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DISPENSA di DIRITTO Amministrativo Le fonti del diritto ... n. 2... · amministrativo con il...

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1 DISPENSA di DIRITTO Amministrativo Le fonti del diritto amministrativo A cura di Marco Fratini
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DISPENSA di DIRITTO Amministrativo

Le fonti del diritto amministrativo

A cura di

Marco Fratini

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Le fonti del diritto amministrativo.

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Indice

1. Diritto dell’Unione europea e diritto interno

1.1 Corte di Giustizia UE, 9 marzo 1978, in causa 106/77 : la tesi monista accolta dalla Corte di

Giustizia

1.2 Corte Costituzionale, 8 giugno 1984, n. 170 : tesi dualista e disapplicazione diretta

1.3 Corte di Giustizia 19 novembre 1991, in causa C-6/90 e C-9/90 : responsabilità dello Stato

per mancata attuazione delle direttive

1.4 Corte di Giustizia, 27 febbraio 2003, C- 327/2000 : disapplicabilità dei bandi anticomunitari

1.5 Corte Costituzionale, ordinanza n. 103 del 2008 : rinvio alla Corte di giustizia europea ai

sensi dell’art. 234 TCE

1.6 Cassazione Civile, Sezioni Unite, 17 aprile 2009, n. 9147 : natura della responsabilità dello

Stato per mancata attuazione delle direttive

1.7 Consiglio di Stato, 15 febbraio 2012, n. 750: incompatibilità del provvedimento

amministrativo con il diritto dell’Unione europea

1.8 Corte Giust. UE 11 settembre 2014, C-112-2013 : antinomie tra fonti interne e diritti garantiti

dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e compatibilità con il diritto dell’Unione

dei meccanismi ( vigenti in Austria) volti a risolverle

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2. CEDU e diritto interno

2.1 Corte cost. n. 210 del 2013 (allegato 1)

2.2 Corte Costituzionale 28 novembre 2012, n. 264: norme della Cedu e rapporti con il diritto

costituzionale interno in materia di diritti fondamentali

3. Cedu ed ordinamento nazionale

3.1 Corte Costituzionale, 24 ottobre 2007, n. 348 e 349 : Il rango delle norme Cedu

nell’ordinamento interno

3.2 Corte costituzionale, 11 marzo 2011, n. 80 : rigetto della tesi della” comunitarizzazione” della

Cedu

3.3 Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 17 febbraio 2014, n. 754 : contrasto norma Cedu e

norma interna

4. Leggi di interpretazione autentica e leggi retroattive

4.1 Corte Cost. n. 103 del 2013

4.2 Corte Cost. n. 160 del 2013

4.3 Corte Cost. n. 170 del 2013

4.4 Corte Cost. 2 aprile 2014, n. 69 (allegato 2)

4.5 Corte Cost., 4 luglio 2014, n. 191 (allegato 3)

5. Legge provvedimento

5.1 Corte cost., sentenze n. 94 del 2009

5.2 Corte cost., sentenza n. 137 del 2009

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5.3 Corte cost., sentenze n. 270 del 2010

5.4 Corte cost., sentenze n. 20 del 2012

5.5 Corte cost., sentenze n. 85 del 2013

5.6 Corte Cost., sentenza n. 154 del 2013

5.7 Corte Cost. 20 novembre 2013, n. 275

6. Il principio di legalità nel diritto amministrativo

6.1 Corte Costituzionale 4 aprile 2001, n.115 : il principio di legalità sostanziale e le ordinanze

sindacali

6.2 Consiglio di Stato 17 ottobre 2005, n. 5827 : i poteri amministrativi impliciti

7. Fonti secondarie dell’ordinamento nazionale: i regolamenti

7.1 Consiglio di Stato, commissione speciale, parere 26 giugno 2013, n. 3014: criteri di

distinzione atto amministrativo ed atto normativo. Impugnabilità dei regolamenti

7.2 Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 4 maggio 2012, n.9 : la “fuga dal regolamento” e

l’atipicità degli atti normativi

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Selezione giurisprudenziale

1. Diritto dell’Unione europea e diritto interno

1.1 Corte di Giustizia UE, 9 marzo 1978, in causa 106/77 : la tesi monista accolta dalla Corte di

Giustizia

Corte di Giustizia delle Comunità europee, 9 marzo 1978

C-106/77, Amministrazione delle finanze dello Stato – Spa Simmenthal Nel procedimento 106/77, avente ad oggetto la domanda di pronunzia pregiudiziale proposta a questa Corte , a norma dell’art. 177 del Trattato CEE, dal Pretore di Susa ( Italia ) nella causa dinanzi ad esso pendente fra Amministrazione delle finanze dello Stato e Spa Simmenthal, con sede in Monza, Oggetto della causa domanda vertente sull’interpretazione dell’art. 189 del Trattato CEE e, in particolare, sulle conseguenze dell’efficacia diretta delle norme comunitarie in caso di conflitto con eventuali disposizioni nazionali con queste contrastanti, Motivazione della sentenza 1 Con ordinanza 28 luglio 1977, pervenuta in cancelleria il 29 agosto successivo, il Pretore di Susa ha sottoposto a questa Corte , in forza dell’art. 177 del Trattato CEE, due questioni pregiudiziali relative al principio della diretta applicabilità del diritto comunitario, enunciato nell’art. 189 del Trattato, al fine di determinare le conseguenze di tale principio in caso di conflitto fra una norma di diritto comunitario ed una disposizione legislativa interna posteriore. 2 E’ opportuno ricordare che, in una precedente fase della controversia, il Pretore aveva sottoposto a questa Corte talune questioni pregiudiziali intese a permettergli di valutare la compatibilità col Trattato e con determinate disposizioni regolamentari - in particolare , col Regolamento del Consiglio 27 giugno 1968, n. 805, relativo all’organizzazione comune dei mercati nel settore delle carni bovine ( GU n. l 148, pag. 24 ) - di certi diritti di visita sanitaria riscossi sulle importazioni di carni bovine in forza del Testo unico delle leggi sanitarie italiane, diritti il cui importo era stato da ultimo fissato nella tabella allegata alla legge 30 dicembre 1970, n. 1239 ( Gazzetta Ufficiale n. 26, del 1° febbraio 1971 ); 3 In seguito alla soluzione data dalla Corte a tali questioni nella sentenza 15 dicembre 1976 ( causa 35/76, racc. pag. 1871 ), il Pretore, ritenendo incompatibile la riscossione dei tributi considerati con

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quanto disposto dal diritto comunitario, ingiungeva all' Amministrazione delle finanze dello Stato di rimborsare i diritti indebitamente percepiti, più gli interessi; 4 L’Amministrazione delle finanze faceva opposizione al relativo decreto ingiuntivo; 5 Tenendo conto degli argomenti svolti dalle parti nel corso del procedimento di opposizione, il Pretore ha ritenuto di trovarsi di fronte ad un problema di contrasto fra certe norme comunitarie ed una legge nazionale posteriore ( legge n . 1239 del 1970 ); 6 Egli ha rilevato che, secondo la recente giurisprudenza della Corte costituzionale italiana ( sentenze nn. 232/75 e 205/76, ordinanza n. 206/76 ), la soluzione di un siffatto problema implica la necessità di rinviare alla stessa Corte costituzionale la questione dell' illegittimità costituzionale della legge controversa, con riguardo all’art. 11 della Costituzione; 7 Considerando, da un lato, la ben consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia in tema di efficacia del diritto comunitario negli ordinamenti giuridici degli Stati membri e , dall’altro, gli inconvenienti che possono derivare da situazioni in cui il giudice , invece di disapplicare di propria iniziativa una legge che osta alla piena efficacia del diritto comunitario, debba sollevare la questione di legittimità costituzionale, il Pretore si è rivolto a questa Corte per sottoporle due quesiti del seguente tenore : a ) posto che , ai sensi dell' art. 189 del Trattato CEE e della costante giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee, le disposizioni comunitarie direttamente applicabili devono esplicare, a dispetto di qualsivoglia norma o prassi interna degli Stati membri , piena , integrale ed uniforme efficacia negli ordinamenti di questi ultimi, anche al fine della garanzia delle situazioni giuridiche soggettive create in capo ai privati, se ne consegua che la portata di dette norme va intesa nel senso che eventuali disposizioni nazionali successive con esse contrastanti vanno immediatamente disapplicate senza che si debba attendere la loro rimozione ad opera dello stesso legislatore nazionale ( abrogazione ) o di altri organi costituzionali ( dichiarazione di incostituzionalità ), specie ove si consideri , rispetto a questa seconda ipotesi , che fino a detta dichiarazione , permanendo la piena efficacia della legge nazionale, risulta impedita l ' applicazione delle norme comunitarie , e quindi non garantita la piena, integrale ed uniforme applicazione delle medesime e non protette le situazioni giuridiche create in capo ai privati. b ) in relazione al quesito che precede, qualora il diritto comunitario ammetta che la tutela delle situazioni giuridiche soggettive, sorte per effetto di disposizioni comunitarie ' direttamente applicabili ' , possa essere rinviata al momento della effettiva rimozione ad opera dei competenti organi nazionali delle eventuali misure nazionali contrastanti , se tale operazione debba avere in ogni caso efficacia totalmente retroattiva in modo da evitare ogni conseguenza pregiudizievole per le situazioni giuridiche soggettive. Sul rinvio pregiudiziale 8(omissis) Nel merito 13 La prima questione mira in sostanza a far precisare le conseguenze dell' applicabilità diretta di una disposizione di diritto comunitario in caso d ' incompatibilità con una disposizione successiva facente parte della legislazione d' uno Stato membro.

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14 Considerata sotto questo profilo, l' applicabilità diretta va intesa nel senso che le norme di diritto comunitario devono esplicare la pienezza dei loro effetti, in maniera uniforme in tutti gli Stati membri, a partire dalla loro entrata in vigore e per tutta la durata della loro validità; 15 Dette norme sono quindi fonte immediata di diritti e di obblighi per tutti coloro ch' essere riguardano, siano questi gli Stati membri ovvero i singoli, soggetti di rapporti giuridici disciplinati dal diritto comunitario; 16 Questo effetto riguarda anche tutti i giudici che, aditi nell’ambito della loro competenza, hanno il compito, in quanto organi di uno Stato membro, di tutelare i diritti attribuiti ai singoli dal diritto comunitario; 17 Inoltre, in forza del principio della preminenza del diritto comunitario, le disposizioni del Trattato e gli atti delle istituzioni, qualora siano direttamente applicabili, hanno l ' effetto, nei loro rapporti col diritto interno degli Stati membri , non solo di rendere ' ipso jure ' inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale preesistente, ma anche - in quanto dette disposizioni e detti atti fanno parte integrante, con rango superiore rispetto alle norme interne, dell’ordinamento giuridico vigente nel territorio dei singoli Stati membri - di impedire la valida formazione di nuovi atti legislativi nazionali , nella misura in cui questi fossero incompatibili con norme comunitarie; 18 Il riconoscere una qualsiasi efficacia giuridica ad atti legislativi nazionali che invadano la sfera nella quale si esplica il potere legislativo della Comunità, o altrimenti incompatibili col diritto comunitario, equivarrebbe infatti a negare, sotto questo aspetto, il carattere reale d ' impegni incondizionatamente ed irrevocabilmente assunti, in forza del Trattato, dagli Stati membri, mettendo cosi in pericolo le basi stesse della Comunità; 19 La stessa concezione si desume dalla ' ratio ' dell’art. 177 del Trattato, secondo cui qualsiasi giudice nazionale ha la facoltà di rivolgersi alla Corte, ogniqualvolta reputi necessaria, per emanare la propria sentenza, una pronunzia pregiudiziale su questioni d ' interpretazione o di validità relative al diritto comunitario; 20 L’effetto utile di tale disposizione verrebbe ridotto, se il giudice non potesse applicare, immediatamente, il diritto comunitario in modo conforme ad una pronunzia o alla giurisprudenza della Corte; 21 Dal complesso delle precedenti considerazioni risulta che qualsiasi giudice nazionale , adito nell’ambito della sua competenza, ha l’obbligo di applicare integralmente il diritto comunitario e di tutelare i diritti che questo attribuisce ai singoli, disapplicando le disposizioni eventualmente contrastanti della legge interna , sia anteriore sia successiva alla norma comunitaria; 22 E’ quindi incompatibile con le esigenze inerenti alla natura stessa del diritto comunitario qualsiasi disposizione facente parte dell’ordinamento giuridico di uno Stato membro o qualsiasi prassi, legislativa, amministrativa o giudiziaria , la quale porti ad una riduzione della concreta efficacia del diritto comunitario per il fatto che sia negato al giudice, competente ad applicare questo diritto, il potere di fare, all ' atto stesso di tale applicazione , tutto quanto e necessario per disapplicare le disposizioni legislative nazionali che eventualmente ostino alla piena efficacia delle norme comunitarie; 23 Ciò si verificherebbe qualora, in caso di conflitto tra una disposizione di diritto comunitario ed una legge nazionale posteriore, la soluzione fosse riservata ad un organo diverso dal giudice cui è affidato il

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compito di garantire l ' applicazione del diritto comunitario, e dotato di un autonomo potere di valutazione, anche se l ' ostacolo in tal modo frapposto alla piena efficacia di tale diritto fosse soltanto temporaneo; 24 La prima questione va perciò risolta nel senso che il giudice nazionale , incaricato di applicare , nell ' ambito della propria competenza, le disposizioni di diritto comunitario , ha l ' obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all ' occorrenza , di propria iniziativa , qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale , anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale. 25 Con la seconda questione si chiede in sostanza - per il caso in cui sia ammesso che la tutela delle situazioni giuridiche soggettive sorte per effetto di norme comunitarie possa essere rinviata al momento dell’effettiva rimozione, da parte dei competenti organi nazionali, delle eventuali misure nazionali contrastanti - se tale rimozione debba avere in ogni caso efficacia totalmente retroattiva, in modo da evitare ogni conseguenza pregiudizievole per le suddette situazioni giuridiche. 26 Dalla soluzione data alla prima questione risulta che il giudice nazionale ha l ' obbligo di garantire la tutela delle situazioni giuridiche soggettive sorte per effetto delle norme dell ' ordinamento giuridico comunitario, senza dover chiedere o attendere l ' effettiva rimozione, ad opera degli organi nazionali all’uopo competenti, delle eventuali misure nazionali che ostino alla diretta e immediata applicazione delle norme comunitarie; 27 La seconda questione risulta quindi priva di oggetto. Decisione relativa alle spese Sulle spese (omissis) Dispositivo Per questi motivi , la Corte, pronunciandosi sulle questioni sottopostele dal Pretore di Susa con ordinanza 28 luglio 1977, dichiara : il giudice nazionale, incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le disposizioni di diritto comunitario, ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale.

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1.2 Corte Costituzionale, 8 giugno 1984, n. 170 : tesi dualista e disapplicazione diretta

TESTO DELLA SENTENZA

Ritenuto in fatto:

Con ordinanza emessa il 30 aprile 1979 il Tribunale di Genova ha, nel corso del procedimento civile tra la S.p.A. Granital e l'Amministrazione finanziaria, sollevato di ufficio questione di costituzionalità dell'art. 3 del d.P.R. n. 695/78, per presunta violazione dell'art. 11 Cost., in riferimento agli artt. 189 e 177 del Trattato di Roma.

(omissis)

Considerato in diritto:

1. - La presente controversia trae origine, come si spiega in narrativa, dal giudizio promosso dal Tribunale di Genova, che censura, in riferimento all'art. 11 Cost., l'art. 3 del d.P.R. 22 settembre 1978, n. 695 ("Modificazioni alle disposizioni preliminari della tariffa dei dazi doganali di importazione della Repubblica italiana"), così testualmente formulato: "La norma di cui al punto 2, secondo comma, dell'art. 6, delle disposizioni preliminari della tariffa dei dazi doganali di importazione della Repubblica italiana, quale risulta modificata con l'art. 1 del presente decreto, ha effetto dall'11 settembre 1976". La statuizione, della quale vengono in questi termini individuati gli effetti temporali, è quella che eccettua i prelievi agricoli e le altre imposizioni previste ai sensi dell'art. 235 del Trattato istitutivo della CEE dall'agevolazione concessa agli importatori, in virtù di altra previsione dello stesso decreto, dettata in sostituzione del punto 2, art. 6 delle anzidette disposizioni preliminari. Tale agevolazione è contemplata là dove si dispone che quando "dopo la data indicata nel precedente punto" - e cioè la data in cui la dichiarazione d'importazione è accettata dalla dogana - "interviene una variazione del dazio, l'importatore può chiedere l'applicazione del dazio più favorevole purché la merce non sia lasciata alla libera disponibilità dell'importatore stesso. La domanda deve contenere l'indicazione dell'aliquota daziaria richiesta".

La disciplina in esame confliggerebbe con le prescrizioni del diritto comunitario per le seguenti considerazioni:

A) Il giudice a quo rileva, in primo luogo, che i regolamenti nn. 19/62 e 120/67 adottati dal Consiglio della CEE nel settore, qui considerato, dei cereali, contengono l'uno e l'altro, rispettivamente all'art. 17.1 e 15.1, un'apposita ed espressa disposizione, in forza della quale va riscosso il prelievo in vigore nel giorno dell'importazione. La Corte di giustizia della CEE, prosegue il Tribunale di Genova, ha poi, in sede d'interpretazione del citato art. 15.1 del regolamento n. 120/67, statuito che l'ammontare del prelievo è fissato in relazione al giorno in cui gli uffici doganali accettano la dichiarazione di importazione della merce. Ai sensi di tale pronunzia, il prelievo agricolo deve ritenersi preordinato a compensare la differenza fra il prezzo vigente sul mercato mondiale ed il più elevato prezzo comunitario, di guisa che il mercato comune sia stabilizzato e protetto anche nei confronti delle eventuali variazioni del prezzo del mercato mondiale. Il successivo aumento dei prezzi sul mercato mondiale, e la conseguente diminuzione dell'onere impositivo, non possono, pertanto, influire sulla determinazione dell'aliquota, la quale è fissata, in via di principio, con riguardo al prezzo di acquisto

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delle merci. Nella richiamata sentenza - osserva infine il giudice a quo - la Corte Comunitaria ha altresì precisato che la raccomandazione della Commissione del 25 maggio 1962, relativa alla data in cui si determina il dazio doganale applicabile alle merci dichiarate per l'immissione in consumo, non concerne il prelievo agricolo.

B) Ciò posto, il d.P.R. n. 695/78 è censurato, per aver da un canto introdotto nell'ordinamento interno il criterio sancito nella normativa comunitaria, e dall'altro congegnato gli effetti temporali della statuizione all'uopo emessa in modo che, per quanto qui interessa, il caso di specie non ricade nella relativa sfera di applicazione. Più precisamente, la norma che eccettua il prelievo agricolo dal regime del dazio più favorevole non può, ad avviso del giudice remittente, operare prima della data dell'11 settembre 1976, testualmente indicata dal legislatore come termine iniziale dell'efficacia della medesima. Si tratta, peraltro, della data di pubblicazione della suddetta sentenza interpretativa della Corte del Lussemburgo, che stabilisce quale, ai fini della determinazione del prelievo, sia il giorno dell'importazione. Così disponendo, la norma censurata avrebbe l'implicita ma inequivoca conseguenza di disattendere, con riguardo alle fattispecie insorte anteriormente all'11 settembre 1976, il precetto secondo cui il prelievo è necessariamente quello del giorno dell'importazione. Tale conclusione varrebbe per il giudizio demandato al Tribunale di Genova, in cui l'importazione soggetta a prelievo risale al 1972. Si assume di conseguenza che la disciplina dedotta in controversia contraddica:

a) il principio della efficacia immediata dei regolamenti emessi dagli organi della CEE, consacrato nell'art. 189 del Trattato di Roma, dal momento che secondo la giurisprudenza di questa Corte qualsiasi trasformazione o ricezione del diritto comunitario nel diritto interno, ancorché operata mediante norme di carattere meramente riproduttivo, risulterebbe incompatibile con l'automatica applicabilità della produzione giuridica derivata dal Trattato, e ne sottrarrebbe indebitamente l'interpretazione alla Corte del Lussemburgo, alla quale spetta, ex art. 177 del Trattato, la cognizione delle questioni pregiudiziali interpretative, necessaria e fondamentale garanzia dell'applicazione uniforme del diritto comunitario in tutti gli Stati membri;

b) l'art. 177 del Trattato, il cui disposto si assume leso anche sotto il riflesso che la norma censurata confligge con il regolamento comunitario come interpretato dalla Corte del Lussemburgo, e così incide sul vincolo scaturente da tale pronunzia per qualsiasi giudice nazionale. Il giudice a quo ritiene, infatti, che l'interpretazione resa dalla Corte di giustizia non possa spiegare effetti solo ex nunc, ma debba anche riguardare le importazioni anteriormente effettuate, di cui, appunto, si tratta nella causa di merito. Secondo il Tribunale di Genova, lo stesso congegno dell'art. 177 del Trattato esige che la sentenza interpretativa pronunziata dal giudice comunitario abbia a retroagire. Diversamente, non potrebbe risultare da tale pronunzia il regolamento del caso, in cui il giudice nazionale ha sollevato questione pregiudiziale in ordine all'interpretazione del diritto comunitario.

La violazione dell'art. 11 Cost. è, quindi, argomentata in base all'asserita incompatibilità fra prescrizione comunitaria e legge nazionale, e alla conseguente inosservanza dei principi stabiliti negli artt. 177 e 189 del Trattato di Roma.

2. - La questione, va subito precisato, è sollevata sull'assunto che, in conformità dell'attuale giurisprudenza, le disposizioni di legge contrarie al regolamento comunitario non possono considerarsi nulle od inefficaci, ma sono costituzionalmente illegittime, e vanno in quanto tali denunziate in questa sede, per violazione dell'art. 11 Cost. La Corte ritiene di dover anzitutto fermare l'attenzione su questo primo e preliminare profilo dell'indagine ad essa demandata.

3. - L'assetto dei rapporti fra diritto comunitario e diritto interno, oggetto di varie pronunzie rese in precedenza da questo Collegio, è venuto evolvendosi, ed è ormai ordinato sul principio secondo cui il regolamento della CEE prevale rispetto alle confliggenti statuizioni del legislatore interno. Questo risultato viene, peraltro, in considerazione sotto vario riguardo. In primo luogo, sul piano ermeneutico, vige la presunzione di conformità della legge interna al regolamento comunitario: fra le possibili interpretazioni del testo normativo prodotto dagli organi nazionali va prescelta quella conforme alle prescrizioni della Comunità, e per ciò stesso al disposto costituzionale, che garantisce l'osservanza del Trattato di Roma e del diritto da esso derivato (sentenze nn. 176, 177/81).

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Quando, poi, vi sia irriducibile incompatibilità fra la norma interna e quella comunitaria, è quest'ultima, in ogni caso, a prevalere. Tale criterio opera, tuttavia, diversamente, secondo che il regolamento segua o preceda nel tempo la disposizione della legge statale. Nel primo caso, la norma interna deve ritenersi caducata per effetto della successiva e contraria statuizione del regolamento comunitario, la quale andrà necessariamente applicata dal giudice nazionale. Tale effetto caducatorio, com'è stato avvertito nelle più recenti pronunzie di questa Corte, è altresì retroattivo, quando la norma comunitaria confermi la disciplina già dettata - riguardo al medesimo oggetto, e prima dell'entrata in vigore della confliggente norma nazionale - dagli organi della CEE. In questa evenienza, le norme interne si ritengono, dunque, caducate sin dal momento al quale risale la loro incompatibilità con le precedenti statuizioni della Comunità, che il nuovo regolamento ha richiamato. Diversa è la sistemazione data fin qui in giurisprudenza all'ipotesi in cui la disposizione della legge interna confligga con la previgente normativa comunitaria. È stato invero ritenuto che, per il fatto di contrastare tale normativa, o anche di derogarne o di riprodurne il contenuto, la norma interna risulti aver offeso l'art. 11 Cost. e possa in conseguenza esser rimossa solo mediante dichiarazione di illegittimità costituzionale.

La soluzione testé descritta è stata delineata in altro giudizio (cfr. sentenza n. 232/75) ed in sostanza così giustificata: il trasferimento dei poteri alla Comunità non implica, nella materia a questa devoluta, la radicale privazione della sovranità statuale; perciò si è in quell'occasione anche detto che il giudice nazionale non ha il potere di accertare e dichiarare incidentalmente alcuna nullità, dalla quale scaturisca, in relazione alle norme sopravvenute al regolamento comunitario, "un'incompetenza assoluta del nostro legislatore", ma è qui tenuto a denunciare la violazione dell'art. 11 Cost., promuovendo il giudizio di costituzionalità.

La Corte è ora dell'avviso che tale ultima conclusione, e gli argomenti che la sorreggono, debbano essere riveduti. L'assetto della materia va invece lasciato fermo sotto gli altri profili, che non toccano il rapporto fra la regola comunitaria e quella posteriormente emanata dallo Stato.

Per l'esame da compiere, occorre guardare all'approccio della pregressa giurisprudenza, quale si è , nel complesso, disegnato, nei confronti del fenomeno comunitario. Dalle decisioni già rese si ricava, infatti, un'utile traccia per riflettere sulla validità del criterio fin qui adottato. Com'è di seguito spiegato, non vi è ragione per ritenere che il giudice sia abilitato a conoscere dell'incompatibilità fra la regola comunitaria e quella statale, o viceversa tenuto a sollevare la questione di costituzionalità, semplicemente sulla base dell'ordine cronologico in cui intervengono l'una e l'altra norma. Giova al riguardo richiamare alcune premesse di ordine sistematico, poste nelle precedenti pronunzie, per controllarne il significato e precisare il risultato di questa nuova riflessione sul problema.

4. - Vi è un punto fermo nella costruzione giurisprudenziale dei rapporti fra diritto comunitario e diritto interno: i due sistemi sono configurati come autonomi e distinti, ancorché coordinati, secondo la ripartizione di competenza stabilita e garantita dal Trattato. "Esigenze fondamentali di eguaglianza e certezza giuridica postulano che le norme comunitarie - , non qualificabili come fonte di diritto internazionale, né di diritto straniero, né di diritto interno -, debbano avere piena efficacia obbligatoria e diretta applicazione in tutti gli Stati membri, senza la necessità di leggi di ricezione e adattamento, come atti aventi forza e valore di legge in ogni Paese della Comunità, sì da entrare ovunque contemporaneamente in vigore e conseguire applicazione eguale ed uniforme nei confronti di tutti i destinatari". Così la Corte ha statuito nella sentenza n. 183 del 1973. In detta decisione è per la prima volta affermata la prevalenza del regolamento comunitario nei confronti della legge nazionale. Questo criterio va considerato nel contesto della pronunzia in cui è formulato, e quindi inteso in intima e necessaria connessione con il principio secondo cui i due ordinamenti sono distinti e al tempo stesso coordinati. Invero, l'accoglimento di tale principio, come si è costantemente delineato nella giurisprudenza della Corte, presuppone che la fonte comunitaria appartenga ad altro ordinamento, diverso da quello statale. Le norme da essa derivanti vengono, in forza dell'art. 11 Cost., a ricevere diretta applicazione nel territorio italiano, ma rimangono estranee al sistema delle fonti interne: e se così è, esse non possono, a rigor di logica, essere valutate secondo gli schemi predisposti per la soluzione dei conflitti tra le norme del nostro ordinamento. In questo senso va quindi spiegata l'affermazione, fatta

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nella sentenza n. 232/75, che la norma interna non cede, di fronte a quella comunitaria, sulla base del rispettivo grado di resistenza. I principi stabiliti dalla Corte in relazione al diritto - nel caso in esame, al regolamento - comunitario, traggono significato, invece, precisamente da ciò: che l'ordinamento della CEE e quello dello Stato, pur distinti ed autonomi, sono, come esige il Trattato di Roma, necessariamente coordinati; il coordinamento discende, a sua volta, dall'avere la legge di esecuzione del Trattato trasferito agli organi comunitari, in conformità dell'art. 11 Cost., le competenze che questi esercitano, beninteso nelle materie loro riservate.

Occorre, tuttavia, meglio chiarire come, riguardo al fenomeno in esame, si ponga il rapporto fra i due ordinamenti. Sovviene in proposito il seguente rilievo. La disciplina emanata mediante il regolamento della CEE è destinata ad operare, con caratteristica immediatezza, così nella nostra sfera territoriale, come in quella di ogni altro Stato membro; il sistema statuale, dal canto suo, si apre a questa normazione, lasciando che le regole in cui essa si concreta vigano nel territorio italiano, quali sono scaturite dagli organi competenti a produrle. Ora, la Corte ha in altro giudizio affermato che l'esercizio del potere trasferito a detti organi viene qui a manifestarsi in un "atto", riconosciuto nell'ordinamento interno come "avente forza e valore di legge" (cfr. sentenza n. 183/73). Questa qualificazione del regolamento comunitario merita un cenno di svolgimento. Le norme poste da tale atto sono, invero, immediatamente applicate nel territorio italiano per forza propria. Esse non devono, né possono, essere riprodotte o trasformate in corrispondenti disposizioni dell'ordinamento nazionale. La distinzione fra il nostro ordinamento e quello della Comunità comporta, poi, che la normativa in discorso non entra a far parte del diritto interno, né viene per alcun verso soggetta al regime disposto per le leggi (e gli atti aventi forza di legge) dello Stato. Quel che si è detto nella richiamata pronunzia, va allora avvertito, altro non significa, in definitiva, che questo: l'ordinamento italiano - in virtù del particolare rapporto con l'ordinamento della CEE, e della sottostante limitazione della sovranità statuale - consente, appunto, che nel territorio nazionale il regolamento comunitario spieghi effetto in quanto tale e perché tale. A detto atto normativo sono attribuiti "forza e valore di legge", solo e propriamente nel senso che ad esso si riconosce l'efficacia di cui è provvisto nell'ordinamento di origine.

5. - Il risultato cui è pervenuta la precedente giurisprudenza va, quindi, ridefinito, in relazione al punto di vista, sottinteso anche nelle precedenti pronunzie, ma non condotto alle ultime conseguenze, sotto il quale la fonte comunitaria è presa in considerazione nel nostro ordinamento. Il giudice italiano accerta che la normativa scaturente da tale fonte regola il caso sottoposto al suo esame, e ne applica di conseguenza il disposto, con esclusivo riferimento al sistema dell'ente sovrannazionale: cioè al solo sistema che governa l'atto da applicare e di esso determina la capacità produttiva. Le confliggenti statuizioni della legge interna non possono costituire ostacolo al riconoscimento della "forza e valore", che il Trattato conferisce al regolamento comunitario, nel configurarlo come atto produttivo di regole immediatamente applicabili. Rispetto alla sfera di questo atto, così riconosciuta, la legge statale rimane infatti, a ben guardare, pur sempre collocata in un ordinamento, che non vuole interferire nella produzione normativa del distinto ed autonomo ordinamento della Comunità, sebbene garantisca l'osservanza di essa nel territorio nazionale.

D'altra parte, la garanzia che circonda l'applicazione di tale normativa è - grazie al precetto dell'art. 11 Cost., com'è sopra chiarito - piena e continua. Precisamente, le disposizioni della CEE, le quali soddisfano i requisiti dell'immediata applicabilità devono, al medesimo titolo, entrare e permanere in vigore nel territorio italiano, senza che la sfera della loro efficacia possa essere intaccata dalla legge ordinaria dello Stato. Non importa, al riguardo, se questa legge sia anteriore o successiva. Il regolamento comunitario fissa, comunque, la disciplina della specie. L'effetto connesso con la sua vigenza è perciò quello, non già di caducare, nell'accezione propria del termine, la norma interna incompatibile, bensì di impedire che tale norma venga in rilievo per la definizione della controversia innanzi al giudice nazionale. In ogni caso, il fenomeno in parola va distinto dall'abrogazione, o da alcun altro effetto estintivo o derogatorio, che investe le norme all'interno dello stesso ordinamento statuale, e ad opera delle sue fonti. Del resto, la norma interna contraria al diritto comunitario non risulta - è stato detto nella sentenza n. 232/75, e va anche qui ribadito - nemmeno affetta da alcuna nullità, che

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possa essere accertata e dichiarata dal giudice ordinario. Il regolamento, occorre ricordare, è reso efficace in quanto e perché atto comunitario, e non può abrogare, modificare o derogare le confliggenti norme nazionali, né invalidarne le statuizioni. Diversamente accadrebbe, se l'ordinamento della Comunità e quello dello Stato - ed i rispettivi processi di produzione normativa - fossero composti ad unità. Ad avviso della Corte, tuttavia, essi, per quanto coordinati, sono distinti e reciprocamente autonomi. Proprio in ragione, dunque, della distinzione fra i due ordinamenti, la prevalenza del regolamento adottato dalla CEE va intesa come si è con la presente pronunzia ritenuto: nel senso, vale a dire, che la legge interna non interferisce nella sfera occupata da tale atto, la quale è interamente attratta sotto il diritto comunitario.

La conseguenza ora precisata opera però, nei confronti della fonte statuale, solo se e fino a quando il potere trasferito alla Comunità si estrinseca con una normazione compiuta e immediatamente applicabile dal giudice interno. Fuori dall'ambito materiale, e dai limiti temporali, in cui vige la disciplina comunitaria così configurata, la regola nazionale serba intatto il proprio valore e spiega la sua efficacia; e d'altronde, è appena il caso di aggiungere, essa soggiace al regime previsto per l'atto del legislatore ordinario, ivi incluso il controllo di costituzionalità.

6. - Il regolamento comunitario va, dunque, sempre applicato, sia che segua, sia che preceda nel tempo le leggi ordinarie con esso incompatibili: e il giudice nazionale investito della relativa applicazione potrà giovarsi dell'ausilio che gli offre lo strumento della questione pregiudiziale di interpretazione, ai sensi dell'art. 177 del Trattato. Solo così è soddisfatta la fondamentale esigenza di certezza giuridica, sempre avvertita nella giurisprudenza di questo Collegio, che impone eguaglianza e uniformità di criteri applicativi del regolamento comunitario per tutta l'area della Comunità Europea.

Quest'affermazione trova il supporto di due autonome e concorrenti riflessioni. Va osservato, in primo luogo, che alla conclusione testé enunciata perviene, per parte sua, anche la

Corte del Lussemburgo. Detto Collegio considera, è vero, la fonte normativa della Comunità e quella del singolo Stato come integrate in un solo sistema, e quindi muove da diverse premesse, rispetto a quelle accolte nella giurisprudenza di questa Corte. Quel che importa, però, è che col giudice comunitario si possa convenire nel senso che alla normativa derivante dal Trattato, e del tipo qui considerato, va assicurata diretta ed ininterrotta efficacia: e basta questo per concordare sul principio secondo cui il regolamento comunitario è sempre e subito applicato dal giudice italiano, pur in presenza di confliggenti disposizioni della legge interna.

A parte ciò, e per quanto risulta alla Corte, il regolamento comunitario è fatto immediatamente operare, ad esclusione delle norme interne incompatibili, anteriori e successive, in tutti indistintamente gli ordinamenti degli Stati membri, quale che poi, in ciascuno di essi, possa essere la giustificazione di siffatto regime alla stregua delle rispettive previsioni costituzionali. Ed è, certamente, significativo che il controllo sulla compatibilità tra il regolamento comunitario e la norma interna, anche posteriore, sia lasciato alla cognizione del giudice ordinario pur dove un apposito organo giudicante è investito, analogamente a questa Corte, del sindacato di costituzionalità sulle leggi. Così accade, sebbene per ragioni in parte diverse da quelle sopra spiegate, nell'ordinamento federale tedesco. Il criterio ora sancito gode, dunque, di generale osservanza. Il che conferma che esso serve a stabilire e garantire condizioni di parità, sia degli Stati membri, sia dei loro cittadini, di fronte al modo come funziona la disciplina. e la stessa organizzazione, del Mercato Comune.

7. - Le osservazioni fin qui svolte non implicano, tuttavia, che l'intero settore dei rapporti fra diritto comunitario e diritto interno sia sottratto alla competenza della Corte. Questo Collegio ha, nella sentenza n. 183/73, già avvertito come la legge di esecuzione del Trattato possa andar soggetta al suo sindacato, in riferimento ai principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e ai diritti inalienabili della persona umana, nell'ipotesi contemplata, sia pure come improbabile, al numero 9 nella parte motiva di detta pronunzia. Nel presente giudizio cade opportuno un altro ordine di precisazioni. Vanno denunciate in questa sede quelle statuizioni della legge statale che si assumano costituzionalmente illegittime, in quanto dirette ad impedire o pregiudicare la perdurante osservanza del Trattato, in relazione al sistema o al nucleo essenziale dei suoi principi: situazione, questa,

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evidentemente diversa da quella che si verifica quando ricorre l'incompatibilità fra norme interne e singoli regolamenti comunitari. Nel caso che qui è previsto, la Corte sarebbe, quindi, chiamata ad accertare se il legislatore ordinario abbia ingiustificatamente rimosso alcuno dei limiti della sovranità statuale, da esso medesimo posti, mediante la legge di esecuzione del Trattato, in diretto e puntuale adempimento dell'art. 11 Cost.

8. - In conclusione, la questione sollevata dal Tribunale di Genova è inammissibile. Compete al giudice rimettente accertare se gli invocati regolamenti e principi dell'ordinamento comunitario consentano, e a qual titolo, che il regime del prelievo agricolo, sotto il profilo dedotto nella presente controversia, sia fatto retroagire soltanto fino alla data di pubblicazione della pronunzia interpretativa della Corte del Lussemburgo, sopra richiamata al n. 1B).

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3 del d.P.R. 22 settembre 1978, n. 6955 sollevata con l'ordinanza in epigrafe dal Tribunale di Genova in riferimento all'art. 11 Cost. e in relazione agli artt. 177 e 189 del Trattato di Roma.

così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, 5 giugno 1984.

1.3 Corte di Giustizia 19 novembre 1991, in causa C-6/90 e C-9/90 : responsabilità dello Stato

per mancata attuazione delle direttive

TESTO DELLA SENTENZA

Motivazione della sentenza

1. Con ordinanze 9 luglio e 30 dicembre 1989, pervenute alla Corte rispettivamente l' 8 e il 15 gennaio 1990, la Pretura di Vicenza (nella causa C-6/90) e la Pretura di Bassano del Grappa (nella causa C-9/90) hanno proposto, in forza dell' art. 177 del Trattato CEE, questioni pregiudiziali sull' interpretazione dell' art. 189, terzo comma, del Trattato CEE nonché della direttiva del Consiglio 20 ottobre 1980, 80/987/CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative alla tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro (GU L 283, pag. 23).

2. Tali questioni sono state sollevate nell' ambito di controversie tra Andrea Francovich e Danila Bonifaci e a. (in prosieguo: i "ricorrenti") e la Repubblica italiana.

3. La direttiva 80/987 è diretta a garantire ai lavoratori dipendenti un minimo comunitario di tutela in caso di insolvenza del datore di lavoro, fatte salve le norme più favorevoli esistenti negli Stati membri. A tal fine, essa stabilisce in particolare garanzie specifiche per il pagamento di loro crediti non pagati relativi alla retribuzione.

4. A norma dell' art. 11, gli Stati membri erano tenuti a emanare le disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative necessarie per conformarsi alla direttiva entro un termine scaduto il 23 ottobre 1983. Poiché la Repubblica italiana non ha ottemperato a tale obbligo, la Corte ha accertato il suo inadempimento con sentenza 2 febbraio 1989, Commissione/Italia (causa 22/87, Racc. pag. 143).

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5. Il sig. Francovich, parte nella causa principale nel procedimento C-6/90, aveva lavorato per l' impresa "CDN Elettronica Snc" a Vicenza e aveva ricevuto a tale titolo solo acconti sporadici sulla propria retribuzione.

(omissis)

7. In questo contesto i giudici nazionali hanno sottoposto alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali, identiche nelle due cause:

"1) In forza del sistema di diritto comunitario vigente, può il privato che sia stato leso dalla mancata attuazione da parte dello Stato della direttiva 80/987 - mancata attuazione accertata con sentenza di condanna della Corte di giustizia - pretendere l' adempimento da parte dello Stato stesso delle disposizioni in essa contenute che siano sufficientemente precise e incondizionate invocando direttamente, nei confronti dello Stato membro inadempiente, la normativa comunitaria per ottenere le garanzie che lo Stato stesso doveva assicurare, e comunque rivendicare il risarcimento dei danni subiti relativamente alle disposizioni che non godono di tale prerogativa?

(omissis)

9. La prima questione sollevata dal giudice nazionale pone due problemi che occorre esaminare separatamente. Essa riguarda, in primo luogo, l' efficacia diretta delle norme della direttiva che definiscono i diritti dei lavoratori e, in secondo luogo, l' esistenza e la portata della responsabilità dello Stato per i danni derivanti dalla violazione degli obblighi ad esso incombenti in forza del diritto comunitario.

Sull' efficacia diretta delle disposizioni della direttiva che definiscono i diritti dei lavoratori 10. La prima parte della prima questione formulata dal giudice nazionale è diretta a stabilire se le disposizioni della direttiva che definiscono i diritti dei lavoratori debbano essere interpretate nel senso che gli interessati possono far valere tali diritti nei confronti dello Stato dinanzi ai giudici nazionali in mancanza di provvedimenti di attuazione adottati entro i termini. 11. Secondo una giurisprudenza costante, lo Stato membro che non ha adottato entro i termini i provvedimenti di attuazione imposti da una direttiva non può opporre ai singoli l' inadempimento, da parte sua, degli obblighi derivanti dalla direttiva stessa. Perciò, in tutti i casi in cui le disposizioni di una direttiva appaiano, dal punto di vista sostanziale, incondizionate e sufficientemente precise, tali disposizioni possono essere richiamate, in mancanza di provvedimenti d' attuazione adottati entro i termini, per opporsi a qualsiasi disposizione di diritto interno non conforme alla direttiva, ovvero in quanto siano atte a definire diritti che i singoli possono fare valere nei confronti dello Stato (sentenza 19 gennaio 1982, Becker, punti 24 e 25 della motivazione, causa 8/81, Racc. pag. 53). 12. Occorre quindi chiedersi se le disposizioni della direttiva 80/987 che definiscono i diritti dei lavoratori siano incondizionate e sufficientemente precise. Tale esame deve riguardare tre aspetti, e cioè la determinazione dei beneficiari della garanzia stabilita da detta disposizione, il contenuto di tale garanzia e, infine, l' identità del soggetto tenuto alla garanzia. Al riguardo si pone in particolare la questione se lo Stato possa essere considerato tenuto alla garanzia per non aver adottato, entro il termine prescritto, i necessari provvedimenti di attuazione. 13. (omissis) . Sulla responsabilità dello Stato per danni derivanti dalla violazione degli obblighi ad esso incombenti in forza del diritto comunitario 28. Con la seconda parte della prima questione il giudice nazionale mira a stabilire se uno Stato membro sia tenuto a risarcire i danni derivanti ai singoli dalla mancata attuazione della direttiva 80/987.

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29. Il giudice nazionale pone così il problema dell' esistenza e della portata di una responsabilità dello Stato per danni derivanti dalla violazione degli obblighi che ad esso incombono in forza del diritto comunitario. 30. Questo problema dev' essere esaminato alla luce del sistema generale del Trattato e dei suoi principi fondamentali. a) Sul principio della responsabilità dello Stato 31. Va innanzitutto ricordato che il Trattato CEE ha istituito un ordinamento giuridico proprio, integrato negli ordinamenti giuridici degli Stati membri e che si impone ai loro giudici, i cui soggetti sono non soltanto gli Stati membri, ma anche i loro cittadini e che, nello stesso modo in cui impone ai singoli degli obblighi, il diritto comunitario è altresì volto a creare diritti che entrano a far parte del loro patrimonio giuridico; questi diritti sorgono non solo nei casi in cui il Trattato espressamente li menziona, ma anche in relazione agli obblighi che il Trattato impone ai singoli, agli Stati membri e alle istituzioni comunitarie (v. sentenze 5 febbraio 1963, Van Gend & Loos, causa 26/62, Racc. pag. 3, e 15 luglio 1964, Costa, causa 6/64, pag. 1127). 32. Va altresì ricordato che, come risulta da una giurisprudenza costante, è compito dei giudici nazionali incaricati di applicare, nell' ambito delle loro competenze, le norme del diritto comunitario, garantire la piena efficacia di tali norme e tutelare i diritti da esse attribuiti ai singoli (v. in particolare sentenza 9 marzo 1978, Simmenthal, punto 16 della motivazione, causa 106/77, Racc. pag. 629, e sentenza 19 giugno 1990, Factortame, punto 19 della motivazione, cuasa C-213/89, Racc. pag. I-2433). 33. Va constatato che sarebbe messa a repentaglio la piena efficacia delle norme comunitarie e sarebbe infirmata la tutela dei diritti da esse riconosciuti se i singoli non avessero la possibilità di ottenere un risarcimento ove i loro diritti siano lesi da una violazione del diritto comunitario imputabile ad uno Stato membro. 34. La possibilità di risarcimento a carico dello Stato membro è particolarmente indispensabile qualora, come nella fattispecie, la piena efficacia delle norme comunitarie sia subordinata alla condizione di un' azione da parte dello Stato e, di conseguenza, i singoli, in mancanza di tale azione, non possano far valere dinanzi ai giudici nazionali i diritti loro riconosciuti dal diritto comunitario. 35. Ne consegue che il principio della responsabilità dello Stato per danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunitario ad esso imputabili è inerente al sistema del Trattato. 36. L' obbligo degli Stati membri di risarcire tali danni trova il suo fondamento anche nell' art. 5 del Trattato, in forza del quale gli Stati membri sono tenuti ad adottare tutte le misure di carattere generale o particolare atte ad assicurare l' esecuzione degli obblighi ad essi derivanti dal diritto comunitario. Orbene, tra questi obblighi si trova quello di eliminare le conseguenze illecite di una violazione del diritto comunitario (v., per quanto riguarda l' analogo disposto dell' art. 86 del Trattato CECA, la sentenza 16 dicembre 1960, Humblet, causa 6/60, Racc. pag. 1093). 37. Da tutto quanto precede risulta che il diritto comunitario impone il principio secondo cui gli Stati membri sono tenuti a risarcire i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto comunitario ad essi imputabili. b) Sulle condizioni della responsabilità dello Stato 38. Se la responsabilità dello Stato è così imposta dal diritto comunitario, le condizioni in cui essa fa sorgere un diritto a risarcimento dipendono dalla natura della violazione del diritto comunitario che è all' origine del danno provocato. 39. Qualora, come nel caso di specie, uno Stato membro violi l' obbligo, ad esso incombente in forza dell' art. 189, terzo comma, del Trattato, di prendere tutti i provvedimenti necessari a conseguire il risultato prescritto da una direttiva, la piena efficacia di questa norma di diritto comunitario esige che sia riconosciuto un diritto a risarcimento ove ricorrano tre condizioni. 40. La prima di queste condizioni è che il risultato prescritto dalla direttiva implichi l' attribuzione di diritti a favore dei singoli. La seconda condizione è che il contenuto di tali diritti possa essere

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individuato sulla base delle disposizioni della direttiva. Infine, la terza condizione è l' esistenza di un nesso di causalità tra la violazione dell' obbligo a carico dello Stato e il danno subito dai soggetti lesi. 41. Tali condizioni sono sufficienti per far sorgere a vantaggio dei singoli un diritto ad ottenere un risarcimento, che trova direttamente il suo fondamento nel diritto comunitario. 42. Con questa riserva, è nell' ambito delle norme del diritto nazionale relative alla responsabilità che lo Stato è tenuto a riparare le conseguenze del danno provocato. Infatti, in mancanza di una disciplina comunitaria, spetta all' ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro designare il giudice competente e stabilire le modalità procedurali dei ricorsi giurisdizionali intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto comunitario (v. le seguenti sentenze: 22 gennaio 1976, Russo, causa 60/75, Racc. pag. 45; 16 dicembre 1976, Rewe, causa 33/76, Racc. pag. 1989; 7 luglio 1981, Rewe, causa 158/80, Racc. pag. 1805). 43. Occorre rilevare inoltre che le condizioni, formali e sostanziali, stabilite dalle diverse legislazioni nazionali in materia di risarcimento dei danni non possono essere meno favorevoli di quelle che riguardano reclami analoghi di natura interna e non possono essere congegnate in modo da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile ottenere il risarcimento (v. per quanto concerne la materia analoga del rimborso di imposte riscosse in violazione del diritto comunitario, in particolare la sentenza 9 novembre 1983, San Giorgio, causa 199/82, Racc. pag. 3595). 44. Nella fattispecie, la violazione del diritto comunitario da parte di uno Stato membro a seguito della mancata attuazione entro i termini della direttiva 80/987 è stata accertata con una sentenza della Corte. Il risultato prescritto da tale direttiva comporta l' attribuzione ai lavoratori subordinati del diritto ad una garanzia per il pagamento di loro crediti non pagati relativi alla retribuzione. Come risulta dall' esame della prima parte della prima questione, il contenuto di tale diritto può essere individuato sulla base delle disposizioni della direttiva. 45. Stando così le cose, spetta al giudice nazionale garantire, nell' ambito delle norme di diritto interno relative alla responsabilità, il diritto dei lavoratori ad ottenere il risarcimento dei danni che siano stati loro provocati a seguito della mancata attuazione della direttiva. 46. La questione sollevata dal giudice nazionale va pertanto risolta nel senso che uno Stato membro è tenuto a risarcire i danni derivanti ai singoli dalla mancata attuazione della direttiva 80/987. Sulla seconda e sulla terza questione 47. Alla luce della soluzione data alla prima questione pregiudiziale non occorre pronunciarsi sulla seconda e sulla terza questione. Decisione relativa alle spese (omissis)

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1.4 Corte di Giustizia, 27 febbraio 2003, C- 327/2000 : disapplicabilità dei bandi anticomunitari

TESTO DELLA SENTENZA (omissis) CONTESTO NORMATIVO Normativa comunitaria L'art. 1, n. 1, della direttiva del Consiglio 21 dicembre 1989, 89/665/CEE, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all'applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori (GU L 395, pag. 33), come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 giugno 1992, 92/50/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi (GU L 209, pag. 1; in prosieguo: la «direttiva 89/665»), dispone quanto segue: "Gli Stati membri prendono i provvedimenti necessari per garantire che, per quanto riguarda le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici disciplinati dalle direttive 71/305/CEE, 77/62/CEE e 92/50/CEE (...), le decisioni prese dalle autorità aggiudicatrici possano essere oggetto di ricorsi efficaci e, in particolare, quanto più rapidi possibile, secondo le condizioni previste negli articoli seguenti, in particolare nell'articolo 2, paragrafo 7, qualora violino il diritto comunitario in materia di appalti pubblici o le norme nazionali che lo recepiscono". Ai sensi dell'art. 2, n. 1, lett. b), della direttiva 89/665: " Gli Stati membri fanno sì che i provvedimenti presi ai fini dei ricorsi di cui all'articolo 1 prevedano i poteri che permettano di: (...) annullare o far annullare le decisioni illegittime, compresa la soppressione delle specificazioni tecniche, economiche o finanziarie discriminatorie figuranti nei documenti di gara, nei capitolati d'oneri o in ogni altro documento connesso con la procedura di aggiudicazione dell'appalto in questione". La direttiva 93/36 ha abrogato la direttiva del Consiglio 21 dicembre 1976, 77/62/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture (GU 1977, L 13, pag. 1). I riferimenti fatti dall'art. 1, n. 1, della direttiva 89/665, in particolare alla direttiva così abrogata, vanno considerati come fatti alla direttiva 93/36, a norma dell'art. 33, secondo comma, di quest'ultima. L'art. 22 della direttiva 93/36 stabilisce: " In linea di massima, la prova della capacità finanziaria ed economica del fornitore può essere fornita mediante una o più delle seguenti referenze: (...)una dichiarazione del fatturato globale dell'impresa e del fatturato per le forniture cui si riferisce l'appalto relativo agli ultimi tre esercizi finanziari. Le amministrazioni precisano, nel bando di gara o nell'invito a presentare offerte, la referenza o le referenze di cui al paragrafo 1 da esse scelte, nonché le eventuali altre referenze da presentare. Qualora, per giustificati motivi, non sia in grado di presentare le referenze richieste dall'amministrazione, il fornitore è ammesso a provare la propria capacità economica e finanziaria mediante qualsiasi altro documento che l'amministrazione stessa ritenga appropriato".

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Normativa nazionale L'art. 22 della direttiva 93/36 è stato recepito nell'ordinamento italiano mediante l'art. 13 del decreto legislativo 24 luglio 1992, n. 358, intitolato «Testo unico delle disposizioni in materia di appalti pubblici di forniture, in attuazione delle direttive 77/62/CEE, 80/767/CEE e 88/295/CEE» (GURI n. 188 dell'11 agosto 1992, Supplemento ordinario n. 104, pag. 5; in prosieguo: il «decreto legislativo n. 358/1992»). Tale articolo prevede quanto segue: " La dimostrazione della capacità finanziaria ed economica delle imprese concorrenti può essere fornita mediante uno o più dei seguenti documenti: (...) dichiarazione concernente il fatturato globale d'impresa e l'importo relativo alle forniture identiche a quella oggetto della gara, realizzate negli ultimi tre esercizi. Le amministrazioni precisano nel bando di gara quali dei documenti indicati al comma 1 devono essere presentati, nonché gli altri eventuali che ritengono di richiedere. (...) Se il fornitore non è in grado, per giustificati motivi, di presentare le referenze richieste, può provare la propria capacità economica e finanziaria mediante qualsiasi altro documento considerato idoneo dall'amministrazione". L'art. 36, primo comma, del regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054, contenente il testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato (GURI n. 158 del 7 luglio 1924; in prosieguo: il «regio decreto n. 1054/1924»), l'applicazione del quale è stata estesa ai tribunali amministrativi per effetto dell'art. 19 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, relativa all'«Istituzione dei tribunali amministrativi regionali» (GURI n. 314 del 13 dicembre 1971, pag. 7891), così recita: "Fuori dei casi nei quali i termini siano fissati dalle leggi speciali, relative alla materia del ricorso, il termine per ricorrere al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale è di giorni 60 dalla data in cui la decisione amministrativa sia stata notificata nelle forme e nei modi stabiliti dal regolamento, o dalla data in cui risulti che l'interessato ne ha avuta piena cognizione (...)". L'art. 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, «Legge sul contenzioso amministrativo» (in prosieguo: la «legge n. 2248/1865»), è formulato nei seguenti termini: "In questo, come in ogni altro caso, le autorità giudiziarie applicheranno gli atti amministrativi ed i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi". CONTROVERSIA PRINCIPALE E QUESTIONI PREGIUDIZIALI (omissis) SULLA PRIMA QUESTIONE Osservazioni presentate alla Corte Il governo italiano rileva che è il principio della certezza del diritto quello che giustifica l'inoppugnabilità di un bando di gara una volta che sono decorsi oltre 60 giorni dalla sua pubblicazione. In caso contrario, verrebbe arrecato pregiudizio alle legittime aspettative dei concorrenti convinti della regolarità della gara di appalto. Richiamando la giurisprudenza della Corte secondo cui, in mancanza di una disciplina comunitaria, spetterebbe all'ordinamento giuridico di ciascuno Stato membro stabilire le modalità procedurali dei ricorsi giurisdizionali intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza delle norme di

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diritto comunitario aventi effetto diretto, il governo italiano afferma che la normativa nazionale in questione nella causa principale soddisfa le condizioni stabilite dalla suddetta giurisprudenza. Esso nota, in particolare, che l'ordinamento italiano non effettua alcuna discriminazione, poiché qualsiasi violazione di una norma - sia nazionale che comunitaria - ad opera di un atto amministrativo può comportare l'annullamento di tale atto, e che nessun ostacolo impedisce l'effettiva applicazione del diritto comunitario. Il governo italiano sostiene altresì che ove si consentisse al giudice nazionale, nel caso in cui l'atto illegittimo sia impugnato per violazione del diritto comunitario, di disapplicare le norme processuali nazionali, ciò porterebbe ad un'ingiustificata differenziazione della tutela dei diritti dei singoli a seconda che tali diritti derivino dal diritto comunitario o dal diritto interno. Il governo francese ritiene che un giudice nazionale non sia obbligato a verificare d'ufficio la compatibilità di un atto di diritto interno con una norma comunitaria, nel caso in cui l'atto suddetto non sia stato impugnato entro il termine previsto dalle norme di procedura nazionali. Le norme di decadenza di cui trattasi nella causa principale costituirebbero norme di ordine pubblico, che debbono essere osservate dalle parti e dal giudice nazionale. In particolare, il termine di decadenza di 60 giorni sarebbe diretto ad applicare il principio della certezza del diritto circoscrivendo e limitando nel tempo la facoltà di impugnare le clausole di un bando di gara. Tale termine non renderebbe praticamente impossibile od eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico comunitario. Secondo il governo francese, solo nell'ipotesi in cui l'autorità aggiudicatrice avesse contribuito, con il suo comportamento, all'inosservanza del termine di decadenza sarebbe configurabile che all'interessato fosse riconosciuta, oltre alla possibilità di ottenere un indennizzo per il pregiudizio subito, la facoltà di proporre un ricorso dopo la scadenza del detto termine. Tuttavia il detto governo rileva che, nella fattispecie della causa principale, la Santex non poteva ignorare la necessità di introdurre nei termini, a titolo precauzionale, un ricorso avverso il bando di gara d'appalto controverso nella causa principale, pur continuando le sue discussioni con l'autorità aggiudicatrice. Il governo austriaco ritiene che con la prima questione pregiudiziale il giudice a quo intenda stabilire se le norme comunitarie in materia di appalti pubblici ostino all'applicazione di norme di diritto nazionale a carattere preclusivo. Esso ne deduce che occorre far riferimento alla direttiva 89/665. Dato che tale direttiva non conterrebbe alcuna norma che subordini la presentazione di ricorsi relativi a procedure di aggiudicazione di appalti pubblici a termini di decadenza, gli Stati membri potrebbero disciplinare tale materia alla duplice condizione che gli obiettivi della detta direttiva non siano elusi e che siano rispettati i principi di effettività e di parità di trattamento sanciti dal Trattato CE. Il governo austriaco aggiunge che le norme nazionali di cui trattasi nella causa principale hanno per effetto non solo di accelerare il procedimento di gara, ma anche quello di ridurre il rischio di abuso di ricorsi, favorendo la tutela dei diritti degli offerenti nel loro complesso. Tali norme non arrecherebbero alcun pregiudizio ai principi di effettività e di parità. Pertanto, la direttiva 89/665 non osterebbe alla loro applicazione. Riguardando la controversia della causa principale un appalto pubblico, anche secondo la Commissione occorre esaminare la prima questione alla luce della direttiva 89/665.

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A tale proposito, essa rileva che la suddetta direttiva prevede l'obbligo per gli Stati membri di provvedere affinché le decisioni delle amministrazioni aggiudicatrici possano formare oggetto di ricorsi efficaci e rapidi che permettano di annullarle qualora illegittime, indipendentemente dal fatto che una decisione precedente sia stata o meno impugnata nei termini previsti. Orbene, i provvedimenti di esclusione e di aggiudicazione costituirebbero decisioni dell'autorità aggiudicatrice nel senso fatto proprio dalla direttiva. Giudizio della Corte A titolo preliminare occorre rammentare che, come rilevato ai punti 22 e 23 della presente sentenza, il giudice a quo ritiene accertato che la clausola controversa sia incompatibile sia con l'art. 22 della direttiva 93/36 che con l'art. 13 del decreto legislativo n. 358/1992. Tuttavia, come precisato nell'ordinanza di rinvio, il suddetto giudice non può dichiarare ricevibile il ricorso della causa principale se applica le norme processuali nazionali in forza delle quali, una volta decorso il termine previsto per l'impugnazione di un bando di gara, sono irricevibili anche tutti i motivi di diritto che sono stati dedotti in ordine all'asserita illegittimità di tale bando al fine di contestare un altro provvedimento dell'autorità aggiudicatrice. Inoltre, risulta dall'ordinanza di rinvio che il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia considera che il comportamento dell'autorità aggiudicatrice nella causa principale ha reso impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico comunitario all'offerente leso dalla clausola controversa. Risulta dunque che il giudice a quo chiede che gli sia chiarito se, alla luce di quanto esposto, sia tenuto in forza del diritto comunitario, a disapplicare le norme nazionali di decadenza, al fine di dichiarare ricevibile il motivo relativo a una violazione del diritto comunitario da parte della clausola controversa, addotto a sostegno dell'impugnazione di decisioni successivamente adottate dall'autorità aggiudicatrice sulla scorta di tale clausola. Orbene, occorre rilevare al riguardo che la direttiva 93/36 non disciplina le forme di controllo giurisdizionale delle decisioni adottate nell'ambito delle procedure di aggiudicazione di appalti pubblici, ma che si tratta di materia disciplinata unicamente dalla direttiva 89/665. Quest'ultima stabilisce i requisiti minimi che le procedure d'impugnazione previste dagli ordinamenti giuridici nazionali devono rispettare per garantire l'osservanza delle disposizioni comunitarie in materia di appalti pubblici. Alla luce delle considerazioni che precedono, la prima questione va intesa come diretta a stabilire, in sostanza, se la direttiva 89/665 debba essere interpretata nel senso che essa - una volta accertato che un'autorità aggiudicatrice con il suo comportamento ha reso impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico comunitario a un cittadino dell'Unione leso da una decisione di tale autorità - impone ai giudici nazionali competenti l'obbligo di dichiarare ricevibili i motivi di diritto basati sull'incompatibilità del bando di gara con il diritto comunitario, dedotti a sostegno di un'impugnazione proposta contro la detta decisione, ricorrendo, se del caso, alla possibilità prevista dal diritto nazionale di disapplicare le norme nazionali di decadenza in forza delle quali, decorso il termine per impugnare il bando di gara, non è più possibile invocare una tale incompatibilità. Per rispondere alla questione così riformulata, occorre rammentare che la Corte ha già avuto occasione di pronunciarsi in via generale sulla compatibilità con la direttiva 89/665 di norme nazionali che prevedono termini di decadenza per le impugnazioni avverso decisioni delle autorità aggiudicatrici di cui alla detta direttiva.

