola.

Il principio del buon andamento cui la norma orienta l’organizzazione

della P.A. è un canone di razionalità dell’attività amministrativa oltre che della

organizzazione di questa.

Buon andamento vuol dire, infatti, buon funzionamento e quindi efficienza,

vista come rapporto tra risorse a disposizione di una singola amministrazione e

obiettivi gestionali dell’interesse pubblico. Ma, in accoglimento di tale

principio, si è voluto disciplinare anche in concreto l’attività

dell’amministrazione, imponendo anche il criterio di efficienza, ossia un

parametro del buon andamento fondato sul rapporto tra risorse utilizzate ed

obiettivi raggiunti, al fine di valutare non solo a livello astratto la rispondenza

delle risorse agli obiettivi della P.A. ma anche come e con quali risultati questa

abbia impiegato le proprie forze.

Tali criteri, che hanno finalmente dato una veste reale al principio del buon

andamento sono un conquista recente, operata alla fine degli anni ’90 con le

leggi “Bassanini” che a partire dal 1997 (la prima legge Bassanini è la n° 59

del 15.03.1997) hanno avuto il compito (e forse il merito) di aver introdotto

anche a livello amministrativo i criteri prettamente imprenditoriali un tempo

propri del solo settore privato.

L’ulteriore principio su cui si plasma l’organizzazione e l’attività della

P.A. è il principio di imparzialità, il cui contenuto è nettamente correlato ad

una fondamentale disposizione della Costituzione, l’art. 3, chiamato a

riconoscere a tutti i cittadini il diritto all’uguaglianza.

È infatti tale ultima disposizione che afferma il principio di uguaglianza,

affermando che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali

davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione;

di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.”

Occorre, tuttavia, fare una precisazione. Il principio riportato non deve essere

inteso in senso sostanziale, assoluto, in quanto una simile interpretazione

porterebbe inevitabilmente alla negazione del principio stesso. Se, infatti,

considerassimo “tutti i cittadini uguali tra di loro” commetteremmo un errore

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fondamentale che impedirebbe di valutare la concreta posizione dei singoli e,

di conseguenza i bisogni e le caratteristiche di ognuno.

Il principio di uguaglianza ne risulterebbe cancellato. Per capire la portata

dell’affermazione, apparentemente sorprendente, basta immaginare alcuni

banali esempi. Nell’ambito fiscale e tributario, l’affermazione che tutti i

cittadini sono uguali (tra loro) porterebbe con sé la conseguenza che tutti i

cittadini, in quanto uguali, devono soggiacere alla medesima imposizione

fiscale. Ma questo significa che, se, per poterli definire uguali, non

consideriamo le posizioni dei singoli, il ricco possidente che non ha nemmeno

bisogno di lavorare per vivere si troverebbe a pagare le tasse in misura uguale

a quella che graverebbe su un operaio o su un pensionato. Si lascia al lettore

ogni valutazione circa le conseguenze concrete.

Riconoscere la pari dignità dei cittadini e la loro uguaglianza vede, allora,

come presupposto una obiettiva valutazione delle diversità di ognuno, al fine

di poter percepire a pieno la posizione complessiva del singolo cittadino, sia

sotto il profilo del bisogno che sotto il profilo dei doveri, così da poter trattare

in modo uguale situazioni uguali. Il che ci porta a capire come reale oggetto

del principio di uguaglianza non siano tanto i cittadini, quanto le condizioni,

giuridiche e di fatto che li caratterizzano individualmente.

La trasposizione di tali assunti nell’ambito dell’attività amministrativa è

evidente: la P.A. deve organizzarsi ed agire in modo da rispettare ed applicare

il principio di uguaglianza dettato dall’art. 3 Cost. gestendo il bisogno dei

singoli (e, dunque, gli interessi pubblici della cui gestione si occupa) in modo

uguale rispetto a cittadini e a situazioni tra loro uguali.

Da ultimo, occorre segnalare l’esistenza di altri principi fondamentali

per l’attività amministrativa, la cui valenza, tuttavia, è inferiore a quella dei

principi sopra esaminati, non già per il significato o gli effetti, quanto per il

valore normativo delle disposizioni che li sanciscono.

È questo il caso del principio di trasparenza, che impone alla P.A. di agire in

modo da rendere accessibile al privato interessato dall’attività amministrativa

tutti i documenti e i mezzi utilizzati dall’amministrazione che procede.

Tale principio, non codificato nell’esaminato testo dell’art. 97 Cost., è stato

sancito con la L. 241/90, che ha come oggetto la disciplina del diritto

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d’accesso (applicazione del principio di trasparenza) e del procedimento

amministrativo. Come legge ordinaria, la L. 241/90, si colloca, come fonte del

diritto, su un piano inferiore rispetto all’art. 97 Cost. e ciò non solo perché,

come sappiamo, deve essere conforma al dettato costituzionale, ma anche

perché per modificarne il contenuto è sufficiente una legge ordinaria o un

decreto legislativo, mentre per la modifica di disposizioni costituzionali è

necessario un procedimento aggravato.

