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Relazione convegno Rimini 24 giugno 2018.
[PP.1] Buongiorno a tutti.
Ringrazio gli organizzatori per avermi invitato.
Mi chiamo Bruno Bonandi e svolgo un’attività di aiuto
privatamente presso il mio studio a Longiano come
Psicoterapeuta Psicosomatico.
Ho frequentato la Scuola di Filosofia Orientale e Comparativa
negli anni ’90.
Mi ritengo un pensatore eretico, ho sempre voluto mettere in
dubbio e cercato interpretazioni diverse dalle verità imposte
discostandomi da ogni Verità con la V maiuscola. Ritengo di
aver compiuto spesso scelte divergenti, mi piace percorrere
strade fuori dalle rotte usate dagli altri.
Quando frequentavo la Scuola di Filosofia Orientale e
Comparativa, ho avuto modo di conoscere e dialogare con
docenti universitari di elevata caratura intellettuale che mi hanno
fornito stimoli preziosi. Grazie alla Scuola ho avuto anche
l’occasione di seguire un Master in Tanatologia organizzato dal
Prof. Mario Mastropaolo, Psicoterapeuta gestaltista
dell’Università di Napoli Federico II, dal titolo “La conoscenza
della morte”. All’epoca ero iscritto contemporaneamente alla
Facoltà di Psicologia Clinica dell’Università di Bologna in cui si
studiava la mente umana con una visione specificatamente
scientifica, [PP.2] in cui il dualismo corpo-mente era ed è tuttora
un paradigma culturale difficile da rimuovere dal nostro comune
modo di pensare.
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Prima di aver frequentato la Facoltà di Psicologia di Bologna,
dove mi sono laureato con il Prof. Franco Baldoni (con una tesi
in Psicosomatica su [PP.3] “La concezione della salute tra Oriente
ed Occidente”), ero iscritto all’Istituto Superiore di Educazione
Fisica di Urbino, per cui a livello accademico, avevo avuto modo
di studiare il corpo umano, sia nella pratica sportiva che nella
teoria e avevo già avuto anche diverse esperienze lavorative
come insegnante nelle scuole con i bambini, i ragazzi e anche
con gli adulti nelle palestre e nelle piscine del circondario.
Inoltre tra i periodi di apprendimento significativi della mia vita
devo ricordare l’esperienza pluriennale di Judò, che, in qualche
modo mi aveva formato il carattere nel periodo che va
dall’infanzia alla prima adolescenza. L’Oriente aveva già fatto
capolino nella mia esperienza di vita attraverso la cultura delle
arti marziali fin da quando ero ancora bambino.
La mia propensione al sociale, i miei studi, prima sul corpo e poi
sulla psiche e le mie esperienze di lavoro, hanno favorito in me
una visione psicosomatica della clinica.
L’approccio psicosomatico è un tentativo di vedere le persone
nella loro interezza e, soprattutto, di comprendere che cosa
succede quando soffrono e aiutarle ad apprendere come imparare
a prevenire l’afflizione. Possiamo dire che la medicina
psicosomatica è nata per contrapporsi alla tradizione
meccanicistica e riduzionista della filosofia ottocentesca, che
separava nettamente la vita psichica e la malattia, essendo
quest’ultima considerata sempre di origine organica, dovuta cioè
alla lesione di qualche parte del corpo. [PP.4]
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La medicina psicosomatica si fonda sul concetto chiave che la
persona rappresenta un’inscindibile unità biologica, fatta di
corpo e mente, cioè di fattori psichici ed emotivi che svolgono
un ruolo determinante nello sviluppo delle malattie organiche. In
generale, quindi, possiamo dire che la psicosomatica è lo studio
dei rapporti intercorrenti tra mente e corpo. Essa parte dalle
premesse che ogni malessere di natura psicologica abbia una
ripercussione a livello somatico, e che viceversa una malattia
organica comporti un’alterazione della sfera psicologica.
