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dispensa pedagogia generale · 2015-04-12 · è assai difficile tradurre in pratica e verificare...

Date post: 15-Feb-2019
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Dispense del Corso di Pedagogia generale

Università di Torino

Prof.ri Paolo Bianchini, Francesco Garzone e Giovanni Mierolo

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INDICE

Cap. 1 L’UOMO COME PRODOTTO DI NATURA E CULTURA, OVVERO LA

NECESSITA’ DELL’EDUCAZIONE p. 3

1.1 Educazione versus pedagogia p. 3 1.2 Educazione versus medicina p. 3 1.3 Educare versus curare p. 5 1.4 La natura educativa (ed educata!) della cultura umana p. 5 1.5 L’educazione come attività consapevole e intenzionale p. 7 1.6 Le competenze educative p. 7 Cap. 2 I DIVERSI TIPI DI RELAZIONE PROFESSIONALE:

QUESTIONI TERMINOLOGICHE E AMBITI D’INTERVENTO

p. 10

2.1 La relazione d’aiuto p. 10 2.2 La relazione educativa p. 11 2.3 Le caratteristiche della relazione p. 12 2.4 Le competenze relazionali p. 13 Cap. 3 RELAZIONE D’AIUTO E DISCORSO MEDICO p. 16 3.1 Qualche citazione nell’introduzione p. 16 3.2 A proposito del discorso medico p. 16 3.3 La relazione d’aiuto in medicina p. 18 3.4 La costruzione del corpo p. 20 3.5 Il corpo macchina p. 22 3.6 Medicina e biopolitica p. 23 3.7 A proposito delle relazioni d’aiuto p. 26 Cap. 4 LA PROGETTAZIONE SOCIALE, SANITARIA, EDUCATIVA, LA

VERICIA, LA VALUTAZIONE, IL MONITORAGGIO ED IL LAVORO DI RETE

p. 30

4.1 La progettazione sociosanitaria come sfida alle passioni tristi p. 30 4.2 La progettazione e le sue tappe p. 31 4.3 Le tipologie di progettazione p. 31 4.4 Altre considerazioni p. 32 4.5 Gli ambiti di progettazione p. 32 4.6 Le parti della progettazione p. 34 4.7 La definizione e l’analisi del problema p. 34 4.8 Gli elementi costitutivi dell’analisi dei bisogni e della lettura della domanda p. 34 4.9 L’identificazione degli obiettivi p. 35 4.10 Beneficiari dell’intervento p. 36 4.11 Il modello di intervento, ovvero la metodologia p. 37 4.12 Le azioni p. 38 4.13 I mezzi e le risorse p. 38 4.14 Il progetto e la pianificazione p. 39 4.15 Il progetto e la programmazione p. 39 4.16 Il progetto e l’organizzazione p. 40 4.17 La verifica, la valutazione ed il monitoraggio p. 40 4.18 Schema di tappe della valutazione p. 41 4.19 Il monitoraggio, le verifiche e le valutazioni in una logica di ricerca azione p. 41 4.20 I criteri della valutazione

p. 42

4.21 Gli attori interessati alla valutazione p. 42

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4.22 Che cosa si verifica e si valuta p. 43 4.23 Stime di verifica e di valutazione p. 43 Cap. 5 LE RETI p. 44 5.1 Che cosa sono le reti sociali p. 44 5.2 I punti rete p. 44 5.3 Le diverse tipologie di rete p. 44 5.4 Come si crea una rete p. 46 5.5 Come si gestisce un tavolo sociale p. 46 5.6 La manutenzione delle reti p. 47 5.7 Le reti relazionali p. 47 5.8 La “biodegradabilità” delle reti p. 48 Orientamenti bibliografici p. 49

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CAPITOLO 1 L’UOMO COME PRODOTTO DI NATURA E CULTURA, OVVERO LA NECESSITà DELL’EDUCAZIONE 1.1 Educazione versus pedagogia Oggi, gli studiosi di pedagogia cominciano tutti le loro riflessioni compiendo uno sforzo tanto immane quanto inutile e scientificamente poco corretto: provano, cioè, a definire da un punto di vista squisitamente teorico che cos’è la pedagogia e che cosa la distingua o la accomuni alle scienze dell’educazione. Esistono varie correnti di pensiero: la pedagogia è una scienza ovvero, con acrobazie intellettuali più o meno riuscite e convincenti, si prodigano per dimostrare che la pedagogia va considerata una scienza che, avendo come precipuo oggetto del suo studio l’uomo, si avvale del contributo di altre scienze umane, che contribuisce a sua volta a fare crescere con il suo peculiare contributo. In quanto scienza umana, non si può pretendere dalla pedagogia l’esattezza e il rigore delle scienze esatte, ma bisogna comunque fare riferimento ai suoi precetti ogni volta che si ha a che fare con un problema di natura educativa. Oppure la pedagogia è riflessione sul fare educativo, ed è quindi altro da questo. Qualunque sia la conclusione, un’impostazione di questo tipo lascia aperti numerosi e pressanti problemi, che portano i lettori più attenti – e anche gli autori – a terminare le loro riflessioni con una sola certezza: che quanto si sta leggendo non servirà né per guidare la propria attività educativa, né, ed è assai più grave, a farsi un’idea più precisa di quali siano le finalità e gli strumenti di chi si occupa di educazione. Infatti, è assai difficile tradurre in pratica e verificare teorie nate per resistere al più cavilloso esame teorico, ma sganciate dalla pur minima conoscenza della realtà dell’educazione. Con ciò non voglio fare mia quella tesi secondo cui educare è eminentemente, se non esclusivamente, un problema pratico e che, di conseguenza, chi educa non ha bisogno di teoria. Credo che chiunque abbia fatto educazione sul campo, di qualsiasi tipo essa sia stata, ha verificato da solo l’infondatezza di una tale posizione. Per questo, l’educazione ha bisogno di teoria (sia essa la pedagogia o qualche altra disciplina), ma la teoria deve essere formulata a partire dalla prassi. Altrimenti verrebbe meno il metodo scientifico, sul quale si vorrebbe far poggiare tutta la pedagogia. Se educare è un’arte, essa va tarata in base a ogni educando e a ogni educatore. Non è giusto dire che cosa è necessario fare, in quanto ogni soggetto è diverso. Ma è possibile stabilire come è opportuno procedere, ovvero quale sia la prassi migliore da seguire, definendone i contenuti in relazione al caso. Una teoria di questo tipo nasce dalla pratica e con la pratica è destinata a morire. Essa ha valore fintanto che la nostra cultura, i nostri servizi, la nostra giustizia funzionano come oggi. Quando essi cambiano, anche la procedura educativa va rivista, perché in caso contrario rischia di risultare inadeguata. 1.2 Educazione versus medicina Oggi le scienze dell’educazione vengono spesso accusate di lasciarsi sedurre, se non conquistare, dai metodi della medicina. Nelle intenzioni degli accusatori si tratta ovviamente di un’imputazione pesante, perché la corruzione dell’agire educativo da parte del sapere medico comporterebbe la sua stessa morte. L’educatore e il

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pedagogista che si lasciano “medicalizzare”, come si è soliti dire, sarebbero colpevoli di voler definire a priori e con eccessiva esattezza tempi e modi dell’intervento educativo e soprattutto la sua efficacia; penserebbero, insomma, all’educazione come a una sorta di medicina dell’anima, da somministrare con lucido distacco e da monitorare in base a rigidi parametri, rimanendo pronti a interrompere la cura nel momento in cui questa non si rivelasse efficace a guarire il malato entro i tempi prestabiliti. È ormai dimostrato ampiamente che un atteggiamento di questo tipo da parte di alcuni professionisti dell’educazione non è infrequente e soprattutto che esso viene indotto dalla collettività stessa, che si rivolge ai servizi socio-educativi e socio-assistenziali chiedendo una soluzione certa e duratura ai suoi problemi. Non indaghiamo qui i motivi della fede del nostro tempo nella scienza di Esculapio, che finiremmo probabilmente per rintracciare proprio in una certa medicina, che da oltre un secolo ama proporre se stessa – con fini non sempre nobilissimi – come una panacea ai mali del mondo, salvo poi ammettere tardivamente e a denti stretti che, come è logico che sia, ogni sua scoperta è soggetta a miglioramenti e a smentite. Ovvero, anche quella ideata da Esculapio è una scienza, e come tutte le scienze non è perfetta, anche se ambisce alla perfezione. Anche i suoi metodi d’indagine e di azione non sono immutabili, anche se vengono presentati come infallibili. È con questa scienza, forte nella sostanza e fortissima nell’uso che ne fanno alcuni suoi rappresentanti, che l’educazione e la pedagogia, discipline deboli e quasi prive di un paradigma gnoseologico ben definito, devono fare i conti: è naturale un po’ di soggezione, oltre che di diffidenza. È chiaro che l’educazione, che per natura mira a forgiare nell’individuo le capacità perché questi riesca a modificare il proprio stile di vita consapevolmente, e quindi durevolmente, non può assumere l’aspetto della pillola. Tuttavia, noi siamo convinti che, se è sbagliato avere fede nella medicina, è altrettanto fuorviante, oltre che inutile, per chi lavora in campo educativo, pensare che la medicina costituisca un veleno mortale per la pedagogia, che non sia possibile nessuna contaminazione. Esistono numerose ragioni per le quali è necessario che educatori e pedagogisti conoscano a fondo le modalità euristiche e operative della scienza medica. La prima è di carattere storico: coloro che tra i primi si sono preoccupati di insegnare alle persone a modificare il proprio stile di vita sono stati proprio i medici nell’età dei Lumi. All’epoca non esisteva nemmeno il termine pedagogia e i pochi professionisti dell’educazione erano gli insegnanti secondari. Furono, allora, i discendenti di Esculapio a battere città e campagne per invitare la popolazione a accettare l’inoculazione del vaiolo, per diffondere le norme igieniche e sanitarie elementari, che stava elaborando la medicina alta, quella fatta e insegnata nelle Accademie e negli Atenei. Ci si dimentica troppo spesso che anche l’Emile di Rousseau era in tutta la sua prima parte un trattato di puericultura, con il quale il philosophe ginevrino si proponeva di diffondere tra le famiglie colte europee le norme su quella che veniva allora definita l’“educazione fisica” dei bambini. Sin dalle origini della pedagogia, o se si preferisce delle scienze dell’educazione, allevare un bambino significò, quindi, prendersi cura sia del suo corpo, sia del suo carattere, nonché delle sue capacità cognitive. Saperi diversi venivano fatti confluire verso un comune fine: il benessere psichico e fisico dell’individuo. La seconda ragione è che sia la medicina, sia l’educazione hanno in comune l’uomo come fulcro e come fine ultimo della loro azione. E poiché siamo sempre più informati rispetto all’influenza reciproca che esercitano l’uno sull’altro lo stile di vita e il benessere psico-fisico dell’individuo è necessario che le due discipline imparino a interagire sempre più strettamente, così come già fanno con altri saperi, come la