Ciò comporta, allora, una maggiore forza dei principi dell’attività

amministrativa che traggano origine da norme costituzionali, dovuta alla

evidente maggiore stabilità normativa che caratterizza la norma che li

sancisce.

4. Il potere amministrativo.

La funzione e l’oggetto dell’attività della P.A., richiede senza meno la

titolarità di un potere forte in capo agli organi chiamati a gestire

concretamente gli interessi pubblici in applicazione del dettato delle norme

vigenti.

Se poi poniamo attenzione alla collocazione che la Costituzione da alla P.A.,

vista come elemento strumentale all’esercizio del potere esecutivo del

Governo, ciò apparirà senz’altro più evidente.

Il potere amministrativo, infatti, essendo finalizzato a compiere tutti gli atti

necessari alla concreta gestione dell’interesse pubblico, può, senz’altro,

portare all’adozione di provvedimenti sfavorevoli per un singolo cittadino che,

per tal via, subisce una compressione della propria posizione di diritto.

Tale valenza dell’attività amministrativa non deve, tuttavia, portare a

confondere un provvedimento di contenuto negativo per il privato con quei

provvedimenti che, a causa della violazione dei principi dell’attività

amministrativa, ledono ingiustificatamente i diritti e, soprattutto, gli interessi

dei privati.

Il provvedimento di contenuto negativo può, di per sé, rispettare a pieno i

principi che presiedono all’attività amministrativa e la disciplina legale che ne

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caratterizza effetti, termini e contenuto senza, perciò, innescare alcuna

sanzione di illegittimità né alcun tipo di annullamento.

È chiaro, tuttavia, che nessun privato sarebbe disposto a vedersi limitata la

propria sfera di diritto, tendendo, invece, a far prevalere i propri interessi sulla

volontà dell’amministrazione. Si pensi all’esempio di un provvedimento di

esproprio: certamente nessuno accetterebbe a buon partito l’idea di vedersi

privare del proprio terreno o della propria casa per la costruzione di

un’autostrada.

In realtà, però, non si deve dimenticare che l’attività della P.A., ancorché

talvolta apparentemente lesiva della posizione di un singolo, si fonda sul

benessere di tutti, idealizzato nell’interesse pubblico che, per tale sua

connotazione, merita senza dubbio la prevalenza su un eventuale interesse di

segno contrario che faccia capo ad un singolo privato il quale, fra l’altro,

percepirà, comunque, i frutti della tutela di quel interesse pubblico.

Per ottenere questo, tuttavia, è necessario che la P.A. abbia un potere che non

compete ai soggetti privati ma solo agli organi dello Stato, un potere, cioè, che

permetta alla P.A. di obbligare i destinatari della propria attività ad

uniformarsi a questa, anche contro la loro volontà (potere coercitivo).

Ad evitare, comunque, che un simile potere possa risolversi in una costante ed

incontrollata compromissione della posizione dei privati in nome dell’interesse

pubblico, è posto il principio di discrezionalità che impone

all’amministrazione di valutare comparativamente l’interesse pubblico di cui

essa è titolare e gli interessi dei privati che dovessero trovarsi in posizione

configgente, in modo da equilibrare discrezionalmente i due elementi.

Tale valutazione, definita opportunità o merito dell’attività amministrativa, ha

lo scopo di permettere alla P.A. di agire tutelando l’interesse pubblico,

secondo la via, comunque, meno lesiva degli interessi privati coinvolti.

L’ultimo aspetto di rilevanza ai fini dello studio del potere amministrativo è

legato alla sua genesi.

Come abbiamo visto in precedenza, la P.A. è organizzata con legge, il che

significa che è il Parlamento (o, nei casi e nei limiti previsti, il Governo) che

organizza la struttura di una P.A. e organizzare vuol dire anche creare.

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Ove, dunque, dovesse sorgere un nuovo interesse pubblico (si pensi

all’ambiente o a diritti ed interessi comuni a tutti i cittadini ma di nuova

generazione) si avvertirebbe la necessità della gestione e tutela dello stesso da

parte dello Stato che ne abbia riconosciuto l’esistenza.

È quindi necessaria l’individuazione di una P.A. che, concretamente, si occupi

della gestione del nuovo interesse pubblico. In quest’ottica, tuttavia, potrebbe

anche darsi che nella struttura già esistente non sia possibile conferire la

titolarità di tale interesse ad alcuna amministrazione già operante, in quanto il

settore in cui sorge il nuovo interesse non può essere tecnicamente ricompreso

in altri già esistenti ed “assegnati”.

A questo punto sarà la legge a determinare la nascita di una nuova struttura,

assegnando ad essa l’organico, le risorse, le strutture, disciplinandone

l’organizzazione, il funzionamento e, soprattutto, conferendo alla stessa il

potere amministrativo di gestione di quell’interesse pubblico che le viene

assegnato in gestione e tutela.

5. Atti & provvedimenti amministrativi.

A questo punto della nostra trattazione è necessario esaminare quali siano gli

strumenti attraverso i quali la P.A. riesce a “prendersi cura” dell’interesse

pubblico che la legge le ha assegnato in titolarità e in funzione del quale ha

alla stessa conferito anche il forte potere amministrativo necessario.