Al di là delle varie interpretazioni è sicuramente un modo nuovo
di concepire l’uomo malato, una modalità che non considera solo
l’organo malato da “curare”, ma la globalità psichica, sociale e
culturale dell’essere umano, per cui l’organo rappresenta solo
l’espressione ultima di un disturbo. Da questo punto di vista la
medicina psicosomatica, in un’accezione ampia, rappresenta
quella concezione che, oltrepassando il dualismo psicofisico, che
separa il corpo dalla mente, guarda all’uomo come un tutto
unitario dove la malattia si manifesta a livello organico come
sintomo e a livello psicologico come disagio. [PP.5]
La psicoterapia, più in generale, è nata in Europa nel 1900 con
Freud, un innovativo neurologo viennese, ed è arrivata in Italia
con un certo ritardo, forse perché da noi andavano per la
maggiore i confessionali. [PP.6]
La parola Psyché è di origine greca, sta ad intendere il respiro
vitale, indicava l’anima, il cui sinonimo in sanscrito è Prana,
che letteralmente vuole dire «vita» e in seconda istanza viene
inteso come «respiro», «spirito», anima per come la intendiamo
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noi. Il sanscrito è una lingua indeuropea attestata nell’India a
partire dal sec. X a.C., ed è la lingua più antica che si conosca,
ritenuta da alcuni la lingua madre dell’umanità, è l’idioma dello
Yoga ed è un codice vibrazionale, per cui non è il suono a dare
importanza alla parola ma la vibrazione che trasmette. È una
lingua di guarigione: i mantra, le frasi in sanscrito recitate nella
pratica dello Yoga, sono uno strumento importante di recupero
della salute, una preghiera vibratoria per smuovere le energie
bloccate. L’effetto guaritore del sanscrito crea armonia nel
corpo e nell’anima.
Ma anche se sarebbe interessante, non voglio mettermi a
dissertare sul concetto di anima, perché ci porterebbe troppo
lontano per il tempo che ho a mia disposizione. [PP.7]
Di fatto la Chiesa Cristiana ha monopolizzato la cultura
dell’anima per secoli.
Gli psicologi, nati solo nel ‘900, erano interlocutori laici
scomodi, e lo erano anche per i medici che da più di duemila
anni studiavano concretamente il corpo malato, considerandoci,
solamente dei ciarlatani. [PP.8]
Lo studio della Psyché storicamente era comunque stato oggetto
peculiare della filosofia. Ma dal ‘900 diventa una branchia del
pensiero a se stante che diverrà una pratica di “cura”: la
psicoterapia appunto. Oggi è appurato che la psicoterapia
promuove l’apprendimento di modi alternativi di pensare e
comportarsi, ovvero altera la forza delle sinapsi tra i neuroni,
portando, quindi, a dei veri e propri cambiamenti morfologici nei
neuroni stessi.
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Alla luce di queste nuove conoscenze, in campo scientifico si sta
già gradualmente correggendo la dicotomia culturale di partenza,
che prevede una rigida distinzione tra i disturbi neurologici,
psichiatrici e psicologici, accogliendo un approccio integrato e
interdisciplinare.
Devo riconoscere che il pregio per me più rilevante degli studi di
Filosofia Orientale che ho compiuto è proprio quello di avermi
permesso di infrangere quella barriera concettuale che in
Occidente distingue in maniera rigida il corpo dalla mente. [PP.9]
La nostra cultura occidentale è però ancora oggi, nonostante
tutto, retta da questo dualismo corpo-mente, il corpo da una parte
e Psyché dall’altra (uso psiche come sinonimo di mente anche se la parola
psiche ha concettualmente una ampiezza maggiore - contiene l’istinto e
l’inconscio). Ricordo di aver vissuto questa rigida divisione come
una forzatura inaccettabile fin da quando facevo l’istruttore di
ginnastica e l’allenatore. Ho sempre riscontrato nel corpo e nel
movimento collegamenti chiari al modo di pensare e di essere
delle persone ed è per questo motivo, alla ricerca di senso, che
ho proseguito i miei studi in Psicologia. [PP.10]
Ma è alla Scuola di Filosofia Orientale di Rimini che ho appreso
che nel pensiero Buddista, come in quello Taoista, il corpo e la
mente sono fin dagli albori, considerati due aspetti inseparabili,
dove per unicità non s’intende che il corpo e la mente siano
identici, ma che non sono disgiunti [PP.11], ma pensati come entità
di uno stesso essere vivente che dialogano e interagiscono
profondamente e costantemente. (Feldenkrais M., “Le basi del metodo
per la consapevolezza dei processi psicomotori”, Roma, Astrolabio, 1991).
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[PP.12] Pur non volendo addentrarmi in dissertazioni di Storia della
Filosofia, devo però menzionare che questo dualismo dopo
Pitagora, Platone ed Aristotele, si è andato definitivamente
radicalizzando nel 1600, con Cartesio che ha stabilito la netta
suddivisione di due dimensioni esistenziali dell’uomo: la Res
Extensa e la Rex Cogitans. Cartesio, uno dei maggiori esponenti
della corrente filosofica del Razionalismo che ripone una fiducia
assoluta nella ragione, immaginava il pensare come un processo
autonomo che agisce in maniera completamente indipendente
rispetto al corpo. È di Cartesio uno degli enunciati più famosi di
tutta la storia della filosofia: «Cogito ergo sum».