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Infatti, al punto 79 della sentenza 12 dicembre 2002, causa C-470/99, Universale-Bau e a. (non ancora pubblicata nella Raccolta), la Corte ha statuito che la direttiva 89/665 non osta ad una normativa nazionale la quale preveda che qualsiasi ricorso avverso una decisione dell'amministrazione aggiudicatrice vada proposto nel termine all'uopo previsto e che qualsiasi irregolarità del procedimento di aggiudicazione invocata a sostegno di tale ricorso debba essere sollevata nel medesimo termine, a pena di decadenza, di modo che, scaduto tale termine, non è più possibile impugnare tale decisione o eccepire la suddetta irregolarità, a condizione che il termine in parola sia ragionevole. In particolare, la Corte ha constatato che, sebbene spetti all'ordinamento nazionale di ogni Stato membro definire le modalità relative al termine di ricorso destinate ad assicurare la salvaguardia dei diritti conferiti dal diritto comunitario ai candidati e agli offerenti lesi da decisioni delle amministrazioni aggiudicatrici, tali modalità non devono mettere in pericolo l'effetto utile della direttiva 89/665, la quale è intesa a garantire che le decisioni illegittime di tali amministrazioni aggiudicatrici possano essere oggetto di un ricorso efficace e quanto più rapido possibile (sentenza Universale-Bau e a., cit., punti 71, 72 e 74). È in tale contesto che la Corte ha rilevato che la fissazione di termini di ricorso ragionevoli a pena di decadenza risponde, in linea di principio, all'esigenza di effettività derivante dalla direttiva 89/665, in quanto costituisce l'applicazione del principio della certezza del diritto (sentenza Universale-Bau e a., cit., punto 76). Si deve pertanto verificare se il termine di decadenza di cui trattasi nella causa principale risponda alle esigenze della direttiva 89/665, come elaborate dalla giurisprudenza ricordata ai punti 50-52 della presente sentenza. A tale proposito occorre rilevare, da un lato, che il termine di decadenza di 60 giorni applicabile in materia di appalti pubblici in forza dell'art. 36, n. 1, del regio decreto n. 1054/1924, come interpretato dal Consiglio di Stato, risulta ragionevole sotto il profilo sia dell'obiettivo della direttiva 89/665 sia del principio della certezza del diritto. Dall'altro, occorre constatare che un tale termine, che decorre dalla data di notifica dell'atto o dalla data in cui risulta che l'interessato ne ha avuto piena conoscenza, è conforme anche al principio d'effettività, in quanto non è idoneo, di per sé, a rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti eventualmente riconosciuti all'interessato dal diritto comunitario. Tuttavia, ai fini dell'applicazione del principio d'effettività, ciascun caso in cui si pone la questione se una norma processuale nazionale renda impossibile o eccessivamente difficile l'applicazione del diritto comunitario dev'essere esaminato tenendo conto, in particolare, del ruolo di detta norma nell'insieme del procedimento, nonché dello svolgimento e delle peculiarità di quest'ultimo (v. sentenza 14 dicembre 1995, causa C-312/93, Peterbroeck, Racc. pag. I-4599, punto 14). Pertanto, se un termine di decadenza come quello della causa principale non è, di per sé, contrario al principio di effettività, non si può escludere che, nelle particolari circostanze della causa sottoposta al giudice a quo, l'applicazione di tale termine possa comportare una violazione del detto principio. In tale prospettiva, occorre prendere in considerazione il fatto che, nel caso di specie, sebbene la clausola controversa sia stata portata a conoscenza degli interessati all'atto della pubblicazione del bando di gara, l'autorità aggiudicatrice, con il suo comportamento, ha creato uno stato

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d'incertezza in ordine all'interpretazione da dare a tale clausola e che questa incertezza è stata dissipata solo con l'adozione della decisione di esclusione. Infatti, come risulta dalle informazioni fornite dal giudice a quo, l'USL all'inizio ha lasciato intendere che avrebbe tenuto conto delle riserve espresse dalla Santex e che non avrebbe applicato nella fase dell'ammissione delle offerte il requisito economico di cui alla clausola controversa. Soltanto con la decisione di esclusione, che ha estromesso dalla procedura di gara tutti gli offerenti che non rispondevano al detto requisito, l'autorità aggiudicatrice ha espresso la sua posizione definitiva sull'interpretazione della clausola controversa. Si deve pertanto riconoscere che, nella fattispecie principale, l'offerente leso ha potuto conoscere l'effettiva interpretazione della detta clausola del bando di gara da parte dell'autorità aggiudicatrice soltanto quando è stato informato della decisione di esclusione. Orbene, tenuto conto del fatto che, a quel punto, il termine previsto per l'impugnazione del detto bando era già scaduto, tale offerente è stato privato, per effetto delle norme di decadenza, di qualsiasi possibilità di far valere in giudizio, nei confronti di successive decisioni arrecantigli pregiudizio, l'incompatibilità di tale interpretazione con il diritto comunitario. Nella fattispecie principale, si può affermare che il comportamento mutevole dell'autorità aggiudicatrice, vista l'esistenza di un termine di decadenza, ha reso eccessivamente difficile per l'offerente leso l'esercizio dei diritti conferitigli dall'ordinamento giuridico comunitario. Poiché solamente il giudice a quo è competente a interpretare e applicare la normativa nazionale, spetta ad esso, in circostanze quali quelle della causa principale, interpretare, per quanto possibile, le norme che prevedono tale termine di decadenza in modo da garantire il rispetto del principio di effettività derivante dalla direttiva 89/665. Come risulta dalla giurisprudenza della Corte, infatti, spetta al giudice nazionale conferire alla legge nazionale che è chiamato ad applicare un'interpretazione per quanto possibile conforme ai precetti del diritto comunitario (v., in particolare, sentenze 5 ottobre 1994, causa C-165/91, Van Munster, Racc. pag. I-4661, punto 34, e 26 settembre 2000, causa C-262/97, Engelbrecht, Racc. pag. I-7321, punto 39). Se una tale applicazione conforme non è possibile, il giudice nazionale ha l'obbligo di applicare integralmente il diritto comunitario e di tutelare i diritti che questo attribuisce ai singoli, eventualmente disapplicando ogni disposizione nazionale la cui applicazione, date le circostanze della fattispecie, condurrebbe a un risultato contrario al diritto comunitario (v., in particolare, sentenze 5 marzo 1998, causa C-347/96, Solred, Racc. pag. I-937, punto 30, e Engelbrecht, cit., punto 40). Ne consegue che, in circostanze quali quelle della causa principale, spetta al giudice a quo assicurare il rispetto del principio di effettività derivante dalla direttiva 89/665, applicando il proprio diritto nazionale in modo tale da consentire all'offerente leso da una decisione dell'autorità aggiudicatrice, adottata in violazione del diritto comunitario, di conservare la possibilità di addurre motivi di diritto inerenti a tale violazione a sostegno di impugnazioni avverso altre decisioni dell'autorità aggiudicatrice, ricorrendo, se del caso, alla possibilità, derivante secondo il suddetto giudice dall'art. 5 della legge n. 2248/1865, di disapplicare le norme nazionali di decadenza che disciplinano tali impugnazioni. Sulla scorta delle considerazioni che precedono, occorre risolvere la prima questione pregiudiziale dichiarando che la direttiva 89/665 deve essere interpretata nel senso che essa - una volta accertato che un'autorità aggiudicatrice con il suo comportamento ha reso impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico comunitario a un cittadino dell'Unione

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leso da una decisione di tale autorità - impone ai giudici nazionali competenti l'obbligo di dichiarare ricevibili i motivi di diritto basati sull'incompatibilità del bando di gara con il diritto comunitario, dedotti a sostegno di un'impugnazione proposta contro la detta decisione, ricorrendo, se del caso, alla possibilità prevista dal diritto nazionale di disapplicare le norme nazionali di decadenza in forza delle quali, decorso il termine per impugnare il bando di gara, non è più possibile invocare una tale incompatibilità. (omissis)

1.5 Corte Costituzionale, ordinanza n. 103 del 2008 : rinvio alla Corte di giustizia

europea ai sensi dell’art. 234 TCE

TESTO (OMISSIS)

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 4 della legge della Regione Sardegna 11 maggio

2006, n. 4 (Disposizioni varie in materia di entrate, riqualificazione della spesa, politiche sociali e di sviluppo), nel testo sostituito dall'art. 3, comma 3, della legge della Regione Sardegna 29 maggio 2007, n. 2 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione – Legge finanziaria 2007), promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 2 agosto 2007, depositato in cancelleria il 7 agosto successivo ed iscritto al n. 36 del registro ricorsi 2007.

Visto l'atto di costituzione della Regione Sardegna; udito nell'udienza pubblica del 12 febbraio 2008 il giudice relatore Franco Gallo; uditi l'avvocato dello Stato Glauco Nori per il Presidente del Consiglio dei ministri e gli avvocati

Graziano Campus e Paolo Carrozza per la Regione Sardegna. Ritenuto che, con i ricorsi n. 91 del 2006 e n. 36 del 2007, il Presidente del Consiglio dei ministri ha

promosso, nei confronti della Regione Sardegna, questioni di legittimità costituzionale: a) degli artt. 2, 3 e 4 della legge della Regione Sardegna 11 maggio 2006, n. 4 (Disposizioni varie in materia di entrate, riqualificazione della spesa, politiche sociali e di sviluppo), sia nel testo originario sia nel testo sostituito, rispettivamente, dai commi 1, 2 e 3 dell'art. 3 della legge reg. 29 maggio 2007, n. 2 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione – Legge finanziaria 2007); b) dell'art. 5 della citata legge reg. n. 2 del 2007;

che ciascuno degli articoli denunciati stabilisce e disciplina un particolare tributo regionale; che i giudizi promossi con i suddetti ricorsi sono stati riuniti per essere congiuntamente trattati e

decisi; che, per quanto qui rileva, con il ricorso n. 36 del 2007 è stato censurato l'art. 4 della legge reg. n. 4

del 2006, nel testo sostituito dall'art. 3, comma 3, della legge reg. n. 2 del 2007, istitutivo dell'imposta regionale sullo scalo turistico degli aeromobili e delle unità da diporto;

che tale censura, relativa alle imprese, è stata sollevata con riferimento a diversi parametri costituzionali e, in particolare, all'art. 117, primo comma, della Costituzione, per violazione delle norme del Trattato CE relative alla tutela della libera prestazione dei servizi (art. 49), alla tutela della concorrenza (art. 81 «coordinato con gli art. 3, lett. g) e 10»), e al divieto di aiuti di Stato (art. 87);

che il ricorrente richiede, in proposito, che sia effettuato il rinvio pregiudiziale di cui all'art. 234 del Trattato CE;

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che, con sentenza n. 102 del 2008, depositata in data odierna nei due giudizi riuniti, questa Corte ha deciso le questioni di legittimità costituzionale promosse con il ricorso n. 91 del 2006 e parte di quelle promosse con il ricorso n. 36 del 2007;

che, in particolare, quanto all'imposta regionale sullo scalo turistico degli aeromobili e delle unità da diporto denunciata con quest'ultimo ricorso, con la indicata sentenza sono state dichiarate inammissibili o non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento a parametri costituzionali diversi dal primo comma dell'art. 117 Cost.;

che, con la stessa sentenza, è stata altresí disposta la separazione del giudizio concernente la questione di legittimità costituzionale della suddetta imposta regionale sullo scalo turistico promossa con riferimento al primo comma dell'art. 117 Cost. e relativa all'assoggettamento a tassazione delle imprese esercenti aeromobili o unità da diporto.

Considerato che, nell'àmbito del giudizio di legittimità costituzionale promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso n. 36 del 2007, quale separato con la menzionata sentenza di questa Corte depositata in data odierna, si pongono in via pregiudiziale dubbi di interpretazione della normativa comunitaria evocata dal ricorrente come elemento integrativo del parametro di cui al primo comma dell'art. 117 della Costituzione;

che, al riguardo, è opportuno tratteggiare preliminarmente il quadro normativo utile per una migliore comprensione dei suddetti problemi interpretativi;

che, quanto al quadro normativo interno: – 1) l'art. 11 Cost. cosí dispone: (omissis) – 2) l'art. 117, primo comma, Cost., evocato quale parametro di costituzionalità, cosí dispone: (omissis) – 3) l'art. 8 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale della Regione

Sardegna), nel testo modificato dal comma 834 dell'art. 1 della legge 27 dicembre 2006 n. 296, cosí dispone:

(omissis) – 4) il censurato art. 4 della legge reg. n. 4 del 2006, quale sostituito dall'art. 3, comma 3, della legge

reg. n. 2 del 2007, cosí dispone: (omissis) – 5) gli artt. 265, 266, da 272 a 274, da 743 a 746 da 874 a 876 del codice della navigazione, cosí

dispongono: (omissis) – 7) gli artt. 1, 2 e 3 del d.lgs. 18 luglio 2005, n. 171 (Codice della nautica da diporto ed attuazione

della direttiva 2003/44/CE, a norma dell'articolo 6 della legge 8 luglio 2003, n. 172), cosí dispongono: (omissis) che, quanto al quadro normativo comunitario, oltre alle norme del Trattato CE evocate dal ricorrente: – 1) l'art. 2 del Regolamento (CE) n. 2096/2005 della Commissione del 20 dicembre 2005, che

stabilisce requisiti comuni per la fornitura di servizi di navigazione aerea, cosí dispone: (omissis) – 2) il numero 11) dell'allegato al Regolamento (CE) n. 2320/2002 del Parlamento europeo e del

Consiglio del 16 dicembre 2002, che istituisce norme comuni per la sicurezza dell'aviazione civile, contiene la seguente definizione:

(omissis) – 3) l'art. 2, lettera l), del Regolamento (CEE) n. 95/93 del Consiglio del 18 gennaio 1993, relativo a

norme comuni per l'assegnazione di bande orarie negli aeroporti della Comunità, contiene la seguente definizione:

(omissis) che, quanto all'ammissibilità dell'evocazione, nei giudizi promossi in via principale davanti a questa

Corte sulla legittimità costituzionale di leggi regionali, di norme comunitarie quali elementi integrativi

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del parametro di costituzionalità di cui all'art. 117, primo comma, Cost., va rilevato che l'ammissibilità consegue alla particolare natura di tali giudizi;

che, al riguardo, va premesso che, ratificando i Trattati comunitari, l'Italia è entrata a far parte dell'ordinamento comunitario, e cioè di un ordinamento giuridico autonomo, integrato e coordinato con quello interno, ed ha contestualmente trasferito, in base all'art. 11 Cost., l'esercizio di poteri anche normativi (statali, regionali o delle Province autonome) nei settori definiti dai Trattati medesimi;

che le norme dell'ordinamento comunitario vincolano in vario modo il legislatore interno, con il solo limite dell'intangibilità dei princípi fondamentali dell'ordinamento costituzionale e dei diritti inviolabili dell'uomo garantiti dalla Costituzione (ex multis, sentenze nn. 349, 348 e 284 del 2007; n. 170 del 1984);

che, nei giudizi davanti ai giudici italiani, tale vincolo opera con diverse modalità, a seconda che il giudizio penda davanti al giudice comune ovvero davanti alla Corte costituzionale a séguito di ricorso proposto in via principale;

che, nel caso di giudizio pendente davanti al giudice comune, a quest'ultimo è precluso di applicare le leggi nazionali (comprese le leggi regionali), ove le ritenga non compatibili con norme comunitarie aventi efficacia diretta;

che detto giudice, al fine dell'interpretazione delle pertinenti norme comunitarie, necessaria per l'accertamento della conformità della norme interne con l'ordinamento comunitario, si avvale, all'occorrenza, del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia CE di cui all'art. 234 del Trattato CE;

che nel caso, come quello di specie, in cui il giudizio pende davanti alla Corte costituzionale a séguito di ricorso proposto in via principale dallo Stato e ha ad oggetto la legittimità costituzionale di una norma regionale per incompatibilità con le norme comunitarie, queste ultime «fungono da norme interposte atte ad integrare il parametro per la valutazione di conformità della normativa regionale all'art. 117, primo comma, Cost.» (sentenze n. 129 del 2006; n. 406 del 2005; n. 166 e n. 7 del 2004) o, più precisamente, rendono concretamente operativo il parametro costituito dall'art. 117, primo comma, Cost. (come chiarito, in generale, dalla sentenza n. 348 del 2007), con conseguente declaratoria di illegittimità costituzionale della norma regionale giudicata incompatibile con tali norme comunitarie;

che, in relazione alle leggi regionali, questi due diversi modi di operare delle norme comunitarie corrispondono alle diverse caratteristiche dei giudizi: davanti al giudice comune deve applicarsi la legge la cui conformità all'ordinamento comunitario deve essere da lui preliminarmente valutata; davanti alla Corte costituzionale adíta in via principale, invece, la valutazione di detta conformità si risolve, per il tramite dell'art. 117, primo comma, Cost., in un giudizio di legittimità costituzionale, con la conseguenza che, in caso di riscontrata difformità, la Corte non procede alla disapplicazione della legge, ma ne dichiara l'illegittimità costituzionale con efficacia erga omnes;

che, pertanto, l'assunzione della normativa comunitaria quale elemento integrante il parametro di costituzionalità costituisce la precondizione necessaria per instaurare, in via di azione, il giudizio di legittimità costituzionale della legge regionale che si assume essere in contrasto con l'ordinamento comunitario;

che, dunque, la censura in esame è ammissibile, perché le norme comunitarie sono state evocate nel presente giudizio di legittimità costituzionale quale elemento integrante il parametro di costituzionalità costituito dall'art. 117, primo comma, Cost.;

che, quanto ai limiti entro cui il diritto comunitario può essere preso in considerazione come elemento integrativo del parametro costituzionale evocato nel presente giudizio, va osservato che, in forza del combinato disposto degli artt. 23, 27 e 34 della legge 11 marzo 1953, n. 87 – secondo cui, nei giudizi in via principale, la Corte costituzionale dichiara quali sono le disposizioni legislative illegittime, nei limiti dei parametri costituzionali e dei motivi di censura indicati nel ricorso –, questa Corte può esaminare esclusivamente le violazioni denunciate dal ricorrente, riguardanti gli artt. 49, 81, «coordinato con gli art. 3, lett. g) e 10», e 87 del Trattato CE;

che, quanto all'applicabilità della norma censurata alle imprese, va premesso che l'art. 4 della legge reg. n. 4 del 2006, nel testo sostituito dall'art. 3, comma 3, della legge reg. n. 2 del 2007 (con effetto dal 31

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maggio 2007, ai sensi dell'art. 37 di quest'ultima legge), istituisce, a decorrere dall'anno 2006, l'«imposta regionale sullo scalo turistico degli aeromobili e delle unità da diporto», applicabile, nel periodo dal 1° giugno al 30 settembre, alle persone fisiche o giuridiche aventi domicilio fiscale fuori dal territorio regionale che assumono l'esercizio dell'aeromobile o dell'unità da diporto (con l'esenzione dall'imposta: a. delle imbarcazioni che vengono in Sardegna per partecipare a regate di carattere sportivo, a raduni di barche d'epoca, di barche monotipo ed a manifestazioni veliche, anche non agonistiche, il cui evento sia stato preventivamente comunicato all'Autorità marittima da parte degli organizzatori; b. per la sosta tecnica degli aeromobili e delle imbarcazioni, limitatamente al tempo necessario per l'effettuazione della stessa; c. per le unità da diporto che sostano tutto l'anno nelle strutture portuali regionali);

che, in forza dello stesso articolo, l'imposta è dovuta: 1) per ogni scalo negli aerodromi del territorio regionale degli aeromobili dell'aviazione generale adibiti al trasporto privato di persone, per classi determinate in relazione al numero dei passeggeri che tali aeromobili sono abilitati a trasportare; 2) annualmente, per lo scalo nei porti, negli approdi e nei punti di ormeggio ubicati nel territorio regionale e nei campi d'ormeggio attrezzati ubicati nel mare territoriale lungo le coste della Sardegna delle unità da diporto di cui al codice della nautica da diporto (decreto legislativo 18 luglio 2005, n. 171) e, comunque, delle unità utilizzate a scopo di diporto, per classi di lunghezza, a partire da 14 metri;

che, pertanto, la suddetta imposta regionale sullo scalo si applica anche alle imprese esercenti unità da diporto (o, comunque, utilizzate a scopo di diporto) non fiscalmente domiciliate in Sardegna e, in particolare, alle imprese la cui attività imprenditoriale consiste nel mettere dette unità a disposizione di terzi;

che l'imposta si applica, altresí, alle imprese esercenti «aeromobili dell'aviazione generale […] adibiti al trasporto privato di persone», cioè (come rilevato nella citata sentenza di questa Corte, depositata in data odierna) alle imprese che effettuano operazioni di trasporto aereo (diverse dal «lavoro aereo»), senza compenso, e, quindi, nell'àmbito della cosiddetta “aviazione generale di affari”, definita dal menzionato art. 2, lettera l), del Regolamento (CEE) n. 95/93, come attività di aviazione generale effettuata dall'esercente con trasporto senza remunerazione per motivi attinenti alla propria attività di impresa;

che, quanto alle prospettate questioni pregiudiziali di interpretazione del diritto comunitario, questa Corte ritiene opportuno sollevare questioni pregiudiziali davanti alla Corte di giustizia CE ai sensi dell'art. 234 del Trattato CE esclusivamente con riguardo alle violazioni degli artt. 49 e 87 del Trattato CE, riservando al prosieguo del giudizio ogni decisione sull'asserita violazione dell' art. 81 «coordinato con gli art. 3, lett. g) e 10»;

che, quanto alla non manifesta infondatezza delle suddette questioni pregiudiziali con riferimento all'applicazione dell'imposta regionale sullo scalo turistico alle imprese non aventi domicilio fiscale in Sardegna, la denunciata norma, nell'assoggettare a tassazione le imprese non aventi domicilio fiscale in Sardegna, sembra creare una discriminazione rispetto alle imprese che, pur svolgendo la stessa attività, non sono tenute al pagamento del tributo per il solo fatto di avere domicilio fiscale nella Regione;

che, infatti, per le imprese non aventi domicilio fiscale in Sardegna – con riguardo tanto all'ampio mercato dell'utilizzazione commerciale delle unità da diporto, quanto al più ristretto mercato delle imprese che effettuano direttamente trasporti aerei aziendali di persone senza remunerazione – può ipotizzarsi che l'applicazione della censurata imposta regionale dia luogo a un aggravio selettivo del costo dei servizi resi, che assume rilevanza per l'ordinamento comunitario sia come restrizione alla libera prestazione dei servizi (art. 49 del Trattato CE), sia come aiuto di Stato alle imprese con domicilio fiscale in Sardegna (art. 87 del Trattato CE), con effetti discriminatori e distorsivi della concorrenza;

che, tuttavia, potrebbe in contrario addursi – come fa la Regione resistente – che le norme comunitarie evocate dal ricorrente non ostano alla tassazione delle sole imprese non aventi domicilio fiscale in Sardegna, perché queste imprese, nell'effettuare lo scalo, fruiscono, al pari delle imprese con domicilio fiscale nella Regione, dei servizi pubblici regionali e locali, ma, a differenza di queste ultime, non concorrono al finanziamento di tali servizi con il pagamento dei già esistenti tributi;

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che, secondo la stessa Regione, questa giustificazione del prelievo regionale sarebbe rafforzata da quella fondata sulla necessità di compensare, attraverso la tassazione delle imprese fiscalmente non domiciliate in Sardegna, i maggiori costi sostenuti dalle imprese ivi domiciliate, in ragione delle peculiarità geografiche ed economiche legate al carattere insulare della Regione stessa;

che le due suddette giustificazioni traggono fondamento da circostanze attinenti alla sostenibilità dello sviluppo turistico regionale e dall'esigenza di riequilibrare la situazione economica dei soggetti “non residenti” rispetto a quella dei soggetti “residenti”;

che, secondo questa Corte, le medesime giustificazioni non tengono, tuttavia, conto né del fatto che l'insularità non appare, di per sé, un elemento idoneo a incrementare i costi sostenuti dalle imprese con riferimento allo scalo turistico, né soprattutto del fatto che la circostanza di far partecipare – attraverso l'applicazione dell'imposta oggetto di censura – l'imprenditore non avente domicilio fiscale in Sardegna ai costi aggiuntivi determinati dal turismo potrebbe non essere sufficiente a rendere inoperante, nella specie, il principio comunitario di non discriminazione e, conseguentemente, inapplicabili le connesse disposizioni del Trattato CE sulla libertà di prestazione di servizi e sul divieto di aiuti di Stato;

che tale principio è, infatti, di generale applicazione nell'ordinamento interno e fornisce una tutela delle imprese “non residenti” – sotto il profilo della concorrenza e delle libertà economiche fondamentali –, la cui delimitazione è rimessa non a regole di diritto interno, ma al diritto comunitario, quale interpretato dalla Corte di giustizia CE anche con riferimento ad “enti infrastatali” che, come la Regione resistente, sono dotati di autonomia statutaria, normativa e finanziaria (Corte di giustizia, sentenza 6 settembre 2006, C-88/03, Repubblica portoghese c. Commissione);

che la Corte di giustizia CE, in più occasioni, si è occupata di fattispecie analoghe alla denunciata imposta di scalo, affermando la sussistenza di una restrizione alla libera prestazione dei servizi nel caso in cui una determinata misura renda le prestazioni transfrontaliere più onerose delle prestazioni nazionali comparabili (sentenze 11 gennaio 2007, C-269/05, Commissione c. Repubblica ellenica; 6 febbraio 2003, C-92/01, Stylianakis; 26 giugno 2001, C-70/99, Commissione c. Portogallo);

che, tuttavia, i casi esaminati dalla Corte di giustizia non sono esattamente corrispondenti a quello oggetto del presente giudizio, perché attengono a tributi che discriminano tra voli nazionali e voli internazionali o tra voli aventi percorrenza superiore e inferiore ad una determinata distanza o, ancora, tra trasporti infranazionali ed internazionali, e, pertanto, non viene direttamente in rilievo, in tali pronunce, una possibile discriminazione – pur astrattamente rilevante per il diritto comunitario – tra imprese aventi o no domicilio fiscale in una regione di uno Stato membro;

che, per quanto attiene, poi, alla dedotta violazione dell'art. 87 del Trattato CE, si pone anche il problema se il vantaggio economico concorrenziale derivante alle suddette imprese “residenti” in Sardegna dal loro non assoggettamento all'imposta regionale sullo scalo rientri nella nozione di aiuto di Stato, considerato che detto vantaggio deriva non dalla concessione di una agevolazione fiscale, ma indirettamente dal minor costo da esse sopportato rispetto alle imprese “non residenti” (analogamente alla fattispecie, per alcuni versi simile, esaminata dalla Corte di giustizia CE con la sentenza del 22 novembre 2001, C-53/00, Ferring SA);

che il suddetto problema interpretativo prescinde, ovviamente, dalla valutazione della compatibilità della misura di aiuto con il mercato comune, spettante alla competenza esclusiva della Commissione CE, che agisce sotto il controllo dei giudici comunitari;

che sussiste, pertanto, un dubbio circa la corretta interpretazione – tra quelle possibili – delle evocate disposizioni comunitarie, tale da rendere necessario procedere al rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, ai sensi dell'art. 234 del Trattato CE, perché questa accerti: a) se l'art. 49 del Trattato debba essere interpretato nel senso che osti all'applicazione della norma censurata alle sole imprese che hanno domicilio fiscale fuori dal territorio della Regione Sardegna esercenti aeromobili da loro stesse utilizzati per il trasporto di persone nello svolgimento di attività di “aviazione generale d'affari” (cioè trasporto senza remunerazione per motivi attinenti alla propria attività d'impresa); b) se la norma censurata, nel prevedere che l'imposta regionale sullo scalo turistico degli aeromobili grava sulle sole imprese che

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hanno domicilio fiscale fuori dal territorio della Regione Sardegna esercenti aeromobili da esse stesse utilizzati per il trasporto di persone nello svolgimento di attività di aviazione generale d'affari, configuri – ai sensi dell'art. 87 del Trattato – un aiuto di Stato alle imprese che svolgono la stessa attività con domicilio fiscale nel territorio della Regione Sardegna; c) se l'art. 49 del Trattato debba essere interpretato nel senso che osti all'applicazione della norma censurata alle sole imprese che hanno domicilio fiscale fuori dal territorio della Regione Sardegna esercenti unità da diporto la cui attività imprenditoriale consiste nel mettere a disposizione di terzi tali unità; d) se la norma censurata, nel prevedere che l'imposta regionale sullo scalo turistico delle unità da diporto grava sulle sole imprese che hanno domicilio fiscale fuori dal territorio della Regione Sardegna esercenti unità da diporto la cui attività imprenditoriale consiste nel mettere a disposizione di terzi tali unità, configuri – ai sensi dell'art. 87 del Trattato – un aiuto di Stato alle imprese che svolgono la stessa attività con domicilio fiscale nel territorio della Regione Sardegna;

che, quanto alla rilevanza delle questioni interpretative pregiudiziali, essa sussiste, perché: a) l'interpretazione richiesta alla Corte di giustizia è necessaria per pronunciare la sentenza di questa Corte, essendo le indicate questioni interpretative ricomprese nell'oggetto del giudizio di legittimità costituzionale proposto in via principale; b) la fondatezza dei profili di illegittimità costituzionale dedotti dal ricorrente con riferimento a questioni diverse da quelle oggetto della presente ordinanza è stata già esclusa da questa Corte per le ragioni esposte nella sentenza n. 102 del 2008, depositata in data odierna, e, quindi, la legittimità costituzionale della norma censurata non può essere scrutinata, in riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., senza che si proceda alla valutazione della sua conformità al diritto comunitario;

che, quanto alla sussistenza delle condizioni perché questa Corte sollevi davanti alla Corte di giustizia CE questione pregiudiziale sull'interpretazione del diritto comunitario, va osservato che la Corte costituzionale, pur nella sua peculiare posizione di supremo organo di garanzia costituzionale nell'ordinamento interno, costituisce una giurisdizione nazionale ai sensi dell'art. 234, terzo paragrafo, del Trattato CE e, in particolare, una giurisdizione di unica istanza (in quanto contro le sue decisioni – per il disposto dell' art. 137, terzo comma, Cost. – non è ammessa alcuna impugnazione): essa, pertanto, nei giudizi di legittimità costituzionale promossi in via principale è legittimata a proporre questione pregiudiziale davanti alla Corte di giustizia CE;

che, in tali giudizi di legittimità costituzionale, a differenza di quelli promossi in via incidentale, questa Corte è l'unico giudice chiamato a pronunciarsi sulla controversia;

che conseguentemente, ove nei giudizi di legittimità costituzionale promossi in via principale non fosse possibile effettuare il rinvio pregiudiziale di cui all'art. 234 del Trattato CE, risulterebbe leso il generale interesse alla uniforme applicazione del diritto comunitario, quale interpretato dalla Corte di giustizia CE.

Vista la sentenza n. 102 del 2008 di questa Corte, depositata in data odierna, con la quale, nell'àmbito del giudizio introdotto con il suddetto ricorso n. 36 del 2007, è stata disposta la separazione del giudizio riguardante la questione concernente l'imposta regionale sullo scalo turistico degli aeromobili e delle unità da diporto – disciplinata dall'art. 4 della legge reg. n. 4 del 2006, nel testo sostituito dall'art. 3, comma 3, della legge reg. n. 2 del 2007 – e relativa all'assoggettamento a tassazione delle imprese esercenti aeromobili od unità da diporto.

Visti gli artt. 234 del Trattato CE e 3 della legge 13 marzo 1958, n. 204. PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE

dispone di sottoporre alla Corte di giustizia CE, in via pregiudiziale, le seguenti questioni di interpretazione degli artt. 49 e 87 del Trattato CE:

a) se l'art. 49 del Trattato debba essere interpretato nel senso che osti all'applicazione di una norma, quale quella prevista dall'art. 4 della legge della Regione Sardegna 11 maggio 2006, n. 4 (Disposizioni

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varie in materia di entrate, riqualificazione della spesa, politiche sociali e di sviluppo), nel testo sostituito dall'art. 3, comma 3, della legge della Regione Sardegna 29 maggio 2007, n. 2 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione – Legge finanziaria 2007), secondo la quale l'imposta regionale sullo scalo turistico degli aeromobili grava sulle sole imprese che hanno domicilio fiscale fuori dal territorio della Regione Sardegna esercenti aeromobili da esse stesse utilizzati per il trasporto di persone nello svolgimento di attività di aviazione generale d'affari;

b) se lo stesso art. 4 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, nel testo sostituito dall'art. 3, comma 3, della legge della Regione Sardegna n. 2 del 2007, nel prevedere che l'imposta regionale sullo scalo turistico degli aeromobili grava sulle sole imprese che hanno domicilio fiscale fuori dal territorio della Regione Sardegna esercenti aeromobili da esse stesse utilizzati per il trasporto di persone nello svolgimento di attività di aviazione generale d'affari, configuri – ai sensi dell'art. 87 del Trattato – un aiuto di Stato alle imprese che svolgono la stessa attività con domicilio fiscale nel territorio della Regione Sardegna;

c) se l'art. 49 del Trattato debba essere interpretato nel senso che osti all'applicazione di una norma, quale quella prevista dallo stesso art. 4 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, nel testo sostituito dall'art. 3, comma 3, della legge della Regione Sardegna n. 2 del 2007, secondo la quale l'imposta regionale sullo scalo turistico delle unità da diporto grava sulle sole imprese che hanno domicilio fiscale fuori dal territorio della Regione Sardegna esercenti unità da diporto la cui attività imprenditoriale consiste nel mettere a disposizione di terzi tali unità;

d) se lo stesso art. 4 della legge della Regione Sardegna n. 4 del 2006, nel testo sostituito dall'art. 3, comma 3, della legge della Regione Sardegna n. 2 del 2007, nel prevedere che l'imposta regionale sullo scalo turistico delle unità da diporto grava sulle sole imprese che hanno domicilio fiscale fuori dal territorio della Regione Sardegna esercenti unità da diporto la cui attività imprenditoriale consiste nel mettere a disposizione di terzi tali unità, configuri – ai sensi dell'art. 87 del Trattato – un aiuto di Stato alle imprese che svolgono la stessa attività con domicilio fiscale nel territorio della Regione Sardegna;

sospende il presente giudizio sino alla definizione delle suddette questioni pregiudiziali; ordina l'immediata trasmissione di copia della presente ordinanza, unitamente agli atti del giudizio,

alla cancelleria della Corte di giustizia CE. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 febbraio

2008.

1.6 Cassazione Civile, Sezioni Unite, 17 aprile 2009, n. 9147 : natura della

responsabilità dello Stato per mancata attuazione delle direttive

TESTO DELLA SENTENZA (omissis) Svolgimento del processo (omissis) Motivi della decisione 1. (omissis)

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4. Il terzo motivo di ricorso denuncia, deducendo la violazione di numerosi articoli di legge, l'errore commesso dal giudice del merito nel ritenere inammissibile l'eccezione di prescrizione tempestivamente sollevata. Si sottopone alla Corte il quesito se l'identificazione del tipo di prescrizione eccepita rientri nel compito istituzionale del giudice di procedere alla qualificazione giuridica, dovendosi ritenere assolto ogni onere per la parte con la manifestazione della volontà di volersi avvalere del decorso del tempo al fine di provocare l'estinzione del diritto azionato. 4.1. Al quesito deve darsi risposta affermativa in applicazione del principio, enunciato dalle Sezioni unite della Corte a composizione di contrasto di giurisprudenza, secondo il quale, in tema di prescrizione estintiva, elemento costitutivo della relativa eccezione è l'inerzia del titolare del diritto fatto valere in giudizio, mentre la determinazione della durata di questa, necessaria per il verificarsi dell'effetto estintivo, si configura come una quaestio iuris concernente l'identificazione del diritto stesso e del regime prescrizionale per esso previsto dalla legge. Ne consegue che la riserva alla parte del potere di sollevare l'eccezione implica che ad essa sia fatto onere soltanto di allegare il menzionato elemento costitutivo e di manifestare la volontà di profittare di quell'effetto, non anche di indicare direttamente o indirettamente (cioè attraverso specifica menzione della durata dell'inerzia, ovvero della natura e qualificazione della pretesa) le norme applicabili al caso di specie, l'identificazione delle quali spetta al potere-dovere del giudice (Cass., sez. un., 25 luglio 2002, n. 10955). 4.2. Nondimeno, la soluzione del quesito di diritto nel senso auspicato dal ricorrente non comporta l'accoglimento del motivo, risultando conforme al diritto il mancato accoglimento dell'eccezione di prescrizione quinquennale e dovendo la Corte limitarsi a correggere la motivazione (art. 384 c.p.c., comma 2). 4.3. Come si è osservato nel corso dell'esame del secondo motivo, il giudice del merito non ha violato l'art. 112 c.p.c., nel qualificare, correttamente, la pretesa avanzata come domanda di risarcimento del danno subito per la mancata attuazione di direttive Cee, ma è incorso in violazione di norma di diritto laddove ha ricondotto tale pretesa risarcitoria alla fattispecie di cui all'art. 2043 c.c.. 4.4. Invero, la giurisprudenza della Corte, nelle numerose decisioni rese sulla questione, riconduce con assoluta prevalenza il c.d. illecito del legislatore alla fattispecie di cui all'art. 2043 c.c., ma senza particolari approfondimenti del problema di qualificazione, privo, del resto, di rilevanza nella maggior parte dei casi esaminati. In un solo caso a quanto risulta, dalla qualificazione si è fatta discendere l'applicabilità della prescrizione quinquennale di cui all'art. 2947 c.c. (Cass. 9 aprile 2001, n. 5249). Altra decisione ha, invece, ritenuto applicabile il termine di prescrizione ordinaria (art. 2946 c.c.), ma nella prospettiva dell'indennizzo in funzione risarcitoria riconosciuto da norma interna di attuazione della direttiva (Cass. 4 giugno 2002, n. 8110). 4.5. Esiste però un altro orientamento giurisprudenziale che, all'esito dell'analisi del fenomeno giuridico, esclude che il danno derivante dalla mancata attuazione nei termini prescritti di una direttiva Cee, in violazione degli artt. 5 e 189 del Trattato istitutivo della Comunità, attuazione dalla quale sarebbe derivata l'attribuzione ai singoli di diritti dal contenuto ben individuato sulla base della direttiva stessa, secondo il principio precisato dalla sentenza della Corte di Giustizia Cee 19 novembre 1991, cause 6- 90 e 9-90 e ribadito nella successiva sentenza 14 luglio 1994, causa 91-92 - costituisca la conseguenza di un fatto imputabile come illecito civile (art. 2043 cod. civ., e segg.) allo Stato inadempiente (cfr., in particolare, Cass. 5 ottobre 1996, n. 8739; 11 ottobre 1995, n. 10617; 19 luglio 1995, n. 7832). Ciò in base alla considerazione che, stante il carattere autonomo e distinto tra i due ordinamenti, comunitario e interno, il comportamento del legislatore è suscettibile di essere qualificato come

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antigiuridico nell'ambito dell'ordinamento comunitario, ma non alla stregua dell'ordinamento interno, secondo principi fondamentali che risultano evidenti nella stessa Costituzione. 4.6. Sulla base del principio della "non applicabilità" della normativa nazionale (sia essa precedente che successiva) contrastante con quella comunitaria - che non implica fenomeni nè di caducazione, nè di abrogazione della norma statale confliggente con quella comunitaria -, il trattamento giuridico del caso di specie è attratto (ratione materiae) nell'ambito di applicazione del diritto comunitario, in modo che al giudice è demandato il controllo dell'adeguamento dell'ordinamento interno a quello comunitario, adeguamento che diviene così automatico, dovendo la normativa interna cedere il passo a quella comunitaria ove risulti essere con quest'ultima contrastante. Ne segue che, per risultare adeguato al diritto comunitario, il diritto interno deve assicurare una congrua riparazione del pregiudizio subito dal singolo per il fatto di non aver acquistato la titolarità di un diritto in conseguenza della violazione dell'ordinamento comunitario. 4.7. I parametri per valutare la conformità del diritto interno ai risultati imposti dall'ordinamento comunitario, sono stati enunciati dalla Corte di Giustizia Cee nella risoluzione delle questioni pregiudiziali concernenti: 1) l'ambito della responsabilità dello Stato per gli atti e le omissioni del legislatore nazionale contrari al diritto comunitario; 2) i presupposti della responsabilità; 3) la possibilità di subordinare il risarcimento all'esistenza di una colpa; 4) l'entità del risarcimento; 5) la delimitazione del periodo coperto dal risarcimento (sentenza 5 marzo 1996, cause riunite 46-93 e 48-93). I detti parametri sono stati precisati secondo i principi di seguito elencati. a) Anche l'inadempimento riconducibile al legislatore nazionale obbliga lo Stato a risarcire i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto comunitario. b) Il diritto al risarcimento deve essere riconosciuto allorchè la norma comunitaria, non dotata del carattere self-executing, sia preordinata ad attribuire diritti ai singoli, la violazione sia manifesta e grave e ricorra un nesso causale diretto tra tale violazione ed il danno subito dai singoli, fermo restando che è nell'ambito delle norme del diritto nazionale relative alla responsabilità che lo Stato è tenuto a riparare il danno, ma a condizioni non meno favorevoli di quelle che riguardano analoghi reclami di natura interna e comunque non tali da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile ottenere il risarcimento. c) Il risarcimento del danno non può essere subordinato alla sussistenza del dolo o della colpa. d) Il risarcimento deve essere adeguato al danno subito, spettando all'ordinamento giuridico interno stabilire i criteri di liquidazione, che non possono essere meno favorevoli di quelli applicabili ad analoghi reclami di natura interna, o tali da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile ottenere il risarcimento. In ogni caso, non può essere escluso in via generale il risarcimento di componenti del danno, quale il lucro cessante. e) Il risarcimento non può essere limitato ai soli danni subiti successivamente alla pronunzia di una sentenza della Corte di Giustizia che accerti l'inadempimento. 4.8. Sulla base del descritto complesso di principi e regole, va data continuità all'indirizzo della giurisprudenza da ultimo richiamata, secondo cui i profili sostanziali della tutela apprestata dal diritto comunitario inducono a reperire gli strumenti utilizzabili nel diritto interno fuori dallo schema della responsabilità civile extracontrattuale e in quello dell'obbligazione ex lege dello Stato inadempiente, di natura indennitaria per attività non antigiuridica, che il giudice deve determinare in base ai presupposti oggettivi sopra indicati, in modo che sia idonea a porre riparo effettivo ed adeguato al pregiudizio subito dal singolo. La qualificazione in termini di obbligazione indennitaria, del resto, consente di assoggettare allo stesso regime giuridico sia il caso, come quello in esame, di attuazione tardiva di una direttiva senza alcuna previsione di riparazione del pregiudizio per l'inadempimento, sia quello dell'intervento legislativo specifico, preordinato alla disciplina dell'obbligazione risarcitoria (come avvenuto, ad esempio, con il D.Lgs. n. 80 del 1992, art. 7, comma 2, in tema tutela dei lavoratori

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subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro, su cui la citata Cass. n. 8110/2002). E ciò in linea con il principio secondo cui la qualificazione della situazione soggettiva dei privati deve farsi con esclusivo riferimento ai criteri dell'ordinamento giuridico interno (cfr. Cass., sez. un., 27 luglio 1993, n. 8385), imponendo l'ordinamento comunitario soltanto il raggiungimento di un determinato risultato. 4.9. In conclusione, per realizzare il risultato imposto dall'ordinamento comunitario con i mezzi offerti dall'ordinamento interno, si deve riconoscere al danneggiato un credito alla riparazione del pregiudizio subito per effetto del c.d. fatto illecito del legislatore di natura indennitaria, rivolto, in presenza del requisito di gravità della violazione ma senza che operino i criteri di imputabilità per dolo o colpa, a compensare l'avente diritto della perdita subita in conseguenza del ritardo oggettivamente apprezzabile e avente perciò natura di credito di valore, rappresentando il danaro soltanto l'espressione monetaria dell'utilità sottratta al patrimonio. 4.10. Ne consegue che la pretesa risarcitoria azionata dal C., insorta nel momento in cui il pregiudizio si è verificato, è assoggettata al termine di prescrizione ordinaria (decennale) perchè diretta all'adempimento di un'obbligazione ex lege (di natura indennitaria), riconducibile come tale all'area della responsabilità contrattuale. (omissis)

1.7 Consiglio di Stato, 15 febbraio 2012, n. 750: incompatibilità del provvedimento

amministrativo con il diritto dell’Unione europea

TESTO DELLA SENTENZA FATTO e DIRITTO

1. (omissis)

3. La ricorrente ha impugnato la sentenza deducendo i seguenti motivi:

a) erroneità della pronuncia di tardività del ricorso per:

a.1) natura meramente notiziale della pubblicazione ex art. 26 del regolamento suddetto;

a.2) insussumibilità dello stesso regolamento nella fattispecie di “regolamento” di cui all’art. 21 l. 6

dicembre 1971, n. 1034;

a.3) inesigibilità dell’onere dei soggetti interessati;

a.4) scusabilità dell’errore e conseguente remissione in termini.

b) violazione o falsa applicazione dell’art. 21-septies l. 7 agosto 1990, n. 241; nullità o inefficacia degli

atti impugnati per violazione o elusione della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la

Puglia, sezione staccata di Lecce, II, 22 giugno 2004, n. 4306: nullità o inefficacia degli atti impugnati

per violazione dei principi comunitari; nullità o inefficacia degli atti impugnati per violazione del divieto

di cui all’art. 44 l. 23 dicembre 1994, n 724: nullità o inefficacia degli atti impugnati per difetto di

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attribuzione ed incompetenza assoluta; violazione degli artt. 1 e 2 l. 28 novembre 1984, n. 792

sull’istituzione e funzionamento dell’albo dei mediatori di assicurazione; erroneità della pronuncia.

Con memoria depositata per l’udienza del 19 luglio 2011, la ricorrente ha rilevato che la sentenza del n.

4306 del 2004 era passata in giudicato perché il ricorso in appello era stato dichiarato perento con

decreto 22 ottobre 2010, n. 7607.

4. All’udienza del 19 luglio 2011 il ricorso è stato trattenuto in decisione.

5. Va esaminato per priorità logica il secondo motivo di ricorso, rivolto sia nei confronti del

provvedimento dirigenziale n. 81 del 3 maggio 2004 che nei confronti degli atti, anche contrattuali, che

lo assumono a presupposto.

Il Collegio osserva che a rilevare la nullità del provvedimento per violazione del giudicato - di cui all’art

21-septies l. 7 agosto 1990, n. 241, qui applicabile ratione temporis - ha interesse chi ha beneficiato della

sentenza favorevole. L’odierna ricorrente non era parte del giudizio conclusosi con la sentenza del

Tribunale amministrativo regionale per la Puglia (Lecce), II, 2 giungo 2004, n. 4306, del cui giudicato si

verte, sicché non ha titolo per una siffatta eccezione. Il motivo non ha dunque fondamento.

Parimenti infondata è la doglianza di nullità della determinazione dirigenziale per violazione dei principi

comunitari. La violazione del diritto comunitario implica solo un vizio di legittimità, con conseguente

annullabilità dell'atto amministrativo. L’art. 21-septies l. 7 agosto 1990, n. 241, introdotto dalla l. 11

febbraio 2005, n. 15, ha posto un numero chiuso di ipotesi di nullità del provvedimento amministrativo

e non vi rientra la violazione del diritto comunitario (Cons. Stato, VI, 31 marzo 2011, n. 1983; 22

novembre 2006, n. 6831; 31 maggio 2008, n. 2623).

Gli ulteriori profili della censura attengono ad atti di natura contrattuale che assumono a proprio

presupposto la determinazione dirigenziale. Sono inammissibili perché non vi è ragione di

annullamento del provvedimento dirigenziale e di conseguenza non possono essere annullati gli atti

adottati in sua esecuzione. Il che non sfugge alla società ricorrente, che non ha limitato l’azione

giudiziaria nei confronti delle sole polizze assicurative e dell’atto di convenzione di brokeraggio, ma ha

esteso la domanda di annullamento al provvedimento amministrativo richiamato.

6. (omissis)

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1.8 Corte Giust. UE 11 settembre 2014, C-112-2013 : antinomie tra fonti interne e diritti garantiti

dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e compatibilità con il diritto dell’Unione

dei meccanismi ( vigenti in Austria) volti a risolverle

Testo della sentenza

(omissis)

1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 267 TFUE nonché dell’articolo 24 del regolamento (CE) n. 44/2001 del Consiglio, del 22 dicembre 2000, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale (GU 2001, L 12, pag. 1). 2 Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia che vede opposto A a B e altri in merito a un’azione di risarcimento danni che questi ultimi hanno esperito nei suoi confronti dinanzi ai giudici austriaci. Contesto normativo Il diritto dell’Unione 3 I considerando 2, 11 e 12 del regolamento n. 44/2001 così recitano: «(2) Alcune divergenze tra le norme nazionali sulla competenza giurisdizionale e sul riconoscimento delle decisioni rendono più difficile il buon funzionamento del mercato interno. È pertanto indispensabile adottare disposizioni che consentano di unificare le norme sui conflitti di competenza in materia civile e commerciale e di semplificare le formalità affinché le decisioni emesse dagli Stati membri vincolati dal presente regolamento siano riconosciute ed eseguite in modo rapido e semplice. (...) (11) Le norme sulla competenza devono presentare un alto grado di prevedibilità ed articolarsi intorno al principio della competenza del giudice del domicilio del convenuto, la quale deve valere in ogni ipotesi salvo in alcuni casi rigorosamente determinati, nei quali la materia del contendere o l’autonomia delle parti giustifichi un diverso criterio di collegamento. Per le persone giuridiche il domicilio deve essere definito autonomamente, in modo da aumentare la trasparenza delle norme comuni ed evitare i conflitti di competenza. (12) Il criterio del foro del domicilio del convenuto deve essere completato attraverso la previsione di fori alternativi, ammessi in base al collegamento stretto tra l’organo giurisdizionale e la controversia, ovvero al fine di agevolare la buona amministrazione della giustizia». 4 L’articolo 2, paragrafo 1, di detto regolamento prevede quanto segue: «Salve le disposizioni del presente regolamento, le persone domiciliate nel territorio di un determinato Stato membro sono convenute, a prescindere dalla loro nazionalità, davanti ai giudici di tale Stato membro».

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5 Ai sensi dell’articolo 3 di tale regolamento: «1. Le persone domiciliate nel territorio di uno Stato membro possono essere convenute davanti ai giudici di un altro Stato membro solo in base alle norme enunciate nelle sezioni da 2 a 7 del presente capo. 2. Nei loro confronti non possono essere addotte le norme nazionali sulla competenza riportate nell’allegato I». 6 Al capo II, sezione 7, intitolata «Proroga di competenza», l’articolo 24 del regolamento n. 44/2001 così dispone: «Oltre che nei casi in cui la sua competenza risulta da altre disposizioni del presente regolamento, il giudice di uno Stato membro davanti al quale il convenuto è comparso è competente. Tale norma non è applicabile se la comparizione avviene per eccepire l’incompetenza o se esiste un altro giudice esclusivamente competente ai sensi dell’articolo 22». 7 L’articolo 26 del medesimo regolamento, compreso nella sezione 8 del suddetto capo, intitolata «Esame della competenza e della ricevibilità dell’azione», stabilisce quanto segue: «1. Se il convenuto domiciliato nel territorio di uno Stato membro è citato davanti ad un giudice di un altro Stato membro e non compare, il giudice, se non è competente in base al presente regolamento, dichiara d’ufficio la propria incompetenza. 2. Il giudice è tenuto a sospendere il processo fin quando non si sarà accertato che al convenuto è stata data la possibilità di ricevere la domanda giudiziale o un atto equivalente in tempo utile per poter presentare le proprie difese, ovvero che è stato fatto tutto il possibile in tal senso. (...)». 8 Al capo III, intitolato «Riconoscimento ed esecuzione», l’articolo 34, punto 2, del regolamento n. 44/2001 prevede che una decisione non sia riconosciuta se «la domanda giudiziale od un atto equivalente non è stato notificato o comunicato al convenuto contumace in tempo utile e in modo tale da poter presentare le proprie difese eccetto qualora, pur avendone avuto la possibilità, egli non abbia impugnato la decisione». Il diritto austriaco La legge costituzionale federale 9 Ai sensi dell’articolo 89, paragrafi 1 e 2, della legge costituzionale federale (Bundes-Verfassungsgesetz; in prosieguo: il «B-VG»), i giudici ordinari non dispongono del diritto di annullamento di leggi ordinarie per incostituzionalità. L’Oberster Gerichtshof (Corte di cassazione) così come i giudici di secondo grado sono tenuti, in caso di dubbi in merito alla costituzionalità di una legge ordinaria, a presentare un’istanza di annullamento della medesima al Verfassungsgerichtshof (Corte costituzionale). 10 L’articolo 92, paragrafo 1, del B-VG prevede che l’Oberster Gerichtshof sia il giudice di ultima istanza per le cause civili e penali.

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11 Ai sensi dell’articolo 140, paragrafo 1, del B-VG, il Verfassungsgerichtshof è competente per statuire sulla costituzionalità delle leggi ordinarie dietro istanza, in particolare, dell’Oberster Gerichtshof nonché dei giudici di secondo grado. La decisione del Verfassungsgerichtshof recante l’annullamento di una legge ordinaria per incostituzionalità ha, secondo

l’articolo 140, paragrafi 6 e 7, del B‑VG, efficacia erga omnes e vincola tutti i giudici e le autorità amministrative. Il codice di procedura civile 12 L’articolo 115 del codice di procedura civile (Zivilprozessordnung; in prosieguo: la «ZPO») prevede, in linea di principio, che la notifica alle persone il cui indirizzo è sconosciuto venga effettuata mediante la pubblicazione di un avviso ufficiale in una banca dati di avvisi ufficiali («Ediktsdatei»). 13 Ai sensi dell’articolo 116 della ZPO: «Per le persone alle quali, essendo la loro residenza sconosciuta, è possibile notificare gli atti unicamente mediante avviso pubblico, il giudice deve nominare, su richiesta o d’ufficio, un curatore (articolo 9 [della ZPO]) se risulta che tali persone, a seguito dell’eseguenda notifica, dovrebbero agire legalmente per tutelare i loro diritti, in particolare se l’atto da notificare contiene una citazione in giudizio». 14 In forza dell’articolo 117 della ZPO, la nomina del curatore deve essere pubblicata mediante avviso ufficiale nella banca dati degli avvisi ufficiali. Procedimento principale e questioni pregiudiziali 15 Il 12 ottobre 2009, B e altri hanno presentato dinanzi al Landesgericht Wien (Tribunale di Vienna) un ricorso per risarcimento danni contro A, facendo valere che quest’ultimo aveva rapito i loro mariti o i loro padri in Kazakistan. 16 Riguardo alla competenza dei giudici austriaci, B e altri hanno sostenuto che A aveva il proprio domicilio abituale nel distretto del giudice adito. 17 Il Landesgericht Wien ha compiuto vari tentativi di notifica, dai quali è emerso che A non era più domiciliato agli indirizzi di notifica. Il 27 agosto 2010 detto giudice ha nominato per il convenuto, su richiesta di B e degli altri, un curatore in absentia (Abwesenheitskurator) ai sensi dell’articolo 116 della ZPO. 18 Successivamente alla notifica dell’atto di citazione, tale curatore in absentia ha depositato un controricorso in cui concludeva chiedendo il rigetto del ricorso e sollevando numerose eccezioni di merito, senza peraltro contestare la competenza internazionale dei giudici austriaci. 19 Soltanto in seguito, uno studio legale al quale A aveva conferito mandato è intervenuto in giudizio per conto di quest’ultimo e ha contestato la competenza internazionale dei giudici austriaci. A tal riguardo, esso ha dedotto che l’intervento del curatore del convenuto in absentia non poteva fondare la competenza internazionale dei giudizi austriaci dato che lo stesso curatore non aveva avuto alcun contatto con A e non conosceva i fatti avvenuti in Kazakistan. Quanto al suo domicilio, A ha affermato di avere definitivamente lasciato l’Austria prima della proposizione del ricorso nei suoi confronti. Adducendo una minaccia per la sua vita, egli non ha

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fornito al suddetto giudice informazioni sul suo domicilio, ma ha chiesto di effettuare in futuro qualsiasi notifica allo studio legale mandatario. 20 Il Landesgericht Wien ha dichiarato la propria incompetenza internazionale e ha respinto il ricorso, con la motivazione che A era domiciliato nel territorio della Repubblica di Malta e che la comparizione del curatore in absentia non valeva quale comparizione ai sensi dell’articolo 24 del regolamento n. 44/2001. 21 L’Oberlandesgericht Wien (Corte d’appello di Vienna) ha accolto l’appello proposto da B e altri avverso la suddetta decisione e ha respinto l’eccezione di incompetenza internazionale. A suo giudizio, i giudici nazionali erano obbligati a verificare la propria competenza internazionale, ai sensi dell’articolo 26 del regolamento n. 44/2001, soltanto in caso di mancata comparizione del convenuto. Orbene, nel diritto austriaco, gli atti processuali del curatore del convenuto in absentia, tenuto a preservare gli interessi di tale convenuto, produrrebbero gli stessi effetti giuridici dell’atto di un mandatario convenzionale. 22 Dinanzi all’Oberster Gerichtshof, adito con ricorso per «Revision», A ha fatto valere una violazione dei propri diritti della difesa sanciti all’articolo 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (in prosieguo: la «CEDU), e all’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta»). Per contro, B e altri hanno sostenuto che tali disposizioni della CEDU e della Carta garantiscono anche il loro diritto fondamentale a un ricorso effettivo, imponendo la nomina di un curatore del convenuto in absentia ai sensi dell’articolo 116 della ZPO. 23 Secondo le indicazioni dell’Oberster Gerichtshof, A aveva, al momento della proposizione del ricorso, un domicilio a Malta. Dato che il curatore in absentia, nominato per A, non aveva contestato la competenza internazionale dei giudici austriaci, sorgerebbe la questione se il controricorso depositato da detto curatore fosse imputabile ad A e valesse quale «comparizione» del medesimo ai sensi dell’articolo 24 del regolamento n. 44/2001. A tal riguardo, l’Oberster Gerichtshof rileva che l’ampio potere di rappresentanza del curatore del convenuto in absentia, di cui all’articolo 116 della ZPO, può essere considerato, allo stesso tempo, come necessario per garantire il diritto fondamentale di B e altri a un ricorso effettivo e come incompatibile con il diritto fondamentale di A al contraddittorio. 24 In tale contesto, il giudice del rinvio rileva che, secondo una giurisprudenza costante, esso disapplica caso per caso le disposizioni di legge in contrasto con il diritto dell’Unione sulla base del principio del primato di quest’ultimo. Orbene, in una decisione del 14 marzo 2012, U 466/11, il Verfassungsgerichtshof si sarebbe discostato da tale giurisprudenza affermando che il suo controllo di costituzionalità delle leggi nazionali, nell’ambito del procedimento di controllo generale delle leggi («Verfahren der generellen Normenkontrolle») ai sensi dell’articolo 140 B- VG, dovrebbe essere esteso alle disposizioni della Carta. Infatti, nell’ambito del suddetto procedimento, i diritti sanciti dalla CEDU potrebbero essere fatti valere al suo cospetto in quanto diritti di rango costituzionale. Quindi, secondo il Verfassungsgerichtshof, il principio di equivalenza, quale risultante dalla giurisprudenza della Corte, imporrebbe che detto controllo generale delle leggi verta anche sui diritti garantiti dalla Carta.

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25 Secondo l’Oberster Gerichtshof, tale decisione ha come conseguenza che i giudici austriaci non possono disapplicare di propria iniziativa una legge contraria alla Carta, ma sono tenuti a presentare al Verfassungsgerichtshof una domanda di annullamento erga omnes di detta legge, «ferma restando la possibilità di adire la Corte in via pregiudiziale». Inoltre, il Verfassungsgerichtshof avrebbe dichiarato che, quando un diritto garantito dalla Costituzione e uno fondato sulla Carta hanno lo stesso ambito di applicazione, non sussiste alcun obbligo di rinvio pregiudiziale dinanzi alla Corte ai sensi dell’articolo 267 TFUE. In tal caso, l’interpretazione della Carta non sarebbe rilevante ai fini della decisione su una domanda di annullamento erga omnes di una legge, giacché la decisione potrebbe fondarsi sui diritti garantiti dalla Costituzione austriaca. 26 Il giudice del rinvio s’interroga sulla questione se il principio di equivalenza esiga di estendere la portata del ricorso incidentale di incostituzionalità ai diritti garantiti dalla Carta, in quanto tale ricorso prolungherebbe la durata del procedimento e ne aumenterebbe i costi. Si potrebbe conseguire l’obiettivo di una correzione generale del diritto annullando la legge contraria alla Carta anche dopo la conclusione del procedimento. Inoltre, la circostanza che un diritto garantito dalla Costituzione austriaca e un diritto sancito dalla Carta abbiano lo stesso ambito di applicazione non potrebbe dispensare dall’obbligo di rinvio pregiudiziale. Non si potrebbe escludere che l’interpretazione di detto diritto fondamentale da parte del Verfassungsgerichtshof si discosti da quella della Corte e, pertanto, che la decisione di quest’ultimo sia in contrasto con gli obblighi derivanti dal regolamento n. 44/2001. 27 Alla luce di queste considerazioni, l’Oberster Gerichtshof ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1) Se si debba dedurre dal “principio di equivalenza” previsto nell’ordinamento giuridico europeo, nell’applicazione del diritto dell’Unione europea a un sistema di procedura nel quale i giudici ordinari chiamati a decidere nel merito devono sì verificare anche l’anticostituzionalità di talune disposizioni, ma non godono della facoltà di abrogazione generalizzata delle leggi, riservata ad una Corte costituzionale organizzata secondo previste modalità, che detti giudici ordinari, qualora una legge violi l’articolo 47 della [Carta], devono durante il procedimento altresì adire la Corte costituzionale per ottenere l’abrogazione generalizzata di tale legge e non possono limitarsi a disapplicarne le disposizioni nel caso concreto. 2) Se l’articolo 47 della [Carta] debba essere interpretato nel senso che osta a una disposizione procedurale ai sensi della quale un giudice non competente a livello internazionale nomina per una parte, nell’impossibilità di accertarne la residenza, un curatore in absentia, il quale con la sua comparizione in giudizio è in grado di determinare in maniera vincolante la competenza internazionale. 3) Se l’articolo 24 del regolamento [n. 44/2001] debba essere interpretato nel senso che sussiste una “comparizione del convenuto” ai sensi di tale disposizione solo se il relativo atto processuale è stato compiuto dal convenuto stesso o da un rappresentante legale cui egli abbia conferito procura, oppure se essa sia valida senza limitazioni anche nel caso di un curatore nominato in conformità della legislazione dello Stato membro interessato». Sulle questioni pregiudiziali Sulla prima questione

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28 Con la sua prima questione, il giudice del rinvio domanda, in sostanza, se il diritto dell’Unione, in particolare l’articolo 267 TFUE, debba essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, ai sensi della quale i giudici ordinari d’appello o di ultima istanza, qualora ritengano che una legge nazionale sia contraria all’articolo 47 della Carta, sono obbligati ad adire, durante il procedimento al loro cospetto, la Corte costituzionale con una domanda di annullamento con efficacia erga omnes della legge, senza limitarsi a disapplicarla nel caso di specie. 29 Anche se il giudice del rinvio si riferisce, nell’ambito della prima questione, unicamente al principio di equivalenza, in ragione della giurisprudenza del Verfassungsgerichtshof che ha fondato su tale principio l’obbligo di sottoporgli una domanda di annullamento con efficacia erga omnes di qualsiasi legge contraria alla Carta, dalla motivazione della decisione di rinvio emerge che il suddetto giudice si interroga, in particolare, sulla conformità di tale giurisprudenza agli obblighi dei giudici ordinari ai sensi dell’articolo 267 TFUE e al principio del primato del diritto dell’Unione. 30 A tal riguardo, dalla decisione di rinvio risulta che, secondo la giurisprudenza del Verfassungsgerichtshof citata al punto 24 della presente sentenza, i giudici ordinari d’appello o di ultima istanza sono tenuti ad adire il suddetto Verfassungsgerichtshof, qualora ritengano che una legge nazionale sia contraria alla Carta, in applicazione della procedura di annullamento con

efficacia erga omnes delle leggi ai sensi degli articoli 89 e 140 B‑VG. Dato che una tale domanda di annullamento con efficacia erga omnes delle leggi deve intervenire nell’ambito del procedimento in corso dinanzi a tali giudici ordinari, il giudice del rinvio considera che questi ultimi non possono statuire direttamente sulla controversia loro sottoposta disapplicando una legge che ritengano contraria alla Carta. 31 Per quanto riguarda, inoltre, le conseguenze di tale giurisprudenza costituzionale sugli obblighi derivanti dall’articolo 267 TFUE, il giudice del rinvio si limita ad osservare che l’obbligo di sottoporre al Verfassungsgerichtshof qualsiasi legge contraria alla Carta non pregiudica la facoltà di adire la Corte in via pregiudiziale, senza tuttavia precisare se tale facoltà sia soggetta a condizioni. 32 Risulta tuttavia dal fascicolo di cui dispone la Corte, nel quale figura la decisione del Verfassungsgerichtshof citata al punto 24 della presente sentenza, che l’obbligo di sottoporre a quest’ultimo una tale domanda di annullamento erga omnes delle leggi non pregiudica la facoltà dei giudici ordinari di deferire alla Corte, secondo la statuizione del Verfassungsgerichtshof tratta dalla giurisprudenza della Corte nella

sentenza Melki e Abdeli (C‑ 188/10 e C‑ 189/10, EU:C:2010:363, punto 57), in qualunque fase del procedimento ritengano appropriata, e finanche al termine del procedimento incidentale di controllo della costituzionalità, qualsiasi questione pregiudiziale giudichino necessaria, di adottare qualsiasi misura necessaria per garantire la tutela giurisdizionale provvisoria e di disapplicare, al termine del procedimento incidentale, una disposizione legislativa nazionale contraria al diritto dell’Unione. A tal riguardo, il Verfassungsgerichtshof ritiene importante, come risulta dal punto 42 della sua decisione, che la Corte non sia privata della possibilità di procedere al controllo della validità del diritto derivato dell’Unione in rapporto al diritto primario ed alla Carta. 33 È alla luce di tali circostanze che occorre rispondere alla prima questione.