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psicologia, l’antropologia e la sociologia. Sarebbe così forse un po’ più facile osservare l’uomo come un’unità, e a elaborare progetti in cui il benessere di tutte le parti contribuisce a determinare olisticamente la salute dell’individuo. La terza ragione è che oggi appare sempre più necessario che gli operatori dei servizi educativi, assistenziali e sanitari imparino a seguire modalità d’azione realmente miranti a un lavoro integrato, in cui il lavoro di ogni professionista è basato e serve da base a quello degli altri, limitando sovrapposizioni e dispersioni. Una modalità d’azione integrata con i soggetti in difficoltà sarebbe utile sia a garantire un intervento davvero olistico sull’individuo, di cui si è già detto, sia per ottimizzare le risorse presenti sul territorio, sempre meno numerose a fronte dell’aumento di richieste. Per tutte queste ragioni intendiamo provare a individuare alcuni possibili ambiti di elaborazione teorica e di operatività in cui pedagogia e medicina possono fruttuosamente soccorrersi, nella creazione di saperi teorici e pratici indispensabili ai professionisti dell’educazione e della riabilitazione. Il fulcro di tale incontro non può che essere fondato, secondo noi, sulla relazione, d’aiuto ed educativa. Ma per dimostrare l’importanza della relazione nei trattamenti di cura ed educativa, dobbiamo prima provare a guardare all’uomo da un punto di vista un po’ diverso. 1.3 Educare versus curare Più che mai, oggi, per qualunque problema pretendiamo una soluzione rapida e il più possibile indolore, che ci cambi la vita come per incanto, che ci trasformi senza pretendere grande impegno da parte nostra. Siamo protesi a sfruttare il monito “carpe diem” nel modo peggiore, ovvero bruciando tutto in maniera rapidissima, senza godercela. Abituati come siamo a non goderci neppure i momenti piacevoli, come possiamo vivere i momenti negativi, o quelli che impongono un nostro impegno? Il processo educativo funziona, invece, soltanto se entrambe le componenti accettano di mettersi in gioco. L’educazione, infatti, non ha luogo senza il contributo dell’educando, senza il suo coinvolgimento diretto, senza che egli accetti la sfida. Ma non ha luogo neppure senza l’educatore. Le basi deontologiche, che coincidono poi con quelle metodologiche del lavoro educativo, poggiano su principi solo in parte coincidenti con quelli preferiti dalla cultura consumistica e meccanicistica: deve preoccuparsi di essere – non di apparire – efficiente, ma deve soprattutto ambire a essere efficace. E per esserlo deve partire dal soggetto che ha di fronte. Per questo, invece di offrirgli una soluzione, come se fosse una “terapia” pedagogica, deve mettersi in ascolto. Non può tirare fuori dalla sua valigetta una siringa piena di saper essere o di benessere psichico. Deve estrarre i rimedi essenziali proprio dalla persona, con il suo aiuto, e per questo deve averla potuta conoscere, deve aver potuto costruire una relazione significativa con essa, tale da guadagnarne un attestato di autorevolezza. Ed esso si conquista prima che con parole e azioni, con silenzio e ascolto che attestano rispetto e interesse. 1.4 La natura educativa (ed educata!) della cultura umana L’uomo è composto da un inestricabile intreccio di fattori biologici e di fattori culturali. Di fatto, non esiste nell’uomo alcun aspetto biologico che non subisca l’influenza, con conseguente modificazione, da parte della cultura. Per biologico intendiamo la parte organica, corporea, dell’essere umano; il termine cultura va, invece, fatto risalire all’antropologia, che la definisce comunemente come l’insieme degli usi e costumi, delle norme, degli oggetti e dei simboli (il più importante dei

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quali è il linguaggio) condivisi da un gruppo umano. Il bambino, quando nasce, non possiede che una piccola parte del proprio patrimonio biologico ed è del tutto privo di quello culturale. Infatti, il cucciolo di uomo è programmato per venire al mondo all’interno di un gruppo di simili, dai quali riceverà l’opportunità e gli strumenti per portare a compimento il suo sviluppo fisico e psichico. Se, infatti, i piccoli di moltissime altre specie viventi, quando escono dal grembo materno (o dall’uovo), hanno anch’essi bisogno di cure e di sostegno per sopravvivere e crescere, nessuna specie vivente necessita dei tempi e della quantità di assistenza di cui ha bisogno un bambino. Tali cure, materiali ed emotive, sono indispensabili per permettere al bambino di diventare un adulto capace di interagire in modo corretto e integrato con i suoi simili. La crescita del bambino non avviene soltanto nel senso di un progressivo sviluppo del suo corpo e di raffinamento delle sue capacità cognitive. Se alla nascita tutti gli organi devono ancora svilupparsi, pure il cervello è lontano dalla sua forma definitiva. Il sistema nervoso del neonato possiede la maggioranza delle cellule (neuroni e altre cellule cerebrali) di cui ha bisogno, ma specialmente nel corso del primo anno di vita la crescita cerebrale è molto considerevole e determina la formazione di centinaia di miliardi di connessioni tra cellule (dette sinapsi), che rappresentano la chiave dell’apprendimento e della memoria. Il progressivo accrescimento cerebrale permette al bambino di acuire la percezione del mondo circostante attraverso i cinque sensi (gusto, vista, udito, tatto e olfatto), oltre che di pensare, percepire sensazioni e relazionarsi con il mondo esterno. Il corretto sviluppo di tutte queste funzioni, così come l’incremento delle facoltà cognitive, sono certamente previsti per natura, ma dipendono in larga misura proprio dall’interrelazione con gli adulti e, in particolare, con i genitori: sono loro che lo nutrono, lo proteggono e soddisfano i suoi bisogni primari, che lo sostengono nei primi passi e che gli insegnano ad attribuire il corretto significato ai gesti, ai suoni e ai comportamenti dei suoi simili. Insomma, l’uomo ha bisogno dei suoi simili per utilizzare appieno la capacità innata di imparare e di soddisfare i suoi bisogni, quelli di base come quelli più elevati.1 Ciò significa che prendersi cura delle giovani generazioni dal punto di vista fisico, psicologico, culturale e sociale rappresenta la caratteristica essenziale dell’educazione, in quanto mira a dotare l’uomo degli strumenti atti a permettergli di sviluppare le proprie capacità al massimo grado e di entrare a pieno titolo nel mondo degli adulti. Per questi motivi, sebbene nessuno abbia assistito all’evento, possiamo affermare senza ombra di dubbio che l’educazione è nata con l’uomo. È impossibile, cioè, pensare all’essere umano senza pensare all’educazione. Allo stesso tempo, non possiamo trascurare quanto ci stanno insegnando le ricerche di zoologi ed etnologi come Konrad Lorenz.2 Infatti, l’uomo appartiene alle specie viventi dotate di scarsa specializzazione nel momento in cui vengono al mondo, ma è anche dotato di una curiosità innata che gli permette di arrivare a conoscenze e a una capacità d’adattamento nell’ambiente davvero unici. Come abbiamo visto, poi, ha assoluto bisogno dei suoi simili per riuscire a sopravvivere perlomeno nelle prime fasi della sua vita e ciò permette di considerarlo a ragione come un animale addomesticato. Non a caso, infatti, alcune razze, in particolare quella bianca, possiedono caratteristiche (come gli occhi azzurri e i capelli biondi) davvero lontane da quelle naturali.