L’affermazione, presa alla lettera, indica che i substrati
dell’essere sono proprio il pensare e la consapevolezza di
pensare. Ed è proprio questa proposizione che celebra la netta
separazione della mente rispetto al corpo. Cartesio infatti, ha
considerato il corpo come una macchina che è divisa dalla
mente, dal pensiero, esprimendo l’esatto opposto di ciò che le
moderne neuroscienze sostengono in relazione all’origine del
corpo e della mente degli esseri viventi. [PP.13]
Secondo Antonio Damasio, celebre docente ricercatore di
neuroscienze, di neurologia e psicologia presso l’Università del
Sud della California, “L’errore di Cartesio” (che è anche il titolo di
un suo celebre libro), risiede proprio in questa netta separazione, in
questo distacco, nell’operare in maniera scissa ed indipendente
di queste due entità.
Damasio addirittura capovolge il cogito cartesiano e dimostra
che la coscienza di sé emerge dalla coscienza che si ha del
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proprio corpo; noi siamo e quindi pensiamo: il pensiero è allora
causato dalle strutture e dalle attività dell’essere. Nei suoi studi
ha dimostrato che la mente umana non solo è strettamente legata
al regno dei tessuti biologici che la compongono, ma è in
continua interazione con il corpo condizionato sia dall’ambiente
fisico che da quello sociale. Antonio Damasio e Daniel
Goleman, con i suoi studi sull’intelligenza emotiva, hanno
restituito voce e valore fondamentale al sentire, quindi al corpo,
riportando l’attenzione sulle sensazioni, alla percezione del
corpo e quindi alle emozioni e ai sentimenti.
Questi due ricercatori hanno ridato valore al corpo che sente e
alla percezione che passa dai sensi, come anche la
“Fenomenologia della percezione” di Merleau-Ponty, riteneva
sensato. [PP.14]
Inizialmente lo studio accademico della Psicologia, nello sforzo
di farsi annoverare negli atenei delle Scienze mediche, escluse
rare eccezioni come quella della Gestalt, incentrata sui temi della
percezione e dell’esperienza, si era sbilanciato tutto sulla
razionalità; fino agli anni ‘90 del secolo scorso si parlava quasi
esclusivamente di Q.I. (Quoziente Intellettivo), riducendo il
corpo a una macchina raziocinante, rincorrendo il modello
cartesiano, degradando il corpo al livello “animale”.
Resta il fatto però, che dal ‘600, grazie proprio a Des Cartes, ci
siamo ritrovati culturalmente e praticamente divisi, da una parte
stava la lobby religiosa della cultura cristiana, che aveva
monopolizzato tutto il sapere accademico fino al XVII secolo, e
dall’altra la lobby della cultura medica, entrambe sorrette da
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impalcature di verità millenarie. Queste due fazioni hanno avuto
interessi ben distinti che con il passare dei secoli si sono sempre
più radicate in corporazioni di potere autonome e del tutto
scollegate tra loro. La scienza medica dello specialismo
accademico è poi riuscita, nella modernità, a suddividere
ulteriormente il corpo in altre sottospecializzazioni riguardanti le
cellule, i tessuti, gli apparati e gli organi, determinando una
frammentazione ancor più esasperata dell’essere umano,
frantumandone ancora di più la visione d’insieme e rendendo
sempre più ardua la sua integrazione. [PP.15]
Ogni volta che nella mia terapia centrata sulla persona incontro
un cliente, mi ritrovo a dover favorire un balzo di congiunzione
per promuovere un cambio di paradigma per niente facile
perché esige la disgregazione di quel ‘costrutto’ (come direbbe il
mio Maestro Carl Rogers), sul quale abbiamo fondato il nostro credo
individualista occidentale e su cui abbiamo praticamente basato
tutte le scelte quotidiane della nostra vita, più o meno
inconsapevolmente. E devo riconoscere che è più laboriosa la
demolizione del vecchio che l’acquisizione del nuovo, seppur
riconosciuto più funzionale. [PP.16]
Nella mia esperienza personale ho riscontrato che praticare lo
Yoga è sicuramente un’attività predisponente a queste
congiunzioni e mi ritrovo molto spesso in terapia ad utilizzare
alcune pratiche di respirazione del Pranayama. [PP.17]
La respirazione profonda, diaframmatica (o Buddhica) ad
esempio, oltre a riportare l’attenzione al corpo, ci fa indugiare
nel presente, nell’istante in cui respiriamo, e ridà potere al qui e
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ora evitando di permettere alla mente di soffermarsi sui problemi
del passato o di proiettarsi con ansia nel futuro, verso l’ignoto
che da sempre spaventa l’essere umano. [PP.18]
Le tecniche di respirazione della Mindfulness, di cui la collega
Dott.ssa Antonella Scalognini medico psicoterapeuta è esperta e