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34 Si deve in proposito ricordare che l’articolo 267 TFUE attribuisce alla Corte la competenza a pronunciarsi, in via pregiudiziale, tanto sull’interpretazione dei trattati e degli atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione, quanto sulla validità di tali atti. Detto articolo dispone, al suo secondo comma, che un organo giurisdizionale nazionale può sottoporre alla Corte siffatte questioni qualora reputi necessaria, per emanare la sua sentenza, una decisione su tale punto, e, al suo terzo comma, che tale organo giurisdizionale è tenuto a farlo se avverso le sue decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno. 35 Ne consegue, in primo luogo, che, anche se potrebbe essere vantaggioso, secondo le circostanze, che i fatti di causa siano acclarati e che i problemi di puro diritto nazionale siano risolti al momento del rinvio alla Corte (v. sentenze Irish Creamery Milk Suppliers Association e

a., 36/80 e 71/80, EU:C:1981:62, punto 6; Meilicke, C‑ 83/91, EU:C:1992:332, punto 26,

nonché JämO, C‑ 236/98, EU:C:2000:173, punto 31), gli organi giurisdizionali nazionali godono della più ampia facoltà di adire la Corte se ritengono che, nell’ambito di una controversia al loro cospetto, siano sorte questioni, essenziali per la pronuncia nel merito, che richiedano un’interpretazione o un accertamento della validità delle disposizioni del diritto dell’Unione (v., in particolare, sentenze Rheinmühlen-Düsseldorf, 166/73, EU:C:1974:3,

punto 3; Mecanarte, C‑ 348/89, EU:C:1991:278, punto 44, Cartesio, C‑ 210/06, EU:C:2008:723, punto 88, nonché Melki e Abdeli, EU:C:2010:363, punto 41). 36 In secondo luogo, la Corte ha già dichiarato che il giudice nazionale incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le norme del diritto dell’Unione ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione nazionale contrastante, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale (v., in particolare, sentenze Simmenthal, 106/77, EU:C:1978:49, punti 21 e 24;

Filipiak, C‑ 314/08, EU:C:2009:719, punto 81; Melki e Abdeli, EU:C:2010:363, punto 43 e

giurisprudenza ivi citata, nonché Åkerberg Fransson, C‑ 617/10, EU:C:2013:105, punto 45). 37 Infatti, sarebbe incompatibile con le esigenze inerenti alla natura stessa del diritto dell’Unione qualsiasi disposizione di un ordinamento giuridico nazionale o qualsiasi prassi, legislativa, amministrativa o giudiziaria, la quale porti ad una riduzione della concreta efficacia del diritto dell’Unione per il fatto di negare al giudice competente ad applicare questo diritto il potere di compiere, all’atto stesso di tale applicazione, tutto quanto è necessario per disapplicare le disposizioni legislative nazionali che eventualmente ostino alla piena efficacia delle norme dell’Unione (v. sentenze Simmenthal, EU:C:1978:49, punto 22; Factortame e a.,

C‑ 213/89, EU:C:1990:257, punto 20, nonché Åkerberg Fransson, EU:C:2013:105, punto 46 e giurisprudenza ivi citata). È quanto accadrebbe qualora, in caso di conflitto tra una disposizione di diritto dell’Unione ed una legge nazionale, la soluzione di questo conflitto fosse riservata ad un organo diverso dal giudice cui è affidato il compito di garantire l’applicazione del diritto dell’Unione e dotato di un autonomo potere di valutazione, anche se l’ostacolo in tal modo frapposto alla piena efficacia di tale diritto fosse soltanto temporaneo (v. sentenze Simmenthal, EU:C:1978:49, punto 23, nonché Melki e Abdeli, EU:C:2010:363, punto 44). 38 In terzo luogo, la Corte ha dichiarato che un giudice nazionale investito di una controversia concernente il diritto dell’Unione, il quale consideri che una norma nazionale non solo è contraria al diritto dell’Unione, ma è anche inficiata da vizi di incostituzionalità, non è privato della facoltà né dispensato dall’obbligo, di cui all’articolo 267 TFUE, di sottoporre alla Corte di giustizia questioni relative all’interpretazione o alla validità del diritto dell’Unione per il

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solo fatto che la constatazione dell’incostituzionalità di una norma di diritto interno sia soggetta a ricorso obbligatorio dinanzi alla Corte costituzionale. Infatti, l’efficacia del diritto dell’Unione rischierebbe di essere compromessa se un obbligo di ricorso alla Corte costituzionale potesse impedire al giudice nazionale, al quale è stata sottoposta una controversia regolata dal diritto dell’Unione, di esercitare la facoltà, attribuitagli dall’articolo 267 TFUE, di sottoporre alla Corte di giustizia le questioni vertenti sull’interpretazione o sulla validità del diritto dell’Unione, al fine di stabilire se una norma nazionale sia o meno compatibile con quest’ultimo (sentenza Melki e Abdeli, EU:C:2010:363, punto 45 e giurisprudenza ivi citata). 39 In considerazione della giurisprudenza ricordata ai punti da 35 a 38 della presente sentenza, il funzionamento del sistema di cooperazione tra la Corte di giustizia e i giudici nazionali instaurato dall’articolo 267 TFUE e il principio del primato del diritto dell’Unione necessitano che il giudice nazionale sia libero di adire, in ogni fase del procedimento che reputi appropriata, e finanche al termine di un procedimento incidentale di legittimità costituzionale, la Corte di giustizia con qualsiasi questione pregiudiziale ritenga necessaria (v., in tal senso, sentenza Melki e Abdeli, EU:C:2010:363, punti 51 e 52). 40 Inoltre, qualora il diritto nazionale preveda l’obbligo di avviare un procedimento incidentale di controllo costituzionale generalizzato delle leggi, il funzionamento del sistema instaurato dall’articolo 267 TFUE esige che il giudice nazionale sia libero, da un lato, di adottare qualsiasi misura necessaria per garantire la tutela giurisdizionale provvisoria dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione e, dall’altro, di disapplicare, al termine di siffatto procedimento incidentale, una disposizione legislativa nazionale che esso ritenga contraria al diritto dell’Unione (v. sentenza Melki e Abdeli, EU:C:2010:363, punto 53). 41 Infine, per quanto concerne l’applicabilità in parallelo dei diritti fondamentali garantiti da una Costituzione nazionale nonché di quelli garantiti dalla Carta a una legge nazionale attuativa del diritto dell’Unione ai sensi dell’articolo 51, paragrafo 1, di quest’ultima, occorre rilevare che il carattere prioritario di un procedimento incidentale di controllo della costituzionalità di una legge nazionale il cui contenuto si limiti a trasporre le disposizioni imperative di una direttiva dell’Unione non può pregiudicare la competenza esclusiva della Corte di giustizia a dichiarare l’invalidità di un atto dell’Unione, e segnatamente di una direttiva, competenza che ha per oggetto di garantire la certezza del diritto assicurando l’applicazione uniforme del diritto dell’Unione (v., in tal senso, sentenze Foto-Frost, 314/85,

EU:C:1987:452, punti da 15 a 20; IATA e ELFAA, C‑ 344/04, EU:C:2006:10, punto 27;

Lucchini, C‑ 119/05, EU:C:2007:434, punto 53, nonché Melki e Abdeli, EU:C:2010:363, punto 54). 42 Infatti, laddove il carattere prioritario di un procedimento incidentale di controllo della legittimità costituzionale portasse all’abrogazione di una legge nazionale che si limiti a recepire le disposizioni imperative di una direttiva dell’Unione, a causa della contrarietà di detta legge alla Costituzione nazionale, la Corte potrebbe di fatto essere privata della possibilità di procedere, su domanda dei giudici del merito dello Stato membro interessato, al controllo della validità di detta direttiva rispetto agli stessi motivi relativi alle esigenze del diritto primario, segnatamente dei diritti riconosciuti dalla Carta, alla quale l’articolo 6 TUE conferisce lo stesso valore giuridico che riconosce ai Trattati (sentenza Melki e Abdeli, EU:C:2010:363, punto 55). 43 Prima di poter effettuare il controllo incidentale di costituzionalità di una legge il cui contenuto si limiti a trasporre le disposizioni imperative di una direttiva dell’Unione alla luce

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degli stessi motivi che mettono in discussione la validità di tale direttiva, gli organi giurisdizionali nazionali avverso le cui decisioni non possono essere proposti ricorsi giurisdizionali di diritto interno sono, in linea di principio, tenuti, in forza dell’articolo 267, terzo comma, TFUE, a chiedere alla Corte di giustizia di pronunciarsi sulla validità di detta direttiva e, successivamente, a trarre le conseguenze derivanti dalla sentenza pronunciata dalla Corte a titolo pregiudiziale, a meno che il giudice che dà avvio al controllo incidentale di costituzionalità non abbia esso stesso adito la Corte di giustizia con tale questione in forza del secondo comma del suddetto articolo. Infatti, nel caso di una legge nazionale di trasposizione avente un simile contenuto, la questione se la direttiva sia valida riveste, alla luce dell’obbligo di trasposizione della medesima, carattere preliminare (sentenza Melki e Abdeli, EU:C:2010:363, punto 56). 44 Peraltro, quando il diritto dell’Unione riconosce agli Stati membri un margine di discrezionalità nell’attuazione di un atto di diritto dell’Unione, resta consentito alle autorità e ai giudici nazionali assicurare il rispetto dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione nazionale, purché l’applicazione degli standard nazionali di tutela dei diritti fondamentali non comprometta il livello di tutela previsto dalla Carta, come interpretata dalla Corte, né il primato,

l’unità e l’effettività del diritto dell’Unione (v., in tal senso, sentenza Melloni, C‑ 399/11, EU:C:2013:107, punto 60). 45 Per quanto riguarda il principio di equivalenza richiamato dal giudice del rinvio nella sua domanda di pronuncia pregiudiziale, si deve rilevare che, secondo detto principio, le modalità procedurali dei ricorsi intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto dell’Unione non devono essere meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di

natura interna (sentenze Transportes Urbanos y Servicios Generales, C‑ 118/08,

EU:C:2010:39, punto 33, nonché Agrokonsulting-04, C‑ 93/12, EU:C:2013:432, punto 36 e giurisprudenza ivi citata). Orbene, l’osservanza del principio di equivalenza non può avere per effetto di dispensare i giudici nazionali, al momento dell’applicazione delle modalità procedurali nazionali, dal rigoroso rispetto dei precetti derivanti dall’articolo 267 TFUE. 46 Sulla scorta di quanto precede, alla prima questione occorre rispondere che il diritto dell’Unione, e in particolare l’articolo 267 TFUE, deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale come quella di cui trattasi nel procedimento principale, in forza della quale i giudici ordinari d’appello o di ultima istanza, qualora ritengano che una legge nazionale sia contraria all’articolo 47 della Carta, sono obbligati ad adire, nel corso del procedimento, la Corte costituzionale con una domanda di annullamento erga omnes della legge, anziché limitarsi a disapplicarla nel caso di specie, nei limiti in cui il carattere prioritario di siffatta procedura abbia per effetto di impedire a tali giudici ordinari – tanto prima della proposizione di una siffatta domanda al giudice nazionale competente per l’esercizio del controllo di costituzionalità delle leggi, quanto, eventualmente, dopo la decisione di tale giudice sulla suddetta domanda – di esercitare la loro facoltà o di adempiere al loro obbligo di sottoporre alla Corte questioni pregiudiziali. Per contro, il diritto dell’Unione, in particolare l’articolo 267 TFUE, deve essere interpretato nel senso che esso non osta a una siffatta normativa nazionale se i suddetti giudici ordinari restano liberi: – di sottoporre alla Corte, in qualunque fase del procedimento ritengano appropriata, e finanche al termine del procedimento incidentale di controllo generale delle leggi, qualsiasi questione pregiudiziale a loro giudizio necessaria;

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– di adottare qualsiasi misura necessaria per garantire la tutela giurisdizionale provvisoria dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione, e – di disapplicare, al termine di un siffatto procedimento incidentale, la disposizione legislativa nazionale in questione ove la ritengano contraria al diritto dell’Unione. Spetta al giudice del rinvio verificare se la normativa nazionale possa essere interpretata conformemente a tali precetti del diritto dell’Unione. Sulla seconda e sulla terza questione 47 Con la sua seconda e la sua terza questione, che vanno esaminate congiuntamente, il giudice del rinvio domanda, in sostanza, se l’articolo 24 del regolamento n. 44/2001, letto alla luce dell’articolo 47 della Carta, debba essere interpretato nel senso che, quando un giudice nazionale nomini un curatore in absentia per un convenuto a cui l’atto introduttivo del ricorso non è stato notificato perché la sua residenza era sconosciuta, in forza della legislazione nazionale, la comparizione di detto curatore in absentia equivale alla comparizione dello stesso convenuto ai sensi dell’articolo 24 del suddetto regolamento, che determina la competenza internazionale di tale giudice. 48 Occorre preliminarmente sottolineare che, come osservato dal giudice del rinvio, al momento dell’avvio del procedimento principale dinanzi ai giudici austriaci, A non era più domiciliato in detto Stato membro. Inoltre, tale procedimento ha ad oggetto un’azione di risarcimento danni a seguito di rapimenti di persone avvenuti non già in Austria, bensì in Kazakistan. Si deve pertanto constatare che la competenza internazionale dei giudici austriaci non risulta dall’articolo 2, paragrafo 1, del regolamento n. 44/2001. Inoltre, non sembra che il procedimento principale presenti con il territorio austriaco un qualche collegamento tale da fondare la loro competenza ai sensi delle disposizioni di tale regolamento, a meno che A non sia comparso dinanzi al giudice adito ai sensi dell’articolo 24 del suddetto regolamento. 49 A tal riguardo, dal fascicolo sottoposto alla Corte risulta che un curatore del convenuto in absentia nominato ai sensi dell’articolo 116 della ZPO dispone di un ampio potere di rappresentanza, che comporta il potere di comparire per il convenuto assente. 50 Ora, secondo una giurisprudenza costante, le disposizioni del regolamento n. 44/2001 vanno interpretate in modo autonomo, alla luce soprattutto del sistema e delle finalità dello stesso (v., in tal senso, sentenze Cartier parfums-lunettes e Axa Corporate Solutions

Assurance, C‑ 1/13, EU:C:2014:109, punto 32 e giurisprudenza ivi citata, nonché Hi Hotel

HCF, C‑ 387/12, EU:C:2014:215, punto 24). 51 Inoltre, le disposizioni del diritto dell’Unione, quali quelle del regolamento n. 44/2001, devono essere interpretate alla luce dei diritti fondamentali che, secondo una costante giurisprudenza, formano parte integrante dei principi generali del diritto di cui la Corte garantisce l’osservanza e che sono ormai iscritti nella Carta (v., in tal senso, sentenza Google

Spain e Google, C‑ 131/12, EU:C:2014:317, punto 68 nonché giurisprudenza ivi citata). A tal riguardo, si deve rilevare che l’insieme delle disposizioni del regolamento n. 44/2001 esprime l’intenzione di garantire che, nell’ambito degli obiettivi perseguiti da quest’ultimo, i

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procedimenti che portano all’adozione di decisioni giurisdizionali si svolgano nel rispetto dei

diritti della difesa sanciti all’articolo 47 della Carta (v. sentenze Hypoteční banka, C‑ 327/10,

EU:C:2011:745, punti 48 e 49, e G, C‑ 292/10, EU:C:2012:142, punti 47 e 48 nonché giurisprudenza ivi citata). 52 È alla luce di tali considerazioni che occorre esaminare se la comparizione del curatore del convenuto in absentia valga quale comparizione del convenuto ai sensi dell’articolo 24 del suddetto regolamento. 53 A tal riguardo, va ricordato, in primo luogo, che detto articolo 24 figura nella sezione 7 del capo II del regolamento n. 44/2001, intitolata «Proroga di competenza». Il suddetto articolo 24, prima frase, prevede una regola di competenza basata sulla comparizione del convenuto per tutte le controversie in cui la competenza del giudice adito non risulti da altre disposizioni del regolamento stesso. Tale disposizione si applica persino nel caso in cui il giudice sia stato adito in violazione delle disposizioni di detto regolamento e implica che la comparizione del convenuto possa essere considerata quale accettazione tacita della competenza del giudice adito e, quindi, quale proroga della sua competenza (v. sentenze ČPP Vienna Insurance Group,

C‑ 111/09, EU:C:2010:290, punto 21, nonché Cartier parfums-lunettes e Axa Corporate Solutions Assurance, EU:C:2014:109, punto 34). 54 Quindi, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 43 delle sue conclusioni, la proroga tacita della competenza ai sensi dell’articolo 24, prima frase, del regolamento n. 44/2001 è fondata su una scelta volontaria delle parti nella controversia riguardo a detta competenza, la quale presuppone che il convenuto sia a conoscenza del giudizio instaurato nei suoi confronti. Per contro, non si può ritenere che un convenuto in absentia, al quale l’atto introduttivo del ricorso non sia stato notificato e che ignori il giudizio instaurato nei suoi confronti, abbia tacitamente accettato la competenza del giudice adito. 55 Inoltre, un convenuto in absentia che ignori il giudizio instaurato nei suoi confronti nonché la nomina di un proprio curatore in absentia non può fornire a tale curatore tutte le informazioni necessarie a verificare la competenza internazionale del giudice adito e a consentirgli di opporsi in modo efficace a detta competenza oppure di accettarla con cognizione di causa. In un siffatto contesto, la comparizione di detto curatore in absentia non può neanch’essa valere quale accettazione tacita da parte di tale convenuto. 56 In secondo luogo, occorre rilevare che, nell’ambito del regolamento n. 44/2001, la competenza internazionale del giudice adito è oggetto di un controllo giurisdizionale, esercitato d’ufficio o dietro ricorso del suddetto convenuto, come risulta dagli articoli 26 e 34, punto 2, di tale regolamento, soltanto nel caso in cui lo stesso possa essere considerato contumace. In tali circostanze, il rispetto dei diritti della difesa esige che un legale rappresentante possa validamente comparire per il convenuto ai sensi del regolamento n. 44/2001 solo quando sia effettivamente in grado di assicurare la difesa dei diritti del convenuto assente. Orbene, come risulta dalla giurisprudenza della Corte relativa all’articolo 27, punto 2, della Convenzione del 27 settembre 1968, concernente la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale (GU 1972, L 299, pag. 32), come modificata dalle successive convenzioni relative all’adesione dei nuovi Stati membri a tale convenzione, nonché dalla giurisprudenza relativa all’articolo 34, punto 2, del regolamento n. 44/2001, un convenuto che ignori il procedimento instaurato nei suoi confronti e per il quale compaia un avvocato o un «tutore» cui egli non ha conferito mandato, si trova nell’impossibilità

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di difendersi in modo effettivo e deve, di conseguenza, essere considerato contumace ai sensi della suddetta disposizione, anche se il procedimento ha assunto un carattere in contraddittorio (v., in tal senso, relativamente all’interpretazione della suddetta convenzione del 27 settembre

1968, come modificata, sentenza Hendrikman e Feyen, C‑ 78/95, EU:C:1996:380, punto 18, nonché sentenza Hypoteční banka, EU:C:2011:745, punti 53 e 54). 57 In terzo luogo, un’interpretazione dell’articolo 24 di tale regolamento secondo la quale un curatore del convenuto in absentia può comparire per quest’ultimo non sarebbe conforme agli obiettivi delle norme sulla competenza stabilite dal medesimo regolamento, le quali, come risulta dal suo considerando 11, devono presentare un alto grado di prevedibilità ed articolarsi intorno al principio della competenza del foro del domicilio del convenuto. Infatti, in una situazione come quella di cui trattasi nel procedimento principale, dove l’atto introduttivo del ricorso non è stato notificato ad A, che era domiciliato in uno Stato membro diverso da quello del giudice adito, non si può ritenere che l’instaurazione della competenza internazionale dei giudici austriaci a motivo della comparizione di un curatore del convenuto in absentia, nominato per A, fosse prevedibile. 58 Infine, il diritto a un ricorso effettivo del ricorrente sancito dall’articolo 47 della Carta, che deve essere attuato in concomitanza con i diritti della difesa del convenuto nell’ambito del regolamento n. 44/2001 (v., in tal senso, sentenze Hypoteční banka, EU:C:2011:745, punti 48 e 49, nonché G, EU:C:2012:142, punti 47 e 48), non impone un’interpretazione differente dell’articolo 24 del medesimo regolamento, contrariamente a quanto sostengono B e altri nelle osservazioni presentate alla Corte. 59 A tal riguardo, B e altri osservano che, nell’ambito del procedimento principale, A non ha mai rivelato il suo attuale domicilio, in tal modo impedendo la determinazione del giudice competente e l’esercizio del loro diritto a un ricorso effettivo. In tale contesto, al fine di evitare una situazione di diniego di giustizia e per garantire un giusto equilibrio tra i diritti del ricorrente e quelli del convenuto, conformemente alla giurisprudenza citata al punto precedente, occorrerebbe ammettere che un curatore del convenuto in absentia possa comparire per detto convenuto ai sensi dell’articolo 24 del regolamento n. 44/2001. 60 Orbene, se è vero che la Corte ha giudicato, nelle particolari circostanze delle cause oggetto delle sentenze Hypoteční banka (EU:C:2011:745) e G (EU:C:2012:142), che il regolamento n. 44/2001, interpretato alla luce dell’articolo 47 della Carta, non osta a un procedimento contro un convenuto in absentia nel quale quest’ultimo sia stato privato della facoltà di difendersi efficacemente, la stessa ha posto del pari l’accento sul fatto che detto convenuto ha la possibilità di far rispettare i diritti della difesa opponendosi, in forza dell’articolo 34, punto 2, di tale regolamento, al riconoscimento della decisione pronunciata nei suoi confronti (v., in tal senso, sentenze Hypoteční banka, EU:C:2011:745, punti 54 e 55,

nonché G, C‑ 292/10, EU:C:2012:142, punti 57 e 58). Siffatta possibilità di ricorso ai sensi dell’articolo 34, punto 2, del suddetto regolamento presuppone tuttavia, come è stato constatato al punto 56 della presente sentenza, che il convenuto sia contumace e che gli atti di procedura compiuti dal tutore o dal curatore del convenuto in absentia non equivalgano alla comparizione di quest’ultimo ai sensi del medesimo regolamento. Per contro, nel caso di specie, gli atti di procedura adottati dal curatore del convenuto in absentia ai sensi dell’articolo 116 della ZPO producono l’effetto che A debba essere considerato come comparso dinanzi al giudice adito per quanto riguarda la normativa nazionale. Orbene, un’interpretazione dell’articolo 24 del regolamento n. 44/2001 secondo cui un tale tutore o curatore del convenuto in absentia possa

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comparire per detto convenuto ai sensi dell’articolo 24 del regolamento n. 44/2001 non può essere considerata stabilire un giusto equilibrio tra i diritti a un ricorso effettivo e i diritti della difesa. 61 Per tali ragioni, alla seconda e alla terza questione occorre rispondere che l’articolo 24 del regolamento n. 44/2001, letto alla luce dell’articolo 47 della Carta, deve essere interpretato nel senso che, quando, in forza della legislazione nazionale, un giudice nazionale nomina un curatore in absentia per un convenuto a cui l’atto introduttivo del ricorso non è stato notificato perché la sua residenza era sconosciuta, la comparizione di detto curatore del convenuto in absentia non equivale alla comparizione dello stesso convenuto ai sensi dell’articolo 24 del suddetto regolamento, che determina la competenza internazionale di tale giudice. Sulle spese 62 (omissis) Per questi motivi, la Corte (Quinta Sezione) dichiara: 1) Il diritto dell’Unione, e in particolare l’articolo 267 TFUE, deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale come quella di cui trattasi nel procedimento principale, in forza della quale i giudici ordinari d’appello o di ultima istanza, qualora ritengano che una legge nazionale sia contraria all’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, sono obbligati ad adire, nel corso del procedimento, la Corte costituzionale con una domanda di annullamento erga omnes della legge, anziché limitarsi a disapplicarla nel caso di specie, nei limiti in cui il carattere prioritario di siffatta procedura abbia per effetto di impedire a tali giudici ordinari – tanto prima della proposizione di una siffatta domanda al giudice nazionale competente per l’esercizio del controllo di costituzionalità delle leggi, quanto, eventualmente, dopo la decisione di tale giudice sulla suddetta domanda – di esercitare la loro facoltà o di adempiere al loro obbligo di sottoporre alla Corte questioni pregiudiziali. Per contro, il diritto dell’Unione, in particolare l’articolo 267 TFUE, deve essere interpretato nel senso che esso non osta a una siffatta normativa nazionale se i suddetti giudici ordinari restano liberi: – di sottoporre alla Corte, in qualunque fase del procedimento ritengano appropriata, e finanche al termine del procedimento incidentale di controllo generale delle leggi, qualsiasi questione pregiudiziale a loro giudizio necessaria; – di adottare qualsiasi misura necessaria per garantire la tutela giurisdizionale provvisoria dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione, e – di disapplicare, al termine di un siffatto procedimento incidentale, la disposizione legislativa nazionale in questione ove la ritengano contraria al diritto dell’Unione. Spetta al giudice del rinvio verificare se la normativa nazionale di cui trattasi nel procedimento principale possa essere interpretata conformemente a tali precetti del diritto dell’Unione. 2) L’articolo 24 del regolamento (CE) n. 44/2001 del Consiglio, del 22 dicembre 2000, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, letto alla luce dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, deve essere interpretato nel senso che, quando, in forza della legislazione

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nazionale, un giudice nazionale nomina un curatore in absentia per un convenuto a cui l’atto introduttivo del ricorso non è stato notificato perché la sua residenza era sconosciuta, la comparizione di detto curatore del convenuto in absentia non equivale alla comparizione dello stesso convenuto ai sensi dell’articolo 24 del suddetto regolamento, che determina la competenza internazionale di tale giudice.

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2. CEDU e diritto interno

2.1 Corte cost. n. 210 del 2013

(pdf)

2.2 Corte Costituzionale 28 novembre 2012, n. 264: norme della Cedu e rapporti con il

diritto costituzionale interno in materia di diritti fondamentali

TESTO DELLA SENTENZA

(OMISSIS)

Considerato in diritto

1.― La Corte è chiamata a decidere se l’articolo 1, comma 777, della legge 27 dicembre 2006, n. 296

(Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato − legge finanziaria 2007),

che, nel fornire la interpretazione dell’articolo 5, secondo comma, del decreto del Presidente della

Repubblica 27 aprile 1968, n. 488 (Aumento e nuovo sistema di calcolo delle pensioni a carico

dell’assicurazione generale obbligatoria), sostanzialmente prevede che la retribuzione percepita

all’estero, da porre a base del calcolo della pensione, debba essere riproporzionata al fine di stabilire lo

stesso rapporto percentuale previsto per i contributi versati nel nostro Paese nel medesimo periodo,

introducendo nell’ordinamento una interpretazione della disciplina de qua in senso non favorevole

rispetto alle posizioni degli assicurati, si ponga in contrasto con l’articolo 117, primo comma, della

Costituzione, in relazione all’articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei

diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa

esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convezione europea per la

salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e del

Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), come interpretato

dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

2.― In particolare, la pronuncia della Corte EDU cui si fa riferimento è la sentenza del 31 maggio

2011, resa nel caso Maggio ed altri contro Italia, secondo la quale con la censurata disposizione lo Stato

italiano ha violato i diritti dei ricorrenti intervenendo in modo decisivo per garantire che l’esito del

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procedimento in cui esso era parte attraverso l’INPS gli fosse favorevole, senza che sussistessero

impellenti motivi di interesse generale, e privando di rilievo, con lo stabilire la salvezza dei (soli)

trattamenti pensionistici più favorevoli già liquidati alla data di entrata in vigore della legge, la

prosecuzione del giudizio per un’intera categoria di persone che si trovavano nella posizione dei

ricorrenti nel giudizio a quo.

3.― La questione non è fondata.

3.1.― È preliminarmente necessaria, al fine di un corretto inquadramento del problema, una

sintetica ricostruzione della evoluzione legislativa sulla questione delle cosiddette “pensioni svizzere”,

che ha origine dal diverso trattamento pensionistico derivato dalla entrata in vigore della norma

censurata ai lavoratori che hanno prestato servizio nella Confederazione elvetica.

In base al sistema «retributivo» di computo delle pensioni erogate dall’assicurazione generale

obbligatoria introdotto dal d.P.R. n. 488 del 1968, la pensione si calcola applicando alla retribuzione

annua pensionabile, cioè alla retribuzione annua media percepita dal lavoratore durante un certo

periodo di riferimento, un coefficiente proporzionato al numero complessivo di settimane di

contribuzione vantate dall’interessato.

3.1.1.― Per ciò che concerne il regime dei contributi versati in Svizzera e trasferiti in Italia in forza

dell’Accordo aggiuntivo alla Convenzione tra l’Italia e la Svizzera relativo alla sicurezza sociale del 14

dicembre 1962, concluso a Berna il 4 luglio 1969 e ratificato con legge 18 maggio 1973, n. 283, si era

affermato un orientamento giurisprudenziale – sempre contestato dall’INPS − secondo il quale il

lavoratore italiano, che avesse chiesto il trasferimento a detto ente dei contributi versati in Svizzera in

suo favore, aveva diritto di ottenere che la pensione venisse determinata con il metodo retributivo sulla

base della retribuzione effettivamente percepita in Svizzera, nonostante i contributi colà accreditati

fossero stati versati secondo l’aliquota prevista dalla legislazione elvetica, inferiore a quella stabilita dalla

legislazione italiana. Espressione di tale orientamento sono, tra le altre, le sentenze della Corte di

legittimità n. 7455 del 2005, n. 4623 e n. 20731 del 2004.

Successivamente, era intervenuta, appunto, la legge finanziaria 2007 (legge n. 296 del 2006), che,

all’art. 1, comma 777, aveva stabilito che «l’articolo 5, secondo comma, del d.P.R. n. 488 del 1968, e

successive modificazioni, si interpreta nel senso che, in caso di trasferimento presso l’assicurazione

generale obbligatoria italiana dei contributi versati ad enti previdenziali di Paesi esteri in conseguenza di

convenzioni ed accordi internazionali di sicurezza sociale, la retribuzione pensionabile relativa ai periodi

di lavoro svolto nei Paesi esteri è determinata moltiplicando l’importo dei contributi trasferiti per cento

e dividendo il risultato per l’aliquota contributiva per invalidità, vecchiaia e superstiti in vigore nel

periodo cui i contributi si riferiscono. Sono fatti salvi i trattamenti pensionistici più favorevoli già

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liquidati alla data di entrata in vigore della presente legge».

3.1.2.― La Corte di cassazione aveva sollevato questione di legittimità costituzionale di tale norma

in riferimento agli articoli 3, primo comma, 35, quarto comma, e 38, secondo comma, della

Costituzione, ritenendo che essa avesse introdotto nell’ordinamento una interpretazione della disciplina

applicabile in senso non favorevole rispetto alle posizioni degli assicurati.

Questa Corte, con la sentenza n. 172 del 2008, aveva respinto tali dubbi di contrasto con la

Costituzione, affermando, tra l’altro, che la disposizione impugnata ha reso esplicito un precetto già

contenuto nelle disposizioni oggetto dell’interpretazione autentica, e che, quindi, sotto tale profilo, non

è affetta da irragionevolezza. Inoltre, aveva osservato al riguardo che essa, assegnando alla disposizione

interpretata un significato rientrante nelle possibili letture del testo originario, non determina alcuna

lesione dell’affidamento del cittadino nella certezza dell’ordinamento giuridico, anche perché nella

fattispecie l’ente previdenziale ha continuato a contestare la interpretazione sostenuta dalle controparti

private, ed accolta dalla giurisprudenza, rendendo così reale il dubbio ermeneutico.

Del pari, era stata esclusa la violazione del principio di eguaglianza, perché la salvezza delle

posizioni dei lavoratori, cui già sia stato liquidato il trattamento pensionistico secondo un criterio più

favorevole, risponde, questo sì, all’esigenza di rispettare il principio dell’affidamento e i diritti ormai

acquisiti di detti lavoratori.

Né era stato ravvisato alcun vulnus all’art. 35, quarto comma, Cost., perché l’art. 1, comma 777,

della legge n. 296 del 2006 non attribuisce al lavoro prestato all’estero un trattamento deteriore rispetto

a quello svolto in Italia, ma anzi assicura la razionalità complessiva del sistema previdenziale, evitando

che, a fronte di una esigua contribuzione versata nel Paese estero, si possano ottenere le stesse utilità

che chi ha prestato attività lavorativa esclusivamente in Italia può conseguire solo grazie ad una

contribuzione molto più gravosa.

Infine, la Corte aveva escluso il contrasto con l’art. 38, secondo comma, Cost., perché la norma

censurata non determina alcuna riduzione ex post del trattamento previdenziale spettante ai lavoratori.

Essa, in definitiva, non fa altro che imporre per legge un’interpretazione già desumibile dalle

disposizioni interpretate. Né la rimettente offre – aveva sottolineato la Corte – elementi per far ritenere

che la norma determini un trattamento pensionistico addirittura insufficiente al soddisfacimento delle

esigenze di vita del lavoratore.

A seguito di tale pronuncia, il giudice di legittimità aveva modificato il proprio orientamento,

sostenendo il carattere di disposizione di interpretazione autentica dell’art. 1, comma 777, della legge n.

296 del 2006 (v. Cass., sez. un., n. 17076 del 2011; Cass., n. 23754 del 2008).

3.1.3.― Tuttavia, successivamente, su identica questione è intervenuta la Corte EDU, la quale, con

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la richiamata sentenza resa nel caso Maggio, ha ritenuto che con tale disposizione lo Stato italiano abbia

violato i diritti dei ricorrenti intervenendo in modo decisivo per garantire che l’esito del procedimento

in cui esso era parte gli fosse favorevole.

Detta sentenza pone a fondamento del decisum le seguenti argomentazioni, come richiamate nella

ordinanza di rimessione: 1) benché non sia precluso al legislatore disciplinare, mediante nuove

disposizioni retroattive, diritti derivanti da leggi in vigore, il principio della preminenza del diritto

[rectius: rule of law] e la nozione di equo processo contenuti nell’articolo 6 impediscono, tranne che per

impellenti motivi di interesse generale, l’interferenza del legislatore nell’amministrazione della giustizia

allo scopo di influenzare la determinazione giudiziaria di una controversia; 2) benché le regole

pensionistiche previste dalla legge possano cambiare e non si possa fare affidamento su di un

orientamento giurisprudenziale come garanzia contro tali cambiamenti, anche se tali cambiamenti sono

svantaggiosi per alcuni beneficiari di prestazioni previdenziali, lo Stato non può interferire in modo

arbitrario nella procedura giudiziaria; 3) nel caso in esame, la legge ha escluso espressamente dal suo

ambito di applicazione le sentenze diventate irrevocabili (trattamenti pensionistici già liquidati) e ha

fissato retroattivamente i termini delle controversie davanti ai tribunali ordinari. Invero la

promulgazione della legge n. 296 del 2006, mentre i procedimenti erano pendenti, in realtà incideva sul

merito delle controversie, e la sua applicazione da parte dei vari tribunali ordinari ha privato di rilievo,

per una intera categoria di persone che si trovavano nella posizione dei ricorrenti, la prosecuzione del

giudizio; 4) al fine di determinare l’esistenza di un motivo impellente di interesse generale in grado di

legittimare l’ingerenza del legislatore nell’amministrazione della giustizia, il rispetto della preminenza del

diritto [rule of law] e delle regole dell’equo processo impone che le ragioni addotte per giustificare tale

misura siano valutate con il massimo grado di cautela possibile; 5) considerazioni di carattere finanziario

non possono, da sole, giustificare che il legislatore si sostituisca al giudice al fine di risolvere le

controversie; dopo il 1982, l’INPS ha applicato una interpretazione della legge in vigore all’epoca che

era più favorevole ad esso in qualità di autorità erogatrice: tale ricostruzione normativa non era

condivisa dalla maggioranza della giurisprudenza; 6) quanto alla tesi del Governo secondo cui la legge si

era resa necessaria per ristabilire un equilibrio nel sistema pensionistico, eliminando qualsiasi vantaggio

goduto dalle persone che avevano lavorato in Svizzera e versato contributi inferiori, se la Corte europea

accetta questa come una ragione di interesse generale, non è persuasa che si tratti di argomenti

abbastanza convincenti da superare i pericoli insiti nell’uso di una legislazione retroattiva, che ha

l’effetto di influenzare la determinazione giudiziaria di una controversia pendente in cui lo Stato era

parte.

3.2.― Ed è proprio con riguardo alle esposte argomentazioni alla base della citata sentenza Maggio

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che il rimettente sospetta ora la illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 777, della legge n. 296 del

2006 per contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della CEDU

come interpretato dalla pronuncia medesima.

Sottolinea il giudice rimettente che spetta a questa Corte il controllo del rispetto dei cosiddetti

controlimiti, tanto più nel caso di specie, in cui è già intervenuta una sua sentenza che ha vagliato la

disciplina sostanziale di cui si tratta in riferimento a diversi parametri costituzionali, nonché avuto

riguardo alle affermazioni della stessa Corte EDU, secondo cui fare salvi i motivi imperativi di interesse

generale che suggeriscono al legislatore nazionale interventi interpretativi deve lasciare ai singoli Stati

contraenti quanto meno «una parte del compito e dell’onere di identificarli, in quanto nella posizione

migliore per assolverlo, trattandosi, tra l’altro, degli interessi che sono alla base dell’esercizio del potere

legislativo».

4.― Ai fini dello scrutinio della questione proposta, giova richiamare la giurisprudenza

costituzionale sulla efficacia e sul ruolo delle norme CEDU chiamate ad integrare il parametro

dell’articolo 117, primo comma, Cost.

A partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, questa Corte ha costantemente ritenuto che «le

norme della CEDU – nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo,

specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione (art. 32, paragrafo 1, della

Convenzione) – integrano, quali norme interposte, il parametro costituzionale espresso dall’art. 117,

primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli

derivanti dagli obblighi internazionali» (sentenze n. 236, n. 113, n. 80 – che conferma la validità di tale

ricostruzione dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 – e n. 1 del 2011; n.

196 del 2010; n. 311 del 2009).

Nel caso in cui si profili un contrasto tra una norma interna e una norma della CEDU, quindi, «il

giudice nazionale comune deve preventivamente verificare la praticabilità di un’interpretazione della

prima conforme alla norma convenzionale, ricorrendo a tutti i normali strumenti di ermeneutica

giuridica» (sentenze n. 236 e n. 113 del 2011; n. 93 del 2010; n. 311 del 2009). Se questa verifica dà esito

negativo e il contrasto non può essere risolto in via interpretativa, il giudice comune, non potendo

disapplicare la norma interna né farne applicazione, avendola ritenuta in contrasto con la CEDU, nella

interpretazione che ne ha fornito la Corte di Strasburgo, e pertanto con la Costituzione, deve

denunciare la rilevata incompatibilità proponendo una questione di legittimità costituzionale in

riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., ovvero all’art. 10, primo comma, Cost., ove si tratti di una

norma convenzionale ricognitiva di una norma del diritto internazionale generalmente riconosciuta

(sentenze n. 113 del 2011, n. 93 del 2010 e n. 311 del 2009).

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4.1.― Nella giurisprudenza costituzionale si è, inoltre, reiteratamente affermato che, con

riferimento ad un diritto fondamentale, il rispetto degli obblighi internazionali non può mai essere causa

di una diminuzione di tutela rispetto a quelle già predisposte dall’ordinamento interno, ma può e deve,

viceversa, costituire strumento efficace di ampliamento della tutela stessa.

Del resto, l’art. 53 della stessa Convenzione stabilisce che l’interpretazione delle disposizioni

CEDU non può implicare livelli di tutela inferiori a quelli assicurati dalle fonti nazionali.

Di conseguenza, il confronto tra tutela prevista dalla Convenzione e tutela costituzionale dei diritti

fondamentali deve essere effettuato mirando alla massima espansione delle garanzie, concetto nel quale

deve essere compreso, come già chiarito nelle sentenze nn. 348 e 349 del 2007, il necessario

bilanciamento con altri interessi costituzionalmente protetti, cioè con altre norme costituzionali, che a

loro volta garantiscano diritti fondamentali che potrebbero essere incisi dall’espansione di una singola

tutela.

Il richiamo al «margine di apprezzamento» nazionale − elaborato dalla stessa Corte di Strasburgo, e

rilevante come temperamento alla rigidità dei principi formulati in sede europea − deve essere sempre

presente nelle valutazioni di questa Corte, cui non sfugge che la tutela dei diritti fondamentali deve

essere sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra

loro.

4.2.― In definitiva, se, come più volte affermato da questa Corte (sentenze n. 236, n. 113 e n. 1 del

2011, n. 93 del 2010, n. 311 e n. 239 del 2009, n. 39 del 2008, n. 349 e n. 348 del 2007), il giudice delle

leggi non può sostituire la propria interpretazione di una disposizione della CEDU a quella data in

occasione della sua applicazione al caso di specie dalla Corte di Strasburgo, con ciò superando i confini

delle proprie competenze in violazione di un preciso impegno assunto dallo Stato italiano con la

sottoscrizione e la ratifica, senza l’apposizione di riserve, della Convenzione, esso però è tenuto a

valutare come ed in quale misura l’applicazione della Convenzione da parte della Corte europea si

inserisca nell’ordinamento costituzionale italiano. La norma CEDU, nel momento in cui va ad integrare

il primo comma dell’art. 117 Cost., come norma interposta, diviene oggetto di bilanciamento, secondo

le ordinarie operazioni cui questa Corte è chiamata in tutti i giudizi di sua competenza (sent. n. 317 del

2009). Operazioni volte non già all’affermazione della primazia dell’ordinamento nazionale, ma alla

integrazione delle tutele.

5.― È in applicazione di tali principi che deve essere risolta la questione all’odierno esame.

5.1.― Il vincolo per la Corte, nel caso di specie, è costituito dalla applicazione che la Corte EDU ha

operato, nella sentenza Maggio, dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo,

stabilendo che «benché non sia precluso al corpo legislativo di disciplinare, mediante nuove disposizioni

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retroattive, diritti derivanti da leggi in vigore, il principio della preminenza del diritto e la nozione di

equo processo contenuti nel richiamato art. 6 precludono, tranne che per impellenti motivi di interesse

generale, l’interferenza del corpo legislativo nell’amministrazione della giustizia con il proposito di

influenzare la determinazione giudiziaria di una controversia». La Corte europea ha ritenuto di “non

essere persuasa” del fatto che il motivo di interesse generale fosse sufficientemente impellente da

superare i pericoli inerenti all’utilizzo della legislazione retroattiva, e perciò ha concluso che, nel caso ad

essa sottoposto, lo Stato aveva violato i diritti dei ricorrenti ai sensi della citata disposizione

convenzionale, intervenendo in modo decisivo per garantire che l’esito del procedimento in cui esso era

parte gli fosse favorevole.

5.2.― Peraltro, siffatta impostazione risulta sostanzialmente coincidente con i principi enunciati da

questa Corte con riguardo al divieto di retroattività della legge, che, pur costituendo valore

fondamentale di civiltà giuridica, non riceve nell’ordinamento la tutela privilegiata di cui all’art. 25 Cost.

(sentenze n. 15 del 2012, n. 236 del 2011 e n. 393 del 2006). Il legislatore, nel rispetto di tale previsione,

può emanare – come rilevato nelle citate sentenze – disposizioni retroattive, anche di interpretazione

autentica, purché la retroattività trovi adeguata giustificazione nella esigenza di tutelare principi, diritti e

beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti «motivi imperativi di interesse generale» ai

sensi della giurisprudenza della Corte EDU.

La richiamata disposizione convenzionale, come applicata dalla Corte europea, integra, quindi,

pianamente il parametro dell’articolo 117, primo comma, della Costituzione, rispetto al quale il Collegio

rimettente ripropone il dubbio di illegittimità costituzionale dell’articolo 1, comma 777, della legge n.

296 del 2006.

5.3.― Tuttavia, nell’attività di bilanciamento con altri interessi costituzionalmente protetti cui, come

dianzi chiarito, anche in questo caso è chiamata questa Corte, rispetto alla tutela dell’interesse sotteso al

parametro come sopra integrato prevale quella degli interessi antagonisti, di pari rango costituzionale,

complessivamente coinvolti nella disciplina recata dalla disposizione censurata. In relazione alla quale

sussistono, quindi quei preminenti interessi generali che giustificano il ricorso alla legislazione

retroattiva.

Ed infatti, gli effetti di detta disposizione ricadono nell’ambito di un sistema previdenziale tendente

alla corrispondenza tra le risorse disponibili e le prestazioni erogate, anche in ossequio al vincolo

imposto dall’articolo 81, quarto comma, della Costituzione, ed assicura la razionalità complessiva del

sistema stesso (sent. n. 172 del 2008), impedendo alterazioni della disponibilità economica a svantaggio

di alcuni contribuenti ed a vantaggio di altri, e così garantendo il rispetto dei principi di uguaglianza e di

solidarietà, che, per il loro carattere fondante, occupano una posizione privilegiata nel bilanciamento

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con gli altri valori costituzionali.

È ispirata, invero, ai principi di uguaglianza e di proporzionalità una legge che tenga conto della

circostanza che i contributi versati in Svizzera siano quattro volte inferiori a quelli versati in Italia e

operi, quindi, una riparametrazione diretta a rendere i contributi proporzionati alle prestazioni, a

livellare i trattamenti, per evitare sperequazioni e a rendere sostenibile l’equilibrio del sistema

previdenziale a garanzia di coloro che usufruiscono delle sue prestazioni.

5.4.― Né è priva di rilievo la circostanza che la sentenza della Corte EDU, che è tenuta a tutelare in

modo parcellizzato, con riferimento a singoli diritti, i diversi valori in giuoco, da un lato, ritenga

sussistente, nella specie, la violazione del diritto dei ricorrenti ad un equo processo, solo per questo

riconoscendo loro un indennizzo, e, dall’altro, escluda la violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1,

pur denunciata dai ricorrenti sotto il profilo dell’ingerenza nel pacifico godimento dei loro beni

attraverso la riduzione della pensione.

La esclusione della violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 è motivata dai giudici europei alla

stregua della considerazione che la legge n. 296 del 2006 persegue un interesse pubblico, quello di

fornire un metodo di calcolo della pensione armonizzato, al fine di garantire un sistema previdenziale

sostenibile e bilanciato, evitando che i ricorrenti possano beneficiare di vantaggi ingiustificati, e che il

sacrificio subito da costoro non è tale da pregiudicarne i diritti pensionistici nella loro essenza, avendo

essi perso solo un ammontare parziale della pensione. Pertanto, la sentenza, non senza considerare

«l’ampio margine di apprezzamento dello Stato nel disciplinare il suo sistema pensionistico», rigetta la

domanda di riliquidazione della pensione.

A differenza della Corte EDU, questa Corte, come dianzi precisato, opera una valutazione

sistemica, e non isolata, dei valori coinvolti dalla norma di volta in volta scrutinata, ed è, quindi, tenuta a

quel bilanciamento, solo ad essa spettante, che, nella specie, dà appunto luogo alla soluzione indicata.

E ciò anche considerando, a contrario, che una declaratoria che non fosse di infondatezza della

questione, e che espungesse, quindi, la norma censurata dall’ordinamento, inciderebbe necessariamente

sul regime pensionistico in esame, così contraddicendo non solo il sistema nazionale di valori nella loro

interazione, ma anche la sostanza della decisione della Corte EDU di cui si tratta, che ha negato

accoglimento alla domanda dei ricorrenti di riconoscimento del criterio di calcolo della contribuzione

ad essi più favorevole.

Conclusivamente, la questione di legittimità costituzionale sollevata con l’ordinanza in epigrafe

deve essere dichiarata non fondata.

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PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1, comma 777, della legge

27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato

– legge finanziaria 2007), sollevata dalla Corte di cassazione, sezione lavoro, in riferimento all’articolo

117, primo comma, della Costituzione in relazione all’articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione

europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4

novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della

Convezione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a

Roma il 4 novembre 1950, e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20

marzo 1952), come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 novembre

2012.

3 Cedu ed ordinamento nazionale

3.1 Corte Costituzionale, 24 ottobre 2007, n. 348 e 349 : Il rango delle norme

Cedu nell’ordinamento interno

SENTENZA N. 348 ANNO 2007

TESTO DELLA SENTENZA

Ritenuto in fatto (OMISSIS)

Considerato in diritto

1. – Con tre distinte ordinanze la Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 5-bis del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, per violazione dell'art. 111, primo e secondo comma, della Costituzione, in relazione all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, cui è stata data esecuzione con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4

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novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), ed all'art. 1 del primo Protocollo della Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, nonché dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione ai citati artt. 6 CEDU e 1 del primo Protocollo.

La norma è oggetto di censura nella parte in cui, ai fini della determinazione dell'indennità di espropriazione dei suoli edificabili, prevede il criterio di calcolo fondato sulla media tra il valore dei beni e il reddito dominicale rivalutato, disponendone altresì l'applicazione ai giudizi in corso alla data dell'entrata in vigore della legge n. 359 del 1992.

2. – I giudizi, per l'identità dell'oggetto e dei parametri costituzionali evocati, possono essere riuniti e decisi con la medesima sentenza.

3. – Preliminarmente, occorre valutare la ricostruzione, prospettata dalla parte privata A.C., dei rapporti tra sistema CEDU, obblighi derivanti dalle asserite violazioni strutturali accertate con sentenze definitive della Corte europea e giudici nazionali.

3.1. – Secondo la suddetta parte privata, il contrasto, ove accertato, tra norme interne e sistema CEDU dovrebbe essere risolto con la disapplicazione delle prime da parte del giudice comune. Viene richiamato, in proposito, il Protocollo n. 11 della Convenzione EDU, reso esecutivo in Italia con la legge 28 agosto 1997, n. 296 (Ratifica ed esecuzione del protocollo n. 11 alla convenzione di salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, recante ristrutturazione del meccanismo di controllo stabilito dalla convenzione, fatto a Strasburgo l'11 maggio 1994). L'art. 34 di tale Protocollo prevede la possibilità di ricorsi individuali diretti alla Corte europea da parte dei cittadini degli Stati contraenti, mentre, con l'art. 46, gli stessi Stati si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle controversie delle quali sono parti.

Sono parimenti invocate la Risoluzione 1226 (2000) dell'Assemblea Parlamentare del Consiglio d'Europa, con la quale le Alte Parti contraenti sono invitate ad adottare le misure necessarie per dare esecuzione alle sentenze definitive della Corte di Strasburgo, la Risoluzione Res(2004)3 del 12 maggio 2004 del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, relativa alle sentenze che accertano un problema strutturale sottostante alla violazione, la Raccomandazione Rec(2004)5, di pari data, del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, relativa alla verifica di conformità dei progetti di legge, delle leggi vigenti e della prassi amministrativa agli standard stabiliti dalla Convenzione, nonché la Raccomandazione Rec(2004)6, di pari data, con cui il Comitato dei ministri ha ribadito che gli Stati contraenti, a seguito delle sentenze della Corte che individuano carenze di carattere strutturale o generale dell'ordinamento normativo o delle prassi nazionali applicative, sono tenuti a rivedere l'efficacia dei rimedi interni esistenti e, se necessario, ad instaurare validi rimedi, al fine di evitare che la Corte venga adita per casi ripetitivi.

3.2. – La prospettata ricostruzione funge da premessa alla richiesta, avanzata dalla predetta parte privata, che la questione sia dichiarata inammissibile, posto che i giudici comuni avrebbero il dovere di disapplicare le norme interne che la Corte europea abbia ritenuto essere causa di violazione strutturale della Convenzione.

3.3. – L'eccezione di inammissibilità non può essere accolta. Questa Corte ha chiarito come le norme comunitarie «debbano avere piena efficacia obbligatoria e

diretta applicazione in tutti gli Stati membri, senza la necessità di leggi di ricezione e adattamento, come atti aventi forza e valore di legge in ogni Paese della Comunità, sì da entrare ovunque contemporaneamente in vigore e conseguire applicazione eguale ed uniforme nei confronti di tutti i destinatari» (sentenze n. 183 del 1973 e n. 170 del 1984). Il fondamento costituzionale di tale efficacia diretta è stato individuato nell'art. 11 Cost., nella parte in cui consente le limitazioni della sovranità nazionale necessarie per promuovere e favorire le organizzazioni internazionali rivolte ad assicurare la pace e la giustizia fra le Nazioni.

Il riferito indirizzo giurisprudenziale non riguarda le norme CEDU, giacché questa Corte aveva escluso, già prima di sancire la diretta applicabilità delle norme comunitarie nell'ordinamento interno, che potesse venire in considerazione, a proposito delle prime, l'art. 11 Cost. «non essendo individuabile, con riferimento alle specifiche norme pattizie in esame, alcuna limitazione della sovranità nazionale»

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(sentenza n. 188 del 1980). La distinzione tra le norme CEDU e le norme comunitarie deve essere ribadita nel presente procedimento nei termini stabiliti dalla pregressa giurisprudenza di questa Corte, nel senso che le prime, pur rivestendo grande rilevanza, in quanto tutelano e valorizzano i diritti e le libertà fondamentali delle persone, sono pur sempre norme internazionali pattizie, che vincolano lo Stato, ma non producono effetti diretti nell'ordinamento interno, tali da affermare la competenza dei giudici nazionali a darvi applicazione nelle controversie ad essi sottoposte, non applicando nello stesso tempo le norme interne in eventuale contrasto.

L'art. 117, primo comma, Cost., nel testo introdotto nel 2001 con la riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione, ha confermato il precitato orientamento giurisprudenziale di questa Corte. La disposizione costituzionale ora richiamata distingue infatti, in modo significativo, i vincoli derivanti dall'«ordinamento comunitario» da quelli riconducibili agli «obblighi internazionali».

Si tratta di una differenza non soltanto terminologica, ma anche sostanziale. Con l'adesione ai Trattati comunitari, l'Italia è entrata a far parte di un “ordinamento” più ampio, di

natura sopranazionale, cedendo parte della sua sovranità, anche in riferimento al potere legislativo, nelle materie oggetto dei Trattati medesimi, con il solo limite dell'intangibilità dei principi e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione.

La Convenzione EDU, invece, non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce quindi norme direttamente applicabili negli Stati contraenti. Essa è configurabile come un trattato internazionale multilaterale – pur con le caratteristiche peculiari che saranno esaminate più avanti – da cui derivano “obblighi” per gli Stati contraenti, ma non l'incorporazione dell'ordinamento giuridico italiano in un sistema più vasto, dai cui organi deliberativi possano promanare norme vincolanti, omisso medio, per tutte le autorità interne degli Stati membri.

Correttamente il giudice a quo ha escluso di poter risolvere il dedotto contrasto della norma censurata con una norma CEDU, come interpretata dalla Corte di Strasburgo, procedendo egli stesso a disapplicare la norma interna asseritamente non compatibile con la seconda. Le Risoluzioni e Raccomandazioni citate dalla parte interveniente si indirizzano agli Stati contraenti e non possono né vincolare questa Corte, né dare fondamento alla tesi della diretta applicabilità delle norme CEDU ai rapporti giuridici interni.

3.4. – Si condivide anche l'esclusione – argomentata nelle ordinanze di rimessione – delle norme CEDU, in quanto norme pattizie, dall'ambito di operatività dell'art. 10, primo comma, Cost., in conformità alla costante giurisprudenza di questa Corte sul punto. La citata disposizione costituzionale, con l'espressione «norme del diritto internazionale generalmente riconosciute», si riferisce soltanto alle norme consuetudinarie e dispone l'adattamento automatico, rispetto alle stesse, dell'ordinamento giuridico italiano. Le norme pattizie, ancorché generali, contenute in trattati internazionali bilaterali o multilaterali, esulano pertanto dalla portata normativa del suddetto art. 10. Di questa categoria fa parte la CEDU, con la conseguente «impossibilità di assumere le relative norme quali parametri del giudizio di legittimità costituzionale, di per sé sole (sentenza n. 188 del 1980), ovvero come norme interposte ex art. 10 della Costituzione» (ordinanza n. 143 del 1993; conformi, ex plurimis, sentenze n. 153 del 1987, n. 168 del 1994, n. 288 del 1997, n. 32 del 1999, ed ordinanza n. 464 del 2005).

4. – La questione di legittimità costituzionale dell'art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, sollevata in riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., è fondata.

4.1. – La questione, così come proposta dal giudice rimettente, si incentra sul presunto contrasto tra la norma censurata e l'art. 1 del primo Protocollo della CEDU, quale interpretato dalla Corte europea per i diritti dell'uomo, in quanto i criteri di calcolo per determinare l'indennizzo dovuto ai proprietari di aree edificabili espropriate per motivi di pubblico interesse condurrebbero alla corresponsione di somme non congruamente proporzionate al valore dei beni oggetto di ablazione.

Il parametro evocato negli atti introduttivi del presente giudizio è l'art. 117, primo comma, Cost., nel testo introdotto dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione). Il giudice rimettente ricorda infatti che la stessa norma ora censurata è già

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stata oggetto di scrutinio di costituzionalità da parte di questa Corte, che ha rigettato la questione di legittimità costituzionale, allora proposta in relazione agli artt. 3, 24, 42, 53, 71, 72, 113 e 117 Cost. (sentenza n. 283 del 1993). La sentenza citata è stata successivamente confermata da altre pronunce di questa Corte del medesimo tenore. Il rimettente non chiede oggi alla Corte costituzionale di modificare la propria consolidata giurisprudenza nella materia de qua, ma mette in rilievo che il testo riformato dell'art. 117, primo comma, Cost., renderebbe necessaria una nuova valutazione della norma censurata in relazione a questo parametro, non esistente nel periodo in cui la pregressa giurisprudenza costituzionale si è formata.

4.2. – Impostata in tal modo la questione da parte del rimettente, è in primo luogo necessario riconsiderare la posizione e il ruolo delle norme della CEDU, allo scopo di verificare, alla luce della nuova disposizione costituzionale, la loro incidenza sull'ordinamento giuridico italiano.

L'art. 117, primo comma, Cost. condiziona l'esercizio della potestà legislativa dello Stato e delle Regioni al rispetto degli obblighi internazionali, tra i quali indubbiamente rientrano quelli derivanti dalla Convenzione europea per i diritti dell'uomo. Prima della sua introduzione, l'inserimento delle norme internazionali pattizie nel sistema delle fonti del diritto italiano era tradizionalmente affidato, dalla dottrina prevalente e dalla stessa Corte costituzionale, alla legge di adattamento, avente normalmente rango di legge ordinaria e quindi potenzialmente modificabile da altre leggi ordinarie successive. Da tale collocazione derivava, come naturale corollario, che le stesse norme non potevano essere assunte quali parametri del giudizio di legittimità costituzionale (ex plurimis, sentenze n. 188 del 1980, n. 315 del 1990, n. 388 del 1999).

4.3. – Rimanevano notevoli margini di incertezza, dovuti alla difficile individuazione del rango delle norme CEDU, che da una parte si muovevano nell'ambito della tutela dei diritti fondamentali delle persone, e quindi integravano l'attuazione di valori e principi fondamentali protetti dalla stessa Costituzione italiana, ma dall'altra mantenevano la veste formale di semplici fonti di grado primario. Anche a voler escludere che il legislatore potesse modificarle o abrogarle a piacimento, in quanto fonti atipiche (secondo quanto affermato nella sentenza n. 10 del 1993 di questa Corte, non seguita tuttavia da altre pronunce dello stesso tenore), restava il problema degli effetti giuridici di una possibile disparità di contenuto tra le stesse ed una norma legislativa posteriore.

Tale situazione di incertezza ha spinto alcuni giudici comuni a disapplicare direttamente le norme legislative in contrasto con quelle CEDU, quali interpretate dalla Corte di Strasburgo. S'è fatta strada in talune pronunce dei giudici di merito, ma anche in parte della giurisprudenza di legittimità (Cass., sez. I, sentenza n. 6672 del 1998; Cass., sezioni unite, sentenza n. 28507 del 2005), l'idea che la specifica antinomia possa essere eliminata con i normali criteri di composizione in sistema delle fonti del diritto. In altre parole, si è creduto di poter trarre da un asserito carattere sovraordinato della fonte CEDU la conseguenza che la norma interna successiva, modificativa o abrogativa di una norma prodotta da tale fonte, fosse inefficace, per la maggior forza passiva della stessa fonte CEDU, e che tale inefficacia potesse essere la base giustificativa della sua non applicazione da parte del giudice comune.

Oggi questa Corte è chiamata a fare chiarezza su tale problematica normativa e istituzionale, avente rilevanti risvolti pratici nella prassi quotidiana degli operatori del diritto. Oltre alle considerazioni che sono state svolte nel paragrafo 3.3 (per più ampi svolgimenti si rinvia alla sentenza n. 349 del 2007), si deve aggiungere che il nuovo testo dell'art. 117, primo comma, Cost, se da una parte rende inconfutabile la maggior forza di resistenza delle norme CEDU rispetto a leggi ordinarie successive, dall'altra attrae le stesse nella sfera di competenza di questa Corte, poiché gli eventuali contrasti non generano problemi di successione delle leggi nel tempo o valutazioni sulla rispettiva collocazione gerarchica delle norme in contrasto, ma questioni di legittimità costituzionale. Il giudice comune non ha, dunque, il potere di disapplicare la norma legislativa ordinaria ritenuta in contrasto con una norma CEDU, poiché l'asserita incompatibilità tra le due si presenta come una questione di legittimità costituzionale, per eventuale violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., di esclusiva competenza del giudice delle leggi.

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Ogni argomentazione atta ad introdurre nella pratica, anche in modo indiretto, una sorta di “adattamento automatico”, sul modello dell'art. 10, primo comma, Cost., si pone comunque in contrasto con il sistema delineato dalla Costituzione italiana – di cui s'è detto al paragrafo 3.4 – e più volte ribadito da questa Corte, secondo cui l'effetto previsto nella citata norma costituzionale non riguarda le norme pattizie (ex plurimis, sentenze n. 32 del 1960, n. 323 del 1989, n. 15 del 1996).

4.4. – Escluso che l'art. 117, primo comma, Cost., nel nuovo testo, possa essere ritenuto una mera riproduzione in altra forma di norme costituzionali preesistenti (in particolare gli artt. 10 e 11), si deve pure escludere che lo stesso sia da considerarsi operante soltanto nell'ambito dei rapporti tra lo Stato e le Regioni. L'utilizzazione del criterio interpretativo sistematico, isolato dagli altri e soprattutto in contrasto con lo stesso enunciato normativo, non è sufficiente a circoscrivere l'effetto condizionante degli obblighi internazionali, rispetto alla legislazione statale, soltanto al sistema dei rapporti con la potestà legislativa regionale. Il dovere di rispettare gli obblighi internazionali incide globalmente e univocamente sul contenuto della legge statale; la validità di quest'ultima non può mutare a seconda che la si consideri ai fini della delimitazione delle sfere di competenza legislativa di Stato e Regioni o che invece la si prenda in esame nella sua potenzialità normativa generale. La legge – e le norme in essa contenute – è sempre la stessa e deve ricevere un'interpretazione uniforme, nei limiti in cui gli strumenti istituzionali predisposti per l'applicazione del diritto consentono di raggiungere tale obiettivo.

Del resto, anche se si restringesse la portata normativa dell'art. 117, primo comma, Cost. esclusivamente all'interno del sistema dei rapporti tra potestà legislativa statale e regionale configurato dal titolo V della parte seconda della Costituzione, non si potrebbe negare che esso vale comunque a vincolare la potestà legislativa dello Stato sia nelle materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo, di competenza esclusiva statale, sia in quelle indicate dal terzo comma, di competenza concorrente. Poiché, dopo la riforma del titolo V, lo Stato possiede competenza legislativa esclusiva o concorrente soltanto nelle materie elencate dal secondo e dal terzo comma, rimanendo ricomprese tutte le altre nella competenza residuale delle Regioni, l'operatività del primo comma dell'art. 117, anche se considerata solo all'interno del titolo V, si estenderebbe ad ogni tipo di potestà legislativa, statale o regionale che sia, indipendentemente dalla sua collocazione.

4.5. – La struttura della norma costituzionale, rispetto alla quale è stata sollevata la presente questione, si presenta simile a quella di altre norme costituzionali, che sviluppano la loro concreta operatività solo se poste in stretto collegamento con altre norme, di rango sub-costituzionale, destinate a dare contenuti ad un parametro che si limita ad enunciare in via generale una qualità che le leggi in esso richiamate devono possedere. Le norme necessarie a tale scopo sono di rango subordinato alla Costituzione, ma intermedio tra questa e la legge ordinaria. A prescindere dall'utilizzazione, per indicare tale tipo di norme, dell'espressione “fonti interposte”, ricorrente in dottrina ed in una nutrita serie di pronunce di questa Corte (ex plurimis, sentenze n. 101 del 1989, n. 85 del 1990, n. 4 del 2000, n. 533 del 2002, n. 108 del 2005, n. 12 del 2006, n. 269 del 2007), ma di cui viene talvolta contestata l'idoneità a designare una categoria unitaria, si deve riconoscere che il parametro costituito dall'art. 117, primo comma, Cost. diventa concretamente operativo solo se vengono determinati quali siano gli “obblighi internazionali” che vincolano la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni. Nel caso specifico sottoposto alla valutazione di questa Corte, il parametro viene integrato e reso operativo dalle norme della CEDU, la cui funzione è quindi di concretizzare nella fattispecie la consistenza degli obblighi internazionali dello Stato.

4.6. – La CEDU presenta, rispetto agli altri trattati internazionali, la caratteristica peculiare di aver previsto la competenza di un organo giurisdizionale, la Corte europea per i diritti dell'uomo, cui è affidata la funzione di interpretare le norme della Convenzione stessa. Difatti l'art. 32, paragrafo 1, stabilisce: «La competenza della Corte si estende a tutte le questioni concernenti l'interpretazione e l'applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli che siano sottoposte ad essa alle condizioni previste negli articoli 33, 34 e 47».

Poiché le norme giuridiche vivono nell'interpretazione che ne danno gli operatori del diritto, i giudici in primo luogo, la naturale conseguenza che deriva dall'art. 32, paragrafo 1, della Convenzione è

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che tra gli obblighi internazionali assunti dall'Italia con la sottoscrizione e la ratifica della CEDU vi è quello di adeguare la propria legislazione alle norme di tale trattato, nel significato attribuito dalla Corte specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione. Non si può parlare quindi di una competenza giurisdizionale che si sovrappone a quella degli organi giudiziari dello Stato italiano, ma di una funzione interpretativa eminente che gli Stati contraenti hanno riconosciuto alla Corte europea, contribuendo con ciò a precisare i loro obblighi internazionali nella specifica materia.

4.7. – Quanto detto sinora non significa che le norme della CEDU, quali interpretate dalla Corte di Strasburgo, acquistano la forza delle norme costituzionali e sono perciò immuni dal controllo di legittimità costituzionale di questa Corte. Proprio perché si tratta di norme che integrano il parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre ad un livello sub-costituzionale, è necessario che esse siano conformi a Costituzione. La particolare natura delle stesse norme, diverse sia da quelle comunitarie sia da quelle concordatarie, fa sì che lo scrutinio di costituzionalità non possa limitarsi alla possibile lesione dei principi e dei diritti fondamentali (ex plurimis, sentenze n. 183 del 1973, n. 170 del 1984, n. 168 del 1991, n. 73 del 2001, n. 454 del 2006) o dei principi supremi (ex plurimis, sentenze n. 30 e n. 31 del 1971, n. 12 e n. 195 del 1972, n. 175 del 1973, n. 1 del 1977, n. 16 del 1978, n. 16 e n. 18 del 1982, n. 203 del 1989), ma debba estendersi ad ogni profilo di contrasto tra le “norme interposte” e quelle costituzionali.

L'esigenza che le norme che integrano il parametro di costituzionalità siano esse stesse conformi alla Costituzione è assoluta e inderogabile, per evitare il paradosso che una norma legislativa venga dichiarata incostituzionale in base ad un'altra norma sub-costituzionale, a sua volta in contrasto con la Costituzione. In occasione di ogni questione nascente da pretesi contrasti tra norme interposte e norme legislative interne, occorre verificare congiuntamente la conformità a Costituzione di entrambe e precisamente la compatibilità della norma interposta con la Costituzione e la legittimità della norma censurata rispetto alla stessa norma interposta.

Nell'ipotesi di una norma interposta che risulti in contrasto con una norma costituzionale, questa Corte ha il dovere di dichiarare l'inidoneità della stessa ad integrare il parametro, provvedendo, nei modi rituali, ad espungerla dall'ordinamento giuridico italiano.