1 http://www.youtube.com/watch?v=ycO5rG1DM8U&feature=email 2 KONRAD L., Psicologia e filogenesi, in J.S. Bruner-A. Jolly-K. Sylva, Il gioco, Armando editore, Roma, 1981, 4 voll., vol. I, La prospettiva evoluzionistica, pp. 85-98.

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L’aspetto più interessante dal nostro punto di vista è che, sebbene addomesticato, l’uomo è l’unica specie vivente che riesce a conservare per tutta la durata della sua vita la caratteristica neotenica, ovvero un carattere morfologico e fisiologico tipico di forme giovanili degli antenati, che invece avrebbe dovuto perdere con l’addomesticamento, ovvero la curiosità. È la curiosità che lo spinge a conservare per tutta la vita un atteggiamento indagatorio nei confronti dell’ambiente, che è la base del cambiamento non soltanto dell’ambiente, ma dell’uomo stesso. Nel momento in cui saremo davvero consapevoli dei meccanismi che regolano il funzionamento dell’essere umano, cominceremo a dedicare all’educazione quell’importanza e quelle risorse che non le abbiamo sinora dedicato. Quando si ridimensionerà la fede nel progresso tecnico e nella scoperta di soluzioni miracolose di natura farmacologica o sanitaria, avrà inizio l’età dell’uomo e con essa l’età dell’educazione, in cui ogni individuo avrà diritto, per natura, a ricevere gli strumenti per realizzare pienamente se stesso e per imparare a fare ciò non grazie a strumenti esterni, ma con i suoi stessi mezzi. 1.5 L’educazione come attività consapevole e intenzionale Alcuni accusano il sapere pedagogico ed educativo di essere troppo normativo, di voler imporre a tutti le stesse regole; altri gli attribuiscono il difetto contrario, ovvero quello di non possedere un metodo d’azione e di ricerca univoco e perfettamente riproducibile. Una delle cause principali del problema dipende dal fatto che se l’educazione si occupa dell’uomo, non è chiaro di quale organo umano si occupi davvero? Della psiche, forse? No, di quella si interessa la psicologia. Del corpo e della salute fisica? No, ci pensa la medicina. Dell’anima? Neppure: è già terreno occupato dalla religione e dalla fede. E allora a che cosa serve l’educazione? Di che cosa si occupa davvero? Si occupa dell’uomo, certo, e se ne occupa in modo trasversale, intervenendo in tutti i settori disciplinari che abbiamo appena elencato, perché ha a che fare con la relazione che intercorre tra gli esseri umani. Per questo è difficile da definire, perché è come la comunicazione umana: avviene, è fondamentale nella vita di tutti i giorni, ma ciò che è visibile sono i suoi effetti e non tanto i suoi mezzi. L’educazione è quell’intervento mirante al benessere dell’individuo, attuato per mezzo della relazione, che l’educatore progetta con l’educando in virtù delle risorse e dei bisogni di quest’ultimo, e sulla base delle indicazioni offerte dalle discipline umane e sociali, quali la pedagogia, la psicologia, la medicina, l’antropologia e la sociologia. Vale la pena di provare a fare una panoramica su quelle che in letteratura vengono considerate come le competenze caratteristiche del lavoro educativo. 1.6 Le competenze educative Pietro Bertolini sottolinea l’importanza della competenza come “caratteristica dirimente dell’operatore pedagogico”: “come per qualsiasi altro professionista, anche per l’operatore pedagogico risulta indispensabile far riferimento alla sua specifica competenza […] il che significa far riferimento a quell’insieme di orientamenti operativi e di vere e proprie capacità conoscitive e pratiche, che egli deve saper

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seguire e possedere nel momento in cui imposta il proprio lavoro e che lo distinguono da ogni altro operatore o professionista”3. Anche Pati sviluppa il concetto di competenza educativa, affermando che “il corretto svolgersi dell’identità di funzione esige un’approfondita preparazione pedagogica e quindi professionale”4. La competenza pedagogica si può definire con le parole di Lorena Milani, come “l’insieme complesso e dinamico di conoscenze, di abilità, di procedure metodologiche, di esperienze consolidate e ordinate di tipo educativo, fondate sulla riflessione e sulla teorizzazione pedagogica, che connota la professionalità educativa, e che i soggetti che operano in questo settore devono saper mettere in campo in modo personale e critico, quando progettano attuano e valutano il proprio intervento.”5 Come sottolinea Triani, in questo caso “il temine competenza viene assunto come categoria generale attraverso la quale, tenendo al centro la figura dell’educatore, si possono descrivere e ordinare i molteplici aspetti che sono ritenuti indispensabili per realizzare il lavoro educativo”6. Milani, infatti, nel corso del suo volume analizza e sistematizza l’insieme dei saperi necessari all’educatore, le competenze. Esse sono caratterizzate da alcuni aspetti fondamentali: il carattere dinamico, processuale, cognitivo, sociale e contestuale7. Facendo un breve excursus sulle competenze, esse possono essere raggruppate in alcune categorie principali: tra queste sono fondamentali le meta-competenze (intenzionalità e progettualità) e la competenza cardine del lavoro educativo, ovvero la relazione. Meta - competenze L’agire pedagogico non è solo azione, è anche riflessione, è una “pratica riflessiva”.8 L’intenzionalità e la progettualità si possono considerare come meta-competenze, proprio perché basate sulla riflessione. La meta-competenza, infatti, è “capacità cognitiva generale di carattere riflessivo, che prescinde da specificità di mansioni e di contesti di lavoro”9: è, quindi, una riflessione sulle proprie competenze, “coscienza delle proprie competenze e capacità di gestirle (combinarle e sceglierle)”10. Piero Bertolini individua nell’intenzionalità il fulcro centrale dell’azione pedagogica11. “Fare educazione secondo criteri di intenzionalità significa per l’educatore rinunciare in primo luogo ad una funzione acritica e passiva, ad un compito di pura mediazione di qualcosa di per sé dato, come le tradizioni o le consuetudini, gli obblighi”12. Zaghi aggiunge che tale intenzionalità, che si esprime nella programmazione e nel progetto, allontana il rischio dell’ovvietà (“faccio così perché tutti fanno così”13) e

3 BERTOLINI P., L’esistere pedagogico, La Nuova Italia, Firenze, 1988, pp. 245-246. 4 PATI L., L’educazione nella comunità locale, La scuola, Brescia, 1996, p. 248. 5 MILANI L., Competenza pedagogica e progettualità educativa, La Scuola, Brescia, 2000, pp. 86-87 6 TRIANI P., Sulle tracce del metodo. Educatore professionale e cultura metodologica, I.S.U, Milano, 2002, p. 165 7 MILANI L., Competenza pedagogica e progettualità educativa, cit., p. 23 8 BRANDANI W., ZUFFINETTI P. (a cura di), Le competenze dell’educatore professionale, Carocci Faber, Roma, 2004, p. 41. 9ALESSANDRINI G., Professionalità e metacompetenza nell’ottica della formazione continua, in Studium Educationis n. 2/1997. 10 WITTORSKI R., De la fabrication des complences, in education Permanente, n. 135/1998, p. 58. 11 Cfr con Bertolini P, L’esistere pedagogico, La Nuova Italia, Firenze, 1988, pp. 100-103. 12 ZAGHI P., L’educatore professionale, dalla programmazione al progetto, Armando Editore, Roma, 1995, p. 12. 13 Ivi, p. 13

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dell’improvvisazione, intesa come “rinuncia all’assunzione di quella responsabilità che le azioni ponderate e consapevolmente volute implicano”14. L’intenzionalità che guida l’educatore nel suo agire quotidiano conduce necessariamente alla responsabilità: “intenzionalità e responsabilità si giocano, in termini pedagogici, nella progettualità”15. Milani osserva come la progettualità dal punto di vista dell’educatore “si traduce nella ricerca e nella messa a punto delle strategie più efficaci in grado di interpretare continuità e discontinuità, contingenza o emergenza, e permanenza nella quotidianità”16. La progettualità è, perciò, lo strumento per dare corpo e sostanza all’intenzionalità, traducendola in un percorso (il progetto e la programmazione) che prospetta non solo fini, metodologie e strumenti, ma anche un preciso orizzonte di riferimento e una proposta di senso per l’educatore e per il soggetto in-formazione”17. Competenze trasversali Per competenza trasversale si intende “la competenza che si fonda su alcune attitudini della persona che si possono educare, valorizzare, arricchire”: è una competenza che è, inoltre, in grado di generare e costruire altre competenze18, e che è necessaria in diversi ambiti lavorativi e in professioni anche non necessariamente educative. Competenze di base “Si definiscono competenze di base le capacità di padroneggiare situazioni, attivare metodologie, elaborare progettualità coerenti con l’intervento educativo”19: sono perciò competenze necessarie e indispensabili, senza le quali non si può neanche parlare di professionalità pedagogica. Competenze specifiche “Per competenze specifiche si intendono le competenze relative ai differenti profili professionali pedagogici”20 e ai diversi contesti e ambiti di azione. Questo tipo di competenza può essere “occasione, strumento e motivo di arricchimento dell’agire educativo specifico e contestualizzato”21 nei vari ambienti e nelle varie situazioni in cui l’educatore professionale si trova a operare. La competenza cardine La gestione della relazione educativa è considerata da L. Milani come competenza cardine: “la relazione educativa si pone come uno degli interventi più significativi attraverso cui si svolge la progettualità educativa”22.