che avrete modo di praticare nel laboratorio esperienziale di
questo pomeriggio, sono buone alleate per cercare di mantenere
questa congiunzione. Saper congiungere corpo e mente per noi
occidentali è il primo passo per poi riuscire a sentirci parte del
tutto. E ritengo sia un aspetto fondamentale per chi svolge una
professione di aiuto come la nostra. [PP.19]
Nel libro “Guarisci te stesso”, di Saki Santorelli, un medico
fondatore della Mindfulness, un testo che ritengo edificante per
la mia professione e per quella medica in generale, ho trovato
una citazione di Inayat Khan, un maestro sufi, nella quale si
legge “La mente è la superficie del cuore, il cuore la profondità
della mente”. [PP.20] Questo riferimento ci da modo di mettere in
evidenza che nelle lingue di molte tradizioni orientali, le parole
per indicare mente e cuore, non sono diverse. Anche per l’artista
calligrafo Kazuaki Tanahashi il cuore e la mente non vengono
pensati come due entità separate, l’ideogramma giapponese
descrive due figure che interagiscono (che Kazuaki traduce:
portare il cuore-mente all’adesso, a questo istante). [PP.21]
Per ritrovare così “Il potere di Adesso”, come cita Eckhart Tolle
in un suo famoso saggio, e centrare la nostra vita sul presente,
sul piacere di respirare e di essere vivi. [PP.22]
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Una corretta respirazione oltre a trasformare ogni emozione
sgradita, ogni tensione in rilassamento, ci ricongiunge alla nostro
centro profondo. Gli effetti di una buona respirazione praticata
più volte nel quotidiano, spesso ha conseguenze sorprendenti. Se
l’insegnamento della pratica della respirazione viene facilitato
attuando un contesto che preveda un atteggiamento accettante
incondizionatamente, senza giudizio, che implichi l’empatia e la
congruenza – che sono questi i cardini fondamentali rogersiani appresi nei
quattro anni di lavoro alla scuola di specializzazione –, diventa una
pregevole ricetta per aiutare le persone a ritrovare l’equilibrio e
l’armonia. [PP.23]
Queste condotte, che sono alla base dell’essere psicoterapeuta
rogersiano, non sono così ovvie da imparare: in quattro anni di
scuola di specializzazione si è molto lavorato sulla pratica di
questi apprendimenti e mi rendo conto che astrarsi dal giudizio,
ad esempio, è un impegno alquanto complesso, che però è bene
tenere sempre presente, perché come diceva Kant, anche la sola
parola è giudizio e noi con la parola ci lavoriamo, è il nostro
strumento essenziale. Forse è proprio il giudizio, che si porta
appresso il pre-giudizio, la cosa più deleteria e faticosa da
estirpare nel nostro vivere quotidiano e la conoscenza di altre
culture sicuramente può facilitarci in questo impegno, aprendo la
mente. [PP.24]
Dopo la lacerazione concettuale della ripartizione bipolare di
corpo mente, un altro concetto che ho trovato fondamentale nei
miei studi di filosofia Orientale, è quello del non attaccamento e
dell’impermanenza, precetti del Buddhismo, che se acquisiti,
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riescono a definire quella distanza necessaria con tutto ciò che ci
circonda (le cose, le persone, gli affetti ecc.) e [PP.25] facilitano
notevolmente l’evoluzione della consapevolezza, quella
consapevolezza che è obbiettivo di ogni buona psicoterapia
dover risvegliare. [PP.26]
La consapevolezza è parte indispensabile di quel percorso che ci
può portare dall’essere vittime inconsapevoli, ridotti
all’isolamento in quella realtà sofferta che siamo “costretti” a
subire e che ci spinge a ricercare la causa del nostro male negli
altri (noi lo chiamiamo locus of control esterno), ad essere
invece protagonisti e arrivare a concepirci come cause dei nostri
mali ma anche come fautori del nostro bene (locus of control
interno). [PP.27]
Accettare la responsabilità di essere imprenditori del nostro bene
e del nostro male, può sembrare scomodo soprattutto all’inizio
della Psicoterapia, quando non abbiamo ancora acquisito
strumenti idonei per reinterpretare la nostra realtà, ma
gradualmente, una volta ricentrati su noi stessi, ridiventati il
fulcro della nostra esistenza, la consapevolezza ci restituisce la
possibilità di decidere cosa è importante per noi e cosa,
viceversa, è importante per gli altri. Imparando ad accettare
anche di poter fare errori su questo percorso, ma di poter
comunque ritornare sempre sui propri passi. [PP.28]
Cambiare prospettiva e guardare la realtà da un punto di vista
più funzionale per noi, diventa un passaggio fondamentale per
rivedere la vita sotto un altro aspetto, più consono alla nostra
breve esistenza.