Poiché, come chiarito sopra, le norme della CEDU vivono nell'interpretazione che delle stesse viene data dalla Corte europea, la verifica di compatibilità costituzionale deve riguardare la norma come prodotto dell'interpretazione, non la disposizione in sé e per sé considerata. Si deve peraltro escludere che le pronunce della Corte di Strasburgo siano incondizionatamente vincolanti ai fini del controllo di costituzionalità delle leggi nazionali. Tale controllo deve sempre ispirarsi al ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall'art. 117, primo comma, Cost., e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione.

In sintesi, la completa operatività delle norme interposte deve superare il vaglio della loro compatibilità con l'ordinamento costituzionale italiano, che non può essere modificato da fonti esterne, specie se queste non derivano da organizzazioni internazionali rispetto alle quali siano state accettate limitazioni di sovranità come quelle previste dall'art. 11 della Costituzione.

5. – Alla luce dei principi metodologici illustrati sino a questo punto, lo scrutinio di legittimità costituzionale chiesto dalla Corte rimettente deve essere condotto in modo da verificare: a) se effettivamente vi sia contrasto non risolvibile in via interpretativa tra la norma censurata e le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte europea ed assunte come fonti integratrici del parametro di costituzionalità di cui all'art. 117, primo comma, Cost.; b) se le norme della CEDU invocate come integrazione del parametro, nell'interpretazione ad esse data dalla medesima Corte, siano compatibili con l'ordinamento costituzionale italiano.

5.1. – (omissis) 6- La dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma censurata in riferimento all'art. 117,

primo comma, Cost., rende superflua ogni valutazione sul dedotto contrasto con l'art. 111 Cost., in rapporto all'applicabilità della stessa norma ai giudizi in corso al momento della sua entrata in vigore, poiché, ai sensi dell'art. 30, terzo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, essa non potrà avere più applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione delle presente sentenza.

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7. – Ai sensi dell'art. 27 della legge n. 87 del 1953, deve essere dichiarata l'illegittimità costituzionale, in via consequenziale, dei commi 1 e 2 dell'art. 37 del d.P.R. n. 327 del 2001, che contengono norme identiche a quelle dichiarate in contrasto con la Costituzione dalla presente sentenza.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 5-bis, commi 1 e 2, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359;

dichiara, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale, in via consequenziale, dell'art. 37, commi 1 e 2, del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità).

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 ottobre 2007.

SENTENZA N. 349 ANNO 2007

TESTO DELLA SENTENZA

Ritenuto in fatto (omissis)

Considerato in diritto

1. – Le questioni sollevate dalla Corte di cassazione e dalla Corte d'appello di Palermo investono l'art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica) – convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359 –, comma aggiunto dall'art. 3, comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), il quale stabilisce: «In caso di occupazioni illegittime di suoli per causa di pubblica utilità, intervenute anteriormente al 30 settembre 1996, si applicano, per la liquidazione del danno, i criteri di determinazione dell'indennità di cui al comma 1, con esclusione della riduzione del 40 per cento. In tal caso l'importo del risarcimento è altresì aumentato del 10 per cento. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche ai procedimenti in corso non definiti con sentenza passata in giudicato». Secondo le ordinanze di rimessione, la norma si porrebbe in contrasto con l'art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 (infra, CEDU), ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), ed all'art. 1 del Protocollo addizionale, in quanto, disponendo l'applicabilità ai giudizi in corso della disciplina dalla stessa stabilita in tema di risarcimento del danno da occupazione illegittima e quantificando in misura incongrua il relativo indennizzo, violerebbe il principio del giusto processo ed il diritto di proprietà di cui

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rispettivamente ai citati artt. 6 ed 1, come interpretati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, quindi violerebbe i corrispondenti obblighi internazionali assunti dallo Stato. Inoltre, detta disposizione si porrebbe in contrasto anche con l'art. 111, primo e secondo comma, Cost., in relazione all'art. 6 della CEDU, poiché la previsione della sua applicabilità ai giudizi in corso violerebbe il principio del giusto processo, in particolare sotto il profilo della parità delle parti, da ritenersi leso da un intervento del legislatore diretto ad imporre una determinata soluzione ad una circoscritta e specifica categoria di controversie. 4 – (omissis) 6. – La questione sollevata in riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., è fondata. 6.1. – In considerazione del parametro costituzionale evocato dai giudici a quibus e delle argomentazioni svolte in entrambe le ordinanze di rimessione, il preliminare profilo da affrontare è quello delle conseguenze del prospettato contrasto della norma interna con «i vincoli derivanti […] dagli obblighi internazionali» e, in particolare, con gli obblighi imposti dalle evocate disposizioni della CEDU e del Protocollo addizionale. In generale, la giurisprudenza di questa Corte, nell'interpretare le disposizioni della Costituzione che fanno riferimento a norme e ad obblighi internazionali – per quanto qui interessa, gli artt. 7, 10 ed 11 Cost. – ha costantemente affermato che l'art. 10, primo comma, Cost., il quale sancisce l'adeguamento automatico dell'ordinamento interno alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, concerne esclusivamente i princìpi generali e le norme di carattere consuetudinario (per tutte, sentenze n. 73 del 2001, n. 15 del 1996, n. 168 del 1994), mentre non comprende le norme contenute in accordi internazionali che non riproducano princìpi o norme consuetudinarie del diritto internazionale. Per converso, l'art. 10, secondo comma, e l'art. 7 Cost. fanno riferimento a ben identificati accordi, concernenti rispettivamente la condizione giuridica dello straniero e i rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica e pertanto non possono essere riferiti a norme convenzionali diverse da quelle espressamente menzionate. L'art. 11 Cost., il quale stabilisce, tra l'altro, che l'Italia «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni», è invece la disposizione che ha permesso di riconoscere alle norme comunitarie efficacia obbligatoria nel nostro ordinamento (sentenze n. 284 del 2007; n. 170 del 1984). Con riguardo alle disposizioni della CEDU, questa Corte ha più volte affermato che, in mancanza di una specifica previsione costituzionale, le medesime, rese esecutive nell'ordinamento interno con legge ordinaria, ne acquistano il rango e quindi non si collocano a livello costituzionale (tra le molte, per la continuità dell'orientamento, sentenze n. 388 del 1999, n. 315 del 1990, n. 188 del 1980; ordinanza n. 464 del 2005). Ed ha altresì ribadito l'esclusione delle norme meramente convenzionali dall'ambito di operatività dell'art. 10, primo comma, Cost. (oltre alle pronunce sopra richiamate, si vedano le sentenze n. 224 del 2005, n. 288 del 1997, n. 168 del 1994). L'inconferenza, in relazione alle norme della CEDU, e per quanto qui interessa, del parametro dell'art. 10, secondo comma, Cost., è resa chiara dal preciso contenuto di tale disposizione. Né depongono in senso diverso i precedenti di questa Corte in cui si è fatto riferimento anche a quel parametro, dato che ciò è accaduto essenzialmente in considerazione della coincidenza delle disposizioni della CEDU con le fonti convenzionali relative al trattamento dello straniero: ed è appunto questa la circostanza della quale le pronunce in questione si sono limitate a dare atto (sentenze n. 125 del 1977, n. 120 del 1967). In riferimento alla CEDU, questa Corte ha, inoltre, ritenuto che l'art. 11 Cost. «neppure può venire in considerazione non essendo individuabile, con riferimento alle specifiche norme convenzionali in esame, alcuna limitazione della sovranità nazionale» (sentenza n. 188 del 1980), conclusione che si intende in questa sede ribadire. Va inoltre sottolineato che i diritti fondamentali non possono considerarsi una “materia” in relazione alla quale sia allo stato ipotizzabile, oltre che un'attribuzione di competenza limitata all'interpretazione della Convenzione, anche una cessione di sovranità.

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Né la rilevanza del parametro dell'art. 11 può farsi valere in maniera indiretta, per effetto della qualificazione, da parte della Corte di giustizia della Comunità europea, dei diritti fondamentali oggetto di disposizioni della CEDU come princìpi generali del diritto comunitario. È vero, infatti, che una consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia, anche a seguito di prese di posizione delle Corti costituzionali di alcuni Paesi membri, ha fin dagli anni settanta affermato che i diritti fondamentali, in particolare quali risultano dalla CEDU, fanno parte dei princìpi generali di cui essa garantisce l'osservanza. È anche vero che tale giurisprudenza è stata recepita nell'art. 6 del Trattato sull'Unione Europea e, estensivamente, nella Carta dei diritti fondamentali proclamata a Nizza da altre tre istituzioni comunitarie, atto formalmente ancora privo di valore giuridico ma di riconosciuto rilievo interpretativo (sentenza n. 393 del 2006). In primo luogo, tuttavia, il Consiglio d'Europa, cui afferiscono il sistema di tutela dei diritti dell'uomo disciplinato dalla CEDU e l'attività interpretativa di quest'ultima da parte della Corte dei diritti dell'uomo di Strasburgo, è una realtà giuridica, funzionale e istituzionale, distinta dalla Comunità europea creata con i Trattati di Roma del 1957 e dall'Unione europea oggetto del Trattato di Maastricht del 1992. In secondo luogo, la giurisprudenza è sì nel senso che i diritti fondamentali fanno parte integrante dei princìpi generali del diritto comunitario di cui il giudice comunitario assicura il rispetto, ispirandosi alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri ed in particolare alla Convenzione di Roma (da ultimo, su rinvio pregiudiziale della Corte Costituzionale belga, sentenza 26 giugno 2007, causa C-305/05, Ordini avvocati c. Consiglio, punto 29). Tuttavia, tali princìpi rilevano esclusivamente rispetto a fattispecie alle quali tale diritto sia applicabile: in primis gli atti comunitari, poi gli atti nazionali di attuazione di normative comunitarie, infine le deroghe nazionali a norme comunitarie asseritamente giustificate dal rispetto dei diritti fondamentali (sentenza 18 giugno 1991, C-260/89, ERT). La Corte di giustizia ha infatti precisato che non ha tale competenza nei confronti di normative che non entrano nel campo di applicazione del diritto comunitario (sentenza 4 ottobre 1991, C-159/90, Society for the Protection of Unborn Children Ireland; sentenza 29 maggio 1998, C-299/95, Kremzow): ipotesi che si verifica precisamente nel caso di specie. In terzo luogo, anche a prescindere dalla circostanza che al momento l'Unione europea non è parte della CEDU, resta comunque il dato dell'appartenenza da tempo di tutti gli Stati membri dell'Unione al Consiglio d'Europa ed al sistema di tutela dei diritti fondamentali che vi afferisce, con la conseguenza che il rapporto tra la CEDU e gli ordinamenti giuridici degli Stati membri, non essendovi in questa materia una competenza comune attribuita alle (né esercitata dalle) istituzioni comunitarie, è un rapporto variamente ma saldamente disciplinato da ciascun ordinamento nazionale. Né, infine, le conclusioni della Presidenza del Consiglio europeo di Bruxelles del 21 e 22 giugno 2007 e le modifiche dei trattati ivi prefigurate e demandate alla conferenza intergovernativa sono allo stato suscettibili di alterare il quadro giuridico appena richiamato. Altrettanto inesatto è sostenere che la incompatibilità della norma interna con la norma della CEDU possa trovare rimedio nella semplice non applicazione da parte del giudice comune. Escluso che ciò possa derivare dalla generale “comunitarizzazione” delle norme della CEDU, per le ragioni già precisate, resta da chiedersi se sia possibile attribuire a tali norme, ed in particolare all'art. 1 del Protocollo addizionale, l'effetto diretto, nel senso e con le implicazioni proprie delle norme comunitarie provviste di tale effetto, in particolare la possibilità per il giudice nazionale di applicarle direttamente in luogo delle norme interne con esse confliggenti. E la risposta è che, allo stato, nessun elemento relativo alla struttura e agli obiettivi della CEDU ovvero ai caratteri di determinate norme consente di ritenere che la posizione giuridica dei singoli possa esserne direttamente e immediatamente tributaria, indipendentemente dal tradizionale diaframma normativo dei rispettivi Stati di appartenenza, fino al punto da consentire al giudice la non applicazione della norma interna confliggente. Le stesse sentenze della Corte di Strasburgo, anche quando è il singolo ad attivare il controllo giurisdizionale nei confronti del proprio Stato di appartenenza, si rivolgono allo Stato membro legislatore e da questo pretendono un determinato comportamento. Ciò è tanto più evidente quando, come nella specie, si tratti di un

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contrasto “strutturale” tra la conferente normativa nazionale e le norme CEDU così come interpretate dal giudice di Strasburgo e si richieda allo Stato membro di trarne le necessarie conseguenze. 6.1.1. – Nella giurisprudenza di questa Corte sono individuabili pronunce le quali hanno ribadito che le norme della CEDU non si collocano come tali a livello costituzionale, non potendosi loro attribuire un rango diverso da quello dell'atto – legge ordinaria – che ne ha autorizzato la ratifica e le ha rese esecutive nel nostro ordinamento. Le stesse pronunce, d'altra parte, hanno anche escluso che, nei casi esaminati, la disposizione interna fosse difforme dalle norme convenzionali (sentenze n. 288 del 1997 e n. 315 del 1990), sottolineando la «sostanziale coincidenza» tra i princìpi dalle stesse stabiliti ed i princìpi costituzionali (sentenze n. 388 del 1999, n. 120 del 1967, n. 7 del 1967), ciò che rendeva «superfluo prendere in esame il problema […] del rango» delle disposizioni convenzionali (sentenza n. 123 del 1970). In altri casi, detta questione non è stata espressamente affrontata, ma, emblematicamente, è stata rimarcata la «significativa assonanza» della disciplina esaminata con quella stabilita dall'ordinamento internazionale (sentenza n. 342 del 1999; si vedano anche le sentenze n. 445 del 2002 e n. 376 del 2000). È stato talora osservato che le norme interne assicuravano «garanzie ancora più ampie» di quelle previste dalla CEDU (sentenza n. 1 del 1961), poiché «i diritti umani, garantiti anche da convenzioni universali o regionali sottoscritte dall'Italia, trovano espressione, e non meno intensa garanzia, nella Costituzione» (sentenze n. 388 del 1999, n. 399 del 1998). Così il diritto del singolo alla tutela giurisdizionale è stato ricondotto nel novero dei diritti inviolabili dell'uomo, garantiti dall'art. 2 della Costituzione, argomentando «anche dalla considerazione che se ne è fatta nell'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo» (sentenza n. 98 del 1965). In linea generale, è stato anche riconosciuto valore interpretativo alla CEDU, in relazione sia ai parametri costituzionali che alle norme censurate (sentenza n. 505 del 1995; ordinanza n. 305 del 2001), richiamando, per avvalorare una determinata esegesi, le «indicazioni normative, anche di natura sovranazionale» (sentenza n. 231 del 2004). Inoltre, in taluni casi, questa Corte, nel fare riferimento a norme della CEDU, ha svolto argomentazioni espressive di un'interpretazione conforme alla Convenzione (sentenze n. 376 del 2000 e n. 310 del 1996), ovvero ha richiamato dette norme, e la ratio ad esse sottesa, a conforto dell'esegesi accolta (sentenze n. 299 del 2005 e n. 29 del 2003), avvalorandola anche in considerazione della sua conformità con i «valori espressi» dalla Convenzione, «secondo l'interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo» (sentenze n. 299 del 2005; n. 299 del 1998), nonché sottolineando come un diritto garantito da norme costituzionali sia «protetto anche dall'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti […] come applicato dalla giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo» (sentenza n. 154 del 2004). È rimasto senza seguito il precedente secondo il quale le norme in esame deriverebbero da «una fonte riconducibile a una competenza atipica» e, come tali, sarebbero «insuscettibili di abrogazione o di modificazione da parte di disposizioni di legge ordinaria» (sentenza n. 10 del 1993). 6.1.2. – Dagli orientamenti della giurisprudenza di questa Corte è dunque possibile desumere un riconoscimento di principio della peculiare rilevanza delle norme della Convenzione, in considerazione del contenuto della medesima, tradottasi nell'intento di garantire, soprattutto mediante lo strumento interpretativo, la tendenziale coincidenza ed integrazione delle garanzie stabilite dalla CEDU e dalla Costituzione, che il legislatore ordinario è tenuto a rispettare e realizzare. La peculiare rilevanza degli obblighi internazionali assunti con l'adesione alla Convenzione in esame è stata ben presente al legislatore ordinario. Infatti, dopo il recepimento della nuova disciplina della Corte europea dei diritti dell'uomo, dichiaratamente diretta a «ristrutturare il meccanismo di controllo stabilito dalla Convenzione per mantenere e rafforzare l'efficacia della protezione dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali prevista dalla Convenzione» (Preambolo al Protocollo n. 11, ratificato e reso esecutivo con la legge 28 agosto 1997, n. 296), si è provveduto a migliorare i meccanismi finalizzati ad assicurare l'adempimento delle pronunce della Corte europea (art. 1 della legge 9 gennaio 2006, n. 12), anche mediante norme volte a garantire che l'intero apparato pubblico cooperi nell'evitare violazioni che possono essere sanzionate (art. 1, comma 1217, della legge 27 dicembre 2006, n. 296). Infine, anche sotto il profilo organizzativo, da ultimo è stata disciplinata l'attività attribuita alla Presidenza del

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Consiglio dei ministri, stabilendo che gli adempimenti conseguenti alle pronunce della Corte di Strasburgo sono curati da un Dipartimento di detta Presidenza (d.P.C.m. 1° febbraio 2007 – Misure per l'esecuzione della legge 9 gennaio 2006, n. 12, recante disposizioni in materia di pronunce della Corte europea dei diritti dell'uomo). 6.2. – È dunque alla luce della complessiva disciplina stabilita dalla Costituzione, quale risulta anche dagli orientamenti di questa Corte, che deve essere preso in considerazione e sistematicamente interpretato l'art. 117, primo comma, Cost., in quanto parametro rispetto al quale valutare la compatibilità della norma censurata con l'art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, così come interpretato dalla Corte dei diritti dell'uomo di Strasburgo. Il dato subito emergente è la lacuna esistente prima della sostituzione di detta norma da parte dell'art. 2 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), per il fatto che la conformità delle leggi ordinarie alle norme di diritto internazionale convenzionale era suscettibile di controllo da parte di questa Corte soltanto entro i limiti e nei casi sopra indicati al punto 6.1. La conseguenza era che la violazione di obblighi internazionali derivanti da norme di natura convenzionale non contemplate dall'art. 10 e dall'art. 11 Cost. da parte di leggi interne comportava l'incostituzionalità delle medesime solo con riferimento alla violazione diretta di norme costituzionali (sentenza n. 223 del 1996). E ciò si verificava a dispetto di uno degli elementi caratterizzanti dell'ordinamento giuridico fondato sulla Costituzione, costituito dalla forte apertura al rispetto del diritto internazionale e più in generale delle fonti esterne, ivi comprese quelle richiamate dalle norme di diritto internazionale privato; e nonostante l'espressa rilevanza della violazione delle norme internazionali oggetto di altri e specifici parametri costituzionali. Inoltre, tale violazione di obblighi internazionali non riusciva ad essere scongiurata adeguatamente dal solo strumento interpretativo, mentre, come sopra precisato, per le norme della CEDU neppure è ammissibile il ricorso alla “non applicazione” utilizzabile per il diritto comunitario. Non v'è dubbio, pertanto, alla luce del quadro complessivo delle norme costituzionali e degli orientamenti di questa Corte, che il nuovo testo dell'art. 117, primo comma, Cost., ha colmato una lacuna e che, in armonia con le Costituzioni di altri Paesi europei, si collega, a prescindere dalla sua collocazione sistematica nella Carta costituzionale, al quadro dei princìpi che espressamente già garantivano a livello primario l'osservanza di determinati obblighi internazionali assunti dallo Stato. Ciò non significa, beninteso, che con l'art. 117, primo comma, Cost., si possa attribuire rango costituzionale alle norme contenute in accordi internazionali, oggetto di una legge ordinaria di adattamento, com'è il caso delle norme della CEDU. Il parametro costituzionale in esame comporta, infatti, l'obbligo del legislatore ordinario di rispettare dette norme, con la conseguenza che la norma nazionale incompatibile con la norma della CEDU e dunque con gli “obblighi internazionali” di cui all'art. 117, primo comma, viola per ciò stesso tale parametro costituzionale. Con l'art. 117, primo comma, si è realizzato, in definitiva, un rinvio mobile alla norma convenzionale di volta in volta conferente, la quale dà vita e contenuto a quegli obblighi internazionali genericamente evocati e, con essi, al parametro, tanto da essere comunemente qualificata “norma interposta”; e che è soggetta a sua volta, come si dirà in seguito, ad una verifica di compatibilità con le norme della Costituzione. Ne consegue che al giudice comune spetta interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme. Qualora ciò non sia possibile, ovvero dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale 'interposta', egli deve investire questa Corte della relativa questione di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell'art. 117, primo comma, come correttamente è stato fatto dai rimettenti in questa occasione. In relazione alla CEDU, inoltre, occorre tenere conto della sua peculiarità rispetto alla generalità degli accordi internazionali, peculiarità che consiste nel superamento del quadro di una semplice somma di diritti ed obblighi reciproci degli Stati contraenti. Questi ultimi hanno istituito un sistema di tutela uniforme dei diritti fondamentali. L'applicazione e l'interpretazione del sistema di norme è attribuito beninteso in prima battuta ai giudici degli Stati membri, cui compete il ruolo di giudici comuni della

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Convenzione. La definitiva uniformità di applicazione è invece garantita dall'interpretazione centralizzata della CEDU attribuita alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui spetta la parola ultima e la cui competenza «si estende a tutte le questioni concernenti l'interpretazione e l'applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli che siano sottoposte ad essa nelle condizioni previste» dalla medesima (art. 32, comma 1, della CEDU). Gli stessi Stati membri, peraltro, hanno significativamente mantenuto la possibilità di esercitare il diritto di riserva relativamente a questa o quella disposizione in occasione della ratifica, così come il diritto di denuncia successiva, sì che, in difetto dell'una e dell'altra, risulta palese la totale e consapevole accettazione del sistema e delle sue implicazioni. In considerazione di questi caratteri della Convenzione, la rilevanza di quest'ultima, così come interpretata dal “suo” giudice, rispetto al diritto interno è certamente diversa rispetto a quella della generalità degli accordi internazionali, la cui interpretazione rimane in capo alle Parti contraenti, salvo, in caso di controversia, la composizione del contrasto mediante negoziato o arbitrato o comunque un meccanismo di conciliazione di tipo negoziale. Questa Corte e la Corte di Strasburgo hanno in definitiva ruoli diversi, sia pure tesi al medesimo obiettivo di tutelare al meglio possibile i diritti fondamentali dell'uomo. L'interpretazione della Convenzione di Roma e dei Protocolli spetta alla Corte di Strasburgo, ciò che solo garantisce l'applicazione del livello uniforme di tutela all'interno dell'insieme dei Paesi membri. A questa Corte, qualora sia sollevata una questione di legittimità costituzionale di una norma nazionale rispetto all'art. 117, primo comma, Cost. per contrasto – insanabile in via interpretativa – con una o più norme della CEDU, spetta invece accertare il contrasto e, in caso affermativo, verificare se le stesse norme CEDU, nell'interpretazione data dalla Corte di Strasburgo, garantiscono una tutela dei diritti fondamentali almeno equivalente al livello garantito dalla Costituzione italiana. Non si tratta, invero, di sindacare l'interpretazione della norma CEDU operata dalla Corte di Strasburgo, come infondatamente preteso dalla difesa erariale nel caso di specie, ma di verificare la compatibilità della norma CEDU, nell'interpretazione del giudice cui tale compito è stato espressamente attribuito dagli Stati membri, con le pertinenti norme della Costituzione. In tal modo, risulta realizzato un corretto bilanciamento tra l'esigenza di garantire il rispetto degli obblighi internazionali voluto dalla Costituzione e quella di evitare che ciò possa comportare per altro verso un vulnus alla Costituzione stessa. 7. – (omissis)

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi, dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, introdotto dall'art. 3, comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica). Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 ottobre 2007.

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3.2 Corte costituzionale, 11 marzo 2011, n. 80 : rigetto della tesi della”

comunitarizzazione” della Cedu

TESTO DELLA SENTENZA

Ritenuto in fatto

(omissis)

Considerato in diritto

1. – La Corte di cassazione, seconda Sezione penale, dubita della legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, dell’art. 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità) e dell’art. 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere), nella parte in cui «non consentono che, a richiesta di parte, il procedimento in materia di misure di prevenzione si svolga in udienza pubblica».

Il giudice a quo pone a base delle proprie censure l’affermazione della Corte europea dei diritti dell’uomo secondo la quale, ai fini del rispetto del principio di pubblicità delle procedure giudiziarie, sancito dall’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, le persone coinvolte nei procedimenti per l’applicazione di misure di prevenzione debbono vedersi «almeno offrire la possibilità di sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei tribunali e delle corti d’appello» (sentenza 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza contro Italia).

La Corte rimettente rileva, altresì, che, secondo la più recente giurisprudenza costituzionale, le norme della CEDU, nell’interpretazione loro attribuita dalla Corte di Strasburgo, costituiscono «norme interposte» ai fini della verifica del rispetto dell’art. 117, primo comma, Cost.: con la conseguenza che, ove il giudice ravvisi un contrasto, non componibile per via di interpretazione, tra una norma interna e una norma della Convenzione, egli non può disapplicare la norma interna, ma deve sottoporla a scrutinio di costituzionalità in rapporto al parametro dianzi indicato.

Nella specie, non sarebbe possibile interpretare le norme censurate in senso conforme alla Convenzione, stante l’univocità del dato testuale, a fronte del quale il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione si svolge, in tutti i suoi gradi, in camera di consiglio (e, dunque, senza la presenza del pubblico); né sussisterebbero i presupposti per l’estensione analogica alla fattispecie considerata dell’art. 441, comma 3, del codice di procedura penale, in tema di giudizio abbreviato.

Sarebbe, dunque, inevitabile la conclusione che le norme denunciate violano l’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui non accordano all’interessato la garanzia «minimale» richiesta dalla Corte europea, ossia la facoltà di chiedere che il procedimento si svolga in udienza pubblica.

Detta facoltà andrebbe riconosciuta, peraltro, non soltanto in relazione ai giudizi di merito, ma anche con riguardo al giudizio di cassazione, senza che rilevi, in senso contrario, la circostanza che di quest’ultimo non venga fatta menzione nella citata sentenza della Corte europea. Se pure è vero, infatti, che la Corte di Strasburgo ha affermato in più occasioni che il diritto a un’udienza pubblica può essere escluso quando debbano trattarsi esclusivamente questioni di diritto, essa ha, tuttavia, anche precisato che l’assenza dell’udienza pubblica, nei gradi successivi al primo, può giustificarsi solo se in primo grado la pubblicità sia stata garantita.

D’altro canto, una volta che la scelta del rito venga affidata alla parte, non si vedrebbe perché la relativa opzione possa essere effettuata solo «in limine», e non «anche in successivi gradi di giudizio».

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2. – Posteriormente all’ordinanza di rimessione, questa Corte, con la sentenza n. 93 del 2010, ha dichiarato costituzionalmente illegittime le norme sottoposte a scrutinio, per violazione del medesimo parametro evocato dall’odierno rimettente, «nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione si svolga, davanti al tribunale e alla corte d’appello, nelle forme dell’udienza pubblica» (giudizi, quelli davanti al tribunale e alla corte d’appello, ai quali le censure formulate nell’occasione dal giudice a quo dovevano ritenersi circoscritte).

Nella circostanza, questa Corte ha anzitutto ricordato – e giova qui ribadirlo, in rapporto a quanto più avanti si osserverà – come, a partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, la giurisprudenza costituzionale sia costante nel ritenere che le norme della CEDU – nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, specificamente istituita per dare a esse interpretazione e applicazione (art. 32, paragrafo 1, della Convenzione) – integrino, quali «norme interposte», il parametro costituzionale espresso dall’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli «obblighi internazionali» (sentenze n. 317 e n. 311 del 2009, n. 39 del 2008). In questa prospettiva, ove si profili un eventuale contrasto fra una norma interna e una norma della CEDU, il giudice comune deve verificare anzitutto la praticabilità di una interpretazione della prima in senso conforme alla Convenzione, avvalendosi di ogni strumento ermeneutico a sua disposizione; e, ove tale verifica dia esito negativo – non potendo a ciò rimediare tramite la semplice non applicazione della norma interna contrastante – egli deve denunciare la rilevata incompatibilità, proponendo questione di legittimità costituzionale in riferimento all’indicato parametro. A sua volta, la Corte costituzionale, investita dello scrutinio, pur non potendo sindacare l’interpretazione della CEDU data dalla Corte europea, resta legittimata a verificare se, così interpretata, la norma della Convenzione – la quale si colloca pur sempre a un livello sub-costituzionale – si ponga eventualmente in conflitto con altre norme della Costituzione: «ipotesi eccezionale nella quale dovrà essere esclusa la idoneità della norma convenzionale a integrare il parametro considerato».

(omissis) Con riguardo alla fattispecie in discussione, la Corte di Strasburgo – in replica ai rilievi svolti dal

Governo italiano – non ha contestato che il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione (e, in particolare, delle misure patrimoniali) possa presentare un elevato grado di tecnicismo, in quanto tendente al «controllo delle finanze e dei movimenti di capitali»; ovvero che possa coinvolgere «interessi superiori, quali la protezione della vita privata di minori o di terze persone indirettamente interessate dal controllo finanziario». Ciò non consente, tuttavia, di trascurare l’entità della «posta in gioco» nelle procedure stesse, le quali incidono in modo diretto e significativo sulla situazione personale e patrimoniale della persona soggetta a giurisdizione: il che induce a dover reputare essenziale, ai fini della realizzazione della garanzia prefigurata dalla norma convenzionale, «che le persone […] coinvolte in un procedimento di applicazione delle misure di prevenzione si vedano almeno offrire la possibilità di sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei tribunali e delle corti d’appello».

A fronte di tali indicazioni, questa Corte ha quindi concluso che le norme censurate violavano, in parte qua, l’art. 117, primo comma, Cost., dovendo senz’altro escludersi che la norma convenzionale, come interpretata dalla Corte europea, «contrasti con le conferenti tutele offerte dalla nostra Costituzione». Per consolidata giurisprudenza della Corte, infatti, pure in assenza di un esplicito richiamo in Costituzione, «la pubblicità del giudizio, specie di quello penale, costituisce principio connaturato ad un ordinamento democratico fondato sulla sovranità popolare, cui deve conformarsi l’amministrazione della giustizia, la quale – in forza dell’art. 101, primo comma, Cost. – trova in quella sovranità la sua legittimazione» (ex plurimis, sentenze n. 373 del 1992, n. 69 del 1991 e n. 50 del 1989). D’altra parte, pur dovendosi anche precisare che il principio in questione «non ha valore assoluto, potendo cedere in presenza di particolari ragioni giustificative», ciò tuttavia si giustifica solo quando le

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stesse risultino «obiettive e razionali» (sentenza n. 212 del 1986), e, nel caso del dibattimento penale, «collegate ad esigenze di tutela di beni a rilevanza costituzionale» (sentenza n. 12 del 1971).

Questa Corte ha anche escluso la praticabilità di una interpretazione conforme alla Convenzione delle norme censurate, basata, in specie, sull’applicazione analogica dell’art. 441, comma 3, cod. proc. pen., in forza del quale il giudizio abbreviato – normalmente trattato in camera di consiglio – si svolge in udienza pubblica se tutti gli imputati ne fanno richiesta. Difettano, infatti, «le condizioni legittimanti tale operazione ermeneutica, sia perché il ricorso all’analogia presuppone il riconoscimento di un vuoto normativo, qui non ravvisabile in presenza di una specifica disposizione contraria» (art. 127, comma 6, cod. proc. pen.); «sia a fronte delle marcate differenze strutturali e funzionali dei procedimenti in questione (giudizio abbreviato e procedimento di prevenzione)».

1. – (omissis)

. 5. – Rispetto allo scrutinio del merito della questione, assume tuttavia rilievo preliminare il

problema – sottoposto specificamente all’attenzione di questa Corte dalla parte privata – degli effetti della sopravvenuta entrata in vigore del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo con legge 2 agosto 2008, n. 130, che modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea.

Secondo la parte privata, le innovazioni recate da detto Trattato (entrato in vigore il 1° dicembre 2009) avrebbero comportato un mutamento della collocazione delle disposizioni della CEDU nel sistema delle fonti, tale da rendere ormai inattuale la ricordata concezione delle «norme interposte». Alla luce del nuovo testo dell’art. 6 del Trattato sull’Unione europea, dette disposizioni sarebbero divenute, infatti, parte integrante del diritto dell’Unione: con la conseguenza che – almeno in fattispecie quale quella di cui al presente si discute – i giudici comuni (ivi compreso, dunque, il giudice a quo) risulterebbero abilitati a non applicare le norme interne ritenute incompatibili con le norme della Convenzione, senza dover attivare il sindacato di costituzionalità. Varrebbe, infatti, al riguardo, la ricostruzione dei rapporti tra diritto comunitario e diritto interno, quali sistemi distinti e autonomi, operata dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte sulla base del disposto dell’art. 11 Cost. (secondo cui l’Italia «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni»). Alla stregua di tale ricostruzione le norme derivanti da fonte comunitaria dovrebbero ricevere diretta applicazione nell’ordinamento italiano, ma rimangono estranee al sistema delle fonti interne e, se munite di effetto diretto, precludono al giudice nazionale di applicare la normativa interna con esse reputata incompatibile (ex plurimis, sentenze n. 125 del 2009, n. 168 del 1991 e n. 170 del 1984). Un effetto diretto non potrebbe essere, d’altronde, negato alle norme della CEDU, segnatamente allorché – come nell’ipotesi in esame – sia già intervenuta una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che abbia riconosciuto una violazione da parte dell’Italia, riconducibile a uno specifico difetto “strutturale” del sistema normativo interno.

Benché la stessa parte privata, nel formulare le proprie conclusioni, abbia poi insistito per la declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme censurate (e, in via conseguenziale, anche di ulteriori disposizioni), appare evidente che, ove la tesi ora ricordata fosse corretta, la questione dovrebbe essere dichiarata inammissibile: essendo, quello denunciato, un contrasto che spetterebbe ormai allo stesso giudice comune – e non più a questa Corte – accertare e dirimere (ex plurimis, in tema di contrasto fra norme interne e norme comunitarie con effetto diretto, sentenze n. 284 del 2007 e n. 170 del 1984). Donde, appunto, la pregiudizialità del problema evidenziato dalla parte privata rispetto all’analisi del merito del quesito.

5.1. – A tale proposito, occorre quindi ricordare come l’art. 6 del Trattato sull’Unione europea, nel testo in vigore sino al 30 novembre 2009, stabilisse, al paragrafo 2, che l’«Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle

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libertà fondamentali […] e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi del diritto comunitario».

In base a tale disposizione – che recepiva un indirizzo adottato dalla Corte di giustizia fin dagli anni settanta dello scorso secolo – tanto la CEDU quanto le «tradizioni costituzionali comuni» degli Stati membri (fonti esterne all’ordinamento dell’Unione) non assumevano rilievo come tali, ma in quanto da esse si traevano «i principi generali del diritto comunitario» che l’Unione era tenuta a rispettare. Sicché, almeno dal punto di vista formale, la fonte della tutela dei diritti fondamentali nell’ambito dell’Unione europea era unica, risiedendo, per l’appunto, nei «principi generali del diritto comunitario», mentre la CEDU e le «tradizioni costituzionali comuni» svolgevano solo un ruolo “strumentale” all’individuazione di quei principi.

Coerentemente questa Corte ha in modo specifico escluso che dalla «qualificazione […] dei diritti fondamentali oggetto di disposizioni della CEDU come principi generali del diritto comunitario» – operata dapprima dalla Corte di giustizia, indi anche dall’art. 6 del Trattato – potesse farsi discendere la riferibilità alla CEDU del parametro di cui all’art. 11 Cost. e, con essa, la spettanza al giudice comune del potere-dovere di non applicare le norme interne contrastanti con la Convenzione (sentenza n. 349 del 2007). L’affermazione per cui l’art. 11 Cost. non può venire in considerazione rispetto alla CEDU, «non essendo individuabile, con riferimento alle specifiche norme convenzionali in esame, alcuna limitazione della sovranità nazionale» (sentenza n. 188 del 1980, già richiamata dalla sentenza n. 349 del 2007 succitata), non poteva ritenersi, infatti, messa in discussione da detta qualificazione per un triplice ordine di ragioni.

In primo luogo, perché «il Consiglio d’Europa, cui afferiscono il sistema di tutela dei diritti dell’uomo disciplinato dalla CEDU e l’attività interpretativa di quest’ultima da parte della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo, è una realtà giuridica, funzionale e istituzionale, distinta dalla Comunità europea creata con i Trattati di Roma del 1957 e dall’Unione europea oggetto del Trattato di Maastricht del 1992» (sentenza n. 349 del 2007).

In secondo luogo, perché, i «princìpi generali del diritto comunitario di cui il giudice comunitario assicura il rispetto», ispirandosi alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri e alla CEDU, «rilevano esclusivamente rispetto a fattispecie alle quali tale diritto sia applicabile: in primis gli atti comunitari, poi gli atti nazionali di attuazione di normative comunitarie, infine le deroghe nazionali a norme comunitarie asseritamente giustificate dal rispetto dei diritti fondamentali (sentenza 18 giugno 1991, C-260/89, ERT)»; avendo «la Corte di giustizia […] precisato che non ha tale competenza nei confronti di normative che non entrano nel campo di applicazione del diritto comunitario (sentenza 4 ottobre 1991, C-159/09, Society for the Protection of Unborn Children Ireland; sentenza 29 maggio 1998, C-299/05, Kremzow)».

In terzo luogo e da ultimo, perché «il rapporto tra la CEDU e gli ordinamenti giuridici degli Stati membri, non essendovi in questa materia una competenza comune attribuita alle (né esercitata dalle) istituzioni comunitarie, è un rapporto variamente ma saldamente disciplinato da ciascun ordinamento nazionale» (sentenza n. 349 del 2007).

5.2. – L’art. 6 del Trattato sull’Unione europea è stato, peraltro, incisivamente modificato dal Trattato di Lisbona, in una inequivoca prospettiva di rafforzamento dei meccanismi di protezione dei diritti fondamentali. Il nuovo art. 6 esordisce, infatti, al paragrafo 1, stabilendo che l’«Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati». La norma prosegue – per quanto ora interessa – prevedendo, al paragrafo 2, che «l’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali»; per chiudersi, al paragrafo 3, con la statuizione in forza della quale «i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione […] e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali».

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Alla luce della nuova norma, dunque, la tutela dei diritti fondamentali nell’ambito dell’Unione europea deriva (o deriverà) da tre fonti distinte: in primo luogo, dalla Carta dei diritti fondamentali (cosiddetta Carta di Nizza), che l’Unione «riconosce» e che «ha lo stesso valore giuridico dei trattati»; in secondo luogo, dalla CEDU, come conseguenza dell’adesione ad essa dell’Unione; infine, dai «principi generali», che – secondo lo schema del previgente art. 6, paragrafo 2, del Trattato – comprendono i diritti sanciti dalla stessa CEDU e quelli risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri. Si tratta, dunque, di un sistema di protezione assai più complesso e articolato del precedente, nel quale ciascuna delle componenti è chiamata ad assolvere a una propria funzione. Il riconoscimento alla Carta di Nizza di un valore giuridico uguale a quello dei Trattati mira, in specie, a migliorare la tutela dei diritti fondamentali nell’ambito del sistema dell’Unione, ancorandola a un testo scritto, preciso e articolato. Sebbene la Carta «riafferm[i]», come si legge nel quinto punto del relativo preambolo, i diritti derivanti (anche e proprio) dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e dalla CEDU, il mantenimento di un autonomo richiamo ai «principi generali» e, indirettamente, a dette tradizioni costituzionali comuni e alla CEDU, si giustifica – oltre che a fronte dell’incompleta accettazione della Carta da parte di alcuni degli Stati membri (si veda, in particolare, il Protocollo al Trattato di Lisbona sull’applicazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea alla Polonia e al Regno Unito) – anche al fine di garantire un certo grado di elasticità al sistema. Si tratta, cioè, di evitare che la Carta “cristallizzi” i diritti fondamentali, impedendo alla Corte di giustizia di individuarne di nuovi, in rapporto all’evoluzione delle fonti indirettamente richiamate. A sua volta, la prevista adesione dell’Unione europea alla CEDU rafforza la protezione dei diritti umani, autorizzando l’Unione, in quanto tale, a sottoporsi a un sistema internazionale di controllo in ordine al rispetto di tali diritti. 5.3. – Con riferimento a fattispecie quali quella che al presente viene in rilievo, da nessuna delle predette fonti di tutela è, peraltro, possibile ricavare la soluzione prospettata dalla parte privata. Nessun argomento in tale direzione può essere tratto, anzitutto, dalla prevista adesione dell’Unione europea alla CEDU, per l’assorbente ragione che l’adesione non è ancora avvenuta. A prescindere da ogni altro possibile rilievo, la statuizione del paragrafo 2 del nuovo art. 6 del Trattato resta, dunque, allo stato, ancora improduttiva di effetti. La puntuale identificazione di essi dipenderà ovviamente dalle specifiche modalità con cui l’adesione stessa verrà realizzata. 5.4. – Quanto, poi, al richiamo alla CEDU contenuto nel paragrafo 3 del medesimo art. 6 – secondo cui i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione «e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali» – si tratta di una disposizione che riprende, come già accennato, lo schema del previgente paragrafo 2 dell’art. 6 del Trattato sull’Unione europea: evocando, con ciò, una forma di protezione preesistente al Trattato di Lisbona. Restano, quindi, tuttora valide le considerazioni svolte da questa Corte in rapporto alla disciplina anteriore, riguardo all’impossibilità, nelle materie cui non sia applicabile il diritto dell’Unione (come nel caso sottoposto a questa Corte), di far derivare la riferibilità alla CEDU dell’art. 11 Cost. dalla qualificazione dei diritti fondamentali in essa riconosciuti come «principi generali» del diritto comunitario (oggi, del diritto dell’Unione). Le variazioni apportate al dettato normativo – e, in particolare, la sostituzione della locuzione «rispetta» (presente nel vecchio testo dell’art. 6 del Trattato) con l’espressione «fanno parte» – non sono, in effetti, tali da intaccare la validità di tale conclusione. Come sottolineato nella citata sentenza n. 349 del 2007, difatti, già la precedente giurisprudenza della Corte di giustizia – che la statuizione in esame è volta a recepire – era costante nel ritenere che i diritti fondamentali, enucleabili dalla CEDU e dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, facessero «parte integrante» dei principi generali del diritto comunitario di cui il giudice comunitario era chiamato a garantire il rispetto (ex plurimis, sentenza 26 giugno 2007, C-305/05, Ordini avvocati contro Consiglio, punto 29).

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Rimane, perciò, tuttora valida la considerazione per cui i principi in questione rilevano unicamente in rapporto alle fattispecie cui il diritto comunitario (oggi, il diritto dell’Unione) è applicabile, e non anche alle fattispecie regolate dalla sola normativa nazionale. 5.5. – Quest’ultimo rilievo è riferibile, peraltro, anche alla restante fonte di tutela: vale a dire la Carta dei diritti fondamentali, la cui equiparazione ai Trattati avrebbe determinato, secondo la parte privata, una «trattatizzazione» indiretta della CEDU, alla luce della “clausola di equivalenza” che figura nell’art. 52, paragrafo 3, della Carta. In base a tale disposizione (compresa nel titolo VII, cui l’art. 6, paragrafo 1, del Trattato fa espresso rinvio ai fini dell’interpretazione dei diritti, delle libertà e dei principi stabiliti dalla Carta), ove quest’ultima «contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta Convenzione» (ferma restando la possibilità «che il diritto dell’Unione conceda una protezione più estesa»). Di conseguenza – sempre secondo la parte privata – i diritti previsti dalla CEDU che trovino un «corrispondente» all’interno della Carta di Nizza (quale, nella specie, il diritto alla pubblicità delle udienze, enunciato dall’art. 47 della Carta in termini identici a quelli dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione) dovrebbero ritenersi ormai tutelati anche a livello di diritto dell’Unione europea. A prescindere da ogni ulteriore considerazione, occorre peraltro osservare come – analogamente a quanto è avvenuto in rapporto alla prefigurata adesione dell’Unione alla CEDU (art. 6, paragrafo 2, secondo periodo, del Trattato sull’Unione europea; art. 2 del Protocollo al Trattato di Lisbona relativo a detta adesione) – in sede di modifica del Trattato si sia inteso evitare nel modo più netto che l’attribuzione alla Carta di Nizza dello «stesso valore giuridico dei trattati» abbia effetti sul riparto delle competenze fra Stati membri e istituzioni dell’Unione. L’art. 6, paragrafo 1, primo alinea, del Trattato stabilisce, infatti, che «le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei trattati». A tale previsione fa eco la Dichiarazione n. 1 allegata al Trattato di Lisbona, ove si ribadisce che «la Carta non estende l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione al di là delle competenze dell’Unione, né introduce competenze nuove o compiti nuovi dell’Unione, né modifica le competenze e i compiti definiti dai trattati». I medesimi principi risultano, peraltro, già espressamente accolti dalla stessa Carta dei diritti, la quale, all’art. 51 (anch’esso compreso nel richiamato titolo VII), stabilisce, al paragrafo 1, che «le disposizioni della presente Carta si applicano alle istituzioni, organi e organismi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione»; recando, altresì, al paragrafo 2, una statuizione identica a quella della ricordata Dichiarazione n. 1. Ciò esclude, con ogni evidenza, che la Carta costituisca uno strumento di tutela dei diritti fondamentali oltre le competenze dell’Unione europea, come, del resto, ha reiteratamente affermato la Corte di giustizia, sia prima (tra le più recenti, ordinanza 17 marzo 2009, C-217/08, Mariano) che dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (sentenza 5 ottobre 2010, C-400/10 PPU, McB; ordinanza 12 novembre 2010, C-399/10, Krasimir e altri). Presupposto di applicabilità della Carta di Nizza è, dunque, che la fattispecie sottoposta all’esame del giudice sia disciplinata dal diritto europeo – in quanto inerente ad atti dell’Unione, ad atti e comportamenti nazionali che danno attuazione al diritto dell’Unione, ovvero alle giustificazioni addotte da uno Stato membro per una misura nazionale altrimenti incompatibile con il diritto dell’Unione – e non già da sole norme nazionali prive di ogni legame con tale diritto. Nel caso di specie – attinente all’applicazione di misure personali e patrimoniali ante o praeter delictum – detto presupposto difetta: la stessa parte privata, del resto, non ha prospettato alcun tipo di collegamento tra il thema decidendum del giudizio principale e il diritto dell’Unione europea. 5.6. – Alla luce delle considerazioni che precedono, si deve, dunque, conclusivamente escludere che, in una fattispecie quale quella oggetto del giudizio principale, il giudice possa ritenersi abilitato a non applicare, omisso medio, le norme interne ritenute incompatibili con l’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, secondo quanto ipotizzato dalla parte privata.

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Restano, per converso, pienamente attuali i principi al riguardo affermati da questa Corte a partire dalle sentenze n. 348 e 349 del 2007: principi, del resto, reiteratamente ribaditi dalla Corte stessa anche dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (sentenze n. 1 del 2011; n. 196, n. 187 e n. 138 del 2010), pure in rapporto alla tematica oggetto dell’odierno scrutinio (sentenza n. 93 del 2010). 6. – (omissis)

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità) e dell’art. 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere), nella parte in cui non consentono che, a richiesta di parte, il procedimento davanti al tribunale e alla corte d’appello in materia di applicazione di misure di prevenzione si svolga in udienza pubblica, sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, dalla Corte di cassazione con l’ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge n. 1423 del 1956 e dell’art. 2-ter della legge n. 575 del 1965, nella parte in cui non consentono che, a richiesta di parte, il ricorso per cassazione in materia di misure di prevenzione venga trattato in udienza pubblica, sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, dalla Corte di cassazione con l’ordinanza indicata in epigrafe.

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3.3 Consiglio di Stato, sez. IV, ordinanza 17 febbraio 2014, n. 754 : contrasto

norma Cedu e norma interna

(omissis) Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue: 1. (omissis) 13. Per una migliore comprensione delle ragioni che inducono a tale risoluzione, giova riassumere i termini essenziali delle controversie che qui occupano. Sono appellate, invero, undici sentenze emesse in altrettanti giudizi di ottemperanza relativi a sentenze della Corte di Cassazione ovvero a decreti della Corte di Appello di Roma, con i quali il Ministero della Giustizia è stato condannato al pagamento di somme di varia entità a titolo di equo indennizzo per eccessiva durata del processo ai sensi della nr. 89 del 2001. 13.1. Il Ministero della Giustizia ha appellato le suddette sentenze limitatamente alla parte in cui il primo giudice, oltre a ordinare l’esecuzione della sentenza ottemperanda e a nominare un Commissario ad acta per l’eventuale adempimento in sostituzione dell’Amministrazione, ha condannato quest’ultima anche al pagamento di ulteriori somme a titolo di penalità di mora (c.d. astreinte), ai sensi dell’art. 114, comma 4, lettera e), cod. proc. amm. in ragione dell’ingiustificato ritardo nell’esecuzione rispetto al momento in cui sulle sentenze o sui decreti di condanna all’equo indennizzo si era formato il giudicato. Questo, in estrema sintesi, il percorso argomentativo del giudice di prime cure: - la legge nr. 89 del 2001 (c.d. legge Pinto) è stata adottata dallo Stato italiano al dichiarato scopo di predisporre un rimedio per la violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, sancito dall’art. 6, par. 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), per la cui violazione l’Italia risultava aver subito molteplici condanne dalla Corte europea dei diritti dell’uomo; - la Corte, pur riconoscendo l’adeguatezza del rimedio indennitario, si è posta il problema della reazione da prevedere per l’ipotesi in cui le Autorità nazionali omettano di ottemperare ai provvedimenti giudiziari che riconoscono l’equo indennizzo; - per questo, la giurisprudenza CEDU ha precisato che l’esecuzione della condanna de qua deve considerarsi parte integrante del termine complessivo del processo, e pertanto rileva ai fini del rispetto del citato art. 1, par. 6, della Convenzione (al riguardo, sono state citate le sentenze della Grande Camera, 29 marzo 2006, Cocchiarella c. Italia, e della Sez. II, 21 dicembre 2010, Gaglione c. Italia); - negli arresti testé richiamati, la Corte ha ritenuto ragionevole ammettere un termine di “tolleranza” per l’esecuzione delle sentenze in subiecta materia, termine che è stato equitativamente fissato in sei mesi, decorsi i quali il ritardo non è più giustificabile; - inoltre, la Corte ha precisato che la mancanza di risorse finanziarie non può costituire idonea giustificazione all’inadempimento degli obblighi indennitari discendenti da condanne giurisdizionali per violazione della ragionevole durata del processo; - tale quadro normativo e giurisprudenziale impone, secondo il primo giudice, “un’interpretazione restrittiva (sostanzialmente, la disapplicazione)” dell’art. 3, comma 7, della precitata legge nr. 89 del 2001, secondo cui, in caso di condanna all’equo indennizzo: “...L’erogazione degli indennizzi agli aventi diritto avviene nei limiti delle risorse disponibili”; - ciò premesso, decidendo sulla domanda delle parti ricorrenti di condanna dell’Amministrazione al risarcimento del danno da ritardo mediante applicazione della penalità di cui all’art. 114, comma 4, lettera e), cod. proc. amm., il T.A.R. ha ritenuto di aderire all’orientamento secondo cui tale istituto, a differenza di quello similare disciplinato nel processo civile dall’art. 614-bis cod. proc. amm., è

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applicabile anche alle ipotesi in cui gli obblighi incombenti alla p.a. in esecuzione del giudicato abbiano carattere pecuniario; - conseguentemente il primo giudice ha ritenuto, da un lato, di non ritenere giustificabile – in applicazione della richiamata giurisprudenza EDU – il perdurante ritardo nell’erogazione delle somme liquidate a titolo di equo indennizzo sulla base dell’affermata carenza di risorse finanziarie, e, pertanto, di dover condannare il Ministero della Giustizia al pagamento di somme ex art. 114, comma 4, lettera e), cod. proc. amm. con decorrenza dallo scadere dell’anzi detto termine semestrale dalla data in cui ciascuna sentenza o decreto da ottemperare erano passati in giudicato (tanto, sempre in ossequio alla giurisprudenza europea innanzi richiamata); - con riguardo alla quantificazione dell’astreinte, il T.A.R. ha infine ritenuto di aderire all’indirizzo per cui questa va equitativamente commisurata in € 100,00 per ogni mese di ritardo (cfr. sent. Cocchiarella, cit.). 13.2. A fronte delle statuizioni così riassunte, l’Amministrazione ha affidato i propri appelli a due motivi fondamentali: a) da un lato, contestando l’applicabilità dell’istituto introdotto nel processo amministrativo dall’art. 114, comma 4, lettera e), cod. proc. amm. anche all’esecuzione di condanne al pagamento di somme di denaro; b) dall’altro, tacciando di erroneità la disapplicazione dell’art. 3, comma 7, della legge nr. 89 del 2001, per ritenuto contrasto con l’art. 6, par. 1, come interpretato dalla Corte, non essendo tale operazione consentita al giudice a cagione della non diretta applicabilità delle norme CEDU nell’ordinamento italiano. 13.3. La prima delle anzi dette doglianze, come già accennato, è stata respinta da questa Sezione con la ricordata sentenza parziale nr. 462 del 2014. 14. Per quanto concerne la seconda censura, si ritiene di dover condividere le argomentazioni della difesa erariale in ordine all’impossibilità, in caso di ravvisato contrasto fra una norma della CEDU e una norma interna, di una diretta disapplicazione di quest’ultima da parte del giudice (cfr. sul punto Cons. Stato, sez. IV, 13 giugno 2013, nr. 3293, laddove in tal senso ci si è pronunciati, ad altro riguardo, proprio a proposito del rapporto tra la CEDU e la legge nr. 89 del 2001). 14.1. Quanto sopra discende dalla considerazione della giurisprudenza in materia della Corte costituzionale, la quale è già da tempo costante nel ritenere che le norme della CEDU - nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, specificamente istituita per dare a esse interpretazione e applicazione (art. 32, par. 1, della Convenzione) - integrino, quali “norme interposte”, il parametro costituzionale espresso dall’art. 117, comma 1, Cost., nella parte in cui stabilisce l’obbligo per la legislazione interna di rispettare i vincoli derivanti dagli “obblighi internazionali” (cfr. sentt. 4 dicembre 2009, nr. 317; id., 26 novembre 2009, nr. 311; id., 27 febbraio 2008, nr. 39; id., 24 ottobre 2007, nn. 348 e 349). Pertanto, in caso di ipotizzato contrasto fra una norma interna e una norma della CEDU, il giudice comune deve verificare anzitutto la praticabilità di una interpretazione della prima in senso conforme alla Convenzione, avvalendosi di ogni strumento ermeneutico a sua disposizione; e, ove tale verifica dia esito negativo - non potendo a ciò rimediare tramite la semplice non applicazione della norma interna contrastante - egli deve denunciare la rilevata incompatibilità, proponendo questione di legittimità costituzionale in riferimento al suindicato parametro; si è aggiunto, poi, che la Corte costituzionale, investita dello scrutinio, pur non potendo sindacare l’interpretazione della CEDU data dalla Corte europea, resta legittimata a verificare se, così interpretata, la norma della Convenzione - la quale si colloca pur sempre a un livello sub-costituzionale - si ponga eventualmente in conflitto con altre norme della Costituzione: ipotesi eccezionale nella quale dovrà essere esclusa la idoneità della norma convenzionale a integrare il parametro considerato. 14.2. In un più recente arresto (sent. 11 marzo 2011, nr. 80) la Corte ha altresì affrontato il problema della perdurante validità di tali conclusioni dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona del

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13 dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo in Italia con legge 2 agosto 2008, nr. 130, che ha modificato il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea. In particolare, si era sostenuto che le innovazioni recate da detto Trattato (entrato in vigore il 1 dicembre 2009) avessero comportato un mutamento della collocazione delle disposizioni della CEDU nel sistema delle fonti, tale da rendere ormai inattuale la ricordata concezione delle “norme interposte”: alla luce del nuovo testo dell’art. 6 del Trattato sull’Unione europea, dette disposizioni sarebbero divenute parte integrante del diritto dell’Unione, con la conseguente facoltà per i giudici comuni di non applicare le norme interne ritenute incompatibili con le norme della CEDU, senza dover attivare il sindacato di costituzionalità. In altri termini, anche per la CEDU sarebbe stata valida la ricostruzione dei rapporti tra diritto comunitario e diritto interno, quali sistemi distinti e autonomi, operata dalla consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale sulla base del disposto dell'art. 11 Cost. (secondo cui l’Italia “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”), alla stregua della quale le norme derivanti da fonte comunitaria dovrebbero ricevere diretta applicazione nell’ordinamento italiano pur restando estranee al sistema delle fonti interne, con la conseguenza che, se munite di effetto diretto, esse precludono al giudice nazionale di applicare la normativa interna con esse reputata incompatibile. La Corte ha respinto tale impostazione sulla base di una puntuale ricostruzione dei rapporti tra CEDU, diritto europeo e diritto interno nella loro recente evoluzione: “...A tale proposito, occorre quindi ricordare come l’art. 6 del Trattato sull’Unione europea, nel testo in vigore sino al 30 novembre 2009, stabilisse, al paragrafo 2, che l’«Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali [...] e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi del diritto comunitario». In base a tale disposizione - che recepiva un indirizzo adottato dalla Corte di giustizia fin dagli anni settanta dello scorso secolo - tanto la CEDU quanto le «tradizioni costituzionali comuni» degli Stati membri (fonti esterne all’ordinamento dell’Unione) non assumevano rilievo come tali, ma in quanto da esse si traevano «i principi generali del diritto comunitario» che l’Unione era tenuta a rispettare.Sicché, almeno dal punto di vista formale, la fonte della tutela dei diritti fondamentali nell’ambito dell’Unione europea era unica, risiedendo, per l’appunto, nei «principi generali del diritto comunitario», mentre la CEDU e le «tradizioni costituzionali comuni» svolgevano solo un ruolo ‘strumentale’ all'individuazione di quei principi. Coerentemente questa Corte ha in modo specifico escluso che dalla «qualificazione [...] dei diritti fondamentali oggetto di disposizioni della CEDU come principi generali del diritto comunitario» - operata dapprima dalla Corte di giustizia, indi anche dall’art. 6 del Trattato - potesse farsi discendere la riferibilità alla CEDU del parametro di cui all’art. 11 Cost. e, con essa, la spettanza al giudice comune del potere-dovere di non applicare le norme interne contrastanti con la Convenzione (sentenza n. 349 del 2007). L’affermazione per cui l’art. 11 Cost. non può venire in considerazione rispetto alla CEDU, «non essendo individuabile, con riferimento alle specifiche norme convenzionali in esame, alcuna limitazione della sovranità nazionale» (sentenza n. 188 del 1980, già richiamata dalla sentenza n. 349 del 2007 succitata), non poteva ritenersi, infatti, messa in discussione da detta qualificazione per un triplice ordine di ragioni. In primo luogo, perché «il Consiglio d’Europa, cui afferiscono il sistema di tutela dei diritti dell’uomo disciplinato dalla CEDU e l’attività interpretativa di quest’ultima da parte della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo, è una realtà giuridica, funzionale e istituzionale, distinta dalla Comunità europea creata con i Trattati di Roma del 1957 e dall’Unione europea oggetto del Trattato di Maastricht del 1992» (sentenza n. 349 del 2007). In secondo luogo, perché, i «princìpi generali del diritto comunitario di cui il giudice comunitario assicura il rispetto», ispirandosi alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri e alla CEDU, «rilevano esclusivamente rispetto a fattispecie alle quali tale diritto sia applicabile: in primis gli atti comunitari, poi gli atti nazionali di attuazione di normative comunitarie, infine le deroghe nazionali a

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norme comunitarie asseritamente giustificate dal rispetto dei diritti fondamentali (sentenza 18 giugno 1991, C-260/89, ERT)»; avendo «la Corte di giustizia [...] precisato che non ha tale competenza nei confronti di normative che non entrano nel campo di applicazione del diritto comunitario (sentenza 4 ottobre 1991, C-159/09, Society for the Protection of Unborn Children Ireland; sentenza 29 maggio 1998, C-299/05, Kremzow)». In terzo luogo e da ultimo, perché «il rapporto tra la CEDU e gli ordinamenti giuridici degli Stati membri, non essendovi in questa materia una competenza comune attribuita alle (né esercitata dalle) istituzioni comunitarie, è un rapporto variamente ma saldamente disciplinato da ciascun ordinamento nazionale» (sentenza n. 349 del 2007). (...)L’art. 6 del Trattato sull’Unione europea è stato, peraltro, incisivamente modificato dal Trattato di Lisbona, in una inequivoca prospettiva di rafforzamento dei meccanismi di protezione dei diritti fondamentali. Il nuovo art. 6 esordisce, infatti, al paragrafo 1, stabilendo che l’«Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati». La norma prosegue - per quanto ora interessa - prevedendo, al paragrafo 2, che «l’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali»; per chiudersi, al paragrafo 3, con la statuizione in forza della quale «i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione [...] e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali». Alla luce della nuova norma, dunque, la tutela dei diritti fondamentali nell’ambito dell’Unione europea deriva (o deriverà) da tre fonti distinte: in primo luogo, dalla Carta dei diritti fondamentali (cosiddetta Carta di Nizza), che l’Unione «riconosce» e che «ha lo stesso valore giuridico dei trattati»; in secondo luogo, dalla CEDU, come conseguenza dell’adesione ad essa dell’Unione; infine, dai «principi generali», che - secondo lo schema del previgente art. 6, paragrafo 2, del Trattato - comprendono i diritti sanciti dalla stessa CEDU e quelli risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri. Si tratta, dunque, di un sistema di protezione assai più complesso e articolato del precedente, nel quale ciascuna delle componenti è chiamata ad assolvere a una propria funzione. Il riconoscimento alla Carta di Nizza di un valore giuridico uguale a quello dei Trattati mira, in specie, a migliorare la tutela dei diritti fondamentali nell’ambito del sistema dell’Unione, ancorandola a un testo scritto, preciso e articolato. Sebbene la Carta «riafferm[i]», come si legge nel quinto punto del relativo preambolo, i diritti derivanti (anche e proprio) dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e dalla CEDU, il mantenimento di un autonomo richiamo ai «principi generali» e, indirettamente, a dette tradizioni costituzionali comuni e alla CEDU, si giustifica - oltre che a fronte dell’incompleta accettazione della Carta da parte di alcuni degli Stati membri (...)- anche al fine di garantire un certo grado di elasticità al sistema. Si tratta, cioè, di evitare che la Carta ‘cristallizzi’ i diritti fondamentali, impedendo alla Corte di giustizia di individuarne di nuovi, in rapporto all’evoluzione delle fonti indirettamente richiamate. A sua volta, la prevista adesione dell’Unione europea alla CEDU rafforza la protezione dei diritti umani, autorizzando l’Unione, in quanto tale, a sottoporsi a un sistema internazionale di controllo in ordine al rispetto di tali diritti”. Tutto ciò premesso, la Corte ha però escluso di poter accedere alla tesi di un’immediata e diretta “prevalenza” (nel senso sopra precisato) delle norme della CEDU sulle norme interne: “...Nessun argomento in tale direzione può essere tratto, anzitutto, dalla prevista adesione dell’Unione europea alla CEDU, per l’assorbente ragione che l’adesione non è ancora avvenuta. A prescindere da ogni altro possibile rilievo, la statuizione del paragrafo 2 del nuovo art. 6 del Trattato resta, dunque, allo stato, ancora improduttiva di effetti. La puntuale identificazione di essi dipenderà ovviamente dalle specifiche modalità con cui l’adesione stessa verrà realizzata. (...)Quanto, poi, al richiamo alla CEDU contenuto nel paragrafo 3 del medesimo art. 6 - secondo cui i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione «e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali» - si tratta di una

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disposizione che riprende, come già accennato, lo schema del previgente paragrafo 2 dell’art. 6 del Trattato sull’Unione europea: evocando, con ciò, una forma di protezione preesistente al Trattato di Lisbona. Restano, quindi, tuttora valide le considerazioni svolte da questa Corte in rapporto alla disciplina anteriore, riguardo all’impossibilità, nelle materie cui non sia applicabile il diritto dell’Unione (...), di far derivare la riferibilità alla CEDU dell’art. 11 Cost. dalla qualificazione dei diritti fondamentali in essa riconosciuti come «principi generali» del diritto comunitario (oggi, del diritto dell’Unione). Le variazioni apportate al dettato normativo - e, in particolare, la sostituzione della locuzione «rispetta» (presente nel vecchio testo dell’art. 6 del Trattato) con l’espressione «fanno parte» - non sono, in effetti, tali da intaccare la validità di tale conclusione. Come sottolineato nella citata sentenza n. 349 del 2007, difatti, già la precedente giurisprudenza della Corte di giustizia - che la statuizione in esame è volta a recepire - era costante nel ritenere che i diritti fondamentali, enucleabili dalla CEDU e dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, facessero «parte integrante» dei principi generali del diritto comunitario di cui il giudice comunitario era chiamato a garantire il rispetto (ex plurimis, sentenza 26 giugno 2007, C-305/05, Ordini avvocati contro Consiglio, punto 29). Rimane, perciò, tuttora valida la considerazione per cui i principi in questione rilevano unicamente in rapporto alle fattispecie cui il diritto comunitario (oggi, il diritto dell’Unione) è applicabile, e non anche alle fattispecie regolate dalla sola normativa nazionale. (...)Quest’ultimo rilievo è riferibile, peraltro, anche alla restante fonte di tutela: vale a dire la Carta dei diritti fondamentali, la cui equiparazione ai Trattati avrebbe determinato, secondo la parte privata, una «trattatizzazione» indiretta della CEDU, alla luce della ‘clausola di equivalenza’ che figura nell’art. 52, paragrafo 3, della Carta. In base a tale disposizione (compresa nel titolo VII, cui l’art. 6, paragrafo 1, del Trattato fa espresso rinvio ai fini dell’interpretazione dei diritti, delle libertà e dei principi stabiliti dalla Carta), ove quest’ultima «contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta Convenzione» (ferma restando la possibilità «che il diritto dell’Unione conceda una protezione più estesa»). Di conseguenza - sempre secondo la parte privata - i diritti previsti dalla CEDU che trovino un ‘corrispondente’ all’interno della Carta di Nizza (...)dovrebbero ritenersi ormai tutelati anche a livello di diritto dell’Unione europea. A prescindere da ogni ulteriore considerazione, occorre peraltro osservare come - analogamente a quanto è avvenuto in rapporto alla prefigurata adesione dell’Unione alla CEDU (art. 6, paragrafo 2, secondo periodo, del Trattato sull’Unione europea; art. 2 del Protocollo al Trattato di Lisbona relativo a detta adesione) - in sede di modifica del Trattato si sia inteso evitare nel modo più netto che l’attribuzione alla Carta di Nizza dello «stesso valore giuridico dei trattati» abbia effetti sul riparto delle competenze fra Stati membri e istituzioni dell’Unione. L’art. 6, paragrafo 1, primo alinea, del Trattato stabilisce, infatti, che «le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei trattati». A tale previsione fa eco la Dichiarazione n. 1 allegata al Trattato di Lisbona, ove si ribadisce che «la Carta non estende l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione al di là delle competenze dell’Unione, né introduce competenze nuove o compiti nuovi dell’Unione, né modifica le competenze e i compiti definiti dai trattati». I medesimi principi risultano, peraltro, già espressamente accolti dalla stessa Carta dei diritti, la quale, all’art. 51 (anch’esso compreso nel richiamato titolo VII), stabilisce, al paragrafo 1, che «le disposizioni della presente Carta si applicano alle istituzioni, organi e organismi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione»; recando, altresì, al paragrafo 2, una statuizione identica a quella della ricordata Dichiarazione n. 1. Ciò esclude, con ogni evidenza, che la Carta costituisca uno strumento di tutela dei diritti fondamentali oltre le competenze dell’Unione europea, come, del resto, ha reiteratamente affermato la Corte di giustizia, sia prima (tra le più recenti, ordinanza 17 marzo 2009, C-217/08, Mariano) che dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (sentenza 5 ottobre 2010, C-400/10 PPU, McB; ordinanza 12 novembre 2010, C-399/10, Krasimir e altri).