14 Ibid. 15 MILANI L, Competenza pedagogica, cit., p. 114 16 Ivi, p. 115 17 Ivi, p. 148 18 Ivi, pp. 96-97 19 Ivi, p. 98 20 Ivi, p. 102 21 Ivi, p. 103 22 Ivi, p. 178

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CAPITOLO 2 I DIVERSI TIPI DI RELAZIONE PROFESSIONALE: QUESTIONI TERMINOLOGICHE E AMBITI D’INTERVENTO 2.1 La relazione d’aiuto La relazione di aiuto è l’oggetto dell’intervento di diverse professioni sociali e sanitarie, dall’assistente sociale allo psicologo, dal riabilitatore al medico, dal terapeuta all’infermiere. Sin dalla sua etimologia, il termine “relazione”, che deriva dal latino “relatione” e “relatus”, participio passato di “referre”, ovvero riferire” ha strettamente a che fare con il legame. Infatti, il termine latino “ferre” significa portare, da cui “referre”: “riportare”. È, dunque, insita nella relazione la reciprocità, dove, per la sussistenza del legame stesso, è necessario che siano implicati almeno due soggetti che hanno un reciproco interesse a frequentarsi. L’associazione del termine “relazione” ad aiuto ha implicazioni significative: Il termine “aiuto” (proviene dal latino tardo “adiutu”, voce del participio passato del verbo “ad-iuvare”, dove “iuvo” significa “giovare ”, “essere utile ”, “favorire”. La relazione d’aiuto è, dunque, in favore di qualcuno, di un altro soggetto a cui si rivolge l’intervento, di qualunque natura esso sia. Le diverse professionalità precedentemente citate danno una propria specificità al termine “aiuto”, connotando il proprio intervento su alcuni determinati aspetti, che vengono a costituire l’oggetto e le finalità della professione, e ne delimitano le metodologie, gli strumenti e le tecniche. Il primo a definire con precisione e con un’ottica metodologica interessante per gli operatori sociali la relazione d’aiuto è stato lo psicologo americano Carl Rogers, nel 1951. Egli intende, con il termine relazione di aiuto, “una relazione in cui almeno uno dei due protagonisti cerca di favorire nell’altro la crescita, lo sviluppo, la maturità e il raggiungimento di un modo di agire più adeguato ed integrato nell’altro”.23 Secondo l’approccio della terapia centrata sul cliente, il paziente deve trasformarsi in cliente. Ciò significa che il fulcro della relazione d’aiuto consiste, quindi, nel riconoscimento dell’altro: reciprocamente, l’operatore e il paziente devono riconoscersi come portatori di specifici bisogni e di specifiche risorse. Compito principale dell’operatore è fare sì che il cliente voglia consapevolmente investire le proprie energie nella relazione. Neanche il migliore degli operatori, infatti, può risolvere da solo i problemi dei suoi utenti, se essi non si fanno parte attiva del processo di apprendimento e cambiamento. È, dunque, necessario costruire un’intenzionalità comune tra operatore e paziente, che permetta a quest’ultimo di farsi carico in prima persona dei suoi problemi e della loro risoluzione, senza attendere la soluzione dall’esterno. E proprio qui sta la differenza tra paziente e cliente, nell’accezione che ne propone Rogers: se il paziente subisce l’intervento dell’operatore, attendendosi la guarigione grazie all’aiuto di qualcun altro, soprattutto se quest’ultimo è uno specialista, il cliente diviene consapevole dei suoi bisogni e delle sue risorse e si attiva per uscire autonomamente, pur con il sostegno dell’operatore, dalla situazione problematica. 23 ROGERS C., Client-Centered Therapy. Its Current Practice, Implications, and Theory, Houghton Mifflin, Oxford, 1951.

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2.2. La relazione educativa La relazione educativa è una tipologia particolare di relazione d’aiuto, che trova il suo campo privilegiato d’applicazione nell’ambito educativo e socio-assistenziale più che in contesti terapeutici o clinici. Essa può essere definita come un accompagnamento di durata più o meno lunga, che interviene sullo stile di vita degli individui e mira a condurli all’identificazione del proprio benessere e a dotarsi degli strumenti atti a conseguirlo e a preservarlo, per mezzo di un progetto individualizzato e provvisto di metodi, obiettivi e criteri di monitoraggio sempre valutabili. Essa si differenzia dalla relazione d’aiuto per una serie di ragioni: - l’assenza di finalità curative; - una maggiore intensità nel quotidiano; - la presenza di un progetto educativo, invece che di un progetto terapeutico. La relazione educativa mira a dotare l’individuo degli strumenti atti a compiere quel processo di simbolizzazione e cambiamento necessari a mutare atteggiamenti, comportamenti e modi di pensare. Si può dire che, specialmente con utenti adulti, la relazione educativa interviene sullo stile di vita delle persone. Per questo motivo, necessita di tempi lunghi e di una certa intensità nella frequenza degli incontri, in quanto assume spesso la forma di un accompagnamento competente e consapevole da parte dell’operatore nei confronti dell’educando. La costruzione di un rapporto significativo con l’utente, infatti, è fondamentale, “dal momento che ogni maturazione o cambiamento è impossibile in assenza di un coinvolgimento attivo dell’attore”24. In letteratura vengono comunemente individuati due tipi differenti di relazione educativa: quella autoritaria o direttiva e quella autorevole. La relazione educativa autoritaria si riconosce per il frequente ricorso a pratiche impositive o perlomeno direttive, quali:

• presentare norme rigide • insistere sulla superiorità dell’operatore • mostrare riservatezza e distacco • attivare forme di controllo e punizione • trascurare i bisogni/interessi degli educandi • dare ordini e comandi • comunicare in modo impersonale

La relazione autorevole si basa, invece, sul riconoscimento del valore dell’operatore da parte degli educandi. Essa viene comunemente distinta in relazione euristica, tipica del contesto scolastico, e relazione d’accompagnamento, caratteristica del contesto extra-scolastico. Entrambe sono contraddistinte da pratiche quali:

• non imporsi come guida ma venire riconosciuto come tale • non imporre le regole, ma spiegarle • rendere protagonisti gli educandi • instaurare un rapporto dialettico • condividere obiettivi e mezzi • tenere un comportamento coerente • motivare gli educandi

Le modalità relazionali autorevoli sono senz’altro da preferire, in quanto non solo si basano sul rispetto e sulla valorizzazione dell’altro, ma contribuiscono anche a

24 BRANDANI W., ZUFFINETTI P. (a cura di), Le competenze dell’educatore professionale, cit., p 17

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rendere partecipe l’educando, o meglio, per utilizzare le parole di Rogers, a renderlo cliente. Una buona relazione educativa, tuttavia, è quella capace di fare riferimento anche alle prassi tipiche della relazione autoritaria, qualora la situazione lo renda necessario. Per esempio, non bisogna commettere l’errore di pensare che una relazione autorevole possa fare a meno di regole. Discutere le regole e spiegarle non significa certo rinunciarvi. Per questo, è possibile (non obbligatorio!) che per esigerne il rispetto, una volta che sono state condivise, si debba ricorrere a modalità tipiche della relazione autoritaria. L’importante è non fare uso esclusivamente o in maniera prioritaria di modalità autoritarie, perché esse determinano uno sbilanciamento dei ruoli tra operatore e utente, con la conseguente impossibilità per l’educando ad assumere un ruolo attivo all’interno della relazione. Si tratta, quindi, di trovare il giusto equilibrio tra le differenti prassi educative, sapendo che in tutti i casi una relazione autoritaria ha ben poche possibilità di rendere cliente il paziente. Per tenere sotto controllo le proprie modalità relazionali Reinhard e Anne-Marie Tausch hanno elaborato il modello seguente, a cui l’operatore può fare riferimento per “misurare” la propria relazione.

CONTROLLO MAX.

DISTACCO EMPATIA

CONTROLLO MIN.

FONTE: Valutazione pratica del comportamento educativo (Tausch R. e A., Psicologia dell’Educazione, Roma, Citta Nuova Editrice, 1973)

A determinare il tipo di relazione è la distanza che l’operatore riesce a tenere tra estremi quali:

• Distacco ed empatia; • Controllo e libertà; • Dipendenza e autonomia;  

2.3 Le caratteristiche della relazione Benchè differiscano tra loro per contesto e per modalità di applicazione, relazione d’aiuto e relazione educativa posseggono molte caratteristiche comuni. In letteratura sono individuati alcuni fattori che possono contribuire o nuocere alla relazione, in base a come vengono sfruttati. Essi vengono comunemente distinti in - fattori istituzionali: hanno a che fare con il contesto amministrativo e burocratico

in cui avviene la relazione. Anche se ciò non è immediatamente evidente neppure per gli operatori, l’organizzazione del servizio, i vincoli di tempo e di gerarchia, le precedenti esperienza del paziente con il servizio stesso, influiscono notevolmente sulla relazione. È, quindi, opportuno tenere conto di tale fattori nel

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momento in cui si intraprende o si progetta una relazione, al fine di non trovare ostacoli di natura istituzionale lungo il percorso.