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In fondo dobbiamo essere coscienti, in quest’epoca che vorrebbe
poter annullare tutti i nostri limiti, che l’unica certezza Vera che
abbiamo su questa terra, dalla nostra venuta al mondo, è proprio
quella che dobbiamo morire e non sappiamo neppure come e
quando. Tutto quello in cui crediamo ci da modo di interpretare
la nostra esistenza, ma nessuno dovrebbe essere così certo delle
proprie verità (chi lo è in genere rischia di diventare un
pericoloso fondamentalista). Dobbiamo soltanto cercare di
rendere le nostre convinzioni funzionali al nostro esistere:
infondo la scienza e le religioni che cosa sono se non una ricerca
di senso necessario? La nostra mente, quando non riesce a
trovare il senso nelle cose, è a rischio di follia. Dobbiamo però
cercare di salvaguardare comunque sempre l’umiltà del dubitare,
senza voler imporre il nostro credo, senza voler convertire gli
altri alla nostra verità. [PP.29]
A volte per consentire che questo avvenga, diventa
indispensabile rivedere alcuni paradigmi della nostra cultura
cristiana d’origine, dove regna imperturbato un grande nemico
del nostro benessere: il senso di colpa. .[PP.30]
Tutti noi cristiani siamo nati con l’eredità della colpa della
disobbedienza di Adamo e dalla nascita in poi, grazie a questa
nostra cultura, ogni errore nella vita ci porta a soffrire più o
meno pesanti sensi di colpa e conseguente vergogna. La morale
cristiana, spesso utile alla Chiesa per sottomettere i suoi sudditi,
diventa una costante spada di Damocle nelle nostre scelte di vita,
che non di rado ci costringe chiusi in gabbia.
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Nella mia professione mi ritrovo di frequente, quando con il
cliente incontro quei profondi sensi di colpa che lo
immobilizzano, a dover rivedere e rileggere i precetti della nostra
religione (appresi in famiglia, al catechismo, ma anche durante la
scuola, in ogni apprendimento didattico culturale anche se non
siamo praticanti), a partire proprio dalla Genesi, dalla colpa
originale di Adamo, per cercare di darne una lettura più
funzionale alla nostra esistenza. Noi veniamo al mondo già con
la colpa della disobbedienza del primo uomo e questa colpa
anche se lavata col battesimo, rimane sempre in agguato. [PP.31]
Con il senso di colpa anche il concetto di peccato e di male
andrebbero rivisitati e riletti in chiave meno confessionale ed
ecclesiale (dobbiamo ricordarci che la Chiesa è un’istituzione
gerarchica di potere retta da comuni mortali, da uomini che si
arrogano la prerogativa di rappresentare Dio in terra). [PP.32]
Oggi “Vince chi fa più errori. (Il paradosso dell’innovazione)”.
È anche il titolo di un libro di Richard Farson e Ralph Keyes che
ho avuto l’occasione di leggere diverso tempo fa. L’errore come
apprendimento, non certo come ci insegnano a scuola. [PP.33]
Accettare lo sbaglio per cercare di non ripeterlo e solo così poter
proseguire a sbagliare di nuovo, per crescere ed evolvere. Questo
non vuole essere un tentativo di abolire l’etica, ma certamente
quello di opporsi ad una morale rigida e straripante di Verità
assolute. [PP.34]
Dobbiamo avere ben chiaro che quello che noi definiamo il male
(che cerchiamo di porre sempre fuori di noi), è in realtà l’unica
condizione che ci permette la crescita e l’evoluzione! La
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sofferenza ci riscuote e ci risveglia se impariamo ad accoglierla
(questo non può avvenire se invece la rifiutiamo o la neghiamo).
Dio cacciando il disubbidiente Adamo, privandosi della sua
onnipotenza, gli ha fatto un dono incommensurabile, quello del
libero arbitrio, in pratica regalandogli la libertà che certamente
implica anche sacrificio, sofferenza e responsabilità della scelta. [PP.35]
Oggi però dobbiamo fare i conti con un sistema che vuole
demolire ogni limite umano, ogni sofferenza, senza comprendere
che è solo tramite queste che possiamo crescere ed imparare. [PP.36]
Voglio consigliare la lettura di un libro illuminante a questo
proposito: “Homo Deus”. Usualmente il significato dato a limes,
frontiera, limite, confine (anche se nell’antichità il confine e la
frontiera avevano significati distinti), è quello di linea di
divisione, la separazione tra due cose. Ma un confine, non è forse
anche un luogo dove incontrarsi e ritrovarsi? Dove
ricongiungersi e riconciliarsi?