È comunque opportuno premettere una precisazione.

La P.A. ha, innanzitutto, due possibilità, o agire esercitando il potere tipico e

autoritativo della P.A., attraverso i mezzi che fra poco esamineremo, oppure

scendere su un piano di parità con i privati, scegliendo di esercitare poteri

assolutamente analoghi a quelle di qualunque cittadino. Sarà, così, possibile

per una P.A. che voglia o debba costruire un raccordo autostradale: o emanare

un provvedimento di esproprio con cui acquisire i terreni necessari contro la

volontà dei proprietari, oppure scegliere di acquistare gli stessi terreni dai

proprietari disposti a vendere, agendo, così, attraverso strumenti appartenenti

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non al diritto amministrativo (provvedimento amministrativo), ma al diritto

privato (contratto di compravendita). In queste ipotesi, la cui scelta è affidata a

scelte discrezionali di convenienza, si dice, infatti, che la P.A. agisce iure

privatorum (con il diritto dei privati).

Posto che tali ultime ipotesi, rese sempre più frequenti dalla razionalizzazione

dell’attività amministrativa, non presentano particolarità che le distinguano

dalla normale attività dei privati, dobbiamo soffermarci, invece, sulle

caratteristiche degli strumenti di azione amministrativa: gli atti e i

provvedimenti amministrativi.

Come di fatto già chiarito, si tratta dei due strumenti che permettono alla P.A.

di agire, producendo effetti nel mondo esterno finalizzati alla gestione

dell’interesse pubblico.

L’atto amministrativo è un atto della P.A. con il quale viene portata verso

l’esterno l’attestazione di una situazione di fatto esistente e sulla quale,

tuttavia, l’amministrazione non incide né modificando, né creando, né

estinguendo diritti e/o interessi coinvolti.

L’esempio tipico di tale strumento è offerto dal certificato, sia esso anagrafico,

giudiziario o quant’altro.

A ben guardare, infatti, quando la P.A. certifica qualcosa, conferma, attesta

semplicemente l’esistenza di una data situazione: il certificato di stato civile

attesta che Tizio è coniugato con Caia, ma certo non va ad incidere in alcun

modo sui diritti di coloro che afferma essere coniugi.

Da questo punto di vista il potere che viene esercitato per mezzo di un atto

amministrativo, è assai sfumato, risolvendosi in una particolare attendibilità di

ciò che viene certificato, risultando difficile immaginare che la portata di un

certificato possa andare contro la volontà di un privato fino al punto di

prevalere su questa.

Diverso è il caso del provvedimento amministrativo.

In questo caso ci troviamo di fronte all’esercizio più vero del potere

amministrativo, con tutte le connotazioni che gli sono proprie, prima fra tutte

la autoritarietà.

Il provvedimento, come strumento di esercizio della potestà amministrativa, si

caratterizza, poi, per la cd. esecutorietà, connotazione che permette

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all’amministrazione di portare immediatamente ad esecuzione il contenuto

dello stesso, anche quando esso presenti profili di illegittimità. In pratica è a

questa caratteristica che si deve la necessità di impugnare il provvedimento per

sospenderne gli effetti che vengono prodotti in conseguenza dell’emanazione,

ancorché viziata, del provvedimento stesso e che divengono definitivi ove

nessuno provveda in tal senso entro 60 giorni dalla sua emanazione.

Ma ciò che più di ogni altra caratteristica permette di distinguere il

provvedimento è il suo carattere discrezionale. Da intendere non nel senso che

l’amministrazione sia libera di emanarlo o meno, quanto nel senso che il

provvedimento sia sempre frutto dell’esercizio di un potere discrezionale,

visto come potere di ponderare equamente l’interesse pubblico con quello dei

privati coinvolti.

La natura discrezionale del provvedimento è conseguenza della sua funzione,

nel senso che lo strumento in parola, a differenza dell’atto amministrativo, è

ciò che permette alla P.A. di incidere sulle posizioni di diritto dei privati

(diritti, interessi, obblighi ecc.) modificandone il contenuto o, vieppiù,

creandone di nuove o estinguendo quelle esistenti.

Esercitato in tali tratti distintivi, il potere amministrativo è così in grado di

dispiegare tutta la sua forza tipica e gli affetti autoritari di cui la P.A. ha

bisogno per la gestione dell’interesse pubblico.

6. Il procedimento amministrativo.

Un’altra caratteristica che permette di distinguere l’atto dal provvedimento è

l’iter che la P.A. procedente deve compiere per l’emanazione dell’uno o

dell’altro.

Viste le caratteristiche e le funzioni esaminate, apparirà facilmente

comprensibile come l’atto, vista la carenza di effetti modificativi delle

posizioni giuridiche dei destinatari, non richieda operazioni particolari,

potendo, dunque, essere emanato immediatamente dallo stesso funzionario che

riceve la richiesta relativa da parte del privato destinatario.

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Ben diverso è il caso del provvedimento.