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Presupposto di applicabilità della Carta di Nizza è, dunque, che la fattispecie sottoposta all’esame del giudice sia disciplinata dal diritto europeo - in quanto inerente ad atti dell’Unione, ad atti e comportamenti nazionali che danno attuazione al diritto dell’Unione, ovvero alle giustificazioni addotte da uno Stato membro per una misura nazionale altrimenti incompatibile con il diritto dell’Unione - e non già da sole norme nazionali prive di ogni legame con tale diritto. Nel caso di specie (...)detto presupposto difetta: la stessa parte privata, del resto, non ha prospettato alcun tipo di collegamento tra il thema decidendum del giudizio principale e il diritto dell’Unione europea. (...)Alla luce delle considerazioni che precedono, si deve, dunque, conclusivamente escludere che, in una fattispecie quale quella oggetto del giudizio principale, il giudice possa ritenersi abilitato a non applicare, omisso medio, le norme interne ritenute incompatibili con l’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, secondo quanto ipotizzato dalla parte privata. Restano, per converso, pienamente attuali i principi al riguardo affermati da questa Corte a partire dalle sentenze n. 348 e 349 del 2007: principi, del resto, reiteratamente ribaditi dalla Corte stessa anche dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (sentenze n. 1 del 2011; n. 196, n. 187 e n. 138 del 2010) (...)”. 14.3. Questi principi sono stati, ancora in tempi molti recenti, ribaditi dalla Corte costituzionale in successiva pronuncia (sent. 18 luglio 2013, nr. 210). 15. Orbene, con riguardo alla fattispecie che qui occupa questa Sezione, alla luce dell’evidenziata impossibilità di procedere a diretta disapplicazione della norma nazionale (non essendo stato evidenziato, da nessuna delle parti dei giudizi, alcun legame tra la vicenda relativa all’indennizzo da eccessiva durata del processo e il diritto dell’Unione europea), reputa rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 7, della legge 24 marzo 2001, nr. 89 (il quale, come detto, recita: “...L’erogazione degli indennizzi agli aventi diritto avviene nei limiti delle risorse disponibili”), per contrasto con l’art. 117, comma 1, Cost. per tramite della norma interposta costituita dall’art. 6, par. 1, della CEDU, come interpretato dall’ormai costante giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. 15.1. Quanto al primo profilo, è evidente che la possibilità (o meno) di considerare la mancanza di risorse disponibili in bilancio quale legittimo impedimento all’immediata corresponsione dell’indennizzo da eccessiva durata del processo incide sul giudizio da dare, ai fini dell’applicazione della penalità di mora di cui all’art. 114, comma 4, lettera e), cod. proc. amm., in ordine al carattere giustificato o meno del ritardo dell’Amministrazione nel dare esecuzione al giudicato che si sia formato sulla condanna al pagamento del predetto indennizzo: infatti, la norma processuale testé citata stabilisce espressamente che l’astreinte può essere applicata “salvo che ciò sia manifestamente iniquo, e se non sussistono altre ragioni ostative”. In altri termini, ove mai si ritenesse legittima e tuttora applicabile la disposizione ex art. 3, comma 7, della legge nr. 89 del 2001 ciò escluderebbe, con ogni probabilità, la stessa possibilità di applicare la penalità di mora de qua all’Amministrazione la quale, condannata al pagamento di un indennizzo da eccessiva durata del processo, alleghi e comprovi che il ritardo nell’ottemperare al decisum giurisdizionale è ascrivibile alla indisponibilità in bilancio di risorse, essendo difficile negare che tale circostanza integri valida “ragione ostativa” all’immediata esecuzione. 15.2. Sul versante del merito, è conclamato il contrasto fra la disposizione interna e l’ormai consolidata interpretazione dell’art. 6, par. 1, della CEDU fatta propria dalla Corte di Strasburgo, la quale per quanto qui interessa si concreta in due principi specifici: a) il tempo occorrente per conseguire l’esecuzione di una decisione di condanna al pagamento di un indennizzo da eccessiva durata del processo, specie se costringe l’interessato a proporre un’azione esecutiva, fa parte a tutti gli effetti del processo stesso, e quindi va computato ai fini del rispetto da parte dello Stato del diritto fondamentale alla durata ragionevole dell’iter processuale; b) la carenza di risorse disponibili, più o meno temporanea che sia, non costituisce ex se idoneo fattore giustificativo del ritardo dello Stato nel dare esecuzione alle decisioni di condanna qui in discorso.

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Al contrario, la disposizione di cui al comma 7 dell’art. 3 della legge nr. 89 del 2001, laddove impone l’obbligo di corresponsione dell’indennizzo “nei limiti delle risorse disponibili”, si pone certamente in traiettoria divergente rispetto ai principi appena richiamati: infatti, anche a non volerne sposare una lettura “radicale” secondo cui l’indisponibilità di risorse esonererebbe addirittura in toto l’Amministrazione degli obblighi rivenienti dal giudicato di condanna, tale circostanza quanto meno precluderebbe di qualificare in termini di inadempimento – e, quindi, di condotta a qualsiasi titolo sanzionabile – il ritardo più o meno lungo nell’ottemperare che sia dovuto, per l’appunto, a siffatta indisponibilità. 15.3. Né è possibile comporre il contrasto testé evidenziato, come vorrebbero le parti appellate nei presenti giudizi, attraverso un’interpretazione “adeguatrice” della norma interna tale da renderla compatibile con i principi discendenti dalla CEDU. In particolare, gli odierni appellati assumono che sulla scorta della già richiamata giurisprudenza della Corte di Strasburgo, nella parte in cui ha equitativamente fissato in sei mesi il termine oltre il quale il ritardo nella corresponsione dell’indennizzo può qualificarsi non più giustificato, sarebbe predicabile una lettura dell’art. 3, comma 7, della legge nr. 89 del 2001 nel senso che le risorse necessarie per l’erogazione dell’indennizzo debbono essere reperite e rese disponibili dall’Amministrazione entro sei mesi dal passaggio in giudicato della decisione di condanna. Tuttavia, la Sezione ritiene che una tale operazione di “ortopedia” della previsione normativa vada ben oltre i limiti della normale attività ermeneutica, finendo non già per ricavare un significato fra i tanti astrattamente possibili del precetto, ma per costruire una vera e propria nuova disposizione, sostituendo quella che è una mera indicazione di possibili condizioni ostative all’immediata corresponsione dell’indennizzo con la previsione di un onere di reperimento dei fondi a carico dell’Amministrazione (oltre tutto, con fissazione di un termine perentorio). Quanto sopra appare confermato dalla circostanza che mai la giurisprudenza che si è occupata del problema, ivi comprese le sentenze oggetto degli appelli qui all’esame, ha ipotizzato una siffatta esegesi della norma interna, ragionando invece sempre in termini di irriducibile contrasto fra essa e i principi della CEDU, nonché – se del caso e, come si è visto, in maniera non condivisibile – di “disapplicazione” della prima. 15.4. Ai rilievi fin qui svolti può aggiungersi, richiamando la giurisprudenza costituzionale cui si è sopra fatto riferimento, che nel caso di specie, oltre al conflitto tra fonte interna e CEDU nel senso appena precisato, ricorre anche l’ulteriore presupposto dell’esistenza di un diverso parametro costituzionale sul quale sarebbe astrattamente possibile fondare la legittimità della norma interna; in altri termini, potrebbe ricorrere proprio una di quelle situazioni “eccezionali”, che soltanto la Corte costituzionale è abilitata a individuare, in cui l’esistenza di un principio fondamentale del diritto interno, di rango costituzionale, è suscettibile di escludere l’idoneità della previsione della CEDU a fungere da “norma interposta” del parametro ex art. 117, comma 1, Cost. È noto, infatti, che con la legge costituzionale 20 aprile 2012, nr. 1, l’art. 81 della Costituzione è stato modificato, introducendovi la regola dell’equilibrio di bilancio (comma 1), prevedendo il ricorso all’indebitamento solo in circostanze eccezionali e in presenza di un iter rafforzato (comma 2) e introducendo una fonte normativa del pari “rinforzata” per la definizione delle regole e dei criteri generali della legislazione sul bilancio pubblico (comma 6). Come noto, e come è dato evincere dalla lettura dei lavori parlamentari a monte della riforma costituzionale, quest’ultima è stata resa necessaria dalla necessità di assicurare il rispetto dei vincoli derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea, al fine di garantire il mantenimento negli Stati membri di livelli di disavanzo e debito predefiniti a livello europeo; tali obiettivi si è ritenuto di perseguire, oltre che con l’introduzione di più incisivi controlli a livello dell’Unione europea già nella fase di formazione del bilancio annuale, prevedendo un complesso di regole e meccanismi atti ad assicurare il monitoraggio costante del bilancio nella sue varie articolazioni (anche in relazione ai diversi settori dell’amministrazione pubblica), la verifica preventiva e la valutazione di ciascun impegno di spesa in relazione alla necessità di mantenere l’equilibrio tra poste attive e passive, e in definitiva il

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tendenziale perseguimento di tale equilibrio in via ordinaria e costante, salvo per ipotesi eccezionali e temporalmente delimitate. Esiste dunque un complesso di principi, di rango costituzionale e comunitario, in virtù dei quali ben potrebbe astrattamente predicarsi l’illegittimità di una regola di valore sub-costituzionale – quale è, secondo il costante orientamento della Corte costituzionale, il valore delle norme della CEDU – alla stregua della quale affermare l’obbligo dell’Amministrazione di reperire sempre e in qualsiasi momento, se necessario anche attraverso variazioni di bilancio, le risorse finanziarie necessarie ad assolvere agli obblighi indennitari derivanti dalle decisioni di condanna per eccessiva durata del processo ai sensi della legge nr. 89 del 2001. Al contrario, è noto che per l’assolvimento dei detti obblighi è stabilita in bilancio un’apposita voce basata, come per tutte le altre voci di spesa, su una previsione approssimativa dell’ammontare complessivo delle somme che lo Stato sarà chiamato a erogare a seguito delle condanne subite nel periodo finanziario di riferimento (stima la quale verosimilmente si fonda sul valore medio delle condanne riportate negli analoghi periodi immediatamente precedenti e su altri elementi presuntivi); ma il problema nasce nell’ipotesi, tutt’altro che infrequente nella pratica, in cui le somme stanziate in bilancio si rivelino insufficienti a coprire il debito complessivo riveniente dalle condanne de quibus. Risulta del tutto evidente, pertanto, come debba essere rimessa esclusivamente alla Corte costituzionale la valutazione in ordine non solo alla compatibilità fra l’art. 3, comma 7, della legge nr. 89 del 2001 e l’art. 6, par. 1, della CEDU (nel senso più volte precisato), ma anche – una volta verificato il conflitto tra le due fonti – a quale delle due debba effettivamente prevalere, stante il descritto quadro normativo di riferimento costituzionale e comunitario. 16. Per le ragioni dianzi esposte, questa Sezione solleva la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 7, della legge 24 marzo 2001, nr. 89, in relazione all’art. 117, comma 1, della Costituzione, per tramite della norma interposta costituita dall’art. 6, comma 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. 17. Il presente giudizio va quindi sospeso in attesa della decisione della Corte costituzionale; ogni ulteriore statuizione in rito, nel merito e in ordine alle spese del giudizio viene riservata alla decisione definitiva. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), riuniti gli appelli in epigrafe, letti gli artt. 134 Cost. e 23 della legge 11 marzo 1953, nr. 87, dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in relazione all’art. 117 Cost., dell’art. 3, comma 7, della legge 24 marzo 2001, nr. 89.

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4 Leggi di interpretazione autentica e leggi retroattive

4.1 Corte Costituzionale, sentenza n. 103 del 2013

TESTO DELLA SENTENZA (omissis) Considerato in diritto 1.— Con l’ordinanza in epigrafe, il Tribunale di Busto Arsizio ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 101, 102 e 104 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’ art. 15, comma 1, lettera c), della legge 4 giugno 2010, n. 96 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità Europee. Legge comunitaria 2009), in quanto prevede che l’articolo 11, comma 5, della legge 7 luglio 2009, n. 88 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità Europee. Legge comunitaria 2008), sia sostituito dalla norma di interpretazione autentica secondo la quale, «In attesa dell’emanazione dei decreti legislativi di cui al comma 1, l’articolo 3, comma 1, lettera e), della legge 26 ottobre 1995, n. 447, si interpreta nel senso che la disciplina relativa ai requisiti acustici passivi degli edifici e dei loro componenti non trova applicazione nei rapporti tra privati e, in particolare, nei rapporti tra costruttori-venditori e acquirenti di alloggi, fermi gli effetti derivanti da pronunce giudiziali passate in giudicato e la corretta esecuzione dei lavori a regola d’arte asseverata da un tecnico abilitato». 2.— (omissis) 3.— (omissis) 4.— Nel merito, la questione è fondata. Questa Corte ha ripetutamente affermato che il divieto di retroattività della legge, previsto dall’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale, pur costituendo valore fondamentale di civiltà giuridica, non riceve nell’ordinamento la tutela privilegiata di cui all’art. 25 Cost. (sentenze n. 78 e n. 15 del 2012, n. 236 del 2011, e n. 393 del 2006), e che «il legislatore – nel rispetto di tale previsione – può emanare norme retroattive, anche di interpretazione autentica, purché la retroattività trovi adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti «motivi imperativi di interesse generale», ai sensi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). La norma che deriva dalla legge di interpretazione autentica, quindi, non può dirsi costituzionalmente illegittima qualora si limiti ad assegnare alla disposizione interpretata un significato già in essa contenuto, riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario (ex plurimis: sentenze n. 271 e n. 257 del 2011, n. 209 del 2010 e n. 24 del 2009). In tal caso, infatti, la legge interpretativa ha lo scopo di chiarire «situazioni di oggettiva incertezza del dato normativo», in ragione di «un dibattito giurisprudenziale irrisolto» (sentenza n. 311 del 2009), o di «ristabilire un’interpretazione più aderente alla originaria volontà del legislatore» (ancora sentenza n. 311 del 2009), a tutela della certezza del diritto e dell’eguaglianza dei cittadini, cioè di principi di preminente interesse costituzionale. Accanto a tale caratteristica, questa Corte ha individuato una serie di limiti generali all’efficacia retroattiva delle leggi, attinenti alla salvaguardia, oltre che dei principi costituzionali, di altri fondamentali valori di civiltà giuridica, posti a tutela dei destinatari della

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norma e dello stesso ordinamento, tra i quali vanno ricompresi il rispetto del principio generale di ragionevolezza, che si riflette nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento; la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto; la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico; il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario (sentenza n. 209 del 2010, citata, punto 5.1, del Considerato in diritto). La norma impugnata nel presente giudizio travalica i limiti individuati dalla giurisprudenza della Corte ora richiamata. Innanzitutto, seppure formulata quale norma di interpretazione autentica, essa non interviene ad assegnare alla disposizione interpretata un significato già in questa contenuto, «riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario», al fine di chiarire «situazioni di oggettiva incertezza del dato normativo» in ragione di «un dibattito giurisprudenziale irrisolto» o di «ristabilire un’interpretazione più aderente alla originaria volontà del legislatore» a tutela della certezza del diritto e degli altri principi costituzionali richiamati. La ricostruzione del quadro normativo nel quale si inserisce la disposizione censurata conferma questa conclusione. La norma “interpretata” [art. 3, comma 1, lettera e), della legge n. 447 del 1995] disciplina infatti la modalità di esercizio della competenza statale nella individuazione dei requisiti acustici degli edifici, regolando il procedimento per l’adozione del relativo d.P.C.M., ma non considera in alcun modo i riflessi di tali disposizioni nei rapporti tra privati. La successiva disposizione innovativa contenuta nell’art. 11, comma 5, della legge n. 88 del 2009, ha stabilito che «In attesa del riordino della materia, la disciplina relativa ai requisiti acustici passivi degli edifici e dei loro componenti di cui all’art. 3, comma 1, lettera e), della legge 26 ottobre 1995, n. 447, non trova applicazione nei rapporti tra privati e, in particolare, nei rapporti tra costruttori-venditori e acquirenti di alloggi sorti successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge». Infine, la norma impugnata, sostituendo quest’ultima disposizione, è formulata quale norma interpretativa, ad effetto retroattivo, dell’art. 3, comma 1, lettera e), della legge n. 447 del 1995, che, come si è visto, attiene all’attribuzione della competenza statale nella materia, ma non riguarda i rapporti tra privati. In particolare, questa Corte ha affermato che «per quanto attiene alle norme che pretendono di avere natura meramente interpretativa, la palese erroneità di tale auto-qualificazione, ove queste non si limitino ad assegnare alla disposizione interpretata un significato già in essa contenuto e riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario, potrà costituire un indice di manifesta irragionevolezza» (ex plurimis, sentenze n. 41 del 2011, n. 234 del 2007, n. 274 del 2006). In secondo luogo, la retroattività della disposizione impugnata non trova giustificazione nella tutela di «principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti “motivi imperativi di interesse generale”, ai sensi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU)». Una tale finalità della disposizione censurata non emerge né dai lavori parlamentari, né dal suo intrinseco contenuto normativo. Tale contenuto viene ad incidere su rapporti ancora in corso, vanificando il legittimo affidamento di coloro che hanno acquistato beni immobili nel periodo nel quale vigeva ancora la norma “sostituita”, di cui all’art. 11, comma 5, della legge n. 88 del 2009, che, a tutela di tale affidamento e della certezza del diritto, specificava che la sospensione dell’applicazione nei rapporti tra privati delle norme sull’inquinamento acustico degli edifici valesse per il futuro, in riferimento agli «alloggi sorti successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge». Al contrario, la norma impugnata, oltre a ledere il legittimo affidamento sorto nei soggetti suddetti, contrasta con il principio di ragionevolezza, in quanto produce disparità di trattamento tra gli acquirenti di immobili in assenza di alcuna giustificazione, e favorisce una parte a scapito dell’altra, incidendo retroattivamente sull’obbligo dei privati, in particolare dei costruttori-venditori, di rispettare i requisiti acustici degli edifici stabiliti dal d.P.C.M. 2 dicembre 1997, di attuazione dell’art. 3, comma 1, lettera e), della legge n. 447 del 1995.

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Di conseguenza la questione sollevata è fondata, e la norma censurata deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima, a causa della violazione dell’art. 3 Cost., restando assorbite le censure prospettate in riferimento agli altri parametri costituzionali invocati. Per Questi Motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 15, comma 1, lettera c), della legge 4 giugno 2010, n. 96 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità Europee. Legge comunitaria 2009), sostitutivo dell’art. 11, comma 5, della legge 7 luglio 2009, n. 88 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità Europee. Legge comunitaria 2008).

4.2 Corte Costituzionale, sentenza n. 160 del 2013

Testo della sentenza

(omissis)

Considerato in diritto

1. – Il Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 2, comma 1-ter, del decreto-legge 5 agosto 2010, n. 125 (Misure urgenti per il settore dei trasporti e disposizioni in materia finanziaria), aggiunto dalla legge di conversione 1° ottobre 2010, n. 163, in riferimento all’art. 3, primo comma, della Costituzione, nell’ambito di un giudizio inerente ad un incarico di durata triennale di componente esperto a tempo pieno, esterno ai ruoli della pubblica amministrazione, del Servizio Consultivo ed Ispettivo Tributario (SECIT).

La disposizione impugnata stabilisce che «L’articolo 45, comma 1, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, si interpreta nel senso che l’incarico onorario di esperto del servizio consultivo ed ispettivo tributario si intende in ogni caso cessato ad ogni effetto, sia giuridico sia economico, a decorrere dalla data di entrata in vigore della predetta disposizione».

Il ricorrente del giudizio a quo era stato nominato nel 2007 ispettore del SECIT, organismo originariamente istituito dalla legge 24 aprile 1980, n. 146 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 1980), e regolato, per quanto riguarda attribuzioni, composizione e funzionamento, da altre fonti normative succedutesi nel tempo. In seguito, l’art. 45 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, ha stabilito, con decorrenza dal 26 giugno 2008, la soppressione del SECIT, con attribuzione delle relative funzioni al Dipartimento delle finanze del Ministero dell’economia e delle finanze (MEF), disponendo che il relativo personale di ruolo fosse restituito alle amministrazioni di appartenenza ovvero, se già personale del ruolo del MEF, assegnato al dipartimento di precedente appartenenza.

Sulla base di tale disposizione, all’ispettore veniva comunicata, solo verbalmente, la cessazione immediata dell’incarico precedentemente ricevuto. Egli ricorreva al giudice del lavoro, lamentando

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l’illegittimità della risoluzione così intervenuta e l’inadempienza del MEF rispetto alle obbligazioni retributive assunte con il conferimento dell’incarico e domandandone la condanna al pagamento delle spettanze economiche dal momento della anticipata cessazione fino alla scadenza prevista dall’incarico stesso.

La domanda si fonda sulla natura di lavoro dipendente del rapporto con il SECIT e, in subordine, di lavoro autonomo, con conseguente applicazione dell’art. 2227 del codice civile. Ad avviso del ricorrente, non vi sarebbero, al di fuori di tale alternativa, altre qualificazioni possibili e pertanto il recesso unilaterale del datore di lavoro committente dovrebbe dar luogo alla condanna al pagamento del relativo indennizzo, parametrato nel modo sopra indicato.

Al contrario, il Ministero resistente nega la configurabilità del rapporto come lavoro subordinato od autonomo, ritenendo la soppressione del SECIT causa sopravvenuta comportante l’impossibilità totale della prestazione. Inoltre, la norma impugnata avrebbe natura di interpretazione autentica chiarificatrice della qualità onoraria dell’incarico di esperto SECIT. Essa avrebbe sancito in modo inequivocabile la cessazione del rapporto ad ogni effetto giuridico ed economico, alla data di soppressione del SECIT. 1.1. – Il giudice rimettente dubita che la disposizione di interpretazione autentica richiami un significato compatibile con il dettato originale della norma riguardante l’abolizione del SECIT, anche alla luce di una serie di elementi sintomatici ricavati dalla disciplina che regolava, anteriormente alla soppressione, il rapporto tra il Servizio e gli ispettori, fossero essi pubblici dipendenti o esterni all’amministrazione.

La disposizione avrebbe incidenza sulla decisione del giudizio a quo, dal momento che solo l’esistenza di un rapporto di natura onoraria e la conseguente negazione sia dell’ipotesi di lavoro subordinato a tempo determinato, sia di quella di prestazione d’opera ai sensi dell’art. 2222 cod. civ. o della collaborazione coordinata e continuativa (o “para-subordinazione”), comporterebbero l’impossibilità di accogliere la domanda del ricorrente.

Nelle altre ipotesi interpretative, ora precluse dalla norma impugnata, non sarebbe sufficiente per l’amministrazione convenuta invocare il factum principis della soppressione legislativa del SECIT, essendo necessaria, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, la prova dell’impossibilità di destinare l’incaricato ad altra mansione utile – nel caso di specie – presso il Dipartimento delle Finanze. Possibilità, questa, allegata dal ricorrente, il quale ha evidenziato che le funzioni svolte dagli esperti erano state attribuite a tale Dipartimento presso il quale egli già era assegnato, ed ha citato una serie di reclutamenti successivi – da parte dell’amministrazione – di analoghe figure professionali.

In definitiva, la disposizione impugnata non rientrerebbe nei canoni di legittimità più volte enunciati dalla Corte costituzionale in materia di norme di interpretazione autentica e lederebbe il legittimo affidamento degli esperti del SECIT sulla natura e la durata della loro prestazione.

2. – La questione è fondata.

Va premesso che, come questa Corte ha più volte chiarito, il legislatore può adottare norme di interpretazione autentica non soltanto in presenza di incertezze sull’applicazione di una disposizione o di contrasti giurisprudenziali, ma anche quando la scelta imposta dalla legge rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario, così rendendo vincolante un significato ascrivibile ad una norma anteriore (ex plurimis, sentenze n. 271 del 2011, n. 209 del 2010, n. 24 del 2009, n. 170 del 2008 e n. 234 del 2007).

L’eventuale portata retroattiva della disposizione non è di per sé contraria a Costituzione, purché non collida con l’art. 25, secondo comma, Cost., non contrasti con altri valori e interessi costituzionalmente protetti e trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza (ex plurimis, sentenze n. 271 e 93 del 2011, n. 234 del 2007 e n. 374 del 2002).

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Quanto a tali limiti generali all’efficacia retroattiva delle leggi, attinenti alla salvaguardia di principi costituzionali, è utile ricordare il principio generale di ragionevolezza, che si riflette nel divieto d’introdurre ingiustificate disparità di trattamento; la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti interessati all’applicazione della norma; la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico; il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario (ex plurimis, sentenze n. 209 del 2010 e n. 397 del 1994).

Nella fattispecie in esame la disposizione impugnata riqualifica, ora per allora, rapporti da lungo tempo instaurati, attribuendo loro una natura che in effetti non aveva mai trovato alcun riconoscimento giurisprudenziale nei quasi trent’anni di esistenza del SECIT. Dal senso letterale della disposizione interpretata e di quelle ad essa geneticamente collegate non si ricava, infatti, il significato attribuitole dalla disposizione impugnata, né esisteva contrasto giurisprudenziale circa la sua inascrivibilità al servizio onorario. Risulta leso, dunque, l’affidamento degli ispettori esterni, legittimato da una serie di chiari elementi sintomatici di natura normativa.

2.1. – Quanto al profilo della compatibilità della norma di interpretazione autentica con il dettato originale di quella riguardante l’abolizione del SECIT, occorre preliminarmente sottolineare come essa sia sopravvenuta a due anni di distanza dall’altra, senza tenere in alcun conto le varie e numerose disposizioni precedenti, le quali – durante la vigenza di detto Servizio – avevano disciplinato in modo incompatibile con la disposizione interpretativa dei rapporti con gli esperti esterni, le modalità del loro svolgimento, il trattamento economico e le relative incompatibilità.

Così, a titolo esemplificativo, per quanto riguarda lo stato giuridico, agli esperti del SECIT non appartenenti alla pubblica amministrazione si applicavano, indipendentemente dalla loro provenienza, le disposizioni in materia riguardanti gli impiegati civili dello Stato (art. 18, comma 3, del d.P.R. 27 marzo 1992 n. 287, recante «Regolamento degli uffici e del personale del Ministero delle finanze»). Agli stessi spettava anche un trattamento economico onnicomprensivo pari al trattamento previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro dei dirigenti di prima fascia, oltre ad una speciale indennità (art. 22, comma 3, del d.P.R. 26 marzo 2001 n. 107, recante «Regolamento di organizzazione del Ministero delle finanze»). La loro selezione era sempre avvenuta attraverso valutazioni di carattere tecnico professionale e il loro lavoro all’interno dell’amministrazione era caratterizzato da un inserimento negli uffici regolato da specifica e minuziosa disciplina. Infine, il relativo compenso era parametrato al trattamento economico della dirigenza pubblica.

Questi caratteri, se risultano compatibili sia con un rapporto di pubblico impiego a tempo determinato, sia con un rapporto di locazione d’opera e/o lavoro parasubordinato, non sono invece presenti nei rapporti di servizio di tipo onorario. Detta qualificazione giuridica comporta, tra l’altro, che: a) i funzionari onorari cessano immediatamente dall’ufficio se questo – per qualsiasi ragione – venga in seguito meno, senza che siano applicabili le norme del contratto di lavoro a tempo determinato o con durata minima garantita o di collaborazione in regime di para-subordinazione; b) il loro rapporto non sarebbe connotato da prestazioni corrispettive e conseguentemente non azionabile nei termini del giudizio a quo.

Proprio la sopravvenuta qualificazione del SECIT come servizio onorario – secondo quanto meglio specificato nel successivo punto 3.4. – risulta decisiva nel mutare il quadro del contenzioso in atto, escludendo l’applicabilità della disciplina dettata dagli artt. 1218, 1256 e 1463 cod. civ.

2.2. – Il fatto che il significato oggettivo della norma interpretata non risulta compatibile con quello attribuitole dalla norma interpretativa trova conferma nella giurisprudenza formatasi sul punto.

Occorre a tal fine premettere che i giudizi ingenerati dalle rivendicazioni degli esperti esterni dopo l’intervenuta soppressione del SECIT non hanno superato – al momento della decisione della presente

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questione – il primo grado, di modo che non si è venuto a manifestare, sul punto specifico, l’orientamento del giudice nomofilattico (le istanze degli ex esperti esterni del SECIT, discendenti dall’anticipata cessazione dei rispettivi incarichi, sono state oggetto di ripetuto vaglio giudiziario da parte del Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro).

Tutte le decisioni intervenute a ricostruire la natura del rapporto degli esperti esterni oscillano tra la configurabilità di un rapporto di pubblico impiego a tempo determinato e la collaborazione di tipo professionale, iure privatorum, rientrante nell’ambito della para-subordinazione, equiparata ex lege, quanto al trattamento economico ed al restante regime giuridico, agli incarichi a tempo determinato del personale dirigenziale dello Stato.

È opportuno, per inquadrare esattamente l’influenza della norma in esame sui giudizi pendenti, che, ai fini dell’applicazione dei principi desumibili dagli artt. 1218, 1256 e 1463 cod. civ., non assume rilievo la distinzione tra rapporto di pubblico impiego e para-subordinazione, poiché entrambe le fattispecie rientrano comunque in tipi contrattuali caratterizzati da prestazioni corrispettive assoggettabili al principio dell’indennizzo quando è provata l’utilizzabilità alternativa del prestatore. Al contrario, tale possibilità è preclusa in caso di servizio onorario.

2.3. – Strettamente legato alla qualificazione giuridica del rapporto degli esperti esterni del SECIT è il rilievo della lesione all’affidamento ingenerato dal pacifico trattamento giuridico ed economico riservato loro per circa trent’anni .

Da quanto argomentato, infatti, si ricava che la censura di violazione dell’art. 3, primo comma, Cost. è fondata sotto l’assorbente profilo della lesione del legittimo affidamento: la norma è sopraggiunta, infatti, solo quando il SECIT già non esisteva più ed i relativi rapporti di lavoro erano oramai esauriti, per riqualificarli retroattivamente, attribuendo loro la veste della funzione onoraria, mai precedentemente considerata. Il legislatore ha in tal modo leso le legittime aspettative degli esperti esterni, consistenti nel convincimento che i rispettivi incarichi restassero assoggettati alla generale normativa prevista dal codice civile in materia di contratti a prestazioni corrispettive.

2.4. – Le precedenti osservazioni chiariscono come la norma di interpretazione autentica in realtà abbia prodotto un effetto assolutamente innovativo su fattispecie chiuse, in pregiudizio a posizioni già maturate ed influenzando situazioni processuali altrimenti indirizzate in modo diverso.

La soppressione del SECIT per factum principis costituisce un evento che incide sul contesto organizzativo presso il quale era svolto il servizio. Pur non essendo imputabile la causa soppressiva all’amministrazione, nondimeno sotto il profilo contrattuale la risoluzione del rapporto non potrebbe conseguire senz’altro a tale evento, se esso non comportasse l’impossibilità di ogni proficuo riutilizzo dell’ispettore. Infatti, l’istituto dell’impossibilità sopravvenuta, di cui all’art. 1463 cod. civ., sarebbe applicabile alla descritta fattispecie di cessazione anticipata del contratto di lavoro a tempo determinato solo nel caso in cui l’evento generatore della cessazione rendesse assolutamente impossibile la prestazione lavorativa. Nel caso dei contratti a prestazioni corrispettive è infatti da escludere che il factum principis costituisca, di per sé, elemento sufficiente a configurare l’impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa, dal momento che ad esso si deve accompagnare la dimostrazione, da parte del datore di lavoro o del dante causa, dell’impossibilità di continuare a ricevere la prestazione (ex plurimis Cass. civ. n. 3276 del 2009, n. 14871 del 2004 e n. 4437 del 1995). Ove, al contrario, fosse possibile adibire il lavoratore a mansioni analoghe nella organizzazione aziendale “sopravvissuta” agli effetti del factum principis, la mancata utilizzazione dello stesso renderebbe fondate le ragioni del prestatore.

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In sostanza, questo era il thema decidendum del giudizio instaurato dall’ispettore fino al momento in cui la sopravvenuta qualificazione di servizio onorario non ha alterato i presupposti normativi della controversia. Detta qualificazione, infatti, comporta che la cessazione anzitempo preclude l’obbligo risarcitorio a carico dello Stato. Al contrario, senza la nuova norma, sarebbe possibile, ove ne ricorrano i presupposti, l’accoglimento delle pretese economiche, stante l’applicabilità dell’art. 1463 cod. civ.

3. – In conclusione, la norma impugnata non ha attribuito alla disposizione interpretata un significato rientrante tra le possibili varianti di senso del testo originario.

Essa ha invece realizzato, con efficacia retroattiva, una sostanziale modifica della normativa precedente, così ledendo l’affidamento ingenerato dal trattamento riservato per circa trent’anni agli ispettori esterni del SECIT. Pertanto, deve essere dichiarata illegittima per contrasto con l’art. 3 Cost.

(omissis)

4.3 Corte Cost. , sentenza n. 170 del 2013

TESTO DELLA SENTENZA

Considerato in diritto 1.– Il giudice delegato presso la sezione fallimentare del Tribunale di Firenze ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 2752, primo comma, del codice civile, «in combinato disposto coll’art. 23, commi 37 e 40», del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, per violazione degli artt. 3, primo e secondo comma, 117, primo comma, della Costituzione e 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), in seguito indicata come CEDU. Il giudice rimettente ritiene che le disposizioni impugnate, oltre ad innovare la disciplina del privilegio nell’ambito delle procedure fallimentari, prevedano anche l’applicazione retroattiva della stessa; ciò consentirebbe la ricollocazione in sede privilegiata dei crediti erariali derivanti da sanzioni relative ad imposte dirette, già ammessi al chirografo nello stato passivo esecutivo divenuto definitivo, in violazione dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza, di cui all’art. 3 Cost., oltre che dell’art. 6 della CEDU, come applicata dalla Corte europea. In particolare, l’art. 23, comma 37, del decreto-legge n. 98 del 2011 convertito, con modificazioni, dalla legge n. 111 del 2011, ha stabilito che: «Al comma 1 dell’articolo 2752 del codice civile, le parole: “per l’imposta sul reddito delle persone fisiche, per l’imposta sul reddito delle persone giuridiche, per l’imposta regionale sulle attività produttive e per l’imposta locale sui redditi, diversi da quelli indicati nel primo comma dell’articolo 2771, iscritti nei ruoli resi esecutivi nell’anno in cui il concessionario del servizio di riscossione procede o interviene nell’esecuzione e nell’anno precedente” sono sostituite dalle seguenti: “per le imposte e le sanzioni dovute secondo le norme in materia di imposta sul reddito delle persone fisiche, imposta sul reddito delle persone giuridiche, imposta sul reddito delle società, imposta regionale sulle attività produttive ed imposta locale sui redditi”. La disposizione si osserva anche per i crediti sorti anteriormente all’entrata in vigore del presente decreto».

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L’art. 23, comma 40, del medesimo decreto-legge n. 98 del 2011 convertito, con modificazioni, dalla legge n. 111 del 2011, ha poi previsto che: «I titolari di crediti privilegiati, intervenuti nell’esecuzione o ammessi al passivo fallimentare in data anteriore alla data di entrata in vigore del presente decreto, possono contestare i crediti che, per effetto delle nuove norme di cui ai precedenti commi, sono stati anteposti ai loro crediti nel grado del privilegio, valendosi, in sede di distribuzione della somma ricavata, del rimedio di cui all’articolo 512 del codice di procedura civile, oppure proponendo l’impugnazione prevista dall’articolo 98, comma 3, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nel termine di cui all’articolo 99 dello stesso decreto». 2.– Occorre, in via preliminare, procedere ad una corretta identificazione del thema decidendum, alla luce di una lettura complessiva dell’ordinanza di rimessione (ex plurimis sentenze n. 25 del 2012, n. 128 del 2010 e n. 350 del 2007). Nonostante il richiamo al «combinato disposto coll’art. 2752», primo comma, cod. civ. il giudice dubita della legittimità costituzionale della sola portata retroattiva delle disposizioni impugnate. Non è invece censurata in sé e per sé l’estensione del privilegio ai crediti dello Stato da sanzioni tributarie, determinatasi per effetto della modifica legislativa introdotta dall’art. 23, comma 37, del decreto-legge n. 98 del 2011. Il presente giudizio riguarda, dunque, esclusivamente l’art. 23, commi 37, ultimo periodo, e 40 del decreto-legge n. 97 del 2011, come successivamente convertito in legge, nella parte, cioè, in cui dispone l’applicazione retroattiva del nuovo testo dell’art. 2752, primo comma, cod. civ., che estende il privilegio ai crediti erariali derivanti dall’IRES (imposta sui redditi delle società) e da sanzioni tributarie relative a determinate imposte dirette. In effetti, l’intervento legislativo che viene in rilievo nel presente giudizio si articola in diverse previsioni: anzitutto, il citato art. 23, comma 37, ha novellato il testo dell’art. 2752, comma 1, cod. civ., ampliando il novero dei crediti erariali assistiti da privilegio nelle procedure concorsuali. Questa norma – come già si è osservato – non è contestata in sé dal giudice remittente, il quale appunta le proprie censure sulla disciplina degli effetti temporali di tale modifica normativa, contenuta nell’ultimo periodo del medesimo art. 23, comma 37, che testualmente recita: «La disposizione si osserva anche per i crediti sorti anteriormente all’entrata in vigore del presente decreto». Inoltre, sempre in ordine agli effetti nel tempo della modifica legislativa, il giudice ha impugnato anche l’art. 23, comma 40, del medesimo testo normativo, ove si prevede che i creditori privilegiati già ammessi al passivo fallimentare possano contestare i crediti che, per effetto delle nuove disposizioni di cui all’art. 23, comma 37, sono stati anteposti ai loro nel grado del privilegio. Dalla lettura congiunta delle due previsioni da ultimo menzionate – art. 23, comma 37, ultimo periodo, e comma 40 – si evince che l’estensione del privilegio, disposta dal primo periodo del comma 37, esplica effetti retroattivi, fino ad influire sullo stato passivo esecutivo già divenuto definitivo, superando così anche il limite del giudicato “endo-fallimentare”. 3.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto nel giudizio, ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile, per mancata sperimentazione di una interpretazione conforme e per insufficiente motivazione sulla rilevanza. Le eccezioni non sono fondate. 3.1.– Al riguardo deve anzitutto osservarsi che la disposizione di cui all’art. 23, comma 37, ultima parte – secondo cui l’estensione del privilegio «si osserva anche per i crediti sorti anteriormente all’entrata in vigore del presente decreto» – non può avere altro significato che quello di consentire la ricollocazione in sede privilegiata di un credito ammesso al chirografo in uno stato passivo esecutivo già divenuto definitivo. Infatti, secondo i principi generali delle procedure fallimentari, l’introduzione di un nuovo privilegio da parte del legislatore deve sempre ricevere immediata applicazione da parte del giudice delegato, dal momento che le norme processuali sulla gradazione dei crediti si individuano avendo riguardo al momento in cui il credito viene fatto valere. Dunque, una previsione come quella contenuta nel comma 37, non può avere altro significato che quello di estendere retroattivamente l’applicabilità della nuova

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regola, oltre ai casi consentiti in base ai principi generali e cioè a quelli in cui lo stato passivo esecutivo è già definitivo. Anche in passato, del resto, analoghe disposizioni, che prevedevano l’applicazione di un nuovo privilegio ai crediti anteriormente sorti, sono sempre state univocamente e pacificamente interpretate nel senso che con esse si intendesse estendere la possibilità di riconoscere il privilegio anche ai crediti ammessi come chirografi con provvedimenti definitivi, purché non si fosse già proceduto al riparto dell’attivo. Ciò è avvenuto, in particolare, con riferimento alle disposizioni dell’art. 15 della legge 29 luglio 1975, n. 426 (Modificazioni al codice civile e alla legge 30 aprile 1963, n. 153, in materia di privilegi), che introdusse la nuova sistematica dei privilegi: l’univoco e pacifico orientamento espresso dalla Corte di cassazione civile al riguardo (sentenza n. 235 del 1980) è stato nel senso che il significato della disposizione fosse quello di superare il cosiddetto “giudicato endo-fallimentare” e di tale orientamento ha preso atto anche questa Corte, con la sentenza n. 325 del 1983, considerandolo «diritto vivente». Né tale linea interpretativa risulta essere mai stata disattesa successivamente. 3.2.– Concorre a determinare la portata retroattiva della normativa in esame anche il comma 40 dell’art. 23, secondo cui, come si è detto, i creditori privilegiati già ammessi al passivo fallimentare possono contestare i crediti che, per effetto delle nuove disposizioni, sono stati loro anteposti. Tale previsione, infatti, non ha solo l’effetto di una rimessione in termini per proporre opposizione allo stato passivo dichiarato esecutivo, ma conferma che la portata temporale del nuovo e più ampio privilegio accordato ai crediti erariali si estende retroattivamente fino a comprendere i casi in cui lo stato passivo esecutivo sia divenuto definitivo. Infatti, per i casi in cui lo stato passivo non sia ancora definitivo prima della ricollocazione del credito erariale in sede privilegiata, il citato art. 23, comma 40, sarebbe superfluo, giacché il creditore privilegiato già ammesso avrebbe la possibilità di opporsi alla ricollocazione del credito erariale in forza della generale disposizione di cui all’art. 98 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), entro il termine di cui all’art. 99 dello stesso regio decreto (trenta giorni dalla comunicazione dell’esecutività o dalla successiva notizia dell’ammissione). Viceversa, dopo lo spirare di tale termine, lo stato passivo diviene definitivo e l’opposizione sarebbe inammissibile, dato che, per giurisprudenza costante, ogni modifica relativa al rango del credito già ammesso (chirografario o privilegiato) è «preclusa al di fuori dei rimedi previsti dagli artt. 98 e seguenti della legge fallimentare» cioè dell’indicato regio decreto (sentenza della Corte di cassazione civile n. 17888 del 2004), ed è perciò «esclusa la proponibilità di ogni altra questione relativa all’esistenza, qualità e quantità dei crediti e dei privilegi», posto che tali questioni «devono essere proposte con la forma dell’opposizione allo stato passivo ex art. 98 legge fall.» (sentenze della Corte di cassazione civile n. 13289 del 2012 e n. 12732 del 2011). Pertanto, si deve ritenere che la previsione contenuta nel citato comma 40 valga proprio per i casi in cui lo stato passivo si sia originariamente formato collocando i crediti erariali per l’IRES e le sanzioni tributarie in sede chirografaria e, in tale conformazione, sia divenuto definitivo, essendo ormai trascorso il termine per l’opposizione ai sensi degli art. 98 e 99 della legge fallimentare (r.d. n. 267 del 1942). In tale ipotesi il creditore privilegiato non avrebbe ragione di impugnare lo stato passivo nella pendenza del termine di cui all’art. 99 della legge fallimentare, posto che il credito erariale per le sanzioni e per l’IRES è stato ammesso come chirografo: l’interesse all’impugnazione, pertanto, sopravviene solo al momento della modifica dello stato passivo definitivo, resa possibile dalla novella legislativa qui impugnata, quando viene disposta la ricollocazione in sede privilegiata del credito per le sanzioni tributarie e per l’IRES, prima ammesso come chirografo. In questi casi, a tutelare gli interessi dei creditori privilegiati diversi dallo Stato, soccorre la previsione del citato art. 23, comma 40, il cui significato è proprio quello di consentire loro di opporsi alla modifica dello stato passivo esecutivo divenuto definitivo, per tutelare la propria posizione che, in base alle regole generali, non avrebbe altrimenti rimedio.

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In altre parole, per effetto del menzionato art. 23, comma 40, i titolari di crediti privilegiati, ammessi al passivo fallimentare divenuto definitivo in data anteriore a quella di entrata in vigore del decreto-legge, possono proporre l’impugnazione (prevista dall’art. 98, terzo comma, della legge fallimentare) dei crediti che, per effetto delle nuove norme, si trovino anteposti ai loro nel grado di privilegio, nel termine di cui all’art. 99 della stessa legge fallimentare, decorrente dalla data del riconoscimento “tardivo” della nuova posizione del credito erariale derivante da sanzioni tributarie, consentito dalle disposizioni impugnate. Il citato art. 23, comma 40, dunque, pur non contenendo una esplicita previsione di diritto intertemporale, presuppone che l’estensione del privilegio ai crediti erariali si applichi retroattivamente, superando la preclusione processuale dovuta al giudicato “endo-fallimentare”, che si determina quando lo stato passivo diviene definitivo. 3.3.– Alla luce delle precedenti considerazioni risultano destituite di fondamento le eccezioni di inammissibilità sollevate dall’Avvocatura generale dello Stato, aventi riguardo sia all’insufficiente motivazione sulla retroattività delle disposizioni oggetto del presente giudizio, sia alla mancata sperimentazione di una interpretazione conforme. Nessuna possibilità di interpretazione sembra, infatti, potersi evincere dal testo degli impugnati commi 37 e 40 dell’art. 23 del decreto-legge n. 98 del 2011 diversa da quella illustrata al punto precedente, che consente di ricollocare in sede privilegiata i crediti erariali per l’IRES e per le sanzioni tributarie, superando la preclusione “endo-procedimentale” che consegue alla formazione del cosiddetto giudicato fallimentare. Devesi, dunque, ritenere che il giudice remittente abbia correttamente argomentato in ordine alla rilevanza della prospettata questione di legittimità, connessa all’applicazione retroattiva del nuovo art. 2752, primo comma, cod. civ., e abbia altresì assolto l’obbligo di saggiare la possibilità di un’interpretazione conforme a Costituzione e alla CEDU: tale canone interpretativo, infatti, incontra sempre e comunque un limite nell’univoco tenore della disposizione impugnata e nell’impossibilità di attribuire alla stessa un significato diverso da quello sospettato di illegittimità (ex plurimis sentenza n. 26 del 2010), impossibilità che si verifica, appunto, nel caso di specie. 4.– Nel merito, la questione è fondata. 4.1.– La disciplina censurata, come già emerge dall’esposizione di cui ai punti precedenti, consente di applicare il nuovo regime dei privilegi erariali anche nelle procedure fallimentari in cui lo stato passivo esecutivo sia già divenuto definitivo, superando il cosiddetto giudicato “endo-fallimentare”. Di conseguenza essa non solo ha una portata retroattiva, ma altera altresì i rapporti tra i creditori, già accertati con provvedimento del giudice ormai consolidato dall’intervenuta preclusione processuale, favorendo le pretese economiche dello Stato a detrimento delle concorrenti aspettative delle parti private. Tali essendo gli effetti della disciplina impugnata, occorre esaminare la questione di legittimità portata all’esame di questa Corte alla luce della giurisprudenza costituzionale e sovranazionale sviluppatasi in materia di leggi retroattive, rispettivamente in riferimento all’art. 3 Cost. e all’art. 6 della CEDU, come richiamato dall’art. 117, primo comma, Cost., che costituiscono i parametri del presente giudizio. 4.2.– I profili di illegittimità costituzionale prospettati dal giudice rimettente debbono essere esaminati congiuntamente, in modo che l’art. 6 CEDU, come applicato dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, sia letto in rapporto alle altre disposizioni costituzionali e, nella specie, all’art. 3 Cost., secondo gli orientamenti seguiti dalla giurisprudenza costituzionale in tema di efficacia delle norme della CEDU, sin dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007. Infatti, questa Corte ha affermato che «la norma CEDU, nel momento in cui va ad integrare il primo comma dell’art. 117 Cost., come norma interposta, diviene oggetto di bilanciamento, secondo le ordinarie operazioni cui questa Corte è chiamata in tutti i giudizi di sua competenza», affinché si realizzi la necessaria «integrazione delle tutele» (sentenza n. 264 del 2012), che spetta a questa Corte assicurare nello svolgimento del proprio infungibile ruolo. Pertanto, anche quando vengono in rilievo ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost., norme della CEDU, la valutazione di legittimità costituzionale «deve essere operata con riferimento al

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sistema, e non a singole norme, isolatamente considerate», in quanto «un’interpretazione frammentaria delle disposizioni normative […] rischia di condurre, in molti casi, ad esiti paradossali, che finirebbero per contraddire le stesse loro finalità di tutela» (sentenza n. 1 del 2013). Altrimenti detto, questa Corte opera una valutazione «sistemica e non frazionata» dei diritti coinvolti dalla norma di volta in volta scrutinata, effettuando il necessario bilanciamento in modo da assicurare la «massima espansione delle garanzie» di tutti i diritti e i principi rilevanti, costituzionali e sovranazionali, complessivamente considerati, che sempre si trovano in rapporto di integrazione reciproca (sentenze n. 85 del 2013 e n. 264 del 2012). 4.3.– Con riferimento al caso in esame, i principi di cui sopra portano a rilevare, anzitutto, che «il divieto di retroattività della legge (art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale), pur costituendo valore fondamentale di civiltà giuridica, non riceve nell’ordinamento la tutela privilegiata di cui all’art. 25 Cost.», riservata alla materia penale, con la conseguenza che «il legislatore – nel rispetto di tale previsione – può emanare norme con efficacia retroattiva, anche di interpretazione autentica, purché la retroattività trovi adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti «motivi imperativi di interesse generale», ai sensi della CEDU (ex plurimis sentenza n. 78 del 2012). Tuttavia, occorre che la retroattività non contrasti con altri valori e interessi costituzionalmente protetti (ex plurimis sentenze nn. 93 e 41 del 2011) e, pertanto, questa Corte ha individuato una serie di limiti generali all’efficacia retroattiva delle leggi attinenti alla salvaguardia di principi costituzionali e di altri valori di civiltà giuridica, tra i quali sono ricompresi «il rispetto del principio generale di ragionevolezza, che si riflette nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento; la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto; la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico; il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario» (ex multis sentenze n. 78 del 2012 e n. 209 del 2010). In particolare, in situazioni paragonabili al caso in esame, la Corte ha già avuto modo di precisare che la norma retroattiva non può tradire l’affidamento del privato, specie se maturato con il consolidamento di situazioni sostanziali, pur se la disposizione retroattiva sia dettata dalla necessità di contenere la spesa pubblica o di far fronte ad evenienze eccezionali (ex plurimis, sentenze n. 24 del 2009, n. 374 del 2002 e n. 419 del 2000). 4.4.– Del tutto affini sono i principi in tema di leggi retroattive sviluppati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in riferimento all’art. 6 della CEDU, i quali trovano applicazione anche nell’ambito delle procedure concorsuali, come è attestato da specifiche pronunce della Corte europea riguardanti l’Italia (pronunce 11 dicembre 2003, Bassani contro Italia; 15 novembre 1996, Ceteroni contro Italia). La Corte di Strasburgo, infatti, ha ripetutamente affermato, con specifico riguardo a leggi retroattive del nostro ordinamento, che in linea di principio non è vietato al potere legislativo di stabilire in materia civile una regolamentazione innovativa a portata retroattiva dei diritti derivanti da leggi in vigore, ma il principio della preminenza del diritto e la nozione di processo equo sanciti dall’art. 6 della CEDU, ostano, salvo che per motivi imperativi di interesse generale, all’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia al fine di influenzare l’esito giudiziario di una controversia (pronunce 11 dicembre 2012, De Rosa contro Italia; 14 febbraio 2012, Arras contro Italia; 7 giugno 2011, Agrati contro Italia; 31 maggio 2011, Maggio contro Italia; 10 giugno 2008, Bortesi contro Italia; Grande Camera, 29 marzo 2006, Scordino contro Italia). La Corte di Strasburgo ha altresì rimarcato che le circostanze addotte per giustificare misure retroattive devono essere intese in senso restrittivo (pronuncia 14 febbraio 2012, Arras contro Italia) e che il solo interesse finanziario dello Stato non consente di giustificare l’intervento retroattivo (pronunce 25 novembre 2010, Lilly France contro Francia; 21 giugno 2007, Scanner de l’Ouest Lyonnais contro Francia; 16 gennaio 2007, Chiesi S.A. contro Francia; 9 gennaio 2007, Arnolin contro Francia; 11 aprile 2006, Cabourdin contro Francia). Viceversa, lo stato del giudizio e il grado di consolidamento dell’accertamento, l’imprevedibilità dell’intervento legislativo e la circostanza che lo Stato sia parte in senso stretto della controversia, sono

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tutti elementi considerati dalla Corte europea per verificare se una legge retroattiva determini una violazione dell’art. 6 della CEDU: sentenze 27 maggio 2004, Ogis Institut Stanislas contro Francia; 26 ottobre 1997, Papageorgiou contro Grecia; 23 ottobre 1997, National & Provincial Building Society contro Regno Unito. Le sentenze da ultimo citate, pur non essendo direttamente rivolte all’Italia, contengono affermazioni generali, che la stessa Corte europea ritiene applicabili oltre il caso specifico e che questa Corte considera vincolanti anche per l’ordinamento italiano. 4.5.– Nella specie, oggetto di giudizio è, come si è detto, una normativa che, ampliando il novero dei crediti erariali assistiti dal privilegio nell’ambito delle procedure fallimentari, regola rapporti di natura privata tra creditori concorrenti di uno stesso debitore, con effetti retroattivi, fino ad influire sullo stato passivo esecutivo già divenuto definitivo, superando così anche il limite del giudicato “endo-fallimentare”. Tali essendo i contenuti della normativa impugnata, i principi giurisprudenziali sopra esposti, sviluppati tanto da questa Corte, quanto dalla Corte europea, impongono una declaratoria di illegittimità costituzionale, dovendosi attribuire un adeguato rilievo alle seguenti circostanze: il consolidamento, conseguito con il cosiddetto giudicato “endo-fallimentare”, delle aspettative dei creditori incise dalla disposizione retroattiva; l’imprevedibilità dell’innovazione legislativa; l’alterazione a favore dello Stato – parte della procedura concorsuale – del rapporto tra creditori concorrenti, determinata dalle norme in discussione; l’assenza di adeguati motivi che giustifichino la retroattività della legge. In ordine a quest’ultimo aspetto, è opportuno sottolineare che, a differenza di altre discipline retroattive recentemente scrutinate dalla Corte costituzionale (sentenza n. 264 del 2012), le disposizioni censurate non sono volte a perseguire interessi di rango costituzionale, che possano giustificarne la retroattività. L’unico interesse è rappresentato da quello economico dello Stato, parte del procedimento concorsuale. Tuttavia, un simile interesse è inidoneo di per sé, nel caso di specie, a legittimare un intervento normativo come quello in esame, che determina una disparità di trattamento, a scapito dei creditori concorrenti con lo Stato, i quali vedono ingiustamente frustrate le aspettative di riparto del credito che essi avevano legittimamente maturato. 4.6.– Pertanto, la disciplina impugnata palesa la sua illegittimità sia per violazione dei principi di uguaglianza e di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., sia per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della CEDU, in considerazione del pregiudizio che essa arreca alla tutela dell’affidamento legittimo e della certezza delle situazioni giuridiche, in assenza di motivi imperativi di interesse generale costituzionalmente rilevanti. Per Questi Motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 23, comma 37, ultimo periodo, e comma 40, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, nei sensi di cui in motivazione. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'1 luglio 2013.

4.4 Corte Cost. 2 aprile 2014, n. 69

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4.5 Corte Cost., 4 luglio 2014, n. 191

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5 Legge provvedimento

5.1 Corte cost., sentenze n. 94 del 2009

Testo della sentenza

(omissis)

Considerato in diritto

1.- Il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione distaccata di Lecce, con una ordinanza, il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, con otto ordinanze, il Tribunale amministrativo per la Calabria, sede di Catanzaro, sezione I, con due ordinanze, il Tribunale amministrativo per la Lombardia, con una ordinanza, ed il Tribunale amministrativo regionale per il Friuli-Venezia Giulia, con una ordinanza, hanno sollevato, in riferimento agli artt. 3 (r.o. n. 132/08, n. 133/2008, n. 176/08 e n. 399/08), 24 e 113 (r.o. n. 78/08, n. 132/08, n. 133/08, n. 176/08, n. 230/08, n. 231/08, n. 255/08, n. 256/08, n. 262/08, n. 263/08, n. 368/08 e n. 399/08, parametri indicati in quest'ultima ordinanza nella motivazione), 32, 41, 97 e 117 (recte: 117, terzo comma) (r.o. n. 27/08, n. 78/08, n. 132/08, n. 133/08, n. 176/08 – questa ordinanza non fa riferimento all'art. 32 –, n. 230/08, n. 231/08, n. 255/08, n. 256/08, n. 262/08 n. 263/08, n. 368/08 e n. 399/08, quest'ultima ordinanza non fa riferimento all'art. 117 Cost.), 103 (r.o. n. 176/08) e 119 della Costituzione (r.o. n. 133/08; n. 176/08), questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 796, lettera o), della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007), nonché del citato art. 1, comma 796, lettera o), e dell'art. 33, comma 2, della legge della Regione Puglia 16 aprile 2007 n. 10 (Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione 2007 e bilancio pluriennale 2007-2009 della Regione Puglia), nel testo sostituito dall'art. 2 della legge della stessa Regione 5 giugno 2007, n. 16 (Prima variazione al bilancio di previsione per l'esercizio finanziario 2007) (r.o. n. 27, n. 230 e n. 231 del 2008), nella parte in cui stabiliscono che le prestazioni rese dalle strutture private accreditate per conto del Servizio sanitario nazionale (di seguito, S.s.n.) sono remunerate applicando uno sconto sugli importi indicati nel decreto del Ministro della sanità 22 luglio 1996, pubblicato nel supplemento ordinario n. 150 alla Gazzetta Ufficiale n. 216 del 14 settembre 1996.

2.- I giudizi hanno tutti ad oggetto l'art. 1, comma 796, lettera o), della legge n. 296 del 2006; tre di essi anche l'art. 33, comma 2, della legge della Regione Puglia n. 10 del 2007, nel testo modificato dall'art. 2 della legge della stessa Regione n. 16 del 2007, censurati, in larga misura, in riferimento agli stessi parametri costituzionali, per profili e con argomentazioni sostanzialmente coincidenti, sì che vanno riuniti, per essere decisi con un'unica sentenza.

3.- (omissis)

4.- (omissis)

5.- L'art. 1, comma 796, lettera o), della legge n. 296 del 2006 concerne la remunerazione delle prestazioni rese per conto del S.s.n. dalle strutture private accreditate e, nella parte censurata, dispone: «fatto salvo quanto previsto in materia di aggiornamento dei tariffari delle prestazioni sanitarie

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dall'articolo 1, comma 170, quarto periodo, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, come modificato dalla presente lettera, a partire dalla data di entrata in vigore della presente legge le strutture private accreditate, ai fini della remunerazione delle prestazioni rese per conto del Servizio sanitario nazionale, praticano uno sconto pari al 2 per cento degli importi indicati per le prestazioni specialistiche dal decreto del Ministro della sanità 22 luglio 1996, pubblicato nel supplemento ordinario n. 150 alla Gazzetta Ufficiale n. 216 del 14 settembre 1996, e pari al 20 per cento degli importi indicati per le prestazioni di diagnostica di laboratorio dal medesimo decreto».

L'art. 33, comma 2, della legge Regione Puglia n. 10 n. 2007, nel testo qui rilevante, stabilisce: «Fino all'emanazione dei nuovi Livelli di Assistenza Nazionali (LEA), per il periodo compreso tra il 1° gennaio e la data di approvazione del DIEF di cui al comma 1, le tariffe relative alle suddette prestazioni sono quelle riportate nel nomenclatore tariffario regionale delle prestazioni specialistiche ambulatoriali di patologia clinica indicata nell'allegato A) della Delib.G.R. 22 settembre 1998, n. 3784 alle quali si applica lo sconto del 20 per cento previsto dall'articolo 1, comma 796, lettera o), della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007)».

5.1.- Le ordinanze di rimessione, con argomentazioni in larga misura coincidenti, ciascuna in riferimento ai parametri sopra indicati, premettono che le tariffe per la remunerazione delle prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale, in esse comprese quelle relative alla diagnostica strumentale e di laboratorio, rese per conto del S.s.n., erano state stabilite dal decreto del Ministro della sanità 22 luglio 1996 (Prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale erogabili nell'ambito del Servizio sanitario nazionale e relative tariffe), annullato dal Consiglio di Stato, Sezione IV, con la sentenza 29 marzo 2001, n. 1839.

Il successivo decreto ministeriale emanato dal Ministro della salute, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, in data 12 settembre 2006 (Ricognizione e primo aggiornamento delle tariffe massime per la remunerazione delle prestazioni sanitari), pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 13 dicembre 2006, aveva proceduto, in fase di prima applicazione dell'art. 1, comma 170, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, alla ricognizione ed al primo aggiornamento delle tariffe massime di riferimento per la remunerazione delle prestazioni e delle funzioni assistenziali con oneri a carico del S.s.n., in riferimento alle prestazioni nello stesso indicate.

La norma statale ha, invece, disposto la reviviscenza delle tariffe stabilite con il primo di detti decreti, e, inoltre, ha fissato una ulteriore riduzione delle stesse, prevista anche dalla norma regionale.

5.2.- I rimettenti sostengono che la disposizione statale censurata costituirebbe una «norma-provvedimento», in quanto incide su un numero determinato e limitato di destinatari ed ha contenuto particolare e concreto, quindi sarebbe soggetta ad uno scrutinio stretto di costituzionalità.

A loro avviso, essa si porrebbe in contrasto con l'art. 3 Cost., in primo luogo, poiché, contraddittoriamente, richiama il principio dell'adeguamento tariffario e, al contempo, stabilisce la ultrattività del d.m. del 22 luglio 1996, annullato a causa delle carenze dell'istruttoria svolta per la sua adozione e, tuttavia, assunto quale provvedimento di riferimento per stabilire una ulteriore riduzione dell'importo della remunerazione delle prestazioni.

In secondo luogo, il citato parametro costituzionale sarebbe violato, in quanto le strutture private accreditate, per le prestazioni rese nel 2007, sono remunerate con importi già sospetti di inadeguatezza nel 1996, e ciò nonostante il consistente incremento dei costi e la riduzione del valore della moneta verificatisi negli ultimi dieci anni. Inoltre, la norma censurata violerebbe il principio di eguaglianza sia rispetto alle strutture private che forniscono identici servizi al di fuori del S.s.n., sia rispetto alle strutture accreditate pubbliche.

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Sotto un ulteriore, concorrente, profilo, la disciplina censurata pregiudicherebbe la funzionalità delle strutture private accreditate, quindi violerebbe l'art. 32 Cost., comportando un pregiudizio della tutela del diritto alla salute, anche in considerazione dell'essenzialità ed irrinunciabilità del servizio da queste svolto nell'ambito del S.s.n., recando altresì vulnus al diritto del cittadino di scegliere la struttura alla quale richiedere l'erogazione della prestazione.