In realtà il peccato come crescita lo ritroviamo anche nel Libro
Sacro della nostra cultura, nell’Antico Testamento, ma dipende
sempre da come noi ci poniamo di fronte all’interpretazione. [PP.37]
Galimberti sul cristianesimo ha scritto un libro che ho trovato
interessante al quale vi rimando: “Cristianesimo. La religione del
cielo vuoto”. L’idea della vita di Cristo come modello, cioè Dio
che si è fatto uomo per patire tutte quelle pene per noi, il suo
calvario in terra per guadagnarsi il paradiso, il ritorno a Dio
padre, che è appunto il paradigma della nostra religione, ci ha
reso il modello della nostra esistenza come ricettacolo di
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supplizi. Se la vita deve essere un calvario di sofferenze, per
guadagnarci un posto comodo nell’aldilà, lo psicologo laico è
spesso costretto alla profanazione, alla blasfemia e al sacrilegio
per permettere alle persone di godere del piacere di vivere e
apprezzare questo immenso dono della vita sulla terra. Oggi,
adesso, non nell’aldilà. [PP.38]
Freud in qualche modo aveva annunciato, con la sua teoria del
piacere, questa disputa con l’interpretazione dei Testi Sacri
compiuta dalla Chiesa [PP.39] (che per altro è anche stata modificata
nei vari concili vaticani), che è servita in primis per facilitare la
gestione del suo potere sul popolo. Ci ricordiamo il periodo
storico dell’inquisizione che ha portato al rogo un grande
filosofo Italiano: Giordano Bruno? [PP.40]
Compito dell’arduo lavoro che spetta noi psicoterapeuti è quello
di aiutare le persone a ristrutturare il proprio Io, concepire quegli
strumenti da poter padroneggiare per disfare il confine che ci
divide dal mondo che ci circonda e recuperare l’armonia delle
relazioni con gli altri. Non è inconsueto che questo ci imponga
una nuova lettura dei principi disfunzionali dell’esistenza che
abbiamo assimilato culturalmente dal passato ma anche dalla
nostra famiglia di origine. [PP.41]
Ci impegniamo ad aiutare la persona che si rivolge a noi
smarrita, a costruirsi metaforicamente un recinto, una casa, un
rifugio autonomo dove potersi riparare e dal quale poter
finalmente uscire quando lo vuole, sapendo che lì comunque può
rientrare ogniqualvolta lo desideri (equiparabile a quello che
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Anzieu Didier ha chiamato “L’Io pelle”, il nostro confine
dell’Io.) [PP.42]
Il presupposto indispensabile di ogni psicoterapia è mirare ad
aiutare la persona a ricostruire una relazione funzionale con se
stessa, attraverso l’amor proprio, l’autostima, per poi
pacatamente poter tornare a perdersi e lasciarsi andare
nell’incontro con l’Altro. Per imparare a perdersi, per poi potersi
alfine ritrovare, come citava Tiziano Terzani in “Un altro giro di
Giostra”. Non possiamo amare nessuno se prima non impariamo
ad amare noi stessi e mi soffermerei volentieri sul dissertare sul
concetto di amore, ma il tempo scorre implacabile. [PP.43]
Solo dopo che abbiamo imparato ad amarci possiamo perderci
nel mondo ed imparare a rispettare l’Altro, di cui ci rendiamo
conto di dover fare parte. Senza l’Altro non possiamo esistere,
perché siamo animali sociali. Solo allora, a mio avviso, il
concetto orientale di Non Io può acquisire un senso anche qui da
noi in Occidente, e possiamo permetterci il lusso di lasciare
andare l’Io ritrovato, sgretolando quell’individualismo
esasperato a cui oggi siamo ormeggiati. [PP.44]
Lasciare andare non è altro che permettere alla vita di scorrere,
la cosa più naturale dell’esistenza, favorire il cambiamento con
fiducia nella vita, ma anche avere ben presente la fine
dell’esistenza, in quel ciclo dell’eterno ritorno che è
rappresentato dall’immagine dell’Uroboro, il serpente che si
morde la coda, il simbolo esoterico della ciclicità del tempo. [PP.45]
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Accettare il presente e insieme accettare il divenire, cioè la
morte, è impedire che la realtà della morte nullifichi il presente.
Questo, in definitiva, il compito e l’atteggiamento del super-
uomo di Nietszche in “Così parlò a Zarathustra”. Il super-uomo
come il senso della terra e come il fautore di un’antidealistica
fedeltà al mondo: “Vi scongiuro fratelli, rimanete fedeli alla
terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene
speranze! L’anima è insussistente, l’uomo è corpo”. Il
superuomo è colui che è in grado di accettare la dimensione
tragica dell’esistenza, di dir sì alla vita, di reggere la morte di
Dio e la perdita delle certezze assolute, di emanciparsi dalla
morale, di porsi come volontà di potenza e procedere oltre il
nichilismo. Ed ecco allora anche in Nietzsche ricomparire il
valore dato da Schopenhauer al presente e quindi alle sensazioni,
illusioni, passioni, e quant’altro il presente offre quando sciolto
da fondamenti etici, religiosi o metafisici.