Abbiamo visto che l’ubi consistam di questo strumento è la discrezionalità,

che impone una valutazione comparativa degli interessi privati coinvolti, al

fine di bilanciarne il peso rispetto all’interesse pubblico.

Per fare ciò, tuttavia, sarà necessario per l’amministrazione procedente,

compiere una serie di operazioni e di adempimenti, finalizzati, in primo luogo,

all’individuazioni di quali e quanti siano tali interessi privati e, in secondo

luogo, alla valutazione di come questi si collochino rispetto all’attività che la

P.A. deve compiere e, infine, di come poter equilibrare i due piatti di questa

ipotetica bilancia.

Tutto questo viene realizzato in una serie fasi attraverso le quali la P.A.

compie in modo sequenziale tutte le operazioni per tal via necessarie

all’emanazione del provvedimento.

Questo insieme organizzato di fasi, viene definito procedimento

amministrativo, o iter di formazione del provvedimento amministrativo.

La prima fase di cui questo iter si compone è la fase dell’iniziativa,

rappresentata dalla domanda che viene rivolta alla P.A. competente al fine

dell’emanazione di un provvedimento amministrativo. L’ipotesi più frequente

è quella che vede il privato stesso dare inizio al procedimento all’esito del

quale sarà destinatario degli effetti dell’attività amministrativa compiuta per

suo impulso.

Tuttavia, sappiamo che il provvedimento può senz’altro avere un contenuto

sfavorevole per il suo destinatario e questo ci porta a considerare una diversa

origine dell’iniziativa, non più proveniente dal privato ma autonomamente

realizzata dalla P.A. che, in tal modo, si autodetermina all’emanazione del

provvedimento che andrà ad incidere negativamente sulla posizione di diritto

dei destinatari.

Del pari potrà accadere che l’iniziativa di un procedimento derivi da una

richiesta di una distinta amministrazione la quale, in quanto titolare di un

diverso potere amministrativo, non può emanare il provvedimento richiesto

perché esulante dalla sfera di potere conferitole.

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Alla presentazione della richiesta (da chiunque avanzata),

nell’amministrazione procedente (quella che dovrà emanare il provvedimento)

sorgerà l’obbligo di ottemperare ad alcuni adempimenti.

In primo luogo, l’amministrazione dovrà individuare il cd. Responsabile del

procedimento, ovvero il funzionario che si occuperà direttamente dell’intero

procedimento e che, peraltro, sarà il riferimento per ogni esigenza dei privati

interessati dall’attività amministrativa. In secondo luogo, l’amministrazione

dovrà poi fissare un termine espresso entro cui si dirà tenuta alla chiusura del

procedimento, chiusura che, in accoglimento dell’onere di provvedere che

grava sulla P.A., dovrà necessariamente essere espressa, per quanto di

contenuto positivo o negativo. Ove, poi, la richiesta fosse stata presentata per

corrispondenza, l’amministrazione dovrà comunicare al richiedente e a tutti

coloro che vengano individuati come interessati (soggetti su cui ricadranno gli

effetti dell’attività amministrativa) la cd. Comunicazione di avvio del

procedimento, attraverso cui verrà data loro notizia dell’attività

procedimentale iniziata e del nominativo del responsabile affinché possano

partecipare alla formazione della volontà dell’amministrazione in modo da

favorirne il razionale ed efficace esercizio.

La successiva fase è anche la più delicata dell’intero impianto

procedimentale, essendo la fase mediante la quale la P.A. raccoglierà tutti gli

elementi di fatto e di diritto sulla cui base formerà la propria volontà

provvedimentale.

Si tratta della fase istruttoria, nel cui ambito verranno, pertanto, individuati gli

interessi coinvolti e verrà anche raccolta tutta la serie di elementi sulla cui

scorta valutare il peso di questi e gli effetti che si possano produrre in

conseguenza delle diverse ipotesi di provvedimento che la P.A. procedente

potrà realizzare.

Ma è anche in questa fase che il privato può esercitare un’importante

conquista raggiunta grazie alla L. 241/90, cui si deve la definizione e la

disciplina che stiamo esaminando del procedimento amministrativo, il diritto

di partecipazione all’attività amministrativa.

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Il privato coinvolto dall’attività amministrativa ha, in pratica, la possibilità di

partecipare al procedimento volto all’emanazione di quel provvedimento che

dispiegherà i propri effetti sulla posizione di diritto di cui è titolare.

Per evitare l’innescarsi di impugnative, ricorsi, risarcimenti e, in generale,

complicazioni dell’attività amministrativa (e dunque della gestione

dell’interesse pubblico), la normativa in esame ha introdotto la possibilità per

il privato di difendersi PRIMA dell’emanazione del provvedimento,

indirizzando, così l’attività dell’amministrazione in una direzione compatibile

con gli interessi dei privati coinvolti.

A ciò è finalizzata la comunicazione di avvio del procedimento.

Raccolti tutti gli elementi di fatto e di diritto su cui inciderà l’attività

della P.A., si apre la fase decisionale, attraverso la quale si formerà la volontà

della amministrazione procedente e, quindi, il contenuto del provvedimento.