- fattori situazionali: sono quei fattori legati alle circostanze in cui di volta in volta avviene la relazione. È innegabile che esistano luoghi, momenti e contesti sociali e ambientali che favoriscono un buon andamento della relazione, mentre altri la rendono più difficoltosa. L’eco, anche involontario, di un episodio traumatico può disporre negativamente l’altro, così come una “giornata storta” rischia spesso di condizionare anche l’operatore. Si tratta di elementi che devono essere tenuti nella dovuta considerazione dagli operatori, sia nella lettura del proprio atteggiamento, sia nella comprensione di quello altrui, in quanto rischiano di pesare molto sulla relazione.

- contesto emotivo: è normale incontrare persone con le quali ci sentiamo immediatamente in sintonia, che ci attirano per qualche motivo che spesso facciamo fatica a comprendere. Ciò avviene anche ai nostri utenti. In un caso come nell’altro l’operatore corre il rischio di non essere lucido e di perde il sufficiente distacco nel prendere decisioni e nel definire il proprio comportamento. Non è, infatti, solo una scarsa empatia che nuoce alla relazione, ma anche troppa vicinanza con l’altro.

- fattori personali: un ultimo fattore influisce in maniera preponderante nella relazione, ovvero le caratteristiche di colui che che attua l’intervento: per questo motivo, chi si dedica alle professioni educative e di aiuto non può e non deve prescindere da un approfondito lavoro di conoscenza di sé, in quanto il sé non rimane fuori dalla relazione di aiuto ma ne costituisce piuttosto il fondamentale veicolo. La conoscenza di sé richiede tempo e volontà ma è un passaggio imprescindibile anche per chi voglia, volontariamente, dedicare risorse e disponibilità in un’attività fondata sulla relazione con l’altro. La conoscenza di sé porta non tanto ad essere “perfetti”, quanto all’acquisizione di una maggiore consapevolezza delle proprie caratteristiche caratteriologiche e psicologiche, delle proprie modalità di reazione, delle proprie risorse e dei limiti, delle difficoltà, delle paure, delle resistenze e della propria storia personale. Non è, infatti, possibile entrare in relazione con un altro, se non si è capaci di “stare in relazione” con se stessi.

2.4 Le competenze relazionali La relazione d’aiuto implica che l’operatore acquisisca una serie di competenze senza le quali la relazione diviene difficile. Le principali sono: - l’empatia - l’ascolto empatico - la fiducia e l’interesse nell’altro - l’accettazione - l’osservazione - la comunicazione - la negoziazione - la progettazione • Secondo Jaques Salomè “l’empatia è l’insieme dei segnali che circolano in

ogni relazione in cui una persona facilita lo sviluppo o la crescita di un’altra, la aiuta a maturare, ad adattarsi, ad integrarsi o a mettere a frutto la sua esperienza”. In tal senso, la comprensione empatica permette di comprendere l’altro dal punto di vista di quest’ultimo; riconosce ciò che è reale o significativo per l’altro in un dato momento; cerca di sapere come l’altro vede

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e sente le cose e quali sono i suoi atteggiamenti personali di fronte ai vari aspetti della vita; vive in un certo modo l’esperienza dell’altro, purché non confonda i sentimenti e le percezioni dell’altro con i propri. L’esperienza mette però in evidenza che raramente possiamo essere certi di quello che un altro vuole dire o sente esattamente: perlopiù reagiamo secondo l’idea migliore che ci facciamo di quello che l’altro vuol dire in quel momento. Per questo, è opportuno rimanere sempre disponibili a correggere e modificare il nostro giudizio. Ciò non solo aumenta la possibilità di capire esattamente i pensieri e i sentimenti dell’altro, ma contribuisce a renderlo più libero, a permettergli di cambiare il suo modo di percepire o di formulare la sua esperienza, di esaminare altre opportunità e di dare alla sua esperienza un significato nuovo.

• L’ascolto empatico: come ricorda Milani, per entrare in relazione e conoscere l’altro bisogna saper superare anche il confine dell’osservazione scientifica, e attuare un “ascolto in profondità”: “ascoltare è un fare silenzio sui preconcetti, sui pregiudizi (anche scientifici) per far parlare la soggettività umana nella sua pienezza e nella sua complessità” . Un aspetto fondamentale su cui poggia la relazione educativa è l’empatia (dal greco εν-πάθος, “sentire dentro”). L’empatia è un’esperienza emotiva di condivisione mediata da processi cognitivi che permette di sentire le emozioni “l’ira, la paura, il turbamento del cliente, come se fossero nostri” , ed è il modo più autentico di entrare in relazione con l’altro .

• Fiducia e l’interesse nell’altro: E’ fondamentale essere fiduciosi che l’altro possiede una capacità di crescere e di sviluppare le sue possibilità e che il compito dell’operatore è quello di facilitare e mantenere (anche quando l’altro sembra avere perso le speranze) la sua aspirazione a crescere e a migliorare.

• Accettazione dell’altro: operatore e utente non devono sentire il bisogno di guadagnarsi l’approvazione dell’altro o la sua simpatia esprimendo o sopprimendo certi desideri e atteggiamenti o idee, fingendo, quindi, di essere altro da sé; specialmente l’educando, poi, deve avere tutta la libertà di essere quello che più profondamente e più completamente sente di essere in quel momento. Nella relazione egli deve poter verificare che non corre rischi nel percepire o ammettere le proprie debolezze, così come il proprio smarrimento o le proprie paure. Questo è possibile solo se l’altro viene accettato per quello che è. Allo stesso modo, va accettato che nella relazione non esista reciprocità. Non si tratta di uno scambio, di una relazione alla pari tra due persone che si incontrano, ma ciò che deriva all’operatore dalla relazione, in termini di gratificazione, soddisfazione, gratitudine, crescita, non è previsto né prescritto, ma gratuito, oltre che auspicabile e, per questo, non può essere richiesto o meno ancora preteso. Franta sottolinea come nell’agire educativo il comportamento relazionale si connota di alcune specifiche dimensioni: la “dimensione di controllo”25, la “dimensione emozionale”26, e la “dimensione di congruenza, trasparenza e autenticità”27. Quest’ultima dimensione rappresenta alcuni atteggiamenti fondamentali nella relazione educativa: congruenza, trasparenza e autenticità, infatti, facilitano il rapporto interpersonale e permettono all’educatore di interagire come persona vera e genuina.

25 FRANTA H., Atteggiamenti dell’educatore. Teoria e training per la prassi educativa, Las, Roma, 1988, p. 48 26 Ivi, p. 75 27 Ivi, p. 97

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• L’osservazione: “quando si parla di osservazione in riferimento alla relazione educativa, il termine assume una connotazione particolare in quanto l’oggetto non è il progetto in generale, né un determinato territorio, ma un particolare individuo (o un particolare gruppo) con cui si costruisce un rapporto”28.

• La comunicazione: “la relazione educativa, per attuarsi in profondità, richiede l’attivazione di una comunicazione adeguata e corretta”29. Infatti, come fa notare Milani, se può esistere una comunicazione senza relazione, “non può esistere una relazione senza comunicazione”30.

• La negoziazione, in quanto nella relazione educativa, l’educatore “non può sottrarsi alla dinamica del conflitto che può assumere, a seconda dei casi, una diversa consistenza” 31, ma che comunque “non va eliminato né fuggito, ma affrontato”32.

28 TRIANI P., Sulle tracce del metodo, cit., p 190 29 Ivi cit., p p. 192 30 MILANI L, Competenza pedagogica, cit., 165 31 TRIANI P., Sulle tracce del metodo, cit., p. 193 32 MILANI L, Competenza pedagogica, cit., 193

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CAPITOLO 3 Relazione d’aiuto e discorso medico 3.1 Qualche citazione nell’introduzione

Se ascoltate attentamente il paziente vi dirà lui stesso la diagnosi. Sir William Olser (1849-1919) Principi e pratica della medicina Paradossalmente, il paziente non è, rispetto a ciò che soffre, che un fatto esteriore; la lettura medica non deve prenderlo in considerazione, se non per metterlo tra parentesi. Michel Foucault (1926 -1984) Nascita della clinica È più importante conoscere quale paziente ha una malattia, piuttosto che quale malattia ha un paziente. Sir William Olser (1849-1919) Principi e pratica della medicina

Le pagine che seguono proveranno a rintracciare le coordinate della relazione d’aiuto nell’ambito delle professioni sanitarie, professioni che trovano nel discorso medico il proprio modello di riferimento. Per questo prenderanno in esame tre concetti:

• il discorso medico: come possiamo intenderlo e come si esplica nell’ambito delle relazioni di aiuto

• il corpo: come è inteso in medicina, cosa significa prendersene cura • la relazione d’aiuto (introduzione): cos’è e come può essere declinata

3.2 A proposito del discorso medico Se un falegname entra in un bosco, probabilmente non ci vede le stesse cose che vedrebbe un poeta. Non hanno la stessa concezione del bosco, anche se è esattamente lo stesso. Quello che vedono dipende dal loro modo di guardare, dall’attenzione a certi particolari, dalla loro concezione del mondo e soprattutto dal mestiere che fanno. Potremmo dire che ciascuno guarda le cose a partire dal proprio discorso di riferimento. Ogni discorso, infatti, consente di vedere certi fatti a condizione di inserirli all’interno di una propria logica. Impone un certo modo di guardare le cose, costruendo una vera e propria organizzazione di senso, come accade per il discorso medico. Ad esempio, l’osservazione del malato, che ogni studente di medicina impara, raccoglie tutto ciò che è catalogabile all’interno del discorso medico. È possibile, quindi, che tale osservazione scarti altri elementi che appaiono privi di interesse, in quanto non articolabili nell’ambito dei propri riferimenti concettuali. Le varie sofferenze non giustificabili dal punto di vista medico, i disturbi funzionali, dell’umore, del sonno, della sfera sessuale possono essere accolti con maggiore o minore buona volontà da chi può trovarsi completamente disarmato, sia di fronte alla necessità di darne un’interpretazione scientificamente accettabile, sia di prevederne una cura.