L’eterno ritorno significa ritenere che il senso dell’essere non
sia fuori dall’essere, ma nell’essere stesso, e il disporsi a vivere
la vita, e ogni attimo di essa. Non dimentichiamo che il pensiero
di Schopenauer e di Nietzsche ha ispirato in un certo qual modo
la concezione freudiana. [PP.46]
Ma noi umani temiamo il cambiamento, abbiamo paura di
perdere ciò che abbiamo con tanta fatica conquistato e a costo di
soffrire, ci teniamo avvinghiati alle nostre conquiste, come
zavorre, cercando di impedire il divenire.
Quando penso alla capacità di lasciare andare, mi sovviene la
metafora del compositore musicale: per anni il musicista si deve
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cimentare nella tecnica del solfeggio per poi da compositore,
doversene dimenticare se vuole essere in grado di concepire la
melodia. [PP.47]
Se pensiamo alla musica ci possiamo soffermare sul fatto che è
data da un insieme di note, ma avete mai pensato a quanto siano
importanti le pause, i vuoti, per l’armonia musicale? Il senso del
vuoto che tanto ci spaventa, in realtà diventa momento
indispensabile per poter fare spazio al ritmo, al suono, alla
melodia. [PP.48]
Anche la comprensione dell’importanza del vuoto ci viene dalla
cultura d’Oriente in opposizione al bisogno di riempire che
abbiamo in Occidente. Quel vuoto che i riti dell’Oriente ci
tramandano, come ad esempio l’importanza data allo spazio
vuoto del contenitore nella cerimonia del Tè. [PP.49] Quel concetto
di vuoto che è di fondamentale rilevanza anche per il mio lavoro
e lo devo all’insegnamento di un eminente docente della Scuola
di Filosofia Orientale con cui ho condiviso l’elaborazione della
mia tesi, il Prof. Giangiorgio Pasqualotto. Mi ha insegnato che il
vuoto è un elemento indispensabile per poter apprezzare i
contenuti della nostra esistenza, strapiena di un eccesso di
stimoli e di stress. Quando siamo intasati, è vitale svuotarsi per
poi imparare a ingerire solo quello che ci è necessario come il
corpo ci mostra dopo un’indigestione o un’intossicazione.
Il valore d’imparare a schermarci dai troppi impulsi e la
responsabilità di dover scegliere ogni volta ciò che possiamo fare
passare e ciò che dobbiamo lasciare fuori, oggi che gli input sono
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innumerevoli e pressanti, è sempre più di sostanziale importanza
per la nostra salute.
Noi siamo sempre più sospinti a riempirci di troppe cose inutili,
non sappiamo più restare soli, svuotarci ci terrorizza, perché ci
hanno insegnato che ci serve tutto ciò che alla fine invece
ingombra e ci occlude. [PP.50]
Gabriele Romagnoli, in “Solo bagaglio a mano”, scrive:
“Perdere è avere un’occasione. Invece si ha paura di perdere e/o
di perdersi.” Io direi che è darsi un’occasione. Imparare a
lasciare andare, a liberarsi è decontaminarsi.
Ma anche nella nostra cultura cristiana possiamo ritrovare
esempi ispiratori che valorizzano questo vuoto: Gesù andò
quaranta giorni nel deserto per ricreare quel vuoto, per
purificarsi, liberarsi dal male e poter ritrovare Dio, il bene, nel
digiuno purificatore e nella solitudine. [PP.51]
Dobbiamo imparare dalla solitudine a ricreare quel vuoto che, se
adeguatamente apprezzato, ci permetterà di discernere ciò che è
realmente importante e ciò che è superfluo al nostro benessere.
Stare da soli oggi è considerato un difetto, abbiamo il timore di
restare soli e per questo continuiamo a intasarci di cose inique e
spesso dannose che ci rendono dipendenti. La paura della
solitudine è un altro argomento ricorrente in psicoterapia.