Va da sé come ciò venga realizzato sulla scorta di quanto effettuato nella

precedente fase, così che un’eventuale enucleazione viziata o parziale dei

presupposti di fatto e di diritto, comporterà un cd. Vizio di merito del

provvedimento, la cui illegittimità non deriverà tanto da una violazione di

legge, quanto dalla formazione alterata della volontà della P.A.

Da ultimo, il procedimento amministrativo si può sviluppare attraverso

la fase integrativa dell’efficacia.

La ragion d’essere di tale fase si fonda sulla circostanza che, in taluni casi (non

in tutti), il provvedimento, che all’esito della fase decisionale è già completo

(perfetto), per poter dispiegare i propri effetti, abbisogna di un’ulteriore

operazione da parte della P.A. che procede. Spesso tale operazione si sostanzia

in un controllo sulla disponibilità finanziaria necessaria all’esecuzione del

provvedimento stesso.

Una simile necessità, tuttavia, non è sempre ricorrente, dal che si desume il

carattere eventuale di tale ultima fase, all’esito della quale il provvedimento,

oltre che perfetto, sarà anche pienamente efficace, potendo così concorrere

immediatamente alla gestione dell’interesse pubblico anche contro la volontà

di singoli privati ma per il perseguimento di utilità di carattere generale.

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LA LEGISLAZIONE SCOLASTICA.

1. I principi costituzionali dell’istruzione. 2. L’istruzione e il nuovo Titolo V

Cost. 3. L’istituto scolastico. 4. Il ruolo del docente.

1. I principi costituzionali dell’istruzione.

Il sistema scolastico si fonda su principi di rango costituzionale dalle

caratteristiche analoghe a quelle di altri importanti settori di interesse per la

collettività, quali sanità, assistenza e previdenza ecc., che vengono, così, a

creare una sorta di statuto organizzativo comune alle aree oggetto delle

politiche del welfare state.

Ed in effetti, un primo carattere comune agli indicati settori è la possibilità di

essere gestiti anche dai privati,oltre che, come è naturale, dallo Stato.

La compresenza tra pubblico e privato è, anzi, esplicitamente affermata sia per

l’istruzione (art. 33, comma 3 Cost.) che per il settore assistenziale (art 38

Cost.) e costituisce l’applicazione di altri principi costituzionali riferiti alla

libera iniziativa economica privata (impresa), la quale non può dirsi esclusa

per il fatto che il campo su cui essa debba svolgersi possa essere di interesse

statale perché inerente un interesse dalla connotazione pubblicistica.

Per ciò che attiene, in particolare all’istruzione, la coesistenza tra

pubblico e privato ha preso forma in modo asimmetrico, creando in capo ai

privati solo una libera facoltà di impartire l’istruzione, mentre risulta

caratteristica precipua del regime pubblico quella di far gravare sullo Stato un

preciso dovere di istituire scuole di ogni ordine e grado.

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Ovviamente, tale differenziazione non ha (e non può avere) riflessi sulla

struttura dell’iter formativo né sulla possibilità di accedere all’istruzione, sia

essa pubblica che privata.

A sancire tale principio è posto l’art. 34, comma 4 Cost., ai sensi del quale “La

legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la

parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento

scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali”.

Per raggiungere tale risultato è, tuttavia, necessaria la predisposizione di

programmi comuni, così che i contenuti essenziali dell’istruzione rimangano

immutabili di fronte alla binomia pubblico-privato e ciò è possibile solo

attraverso la predisposizione di tali contenuti a livello statale.

Clausola di salvaguardia di tale assunto è la cd. equipollenza del titolo ai fini

dell’accesso all’esame di Stato, nel senso che il rispetto dei contenuti

essenziali da parte degli istituti privati è il presupposto della possibilità per gli

studenti di quegli istituti di accedere alle procedure statali di abilitazione

(esame di stato).

In pratica, l’iniziativa privata dell’insegnamento incontra come limite il

rispetto di tali contenuti. Limite che, ove non osservato a favore di una

incondizionata libertà di insegnamento privato, preclude l’accesso all’esame di

stato, evidenziando come il valore legale del titolo sia, in realtà, finalizzato

all’equiparazione delle scuole nell’ambito del tipo di studi attraverso

l’eliminazione giuridica delle differenze qualitative.

Un altro aspetto che evidenzia il binomio pubblico-privato

dell’istruzione è la condizione cui è subordinato il diritto dei privati

all’istituzione di scuole, imprescindibilmente condizionato dalla mancanza di

oneri per lo Stato conseguenti all’iniziativa privata nel settore.

Il momento di interesse di tale disposizione sta nell’interpretazione

dell’attività scolastica privata. Questa, infatti, se da un lato si è vista (forse

giustamente) escludere la possibilità di finanziamenti di origine statale,

dall’altro si trova inconfutabilmente a svolgere un’attività rientrante a pieno

tra quelle di cui si deve fare carico lo Stato, il quale si trova, così, sgravato

dall’attività privata.