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Un modo autoreferenziale di intendere le diverse pratiche che fanno riferimento al discorso medico può portarle a scartare o a considerare superflui altri discorsi, compreso quello del malato stesso. Il paziente può ritrovarsi praticamente inascoltato se colui che lo cura ha come riferimento il proprio discorso e se, soprattutto, non ha da rendere conto a nessun altro che ai propri colleghi. Qualsiasi parere esterno può essere accomunato e ricondotto al medesimo statuto di incompetenza. Lo sviluppo della medicina scientifica, in effetti, ha modificato in profondità il rapporto tra ammalato e medico, producendo una riformulazione del classico triangolo ippocratico, costituito dalla malattia, dal malato e dal medico. La malattia è diventata, sempre di più, una entità indipendente e il malato è stato messo tra parentesi nella lotta tra il medico e la malattia. Il medico ritiene di non avere più bisogno dell’aiuto del malato - come nella medicina ippocratica - ma piuttosto della tecnica, del laboratorio, della farmacologia. Con la scuola anatomo-clinica, che localizza nelle lesioni degli organi la causa della malattia, con la teoria cellulare che sposta la sede delle lesioni a livello delle cellule, con lo sviluppo della microbiologia, che isola all’esterno dell’organismo i germi che sono la causa specifica delle malattie infettive, le malattie hanno una causa principale, che può essere individuata, e può essere eliminata. Con la microbiologia il luogo di risoluzione dei problemi di interpretazione etiologica si sposta dal letto dell’ammalato al laboratorio. Il moltiplicarsi degli esami rende sempre meno importante l’incontro del medico con l’ammalato e la partecipazione di più specialisti allo stesso caso fa sì che il rapporto medico-paziente sia sempre più evanescente. La medicina, nella sua struttura conoscitiva è diventata impersonale, dedicandosi allo studio di fenomeni “universali”, comuni a tutti. Marco Bobbio ne propone un bell’esempio: “In una riunione di aggiornamento, una giovane dottoressa, competente e aggiornata, presenta il caso di una persona sottoposta, nell’arco degli ultimi due anni, a ripetute dilatazioni delle arterie coronariche (angioplastica). La collega documenta ogni ricovero con le immagini delle coronarografie e degli interventi eseguiti. Alla fine della presentazione ferma l’immagine sulla lesione osservata durante l’ultima coronarografia e chiede all’uditorio: cosa fareste ora? Chi propende per un’ulteriore angioplastica, chi per indagini diagnostiche più sofisticate, chi per aumentare il numero di medicine, chi per un intervento di bypass. Il pensiero dominante è che si possa decidere il destino di un paziente, valutando soltanto alcuni millimetri di una sua coronaria, senza sapere nulla della sua vita, della sua famiglia, delle attività quotidiane che svolge e di quelle che ha intenzione di programmare, delle sue aspettative, dei suoi progetti, delle sue paure e dei suoi desideri. Eppure l’intera vita di un uomo non può ruotare esclusivamente intorno a una parte piccolissima del suo organismo, come se quella lesione non avesse alcuna relazione con il resto della sua esistenza. La medicina odierna ritiene che la decisione terapeutica debba essere la stessa per un magnate californiano, un minatore africano, una professionista londinese o un contadino delle nostre valli alpine; indipendentemente dal fatto che abbia una famiglia o che viva da solo in una baita; che abbia progetti lavorativi da concludere o sopravviva con un angosciante taedium vitae.”33 In effetti la medicina, come ogni altra scienza, ha dovuto operare una vera e propria esclusione del soggetto. La sua stessa passione per l’oggettività, per l’universalità, l’ha spinta in questa direzione. Per il discorso medico la salute è pensata come normalità e la malattia come deviazione patologica dalla normalità. Una volta definiti i parametri della normalità,

33 BOBBIO M., Il malato immaginato. I rischi di una medicina senza limiti, Einaudi, 2010

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attraverso valori quantificabili e misurabili, la malattia può essere definita come variazione dalla norma. Questo modello positivistico è stato messo in discussione da Georges Canguilhem34, che sostiene che, se la normalità è definita dal possesso di requisiti quantificati di valori, di cifre, di parametri calcolati in laboratorio, si produce una duplice perdita: da una parte si cancella la sofferenza vissuta dal malato, la differenza che avverte rispetto alla salute; dall’altra si riconduce la vita all’ambiente artificiale del laboratorio.35 Per Canguilhem la concezione della malattia deve essere ricondotta alla esperienza del malato ed è tale quando costituisce un ostacolo rispetto alla sua normale esistenza. In tal senso, sostiene che “non si dà patologia oggettiva: si possono descrivere oggettivamente delle strutture e dei comportamenti, ma questi non si possono considerare patologici sulla base di un criterio puramente oggettivo”36. In tal senso la guarigione dovrebbe essere valutata solo in termini di soddisfazione soggettiva del malato, poiché la medicina di oggi non definisce la salute in base al “sentirsi bene” dei soggetti, ma in base alla rilevazione di dati oggettivi, che sono la risultante di analisi di laboratorio. Dunque, cos’è la malattia, che cos’è il patologico se si esclude il soggetto? Questo problema, che è senza dubbio di competenza della medicina, è stato paradossalmente eluso dalla medicina stessa man mano che andava ad assumere un metodo scientifico. In tal senso, anche la figura del medico o degli operatori paramedici tendono a sbiadire, all’interno degli ingranaggi dell’apparato specialistico che alimenta il loro discorso. Sempre meno riescono a prendere posizione nelle relazioni di aiuto in cui sono implicati. Perché lo stesso discorso medico è attraversato da una linea interna di divisione: da una parte è indagine scientifica, che condivide lo statuto sperimentale delle scienze, dall’altra è una pratica clinica, chiamata quotidianamente a confrontarsi non solo con le particolarità dei singoli soggetti, ma anche a decidere su questioni essenzialmente etiche, addirittura ai confini della vita e della morte. È possibile che la pratica clinica trovi nella scienza, e nei protocolli, una difesa, se non un alibi, che metta al riparo dallo smarrimento che si produce nel confrontarsi con simili questioni? Possiamo pensare che l’evoluzione del discorso medico in una direzione sempre più tecnologica abbia aiutato a rimuovere la grande questione con cui fa fatica a confrontarsi, l’essenziale del proprio oggetto, costituito dall’imprescindibile elemento soggettivo che rende ogni caso diverso da un altro? In effetti, che cosa è la malattia può essere facilmente spiegato se non teniamo conto del malato. La medicina odierna è in grado, perfettamente, di mettere in atto procedure di diagnosi e cura. Ma la stessa domanda rimane una questione aperta – vedi il caso di Bobbio – se teniamo conto che esiste un soggetto che ha quella malattia. 3.3 La relazione d’aiuto in medicina Dunque, è importante tener conto del tipo di relazione che si instaura in una relazione di aiuto. Se separiamo la malattia e il malato definiremo un modo particolare del prendersi cura e una particolare declinazione della relazione di aiuto. L’entrare in relazione dell’operatore con il paziente verrà considerato, il più delle volte, solo come un momento necessario al dispiegamento della scienza medica, una semplice giustapposizione tra curante e curato. Non è detto, quindi, che il curante, incontrando 34 CANGUILHEM G., Il normale e il patologico, Einaudi 1988 35 FOCCHI M., La mancanza e l’eccesso. Che cosa significa guarire?, Antigone, 2006 36 CANGUILHEM G., Il normale e il patologico, op. cit.