L'imposizione di uno sconto su tariffe risalenti nel tempo, stabilita senza esplicitare le ragioni della misura del medesimo e senza considerare l'incremento dei costi dei fattori produttivi (comunque, senza dare conto dello svolgimento di una valutazione al riguardo), si porrebbe, inoltre, in contrasto con l'art. 41 Cost., anche per la contraddizione logica insita nella reviviscenza delle tariffe approvate con il d.m. 22 luglio 1996, benché una nuova, e diversa, disciplina fosse stata stabilita con il d.m. 12 settembre 2006, quindi soltanto tre mesi prima dell'emanazione della norma statale censurata.

5.3.- Secondo i rimettenti, il citato art. 1, comma 796, lettera o), modificando le tariffe in esame e rendendo applicabili quelle contenute nel citato d.m. del 22 luglio 1996, nonostante che questo fosse stato annullato con sentenza passata in giudicato, recherebbe vulnus alle funzioni costituzionalmente attribuite al potere giudiziario, in violazione degli artt. 24, 103 e 113 Cost., nonché, secondo l'ordinanza n. 176 del 2008, dell'art. 97 Cost.

Inoltre, essa si porrebbe in contrasto con l'art. 97 Cost., poiché è stata emanata in difetto di una adeguata istruttoria, mentre il legislatore ordinario, in virtù di detto parametro costituzionale, avrebbe dovuto porre a base della scelta operata con la norma un'adeguata conoscenza dei fatti e darne conto, eventualmente mediante richiamo, espresso o implicito, ai lavori preparatori o ad altri atti, richiamo che manca; ed anzi è la stessa disposizione a dare atto della necessità di un'istruttoria che, tuttavia, ha posticipato, con illogica inversione delle fasi del procedimento.

5.4.- Gli artt. 117, terzo comma, e 119 Cost., secondo le ordinanze di rimessione che svolgono censure in riferimento a detti parametri costituzionali, sarebbero violati, poiché le esigenze di contenimento della spesa pubblica e il conseguente potere dello Stato di emanare norme di coordinamento della finanza pubblica non avrebbero permesso di individuare in modo specifico le voci di costo dei bilanci regionali da ridurre, ma avrebbero consentito soltanto di stabilire i principi fondamentali della materia e, al più, la misura delle riduzioni di spesa, non invece di determinare in dettaglio le tariffe in esame.

5.5.- Le tre ordinanze che censurano anche l'art. 33, comma 2, della legge della Regione Puglia n. 10 del 2007, nel testo sostituito dalla legge della stessa Regione n. 16 del 2007, deducono a conforto dell'eccezione di illegittimità costituzionale di tale disposizione, in riferimento agli specifici parametri evocati in relazione alla medesima (artt. 24, 32, 41, 97 e 113 Cost.), argomentazioni sostanzialmente identiche a quelle svolte con riguardo alla norma statale.

Inoltre, secondo il T.a.r. del Lazio (r.o. n. 230 e n. 231 del 2008), la norma regionale violerebbe l'art. 97 Cost., poiché affida ad un futuro provvedimento la fissazione di nuove tariffe, senza apporre alcun termine e, sostanzialmente, senza prevedere una disciplina transitoria, sicché identiche prestazioni nel 2007 potrebbero trovare una diversa remunerazione non in considerazione della loro oggettiva entità, ma per la casuale collocazione temporale della loro effettuazione in un determinato tempo nell'ambito del medesimo anno.

6.- (omissis)

7.6.- La questione sollevata in relazione agli artt. 24, 103 e 113 Cost. non è fondata.

Le norme censurate incidono su un numero determinato e limitato di destinatari e, avendo contenuto particolare e concreto, costituiscono leggi-provvedimento, di per sé ammissibili, poiché, come è stato sopra ricordato, non è vietata l'attrazione alla legge, anche regionale, della disciplina di oggetti o materie

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normalmente affidati all'autorità amministrativa, purchè siano osservati i principi di ragionevolezza e non arbitrarietà e dell'intangibilità del giudicato e non sia vulnerata la funzione giurisdizionale in ordine alla decisione delle cause in corso (tra le molte, sentenze n. 288 e n. 241 del 2008, n. 267 e n. 11 del 2007, n. 282 del 2005).

In riferimento all'eventuale interferenza delle norme con provvedimenti giurisdizionali, questa Corte, anche di recente, ha escluso che all'adozione di una determinata disciplina con norme di legge sia di ostacolo la circostanza che, in sede giurisdizionale, sia stata ritenuta illegittima quella contenuta in una fonte normativa secondaria o in un atto amministrativo. Anche in tal caso è escluso che sia compromessa la funzione giurisdizionale, poiché legislatore e giudice continuano a muoversi su piani diversi: il primo fornisce regole di carattere tendenzialmente generale e astratto; il secondo applica il diritto oggettivo ad una singola fattispecie (ordinanze n. 32 del 2008, n. 352 del 2006, sentenze n. 211 del 1998, n. 263 del 1994).

Sono, invece, censurabili le norme il cui intento non sia quello di stabilire una regola astratta, ma di incidere su di un giudicato, non potendo ritenersi consentito al legislatore di risolvere, con la forma della legge, specifiche controversie e di vanificare gli effetti di una pronuncia giurisdizionale divenuta intangibile, violando i principi relativi ai rapporti tra potere legislativo e potere giurisdizionale e concernenti la tutela dei diritti e degli interessi legittimi (sentenza n. 374 del 2000).

Siffatti principi non sono vulnerati dalle norme censurate (il richiamo contenuto nell'ordinanza r.o. n. 176 del 2008 all'art. 97 Cost. in relazione ad essi è inconferente, non concernendo detto parametro costituzionale il rapporto tra funzione legislativa e funzione giurisdizionale).

La sentenza del Consiglio di Stato (sez. IV, 29 marzo 2001, n. 1839), indicata quale giudicato asseritamente violato, indipendentemente dalla considerazione che neppure concerneva tutte le prestazioni in esame, ha reso infatti inapplicabile il d.m. 22 luglio 1996 alle prestazioni erogate nella vigenza di tale atto, nel quadro di un assetto caratterizzato dalla periodica revisione delle tariffe.

Le disposizioni censurate, peraltro emanate oltre sei anni dopo la pronuncia del Consiglio di Stato, si sono limitate a stabilire le tariffe applicabili esclusivamente a far data dalla loro entrata in vigore, quindi a prestazioni rese successivamente alla sentenza. Esse hanno stabilito una regolamentazione della remunerazione delle prestazioni che il legislatore ordinario ha ritenuto di attrarre, temporaneamente, alla sfera legislativa, in virtù di una scelta che, per le considerazioni sopra svolte, neppure può ritenersi irragionevole e manifestamente arbitraria, benché sia stato fatto riferimento a tariffe pregresse. Per questa considerazione, le norme in esame, prive di efficacia retroattiva, non hanno violato il giudicato e gli effetti della pronuncia, poiché hanno soltanto stabilito la disciplina applicabile per il futuro, con conseguente infondatezza delle censure.

7.7.- Non sono, infine, fondate le censure svolte in riferimento agli artt. 117, terzo comma, e 119 Cost.

In linea preliminare, occorre ribadire che lo scopo perseguito dal legislatore, di evitare l'aumento incontrollato della spesa sanitaria, è compatibile con i principi espressi da detti parametri costituzionali, nella considerazione bilanciata – che appartiene all'indirizzo politico dello Stato, nel confronto con quello delle Regioni – della necessità di assicurare, ad un tempo, l'equilibrio della finanza pubblica e l'uguaglianza di tutti i cittadini nel godimento dei diritti fondamentali, tra cui indubbiamente va ascritto il diritto alla salute (sentenza n. 203 del 2008). Ed è appunto perché il diritto alla salute spetta ugualmente a tutti i cittadini e va salvaguardato sull'intero territorio nazionale che detta spesa, in considerazione degli obiettivi della finanza pubblica e delle costanti e pressanti esigenze di contenimento della spesa sanitaria, si presta ad essere tendenzialmente manovrata, in qualche misura, dallo Stato (tra le tante, sentenze n. 203 del 2008, n. 193 e n. 98 del 2007).

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L'autonomia finanziaria delle Regioni, delineata dal novellato testo dell'art. 119 Cost. si presenta, poi, in larga parte, ancora in fieri, con la conseguenza che le stesse Regioni sono legittimate a contestare interventi legislativi dello Stato, concernenti il finanziamento della spesa sanitaria, soltanto qualora lamentino una diretta ed effettiva incisione della loro sfera di autonomia finanziaria (sentenza n. 216 del 2008).

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, le norme statali che fissano limiti alla spesa delle Regioni e degli enti locali possono qualificarsi principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica alla seguente duplice condizione: in primo luogo, che si limitino a porre obiettivi di riequilibrio della medesima, intesi nel senso di un transitorio contenimento complessivo, anche se non generale, della spesa corrente; in secondo luogo, che non prevedano in modo esaustivo strumenti o modalità per il perseguimento dei suddetti obiettivi (sentenze n. 289 del 2008, n. 412 e n. 169 del 2007; n. 88 del 2006) ed incidano temporaneamente su una complessiva e non trascurabile voce di spesa (sentenze n. 289 e n. 120 del 2008), mirando il legislatore statale a perseguire l'obiettivo di contenere entro limiti prefissati una frequente causa del disavanzo pubblico, quale la spesa sanitaria, che abbia rilevanza strategica ai fini dell'attuazione del patto di stabilità interno e concerna un non trascurabile aggregato della stessa spesa.

Nel quadro di detti principi, va osservato anzitutto che la norma statale censurata stabilisce lo sconto da operare sulle tariffe più volte richiamate, ma non ha escluso il potere delle Regioni di stabilire tariffe superiori, che restano a carico dei bilanci regionali (art. 1, comma 170, della legge n. 311 del 2004; art. 8-sexies, comma 5, del d.lgs. n. 502 del 1992).

Inoltre, nel protocollo di intesa tra il Governo, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano per un patto nazionale per la salute, sul quale la Conferenza delle regioni e delle province autonome, nella riunione del 28 settembre 2006, aveva espresso la propria condivisione, era stato concordato l'obiettivo di ridurre la spesa sanitaria, che è appunto lo scopo perseguito dal citato art. 1, comma 796, lettera o), nell'osservanza dei principi sopra richiamati, con una misura di carattere transitorio, che ha avuto ad oggetto un rilevante aggregato di spesa, lasciando anche un margine di autonomia alle Regioni, con conseguente infondatezza delle censure. Ed è significativa al riguardo la mancata impugnativa da parte delle Regioni.

La deduzione che lo Stato ha fissato le tariffe «attraverso un meccanismo, quello del decreto ministeriale che, nel caso del d.m. del 2006 […], ha visto il parere contrario della Conferenza Stato-Regioni» (svolta nelle ordinanze del T.a.r. per la Calabria) e che la norma in esame avrebbe stabilito direttamente le tariffe, anziché limitarsi a fissare i criteri generali, è in parte inconferente, in parte infondata.

Relativamente al primo profilo, è sufficiente osservare che il richiamo contenuto nella norma al d.m. 22 luglio 1996 rende evidentemente non pertinente il riferimento fatto dai rimettenti al d.m. del 12 settembre 2006 ed al parere contrario reso su di esso.

In ordine al secondo profilo, va invece osservato che la disciplina della fissazione delle tariffe in esame stabilita da norme ordinarie non può essere evocata per inferirne l'illegittimità del citato art. 1, comma 796, lettera o), in relazione ai parametri costituzionali in esame, che, per le considerazioni sopra svolte in ordine al suo contenuto ed allo scopo con esso perseguito, non risultano affatto vulnerati.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

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dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 796, lettera o), della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), sollevata in riferimento agli artt. 3, 24, 32, 41, 97, 103, 113, 117, terzo comma, e 119 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione distaccata di Lecce, dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, dal Tribunale amministrativo regionale per la Calabria, sede di Catanzaro, sezione I, dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, e dal Tribunale amministrativo regionale per il Friuli-Venezia Giulia, con le ordinanze indicate in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 33, comma 2, della legge della Regione Puglia 16 aprile 2007 n. 10 (Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione 2007 e bilancio pluriennale 2007-2009 della Regione Puglia), nel testo sostituito dall'art. 2 della legge della stessa Regione 5 giugno 2007, n. 16 (Prima variazione al bilancio di previsione per l'esercizio finanziario 2007), sollevata in riferimento agli artt. 24, 32, 41, 97 e 113 della Costituzione dal Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione distaccata di Lecce, e dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, con le ordinanze indicate in epigrafe.

5.2 Corte cost., sentenza n. 137 del 2009

Testo della sentenza (omissis) Considerato in diritto 1. – La questione di legittimità costituzionale sollevata in via incidentale dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio investe l'art. 17 e la tabella B della legge della Regione Lazio 28 dicembre 2006, n. 28 (Bilancio di previsione della Regione Lazio per l'esercizio finanziario 2007), i quali dispongono il concorso della Regione alle iniziative sociali, culturali e sportive di carattere locale attraverso la diretta previsione tanto dei soggetti destinatari di contributi quanto, con riferimento a ciascun beneficiario, dell'importo del contributo assegnato. Ad avviso del TAR del Lazio, le disposizioni denunciate – da qualificare come legge-provvedimento – sarebbero lesive del principio di eguaglianza, perché disporrebbero la ripartizione dei contributi disponibili tra enti individuati in assenza di qualsiasi procedura idonea ad assicurare la trasparenza dell'azione amministrativa regionale, e perché la scelta legislativa sarebbe caratterizzata da arbitrarietà ed irragionevolezza, non essendo desumibili le particolari ragioni suscettibili di giustificare la deroga operata al principio della par condicio. Il giudice rimettente prospetta, altresì, il contrasto con l'art. 97 Cost., sul rilievo che la violazione dei principi di buon andamento ed imparzialità costituirebbe un corollario dell'arbitrarietà e manifesta irragionevolezza della disciplina impugnata; e con l'art. 117 della Costituzione, sotto il profilo del mancato rispetto del principio fondamentale dettato dall'art. 12 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), ai cui sensi la concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione ed alla pubblicazione da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi. 2. – La questione è fondata.

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La questione ha ad oggetto la valutazione, alla stregua dei parametri sopra indicati, della conformità alla Costituzione di una disposizione che può essere qualificata come legge-provvedimento, in quanto incide su un numero determinato di destinatari ed ha contenuto particolare e concreto, attribuendo a ben precisi soggetti collettivi sovvenzioni in danaro per iniziative e progetti. Al riguardo, va ricordato che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte (sentenze nn. 248 e 347 del 1995), non è preclusa alla legge ordinaria, e neppure alla legge regionale, la possibilità di attrarre nella propria sfera di disciplina oggetti o materie normalmente affidati all'autorità amministrativa, non sussistendo un divieto di adozione di leggi a contenuto particolare e concreto. Tuttavia, come di recente ribadito da questa Corte nelle sentenze n. 94 del 2009 e n. 267 del 2007, queste leggi sono ammissibili entro limiti non solo specifici, qual è quello del rispetto della funzione giurisdizionale in ordine alla decisione delle cause in corso, ma anche generali, e cioè quello del rispetto del principio di ragionevolezza e non arbitrarietà (sentenze n. 143 del 1989, n. 346 del 1991 e n. 492 del 1995). La legittimità costituzionale di questo tipo di leggi deve, quindi, essere valutata in relazione al loro specifico contenuto (sentenza n. 241 del 2008). In considerazione del pericolo di disparità di trattamento insito in previsioni di tipo particolare o derogatorio (sentenze n. 153 del 1997 e n. 185 del 1998), la legge-provvedimento è, conseguentemente, soggetta ad uno scrutinio stretto di costituzionalità (sentenze nn. 2 e 153 del 1997, n. 364 del 1999 e n. 429 del 2002), essenzialmente sotto i profili della non arbitrarietà e della non irragionevolezza della scelta del legislatore. Ed un tale sindacato deve essere tanto più rigoroso quanto più marcata sia, come nella specie, la natura provvedimentale dell'atto legislativo sottoposto a controllo (sentenza n. 153 del 1997). Dalla giurisprudenza costituzionale si ricava che, se è vero che non è configurabile, in base alla Costituzione, una riserva di amministrazione, è pur vero che lo stesso legislatore, qualora emetta leggi a contenuto provvedimentale, deve applicare con particolare rigore il canone della ragionevolezza, affinché il ricorso a detto tipo di provvedimento non si risolva in una modalità per aggirare i principi di eguaglianza ed imparzialità. In altri termini, la mancata previsione costituzionale di una riserva di amministrazione e la conseguente possibilità per il legislatore di svolgere un'attività a contenuto amministrativo, non può giungere fino a violare l'eguaglianza tra i cittadini. Ne consegue che, qualora il legislatore ponga in essere un'attività a contenuto particolare e concreto, devono risultare i criteri ai quali sono ispirate le scelte e le relative modalità di attuazione. In questa prospettiva, la norma-provvedimento impugnata deve ritenersi in contrasto con l'art. 3 Cost., non avendo rispettato il principio di eguaglianza nel suo significato di parità di trattamento. Difatti, né dal testo della norma – che contiene, con il rinvio alla tabella, un mero elenco dettagliato di destinatari, di progetti finanziati e di importi ripartiti – né dai lavori preparatori della legge emerge la ratio giustificatrice del caso concreto, non risultando che il Consiglio regionale abbia osservato criteri, obiettivi e trasparenti, nella scelta dei beneficiari dei contributi o nella programmazione e pianificazione degli interventi di sostegno. In tal modo la norma denunciata si risolve in un percorso privilegiato per la distribuzione di contributi in danaro, con prevalenza degli interessi di taluni soggetti collettivi rispetto a quelli, parimenti meritevoli di tutela, di altri enti esclusi, e a scapito, quindi, dell'interesse generale. Resta assorbito l'esame del dedotto contrasto con gli artt. 97 e 117 della Costituzione. Per Questi Motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 17 e della tabella B della legge della Regione Lazio 28 dicembre 2006, n. 28 (Bilancio di previsione della Regione Lazio per l'esercizio finanziario 2007). Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 maggio 2009.

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5.3 Corte Cost., sentenza n. 270 del 2010

TESTO DELLA SENTENZA (omissis) Considerato in diritto 1.– Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, con tre ordinanze, emesse nel corso di altrettanti giudizi, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 41 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1, comma 10, del decreto-legge 28 agosto 2008, n. 134 (Disposizioni urgenti in materia di ristrutturazione di grandi imprese in crisi), convertito, con modificazioni, dalla legge 27 ottobre 2008, n. 166, nella parte in cui ha introdotto il comma 4-quinquies nell’articolo 4 del decreto-legge 23 dicembre 2003, n. 347 (Misure urgenti per la ristrutturazione industriale di grandi imprese in stato di insolvenza), convertito, con modificazioni, dalla legge 18 febbraio 2004, n. 39 (recte: ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 4-quinquies, del decreto-legge n. 347 del 2003, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 39 del 2004, introdotto dall’art. 1, comma 10, del decreto-legge. n. 134 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 166 del 2008). (omissis) 1.2.– Le ordinanze, con argomentazioni in larga misura coincidenti, premettono che il citato art. 4, comma 4-quinquies, costituirebbe una «norma-provvedimento», come tale soggetta ad uno scrutinio stretto di costituzionalità, in relazione ai principi di ragionevolezza e non arbitrarietà. Secondo i rimettenti, la disposizione violerebbe siffatti principi, ponendosi in contrasto con gli artt. 3 e 41 Cost., in quanto avrebbe introdotto, per l’operazione di concentrazione oggetto dei giudizi principali, una deroga del procedimento di controllo stabilito dalla legge n. 287 del 1990, che sarebbe irragionevole, perché non coerente con la disciplina della concorrenza stabilita dall’art. 41 Cost., e lesiva della libertà di concorrenza e della parità di trattamento tra imprese concorrenti. La norma avrebbe, infatti, reso possibile che un «unico vettore» offra «servizi di trasporto aereo passeggeri di linea su numerose tratte», consentendo una forte riduzione su altre della «presenza di operatori concorrenti, con poche eccezioni» e permettendo che un unico vettore possa «gestire una rete di collegamenti capillare su tutto il territorio nazionale, detenendo sui singoli collegamenti posizioni di assoluto rilievo». Siffatti parametri sarebbero vulnerati anche in quanto la posizione di monopolio eventualmente determinata dalla concentrazione è destinata a durare per almeno tre anni, in danno delle imprese concorrenti, senza che siano stati esplicitati gli interessi che la norma mira a realizzare. A questo fine sarebbero, infatti, insufficienti l’indicazione che le operazioni di concentrazione oggetto della disposizione «rispondono a preminenti interessi generali» e la considerazione, contenuta nella premessa del decreto-legge n. 134 del 2008, in ordine alla «importanza che i servizi forniti dalle società operanti nei settori dei servizi pubblici essenziali non subiscano interruzioni», in mancanza di chiarimenti sulle ragioni dell’impossibilità di tutelare detti interessi con modalità diverse, rispettose dei principi di eguaglianza e di tutela della concorrenza. Il TAR richiama, quindi, la regolamentazione stabilita dalla legge n. 287 del 1990 quale parametro di controllo della ragionevolezza della norma censurata, dato che la prima, sebbene si autoqualifichi come di attuazione dell’art. 41 Cost., costituisce pur sempre una legge ordinaria e non reca l’unica possibile disciplina attuativa di tale parametro, con la conseguenza che la deroga della medesima, di per sé sola, non può comportare violazione degli artt. 3 e 41 Cost. 2.– (omissis) 7.– Nel merito, la questione non è fondata.

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7.1.– La disposizione censurata è contenuta in un atto normativo che, per quanto qui interessa, ha modificato la procedura di amministrazione straordinaria preordinata a garantire la gestione delle crisi di imprese di grandissime dimensioni, introdotta dal decreto-legge n. 347 del 2003, convertito dalla legge n. 39 del 2004. Il d.l. n. 347 del 2003, in particolare, dispone che alla procedura possa darsi corso, tra l’altro, quando si intenda realizzare il risanamento dell’impresa, anche mediante un piano di cessione dei complessi aziendali inserito all’interno di un programma finalizzato ad assicurare la prosecuzione dell’esercizio dell’impresa in crisi, nonché nel caso in cui il riequilibrio sia perseguito mediante la cessione di semplici complessi di beni e contratti, regolando le modalità di tale cessione. L’operazione di concentrazione oggetto del provvedimento impugnato nei giudizi principali è relativa all’acquisizione di alcuni rami d’azienda di società sottoposte ad amministrazione straordinaria e di altre società; e consiste precisamente «nell’acquisizione […] di taluni beni e rapporti giuridici» di un gruppo di società in amministrazione straordinaria e «del controllo esclusivo delle società» facenti parte di un altro gruppo (così, la premessa ed il paragrafo 4 di detto provvedimento). Le modifiche della disciplina dell’amministrazione straordinaria e le modalità della cessione dei beni, tuttavia, non vengono in rilievo, dato che non sono state prese in considerazione dai giudici rimettenti, i quali hanno censurato esclusivamente la regolamentazione del controllo della concentrazione, in riferimento alla disciplina antitrust, stabilita dal citato art. 4, comma 4-quinquies, dubitando della legittimità costituzionale di questa sola norma. 7.2.– Il primo profilo rilevante ai fini della decisione concerne la qualificazione della disposizione censurata come «norma-provvedimento», che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, va affermata quando essa «incide su un numero determinato e molto limitato di destinatari ed ha contenuto particolare e concreto» (sentenze n. 267 del 2007, n. 2 del 1997), anche in quanto ispirata da particolari esigenze (sentenza n. 429 del 2002). Nella specie, più elementi depongono nel senso della natura provvedimentale del citato art. 4, comma 4-quinquies. In primo luogo, la norma è stata inserita da un decreto-legge composto da cinque disposizioni (l’ultima si limita a stabilire l’immediata efficacia dell’atto normativo), una delle quali reca un’altra norma concernente, significativamente, soltanto Alitalia-Linee Aeree Italiane s.p.a., Alitalia Servizi s.p.a. e le società da queste controllate (art. 3, comma 1). In secondo luogo, il limite temporale della norma censurata, unitamente alle condizioni di applicabilità della medesima, l’hanno resa applicabile, in sostanza, alla sola operazione di concentrazione oggetto dei giudizi principali. In terzo luogo, il rilievo di detta norma nella definizione della citata vicenda, nonché la coincidenza temporale tra approvazione, entrata in vigore della medesima e perfezionamento della concentrazione costituiscono indici sintomatici della riferibilità della disposizione soltanto a quella fattispecie. D’altra parte, il riferimento costante, nel corso dei lavori preparatori, alla concentrazione oggetto dei giudizi principali, indipendentemente dalle divergenti valutazioni offerte in ordine all’opportunità della scelta operata, alla luce del ristretto orizzonte temporale della norma e dei presupposti della deroga, ne conferma il carattere provvedimentale. La natura di «norma-provvedimento» del citato art. 4, comma 4-quinquies, tuttavia, da sola, non incide sulla legittimità della disposizione. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la legge ordinaria può, infatti, attrarre nella propria sfera di disciplina oggetti o materie normalmente affidati all’autorità amministrativa (tra le più recenti, sentenza n. 137 del 2009, n. 288 del 2008 e n. 267 del 2007) e tale carattere comporta soltanto che in detta ipotesi la legge deve osservare, per quanto qui interessa, limiti generali, in breve il principio di ragionevolezza e non arbitrarietà, ed è soggetta ad uno scrutinio stretto di costituzionalità (alle pronunce sopra richiamate, adde sentenze n. 429 del 2002, n. 185 del 1998, n. 153 e n. 2 del 1997). La legittimità di questo tipo di leggi va, in particolare, «valutata in relazione al loro specifico contenuto» (sentenze n. 137 del 2009, n. 267 del 2007 e n. 492 del 1995) e devono risultare i criteri che ispirano le scelte con esse realizzate, nonché le relative modalità di attuazione (sentenza n. 137 del 2009). Peraltro, poiché la motivazione non inerisce agli atti legislativi (sentenza n. 12 del 2006), è sufficiente che detti criteri, gli interessi oggetto di tutela e la ratio della norma siano desumibili dalla norma stessa, anche in

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via interpretativa, in base agli ordinari strumenti ermeneutici, fermo restando che il sindacato di questa Corte sulla eventuale irragionevolezza della scelta compiuta dal legislatore «non può spingersi fino a considerare la consistenza degli elementi di fatto posti a base della scelta medesima» (sentenze n. 347 del 1995 e n. 66 del 1992). 8.– (omissis)

5.4 Corte cost., sentenza n. 20 del 2012:

TESTO DELLA SENTENZA

(omissis)

Considerato in diritto

1.− Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale degli articoli 1, 2, 3, commi 2 e 3, e 5, comma 1, della legge della Regione Abruzzo 10 agosto 2010, n. 39 (Norme per la definizione del calendario venatorio regionale per la stagione venatoria 2010/2011), in relazione all’art. 117, primo e secondo comma, lettera s), della Costituzione.

La legge impugnata contiene plurime disposizioni concernenti l’esercizio della caccia sul territorio regionale, relative, ma non esclusivamente, alla stagione venatoria 2010-2011: tra queste, lo Stato ha censurato integralmente gli artt. 1 e 2, con cui è stato approvato il calendario venatorio annuale; l’art. 3, commi 2 e 3, con cui si sono adottate norme aventi ad oggetto l’attività venatoria nelle zone di protezione speciale, prescrivendone il calendario (comma 2), e specificando in linea generale le attività che vi sono vietate (comma 3); l’art. 5, comma 1, relativo all’esercizio della caccia alla fauna migratoria.

(omissis)

4.– Quanto all’altro parametro invocato dal ricorrente deve considerarsi, con riferimento agli artt. 1 e 2 della legge impugnata, che tali disposizioni censurate approvano in via legislativa il calendario venatorio per la stagione 2010-2011, indicando sia le date e gli orari entro cui la caccia è consentita (art. 1), sia le specie cacciabili, con riferimento, per ciascuna di esse, al peculiare arco temporale aperto all’attività venatoria (art. 2).

Il ricorrente contesta non già il contenuto di tali norme, ma la fonte con cui esse sono state introdotte nell’ordinamento: a parere dell’Avvocatura, non sarebbe permesso al legislatore regionale sostituirsi all’amministrazione della Regione nel compimento di un’attività di regolamentazione che l’art. 18, commi 2 e 4, della legge n. 157 del 1992 riserverebbe alla sfera amministrativa.

In particolare, l’art. 18, comma 4, della legge appena citata stabilisce che «le regioni, sentito l’Istituto nazionale per la fauna selvatica, pubblicano, entro e non oltre il 15 giugno, il calendario regionale e il regolamento relativi all’intera annata venatoria, nel rispetto di quanto stabilito ai commi 1, 2 e 3, e con l’indicazione del numero massimo di capi da abbattere in ciascuna giornata di attività venatoria».

Secondo il ricorrente, verrebbe in tal modo esplicitato, nell’ambito di una sfera di competenza dello Stato, che il calendario venatorio debba essere contenuto in un atto avente natura amministrativa, anziché legislativa.

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5.− La questione è fondata.

5.1.− Questa Corte ha avuto occasione più volte di giudicare norme di legge regionali, analoghe a quelle oggi impugnate, con cui è stato approvato il calendario venatorio.

Si tratta di tipiche leggi-provvedimento, in quanto le disposizioni che esse contengono sono prive di astrattezza e generalità, e sono destinate ad esaurire i propri effetti contingenti con lo spirare della stagione di caccia. Esse, piuttosto che a comporre interessi in conflitto secondo apprezzamenti propri della discrezionalità legislativa, tendono a tradurre in regole dell’agire concreto, e per il caso di specie, un complesso di valutazioni, basate su elementi di carattere squisitamente tecnico-scientifico: ciò, al fine di introdurre, in relazione alle situazioni ambientali delle diverse realtà territoriali (art. 18, comma 2, della legge n. 157 del 1992), un elemento circoscritto di flessibilità all’interno dell’altrimenti rigido quadro normativo nazionale.

L’intervento regionale viene infatti consentito espressamente dalla legge dello Stato proprio allo scopo di modulare l’impatto delle previsioni generali recate dalla normativa statale, in tema di calendario venatorio e specie cacciabili, sulle specifiche condizioni dell’habitat locale, alla cui verifica ben si presta un’amministrazione radicata sul territorio. In questa prospettiva, l’art. 18 della legge n. 157 del 1992, se da un lato predetermina gli esemplari abbattibili, specie per specie e nei periodi indicati, dall’altro lato permette alla Regione l’introduzione di limitate deroghe ispirate a una simile finalità, e chiaramente motivate con riguardo a profili di natura scientifica: ne è conferma la previsione del parere dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA), richiesto dall’art. 18, comma 2, e dall’art. 18, comma 4, con specifico riferimento all’approvazione del calendario venatorio.

In questo contesto si è diffuso a livello regionale il fenomeno di attrarre alla forma della legge il provvedimento richiesto dalla normativa dello Stato, ma è solo con l’odierno ricorso che per la prima volta la legittimità costituzionale di una simile scelta viene presa in esame da questa Corte.

In linea generale, la Corte ha ritenuto, anche con riguardo alla sfera di competenza delle Regioni, che «nessuna disposizione costituzionale (…) comporta una riserva agli organi amministrativi o “esecutivi” degli atti a contenuto particolare e concreto» (ex plurimis, sentenza n. 143 del 1989; in precedenza, sentenza n. 20 del 1956), benché abbia precisato che le leggi-provvedimento debbono soggiacere «ad un rigoroso scrutinio di legittimità costituzionale per il pericolo di disparità di trattamento insito in previsioni di tipo particolare e derogatorio» (ex plurimis, sentenza n. 202 del 1997).

Nel vigore della revisione della Parte II del Titolo V della Costituzione, si è aggiunto che legittimamente la legge dello Stato, nell’esercizio di una competenza che le è riservata in via esclusiva, può vietare che la funzione amministrativa regionale venga esercitata in via legislativa (sentenze n. 44 del 2010, n. 271 e n. 250 del 2008; ordinanza n. 405 del 2008).

In tale area riservata di competenza, per quanto la funzione amministrativa debba essere allocata al livello di governo reputato idoneo ai sensi dell’art. 118 Cost., il compito sia di individuare questo livello, sia di disciplinare forma e contenuto della funzione, non può che spettare al legislatore statale (sentenza n. 43 del 2004).

Nel caso di specie, è pacifico che la selezione, sia delle specie cacciabili, sia dei periodi aperti all’attività venatoria, implichi l’incisione di profili propri della tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, che fanno capo alla competenza esclusiva dello Stato (ex plurimis, sentenze n. 191 del 2011, n. 226 del 2003 e n. 536 del 2002): il legislatore nazionale ha perciò titolo per imporre alle Regioni di provvedere nella forma dell’atto amministrativo, anziché in quella della legge.

Va ora aggiunto che, osservando gli ordinari criteri ermeneutici, spetta all’interprete, e a questa Corte in primo luogo, stabilire se una siffatta restrizione, giustificata alla luce della natura degli interessi in gioco,

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possa essere desunta dall’impianto logico della normativa statale, anche in difetto di una disposizione che la preveda univocamente.

5.2.− Ciò premesso, la questione si risolve decidendo se l’art. 18, comma 4, della legge n. 157 del 1992, nella parte in cui prevede che sia approvato dalla Regione «il calendario regionale e il regolamento relativi all’intera annata venatoria», intenda con ciò prescriverne la forma di atto amministrativo, come suggerisce l’espressione letterale cui il legislatore statale ha voluto ricorrere.

La risposta a un simile quesito deve essere affermativa.

In via generale, si è già osservato che il passaggio dal provvedere in via amministrativa alla forma di legge è più consono alle ipotesi in cui la funzione amministrativa impatta su assetti della vita associata, per i quali viene avvertita una particolare esigenza di protezione di interessi primari «a fini di maggior tutela e garanzia dei diritti» (sentenza n. 143 del 1989); viceversa, nei casi in cui la legislazione statale, nelle materie di competenza esclusiva, conformi l’attività amministrativa all’osservanza di criteri tecnico-scientifici, lo slittamento della fattispecie verso una fonte primaria regionale fa emergere un sospetto di illegittimità.

La scelta che si provveda con atto amministrativo non solo è l’unica coerente in tale ordine di idee con il peculiare contenuto che nel caso di specie l’atto andrà ad assumere, e si inserisce dunque armonicamente nel tessuto della legge n. 157 del 1992, ma si riconnette altresì ad un regime di flessibilità certamente più marcato che nell’ipotesi in cui il contenuto del provvedimento sia cristallizzato nella forma della legge.

Ove si tratti di proteggere la fauna, un tale assetto è infatti il solo idoneo a prevenire i danni che potrebbero conseguire a un repentino ed imprevedibile mutamento delle circostanze di fatto in base alle quali il calendario venatorio è stato approvato: è sufficiente, a tale proposito, porre mente all’art. 19, comma 1, della legge n. 157 del 1992, che prevede il ricorso da parte della Regione a divieti imposti da «sopravvenute particolari condizioni ambientali, stagionali o climatiche o per malattie o per altre calamità». È chiaro che quando, come nel caso in questione, vi è ragionevole motivo di supporre che l’attività amministrativa non si esaurisca in un unico atto, ma possa e debba tornare a svilupparsi con necessaria celerità per esigenze sopravvenute, le forme e i tempi del procedimento legislativo possono costituire un aggravio, persino tale in casi estremi da vanificare gli obiettivi di pronta regolazione dei casi di urgenza (con riferimento alla legge impugnata, ad esempio, basti rilevare che l’art. 1, comma 10, consente all’amministrazione regionale soltanto di “ridurre” la caccia nei casi considerati, e non di vietarla, come invece è prescritto, in via alternativa alla riduzione, dal citato art. 19 della legge statale).

L’intervento in questione forma poi oggetto di un obbligo da parte della Repubblica nei confronti dell’Unione, la cui direttiva 30 novembre 2009, n. 2009/147/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio concernente la conservazione degli uccelli selvatici), si prefigge di tutelare la fauna, assoggettando, tra l’altro, il regime derogatorio rispetto alle previsioni generali a stringenti requisiti (art. 9), e questa Corte, a tal proposito, ha già avuto modo di affermare che le deroghe non possono venire introdotte dalla Regione con legge-provvedimento, poiché verrebbe vanificato il potere di annullamento assegnato dall’art. 19-bis della legge n. 157 del 1992 al Presidente del Consiglio dei ministri (sentenza n. 250 del 2008).

Bisogna ora precisare che non è solo lo speciale regime derogatorio, ma l’intero corpo provvedimentale su cui esso opera, quanto al calendario venatorio, che non tollera di venire irrigidito nella forma della legge, tenuto anche conto che tra regole ordinarie e deroghe eccezionali deve in linea di massima sussistere un’identità formale, che permetta alle seconde di agire sulle prime, fermo il potere di annullamento preservato in capo allo Stato.

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Vi sono infatti casi, indicati dall’art. 9, comma 1, lettera a), della direttiva n. 2009/147/CE, attuato dall’art. 19-bis della legge n. 157 del 1992, in cui l’allargamento dei limiti entro cui ordinariamente è consentita la caccia, se per un verso è tollerato dal diritto dell’Unione, per altro verso si impone, allo scopo di preservare significativi interessi ambientali di segno contrario, ovvero di altra natura, come, tra quelli selezionati dalla direttiva, la salute, la sicurezza pubblica, la sicurezza aerea.

In tali casi, la deroga necessita di venire introdotta con efficacia immediata, sicché angusto, e potenzialmente insufficiente, è lo spazio temporale aperto al legislatore regionale per rimuovere eventuali ostacoli in tal senso provenienti dalla legge-provvedimento.

Infine, è ben noto che il passaggio dall’atto amministrativo alla legge implica un mutamento del regime di tutela giurisdizionale, tutela che dal giudice comune passa alla giustizia costituzionale.

Non che questa Corte sia sprovvista dei mezzi per sospendere l’esecuzione di una legge ritualmente impugnata in via principale (art. 35 della legge 11 marzo 1953, n. 87); tuttavia, ciò si verifica a condizione che il Governo abbia promosso la relativa questione di legittimità costituzionale. Si è già sottolineato (sentenza n. 271 del 2008) che il legislatore statale può preferire lo strumento del ricorso giurisdizionale innanzi al giudice comune, e ciò in ragione sia della disponibilità del ricorso in capo alle parti private legittimate, sia dei tempi con cui il giudice può assicurare una pronta risposta di giustizia, sia della latitudine dei poteri cautelari di cui esso dispone, sia dell’ampiezza del contraddittorio che si può realizzare con i soggetti aventi titolo per intervenire, estranei invece, in linea di principio, al giudizio costituzionale sul riparto delle competenze legislative.

Inoltre, ove parte del giudizio sia l’amministrazione, il giudice comune ben può inserire le proprie misure cautelari nel flusso dell’attività di quest’ultima, prescrivendo che essa sia prontamente riesercitata secondo i criteri che di volta in volta vengono somministrati, affinché, in luogo del vuoto di normazione, che conseguirebbe alla mera sospensione della legge-provvedimento, si realizzi celermente una determinazione del calendario della caccia, compatibile con i tempi imposti dall’incalzare delle stagioni, e avente natura definitiva.

Non a caso l’art. 18, comma 4, della legge n. 157 del 1992 esige che il calendario venatorio sia pubblicato entro il 15 giugno di ogni anno: in tal modo, si suppone che, esperiti eventuali ricorsi giurisdizionali comuni, esso sia adeguatamente e legittimamente disponibile per l’inizio della caccia, ovvero per settembre inoltrato.

Una simile tempistica è pienamente compatibile con l’attività regionale, solo se la Regione adotta atti che non solamente siano immediatamente aggredibili innanzi al giudice comune, ma che possano direttamente da quest’ultimo essere conformati in via cautelare alle esigenze del caso concreto, entro un termine estremamente contenuto.

Né si traggono argomenti contrari, come vorrebbe la difesa regionale, dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 21 marzo 1997 (Modificazione dell’elenco delle specie cacciabili di cui all’art. 18, comma 1, della L. 11 febbraio 1992, n. 157), nella parte in cui esso prevede che le Regioni vi si adeguino con i «rispettivi atti legislativi e amministrativi»: a parte il fatto che si tratta di norma secondaria, inidonea ad alterare le scelte del legislatore, resta da dire che il rinvio così disposto ha il solo scopo di richiamare la fonte regionale che risulta competente sulla base del quadro legislativo vigente.

5.3.− Alla luce di tutti questi argomenti, appare evidente che il legislatore statale, prescrivendo la pubblicazione del calendario venatorio e contestualmente del “regolamento” sull’attività venatoria e imponendo l’acquisizione obbligatoria del parere dell’ISPRA, e dunque esplicitando la natura tecnica del provvedere, abbia inteso realizzare un procedimento amministrativo, al termine del quale la Regione è tenuta a provvedere nella forma che naturalmente ne consegue, con divieto di impiegare, invece, la legge-provvedimento.

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Pertanto, gli artt. 1 e 2 della legge impugnata debbono essere dichiarati costituzionalmente illegittimi, con assorbimento dell’autonoma censura di illegittimità costituzionale sviluppata in riferimento all’art. 2, commi 10 e 12, per avere tali disposizioni previsto l’acquisizione del parere di un ente regionale, anziché dell’ISPRA.

6.−

(omissis)

5.5 Corte cost., sentenze n. 85 del 2013

Testo della sentenza

(omissis)

Considerato in diritto 1.– Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Taranto ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli articoli 1 e 3 della legge 24 dicembre 2012, n. 231 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207, recante disposizioni urgenti a tutela della salute, dell’ambiente e dei livelli di occupazione, in caso di crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale) – recte, degli artt. 1 e 3 del decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207 (Disposizioni urgenti a tutela della salute, dell'ambiente e dei livelli di occupazione, in caso di crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale), come convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 231 del 2012 – in relazione agli artt. 2, 3, 9, secondo comma, 24, primo comma, 25, primo comma, 27, primo comma, 32, 41, secondo comma, 101, 102, 103, 104, 107, 111, 112, 113 e 117, primo comma, della Costituzione. (omissis) Un secondo gruppo di censure attiene a violazioni degli artt. 101, 102, 103, 104, 107 e 111 Cost. La normativa in questione, infatti, sarebbe stata adottata per regolare un singolo caso concreto, oggetto di provvedimenti giurisdizionali già assunti e passati in «giudicato cautelare», con norme prive dei caratteri di generalità ed astrattezza, e senza modificare il quadro normativo di riferimento, così da vulnerare la riserva di giurisdizione ed «il principio costituzionale di separazione tra i poteri dello Stato». (omissis) 2.– Il Tribunale ordinario di Taranto, in funzione di giudice di appello a norma dell’art. 322-bis del codice di procedura penale, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3 della legge n. 231 del 2012 – recte, dell’art. 3 del d.l. n. 207 del 2012, come convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 231 del 2012 – in relazione agli artt. 3, 24, 102, 104 e 122 Cost., nella parte in cui autorizza «in ogni caso» la società Ilva S.p.A. di Taranto «alla commercializzazione dei prodotti ivi compresi quelli realizzati antecedentemente alla data di entrata in vigore» del citato d.l. n. 207 del 2012, sebbene posti ad oggetto di un provvedimento di sequestro preventivo. Secondo il rimettente, la norma censurata violerebbe l’art. 3 Cost. sotto molteplici profili. Si tratterebbe anzitutto di una «legge del caso singolo», per mezzo della quale la società Ilva sarebbe ingiustificatamente favorita rispetto ad ogni altra società le cui merci, in quanto prodotto di un reato, siano state sottoposte a sequestro.

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La disciplina censurata sarebbe poi priva di ragionevolezza, in quanto l’autorizzazione a commercializzare prodotti in sequestro vanifica la funzione tipica della misura cautelare e non è giustificata, per altro verso, dal fine di consentire la continuazione delle attività produttive e la conservazione dei livelli occupazionali, per la cui assicurazione la disponibilità delle merci già sequestrate non sarebbe stata necessaria. Mancherebbe una ragionevole giustificazione, dunque, per l’efficacia «retroattiva» conferita alla norma censurata. Il Tribunale prospetta l’ulteriore violazione degli artt. 102 e 104 Cost., in quanto il legislatore avrebbe «direttamente modificato un provvedimento del giudice» (l’ordinanza posta ad oggetto dell’impugnazione dalla quale origina il procedimento a quo), «senza per altro modificare il quadro normativo sulla base del quale era stato emanato», ed avrebbe pregiudicato la possibilità di procedere a confisca in esito al giudizio, sebbene le merci in sequestro debbano tuttora considerarsi prodotto di reato. Infine, vi sarebbe un contrasto tra la norma censurata e gli artt. 24 e 112 Cost., per la provocata lesione del diritto di azione del privato leso nei suoi diritti e per l’ostacolo frapposto all’esercizio della funzione pubblica di accertamento, repressione e prevenzione dei reati. 3.– I giudizi introdotti dalle due ordinanze in epigrafe, data la parziale identità di oggetto, possono essere riuniti, al fine di una trattazione unitaria delle questioni sollevate. 4.– (omissis) 5.– Vanno considerati, a questo punto, alcuni profili che attengono all’ammissibilità delle questioni sollevate nell’ambito del giudizio r.o. n. 19 del 2013. (omissis) 6.– Sono state proposte eccezioni di inammissibilità anche nell’ambito del giudizio r.o. n. 20 del 2013. (omissis) 7.– Nel merito, le questioni aventi ad oggetto l’art. 1 del d.l. n. 207 del 2012 non sono fondate. 7.1.– Giova precisare l’effettiva portata dell’intervento normativo compiuto, mediante la norma censurata, in ordine alla crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale, volto a rendere compatibili la tutela dell’ambiente e della salute con il mantenimento dei livelli di occupazione, anche in presenza di provvedimenti di sequestro giudiziario degli impianti. 7.2.– Premessa generale dell’applicabilità della norma in questione è che vi sia stata la revisione dell’autorizzazione integrata ambientale di cui all’art. 4, comma 4, lettera c), del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), come modificato dall’art. 2, comma 1, del decreto legislativo 29 giugno 2010, n. 128 (Modifiche ed integrazioni al decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, recante norme in materia ambientale, a norma dell’art. 12 della legge 18 giugno 2009, n. 69). L’autorità competente rilascia l’AIA solo sulla base dell’adozione, da parte del gestore dell’impianto, delle migliori tecnologie disponibili (MTD), di cui l’amministrazione deve seguire l’evoluzione. L’AIA è dunque un provvedimento per sua natura “dinamico”, in quanto contiene un programma di riduzione delle emissioni, che deve essere periodicamente riesaminato (di norma ogni cinque anni), al fine di recepire gli aggiornamenti delle tecnologie cui sia pervenuta la ricerca scientifica e tecnologica nel settore. Questo principio è fissato dall’art. 13 della direttiva 15 gennaio 2008, n. 2008/1/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sulla prevenzione e la riduzione integrate dell’inquinamento) e attuato in Italia dall’art. 29-octies del codice dell’ambiente, il quale inoltre prevede (al comma 4) che si faccia luogo al riesame dell’AIA quando: a) l’inquinamento provocato dall’impianto è tale da rendere necessaria la revisione; b) le MTD hanno subito modifiche sostanziali, in grado di conseguire una riduzione delle emissioni, senza imporre costi eccessivi; c) la sicurezza dell’impianto richiede l’impiego di altre tecniche; d) sono intervenute nuove disposizioni normative comunitarie o nazionali. Il comma 5 dello stesso art. 29-octies prevede, tra l’altro, che, nel caso di rinnovo o riesame dell’autorizzazione, l’autorità competente possa consentire deroghe temporanee ai requisiti del provvedimento originario, purché le nuove disposizioni assicurino il rispetto degli stessi requisiti entro un semestre, ed il progetto determini una riduzione dell’inquinamento.

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7.3.– Ove si proceda al riesame dell’AIA, per uno dei motivi ricordati nel paragrafo precedente, il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare può autorizzare la prosecuzione dell’attività produttiva per un periodo di tempo determinato, non superiore a 36 mesi, quando si tratti di stabilimenti di «interesse strategico nazionale», individuati come tali da un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri. La qualificazione di cui sopra implica: a) che nello stabilimento sia occupato, da almeno un anno, un numero di lavoratori subordinati non inferiore a duecento, compresi quelli ammessi al trattamento di integrazione dei guadagni; b) che vi sia assoluta necessità di salvaguardia dell’occupazione e della produzione; c) che segua un provvedimento autorizzatorio del Ministro dell’ambiente, che pone la condizione dell’adempimento delle prescrizioni dell’AIA riesaminata, con il rispetto delle procedure e dei termini ivi indicati; d) che l’intervento sia esplicitamente finalizzato ad «assicurare la più adeguata tutela dell’ambiente e della salute secondo le migliori tecniche disponibili». Il comma 4 del citato art. 1 prevede che le disposizioni citate «trovano applicazione anche quando l’autorità giudiziaria abbia adottato provvedimenti di sequestro sui beni dell’impresa titolare dello stabilimento. In tale caso i provvedimenti di sequestro non impediscono, nel corso del periodo di tempo indicato nell’autorizzazione, l’esercizio dell’attività di impresa a norma del comma 1». 7.4.– L’art. 1 del d.l. n. 207 del 2012, al comma 2, stabilisce inoltre: «È fatta comunque salva l’applicazione degli articoli 29-octies, comma 4, e 29-nonies e 29-decies del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive modificazioni». Il comma 3 del medesimo art. 1 prevede, in caso di inosservanza delle prescrizioni dell’AIA riesaminata, la «sanzione amministrativa pecuniaria fino al 10 per cento del fatturato della società risultante dall’ultimo bilancio approvato». La disposizione precisa il contesto normativo in cui la suddetta sanzione è applicabile: «Fermo restando quanto previsto dagli articoli 29-decies e 29-quattuordecies del decreto legislativo n. 152 del 2006 e dalle altre disposizioni di carattere sanzionatorio penali e amministrative contenute nelle normative di settore […]». 7.5.– È utile ricordare che il citato art. 29-decies del codice dell’ambiente (esplicitamente richiamato dalla norma censurata) prevede una serie di controlli e interventi, a cura delle autorità competenti, che possono sfociare in misure sanzionatorie di crescente intensità, in rapporto alla gravità delle eventuali violazioni accertate. In particolare: 1) i dati forniti dal gestore relativi ai controlli sulle emissioni richiesti dall’AIA sono messi a disposizione del pubblico, secondo le procedure previste dall’art. 29-quater (pubblicazione su quotidiani ed indicazione, su tali organi di stampa, degli uffici dove è possibile consultare la documentazione relativa); 2) l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA) deve accertare: a) il rispetto delle condizioni poste dall’AIA; b) la regolarità dei controlli a carico del gestore, con particolare riferimento alla regolarità delle misure e dei dispositivi di prevenzione dell’inquinamento nonché al rispetto dei valori limite di emissione; c) l’osservanza da parte del gestore degli obblighi di comunicazione periodica dei risultati della sorveglianza sulle emissioni del proprio impianto, specie in caso di inconvenienti o incidenti che influiscano in modo significativo sull’ambiente. Possono essere disposte ispezioni straordinarie sugli impianti autorizzati alla prosecuzione dell’attività. È previsto altresì l’obbligo del gestore di fornire tutta l’assistenza tecnica necessaria per lo svolgimento di qualsiasi verifica relativa all’impianto, per prelevare campioni o per raccogliere qualsiasi informazione necessaria. Gli esiti dei controlli e delle ispezioni devono essere comunicati all’autorità competente ed al gestore, indicando le situazioni di mancato rispetto delle prescrizioni e proponendo le misure da adottare. Ogni organo che svolge attività di vigilanza, controllo, ispezione e monitoraggio sugli impianti e che abbia acquisito informazioni in materia ambientale, rilevanti ai fini dell’applicazione delle norme del codice dell’ambiente, comunica tali informazioni, ivi comprese le eventuali notizie di reato, all’autorità competente. I risultati del controllo delle emissioni richiesti dalle condizioni dell’AIA devono essere messi a disposizione del pubblico. In caso di inosservanza delle prescrizioni contenute nell’autorizzazione, l’autorità competente procede, secondo la gravità delle infrazioni: a) alla diffida, assegnando un termine entro il quale devono essere

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eliminate le irregolarità; b) alla diffida e contestuale sospensione dell’attività autorizzata per un tempo determinato, ove si manifestino situazioni di pericolo per l’ambiente; c) alla revoca dell’AIA e alla chiusura dell’impianto, in caso di mancato adeguamento alle prescrizioni imposte con la diffida e in caso di reiterate violazioni, che determinino situazioni di pericolo o di danno per l’ambiente. Occorre ancora porre in rilievo che l’art. 29-quattuordecies prevede sanzioni a carico di chi viola le prescrizioni dell’AIA, o quelle comunque imposte dall’autorità competente, salvo che il fatto costituisca più grave reato (riferimento, quest’ultimo, che si risolve anche nel richiamo alle fattispecie del diritto penale comune). 8.– La semplice ricognizione della normativa sui controlli e sulle sanzioni, tuttora vigente ed esplicitamente richiamata dalla disposizione censurata, contraddice per tabulas l’assunto del rimettente Giudice per le indagini preliminari, e cioè che i 36 mesi concessi ad una impresa, che abbia le caratteristiche previste, per adeguare la propria attività all’AIA riesaminata, «costituiscono una vera e propria “cappa” di totale “immunità” dalle norme penali e processuali». Non solo la disposizione censurata non stabilisce alcuna immunità penale per il periodo sopra indicato, ma, al contrario, rinvia esplicitamente sia alle sanzioni penali previste dall’ordinamento per i reati in materia ambientale, sia all’obbligo di trasmettere, da parte delle autorità addette alla vigilanza ed ai controlli, le eventuali notizie di reato all’autorità “competente”, cioè all’autorità giudiziaria. La stessa disposizione non introduce peraltro alcuna forma di cancellazione o attenuazione delle responsabilità gravanti sui soggetti che abbiano compiuto violazioni delle norme penali poste a presidio dell’ambiente e della salute. In altri termini, la norma censurata non si configura né come abolitio criminis, né come lex mitior, e non incide pertanto in alcun modo sulle indagini, tuttora in corso, volte ad accertare la colpevolezza degli attuali indagati nel procedimento principale, per i quali, allo stato presente, non risulta essere stata ancora formulata richiesta di rinvio a giudizio. Tanto meno la disposizione è idonea a spiegare effetti di alcun genere sull’eventuale, futuro processo penale a carico dei medesimi soggetti. L’idea che nel periodo previsto dalla norma censurata sia possibile proseguire senza regole l’attività produttiva deriva, nella prospettazione del rimettente, dal rilievo che le sanzioni – come si è visto, anche penali – esplicitamente richiamate dalla stessa «non possono comunque essere irrogate prima della scadenza dei 36 mesi. Unica sanzione applicabile prima dei 36 mesi in caso di inosservanza dei termini AIA è quella, come detto, del 10 % del fatturato. Sanzione che ovviamente risulta totalmente inadeguata a tutelare salute ed ambiente». Non è dato comprendere come si possa trarre, dalla lettura dell’art. 1 del d.l. n. 207 del 2012, la conclusione che la sanzione pecuniaria fino al 10% del fatturato sia l’unica irrogabile nel periodo considerato e che, dunque, la stessa sia sostitutiva delle altre sanzioni previste dalle leggi vigenti. È vero il contrario, giacché le espressioni usate dal legislatore – «fatta salva», «fermo restando» – si riferiscono in modo evidente ad una disciplina normativa complessiva e contestuale, nel cui ambito si aggiunge, alle preesistenti sanzioni amministrative e penali, la fattispecie introdotta dal comma 3 del citato art. 1, ovviamente dalla data di entrata in vigore del decreto-legge. I motivi di tale aggravamento di responsabilità si possono rinvenire nell’esigenza di prevedere una reazione adeguata delle autorità preposte alla vigilanza ed ai controlli rispetto alle eventuali violazioni in itinere delle prescrizioni AIA da parte di una impresa, già responsabile di gravi irregolarità, cui è stata concessa la prosecuzione dell’attività produttiva e commerciale a condizione che la stessa si adegui scrupolosamente alle suddette prescrizioni. Se l’effetto della nuova normativa fosse di rinviare alla scadenza del periodo previsto ogni intervento correttivo o sanzionatorio nei confronti dell’impresa che gestisce lo stabilimento di interesse strategico nazionale, cui è consentita la continuazione dell’attività nonostante il sequestro giudiziario, non avrebbe senso la previsione – contenuta nel comma 4 dell’art. 3 del d.l. n. 207 del 2012 – di un Garante «incaricato di vigilare sulla attuazione delle disposizioni del presente decreto». Secondo il comma 6 dello stesso articolo 3, il Garante «acquisisce le informazioni e gli atti ritenuti necessari che l’azienda, le amministrazioni e gli enti interessati devono tempestivamente fornire, segnalando al Presidente del

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Consiglio dei Ministri, al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e al Ministro della salute eventuali criticità riscontrate nell’attuazione della predetta autorizzazione e proponendo le idonee misure, ivi compresa l’eventuale adozione di provvedimenti di amministrazione straordinaria anche in considerazione degli articoli 41 e 43 della Costituzione». Lo stesso Garante deve promuovere tutte le iniziative atte a realizzare «la massima trasparenza per i cittadini». 8.1.– Se si leggono tali previsioni in combinazione con quelle che dispongono la perdurante applicabilità, nel corso dei 36 mesi, delle sanzioni amministrative e penali vigenti, si giunge alla conclusione che non solo non vi è alcuna sospensione dei controlli di legalità sull’operato dell’impresa autorizzata alla prosecuzione dell’attività, ma vi sono un rafforzamento ed un allargamento dei controlli sull’osservanza delle prescrizioni contenute nell’AIA riesaminata. La distinzione tra la situazione normativa precedente all’entrata in vigore della legge – e, nella generalità dei casi, del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, di cui all’art. 1, comma 1 – e l’attuale disciplina consiste nel fatto che l’attività produttiva è ritenuta lecita alle condizioni previste dall’AIA riesaminata. Quest’ultima fissa modalità e tempi per l’adeguamento dell’impianto produttivo rispetto alle regole di protezione dell’ambiente e della salute, entro il periodo considerato, con una scansione graduale degli interventi, la cui inosservanza deve ritenersi illecita e quindi perseguibile ai sensi delle leggi vigenti. In conclusione sul punto, la norma censurata non rende lecito a posteriori ciò che prima era illecito – e tale continua ad essere ai fini degli eventuali procedimenti penali instaurati in epoca anteriore all’autorizzazione alla prosecuzione dell’attività produttiva – né “sterilizza”, sia pure temporaneamente, il comportamento futuro dell’azienda rispetto a qualunque infrazione delle norme di salvaguardia dell’ambiente e della salute. La stessa norma, piuttosto, traccia un percorso di risanamento ambientale ispirato al bilanciamento tra la tutela dei beni indicati e quella dell’occupazione, cioè tra beni tutti corrispondenti a diritti costituzionalmente protetti. La deviazione da tale percorso, non dovuta a cause di forza maggiore, implica l’insorgenza di precise responsabilità penali, civili e amministrative, che le autorità competenti sono chiamate a far valere secondo le procedure ordinarie. Non è pertanto intaccato il potere-dovere del pubblico ministero di esercitare l’azione penale, previsto dall’art. 112 Cost., che è pur sempre da inquadrare nelle condizioni generali poste dal contesto normativo vigente, ove, dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 207 del 2012, è considerata lecita la continuazione dell’attività produttiva di aziende sottoposte a sequestro, a condizione che vengano osservate le prescrizioni dell’AIA riesaminata, nelle quali si riassumono le regole che limitano, circoscrivono e indirizzano la prosecuzione dell’attività stessa. Non è vero neppure che la disciplina abbia inibito il ricorso allo strumento cautelare nell’ambito dei procedimenti penali volti all’accertamento di eventuali illeciti, commessi prima o dopo il rilascio del provvedimento riesaminato, ove ricorrano nuove esigenze di cautela. Il comma 4 dell’art. 1 consente chiaramente la permanenza delle misure già adottate e mira solo ad escludere che i provvedimenti di sequestro, presenti o futuri, possano impedire la prosecuzione dell’attività produttiva a norma del comma 1. 8.2.– Speculare rispetto al perdurante potere delle autorità competenti di accertare le responsabilità dei titolari dell’impresa de qua è il diritto dei cittadini, che si ritengano lesi nelle proprie situazioni giuridiche soggettive, di adire il giudice competente per ottenere i provvedimenti riparatori e sanzionatori previsti dalle leggi vigenti. Tale diritto non è inciso in senso sfavorevole dalla norma censurata, ma inserito, come ogni pretesa giuridica, nel contesto normativo di riferimento, che, come chiarito sopra, non azzera e neppure sospende il controllo di legalità, ma lo riconduce alla verifica dell’osservanza delle prescrizioni di tutela dell’ambiente e della salute contenute nell’AIA riesaminata. In definitiva, i cittadini non sono privati del diritto di agire in giudizio per la tutela delle proprie situazioni giuridiche soggettive, con relative domande risarcitorie, di cui agli artt. 24 e 113 Cost. 9.– La ratio della disciplina censurata consiste nella realizzazione di un ragionevole bilanciamento tra diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, in particolare alla salute (art. 32 Cost.), da cui deriva il diritto all’ambiente salubre, e al lavoro (art. 4 Cost.), da cui deriva l’interesse costituzionalmente

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rilevante al mantenimento dei livelli occupazionali ed il dovere delle istituzioni pubbliche di spiegare ogni sforzo in tal senso. Tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre «sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro» (sentenza n. 264 del 2012). Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona. Per le ragioni esposte, non si può condividere l’assunto del rimettente giudice per le indagini preliminari, secondo cui l’aggettivo «fondamentale», contenuto nell’art. 32 Cost., sarebbe rivelatore di un «carattere preminente» del diritto alla salute rispetto a tutti i diritti della persona. Né la definizione data da questa Corte dell’ambiente e della salute come «valori primari» (sentenza n. 365 del 1993, citata dal rimettente) implica una “rigida” gerarchia tra diritti fondamentali. La Costituzione italiana, come le altre Costituzioni democratiche e pluraliste contemporanee, richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi. La qualificazione come “primari” dei valori dell’ambiente e della salute significa pertanto che gli stessi non possono essere sacrificati ad altri interessi, ancorché costituzionalmente tutelati, non già che gli stessi siano posti alla sommità di un ordine gerarchico assoluto. Il punto di equilibrio, proprio perché dinamico e non prefissato in anticipo, deve essere valutato – dal legislatore nella statuizione delle norme e dal giudice delle leggi in sede di controllo – secondo criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, tali da non consentire un sacrificio del loro nucleo essenziale. 10.– Lo stesso giudice rimettente ritiene che la norma censurata «annienti completamente il diritto alla salute e ad un ambiente salubre a favore di quello economico e produttivo». Se questa valutazione fosse rispondente alla realtà normativa, ci si troverebbe senza dubbio di fronte ad una violazione dell’art. 32 Cost., in quanto nessuna esigenza, per quanto costituzionalmente fondata, potrebbe giustificare la totale compromissione della salute e dell’ambiente, per le ragioni prima illustrate. Tale conclusione non è tuttavia suffragata da una analisi puntuale della disposizione censurata. 10.1.– Come si è rilevato nei paragrafi precedenti, l’autorizzazione al proseguimento dell’attività produttiva è subordinata, dall’art. 1, comma 1, del d.l. n. 207 del 2012, all’osservanza delle prescrizioni dell’AIA riesaminata. La natura di tale atto è amministrativa, con la conseguenza che contro lo stesso sono azionabili tutti i rimedi previsti dall’ordinamento per la tutela dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi davanti alla giurisdizione ordinaria e amministrativa. Il richiamo operato in generale dalla legge ha il valore di costante condizionamento della prosecuzione dell’attività produttiva alla puntuale osservanza delle prescrizioni contenute nel provvedimento autorizzatorio, che costituisce l’esito della confluenza di plurimi contributi tecnici ed amministrativi in un unico procedimento, nel quale, in conformità alla direttiva n. 2008/1/CE, devono trovare simultanea applicazione i princìpi di prevenzione, precauzione, correzione alla fonte, informazione e partecipazione, che caratterizzano l’intero sistema normativo ambientale. Il procedimento che culmina nel rilascio dell’AIA, con le sue caratteristiche di partecipazione e di pubblicità, rappresenta lo strumento attraverso il quale si perviene, nella previsione del legislatore, all’individuazione del punto di equilibrio in ordine all’accettabilità e alla gestione dei rischi, che derivano dall’attività oggetto dell’autorizzazione. Una volta raggiunto tale punto di equilibrio, diventa decisiva la verifica dell’efficacia delle prescrizioni. Ciò chiama in causa la funzione di controllo dell’amministrazione, che si avvale dell’ISPRA, con la possibilità che, in caso di accertata inosservanza da parte dei gestori degli impianti, si applichino misure che vanno – come già rilevato sopra – sino alla revoca dell’autorizzazione, con chiusura dell’impianto, in caso di mancato adeguamento alle prescrizioni imposte con la diffida o a fronte di reiterate violazioni che determinino pericolo o danno per l’ambiente.