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Non si deve tuttavia tralasciare che l’attività privata (qualunque sia il settore di

assistenza in cui si affianchi allo Stato) viene comunque realizzata, o nella

forma imprenditoriale o nella forma professionale. In ciascuna di tali due

forme il privato non può ricevere compenso dallo Stato, per quanto vi si

affianchi nella erogazione di un servizio, in quanto il fulcro del settore privato

si fonda sul fatto che l’esercente percepisca direttamente dall’utente il proprio

compenso ed è da tale compenso che deve trovare alimento l’attività privata

che, altrimenti, si troverebbe sostenuta dalle stesse fonti che già alimentano

l’alternativa pubblica. Se così fosse i costi verrebbe di fatto duplicati,

determinando la caduta di qualsivoglia utilità nella bivalenza pubblico-privato.

2. L’istruzione e il nuovo Titolo V Cost.

L’istituto scolastico, visto come unità di organizzazione del sistema

dell’istruzione pubblica, è un concetto che risulta intimamente legato alla sorte

delle autonomie territoriali.

Già negli anni settanta, con la L. 477/73, si operò una riforma

dell’amministrazione scolastica segnata dalla concomitante attuazione delle

Regioni a statuto ordinario. Si tratta, peraltro, di un legame che ha trovato

ulteriori conferme nella coincidenza temporale tra la configurazione attuale

dell’istituto scolastico e la stagione di riforma delle autonomie locali e,

soprattutto, nella definizione della norma base dell’istituto scolastico

autonomo all’interno della legge con cui è stato dato principio al processo di

rinnovamento dell’amministrazione in ottica decentrata, poi culminata nella

modifica del Titolo V della Costituzione, che non ha risparmiato nemmeno il

sistema costituzionale dell’istruzione.

Già a livello di competenza legislativa, il settore scolastico è stato fatto

oggetto dalla riforma del 2001 di una competenza concorrente che vede lo

Stato titolare della potestà legislativa relativa alle norme generali

sull’istruzione, viste non solo come principi fondamentali della materia, ma

anche come “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti

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i diritti civili e sociali che devono essere garantiti in tutto il territorio

nazionale” (art.117, comma 2 lett. m) Cost.).

Alle Regioni, in pratica, spetterà la gestione del sistema scolastico di cui lo

Stato imporrà il rispetto del limite minimo determinato di prestazioni.

Certamente la potestà legislativa statale si troverà, tuttavia, limitata da ciò che

lo stesso art. 117 comma 3 Cost. indica come “l’autonomia delle istituzioni

scolastiche”, ma di cui, purtroppo, fornisce un mero richiamo senza alcuna

definizione.

Il dato normativo che soccorre in tale ricerca è il già citato art. 21, L. 59/97

che, nell’ambito della razionalizzazione dell’attività amministrativa, ha

concepito gli istituti scolastici come organismi destinati ad acquisire, nel corso

del tempo, una propria personalità giuridica da cui desumere la propria

autonomia.

3. L’istituto scolastico.

Per comprendere a pieno la natura ed il ruolo del moderno istituto scolastico è

necessario compiere una seppur sommaria digressione sulla normativa

concretamente applicabile.

Un primo, fondamentale corpus normativo è rappresentato dalle norme di

rango costituzionale, dalle quali deriva l’obbligo, per i poteri dello Stato (ma

anche delle Regioni, Province, Città metropolitane, Comuni) di realizzare e

mettere a disposizione un sistema di istruzione che gli stessi poteri sono in

grado di imporre ai cittadini (istruzione obbligatoria). Ma i pubblici poteri

sono anche tenuti a predisporre regole generali di disciplina dei caratteri

fondamentali e degli obiettivi dell’intero sistema attraverso la cd.

formalizzazione dei titoli di studio.

Si crea, così, un sistema organizzato e regolato che vede come fulcro la

tendenza ideologica aperta di ogni organismo di cui tale sistema si componga

e nel cui ambito agisca, in applicazione del principio di libertà di

insegnamento.

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Appare evidente come, alla luce di tale disciplina, il servizio scolastico si

atteggi e, anzi, venga configurato come un vero e proprio servizio pubblico

scolastico. Una definizione dovuta, oltre che per la natura della fonte di

riferimento, anche per le caratteristiche dei poteri cui viene rimessa

l’organizzazione e la gestione del servizio, i cui connotati pubblicistici

emergono con evidenza anche sul piano della obbligatorietà del suo esercizio e

della fruizione di questo da parte dei cittadini, nel rispetto del più generale

interesse pubblico all’istruzione e, quindi, al progresso del Paese.

In ambito normativo primario, il punto di riferimento per desumere la

disciplina cui sottoporre l’istituto scolastico è fornita dall’articolo unico della

L. 62/00, nel testo del quale troviamo la diversa espressione “servizio

nazionale di istruzione”.

L’apparente discrasia di tale disposizione, volta a riconoscere e disciplinare le

scuole paritarie, non deve trarre in inganno. Nulla può cambiare nei connotati

che l’istruzione ha ricevuto per effetto di dettati di rango costituzionale. Se

così fosse, come sappiamo bene, la L. 62/00, in quanto legge ordinaria, si

troverebbe in contrasto con il dettato costituzionale, subendo gli effetti della

inevitabile declaratoria di illegittimità.