Il primo passo per ovviare questa paura è proprio quello di
sentirsi tutt’uno con se stessi, congiunti; dobbiamo imparare a
sentire il corpo anche quando non si fa sentire, e rispettarlo,
nutrirlo, soddisfarlo, avere passioni, hobby da coltivare, fare
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attività fisica, giocare col corpo. Rimettere il corpo, l’istinto del
corpo, le sensazioni, le emozioni, al centro in una cultura dove
invece la logica, la ragione e il razionale hanno la preminenza da
secoli. E badate che interessarsi al corpo non è retrocedere a
livelli primitivi, quando sentivamo la fame e partivamo alla
ricerca di cibo per sfamarci. Oggi portare la mente al corpo è
ridare dignità alla nostra esistenza. Non si deve aspettare che il
corpo si ammali per valorizzarlo e curarlo. Dobbiamo prendere
coscienza che l’unica vera cura è la prevenzione. [PP.52]
Lo psicosomatista si ritrova quotidianamente a dover fare i conti
con somatizzazioni, che cosa vuol dire somatizzare? In sostanza
significa che l’individuo ha trasformato un disagio psicologico in
un’alterazione della salute fisica. L’esempio più semplice può
essere quello in cui il mal di testa è l’espressione di uno stato
di nervosismo. Generalmente le parti più colpite dal processo di
somatizzazione sono quelle costituite dal sistema
gastrointestinale (lo stomaco e l’intestino sono il nostro secondo
cervello). Rappresentano la nostra capacità di introdurre, ingerire
ed elaborare quello che ci serve e ci fa bene. Sintomi
caratteristici sono la diarrea, la stipsi o i dolori addominali, in
risposta ad un’emozione incompresa e indesiderata. La gastrite è
un’altra tipica espressione di una sofferenza psicologica, non
riusciamo a mandare giù qualcosa che non accettiamo e il nostro
corpo, visto e considerato che non siamo in grado di elaborarne
con la psiche il senso e l’emozione e ancor meno la sua causa, fa
del suo meglio per aiutarci producendo succhi gastrici in grande
quantità che non trovano niente di concreto da dover disgregare
se non le pareti stesse dello stomaco.
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Oramai è accreditato anche dalla medicina che la psiche ha un
ruolo fondamentale su un numero sempre crescente di sintomi
fisici. [PP.53] Ma non è strano, nell’antica Grecia gli organi avevano
simbologie e significati che venivano riportati anche nei miti, la
medicina aveva sempre un occhio aperto al senso universale.
Non era figlia del meccanicismo riduttivista come è oggi. A
questo proposito c’è uno scritto di R.B. Onians, “Le origini del
pensiero europeo, la mente, l’anima, il mondo, il tempo, il
destino”, che considero illuminante.
La cultura in cui siamo nati influisce oltre che sulla concezione
di ciò che è male, anche sulle malattie. A me è sempre piaciuto
molto viaggiare e ho scoperto che ci sono malattie tipiche di una
certa società, diverse e astruse per un’altra.
Nonostante la coppia salute/malattia non sia affatto simmetrica, i
due termini sono compartecipi al loro significato: non si
potrebbe definire l’uno senza presupporre la definizione
dell’altro (quello di salute/malattia, fra i tanti, è un dualismo
molto assoggettato a quello di anima/corpo). [PP.54]
Le definizioni della malattia, si riducono spesso ad affermare che
essa è il contrario della salute, entrando in quel circolo vizioso
che presuppone un punto di vista particolare e parziale sulla
natura dei fenomeni morbosi. Siamo sempre condizionati dal
dualismo, che mentre da una parte ci rassicura, rinserrandoci in
angusti confini, dall’altra vorremmo non ci costringesse,
vorremmo sentirci liberi. Ma d’altro canto senza quei confini ci
sembra di non riuscire a ritrovarci.
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Ricerchiamo disperatamente una libertà che a volte ha un costo
troppo elevato da poter accettare. Ippocrate ai suoi allievi medici
diceva: chiedete sempre al vostro paziente prima di cercare di
curarlo, se è disposto a rinunciare a ciò che causa le sue
afflizioni.
Per concludere, in apprezzamento alla corrente di pensiero della
collega Dott.ssa Damiani Alberti vorrei leggervi una passo di
uno psicanalista Junghiano: Adolf Guggenbühl-Craig dal suo
libro “Il bene del male” [PP. 55]
Chirone, il centauro che insegnò a Esculapio l’arte di guarire, era affetto da
piaghe incurabili. A Babilonia c’era una dea–cane con due nomi: con quello di
Gula era la morte, con quello di Labartu era la guarigione. In India, Kali è la
dea del vaiolo e anche colei che lo cura. L’immagine mitologica del guaritore
ferito è molto diffusa e, da un punto di vista psicologico, ciò significa non solo
che il paziente ha un medico dentro di sé, ma anche che nel medico esiste un
paziente. Adolf Guggenbühl–Craig [1983 trad. it. “Il bene del male”, 1987,
7677].
[PP.56]
Tibi gratias ago pro patientia vestra.
Grazie per la pazienza. Dott. Bruno Bonandi
www.brunononandi.it
face book: https://www.facebook.com/dr.BrunoBonandi