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Le prescrizioni e misure contenute nell’AIA possono rivelarsi inefficaci, sia per responsabilità dei gestori, sia indipendentemente da ogni responsabilità soggettiva. In tal caso, trova applicazione la disciplina contenuta nell’art. 29-octies, comma 4, del codice dell’ambiente, che impone all’amministrazione di aprire il procedimento di riesame. 10.2.– La norma censurata parte da questo momento critico, nel quale sono accertate le carenze dell’AIA già rilasciata (che possono aver dato luogo anche a provvedimenti giudiziari di sequestro), ed avvia un secondo procedimento, che sfocia nel rilascio di un’AIA “riesaminata”, nella quale, secondo le procedure previste dalla legge, sono valutate le insufficienze delle precedenti prescrizioni e si provvede a dettarne di nuove, maggiormente idonee – anche per l’ausilio di più efficaci tecnologie – ad evitare il ripetersi dei fenomeni di inquinamento, che hanno portato all’apertura del procedimento di riesame. In definitiva, l’AIA riesaminata indica un nuovo punto di equilibrio, che consente, secondo la norma censurata nel presente giudizio, la prosecuzione dell’attività produttiva a diverse condizioni, nell’ambito delle quali l’attività stessa deve essere ritenuta lecita nello spazio temporale massimo (36 mesi), considerato dal legislatore necessario e sufficiente a rimuovere, anche con investimenti straordinari da parte dell’impresa interessata, le cause dell’inquinamento ambientale e dei pericoli conseguenti per la salute delle popolazioni. 10.3.– Lo schema generale della norma censurata prevede quindi la combinazione tra un atto amministrativo – che tale rimane, come si vedrà più avanti, anche secondo la disciplina dettata per l’Ilva di Taranto – ed una previsione legislativa, che assume come punto di partenza il nuovo equilibrio tra produzione e ambiente delineato nell’AIA riesaminata. L’individuazione del bilanciamento, che dà vita alla nuova AIA, è, come si è visto, il risultato di apporti plurimi, tecnici e amministrativi, che può essere contestato davanti al giudice competente, nel caso si lamentino vizi di legittimità dell’atto da parte di cittadini che si ritengano lesi nei loro diritti e interessi legittimi. Lo stesso atto, peraltro, non può essere contestato nel merito delle scelte compiute dalle amministrazioni competenti, che non possono essere sostituite da altre nella valutazione discrezionale delle misure idonee a tutelare l’ambiente ed a prevenire futuri inquinamenti, quando l’esercizio di tale discrezionalità non trasmodi in un vizio denunciabile nelle sedi giurisdizionali competenti. Il punto di equilibrio contenuto nell’AIA non è necessariamente il migliore in assoluto – essendo ben possibile nutrire altre opinioni sui mezzi più efficaci per conseguire i risultati voluti – ma deve presumersi ragionevole, avuto riguardo alle garanzie predisposte dall’ordinamento quanto all’intervento di organi tecnici e del personale competente; all’individuazione delle migliori tecnologie disponibili; alla partecipazione di enti e soggetti diversi nel procedimento preparatorio e alla pubblicità dell’iter formativo, che mette cittadini e comunità nelle condizioni di far valere, con mezzi comunicativi, politici ed anche giudiziari, nelle ipotesi di illegittimità, i loro punti di vista. È appena il caso di aggiungere che non rientra nelle attribuzioni del giudice una sorta di “riesame del riesame” circa il merito dell’AIA, sul presupposto – come sembra emergere dalle considerazioni del rimettente, di cui si dirà più avanti, prendendo in esame le norme relative allo stabilimento Ilva di Taranto – che le prescrizioni dettate dall’autorità competente siano insufficienti e sicuramente inefficaci nel futuro. In altre parole, le opinioni del giudice, anche se fondate su particolari interpretazioni dei dati tecnici a sua disposizione, non possono sostituirsi alle valutazioni dell’amministrazione sulla tutela dell’ambiente, rispetto alla futura attività di un’azienda, attribuendo in partenza una qualificazione negativa alle condizioni poste per l’esercizio dell’attività stessa, e neppure ancora verificate nella loro concreta efficacia. 10.4.– In conclusione sul punto, in via generale, la combinazione tra un atto amministrativo (AIA) e una previsione legislativa (art. 1 del d.l. n. 207 del 2012) determina le condizioni e i limiti della liceità della prosecuzione di un’attività produttiva per un tempo definito, in tutti i casi in cui uno stabilimento – dichiarato, nei modi previsti dalla legge, di interesse strategico nazionale – abbia procurato inquinamento dell’ambiente, al punto da provocare l’intervento cautelare dell’autorità giudiziaria. La normativa censurata non prevede, infatti, la continuazione pura e semplice dell’attività, alle medesime condizioni che avevano reso necessario l’intervento repressivo dell’autorità giudiziaria, ma impone

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nuove condizioni, la cui osservanza deve essere continuamente controllata, con tutte le conseguenze giuridiche previste in generale dalle leggi vigenti per i comportamenti illecitamente lesivi della salute e dell’ambiente. Essa è pertanto ispirata alla finalità di attuare un non irragionevole bilanciamento tra i princìpi della tutela della salute e dell’occupazione, e non al totale annientamento del primo. 11.– La norma generale censurata non si pone in contrasto con il principio di eguaglianza, di cui all’art. 3 Cost., perché non introduce – come invece affermano i rimettenti – una ingiustificata differenziazione di disciplina tra stabilimenti “strategici” e altri impianti, sulla base di un atto amministrativo – un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri – dotato di eccessiva discrezionalità, derivante dalla genericità dei criteri di individuazione di tali stabilimenti. Si deve osservare, in proposito, che l’interesse strategico nazionale ad una produzione, piuttosto che ad un’altra, è elemento variabile, in quanto legato alle congiunture economiche e ad un’altra serie di fattori non predeterminabili (effetti della concorrenza, sviluppo tecnologico, andamento della filiera di un certo settore industriale etc.). Si giustifica pertanto l’ampiezza della discrezionalità che la norma censurata riconosce al Governo, e per esso al Presidente del Consiglio dei ministri, in quanto organi che concorrono a definire la politica industriale del Paese. Trattandosi, peraltro, di provvedimento amministrativo, il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri può essere oggetto di impugnazione, al pari dell’AIA riesaminata del Ministro dell’ambiente, che, secondo la medesima norma, consente la prosecuzione dell’attività produttiva, anche in presenza di sequestri dell’autorità giudiziaria. Quanto all’indice numerico dei lavoratori occupati, va ricordato che si tratta della soglia già utilizzata dal legislatore nella disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, di cui all’art. 2 del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270 (Nuova disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, a norma dell’articolo 1 della legge 30 luglio 1998, n. 274). In tale disciplina, la tutela dell’attività imprenditoriale e dei livelli occupazionali, come indicati, giustifica la sottrazione dell’impresa insolvente al fallimento e l’ingresso in una procedura concorsuale ad hoc, con finalità di conservazione delle attività aziendali, mediante prosecuzione, riattivazione e riconversione dell’esercizio. La norma censurata presenta caratteristiche analoghe, in quanto mira a perpetuare l’esistenza di grandi aziende, la cui chiusura avrebbe gravi effetti sui livelli di occupazione. Si tratta quindi di una disciplina differenziata per situazioni a loro volta differenziate, meritevoli di specifica attenzione da parte del legislatore, che non viola pertanto il principio di eguaglianza. Quest’ultimo impone – come emerge dalla nota e costante giurisprudenza di questa Corte – discipline eguali per situazioni eguali e discipline diverse per situazioni diverse, con il limite generale dei princìpi di proporzionalità e ragionevolezza, che non viene nella fattispecie superato, giacché le ricadute sull’economia nazionale e sui livelli di occupazione sono diverse, per l’effetto combinato dei fattori cui prima si faceva cenno. Sarebbe, al contrario, irragionevole una disciplina che parificasse tutte le aziende produttive, a prescindere dalla loro dimensione e incidenza sul mercato e, quindi, dagli effetti che la loro scomparsa determinerebbe. 12.– L’art. 3, comma 1, del d.l. n. 207 del 2012 individua direttamente nell’impianto siderurgico della società Ilva di Taranto uno stabilimento di interesse strategico nazionale, di cui all’art. 1, comma 1, del medesimo atto normativo. Si tratta di legge in luogo di provvedimento, poiché sostituisce il proprio dettato al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri previsto dalla norma generale. 12.1.– Come è noto, la prevalente dottrina e la giurisprudenza di questa Corte non considerano la legge-provvedimento incompatibile, in sé e per sé, con l’assetto dei poteri stabilito dalla Costituzione. In particolare, si deve ribadire in questa sede che «nessuna disposizione costituzionale […] comporta una riserva agli organi amministrativi o “esecutivi” degli atti a contenuto particolare e concreto» (ex plurimis, sentenza n. 143 del 1989). Le leggi provvedimento devono soggiacere tuttavia «ad un rigoroso scrutinio di legittimità costituzionale per il pericolo di disparità di trattamento insito in previsioni di tipo particolare e derogatorio» (ex plurimis, sentenza n. 2 del 1997; in senso conforme, sentenza n. 20 del 2012).

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Questa Corte ha inoltre precisato che la legittimità costituzionale di tale tipo di leggi va valutata in relazione al loro specifico contenuto, con la conseguenza che devono emergere i criteri che ispirano le scelte con esse realizzate, nonché le relative modalità di attuazione (ex plurimis, sentenze n. 137 del 2009, n. 267 del 2007 e n. 492 del 1995). Poiché gli atti legislativi normalmente non contengono motivazioni, «è sufficiente che detti criteri, gli interessi oggetto di tutela e la ratio della norma siano desumibili dalla norma stessa, anche in via interpretativa, in base agli ordinari strumenti ermeneutici» (sentenza n. 270 del 2010). Con riferimento alla funzione giurisdizionale, questa Corte ha stabilito altresì che non può essere consentito al legislatore di «risolvere, con la forma della legge, specifiche controversie e di vanificare gli effetti di una pronuncia giurisdizionale divenuta intangibile, violando i princìpi relativi ai rapporti tra potere legislativo e potere giurisdizionale e concernenti la tutela dei diritti e degli interessi legittimi» (sentenza n. 94 del 2009, conforme a sentenza n. 374 del 2000). La giurisprudenza della Corte EDU ha costantemente affermato che «il principio dello stato di diritto e la nozione di giusto processo custoditi nell’art. 6 precludono, tranne che per impellenti ragioni di interesse pubblico, l’interferenza dell’assemblea legislativa nell’amministrazione della giustizia al fine di influenzare la determinazione giudiziaria di una controversia» (Corte EDU, sez. II, sentenza 14 dicembre 2012, Arras contro Italia, in conformità alla giurisprudenza precedente). Dal canto suo, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha costantemente affermato che contro tutti gli atti, anche aventi natura legislativa, «gli Stati devono prevedere la possibilità di accesso a una procedura di ricorso dinanzi a un organo giurisdizionale o ad altro organo indipendente ed imparziale istituito dalla legge» (sentenza 16 febbraio 2012, in causa C-182/10, Solvay et al. vs. Région wallone, in conformità alla giurisprudenza precedente). 12.2.– Con riferimento all’individuazione diretta dell’impianto siderurgico della società Ilva di Taranto come «stabilimento di interesse strategico nazionale», si deve osservare che a Taranto si è verificata una situazione grave ed eccezionale, che ha indotto il legislatore ad omettere, per ragioni di urgenza, il passaggio attraverso un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri in vista della qualificazione di cui sopra. Sia la normativa generale che quella particolare si muovono quindi nell’ambito di una situazione di emergenza ambientale, dato il pregiudizio recato all’ambiente e alla salute degli abitanti del territorio circostante, e di emergenza occupazionale, considerato che l’eventuale chiusura dell’Ilva potrebbe determinare la perdita del posto di lavoro per molte migliaia di persone (tanto più numerose comprendendo il cosiddetto indotto). La temporaneità delle misure adottate risponde, inoltre, ad una delle condizioni poste dalla giurisprudenza di questa Corte perché una legislazione speciale fondata sull’emergenza possa ritenersi costituzionalmente compatibile (sentenza n. 418 del 1992). Le brevi notazioni in fatto relative all’incidenza, sull’ambiente e sull’occupazione nel territorio di Taranto, dell’attività produttiva dell’Ilva consentono, nella fattispecie, di rinvenire la ratio dell’intervento legislativo «nel peculiare regime che connota le situazioni di emergenza» (sentenza n. 237 del 2007). Il legislatore ha ritenuto di dover scongiurare una gravissima crisi occupazionale, di peso ancor maggiore nell’attuale fase di recessione economica nazionale e internazionale, senza tuttavia sottovalutare la grave compromissione della salubrità dell’ambiente, e quindi della salute delle popolazioni presenti nelle zone limitrofe. Si deve notare, al proposito, che l’AIA riesaminata del 26 ottobre 2012, esplicitamente richiamata dall’art. 3 in esame, ha anticipato di quattro anni l’obbligo di adeguamento alle conclusioni delle migliori tecniche disponibili relative al settore siderurgico, di cui alla decisione della Commissione europea n. 2012/135/UE, già citata. Difatti, il considerando 8 di tale decisione, dopo aver richiamato l’art. 21 della direttiva n. 2010/75/UE,stabilisce che «entro quattro anni dalla data di pubblicazione delle decisioni sulle conclusioni sulle BAT [MTD], l’autorità competente riesamina e, se necessario, aggiorna tutte le condizioni di autorizzazione e garantisce che l’installazione sia conforme a tali condizioni di autorizzazione».

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Si deve pure sottolineare che l’art. 3 del d.l. n. 207 del 2012 non apporta alcuna deroga alla normativa generale contenuta nell’art. 1, ma si limita a dare alla stessa pedissequa esecuzione, per mezzo di un provvedimento con forza di legge, che è un atto del Governo, di cui fa parte il Presidente del Consiglio dei ministri, sottoposto al controllo del Parlamento in sede di conversione e della Corte costituzionale in sede di giudizio incidentale, come effettivamente avvenuto nel caso presente. Né può dirsi, come afferma il rimettente Giudice per le indagini preliminari, che la forma legislativa dell’individuazione dell’Ilva di Taranto come «stabilimento di interesse strategico nazionale» comprometta il diritto di tutela giurisdizionale, che sarebbe possibile invece esercitare in presenza di un atto amministrativo. Questa Corte ha infatti osservato che «in assenza nell’ordinamento attuale di una “riserva di amministrazione” opponibile al legislatore, non può ritenersi preclusa alla legge ordinaria la possibilità di attrarre nella propria sfera di disciplina oggetti o materie normalmente affidate all’azione amministrativa […] con la conseguenza che il diritto di difesa […] non risulterà annullato, ma verrà a connotarsi secondo il regime tipico dell’atto legislativo adottato, trasferendosi dall’ambito della giustizia amministrativa a quello proprio della giustizia costituzionale» (sentenza n. 62 del 1993). Non ha neppure fondamento l’affermazione, dello stesso rimettente, che vi sia stata una “legificazione” dell’AIA riesaminata, con la conseguenza che contro tale atto amministrativo, nel caso specifico dell’Ilva di Taranto, non sarebbero esperibili i normali rimedi giurisdizionali. È vero, al contrario, che l’AIA è pur sempre – come statuito in via generale dall’art. 1, non contraddetto dall’art. 3 – un presupposto per l’applicabilità dello speciale regime giuridico, che consente la continuazione dell’attività produttiva alle condizioni ivi previste. In quanto presupposto, essa rimane esterna all’atto legislativo, con tutte le conseguenze, in termini di controllo di legalità, da ciò derivanti. Il comma 2 dell’art. 3 richiama l’AIA del 26 ottobre 2012 allo scopo di ribadire lo stretto condizionamento della prosecuzione dell’attività all’osservanza delle nuove prescrizioni poste a tutela dell’ambiente e della salute, ferma restando naturalmente la natura dinamica del provvedimento, che può essere successivamente modificato e integrato, con relativa possibilità di puntuali controlli in sede giurisdizionale. In altri termini, sia la norma generale, sia quella che si riferisce in concreto all’Ilva di Taranto, si interpretano agevolmente nel senso che l’azienda interessata è vincolata al rispetto delle prescrizioni dell’AIA, quale è e quale sarà negli eventuali sviluppi successivi, e che l’entrata in vigore del d.l. n. 207 del 2012 non ha precluso né preclude tutti i rimedi giurisdizionali esperibili riguardo ad un atto amministrativo. La giurisprudenza di questa Corte ha riconosciuto l’esistenza di una presunzione di rinvio formale agli atti amministrativi, ove gli stessi siano richiamati in una disposizione legislativa, tranne che la natura recettizia del rinvio stesso emerga in modo univoco dal testo normativo (sentenza n. 311 del 1993); circostanza, questa, che non ricorre necessariamente neppure quando l’atto sia indicato in modo specifico dalla norma legislativa (sentenze n. 80 del 2013 e n. 536 del 1990). Come può chiaramente desumersi dal testo della disposizione censurata, l’intento del legislatore non è stato quello di incorporare l’AIA nella legge, ma solo di prevedere – come illustrato nel paragrafo 10 – un effetto combinato di atto amministrativo e legge, effetto che mantiene la sua peculiarità e la sua efficienza rispetto al fine, a condizione che rimangano ferme la natura dell’uno e dell’altra. 12.3.– Dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 207 del 2012 – che contiene sia la disciplina generale dell’attività degli stabilimenti di interesse strategico nazionale sottoposti ad AIA riesaminata, sia la diretta individuazione dell’Ilva di Taranto come destinataria di tale normativa – il sequestro del materiale prodotto, disposto dal Giudice per le indagini preliminari, e il divieto della sua commercializzazione, hanno perduto il loro presupposto giuridico, che consisteva nell’inibizione, derivante dal precedente sequestro, della facoltà d’uso dello stabilimento. Quest’ultimo infatti trova la sua unica funzione nella produzione dell’acciaio e tale attività, a sua volta, ha senso solo se lo stesso può essere commercializzato. Occorre notare come la disciplina generale, di cui all’art. 1 del decreto-legge citato, preveda che, anche in costanza di provvedimenti di sequestro dei beni dell’impresa titolare dello stabilimento, è consentito «l’esercizio dell’attività di impresa» (comma 4), che comprende sia la produzione che la commercializzazione del materiale prodotto, l’una inscindibilmente connessa all’altra. Tanto la norma

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generale appena richiamata, quanto quella particolare riferentesi all’Ilva di Taranto, non prevedono né dispongono la revoca dei sequestri disposti dall’autorità giudiziaria, ma autorizzano la prosecuzione dell’attività per un periodo determinato ed a condizione dell’osservanza delle prescrizioni dell’AIA riesaminata. La ratio delle due discipline è dunque che si proceda ad un graduale, intenso processo di risanamento degli impianti, dal punto di vista delle emissioni nocive alla salute e all’ambiente, senza dover necessariamente arrivare alla chiusura dello stabilimento, con conseguente nocumento per l’attività economica, che determinerebbe a sua volta un elevato incremento del tasso di disoccupazione, già oggi difficilmente sostenibile per i suoi costi sociali. Se l’adeguamento della struttura produttiva non dovesse procedere secondo le puntuali previsioni del nuovo provvedimento autorizzativo, sarebbe cura delle autorità amministrative preposte al controllo – e della stessa autorità giudiziaria, nell’ambito delle proprie competenze – di adottare tutte le misure idonee e necessarie a sanzionare, anche in itinere, le relative inadempienze. 12.4.– Il rimettente Giudice per le indagini preliminari lamenta che il comma 3 dell’art. 3 del d.l. n. 207 del 2012 abbia invaso la sfera di competenza costituzionalmente riservata all’autorità giudiziaria ed abbia quindi violato il principio della separazione dei poteri. La lesione sarebbe dovuta sia alla reimmissione dell’Ilva S.p.A. nel possesso dei beni aziendali, sia all’autorizzazione alla commercializzazione dei prodotti, ivi compresi quelli realizzati antecedentemente alla data di entrata in vigore del medesimo decreto-legge. Sarebbe stata, in particolare, violata la riserva di giurisdizione, desumibile dal combinato disposto degli artt. 102, primo comma, e 104, primo comma, Cost. Tale riserva implicherebbe l’intangibilità del giudicato, che, nella specie, si presenterebbe come «giudicato cautelare», dato che il provvedimento di riesame sul sequestro degli impianti non è stato oggetto di ricorso per cassazione, e che la società Ilva ha rinunciato al gravame proposto contro l’analogo provvedimento assunto per i materiali lavorati e semilavorati. Si deve precisare preliminarmente che il cosiddetto «giudicato cautelare» non consiste in una decisione giurisdizionale definitiva, che conclude un processo, ma è un’espressione di creazione giurisprudenziale – oggetto tuttora di discussioni ed ancora non precisato in alcuni suoi aspetti – con cui viene indicata una preclusione endoprocessuale. Si deve altresì osservare che tale preclusione opera rebus sic stantibus, con la conseguenza che ogni mutamento significativo del quadro materiale o normativo di riferimento vale a rimuoverla, reintroducendo il dovere del giudice di valutare compiutamente l’intera situazione. Sulla base delle precedenti considerazioni, si deve escludere che la norma censurata abbia travolto un “giudicato” nel senso tecnico-processuale del termine, e cioè – giova ripeterlo – la decisione giudiziale definitiva di una controversia. Si deve ritenere, invece, che la disposizione abbia modificato il quadro normativo sulla cui base sono stati emessi alcuni provvedimenti cautelari, ed abbia creato pertanto una nuova situazione di fatto e di diritto, in quanto la produzione può riprendere non con le modalità precedenti – che avevano dato luogo all’intervento dell’autorità giudiziaria – ma con modalità nuove e parzialmente diverse, ponendo le premesse perché si verifichino in futuro fatti che dovranno essere nuovamente valutati dai giudici, ove aditi nelle forme rituali. 12.5.– Occorre inoltre mettere maggiormente a fuoco la nozione di “riserva di giurisdizione”, posta dai rimettenti a fondamento della lamentata violazione del principio della separazione dei poteri. Con tale espressione si possono indicare due distinti, seppur collegati, princìpi, entrambi presenti nella Costituzione. Il primo – enunciato in modo esplicito da una serie di norme costituzionali (artt. 13, 14, 15 e 21) – consiste nella necessità che tutti i provvedimenti restrittivi di alcune libertà fondamentali debbano essere adottati «con atto motivato dell’autorità giudiziaria», a garanzia del modo indipendente ed imparziale di applicare la legge in questo campo. Intesa in questo senso, la riserva di giurisdizione risulta evidentemente estranea all’odierno giudizio. Il secondo principio – non enunciato esplicitamente da una singola norma costituzionale, ma chiaramente desumibile in via sistematica da tutto il Titolo IV della Parte II della Costituzione – consiste nella esclusiva competenza dei giudici – ordinari e speciali – a definire con una pronuncia

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secondo diritto le controversie, che coinvolgano diritti soggettivi o interessi legittimi, loro sottoposte secondo le modalità previste dall’ordinamento per l’accesso alle diverse giurisdizioni. Con riferimento alla giurisdizione penale, la «riserva di sentenza», di cui sinora s’è detto, è integrata nella Costituzione italiana dalla riserva al pubblico ministero dell’esercizio dell’azione penale, che costituisce un potere esclusivo, ma anche un dovere dei titolari di tale funzione giudiziaria (art. 112 Cost.). L’esame delle norme impugnate nel presente giudizio conduce alla conclusione che non vi è violazione della “riserva di giurisdizione” neppure nella seconda, più ampia, accezione illustrata. Pende attualmente davanti all’Autorità giudiziaria di Taranto un procedimento penale – ancora nella fase delle indagini preliminari – volto ad accertare la responsabilità penale di alcuni soggetti, in relazione a reati, di danno e di pericolo, derivanti dall’inquinamento provocato negli anni passati dall’attività dello stabilimento siderurgico Ilva S.p.A., attività che si assume tenuta in violazione di norme e prescrizioni a tutela della salute e dell’ambiente. Si può rilevare con certezza che nessuna delle norme qui censurate è idonea ad incidere, direttamente o indirettamente, sull’accertamento delle predette responsabilità, e che spetta naturalmente all’autorità giudiziaria, all’esito di un giusto processo, l’eventuale applicazione delle sanzioni previste dalla legge. Come si è già chiarito al paragrafo 8, le disposizioni censurate non cancellano alcuna fattispecie incriminatrice né attenuano le pene, né contengono norme interpretative e/o retroattive in grado di influire in qualsiasi modo sull’esito del procedimento penale in corso, come invece si è verificato nella maggior parte dei casi, di cui si sono dovute occupare la Corte costituzionale italiana e la Corte di Strasburgo nelle numerose pronunce risolutive di dubbi di legittimità riguardanti leggi produttive di effetti sulla definizione di processi in corso. 12.6.– Residua il problema della legittimità dell’incidenza di una norma legislativa su provvedimenti cautelari adottati dall’autorità giudiziaria non in funzione conservativa delle fonti di prova – nel qual caso si ricadrebbe nell’incidenza sull’esito del processo – ma con finalità preventive, sia in ordine alla possibilità di aggravamento o protrazione dei reati commessi o alla prevedibile commissione di ulteriori reati (art. 321, primo comma, cod. proc. pen.), sia in ordine alla conservazione di beni che possono formare oggetto di confisca, in caso di condanna degli imputati (art. 321, secondo comma, cod. proc. pen., in relazione all’art. 240 cod. pen.). Il sequestro degli impianti, senza facoltà d’uso, è stato disposto a norma del primo comma dell’art. 321 cod. proc. pen., in base all’assunto che la continuazione dell’attività produttiva avrebbe senza dubbio aggravato l’inquinamento ambientale, già accertato con perizia disposta in sede di incidente probatorio, e avrebbe provocato ulteriore nocumento ai lavoratori dell’impianto e agli abitanti delle aree viciniori. Si deve rilevare in proposito che l’aggravamento delle conseguenze di reati già commessi o la commissione di nuovi reati è preventivabile solo a parità delle condizioni di fatto e di diritto antecedenti all’adozione del provvedimento cautelare. Mutato il quadro normativo – che in effetti non è rimasto invariato, contrariamente a quanto sostenuto dai rimettenti – le condizioni di liceità della produzione sono cambiate e gli eventuali nuovi illeciti penali andranno valutati alla luce delle condizioni attuali e non di quelle precedenti. Si deve anche mettere in rilievo che la produzione siderurgica è in sé e per sé lecita, e può divenire illecita solo in caso di inosservanza delle norme e delle prescrizioni dettate a salvaguardia della salute e dell’ambiente. Mutate quelle norme e quelle prescrizioni, occorre una valutazione ex novo della liceità dei fatti e dei comportamenti, partendo dalla nuova base normativa. Né può essere ammesso che un giudice (ivi compresa questa Corte) ritenga illegittima la nuova normativa in forza di una valutazione di merito di inadeguatezza della stessa, a prescindere dalla rilevata violazione di precisi parametri normativi, costituzionali o ordinari, sovrapponendo le proprie valutazioni discrezionali a quelle del legislatore e delle amministrazioni competenti. Tale sindacato sarebbe possibile solo in presenza di una manifesta irragionevolezza della nuova disciplina dettata dal legislatore e delle nuove prescrizioni contenute nell’AIA riesaminata. Si tratta di un’eventualità da escludere, nella specie, per le ragioni illustrate nei paragrafi precedenti, che convergono verso la considerazione complessiva che sia il legislatore, sia le amministrazioni competenti, hanno costruito una situazione di equilibrio non

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irragionevole. Ciò esclude, come detto prima, un “riesame del riesame”, che non compete ad alcuna autorità giurisdizionale. Si deve ritenere, in generale, che l’art. 1 del d.l. n. 207 abbia introdotto una nuova determinazione normativa all’interno dell’art. 321, primo comma, cod. proc. pen., nel senso che il sequestro preventivo, ove ricorrano le condizioni previste dal comma 1 della disposizione, deve consentire la facoltà d’uso, salvo che, nel futuro, vengano trasgredite le prescrizioni dell’AIA riesaminata. Nessuna incidenza sull’attività passata e sulla valutazione giuridica della stessa e quindi nessuna ricaduta sul processo in corso, ma solo una proiezione circa i futuri effetti della nuova disciplina. La reimmissione della società Ilva S.p.A. nel possesso degli impianti è la conseguenza obbligata di tale nuovo quadro normativo, affinché la produzione possa continuare alle nuove condizioni, la cui osservanza sarà valutata dalle competenti autorità di controllo e la cui intrinseca sufficienza sarà verificata, sempre in futuro, secondo le procedure previste dal codice dell’ambiente. Il sequestro dei prodotti è stato disposto, invece, ai sensi sia del primo che del secondo comma dell’art. 321 cod. proc. pen., giacché si è inteso, da parte del giudice procedente, non solo prevenire la commissione di nuovi reati, ma anche preservare tali beni per l’ipotesi che gli stessi possano essere confiscati, in seguito alla condanna definitiva degli imputati. Nella motivazione del sequestro dei materiali si può notare una mescolanza delle finalità connesse al primo e al secondo comma della norma processuale citata. Lo scopo addotto è infatti quello di «bloccare l’attività criminosa in corso, atteso che, allo stato, si versa nell’assurda, perdurante situazione che beni frutto di tale attività possano essere commercializzati ed essere fonte di guadagni in capo ai soggetti che la stessa hanno realizzato e continuato a realizzare. Senza ulteriore indugio occorre bloccare il prodotto dei reati contestati e quindi il profitto di essi che altrimenti si consoliderebbe nelle tasche degli indagati attraverso la commercializzazione dell’acciaio, cioè sulla “pelle” degli operai dell’ILVA e della popolazione interessata all’attività inquinante del siderurgico che invece occorre bloccare». E ancora, sarebbe indubbio che «la libera disponibilità del prodotto finito e/o semilavorato […] e la conseguente possibilità della sua remunerata collocazione sul mercato, stia incentivando gli organi aziendali a perseverare, nell’allettante ottica di ulteriori profitti, immediati e futuri, nella produzione industriale con modalità contrarie alla legge […]». Si evidenzia, come accennato, la stretta combinazione tra il sequestro delle strutture produttive e quello dei materiali prodotti: i due provvedimenti sono accomunati dalla finalità ultima, esplicitamente dichiarata, di provocare la chiusura dell’impianto, considerata l’unico mezzo per avviare un effettivo risanamento del territorio e l’unico strumento di tutela della salute della popolazione. Con il sequestro dei materiali giacenti nell’area dello stabilimento, in particolare, si mira a far mancare le risorse indispensabili per la prosecuzione dell’attività aziendale, che provengono, come per ogni impresa produttiva, dalla vendita dei prodotti sul mercato. L’incerta linea divisoria tra provvedimenti cautelari funzionali al processo, di competenza dell’autorità giudiziaria, e provvedimenti di prevenzione generale, spettanti, nel rispetto delle leggi vigenti, all’autorità amministrativa, è facilmente oltrepassabile sia in un senso che nell’altro. Quando però il confine risulta superato, non può certo determinarsi la conseguenza dell’inibizione del potere di provvedere secondo le attribuzioni costituzionali, ed in particolare della possibilità, per il legislatore, di disciplinare ulteriormente una determinata materia. L’avere l’amministrazione, in ipotesi, male operato nel passato non è ragione giuridico-costituzionale sufficiente per determinare un’espansione dei poteri dell’autorità giudiziaria oltre la decisione dei casi concreti. Una soggettiva prognosi pessimistica sui comportamenti futuri non può fornire base valida per una affermazione di competenza. A prescindere poi da ogni patologia della relazione tra cautela giudiziaria e funzioni amministrative regolate dalla legge, è fin troppo ovvio che l’attualità della prima non può inibire il dispiegarsi delle seconde, sul presupposto di una indefinita permanenza delle situazioni precedenti, venute in essere in un quadro normativo e in una situazione di fatto differenti. Alla luce di quanto detto, si può concludere che, nella fattispecie oggetto del presente giudizio, non sussiste alcuna lesione della riserva di giurisdizione.

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L’intervento del legislatore, che, con una norma singolare, autorizza la commercializzazione di tutti i prodotti, anche realizzati prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 207 del 2012, rende esplicito un effetto necessario e implicito della autorizzazione alla prosecuzione dell’attività produttiva, giacché non avrebbe senso alcuno permettere la produzione senza consentire la commercializzazione delle merci realizzate, attività entrambe essenziali per il normale svolgimento di un’attività imprenditoriale. Distinguere tra materiale realizzato prima e dopo l’entrata in vigore del decreto-legge sarebbe in contrasto con la ratio della norma generale e di quella speciale, entrambe mirate ad assicurare la continuazione dell’attività aziendale, e andrebbe invece nella direzione di rendere il più difficoltosa possibile l’attività stessa, assottigliando le risorse disponibili per effetto della vendita di materiale non illecito in sé, perché privo di potenzialità inquinanti. Le considerazioni anzidette valgono anche con specifico riguardo alle modifiche introdotte nel comma 3 dell’art. 3 in sede di conversione, che presentano una chiara natura esplicativa del portato di quanto stabilito, sul piano generale come con riguardo specifico alla società Ilva. La norma censurata regola, in definitiva, una situazione di fatto che si è venuta a creare dopo l’entrata in vigore del decreto-legge, diversa dalla precedente e dunque suscettibile di una differente disciplina giuridica, che, per le ragioni esposte, non presenta profili di irragionevolezza. Quanto infine alla temuta dispersione di beni che potrebbero formare oggetto di una futura confisca, si deve riconoscere al legislatore, ancora una volta, la possibilità di modulare pro futuro l’efficacia e la portata stessa di un vincolo cautelare a seconda della natura del suo oggetto e degli interessi convergenti sulla situazione considerata. Il bilanciamento ormai più volte descritto, e più volte misurato in termini di ragionevolezza, ha implicato nella specie una forte attenuazione della garanzia reale nella sua attitudine ad impedire la circolazione della cosa sequestrata, che peraltro non è il solo ed assorbente profilo della cautela. In ogni caso, il decremento della garanzia è del tutto corrispondente al vantaggio perseguito per la tutela degli interessi di rilievo costituzionale che gravitano su beni necessari all’esercizio di imprese di rilievo strategico, con conseguenti ricadute occupazionali, e per tale ragione risulta non irragionevole. Per Questi Motivi LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 1 e 3 della legge 24 dicembre 2012, n. 231 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207, recante disposizioni urgenti a tutela della salute, dell'ambiente e dei livelli di occupazione, in caso di crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale) – recte, degli artt. 1 e 3 del decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207 (Disposizioni urgenti a tutela della salute, dell’ambiente e dei livelli di occupazione, in caso di crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale), come convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 231 del 2012 – sollevate dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Taranto, in riferimento agli artt. 25, primo comma, 27, primo comma e 117, primo comma, della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe; dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 3 della legge n. 231 del 2012 – recte, degli artt. 1 e 3 del decreto-legge n. 207 del 2012, come convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 231 del 2012 – sollevate dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Taranto, in riferimento agli artt. 2, 3, 9, secondo comma, 24, primo comma, 32, 41, secondo comma, 101, 102, 103, 104, 107, 111, 112 e 113 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe; dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3 della legge n. 231 del 2012 – recte, dell’art. 3 del decreto-legge n. 207 del 2012, come convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 231 del 2012 – sollevate dal Tribunale ordinario di Taranto, in riferimento agli artt. 3, 24, 102, 104 e 112 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 aprile 2013.

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5.6 Corte Cost., sentenza n. 154 del 2013 :

SENTENZA N. 154 ANNO 2013

REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE (omissis)

Ritenuto in fatto

(omissis)

Considerato in diritto

1.– (omissis) 2.– Quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni, il Consiglio di Stato assume che le disposizioni censurate – nel prevedere l’applicazione, alla gestione commissariale del Comune di Roma, dell’art. 248 del d.lgs. n. 267 del 2000, e cioè del divieto di azioni esecutive individuali, per l’adempimento di obbligazioni sorte per fatti o atti avvenuti in epoca antecedente al 28 aprile 2008, anche se accertati con sentenze passate in giudicato in epoca successiva a tale data – si porrebbero in contrasto con numerosi parametri costituzionali. 2.1.– Sarebbero violati innanzitutto gli artt. 3, 97, primo comma, 114, 118 e 119 Cost., giacché le norme censurate avrebbero introdotto un sistema che, irragionevolmente e in deroga alla disciplina sul dissesto degli enti locali, prevede, in luogo di un criterio per la definizione della massa debitoria, un criterio di imputazione ex post delle obbligazioni alla gestione commissariale. In tal modo non sarebbe possibile raggiungere la certezza sull’entità dell’indebitamento, e la stessa gestione commissariale presenterebbe una indeterminatezza temporale incompatibile con il principio di buon andamento della pubblica amministrazione, oltre che lesiva dell’autonomia dell’ente locale. 2.2.– Sarebbero violati gli artt. 2, 3, 24, 103, 113 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo parametro con l’interposizione degli artt. 6, comma 1, e 13 della Convenzione EDU, in quanto le norme censurate inciderebbero retroattivamente, senza giustificazione, su diritti riconosciuti con sentenze passate in giudicato prima dell’entrata in vigore dell’art. 4, comma 8-bis, del d.l. n. 2 del 2010. Pur senza disconoscere i diritti accertati giudizialmente, e senza incidere sul contenuto dei medesimi, il divieto di procedere in executivis per i crediti derivanti da obbligazioni che rientrano nella competenza della gestione commissariale agirebbe sul diverso piano della effettività della tutela giurisdizionale, negandola. 2.3.– L’incidenza sulla effettività della tutela giurisdizionale determinerebbe, per un verso, la violazione degli artt. 101, 102, 104 e 108, secondo comma, Cost., a causa della lesione delle prerogative dell’autorità giudiziaria, e, per altro verso, degli artt. 3, 24 e 41, primo comma, Cost., in ragione del

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pregiudizio al legittimo affidamento c he i creditori del Comune di Roma hanno riposto nel positivo svolgimento dell’attività difensiva, finalizzata a tutelare in giudizio i propri interessi. Il Consiglio di Stato richiama in proposito la ratio decidendi della sentenza n. 364 del 2007 di questa Corte. 2.4- (omissis) 3.– Il TAR Lazio prospetta ulteriori questioni in riferimento agli artt. 41, primo comma, e 42, secondo e terzo comma, Cost. Le norme censurate avrebbero sottratto valore al titolo esecutivo che incorpora il diritto di credito, da considerarsi bene negoziabile sul mercato, e quindi violerebbero il regime di garanzie costituzionali che assicura il libero esercizio dell’attività economica e la tutela della proprietà privata. 3.1.– Sarebbe inoltre leso il sistema delle garanzie processuali configurato dagli artt. 24, primo comma, 25, secondo comma, e 113 Cost., in quanto le disposizioni censurate impedirebbero l’esercizio del diritto di azione, al tempo stesso imponendo al giudice naturale di dichiarare estinta la procedura esecutiva, con l’effetto di escludere la tutela giurisdizionale dei diritti vantati nei confronti del Comune di Roma. 3.2.– Sussisterebbe, infine, un contrasto tra le norme censurate e l’art. 97, primo comma, Cost., in quanto il blocco delle azioni esecutive, e la connessa riduzione di responsabilità dell’amministrazione debitrice, finirebbero per premiare l’Ente che ha mal gestito le proprie risorse. 4.– In ragione della parziale identità delle questioni sollevate, i giudizi debbono essere riuniti per essere definiti con unica decisione. 5.– Preliminarmente deve essere esaminata l’eccezione di inammissibilità delle questioni, sollevata dalla difesa dello Stato intervenuta in entrambi i giudizi incidentali. (omissis) 6.– Nel merito, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 78, comma 6, primo periodo, del d.l. n. 112 del 2008 non è fondata. 6.1.– I rimettenti censurano la norma indicata relativamente alla sola previsione che sancisce – mediante il rinvio agli artt. 248, commi 2, 3 e 4, e 255, comma 12, del d.lgs. n. 267 del 2000 – il divieto di azioni esecutive individuali, e l’art. 4, comma 8-bis, del d.l. n. 2 del 2010, nella parte in cui interpreta l’art. 78, comma 3, del d.l. n. 112 del 2008, nel senso che sono imputate alla gestione straordinaria del Comune di Roma le obbligazioni nascenti da atti o fatti precedenti al 28 aprile 2008, anche se accertate con sentenze diventate definitive successivamente a tale data. (omissis) 6.2.– In particolare, i rimettenti pongono in rilievo in modo critico la deroga, contenuta nella normativa censurata, all’art. 254 del d.lgs. n. 267 del 2000, e cioè la mancata previsione di un avviso pubblico ai fini della ricognizione dei debiti. Si deve osservare che la deroga trova giustificazione nell’introduzione con legge – atto munito di pubblicità legale ed assistito da presunzione di conoscenza – della gestione commissariale del debito pregresso del Comune di Roma, in luogo della dichiarazione di dissesto, assunta, nella generalità dei casi, con delibera del consiglio comunale, atto privo delle medesime caratteristiche di pubblicità della legge. 6.3.– Con riferimento alla “singolarità” della disciplina sul risanamento del Comune di Roma, occorre rilevare che la stessa presenta profili derogatori rispetto alla normativa generale sul dissesto degli enti locali in ragione della peculiarità del suddetto Ente, quale «capitale della Repubblica», sancita dall’art. 114, terzo comma, Cost., che ha trovato attuazione nei decreti legislativi 17 settembre 2010, n. 156 (Disposizioni recanti attuazione dell’articolo 24 della legge 5 maggio 2009, n. 42 e successive modificazioni, in materia di ordinamento transitorio di Roma Capitale) e 18 aprile 2012, n. 61 (Ulteriori disposizioni recanti attuazione dell’art. 24 della legge 5 maggio 2009, n. 42, in materia di ordinamento di Roma Capitale). Il legislatore ha inteso evitare una dichiarazione di dissesto che investisse, puramente e semplicemente, il Comune di Roma Capitale, optando per una procedura di risanamento da porre in essere mediante una gestione straordinaria dell’ingente indebitamento pregresso, da espletarsi in modo contestuale

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all’attività ordinaria dell’ente. Ciò allo scopo di non incidere, nei limiti del possibile, sul livello dei servizi della Capitale, senza tuttavia creare una situazione deteriore per i creditori del Comune di Roma, rispetto a quelli di altri Comuni d’Italia dichiarati in stato di dissesto (omissis) 6.4. – Alla luce della giurisprudenza di questa Corte, la legittimità delle cosiddette leggi-provvedimento, che contengono disposizioni dirette a destinatari determinati, deve essere valutata in relazione al loro specifico contenuto (ex plurimis, sentenza n. 270 del 2010). Nel caso in esame, la deroga alla disciplina generale del dissesto degli enti locali si limita all’introduzione di una doppia gestione (ordinaria e commissariale), volta a mantenere indenni dal peso di debiti pregressi le risorse destinate all’attività ordinaria del Comune di Roma Capitale, in considerazione del rilievo del tutto peculiare di quest’ultimo, sia in campo nazionale che internazionale. Per conseguire tale scopo è indispensabile stabilire una data precisa (individuata nel 28 aprile 2008), al fine di determinare una separazione temporale tra obbligazioni ad essa precedenti, i cui effetti ricadono sulla gestione commissariale, e obbligazioni successive, i cui effetti sono imputati alla gestione ordinaria. Si deve, in definitiva, ritenere che l’art. 78, comma 6, primo periodo, del d.l. n. 112 del 2008 sia coerente con la ratio che presiede alle funzioni ed all’attività dell’organo straordinario di liquidazione, di cui all’art. 245 e agli artt. 252 e seguenti del d.lgs. n. 267 del 2000, con la differenza della contestualità di gestione ordinaria e commissariale, volta a preservare la prima dal dissesto. 6.5.– Per quanto riguarda la posizione dei creditori, si può ritenere valido anche per il presente caso quanto questa Corte ha affermato sulla compatibilità costituzionale delle procedure concorsuali per la definizione del debito degli enti locali dissestati: «Non vi è lesione del diritto di azione perché la pretesa creditoria all’esecuzione forzata non è frustrata, ma è meramente deviata da uno strumento di soddisfacimento individuale verso uno di tipo concorsuale»; il rispetto della par condicio creditorum «costituisce ragione sufficiente di tale meccanismo sostitutorio dello strumento di tutela approntato dall’ordinamento» (sentenza n. 155 del 1994). Come si è ricordato sopra, i princìpi di riferimento sono quelli della disciplina del fallimento, adattati alla specifica natura dell’ente locale, che non può cessare di esistere, in quanto espressione di autonomia costituzionalmente tutelata. Gli stessi princìpi sono stati ribaditi più di recente dalla sentenza n. 355 del 2006. 6.6.– Quanto alla garanzia dei creditori rappresentata dalla massa attiva della gestione commissariale, si deve ricordare che l’art. 78, comma 3, del d.l. n. 112 del 2008 ha previsto che tutte le entrate di competenza, riferibili ad atti o fatti antecedenti al 28 aprile 2008, fossero assunte, con bilancio separato, alla suddetta gestione. Il d.P.C.m. 5 dicembre 2008 ha stabilito che all’attuazione del piano di rientro si provvede mediante utilizzo dei contributi, di cui all’art. 5, comma 3, del decreto-legge 7 ottobre 2008, n. 154 (Disposizioni urgenti per il contenimento della spesa sanitaria e in materia di regolazioni contabili con le autonomie locali), convertito dalla legge 4 dicembre 2008, n. 189. Si tratta delle risorse assegnate ai singoli Comuni, a valere sul fondo per le aree sottoutilizzate, che possono essere impiegate anche per le finalità inerenti al ripiano delle anticipazioni della Cassa depositi e prestiti alla gestione commissariale. La stessa disposizione prevede: «In sede di attuazione dell’art. 119 della Costituzione, a decorrere dall’anno 2010, viene riservato prioritariamente a favore di Roma Capitale un contributo annuale di 500 milioni di euro, anche per finalità previste dal presente comma [ripiano delle anticipazioni della Cassa depositi e prestiti], nell’ambito delle risorse disponibili». Lo stesso d.P.C.m. 5 dicembre 2008 stabilisce che il commissario straordinario può chiedere finanziamenti alla Cassa depositi e prestiti o a primari istituti di credito e che, poi, «il Ministero competente alla gestione dei capitoli di spesa, ove sono contabilizzati i trasferimenti pluriennali, corrisponde questi ultimi, alle originarie scadenze, direttamente alla Cassa depositi e prestiti o all’istituto di credito a titolo di progressiva estinzione dei finanziamenti concessi». Si deduce, pertanto, che il piano di rientro è finanziato con i trasferimenti pluriennali dovuti al Comune di Roma. Inoltre, l’art. 4, commi 7 e 8, del d.l. n. 2 del 2010 dispone che «è attribuito al Commissario straordinario del Governo […] un importo pari a 600 milioni di euro, di cui un sesto al Comune di Roma e cinque sesti al Commissario straordinario del Governo». Ulteriori interventi sono stati effettuati

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con il decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), che, all’art. 14, comma 14, prevede la costituzione di un fondo su apposito capitolo di bilancio del Ministero dell’economia e delle finanze, con dotazione annua di 300 milioni di euro, a partire dal 2011, per il concorso al sostegno degli oneri derivanti dall’attuazione del piano di rientro. La restante quota delle somme occorrenti alla scopo è reperita mediante l’istituzione, fino al conseguimento di 200 milioni di euro annui, di una addizionale sui diritti di imbarco dei passeggeri in partenza dagli aeroporti di Roma e mediante un incremento dell’addizionale comunale IRPEF fino al massimo dello 0,4%. Il comma 15 del citato art. 14 prevede ancora l’istituzione di un apposito fondo, con dotazione di 200 milioni di euro annui, a decorrere dal 2011, destinato esclusivamente all’attuazione del piano di rientro. Infine, l’art. 16, comma 12-octies, del decreto-legge 7 agosto 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 135, prevede che il fondo istituito dall’art. 14, comma 14-bis, del d.l. n. 78 del 2010 è attribuito al Commissario straordinario. Il fondo in questione, inizialmente previsto a favore di tutti i Comuni in stato di dissesto, è stato istituito presso il Ministero dell’economia e delle finanze, con una dotazione di 50 milioni di euro annui, a decorrere dal 2011. I dati normativi prima esposti dimostrano che la provvista di mezzi finanziari per fronteggiare la situazione debitoria del Comune di Roma non solo non è inferiore a quella che si determina con la formazione della massa attiva degli enti locali in dissesto, secondo la disciplina generale del d.lgs. n. 267 del 2000, ma viene periodicamente impinguata – per effetto di precise disposizioni – da appositi stanziamenti, erogati non solo una tantum, ma anche con cadenza annua. Da ciò deriva la conseguenza che i creditori del Comune di Roma, che devono soddisfarsi sulla massa attiva della gestione commissariale, possono contare sull’intervento dello Stato, che emerge dalle norme prima citate, e non si trovano pertanto in una condizione deteriore rispetto a quelli che devono far valere le loro pretese nei confronti di enti locali in stato di dissesto dichiarato. 7.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 8-bis, del d.l. n. 2 del 2010 non è fondata. 7.1.– Si è già posto in rilievo, nel paragrafo 6.4, che la scelta legislativa, in sé non irragionevole, di creare una gestione commissariale con bilancio separato rispetto a quella ordinaria, allo scopo di fronteggiare la situazione debitoria del Comune di Roma, richiede la fissazione di una data certa, in modo da individuare quali obbligazioni ricadano nell’una e nell’altra gestione. La norma censurata non possiede valore innovativo rispetto a tale regola, stabilita dall’art. 78 del d.l. n. 112 del 2008, ma si limita a rendere esplicito un significato che già si poteva ricavare da questa disposizione. La precisazione si è resa necessaria perché di fatto – come emerge dai lavori parlamentari – si era proceduto, talvolta, al pagamento di debiti nascenti da obbligazioni sorte in data anteriore al 28 aprile 2008 con i fondi della gestione ordinaria. Si deve ribadire che in una procedura concorsuale – tipica di uno stato di dissesto – una norma che ancori ad una certa data il fatto o l’atto genetico dell’obbligazione è logica e coerente, proprio a tutela dell’eguaglianza tra i creditori, mentre la circostanza che l’accertamento del credito intervenga successivamente è irrilevante ai fini dell’imputazione. Sarebbe irragionevole il contrario, giacché farebbe difetto una regola precisa per individuare i crediti imputabili alla gestione commissariale o a quella ordinaria e tutto sarebbe affidato alla casualità del momento in cui si forma il titolo esecutivo, anche all’esito di una procedura giudiziaria di durata non prevedibile. La fissazione di una data per distinguere le due gestioni avrebbe un valore soltanto relativo, né sarebbe perseguito in modo efficace l’obiettivo di tenere indenne la gestione ordinaria di Roma Capitale dagli effetti del debito pregresso, con la conseguenza paradossale che si alleggerirebbe la situazione della gestione commissariale e si rischierebbe il dissesto della gestione ordinaria, con la inevitabile compromissione dei servizi della capitale della Repubblica, che il legislatore ha voluto invece evitare.

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In questa prospettiva risulta evidente che l’intervento legislativo non ha inciso sui giudizi in corso, alterandone l’esito. Il criterio di imputazione delle obbligazioni, già fissato dall’art. 78, comma 3, del d.l. n. 112 del 2008, impediva che i titoli esecutivi in esame potessero essere azionati individualmente, nei confronti di Roma Capitale, perché formatisi per obbligazioni sorte antecedentemente alla data del 28 aprile 2008, e dunque imputabili alla gestione commissariale. 7.2.– Non è condivisibile l’argomento, svolto dalla parte privata costituita nel giudizio r.o. n. 252 del 2012, secondo cui il contenuto innovativo dell’art. 4, comma 8-bis, risiederebbe nel riferimento anche alle obbligazioni di origine non contrattuale. Sarebbe infatti irragionevole concepire una gestione straordinaria per il rientro dal debito pregresso, improntata ai princìpi della concorsualità, che distingua le obbligazioni non in base al tempo in cui sono sorte, ma alla natura del fatto o dell’atto genetico. È vero, al contrario, che l’elemento differenziale, sul quale si può basare una procedura concorsuale, è solo quello temporale, che consente di rispettare il principio di eguaglianza tra i creditori, assicurando eguale trattamento a tutti quelli che hanno ragioni di credito sorte prima della data del fallimento, della dichiarazione di dissesto o della diversa data fissata dal legislatore nei casi – come il presente – di procedure particolari. 7.3.– Il caso oggetto del presente giudizio è diverso da quello risolto con la sentenza n. 364 del 2007, invocata dai rimettenti a sostegno delle sollevate questioni. In quel giudizio, difatti, il legislatore era intervenuto, con norma retroattiva, per trasferire alla gestione liquidatoria della disciolta Azienda Policlinico Universitario Umberto I di Roma l’esecuzione dei titoli formatisi nei confronti della nuova Azienda Policlinico Umberto I, senza che quest’ultima avesse eccepito, nel corso dei giudizi, il proprio difetto di legittimazione passiva basato sul criterio temporale di imputazione dei crediti tra le due aziende che si erano succedute nei rapporti contrattuali in corso. Tale criterio trovava il suo riferimento certo nella data di istituzione della nuova Azienda. Tuttavia i giudicati si erano formati – per il motivo prima ricordato – nei confronti di quest’ultima, con l’effetto che la sentenza citata ha considerato lesiva delle prerogative dell’autorità giudiziaria la sostituzione di un debitore individuato come tale da sentenze passate in giudicato con un altro, designato ex post dal legislatore. Di recente, con la sentenza n. 277 del 2012, questa Corte è intervenuta su un caso analogo a quello appena richiamato, nell’ambito della successione tra Fondazione Ordine Mauriziano (sottoposta a procedura di liquidazione concorsuale) e Azienda Sanitaria Ordine Mauriziano. Si è rilevato nella citata pronuncia che, mentre la normativa originaria aveva escluso che la Fondazione rispondesse dei debiti sorti tra novembre 2004 e gennaio 2005, la norma censurata aveva invertito la regola e aveva così paralizzato l’efficacia dei titoli esecutivi formatisi nei confronti della nuova Azienda. Anche in questo caso, la Corte ha ribadito che il legislatore non può incidere sul soggetto nei cui confronti si sono formati provvedimenti giurisdizionali definitivi, sostituendolo con un altro. In conclusione, la situazione della gestione commissariale del Comune di Roma differisce – come s’è detto – da quelle prima ricordate, per alcuni profili essenziali. Non vi è una successione di soggetti giuridici, giacché il debitore rimane soltanto il Comune di Roma, nei cui confronti si sono formati i giudicati. Solo le azioni esecutive sono distinte in base alla data del 28 aprile 2008, senza peraltro che la norma di interpretazione autentica abbia sostituito un altro soggetto a quello individuato nelle sentenze, né abbia modificato il criterio di imputazione stabilito originariamente dall’art. 78 del d.l. n. 112 del 2008. 7.4.– (omissis) 7.5.– Per le motivazioni sopra esposte, le questioni di legittimità costituzionale sollevate da entrambi i rimettenti non sono fondate in riferimento a tutti i parametri evocati. (OMISSIS)

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5.7 Corte Cost., 20 novembre 2013, n. 275: requisiti oggettivi per la qualificazione

dell’atto normativo come legge provvedimento e limiti della ragionevolezza e non

arbitrarietà

SENTENZA N. 275

ANNO 2013 REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE

(omissis) Ritenuto in fatto

(omissis) Considerato in diritto

1.– Sono sottoposti all'esame della Corte diciotto atti di rimessione iscritti ai nn. 85, 86, 87, 88, 89, 90, 91, 92, 93, 94, 95, 96, 97, 98, 99, 100, 101 e 102 del registro ordinanze 2013, con i quali il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'articolo 10, comma 5, del decreto-legge 2 marzo 2012, n. 16 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento), convertito, con modificazioni, dalla legge 26 aprile 2012, n. 44, in riferimento agli artt. 3, 24, primo comma, 103, primo comma, e 113 della Costituzione (tutti gli atti di rimessione), nonché agli artt. 97, 111 e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (d'ora in avanti: «CEDU»), (solo gli atti di rimessione iscritti al registro ordinanze nn. 87, 90, 91, 92, 93, 94, 95, 96, 97, 98, 99, 100, 101 e 102, con la precisazione che quelli iscritti ai nn. 87, 92, 93, 94 e 95 richiamano tali parametri in parte motiva e non nel dispositivo).

Tutti gli atti di rimessione hanno ad oggetto la stessa disposizione, censurata con argomentazioni in larga misura coincidenti, e, quindi, va disposta la riunione dei giudizi.

2.– I ricorsi proposti dinanzi al TAR Lazio da società titolari di concessioni per la raccolta di scommesse ippiche ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 8 aprile 1998, n. 169 (Regolamento recante norme per il riordino della disciplina organizzativa, funzionale e fiscale dei giochi e delle scommesse relativi alle corse dei cavalli, nonché per il riparto dei proventi, ai sensi dell'art. 3, comma 78, della legge 23 dicembre 1996, n. 662) sono volti ad ottenere l'annullamento dei provvedimenti con cui l'Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato (AAMS) aveva richiesto, prima dell'entrata in vigore dell'art. 10, comma 5, del decreto-legge n. 16 del 2012, il versamento dell'integrazione dei cosiddetti minimi garantiti per gli anni dal 2006 al 2010.

Il Tribunale sospendeva l'efficacia dei provvedimenti impugnati, osservando come l'amministrazione avesse richiesto il pagamento senza la previa adozione delle misure di salvaguardia (rectius: modalità di salvaguardia), previste dall'art. 38, comma 4, lettera l), del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, la cui imprescindibilità, ai fini dell'esazione dei crediti in questione, era stata affermata in numerosi precedenti dello stesso TAR Lazio.

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Questa norma, infatti, sul presupposto dell'esistenza di uno squilibrio economico, provocato nei rapporti concessori in questione dall'apertura del mercato delle scommesse ippiche a nuovi concessionari, e dalla nascita del “mercato parallelo” gestito dai centri di trasmissione dati (CTD), prevedeva che, con provvedimenti del Ministero delle finanze − AAMS, fossero stabilite le nuove modalità di distribuzione del gioco su base ippica, nel rispetto dei seguenti criteri: «definizione delle modalità di salvaguardia dei concessionari della raccolta di scommesse ippiche disciplinate dal regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 8 aprile 1998, n. 169» (i cosiddetti concessionari storici).

Nelle more dei giudizi sopravveniva la disposizione sospettata d'incostituzionalità, secondo cui, «al fine di perseguire maggiore efficienza ed economicità dell'azione nei settori di competenza, il Ministero dell'economia e delle finanze − Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato, il Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali e l'Agenzia per lo sviluppo del settore ippico − ASSI, procedono alla definizione, anche in via transattiva, sentiti i competenti organi, con abbandono di ogni controversia pendente, di tutti i rapporti controversi nelle correlate materie e secondo i criteri di seguito indicati; […] b) relativamente alle quote di prelievo di cui all'art. 12 del d.P.R. n. 169 del 1998, ed alle relative integrazioni, definizione, in via equitativa, di una riduzione non superiore al 5 per cento delle somme ancora dovute dai concessionari di cui al citato decreto del Presidente della Repubblica n. 169 del 1998 con individuazione delle modalità di versamento delle relative somme e adeguamento delle garanzie fideiussorie». La disposizione conclude poi: «Conseguentemente, all'articolo 38, comma 4, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, la lettera l) è soppressa».

È in applicazione di queste norme che l'amministrazione chiedeva nuovamente il pagamento dei minimi garantiti con la riduzione del 5 per cento per gli anni dal 2006 al 2011 e le relative ingiunzioni venivano impugnate dalle società concessionarie con motivi aggiunti, a seguito dei quali il TAR Lazio, con diciassette “sentenze” (rectius: ordinanze), ha sollevato le indicate questioni di legittimità costituzionale.

Anche l'ordinanza di rimessione iscritta al n. 94 del 2013 è stata emessa nel corso di un giudizio promosso da società titolari di concessioni ai sensi del d.P.R. n. 169 del 1998, ma avente ad oggetto l'annullamento dei soli provvedimenti emessi dall'AMMS in applicazione della citata disposizione di cui all'art. 10, comma 5, del decreto-legge n. 16 del 2012.

2.1.– La tesi di fondo comune a tutti gli atti di promovimento è che il legislatore avrebbe sostituito, con legge-provvedimento avente efficacia retroattiva, le modalità di salvaguardia con un nuovo meccanismo che, alla luce della giurisprudenza costituzionale elaborata con riferimento a questo tipo di leggi, sarebbe illogico e irrazionale perché in contrasto con il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.).

In particolare, si contesta che il potere di riduzione dei minimi garantiti sia configurato con il limite del cinque per cento, laddove nel sistema precedente non era previsto alcun tetto, «dando per scontata l'esigenza di parametrare le misure di salvaguardia all'andamento del mercato delle scommesse». In tal modo, sempre secondo il Tribunale rimettente, si renderebbe impossibile adeguare i rapporti concessori in questione al mutamento del mercato delle scommesse ippiche.

2.2.– Il TAR censura la disposizione oggetto di scrutinio anche per illegittima interferenza sui procedimenti in corso.

Deduce al riguardo la violazione degli artt. 24, primo comma, 103, primo comma, e 113 Cost., con riferimento ai «principi in materia di tutela giurisdizionale avverso i provvedimenti dell'amministrazione», cui si aggiunge l'evocazione, in alcuni atti di rimessione, degli artt. 111 e 117, primo comma, Cost., in relazione al principio del giusto processo previsto dall'art. 6 della CEDU.

Sostiene il rimettente che scopo unico della disposizione sarebbe in realtà «quello di sottrarre i provvedimenti già impugnati con il ricorso principale al sindacato giurisdizionale. Ne consegue che essa vanifica il diritto dei concessionari storici di agire in giudizio per tutelare il proprio equilibrio economico a fronte del mutato assetto del mercato delle scommesse ed integra, altresì, la violazione del

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diritto al giusto processo, quale consacrato nell'art. 111 della Costituzione e nell'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali […]».

3.– (omissis) . 4.– Sempre in via preliminare, deve essere esaminata l'eccezione di inammissibilità sollevata

dall'Avvocatura generale dello Stato, secondo cui la questione di costituzionalità difetterebbe di rilevanza, dal momento che l'abrogazione della norma che prevedeva le modalità di salvaguardia avrebbe effetto solo per il periodo successivo all'entrata in vigore della legge: di qui l'irrilevanza nei giudizi in corso, aventi ad oggetto un tratto del rapporto concessorio che resterebbe assoggettato alla disciplina previgente.

L'eccezione va respinta. Il giudice rimettente ha infatti evidenziato l'incidenza sui giudizi in corso, argomentando sulla base

dell'esame del dato normativo, e la tesi trova conforto nel tenore letterale della disposizione, che fa riferimento ai «rapporti controversi», alle «controversie pendenti» e alle «somme ancora dovute» dai concessionari, e quindi, in modo inequivoco, alle vicende oggetto dei giudizi amministrativi.

L'applicabilità della disposizione ai processi in corso è, poi, corroborata, in primo luogo, dal fatto che l'AAMS, come si evince dalla nota del 12 maggio 2008 (non prodotta agli atti del giudizio di costituzionalità, ma citata dalla stessa Avvocatura dello Stato alla pagina 8 dell'atto d'intervento), stava valutando la possibilità di predisporre «un testo di modifica normativa inteso a definire in via legislativa la portata delle misure di salvaguardia menzionate»; e, in secondo luogo, dal rilievo che l'intervento legislativo consegue alla presa d'atto della stessa AAMS (contenuta nei provvedimenti impugnati con i ricorsi principali) della impossibilità di procedere alla individuazione in via amministrativa delle misure di salvaguardia. Non è senza rilievo, infine, la circostanza che l'amministrazione abbia fondato proprio sulla disposizione in parola i nuovi provvedimenti impugnati con motivi aggiunti.

Ancora plausibile è l'assunto del rimettente, secondo cui la portata retroattiva della disposizione censurata riguarderebbe non solo la rideterminazione del corrispettivo, ma anche l'abrogazione della norma relativa alle modalità di salvaguardia, essendovi tra i due tratti normativi una stretta connessione teleologica, come si evince dall'utilizzo dell'avverbio «conseguentemente».

Alla luce delle considerazioni che precedono, la tesi del giudice rimettente della portata sostitutiva e retroattiva della disposizione censurata e, quindi, della sua rilevanza, supera il vaglio esterno di non palese implausibilità rimesso alla Corte (tra le altre, sentenze n. 280 del 2012, n. 41 del 2011 e n. 63 del 2009).

5.– (omissis) 6.– Nel merito, la questione è parzialmente fondata. 6.1.– L'esame delle censure sollevate presuppone, in primo luogo, la verifica dell'ascrivibilità o

meno della disposizione in esame alla categoria delle leggi-provvedimento. Nella giurisprudenza di questa Corte sono state così definite quelle che «contengono

disposizioni dirette a destinatari determinati» (sentenze n. 154 del 2013, n. 137 del 2009 e n. 2 del 1997), ovvero «incidono su un numero determinato e limitato di destinatari» (sentenza n. 94 del 2009), che hanno «contenuto particolare e concreto» (sentenze n. 20 del 2012, n. 270 del 2010, n. 137 del 2009, n. 241 del 2008, n. 267 del 2007 e n. 2 del 1997), «anche in quanto ispirate da particolari esigenze» (sentenze n. 270 del 2010 e n. 429 del 2009), e che comportano l'attrazione alla sfera legislativa «della disciplina di oggetti o materie normalmente affidati all'autorità amministrativa» (sentenze n. 94 del 2009 e n. 241 del 2008).

Questa Corte è poi costante nell'affermare la compatibilità della legge-provvedimento con l'assetto dei poteri stabilito dalla Costituzione, poiché nessuna disposizione costituzionale comporta una riserva agli organi amministrativi o esecutivi degli atti a contenuto particolare e concreto (sentenze n. 85 del 2013 e n. 143 del 1989).

6.2.– Ebbene, nel senso dell'ascrivibilità della disposizione oggetto di scrutinio alla categoria delle leggi-provvedimento depone, in primo luogo, la sua ratio, che, come si è visto, è quella di superare in via legislativa l'inerzia dell'amministrazione nella individuazione delle modalità di salvaguardia.

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Il legislatore, infatti, a fronte di tale inadempimento, conclamato in sede giudiziaria con diverse sentenze di primo grado passate in giudicato ed ammesso dalla stessa AAMS nel corpo dei provvedimenti impugnati, ha deciso di attrarre alla sfera legislativa la definizione dei rapporti controversi, e − ciò che va sottolineato fin d'ora − solo di questi.