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il paziente, tenga conto dell’instaurarsi di una relazione e ne colga le implicazioni. Non è detto, per altro, che la domanda di prestazioni mediche e di tutela della salute, venga riconosciuta come una domanda che porta con sé e sottende, anche altre domande, meno esplicite ma non meno importanti. Anche se le preoccupazioni connesse alla salute, quali la paura di invecchiare, di provare dolore, di morire, attraversano le relazioni terapeutiche e ne condizionano, molto spesso, l’andamento. Dunque, il medico, o qualsiasi operatore, nell’incontrare il paziente, che lo voglia o no, vede coinvolta la propria soggettività, la propria capacità di stare in una relazione attraversata da movimenti emotivi talvolta anche intensi. Riconoscere gli aspetti relazionali del percorso terapeutico comporta una consapevolezza delle implicazioni e degli eventuali rischi che ne possono derivare. Comporta anche un’attenzione al paziente, alle sue domande esplicite e a quelle che implicitamente si formulano nella relazione. La capacità di farsi carico di questi aspetti consente al paziente di sentirsi preso in carico, all’interno di una relazione che non si limita ad un’attenzione concentrata sull’organo malato. È importante dunque prendere in considerazione l’idea che i sistemi di cura non possono essere pensati solo in relazione al loro compito esplicito, relativo alla tutela della salute, ma, necessariamente, anche per le risposte che saranno in grado di offrire ad esigenze più profonde che emergono con la presenza di una malattia o con il timore che questa si manifesti. Questo significa che ogni malattia, proprio perché non può prescindere da chi ce l’ha, comporta sempre, in un certo senso, un aspetto psicologico. Non può prescindere dagli aspetti emotivi che l’accompagnano. In effetti, l’ingresso del paziente nel discorso medico modifica il corso della malattia. Modifica il rapporto tra l’ammalato e la sua malattia. Anche la domanda di essere guarito, che sembra assolutamente scontata, non è detto che caratterizzi la relazione con il discorso medico. “Quando il malato è inviato presso un medico, o quando ci va direttamente, non dite che egli si aspetta puramente e semplicemente la guarigione. Egli mette il medico alla prova per farlo uscire dalla sua condizione di malato, cosa che è molto differente, perché questo può implicare che egli possa essere completamente attaccato all’idea di conservarla. Talvolta, viene proprio per domandarci di legittimarlo come malato. In altri casi viene, nel modo più evidente a domandarci di preservarlo nella sua malattia, di curarlo nel modo a lui più conveniente, quello che gli permetterà di essere ben collocato nella sua malattia.”37 Sarebbe dunque importante prendere in considerazione l’ipotesi che alcune forme di malessere e di sofferenza non si aspettano una soluzione e, soprattutto, non si aspettano una soluzione medica. Conosciamo persone che soffrono costantemente di qualche malessere e che sembrerebbero incapaci di vivere senza le loro piccole sofferenze. Questo ci porta a pensare al sintomo in modo diverso dalla concezione medica. Che non è semplicemente il segno dell’esistenza di una malattia, è soprattutto il rappresentante di una verità soggettiva, che si dice attraverso il corpo. Per molti ammalati la malattia può consentire una soluzione identitaria, uno statuto familiare e sociale, che altrimenti non riuscirebbero ad ottenere. Ci sono casi in cui una malattia, un incidente, una menomazione, intervenuti nella vita di una persona possono consentirle una trasformazione dei suoi rapporti con il mondo, offrendole la possibilità di ritagliarsi un posto che altrimenti non sarebbe possibile. La malattia può costituire una sorta di biglietto da visita, che consente di declinare in un certo modo i rapporti umani; o di stabilirli, a cominciare da quello che si stabilisce

37 LACAN J., Psicoanalisi e medicina.

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con il medico. Non è detto che debbano essere soddisfacenti. Non è soddisfacente il rapporto con la malattia, ma questo non esclude che la si possa ricercare, non solo per ottenere una forma di riconoscimento. Basti pensare alle conseguenze, apparentemente facili da evitare, dell’abuso di alcol, fumo, sostanze stupefacenti, cibo, sesso non protetto. Trascurare queste complicazioni significherebbe trascurare il carattere unico e singolare dell’esistenza umana. Significherebbe dare per scontato che gli esseri umani seguano naturalmente la via universale del cosiddetto benessere. Quando Freud ha ipotizzato l’esistenza di un “al di là del principio di piacere”, intendeva mettere in evidenza il carattere del tutto particolare dell’esistenza umana, che va al di là della mera condizione naturale, “al di là del principio di piacere”. In questo al di là non possiamo reperire nessun principio universale, tanto meno di un ipotetico bene, che ciascuno definisce singolarmente. Come avviene? 3.4 La costruzione del corpo Quando nasce un bambino ci troviamo di fronte ad un piccolo enigma. Con lui le cose non funzionano come con qualsiasi altro essere. Una farfalla, un gabbiano, una pianta rispondono a una condizione naturale che rende la loro esistenza, tutto sommato, prevedibile. La natura li ha dotati di un patrimonio genetico che consente di affrontare la vita e i suoi sviluppi senza ulteriori istruzioni. Una pianta, poi, una volta assicurato il nutrimento, non ha bisogno di altre piante per sopravvivere, e così gli animali. Per gli esseri umani, invece, la vita è irrimediabilmente “snaturata”. La natura non ha predisposto istruzioni, percorsi lineari, tappe prevedibili. Tant’è che un bambino non saprebbe cavarsela da solo. Sappiamo che il suo comportamento, la sua sopravvivenza dipenderanno da qualcosa di esterno a lui, dall’ambiente che lo accoglie. Non tanto e non solo perché ha bisogno di cure e di nutrimento, che non sarebbe in grado di procurarsi. Ma perché, come accadeva e accade tuttora a molti bambini istituzionalizzati, la passione per la vita e la possibilità di sopravvivere non dipendono semplicemente dal cibo o da un modo anonimo di accudimento. Per un bambino molto dipende dal modo in cui viene accolto e in cui può sentirsi chiamato a partecipare alla vita. Dunque non basta venire al mondo, non basta nascere biologicamente. Occorre una seconda nascita. Una nascita che gli consenta di diventare un piccolo soggetto, che prende posto nel mondo. Quando questo non avviene, rimane in una sorta di vita sospesa, quasi evanescente. Questo tipo di vita, ai confini della vita, è rappresentato benissimo da Amélie Nothomb in Metafisica dei tubi. La bambina protagonista è descritta come un essere completamente indifferente a ciò che la circonda, ridotto alle sue funzioni corporali: un tubo. Che ingoia, deglutisce ed espelle. Almeno fino a quando incontra la sua nonna, che si avvicina a lei riconoscendole una soggettività e, soprattutto, offrendole del cioccolato bianco. In quell’offerta, che non è una semplice offerta di cibo, la nonna trasmette il suo piacere per il cioccolato e anche il desiderio che la bimba lo apprezzi. La nascita di Amélie, la sua seconda nascita, si verifica quando il mondo anonimo e indifferenziato degli adulti viene vivificato dal desiderio. Quando il desiderio della nonna chiama in causa il suo. Dunque ha ragione un bambino a chiedere da dove vengono i bambini. Perché non sono il frutto di una semplice circostanza naturale. Infatti, quando gli avremo spiegato le condizioni biologiche della sua nascita il piccolo chiederà: “Ma dov’ero prima di essere nella pancia della mamma?” In effetti, un bambino può nascere simbolicamente perché esiste già prima della nascita, perché esiste nel desiderio dei

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genitori. La costituzione di un essere umano avviene, dunque grazie all’incontro con il desiderio dell’altro. L’esperienza dello specchio accompagna questa fase delicata in cui costruisce la propria soggettività. Tra i sei e i diciotto mesi, infatti, il bambino riconosce la propria immagine allo specchio; la prima consapevolezza di sé coincide con la consapevolezza dell’immagine del proprio corpo. Perché questo avvenga non sarà indispensabile lo specchio ma, piuttosto, come nel caso di Amélie, un adulto che consenta al bambino di riconoscersi. Sarà un adulto a consentire al bambino di limitare lo stato di impotenza e frammentazione in cui è immerso, riconducendo il suo essere ad un recipiente corporeo, ad una identità possibile. Grazie alle indicazioni che riceve, il bambino può concludere che è proprio lui quello che vede allo specchio. Questa circostanza mette in evidenza la dipendenza di ciascun soggetto nei confronti dell’altro, poiché è possibile rappresentare se stessi solo partecipando al discorso di altri. Allo specchio infatti un bambino coglie la propria immagine partecipando al punto di vista dell’adulto. Cogliere la propria immagine allo specchio permette un legame tra il soggetto e l’altro, tra il soggetto e il proprio corpo, in un’operazione che, in un certo senso, umanizza il corpo; lo rende, cioè, qualcosa di diverso da un semplice organismo. Questo consente al bambino di non “essere” quel corpo, ma di “averlo”, di poterlo abitare in un certo modo, di farsene una rappresentazione. Dunque, quando nasce, un bambino non sarà guidato dall’istinto. Non avrà il suo libretto di istruzioni, ma sarà in grado di apprenderle dal mondo che lo accoglie, dal mondo degli adulti. Non si tratta di indicazioni secondarie - parlare una lingua piuttosto che un’altra, imparare a suonare piuttosto che a dipingere – si tratta di indicazioni che gli consentiranno di entrare a pieno titolo tra gli esseri umani. Dopo tutto, camminare in posizione eretta invece che a quattro zampe non avviene naturalmente. Anche questo è possibile grazie alla relazione che instaurerà con la sua famiglia, la sua lingua, la sua cultura, con tutto ciò che possiamo definire il mondo dell’Altro. Questo spiega il fatto che si dia importanza all’educazione. Perché i bambini possano fare buone esperienze, possano relazionarsi in un modo congruo con l’ambiente che li circonda. Gli esseri umani hanno sviluppato una capacità impressionante di imparare: nello sport, nelle arti, nella cultura. Il corpo stesso impara continuamente adattandosi non solo all’educazione che riceve, ma alla cultura del tempo ai modi di produzione. Il corpo, dunque, non è un mero dato naturale, così come non lo sono i suoi bisogni. Basti pensare a quanto sono poco naturali i bisogni legati al cibo, al sesso, al sonno. Tutti ambiti in cui possono manifestarsi difficoltà, eccessi, complicazioni, che sono sostanzialmente il frutto dello snaturamento della nostra condizione. Gli esseri umani, dal momento che entrano nel sistema delle relazioni, nella rete della cultura e del linguaggio, modificano la loro natura e il corpo stesso entra in un particolare rapporto con il mondo che lo circonda. Può essere un rapporto che si traduce in momenti di piacere o di dolore, può tradursi in una malattia psicosomatica, oppure in una forma di condizionamento. Foucault ha messo molto bene in evidenza come, a partire dalla prima rivoluzione industriale, il corpo è stato oggetto di una attenzione meticolosa degli apparati di potere. L’affermarsi della società-fabbrica, fondata sulla ripartizione razionale della forza lavoro, ha visto nella adattabilità e nella flessibilità del corpo la possibilità di renderlo un ingranaggio perfettamente sincronizzato nei processi produttivi.