Al di là di tale scontata ma doverosa precisazione, dobbiamo soffermarci su

tale normativa, partendo dalla sua finalità. Come visto, lo scopo della L. 62/00

è stato quello di riconfigurare il sistema dell’istruzione secondo una sorta di

bipolarismo di cui sono interpreti l’istituto statale e gli istituti paritari privati e

degli enti locali.

Ora, nel servizio pubblico è possibile enucleare due livelli basilari, il primo,

rappresentato dalla preventiva individuazione degli obiettivi, degli standards

qualitativi e quantitativi del servizio, l’altro, rappresentato dall’erogazione del

servizio stesso.

L’effetto di tale distinzione si riverbera sul piano della qualità del servizio

erogato in quanto l’individuazione di tali due livelli, consente di far

riferimento non già ad un unico soggetto, bensì di diversificare gli interpreti

della gestione del servizio in modo da garantire al cittadino una reale

indipendenza del servizio dalle ragioni contingenti di utilità che potrebbero

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influenzare il gestore ove questo si trovi ad essere ad un tempo chiamato a

fissare i principi, gli obiettivi ma anche ad erogare il medesimo servizio.

In tale prospettiva è sicuramente evidente come il primo livello appartenga

naturalmente a soggetti pubblici, ancorché territoriali come le Regioni,

Province, ecc.

Per quanto attiene, invece, al secondo grado, posto che i contenuti essenziali si

trovano già definiti al primo livello e che, dunque, unico oggetto residuale

dell’attività dell’istruzione è quello della erogazione di questa, nulla impone di

connotare l’interprete di tale livello (il gestore) come soggetto pubblico,

potendo, tale funzione di erogazione del servizio, ben essere affidata, anzi, ad

un soggetto privato.

D’altronde, il ricorso a tali soggetti nell’erogazione di un servizio pubblico (e

dunque anche del servizio scolastico), oltre che perfettamente realizzabile, è

anche cosa resa sempre più frequente dalla positiva ricaduta economico-

finanziaria che subisce la P.A. dall’apertura, verso il mercato concorrenziale

dei privati, di settori di attività che avrebbe il compito di finanziare e gestire.

Si tratta indubbiamente di un’ipotesi applicativa del principio di buon

andamento affermato dall’art. 97 Cost.

Tuttavia, non possono essere tralasciati alcuni caratteri essenziali del servizio

scolastico, che distinguono questo dagli altri servizi, specie di rilevanza

economico-industriale, in cui si può estrinsecare l’attività amministrativa.

Stante, infatti, la necessità di commisurare i contenuti e le modalità di

erogazione del servizio con la posizione complessiva del destinatario, si deve

osservare come la scindibilità dei due livelli divenga assai più sfumata nel

contesto del servizio scolastico.

L’erogatore (ovvero l’insegnante), infatti, non può essere visto come mero

esecutore di un’attività. Ciò in quanto l’attività scolastica non può certo essere

considerata alla stregua di un’attività materiale in cui una parte concepisce ed

un’altra realizza. In una simile situazione è certamente facile immaginare una

netta distinzione nei due livelli che, tuttavia, non è riscontrabile ove il servizio

erogabile non sia assolutamente standardizzabile, per effetto di un continuo

dialogo tra erogatore e fruitore che inevitabilmente spinge l’erogatore verso il

livello superiore di definizione del servizio.

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Sulla scorta di quanto sin qui affermato, siamo portati, allora, a

considerare l’istituto scolastico come un organo autonomo del servizio

dell’istruzione.

Ciò è, indubbiamente vero, specie sotto il profilo organizzativo

dell’erogazione che, come visto, può spingersi sino ad interessare i contenuti

dell’attività dell’istruzione.

Tale margine presuppone, però, la necessaria esistenza di un ambito

decisionale riservato all’istituto scolastico, reso così autonomo rispetto ai

poteri pubblici.

Resta, tuttavia, che quello dell’istruzione è un interesse che, rientrando

pacificamente nell’ambito degli obiettivi fondamentali di qualsiasi comunità,

deve essere definito come pubblico, con ciò imponendo una generale

compatibilità delle finalità del sistema dell’istruzione con i dettati degli enti

territoriali competenti alla gestione dell’interesse pubblico in parola.

Secondo tale lettura, dunque, il potere politico statale incontra due precise

limitazioni, offerte dalla necessità di rispettare l’ambito tecnico riservato agli

istituti e di lasciare all’erogatore sufficienti spazi di intervento socio-

economico.

Tale quadro deriva esplicitamente da una lettura sistematica delle disposizioni

costituzionali dedicate all’istruzione, in forza delle quali ai pubblici poteri è

riservato il compito di dettare le norme generali sull’istruzione (v. artt. 33 e

117, comma 2), i livelli essenziali delle prestazioni (art. 117, comma 2, lett.

m)), pur tutelando, al tempo stesso, l’autonomia scolastica sancita dall’art.