Esso ha così provveduto direttamente alla determinazione del contenuto delle misure di riequilibrio, sia quanto alla loro tipologia, individuata nel profilo strettamente economico, sia quanto alla definizione quantitativa dell'assetto patrimoniale dei rapporti concessori, definizione «normalmente affidata all'autorità amministrativa» (sentenze n. 94 del 2009, riguardante un caso analogo di determinazione concreta della misura di un corrispettivo ordinariamente rimesso alla sede amministrativa, e n. 241 del 2008).

Il contenuto oggettivo della disposizione risponde, dunque, ai requisiti richiesti da questa Corte per la qualificazione dell'atto normativo come legge-provvedimento.

Dal punto di visto soggettivo, infine, la platea dei destinatari è determinata e limitata, considerato che – come anticipato − la disposizione si rivolge esclusivamente a quei concessionari “storici” che, al momento della sua entrata in vigore, avessero rapporti controversi con l'amministrazione.

7.– Ascritta la disposizione censurata alla categoria delle leggi-provvedimento, occorre valutare se essa rispetti i limiti tracciati dalla giurisprudenza costituzionale e, in primo luogo, quello della ragionevolezza e non arbitrarietà (sentenze n. 85 del 2013, n. 143 del 1989, n. 346 del 1991 e n. 429 del 1995).

Si deve premettere, al riguardo, che queste leggi devono soggiacere ad un rigoroso scrutinio di legittimità costituzionale per il pericolo di disparità di trattamento insito in previsioni di tipo particolare e derogatorio (sentenze n. 85 del 2013; in senso conforme sentenze n. 20 del 2012 e n. 2 del 1997), con l'ulteriore precisazione che «tale sindacato deve essere tanto più rigoroso quanto più marcata sia …] la natura provvedimentale dell'atto legislativo sottoposto a controllo (sentenza n. 153 del 1997)» (sentenza n. 137 del 2009; in senso conforme sentenze n. 241 del 2008 e n. 267 del 2007).

7.1.− Per applicare questi criteri di scrutinio al caso di specie, occorre prendere le mosse dalle finalità enunciate dalla norma, al di là dell'eventuale intento, attribuito al legislatore storico, di interferenza con la funzione giurisdizionale.

Al riguardo, la disposizione è esplicita: essa, «al dichiarato fine di perseguire maggiore efficienza ed economicità dell'azione» (amministrativa), si propone di ricondurre ad equità i rapporti economici con i concessionari. Inoltre, di «una risoluzione equitativa» della controversia parlano anche i lavori preparatori e, in particolare, la «nota di lettura» del 20 marzo 2012 citata dalle parti private.

Si tratta di una finalità di per sé non incongrua, ed anzi condivisibile, dal punto di vista sia dell'interesse pubblico alla riscossione delle entrate in questione, sia di quello privato dei concessionari, indubbiamente danneggiati dal prolungato stato di paralisi dell'azione amministrativa.

Ebbene, l'intervento sostitutivo della norma che in precedenza definiva la materia appare del tutto coerente con tali finalità. Esso non solo non può considerarsi irragionevole, ma, al contrario, è stato reso necessitato dall'inadempimento dell'amministrazione e dal suo espresso riconoscimento dell'impossibilità di individuare misure di salvaguardia diverse dal riequilibrio “interno” del rapporto concessorio, anche alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia (sentenza 16 febbraio 2012, resa in cause riunite C-72 del 10 e C-77 del 10, Costa-Cifone; nello stesso senso, sentenza 11 marzo 2010, C-384 del 08, Attanasio Group), che ha escluso interventi sul mercato delle scommesse in una logica anticoncorrenziale.

Per concludere sul punto, si deve osservare che non è rilevante in questa sede la circostanza che la nuova disciplina, a differenza di quella abrogata, preveda la riduzione dei minimi garantiti solo in relazione ai rapporti «controversi» e quindi senza efficacia pro futuro: tale eventualità, lamentata dalle società concessionarie, non emerge, né potrebbe emergere, dagli atti di rimessione, data la sua irrilevanza rispetto ai relativi giudizi.

In questi termini generali, pertanto, la censura non è fondata.

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7.2.− Così ricostruita la natura e la ratio dell'intervento legislativo, emerge anche l'infondatezza, in questa parte, della censura di violazione degli artt. 24, primo comma, 103, primo comma, 111, 113 e 117, primo comma, Cost., in relazione al principio del giusto processo previsto dall'art. 6 della CEDU, atteso che, di per sé, il nuovo meccanismo di riequilibrio, analogamente a quello abrogato, non sottrae, né condiziona il potere decisorio del giudice (sentenze n. 160 del 2013, n. 137 e n. 94 del 2009, n. 267 del 2007 e n. 397 del 1994).

7.3.− È al contrario fondata la questione di costituzionalità, laddove si censura lo sbarramento del cinque per cento alla riduzione delle somme dovute dai concessionari, sbarramento su cui in realtà si incentrano le osservazioni del rimettente.

(omissis) Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara l'illegittimità costituzionale dell'articolo 10, comma 5, lettera b), del decreto-legge 2 marzo

2012, n. 16 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento), convertito, con modificazioni, dalla legge 26 aprile 2012, n. 44, limitatamente alle parole «non superiore al 5 per cento».

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6 Il principio di legalità nel diritto amministrativo

6.1 Corte Costituzionale 4 aprile 2001, n.115 : il principio di legalità

sostanziale e le ordinanze sindacali

TESTO DELLA SENTENZA (omissis) Ritenuto in fatto (omissis) Considerato in diritto 1. – Il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, con ordinanza del 22 marzo 2010, ha sollevato – in riferimento agli artt. 2, 3, 5, 6, 8, 13, 16, 17, 18, 21, 23, 24, 41, 49, 70, 76, 77, 97, 113, 117 e 118 della Costituzione – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 54, comma 4, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), come sostituito dall’art. 6 del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125, nella parte in cui consente che il sindaco, quale ufficiale del Governo, adotti provvedimenti a «contenuto normativo ed efficacia a tempo indeterminato», al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minaccino la sicurezza urbana, anche fuori dai casi di contingibilità e urgenza. In particolare, la norma indicata sarebbe illegittima «nella parte in cui ha inserito la congiunzione “anche” prima delle parole “contingibili e urgenti”». 1.1. – La disposizione censurata violerebbe anzitutto, ed in particolare, gli artt. 23, 70, 76, 77, 97 e 117 Cost., ove sono espressi i principi costituzionali di legalità, tipicità e delimitazione della discrezionalità. In base ai principi citati, una disciplina che consenta l’adozione di disposizioni derogatorie alle norme vigenti in rapporto ad una determinata materia, e che attribuisca un potere siffatto «in capo ad un organo monocratico, in luogo di quello ordinariamente deputato», sarebbe legittima solo in quanto configuri una situazione di contingibilità ed urgenza quale «presupposto, condizione e limite» per l’esercizio del potere in questione. Gli stessi parametri costituzionali sarebbero violati anche perché la disposizione censurata, secondo il rimettente, istituisce una vera e propria fonte normativa, libera nel contenuto ed equiparata alla legge (in quanto idonea a derogare alla legge medesima), in contrasto con le regole costituzionali che riservano alle assemblee legislative il compito di emanare atti aventi forza e valore di legge. Il Tribunale propone poi un’ulteriore questione con riferimento agli artt. 3, 23 e 97 Cost., che pongono la riserva di legge ed il principio di legalità sostanziale in materia di sanzioni amministrative. Infatti la norma censurata, rimuovendo i presupposti fattuali della contingibilità ed urgenza, avrebbe conferito al sindaco un potere discrezionale e tendenzialmente illimitato di conculcare la libertà dei singoli di tenere ogni comportamento che non sia vietato dalla legge. Ancora, il comma 4 dell’art. 54 del d.lgs. n. 267 del 2000 violerebbe gli artt. 13, 16, 17 e 41 Cost., ciascuno dei quali espressivo di una riserva di legge a tutela di diritti e libertà fondamentali della persona (in particolare, la libertà personale, la libertà di soggiorno e circolazione, la libertà di riunione, la libertà

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in materia di iniziativa economica), che la disposizione censurata renderebbe suscettibili di compressione per effetto di provvedimenti non aventi rango di legge. Una censura ulteriore è proposta dal rimettente in relazione all’art. 117 Cost., perché il potere di normazione conferito dalla disposizione censurata consentirebbe l’invasione degli ambiti di competenza legislativa regionale. Ancora, la norma in oggetto sarebbe illegittima in ragione del suo contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost., poiché implica che la disciplina di identici comportamenti – anche quando espressivi dell’esercizio di diritti fondamentali, e dunque necessariamente garantiti in modo uniforme sull’intero territorio nazionale – venga irragionevolmente differenziata in rapporto ad ambiti territoriali frazionati (fino al limite rappresentato dal territorio ripartito di tutti i Comuni italiani). L’indicato frazionamento, d’altra parte, comporrebbe una lesione dei principi di unità ed indivisibilità della Repubblica (art. 5 Cost.), di legalità (art. 97 Cost.), di riparto delle funzioni amministrative (art. 118 Cost.). Il Tribunale rimettente prospetta poi un’ulteriore violazione, relativamente agli artt. 2, 6, 8, 18, 21, 33, 39 e 49 Cost., che pongono il principio costituzionale del pluralismo, anche sotto il profilo culturale, politico, religioso e scientifico: la norma censurata, infatti, conferirebbe una potestà normativa, tendenzialmente libera se non nell’orientamento finalistico, ad un organo monocratico che nella specie opera quale ufficiale di Governo, derogando alle competenze ordinarie dell’assemblea comunale elettiva, in materia tra l’altro di regolamento della polizia urbana. Infine, con il comma 4 del d.lgs. n. 267 del 2000, si sarebbe determinata una violazione degli artt. 24 e 113 Cost., in ragione della vastità ed indeterminatezza dei poteri attribuiti al sindaco e della conseguente ampia discrezionalità esercitabile dal sindaco medesimo, tale da rendere eccessivamente difficoltosa la possibilità di un effettivo sindacato giurisdizionale delle singole fattispecie. 2. – Preliminarmente, deve essere disattesa l’eccezione di inammissibilità sollevata dalla difesa dello Stato, sulla scorta del rilievo che le ordinanze oggetto del presente giudizio sarebbero pienamente sindacabili in sede giurisdizionale, e che i vizi di legittimità costituzionale denunciati dal rimettente costituirebbero in realtà vizi dell’atto amministrativo, i quali ben potrebbero determinare, se accertati, l’annullamento o la disapplicazione delle ordinanze stesse nelle sedi giudiziarie competenti. Il giudice a quo ha adottato un significato della disposizione censurata, in base al quale non sarebbe rinvenibile, all’interno della stessa, una configurazione di limiti specifici, che possano consentire al giudice adito di valutare in concreto la legittimità degli atti impugnati. Il rimettente è pervenuto a tale conclusione dopo aver esplicitamente scartato possibili interpretazioni conformi a Costituzione, che pure sono state proposte da una parte della dottrina. L’atto amministrativo impugnato si presentava quindi, a parere del giudice rimettente, non in contrasto con l’art. 54, comma 4, del d.lgs. n. 267 del 2000 (nel nuovo testo introdotto nel 2008) e pertanto il ricorso contro lo stesso avrebbe dovuto essere rigettato. Tuttavia lo stesso giudice, dubitando della legittimità costituzionale della norma legislativa che è posta a fondamento dell’atto, e denunciando una serie di presunti vizi riscontrati, ha sollevato la questione oggetto del presente giudizio. In definitiva, la rilevanza della questione nel processo principale è motivata in modo plausibile. 3. – Nel merito, la questione è fondata. 3.1. – Occorre innanzitutto procedere ad una analisi dell’enunciato normativo contenuto nella disposizione censurata. Si deve notare, al riguardo, che nell’art. 54, comma 4, del d.lgs. n. 267 del 2000 è scritto: «Il sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta con atto motivato provvedimenti, anche contingibili e urgenti nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana». Si può osservare agevolmente che la frase «anche contingibili e urgenti nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento» è posta tra due virgole. Si deve trarre da ciò la conclusione che il riferimento al rispetto dei soli principi generali dell’ordinamento riguarda i provvedimenti contingibili e urgenti e non anche le ordinanze sindacali di ordinaria amministrazione. L’estensione anche a tali atti del regime giuridico proprio degli atti contingibili e urgenti avrebbe richiesto una disposizione così formulata:

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«adotta con atto motivato provvedimenti, anche contingibili e urgenti, nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento […]». La dizione letterale della norma implica che non è consentito alle ordinanze sindacali “ordinarie” – pur rivolte al fine di fronteggiare «gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana» – di derogare a norme legislative vigenti, come invece è possibile nel caso di provvedimenti che si fondino sul presupposto dell’urgenza e a condizione della temporaneità dei loro effetti. Questa Corte ha infatti precisato, con giurisprudenza costante e consolidata, che deroghe alla normativa primaria, da parte delle autorità amministrative munite di potere di ordinanza, sono consentite solo se «temporalmente delimitate» (ex plurimis, sentenze n. 127 del 1995, n. 418 del 1992, n. 32 del 1991, n. 617 del 1987, n. 8 del 1956) e, comunque, nei limiti della «concreta situazione di fatto che si tratta di fronteggiare» (sentenza n. 4 del 1977). Le ordinanze oggetto del presente scrutinio di legittimità costituzionale non sono assimilabili a quelle contingibili e urgenti, già valutate nelle pronunce appena richiamate. Esse consentono ai sindaci «di adottare provvedimenti di ordinaria amministrazione a tutela di esigenze di incolumità pubblica e sicurezza urbana» (sentenza n. 196 del 2009). Sulla scorta del rilievo sopra illustrato, che cioè la norma censurata, se correttamente interpretata, non conferisce ai sindaci alcun potere di emanare ordinanze di ordinaria amministrazione in deroga a norme legislative o regolamentari vigenti, si deve concludere che non sussistono i vizi di legittimità che sono stati denunciati sulla base del contrario presupposto interpretativo. 4. – Le considerazioni che precedono non esauriscono tuttavia l’intera problematica della conformità a Costituzione della norma censurata. Quest’ultima attribuisce ai sindaci il potere di emanare ordinanze di ordinaria amministrazione, le quali, pur non potendo derogare a norme legislative o regolamentari vigenti, si presentano come esercizio di una discrezionalità praticamente senza alcun limite, se non quello finalistico, genericamente identificato dal legislatore nell’esigenza «di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana». Questa Corte ha affermato, in più occasioni, l’imprescindibile necessità che in ogni conferimento di poteri amministrativi venga osservato il principio di legalità sostanziale, posto a base dello Stato di diritto. Tale principio non consente «l’assoluta indeterminatezza» del potere conferito dalla legge ad una autorità amministrativa, che produce l’effetto di attribuire, in pratica, una «totale libertà» al soggetto od organo investito della funzione (sentenza n. 307 del 2003; in senso conforme, ex plurimis, sentenze n. 32 del 2009 e n. 150 del 1982). Non è sufficiente che il potere sia finalizzato dalla legge alla tutela di un bene o di un valore, ma è indispensabile che il suo esercizio sia determinato nel contenuto e nelle modalità, in modo da mantenere costantemente una, pur elastica, copertura legislativa dell’azione amministrativa. 5. – Le ordinanze sindacali oggetto del presente giudizio incidono, per la natura delle loro finalità (incolumità pubblica e sicurezza urbana) e per i loro destinatari (le persone presenti in un dato territorio), sulla sfera generale di libertà dei singoli e delle comunità amministrate, ponendo prescrizioni di comportamento, divieti, obblighi di fare e di non fare, che, pur indirizzati alla tutela di beni pubblici importanti, impongono comunque, in maggiore o minore misura, restrizioni ai soggetti considerati. La Costituzione italiana, ispirata ai principi fondamentali della legalità e della democraticità, richiede che nessuna prestazione, personale o patrimoniale, possa essere imposta, se non in base alla legge (art. 23). La riserva di legge appena richiamata ha indubbiamente carattere relativo, nel senso che lascia all’autorità amministrativa consistenti margini di regolazione delle fattispecie in tutti gli ambiti non coperti dalle riserve di legge assolute, poste a presidio dei diritti di libertà, contenute negli artt. 13 e seguenti della Costituzione. Il carattere relativo della riserva de qua non relega tuttavia la legge sullo sfondo, né può costituire giustificazione sufficiente per un rapporto con gli atti amministrativi concreti ridotto al mero richiamo formale ad un prescrizione normativa “in bianco”, genericamente orientata ad un principio-valore, senza una precisazione, anche non dettagliata, dei contenuti e modi dell’azione amministrativa limitativa della sfera generale di libertà dei cittadini.

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Secondo la giurisprudenza di questa Corte, costante sin dalle sue prime pronunce, l’espressione «in base alla legge», contenuta nell’art. 23 Cost., si deve interpretare «in relazione col fine della protezione della libertà e della proprietà individuale, a cui si ispira tale fondamentale principio costituzionale»; questo principio «implica che la legge che attribuisce ad un ente il potere di imporre una prestazione non lasci all’arbitrio dell’ente impositore la determinazione della prestazione» (sentenza n. 4 del 1957). Lo stesso orientamento è stato ribadito in tempi recenti, quando la Corte ha affermato che, per rispettare la riserva relativa di cui all’art. 23 Cost., è quanto meno necessario che «la concreta entità della prestazione imposta sia desumibile chiaramente dagli interventi legislativi che riguardano l’attività dell’amministrazione» (sentenza n. 190 del 2007). È necessario ancora precisare che la formula utilizzata dall’art. 23 Cost. «unifica nella previsione i due tipi di prestazioni “imposte”» e «conserva a ciascuna di esse la sua autonomia», estendendosi naturalmente agli «obblighi coattivi di fare» (sentenza n. 290 del 1987). Si deve aggiungere che l’imposizione coattiva di obblighi di non fare rientra ugualmente nel concetto di “prestazione”, in quanto, imponendo l’omissione di un comportamento altrimenti riconducibile alla sfera del legalmente lecito, è anch’essa restrittiva della libertà dei cittadini, suscettibile di essere incisa solo dalle determinazioni di un atto legislativo, direttamente o indirettamente riconducibile al Parlamento, espressivo della sovranità popolare. 6. – Nella materia in esame è intervenuto il decreto del Ministro dell’interno 5 agosto 2008 (Incolumità pubblica e sicurezza urbana: definizione e ambiti di applicazione). In tale atto amministrativo a carattere generale, l’incolumità pubblica è definita, nell’art. 1, come «l’integrità fisica della popolazione», mentre la sicurezza urbana è descritta come «un bene pubblico da tutelare attraverso attività poste a difesa, nell’ambito delle comunità locali, del rispetto delle norme che regolano la vita civile, per migliorare le condizioni di vivibilità nei centri urbani, la convivenza civile e la coesione sociale». L’art. 2 indica le situazioni e le condotte sulle quali il sindaco, nell’esercizio del potere di ordinanza, può intervenire, «per prevenire e contrastare» le stesse. Il decreto ministeriale sopra citato può assolvere alla funzione di indirizzare l’azione del sindaco, che, in quanto ufficiale del Governo, è sottoposto ad un vincolo gerarchico nei confronti del Ministro dell’interno, come è confermato peraltro dallo stesso art. 54, comma 4, secondo periodo, del d.lgs. n. 267 del 2000, che impone al sindaco l’obbligo di comunicazione preventiva al prefetto dei provvedimenti adottati «anche ai fini della predisposizione degli strumenti ritenuti necessari alla loro attuazione». Ai sensi dei commi 9 e 11 dello stesso articolo, il prefetto dispone anche di poteri di vigilanza e sostitutivi nei confronti del sindaco, per verificare il regolare svolgimento dei compiti a quest’ultimo affidati e per rimediare alla sua eventuale inerzia. La natura amministrativa del potere del Ministro, esercitato con il decreto sopra citato, se assolve alla funzione di regolare i rapporti tra autorità centrale e periferiche nella materia, non può soddisfare la riserva di legge, in quanto si tratta di atto non idoneo a circoscrivere la discrezionalità amministrativa nei rapporti con i cittadini. Il decreto, infatti, si pone esso stesso come esercizio dell’indicata discrezionalità, che viene pertanto limitata solo nei rapporti interni tra Ministro e sindaco, quale ufficiale del Governo, senza trovare fondamento in un atto avente forza di legge. Solo se le limitazioni e gli indirizzi contenuti nel citato decreto ministeriale fossero stati inclusi in un atto di valore legislativo, questa Corte avrebbe potuto valutare la loro idoneità a circoscrivere la discrezionalità amministrativa dei sindaci. Nel caso di specie, al contrario, le determinazioni definitorie, gli indirizzi e i campi di intervento non potrebbero essere ritenuti limiti validi alla suddetta discrezionalità, senza incorrere in un vizio logico di autoreferenzialità. Si deve, in conclusione, ritenere che la norma censurata, nel prevedere un potere di ordinanza dei sindaci, quali ufficiali del Governo, non limitato ai casi contingibili e urgenti – pur non attribuendo agli stessi il potere di derogare, in via ordinaria e temporalmente non definita, a norme primarie e secondarie vigenti – viola la riserva di legge relativa, di cui all’art. 23 Cost., in quanto non prevede una qualunque delimitazione della discrezionalità amministrativa in un ambito, quello della imposizione di comportamenti, che rientra nella generale sfera di libertà dei consociati. Questi ultimi sono tenuti,

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secondo un principio supremo dello Stato di diritto, a sottostare soltanto agli obblighi di fare, di non fare o di dare previsti in via generale dalla legge. 7. – Si deve rilevare altresì la violazione dell’art. 97 Cost., che istituisce anch’esso una riserva di legge relativa, allo scopo di assicurare l’imparzialità della pubblica amministrazione, la quale può soltanto dare attuazione, anche con determinazioni normative ulteriori, a quanto in via generale è previsto dalla legge. Tale limite è posto a garanzia dei cittadini, che trovano protezione, rispetto a possibili discriminazioni, nel parametro legislativo, la cui osservanza deve essere concretamente verificabile in sede di controllo giurisdizionale. La stessa norma di legge che adempie alla riserva può essere a sua volta assoggettata – a garanzia del principio di eguaglianza, che si riflette nell’imparzialità della pubblica amministrazione – a scrutinio di legittimità costituzionale. La linea di continuità fin qui descritta è interrotta nel caso oggetto del presente giudizio, poiché l’imparzialità dell’amministrazione non è garantita ab initio da una legge posta a fondamento, formale e contenutistico, del potere sindacale di ordinanza. L’assenza di limiti, che non siano genericamente finalistici, non consente pertanto che l’imparzialità dell’agire amministrativo trovi, in via generale e preventiva, fondamento effettivo, ancorché non dettagliato, nella legge. Per le ragioni esposte, la norma censurata viola anche l’art. 97, primo comma, della Costituzione. 8. – L’assenza di una valida base legislativa, riscontrabile nel potere conferito ai sindaci dalla norma censurata, così come incide negativamente sulla garanzia di imparzialità della pubblica amministrazione, a fortiori lede il principio di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, giacché gli stessi comportamenti potrebbero essere ritenuti variamente leciti o illeciti, a seconda delle numerose frazioni del territorio nazionale rappresentate dagli ambiti di competenza dei sindaci. Non si tratta, in tali casi, di adattamenti o modulazioni di precetti legislativi generali in vista di concrete situazioni locali, ma di vere e proprie disparità di trattamento tra cittadini, incidenti sulla loro sfera generale di libertà, che possono consistere in fattispecie nuove ed inedite, liberamente configurabili dai sindaci, senza base legislativa, come la prassi sinora realizzatasi ha ampiamente dimostrato. Tale disparità di trattamento, se manca un punto di riferimento normativo per valutarne la ragionevolezza, integra la violazione dell’art. 3, primo comma, Cost., in quanto consente all’autorità amministrativa – nella specie rappresentata dai sindaci – restrizioni diverse e variegate, frutto di valutazioni molteplici, non riconducibili ad una matrice legislativa unitaria. Un giudizio sul rispetto del principio generale di eguaglianza non è possibile se le eventuali differenti discipline di comportamenti, uguali o assimilabili, dei cittadini, contenute nelle più disparate ordinanze sindacali, non siano valutabili alla luce di un comune parametro legislativo, che ponga le regole ed alla cui stregua si possa verificare se le diversità di trattamento giuridico siano giustificate dalla eterogeneità delle situazioni locali. Per i motivi esposti, la norma censurata viola anche l’art. 3, primo comma, della Costituzione. 9. – Si devono ritenere assorbite le altre censure di legittimità costituzionale contenute nell’atto introduttivo del presente giudizio. Per Questi Motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 54, comma 4, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), come sostituito dall’art. 6 del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125, nella parte in cui comprende la locuzione «, anche» prima delle parole «contingibili e urgenti». Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 aprile 2011.

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6.2 Consiglio di Stato 17 ottobre 2005, n. 5827 : i poteri amministrativi

impliciti

Testo della sentenza FATTO

(omissis)

DIRITTO

(omissis)

La presente controversia riguarda l’obbligo assicurativo per i rischi connessi all’utilizzo del gas naturale che l’Autorità per l’energia elettrica ed il gas ha previsto per tutti i clienti finali civili con delibera n. 152/03 recante “Adozione di disposizioni per l’assicurazione dei clienti finali civili del gas distribuito a mezzo di gasdotti locali”. Con la sentenza impugnata n. 6392/04 il TAR Lombardia, Sez. IV, ha accolto il ricorso proposto dalla Confedilizia e dall’avv. Corrado Sforza Fogliani in proprio, nella qualità di utente finale del gas, e, per l’effetto, ha annullato la delibera n. 152/03. (omissis) L’Autorità per l’energia elettrica ed il gas fa presente di avere, con la delibera impugnata, semplicemente provveduto a reiterare un regime assicurativo che, da quasi quindici anni, ha garantito una doverosa tutela risarcitoria per i danni connessi all’utilizzo del gas naturale. (omissis) La delibera n. 21/2003 perdeva efficacia il 1 gennaio 2004. L’Autorità, di conseguenza, al fine di trovare una soluzione stabile al problema della copertura assicurativa dei clienti finali del mercato della distribuzione del gas naturale avviava un procedimento (del. n. 47/03) per la formazione di provvedimenti di cui all’art. 2, co. 12, della legge 14 novembre 1995 n. 481. Veniva pubblicato un apposito documento per la consultazione, veniva, quindi, dato termine a tutti i soggetti a qualsiasi titolo interessati di inviare le proprie osservazioni scritte. Gli esiti della consultazione, che coinvolgeva società di distribuzione, enti formatori, associazioni di categorie, società di stoccaggio, di vendita, di brokeraggio, consumatori ed i vari interessati alla vicenda, furono nel senso di introdurre un obbligo d’assicurazione per responsabilità civile, incendio e infortuni in relazione ai rischi connessi all’uso del gas naturale. La soluzione dell’assicurazione volontaria non veniva ritenuta praticabile rispetto ai vantaggi di un’unica assicurazione a livello nazionale stante la elevata probabilità che molti clienti finali non attivino alcuna copertura assicurativa. (omissis) Si arrivava su questa base all’impugnata delibera n. 152/2003. Rileva il Collegio, nel merito, che il Legislatore ha assegnato all’Autorità il compito di assicurare, nell’erogazione dei servizi di pubblica utilità dei settori dell’energia elettrica e del gas, il rispetto dell’ambiente, la sicurezza degli impianti e la salute degli addetti (cfr. art. 2, comma 12 lett. c) della l. 14 novembre 1995 n. 481 – di seguito l. n. 481/95). La lettera e) del medesimo art. 2, comma 12, della l. n. 481/95, prevede, inoltre, che l’Autorità stabilisce ed aggiorna, in relazione all’andamento del mercato, la tariffa base, i parametri e gli altri elementi di riferimento per determinare le tariffe, nonché le modalità per il recupero dei costi sostenuti nell’interesse generale. La delibera impugnata è stata, quindi, legittimamente adottata dall’Autorità sul presupposto che ad essa spetti garantire le predette finalità di sicurezza a tutela degli utenti e dei consumatori.

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Inoltre la discrezionalità dell’Autorità ha trovato puntuale riscontro nel procedimento seguito che, come si è detto, ha evidenziato, vincolando gli esiti finali dell’azione amministrativa, tutti i vantaggi della scelta di un’assicurazione obbligatoria a livello nazionale per tutti i clienti finali del gas. Proprio dalle osservazioni pervenute dalle società di brokeraggio è emerso che la percentuale di “redemption” già collettive, da parte di individui (di “riscatto”) di coperture assicurative nel nostro paese è estremamente bassa: con la conseguente elevata probabilità che molti clienti non attivino la copertura assicurativa esponendo il sistema a rischi intollerabili. In queste osservazioni è da individuare la ragione tecnica della scelta dell’Autorità. Quanto alla dedotta mancanza di copertura legislativa all’operato dell’Autorità occorre rilevare che, nella specie, il mercato elettrico e del gas è regolato dall’azione dell’Autorità e che la legge n. 481/95. Come molte leggi istitutive d’Amministrazioni indipendenti è una legge d’indirizzo che poggia su prognosi incerte, rinvii in bianco all’esercizio futuro del potere, inscritto in clausole generali o concetti indeterminati che spetta all’Autorità concretizzare. La natura della copertura legislativa è adeguata alla peculiarità dei poteri dell’Amministrazione indipendente quale amministrazione che si “autoprogramma” secondo le finalità stabilite dal legislatore. Se così è, allora non può lamentarsi alcuna carenza di prescrittività del dettato normativo, che, stabiliti i poteri e le finalità dell’Autorità, secondo la tecnica del “programma legislativo aperto”, rinvia, al procedimento ed alle garanzie di partecipazione per fare emergere la regola, che dopo l’intervento degli interessati, appaia, tecnicamente, la più idonea a regolare la fattispecie. Lo stesso giudice di primo grado ha riconosciuto che la delibera n. 152/03 è perfettamente idonea al perseguimento delle finalità di cui alla l. n. 481/95 ma poi, contraddittoriamente, equivocando sulla natura del rapporto tra legge istitutiva dell’Amministrazione indipendente e peculiarità dell’azione amministrativa di quest’ultima, ha ritenuto violato l’art. 23 Cost.. La l. n. 481/95 pur avendo natura programmatica e costruendo funzionalmente le attribuzioni dei poteri dell’Autorità, non abbisogna di successive leggi attuative che specificano i limiti d’azione dell’Amministrazione indipendente. Infatti lo stesso d.lgs. n. 164/2000, al suo articolo 28, co. 1 – collocato nell’ambito del Titolo VIII (organizzazione del settore) fa esplicitamente salvi tutti i poteri legislativamente attribuiti all’Autorità; l’art. 23 del medesimo decreto legislativo fa parimenti salve “le attribuzioni dell’Autorità per l’energia elettrica ed il gas, con particolare riferimento all’art. 2, comma 12, della l. 14 novembre 1995 n. 481”. Nel caso di specie l’Autorità ha esercitato un compito attribuitole dal legislatore: la tutela della sicurezza degli impianti, e, mediante un congruo e giusto procedimento ha individuato la regola tecnica più opportuna per il perseguimento di tali finalità. Va poi richiamato, in materia di sicurezza, il precedente della Sezione: la sentenza 12 febbraio 2001 n. 2987 con la quale, acclarandosi la legittimità della delibera dell’Autorità 28 dicembre 2000 n. 236/00 concernente disciplina della sicurezza e della continuità nella distribuzione del gas ed obbligo di pronto intervento del distributore anche sugli impianti di proprietà o gestiti dal cliente finale a valle del punto di consegna, si è stabilito che l’autorità, nell’azione a tutela della sicurezza, può dettare prescrizioni che riguardino tutto il sistema di distribuzione, a monte o a valle del misuratore; trovando tale intervento amministrativo legittimazione nel generale potere di assicurare la sicurezza degli impianti. In diversa ipotesi, con inversione logico-ermeneutica, non risulterebbe affatto chiaro quale sia il senso dell’istituzione dell’Autorità, quale lo spazio d’esercizio dei poteri che le sono riconosciuti dalla legge istitutiva, dovendosi attendere che le disposizioni particolari disciplinino, di volta in volta, gli ambiti d’intervento dell’Amministrazione indipendente. Il Collegio ritiene che la delibera persegua meritevoli finalità sociali, favorendo i clienti finali con minori disponibilità economiche, e, quanto alla libertà contrattuale ed ai principi di concorrenza, rileva che essi sono rispettati, avendo il CIG scelto la compagnia assicuratrice mediante una procedura di gara ad evidenza pubblica.

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In questa materia inoltre ben più la libertà contrattuale del singolo ricevere una compressione per le preminenti esigenze della salute pubblica, poiché la libertà contrattuale, come già segnalato porta ad una soluzione non efficiente sul piano della sicurezza. (omissis) Ne deriva l’accoglimento degli appelli dell’Amministrazione e del CIG, la riforma della sentenza ed il rigetto del ricorso di primo grado. Le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, riunisce i ricorsi indicati in epigrafe. Accoglie gli appelli e, per l’effetto, in riforma dell’impugnata sentenza, respinge il ricorso di primo grado.

7 Fonti secondarie dell’ordinamento nazionale: i regolamenti

7.1 Consiglio di Stato, commissione speciale, parere 26 giugno 2013, n. 3014:

criteri di distinzione atto amministrativo ed atto normativo. Impugnabilità dei

regolamenti

CONSIGLIO DI STATO, COMMISSIONE SPECIALE - PARERE 26 giugno 2013, n.3014 -

Pres. Barbagallo – est. Giovagnoli

NUMERO AFFARE 03909/2011

(omissis)

PREMESSO CHE:

A. Con ricorso straordinario n.r.g. 3909/2011 l’AGI (Associazione Imprese Generali), Astaldi S.p.A.,

Società Italiana per Condotte d’acqua S.p.A., Grandi Lavori Fincosit S.p.A., Impregilo S.p.A., Impresa

S.p.A., Itinera S.p.A., Impresa Costruzioni G. Maltauro S.p.A., Impresa Pizzarotti e C. S.p.A., Salini

Costruttori S.p.A., Vianini Lavori S.p.A., hanno chiesto l’annullamento del d.P.R. 5 ottobre 2010 n. 207

(Regolamento di esecuzione ed attuazione del Decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, recante «Codice dei contratti

pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE»)

limitatamente agli articoli di seguito indicati, sostenendo che tali disposizioni si porrebbero in contrasto

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con i principi comunitari e con la normativa nazionale primaria e sarebbero inoltre lesive dei loro

interessi.

(omissis)

B. Il Ministero resistente ha sollevato in primo luogo alcune eccezioni preliminari, sostenendo, in

particolare, l’inammissibilità del ricorso in quanto diretto avverso un atto di natura normativa, non

immediatamente lesivo per le ricorrenti, che difetterebbero pertanto di un interesse attuale

all’annullamento delle citate disposizioni; la sua inammissibilità sotto l’ulteriore profilo di essere per lo

più diretto a sostenere una determinata interpretazione delle norme censurate, nonché la sua

improcedibilità con riferimento a quelle disposizioni che sono state oggetto di successive modifiche.

C. Nel merito, il Ministero ha controdedotto alle contestazioni delle imprese ricorrenti, sostenendo la

specifica funzione concorrenziale delle disposizioni impugnate e l’assenza di ogni disparità di

trattamento rispetto alle imprese straniere.

D. I ricorrenti hanno replicato alle osservazioni del Ministero, che, a sua volta, ha presentato una

ulteriore relazione.

E. Tenuto conto che il ricorso straordinario in questione concerne la impugnabilità diretta di alcune

disposizioni del regolamento 5 ottobre 2010, n. 207 e la compatibilità di tali disposizioni con la

normativa comunitaria e nazionale e, in particolare con il decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, con

decreto del Presidente del Consiglio di Stato numero 54 del 8 ottobre 2012 l’affare è stato deferito ad

una Commissione speciale ai sensi dell'art. 22, primo comma, T.U. 26 giugno 1924, n. 1054.

F. Con parere interlocutorio 11 gennaio 2013, n. 38, la Commissione speciale, al fine di valutare

l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dall’Amministrazione resistente in ragione della

natura normativa dell’atto impugnato e, quindi, della sua dedotta inidoneità a ledere immediatamente gli

interessi delle ricorrenti, ha ritenuto necessario acquisire, per il tramite del Ministero delle infrastrutture

e dei trasporti, i seguenti elementi dalle parti ricorrenti:

(omissis)

CONSIDERATO:

1. Deve essere pregiudizialmente esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata

dall’Amministrazione resistente.

2. In applicazione dei principi recentemente espressi su un caso analogo dal Consiglio di Stato (cfr.

Commissione speciale, parere 14 febbraio 2013, n. 677), deve essere dichiarato inammissibile il ricorso

proposto dalle singole imprese. È invece ammissibile, e va, dunque, esaminato nel merito, il ricorso

proposto dall’AGI.

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3. Per quanto riguarda il ricorso proposto dalle singole imprese, l’inammissibilità discende dal difetto di

legittimazione al ricorso, essendo le società ricorrenti prive di una posizione giuridica differenziata e

mancando, comunque, l’attualità della lesione.

3.1. La generalità e l’astrattezza che caratterizza l’atto normativo fa sì che la posizione che il singolo può

vantare rispetto a essa si presenti, di regola, come posizione “indifferenziata”.

L’interesse del singolo all’eliminazione di una norma generale e astratta è, infatti, perfettamente identico

a quello che può vantare qualsiasi altro soggetto che appartenga alla “platea” dei potenziali destinatari

della norma regolamentare.

Viene in rilievo, in altri termini, un interesse che rassomiglia molto all’interesse diffuso, perché, così

come accade appunto per gli interessi diffusi, il soggetto singolo non vanta, con riferimento all’utilità

che può conseguire tramite l’annullamento della norma regolamentare, alcuna posizione differenziata,

trovandosi nella stessa condizione in cui versano tutti coloro che appartengono alla collettività, più o

meno ampia, interessata dalla norma regolamentare.

Tale interesse, quindi, non diversamente dall’interesse diffuso, risulta, essere “adespota”, perché privo

di un titolare in capo al quale si individualizza.

3.2. È solo quando il regolamento viene applicato e un determinato soggetto viene specificamente

inciso dal provvedimento applicativo che la posizione del singolo acquista quei tratti di peculiarità che

valgono a differenziarla rispetto agli altri membri della collettività. È solo in quel momento che la sua

posizione diviene differenziata.

3.3. A tal proposito, occorre premettere che le disposizioni regolamentari impugnate hanno certamente

natura normativa. Seguendo i criteri di distinzione tra atto amministrativo e atto normativo elaborati

dalla prevalente giurisprudenza amministrativa e recentemente ripresi dall’Adunanza Plenaria nella

sentenza 4 maggio 2012, n. 9, è agevole rilevare che, nel caso di specie, le disposizioni regolamentari

impugnate contengono la predefinizione astratta della disciplina di un numero di casi indefinito e non

determinato nel tempo. Si tratta, dunque, di prescrizioni generali e astratte, destinate a trovare

applicazione indefinite volte, e i cui destinatari non sono individuabili né a priori né a posteriori.

Tali disposizioni non disciplinano, infatti, una situazione concreta o una o più gare determinate, ma

sono destinate a trovare applicazione nell’ambito di tutte le gare d’appalto per l’aggiudicazione di lavori

pubblici che saranno bandite durante la loro vigenza.

3.4. Proprio la generalità e l’astrattezza che caratterizza le prescrizioni normative impugnate impedisce

di ravvisare l’attualità della lesione. La lesione è, allo stato, meramente potenziale, essendo destinata a

concretizzarsi e attualizzarsi nel futuro, nel momento in cui, bandita la gara, la stazione appaltante

applicherà le contestate disposizioni regolamentari.

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Soltanto allora potrà eventualmente prodursi l’effetto lesivo e, in quel momento, in sede di ricorso

proposto avverso il provvedimento applicativo, le disposizioni regolamentari in questione se in

violazione di norme di livello superiore potranno essere disapplicate dal giudice amministrativo, a

prescindere dalla loro formale impugnazione ad opera delle parti.

3.5. In senso contrario, non può certo rilevare la circostanza che le dette disposizioni possano

prefigurare una incisione futura sulla sfera giuridica di chi ne risulterà in concreto destinatario, atteso

che la lesione che radica la legittimazione al ricorso deve essere attuale e non può discendere da un

pregiudizio allo stato solo futuro ed eventuale. Conseguentemente, il regolamento potrà formare

oggetto di contestazione, e quindi il giudice potrà verificarne l’eventuale illegittimità delle disposizioni

solo unitamente agli atti che di queste ultime fanno applicazione. È infatti attraverso tali atti che si

realizza il pregiudizio della sfera soggettiva e, quindi, si attualizza la lesione.

Quel che preme sottolineare è che il privato è sollevato dall’onere di impugnazione (sia immediata che

differita) dell’atto regolamentare, scongiurandosi così il rischio che il regolamento, ove non

tempestivamente impugnato, finisca per divenire inoppugnabile e per consolidarsi, regolando

definitivamente la situazione concreta, senza che vi sia più la possibilità per il giudice di risolvere il

contrasto in favore della fonte sovraordinata.

La tesi che nega l’immediata impugnabilità del regolamento da parte del singolo non si traduce, quindi,

in alcun vuoto di tutela, ma, anzi, rafforza e amplia la possibilità di tutela giurisdizionale del singolo,

consentendogli di agire, nel momento in cui la lesione si attualizza, contro l’atto applicativo che detta

lesione produce, senza che corra il rischio di “inconsapevoli” preclusioni derivanti dalla mancata

tempestiva impugnazione dell’atto regolamentare.

In quest’ottica, del resto, è evidente che, ove si ammettesse l’immediata impugnabilità del regolamento,

ne discenderebbero conseguenze particolarmente penalizzanti e riduttive in relazione alla possibilità di

tutela giurisdizionale dei singoli, atteso che essi avrebbero non solo la possibilità ma anche l’onere di

impugnare il regolamento, con la conseguenza che questo, ove non tempestivamente gravato,

diverrebbe appunto inoppugnabile.

L’impugnabilità, infatti, non si traduce solo in una possibilità o in una facoltà, ma anche in un onere, nel

senso che, se un atto può essere impugnato, esso, di regola, deve essere impugnato entro il termine di

decadenza, pena la sua inoppugnabilità. Sotto tale profilo, infatti, i casi in cui eccezionalmente la

giurisprudenza amministrativa ammette la facoltà, ma non anche il corrispondente onere di impugnare

determinati atti (ad es. l’aggiudicazione provvisoria), sono del tutto eccezionali e, comunque, non

sovrapponibili a quello in esame.

In altri termini, se si considerasse il regolamento immediatamente lesivo e, quindi, impugnabile,

dovrebbe ritenersi che, scaduto il termine di decadenza decorrente dalla sua pubblicazione nella

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Gazzetta ufficiale, esso diventerebbe “intoccabile” in sede giurisdizionale, non potendo essere più

contestato dai singoli né disapplicato dal giudice. Il che appunto è un risultato fortemente limitativo

della possibilità di tutela giurisdizionale.

4. Diverse sono, invece, le considerazioni che devono svolgersi con riferimento al ricorso proposto

dall’associazione di categoria, l’AGI.

4.1. L’associazione ricorrente è un ente collettivo, istituito per la tutela degli interessi omogenei delle

imprese generali di costruzione.

L’interesse “diffuso”, adespota e indifferenziato, di cui ogni singola impresa è titolare, si individualizza

in capo all’ente esponenziale istituito per la cura e la difesa degli interessi omogenei dei soggetti

appartenenti alle relativa categoria.

L’ente esponenziale, quindi, ove dotato dei necessari requisiti di rappresentatività, vanta, in linea di

principio, una posizione giuridica differenziata rispetto alla contestazione dell’atto regolamentare, in

quanto soggetto portatore degli interessi del gruppo dei soggetti potenzialmente lesi dalla norma

regolamentare illegittima.

In capo all’ente esponenziale l’interesse diffuso, se omogeneo, in quanto comune alle imprese

rappresentate, si soggettivizza, divenendo interesse legittimo, nella forma del c.d. “interesse collettivo”.

L’ente esponenziale, quindi, a differenza dei singoli, è normalmente titolare nei confronti della norma

regolamentare di una posizione giuridica differenziata che vale a radicare la sua legittimazione al ricorso.

4.2. Ugualmente, a differenza dei singoli, con riferimento all’ente esponenziale è possibile ravvisare la

legittimazione al ricorso anche rispetto a disposizioni regolamentari che contengono norme generali e

astratte.

La legittimazione al ricorso deve, infatti, essere valutata in relazione alla situazione giuridica soggettiva

fatta valere e si atteggia, quindi, diversamente a seconda che venga dedotto in giudizio un interesse

individuale oppure un interesse collettivo.

L’ente esponenziale agisce a tutela dell’interesse omogeneo del gruppo, non dell’interesse particolare del

singolo. L’utilità perseguita con il ricorso non è la rimozione di una lesione già verificatasi nella sfera

giuridica della singola impresa (non potendo, anzi, l’ente esponenziale sostituirsi al singolo e agire in

giudizio per far valere una lesione subita dall’individuo appartenente al gruppo dei cui interessi

omogenei si fa portatore), quanto la rimozione di una lesione subita dal gruppo in quanto tale.

Non vi è dubbio che la norma regolamentare, pur non potendo, per il suo carattere di generalità e

astrattezza, provocare un pregiudizio immediato in capo al singolo (che sarà inciso solo dal

provvedimento applicativo), può, tuttavia, essere fonte di prescrizioni che colpiscono indistintamente e

in maniera indifferenziata, l’interesse omogeneo di tutti gli appartenenti alla categoria. È questo

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interesse omogeneo che è oggetto della situazione giuridica soggettiva della quale è titolare l’ente

esponenziale.

4.3. La lesione di tale interesse omogeneo, proprio perché indifferenziato e seriale, non può essere fatta

valere dal singolo (essendo questi privo, appunto, di legittimazione al ricorso), ma può certamente

essere fatta valere dall’ente in capo al quale quell’interesse si soggettivizza. In questo caso, infatti, la

legittimazione al ricorso nasce proprio dalla lesione dell’interesse collettivo (da intendersi come

interesse omogeneo degli appartenenti alla categoria rappresentata). Tale lesione non è potenziale e

futura, ma attuale e immediata, verificandosi come immediata e diretta conseguenza dell’introduzione

nell’ordinamento di una prescrizione che, in maniera generale e astratta, arreca un vulnus agli interessi

indifferenziati, e quindi omogenei, della categoria.

In questo caso, non è necessario attendere il provvedimento applicativo affinché la lesione si attualizzi.

Il provvedimento applicativo adottato nei confronti di una determinata impresa avrà, infatti, l’effetto di

differenziare la posizione del soggetto che ne è destinatario, consentendogli di adire autonomamente gli

organi di giustizia per tutelare la propria posizione individuale. Al contrario, trattandosi di tutelare gli

interessi del gruppo, quest’ultimo è leso per il solo fatto dell’introduzione nell’ordinamento di una

norma il cui contenuto arreca una menomazione a tutti gli appartenenti alla categoria rappresentata.

4.4. Del resto, con riferimento all’ente esponenziale, la tecnica di tutela contro i regolamenti illegittimi

limitata alla loro disapplicazione in sede di ricorso avverso il provvedimento applicativo, potrebbe

rivelarsi insoddisfacente, rischiando di determinare un insormontabile ostacolo alla tutela

giurisdizionale. Ciò in quanto, in molti casi, l’ente – la cui legittimazione non è mai sostitutiva rispetto

alla legittimazione al ricorso dei singoli – potrebbe non essere legittimato a impugnare il provvedimento

applicativo.

È evidente allora che, con riferimento all’ente esponenziale, non ha senso differire la possibilità di tutela

all’adozione del provvedimento applicativo. Quella che per i singoli rappresenta una soluzione coerente

con l’effettività della tutela giurisdizionale (in quanto evita, come si è già evidenziato, che la mancata

impugnazione immediata del regolamento possa determinare preclusioni definitive) si tradurrebbe per

gli enti collettivi in una forte limitazione della possibilità di azione per la tutela degli interessi alla

categoria. Si avrebbe un vulnus evidente al principio di effettività della tutela giurisdizionale, quale

consacrato, oltre che dagli artt. 24 e 113 Cost., dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali

dell’Unione Europea e dall’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle

libertà fondamentali

4.5. Da qui la conclusione secondo cui gli enti esponenziali di interessi collettivi possono direttamente

impugnare, per chiederne l’annullamento, gli atti regolamentari illegittimi prima che questi siano oggetto

di specifica applicazione nei confronti dei singoli appartenenti alla categoria di riferimento, al fine di

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tutelare interessi omogenei degli appartenenti al gruppo, ovvero, la situazione giuridica soggettiva della

quale sono titolari.

4.6. Tale possibilità di tutela immediata attivabile da parte dell’ente esponenziale richiede quindi, quale

condizione imprescindibile, che l’interesse che si fa valere in sede di ricorso avverso l’atto

regolamentare sia, appunto, un interesse omogeneo, ovvero, un interesse comune a tutti gli

appartenenti alla collettività rappresentata.

L’ente collettivo non può agire a tutela degli interessi di alcuni appartenenti al gruppo contro gli altri. Al

contrario, verrebbero meno la sua funzione e la sua stessa ragion d’essere e, quindi, l’interesse collettivo

del quale l’ente è titolare.

L’ente esponenziale è lo “strumento” elaborato dalla giurisprudenza per consentire la giustiziabilità dei

c.d. “interessi diffusi”, cioè degli interessi omogenei e indifferenziati degli appartenenti alla categoria. È

attraverso la costituzione dell’ente esponenziale che l’interesse diffuso, sino a quel momento adespota e

indifferenziato, si soggettivizza e si differenzia, assurgendo al rango di interesse legittimo meritevole di

tutela giurisdizionale.

Ma l’interesse diffuso (che attraverso l’ente esponenziale diviene interesse collettivo e quindi interesse

legittimo) è, per sua natura, indifferenziato, omogeneo, seriale, comune a tutti gli appartenenti alla

categoria.

È proprio questo profilo che consente di introdurre un “filtro” o un criterio di selezione al

riconoscimento della legittimazione al ricorso degli enti esponenziali: condizione imprescindibile è che

l’ente faccia valere un interesse omogeneo della categoria, ovvero che l’atto impugnato leda l’interesse

di tutti e non solo di alcuni dei suoi aderenti.

Laddove, al contrario, l’atto impugnato sia fonte di un potenziale conflitto di interessi tra gli

appartenenti alla categoria, nel senso che, pur ledendo alcuni possa avvantaggiare altri, non vengono

certamente in rilievo interessi diffusi o collettivi. In questo caso, non è più in discussione l’interesse

della categoria nella sua unitarietà, ma, all’interno del gruppo, l’interesse particolare di alcuni contro

l’interesse particolare di altri.

Trattandosi allora di interessi particolari (sebbene, eventualmente, comuni a una pluralità di soggetti) la

legittimazione non potrà che essere dei singoli, che potranno ricorrere solo se e quando nei loro

confronti si attualizzi una lesione.

4.7. Applicando tali principi, occorre allora chiedersi se, nel caso di specie, ricorra questa situazione di

omogeneità dell’interesse fatto valere rispetto agli appartenenti alla categoria rappresentata

dall’associazione ricorrente.

Al quesito deve darsi risposta positiva.

(omissis)

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7.2 Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 4 maggio 2012, n.9 : la “fuga dal

regolamento” e l’atipicità degli atti normativi

SENTENZA

(omissis)

FATTO

(omissis)

DIRITTO

1. Occorre partire dall’esame della questione, per la cui decisione la causa è stata rimessa all’Adunanza Plenaria, concernente la natura, innovativa o meramente interpretativa, da attribuire all’art. 4, comma 1, del decreto ministeriale 6 febbraio 2006.

L’esatta definizione del contenuto e della portata del decreto ministeriale risulta, infatti, nella prospettazione di parte, preliminare rispetto alla questione – sollevata dagli originari ricorrenti nell’appello incidentale – della natura regolamentare o amministrativa del decreto ministeriale in questione.

2. A questo fine l’Adunanza Plenaria ritiene decisivo richiamare l’art. 7 del d.lgs. n. 387 del 2003, in quanto fonte primaria legittimante l’adozione dei decreti ministeriali e perciò norma sovraordinata che fissa gli scopi che i decreti devono conseguire con la disciplina di attuazione, e quindi avente valenza di parametro vincolante per l’interpretazione del loro contenuto.

L’articolo dispone che l’importo della tariffa incentivante è “decrescente” (comma 2, lett. d), per cui appare logico ritenere che i decreti ministeriali attuativi debbano in linea di principio essere idonei ad assicurare tale risultato.

Ciò comporta che deve ritenersi più coerente con la norma citata il fatto che la tariffa resti fissa nel suo valore nominale per il periodo in cui è riconosciuta ed erogata poiché ciò comporterebbe in termini reali un andamento appunto decrescente.

Al contrario, la tesi sostenuta dai ricorrenti in primo grado, secondo cui l’art. 6, comma 6, del decreto ministeriale 28 luglio 2005 avrebbe riconosciuto il diritto all’aggiornamento annuale delle tariffe incentivanti sulla base del tasso di inflazione annuo, darebbe luogo ad una tariffa crescente in termini nominali e costante in termini reali.

E’ sulla base di questo presupposto che va valutato l’art. 6, comma 6, del decreto ministeriale 28 luglio 2005.

3. Al riguardo va osservato preliminarmente che la norma presenta oggettive incertezze interpretative generate dall’ambiguità del testo. Difatti, la previsione dell’aggiornamento dal primo gennaio di ogni anno può essere riferita sia, come pretendono le parti, alle tariffe fissate negli anni precedenti sia, come proposto dall’Autorità nel decreto in esame, alla determinazione iniziale della tariffa.

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Non può dunque ritenersi incompatibile con il testo della norma una interpretazione secondo cui l’aggiornamento con il tasso di inflazione sia da applicare solo in sede di definizione delle tariffe da riconoscere agli impianti realizzati successivamente al 2006, ma che poi (quindi anche per gli impianti realizzati a partire dal 2007), una volta che si è riconosciuta la tariffa, questa debba rimanere nominalmente fissa per 20 anni.

3.1. In quest’ottica, e in questo quadro normativo, può ragionevolmente concludersi che l’art. 6 del decreto ministeriale 6 febbraio 2006, non faccia altro che esplicitare e chiarire una delle possibili interpretazioni della norma e perdippiù l’interpretazione più coerente – come si è detto – con il dettato del decreto legislativo.

Ne consegue che con tale decreto è stata data l’interpretazione autentica del testo del detto comma del d.m. del 2005, nel momento in cui è precisato che l’aggiornamento delle tariffe per gli impianti di cui alla lettera b) “viene effettuato per ciascuno degli anni successivi al 2006”, essendo altresì convergente con ciò l’ulteriore previsione, di cui all’art. 8, comma 1, dello stesso d.m., per il quale la suddetta modifica si applica “alle domande inoltrate successivamente alla data di entrata in vigore del D.M. 28 luglio 2005”.

Tale soluzione, peraltro, è la più favorevole per gli operatori tra quelle consentite dall’art. 7 del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387: il vincolo del carattere decrescente della tariffa viene infatti assicurato mantenendola fissa a livello nominale e lasciandola decrescente solo in termini reali.

4. Da questa conclusione discende altresì che non può configurarsi un legittimo affidamento da parte dei soggetti che abbiano presentato domande negli anni 2005 e 2006, a fronte di una interpretazione del testo del d.m. del 2005 obiettivamente già in atto individuabile, prioritaria in ragione della sua diretta rispondenza alla norma di legge, di conseguenza, di certo riconoscibile da parte di operatori esperti del settore.

5. Così chiarita la portata del d.m. 6 febbraio 2006, occorre ora esaminare i motivi dell’appello incidentale con i quali gli originari ricorrenti, sul presupposto della natura regolamentare del decreto in esame, lamentano:

- la violazione e falsa applicazione dei principi desumbili dagli artt. 3, 25 e 97 Cost. in quanto si tratterebbe di un regolamento adottato senza autorizzazione legislativa;

- la violazione e falsa applicazione dell’art. 10 delle preleggi, in quanto si tratterebbe di un regolamento illegittimamente retroattivo;

- la violazione e falsa applicazione dei principi desumibili dall’art. 17 legge 23 agosto 1988, n. 400, in quanto si tratterebbe, secondo la tesi degli appellanti, di un regolamento adottato senza rispettare le regole procedimentali contenute nel citato art. 17 e, segnatamente, senza che abbia formato oggetto né di parere del Consiglio di Stato, né di visto della Corte dei conti.

In ordine alle prime due censure, le considerazioni già svolte in ordine alla natura interpretativa dell’art. 4, comma 1, del decreto ministeriale 6 febbraio 2006 (che si è limitato ad una mera precisazione di un significato precettivo già enucleabile del decreto ministeriale 28 luglio 2005) consentono di escludere la violazione sia del principio di riserva di legge sia del principio di irretroattività.

5.1. La base legislativa è, infatti, offerta dall’art. 7, comma 2, lett. d) del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387, che attribuisce al Ministero delle attività produttive il potere di adottare uno o più decreto per disciplinare i criteri per l’incentivazione della produzione di energia da fonte solare.

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Tale disposizione è fonte di un potere certamente destinato a non esaurirsi con l’emanazione del primo decreto attuativo. Da un lato, infatti, la stessa disposizione legislativa prevede espressamente la possibilità di una pluralità di decreti ministeriali (adotta uno o più decreti”); dall’altro lato, la possibilità che il potere attribuito venga esercitato con più atti discende dal principio di inesauribilità del potere amministrativo, a sua volta corollario della necessità che la tutela dell’interesse pubblico sia continuamente assicurata.

L’emanazione del decreto ministeriale 6 febbraio 2006 aveva, quindi, una chiara base legislativa, a maggior ragione se si considera che, nel caso di specie, si tratta di mere precisazioni di regole già vigenti.

5.2. Ugualmente, appurata la natura meramente interpretativa e non innovativa del decreto ministeriale impugnato, deve escludersi la violazione del principio di retroattività.

5.3. Meritano, invece, maggiore attenzione le censure tese a dimostrare la violazione delle regole procedimentali che l’art. 17 legge n. 400 del 1988 prevede per l’adozione dei regolamenti ministeriali.

Tale censura è stata disattesa dal Tribunale amministrativo regionale con la seguente motivazione: “a parte il fatto che il menzionato art. 7 del d.lgs. n. 387/2003 parla soltanto di “decreti” senza alcun riferimento all’eventuale carattere regolamentare degli stessi, la lettura del D.m. gravato induce al Collegio a qualificarlo piuttosto come atto generale, rivolto agli operatori del settore fotovoltaico, piuttosto che atto normativo indirizzato a tutti i consociati”.

Il citato passaggio motivazionale solleva alcune perplessità.

5.3.1. Da un lato, infatti, laddove enfatizza la circostanza che l’art. 7 d.lgs. n. 387 del 2003 parli soltanto di decreti, senza specificarne il carattere regolamentare, sembra ammettere che possano esistere decreti ministeriali a contenuto normativo ma non avente carattere regolamentare (perché non espressamente qualificati come tali dal legislatore o, semmai, espressamente qualificati in senso non regolamentare), come tali sottratti al procedimento disciplinato dall’art. 17 legge n. 400 del 1988. Sembra ammettere, in altri termini che, tranne i casi in cui la legge richieda espressamente il regolamento, il Ministero, destinatario di un potere normativo, possa di volta in volta decidere se esercitarlo con lo strumento regolamentare (come tale soggetto al procedimento di cui all’art. 17 legge n. 400 del 1988) o con altri atti di natura non regolamentare.

5.3.2. Dall’altro lato, laddove desume la natura non regolamentare dalla circostanza che il decreto in questione si applichi solo agli operatori del settore fotovoltaico e non a tutti i consociati, sembrerebbe ritenere che sia atto normativo soltanto quello che si rivolga indistintamente ad ogni consociato, con ciò negando la natura normativa di ogni previsione settoriale.

5.4. Entrambe tali affermazioni, intese nella loro assolutezza, non possono essere condivise e meritano alcune precisazioni.

5.4.1. In primo luogo, deve rilevarsi che, nonostante la crescente diffusione di quel fenomeno efficacemente descritto in termini di “fuga dal regolamento” (che si manifesta, talvolta anche in base ad esplicite indicazioni legislative, tramite l’adozione di atti normativi secondari che si autoqualificano in termini non regolamentari) deve, in linea di principio, escludersi che il potere normativo dei Ministri e, più in generale, del Governo possa esercitarsi medianti atti “atipici”, di natura non regolamentare, specie laddove la norma che attribuisce il potere normativo nulla disponga (come in questo caso) in ordine alla possibilità di utilizzare moduli alternativi e diversi rispetto a quello regolamentare tipizzato dall’art. 17 legge n. 400 del 1988.

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5.4.2. In secondo luogo, non può certamente essere condivisa la conclusione secondo cui un atto può essere qualificato come normativo soltanto se si indirizza, indistintamente, a tutti i consociati.

L’ordinamento conosce innumerevoli casi di disposizioni “settoriali” della cui natura normativa nessuna dubita. Ciò in quanto la “generalità” e l’“astrattezza” che, come comunemente si riconosce, contraddistinguono la “norma”, non possono e non devono essere intesi nel senso di applicabilità indifferenziata a ciascun soggetto dell’ordinamento, ma, più correttamente, come idoneità alla ripetizione nell’applicazione (generalità) e come capacità di regolare una serie indefinita di casi (astrattezza).

Il carattere normativo di un atto non può pertanto essere disconosciuto solo perché esso si applica esclusivamente agli operatori di un settore (nelle specie ai titolari di impianti per la produzione di energia da fonte solare) dovendosi, al contrario, verificare, se, in quel settore, l’atto è comunque dotato dei sopradescritti requisiti della generalità e dell’astrattezza.

In relazione a tale profilo, non può non richiamarsi l’elaborazione giurisprudenziale che ormai da tempo, utilizza, proprio, al fine di distinguere tra atto normativo e atto amministrativo generale, il requisito della indeterminabilità dei destinatari, rilevando che è atto normativo quello i cui destinatari sono indeterminabili sia a priori che a posteriori (essendo proprio questa la conseguenza della generalità e dell’astrattezza), mentre l’atto amministrativo generale ha destinatari indeterminabili a priori, ma certamente determinabili a posteriori in quanto è destinato a regolare non una serie indeterminati di casi, ma, conformemente alla sua natura amministrativa, un caso particolare, una vicenda determinata, esaurita la quale vengono meno anche i suoi effetti.

5.5. Proprio alla luce di tali coordinate ermeneutiche deve, nel caso di specie, riconoscersi la natura normativa del decreto ministeriale in questione.

6. Occorre tuttavia rilevare che nel caso di specie anche l’originario decreto 28 luglio 2005 (oggetto di precisazione da parte del successivo decreto 6 febbraio 2006) è stato emanato senza seguire la procedura prescritta per i regolamenti ministeriali dall’art. 17 legge n. 400 del 1988.

Sotto questo profilo, quindi, il Ministero per le attività produttive, nel procedere alla suddetta interpretazione, ha, in base al principio dell’identità formale del contrarius actus, seguito lo stesso procedimento che già era stato adottato per l’atto su cui si andava ad incidere.

Ebbene, in queste condizioni anzitutto – e sotto un profilo sostanziale - il denunciato profilo di illegittimità andrebbe a colpire, prima ancora che il decreto 6 febbraio 2006, il decreto oggetto 28 luglio 2005, ovvero la fonte stessa del diritto alla tariffa incentivante di cui si lamenta il mancato aggiornamento. Trattandosi allora di regolamento illegittimo (sotto il profilo procedurale) anch’esso andrebbe disapplicato (sebbene non oggetto di specifica impugnazione). Si andrebbe, però, in tal modo a realizzare un risultato ultroneo e contrastante con lo stesso interesse azionato in giudizio dagli originari ricorrenti, perché verrebbe meno lo stesso fondamento del diritto di cui essi lamentano, sotto il profilo quantitativo, il mancato aggiornamento al tasso di inflazione.

Focalizzando poi l’attenzione sul profilo formale, la legittimità procedurale del d.m. 6 febbraio 2006 non può essere contestata, atteso che esso è stato adottato seguendo il medesimo procedimento già seguito in occasione dell’emanazione del primo.

Non può mettersi in discussione, dunque, la sua idoneità ad incidere sull’atto “a monte” di identica natura e la cui efficacia non è – né lo poteva – essere contestata.

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7. L’infondatezza delle censura mosse contro il d.m. 6 febbraio 2006 implica evidentemente anche il rigetto dei motivi (dichiarati inammissibili in primo grado sul presupposto della non immediata lesività) proposti avverso la delibera n. 40/2006 dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas. Si tratta, infatti, di un atto meramente attuativo del d.m. 6 febbraio 2006, di cui gli originari ricorrenti hanno fatto valere solo motivi di illegittimità derivata dalla asserita illegittimità del d.m. 6 febbraio 2006.

8. Alla luce delle considerazioni che precedono, deve accogliersi l’appello principale proposto da GSE e gli appelli incidentali proposti dai Ministeri dello sviluppo economico e dai Ministeri dell’ambiente e della tutela del territorio. Deve, invece, respingersi l’appello incidentale proposto dagli originari ricorrenti. Per l’effetto, deve essere riformata la sentenza appellata, con conseguente rigetto del ricorso proposto in primo grado.

Data la complessità delle questioni esaminate, sussistono i presupposti per compensare integralmente le spese del doppio grado di giudizio fra tutte le parti.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria) definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, accoglie l’appello principale proposto da GSE e gli appelli incidentali proposti dai Ministeri dello sviluppo economico e dai Ministeri dell’Ambiente e della tutela del territorio.

Respinge l’appello incidentale proposto da Officina dell'Ambiente s.r.l., Montana s.r.l. e dai signori Paola Scuntaro, Mansoldo Andrea, Racani Maurizio, Toffoletti Danila, Toffoletti Danilo, Paina Giancarlo, Rosset Claudio, Della Rossa Livio, Mastella Cristiano, Ghidelli Giulio Natale, Sergio Totis, Mauro Fasano.

Compensa le spese del doppio grado di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.


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