117, comma 3 Cost..

A fare da pendant a questa articolazione normativa, è la disciplina legislativa

ordinaria che all’art. 21, comma 9, L. 59/97, afferma che “L’autonomia

didattica è finalizzata al perseguimento degli obiettivi generali del sistema

nazionale di istruzione, nel rispetto della libertà di insegnamento, della libertà

di scelta educativa da parte delle famiglie e del diritto di apprendere. Essa si

sostanzia nella scelta libera e programmata di metodologie, strumenti,

organizzazione e tempi di insegnamento, da adottare nel rispetto della

possibile pluralità di opzioni metodologiche, e in ogni iniziativa che sia

espressione di libertà progettuale, compresa l’eventuale offerta di

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insegnamenti opzionali, facoltativi o aggiuntivi e nel rispetto delle esigenze

formative degli studenti.”

Indubbiamente, come osserva perspicacemente Marzuoli, “in attuazione degli

ordinari (ma fondamentali) principi concernenti l’azione di pubblici poteri,

come il buon andamento, l’individuazione e l’attribuzione delle

responsabilità, la conoscibilità e trasparenza, parrebbe indispensabile un

sistema di valutazione e di controllo adeguato. E quello che oggi esiste non è

tale. Da quest’ultimo punto di vista dunque l’autonomia, rispetto alle norme

costituzionali, è troppa e non poca”23

.

4. Il ruolo del docente.

Evidenziato in quali termini si estrinsechi l’autonomia dell’istituto scolastico,

si deve ora osservare come in tale contesto si inserisca il docente, vero e più

diretto interprete della funzione scolastica in cui si sostanzia l’istruzione, sia

essa pubblica che privata.

Occorre premettere come la funzione dell’insegnante si fondi su tecniche il cui

esercizio si snodi in una dimensione individuale e in una dimensione

collettiva, implicando un costante e reciproco riconoscimento da parte di chi

esercita la funzione e di chi vi entra in contatto.

In questa ottica armonizzatrice e sistematica, il reclutamento dell’insegnante

impone senza dubbio una prima valutazione circa il margine di autonomia di

cui può disporre l’istituto scolastico nella scelta dei soggetti attraverso cui

agire, realizzando la funzione dell’istruzione. Una prima risposta in tal senso

afferma la libertà dell’istituto da vincoli di carattere concorsuale, potendo, per

tal via, operare una scelta a favore del soggetto più adatto alle proprie esigenze

pur nel rispetto, ovviamente, degli imprescindibili requisiti ex lege previsti.

Tale sistema, tuttavia, porta con sé il grave rischio di assolutizzazioni

dell’orientamento dei docenti, per effetto delle contingenti tendenze

23

Cfr. Marzuoli, Istruzione e servizio pubblico, Bologna, 2003, p.108.

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dell’istituto chiamato a operare la scelta dei docenti, con buona pace della

libertà di insegnamento.

È del tutto chiaro, infatti, come la libertà di insegnamento sia un principio la

cui applicazione deve superare la dimensione individuale in modo da poter

presiedere all’esercizio del servizio stesso nella sua uniforme interezza.

Va comunque detto che anche la diversa strada del reclutamento per

mezzo di procedure concorsuali non elimina ogni difficoltà sistematica di

compatibilità con i valori posti dalla costituzione a fondamento del servizio

scolastico.

Se da un lato, infatti, il reclutamento concorsuale del personale docente

potrebbe risolvere in senso statalista il dubbio interpretativo (aggravato dal

vigente Titolo V Cost.) su chi sia il datore di lavoro del corpus dei docenti,

dall’altro comporterebbe un’importante condizionamento di quel margine di

libertà (discrezionale) di cui deve godere l’istituto e, con esso, il docente nella

concreta graduazione del servizio.

D’altronde, una visione matura della funzione docente porta ad ampliarne il

contenuto verso attività strumentali e correlate ad essa, il cui scopo ultimo è

quello di concorrere allo sviluppo delle conoscenze sociali e delle capacità del

corpo sociale stesso. Il che è, in fondo, ciò che rende l’istruzione un interesse

pubblico.

In quest’ottica deve, pertanto, essere possibile per l’istituto scolastico

autonomo il ricorrere a figure comunque in grado di operare il trasferimento di

conoscenze in cui si sostanzia l’istruzione, in accoglimento ed attuazione del

margine di autonoma organizzazione che gli compete, oggi più che in passato,

per effetto dell’introdotto principio di sussidiarietà, in ossequio al quale solo

l’istituto può dirsi direttamente a contatto con le esigenze dell’utente.

È forse questa la quadratura del cerchio. Seguendo questa ricostruzione, in

effetti, si potrebbe finalmente trovare il momento di coesione tra la libertà di

insegnamento, che richiede un determinato status giuridico stabile e tutelato, e

la possibilità, rimessa a singoli istituti, di raggiungere le competenze di cui

abbisogna, al di là delle, talvolta, sclerotizzate schematiche della funzione

docente giuridicamente configurata.


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