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3.5 Il corpo macchina Se noi non siamo un corpo, ma abbiamo un corpo, il corpo può essere pensato, organizzato, abitato, a seconda della cultura del tempo. La nostra cultura risente ancora dell’idea che Cartesio ha dato del corpo. Una pagina, giustamente famosa, di un suo trattato che ha per titolo L’uomo, si apre con un’immagine: immaginiamo, propone Cartesio, che il corpo umano sia una macchina. Una macchina perfetta, che Dio stesso ha costruito. Poi Cartesio elenca i componenti della macchina, descrive l’azione di ogni organo dell’automa, paragona quegli organi alle macchine più diffuse del tempo, con i tubi, gli stantuffi, le pompe. Se l’uomo è una macchina, strabiliante ma comprensibile, è possibile smontarla e rimontarla, è possibile aggiustarla e renderla più efficace e più bella di prima. Da questo punto di vista gli effetti sono diventati oggi notevoli. La scomposizione del corpo, che viene ricondotto ai suoi componenti, ha facilitato un approccio fondato soprattutto sulle specializzazioni. Già Dostoevskij ne aveva colto le implicazioni: Se si ammala il naso ti mandano a Parigi: là c’è uno specialista europeo per i nasi. Arrivi a Parigi. Là lui ti visita il naso: “io vi posso curare solo la narice destra”, ti dice, “perché la narice sinistra non la curo, non rientra nella mia specialità, ma dopo andrete a Vienna, là c’è uno specialista proprio per la narice sinistra”. 38 Se il corpo può essere pensato come una macchina se ne possono misurare e incrementare le prestazioni, può essere riparato, se ne possono sostituire i pezzi difettosi. Il corpo, come qualsiasi altra macchina, può essere sottoposto al principio di prestazione .39 Al talento visionario di Junger dobbiamo una descrizione impareggiabile delle mutazioni, trasformazioni, amputazioni, estensioni, alle quali il corpo vivente deve sottostare per adeguarsi agli imperativi del principio di prestazione. Junger era tornato dai campi di sterminio della prima guerra mondiale, con la stessa eccitata consapevolezza di chi, durante una prova estrema, ha avuto una rivelazione. La sua testimonianza non fu quella del reduce, ma quella dell’illuminato. Nelle “tempeste d’acciaio” aveva visto l’avvento di qualcosa di inaudito, che avrebbe dominato l’umanità nell’epoca futura, mutando radicalmente e irreversibilmente la natura dei rapporti umani. Le trincee in fiamme non “assomigliavano” alla fabbrica, “erano” la fabbrica moderna con la sua organizzazione tayloristica del lavoro, trasportata al fronte. L’umanità in trincea era diventata definitivamente materia prima, risorsa disponibile, da sfruttare fino all’esaurimento. Per Junger il soldato al fronte è a tutti gli effetti un mutante così come lo è il lavoratore in fabbrica. La disciplina che si richiede ad un corpo per corrispondere all’esigenza della performatività è infatti inflessibile. Gli esempi sono innumerevoli. Celebre è la foto di quel “geniere guastatore della Compagnia della Morte” che la pesante ”arcaicizzante” armatura protettiva trasforma in una specie di strano scarafaggio proto-tecnologico. Ancora più straordinarie (e ancora più insopportabili) sono le immagini dei reduci della prima guerra, menomati dalle bombe e ricostruiti da una primitiva chirurgia estetica, raccolte dai documentaristi Angela Ricci Lucchi e Yervant Gianikian, nell’ultimo capitolo della loro trilogia sulla guerra 15-18. Ma il dato comune è la presenza del dolore, compagno naturale di ogni processo di disciplinamento del corpo. Il corpo mobilitato è un corpo sofferente, in pace come in guerra. Se, nel caso della guerra, la cosa va ovviamente da sé, nel caso della pace la 38 DOSTOEVSKIJF., I fratelli Karamazov, Einaudi 39 MARCUSE. H., Eros e civiltà, Einaudi

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sofferenza del corpo è data dall’insieme di pratiche cui esso deve comunque sottomettersi per mantenere e incrementare la sua efficienza: nel lavoro, nella vita quotidiana, nello sport, nelle relazioni affettive. Il corpo sotto stress da performance è il corpo moderno. È il corpo-risorsa, il corpo usurato fino all’esaurimento delle sue possibilità. È il corpo dell’atleta o del soldato, il corpo del fotomodello o della mannequin, un corpo sottomesso, controllato, disciplinato, sottoposto alla prova iniziativa del dolore.40 La medicina ha portato alle estreme conseguenze la sua capacità di incidere sul corpo, di trasformarlo, di modificarlo per cancellare i segni del tempo. La desacralizzazione del mondo lo ha reso non solo disponibile alla conoscenza umana, ma anche alla sua manipolazione e trasformazione. Il corpo ha perso “la sua coappartenenza ai fiumi e alle montagne, al mare e alle stelle, agli alberi e alle sorgenti; e queste cose stesse perdono la loro coappartenenza originaria all’esperienza del corpo, per essere ricondotte a fonti di energia utilizzabile e impiegabile, cioè a “congegni” manipolabili che non hanno più in sé la loro ragione d’essere”41 DOCUMENTARIO: IL CORPO DELLE DONNE di Lorella Zanardo42 3.6 Medicina e biopolitica Dunque, il discorso medico ha assunto un ruolo determinante, alla ricerca di rimedi sempre più avanzati, promettenti, potenti. Il compito che gli è stato affidato, secondo Michel Foucault, è stato anche quello di costituire una sorta di potenziamento del nostro sistema immunitario, per la salvaguardia della salute. Le riflessioni di Foucault sulla biopolitica, riprese ed integrate da Roberto Esposito in molti scritti e soprattutto in Immunitas, hanno messo in evidenza come il paradigma immunitario, che ha caratterizzato i nostri anni più recenti, nato per proteggere la vita, allo stesso tempo ne ha autorizzato la distruzione. Uno dei fenomeni fondamentali del XIX secolo è per Foucault, la presa in carico della vita da parte dello Stato che, a un certo punto, ha iniziato a interessarsi dell’uomo in quanto essere vivente. E’ stata questa una trasformazione radicale nell’ambito del diritto politico, che si è legato sempre di più a un potere che gestisce la vita, che la organizza e la fa crescere, piuttosto che bloccarla o distruggerla. All’antico “diritto di morte”, rappresentato dalla spada, che qualificava il potere del sovrano, si è sostituito, caratterizzando il mondo moderno, un inedito “potere sulla vita”. Ne deriva un ampliamento della sfera dell’intervento dello Stato a una grande quantità di problemi: il lavoro, la sicurezza sociale, la salute, il benessere “l’indispensabile, l’utile e il superfluo”. Mentre la disciplina si presenta come una politica esercitata sui corpi e si applica essenzialmente agli individui, la biopolitica rappresenta una grande “medicina sociale” che si applica alla popolazione, per governarne la vita. La nascita della biopolitica va di pari passo con la nascita della sicurezza sociale. I primi oggetti d’indagine sono stati i problemi legati al controllo delle nascite, alla mortalità, alla longevità. Il sapere medico ha iniziato a prendere in considerazione le epidemie, le malattie responsabili dei cali di produzione e dei costi economici. Le diverse forme di manipolazione nel campo della genetica incarnano la tendenza a rendere la vita controllabile, regolabile e modificabile.

40 Tratto da: RONCHI R., Bellezza e usura. Come fabbricarsi un corpo non nazista?, in MIEROLO G. e RODRIGUEZ M.T., Il disagio della bellezza, Franco Angeli 41 SINI C., Il profondo e l’espressione, Lanfranchi, p. 42 42 http://www.youtube.com/watch?v=5m4oM_gcZe4

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Per comprendere meglio questa idea, è utile una distinzione ripresa da Agamben: quella tra zoé e bíos. “I Greci non avevano un unico termine per esprimere ciò che noi intendiamo con la parola vita. Essi si servivano di due termini, semanticamente e morfologicamente distinti, anche se riconducibili ad un etimo comune: zoé che esprimeva il semplice fatto di vivere comune a tutti gli esseri viventi (animali, uomini o dei) e bíos, che indicava la forma o maniera di vivere propria di un singolo o di un gruppo. [...] La semplice vita naturale è [...] esclusa, nel mondo classico, dalla polis in senso proprio e resta saldamente confinata, come mera vita riproduttiva, nell’ambito dell’oîcos. [...] La morte ha impedito a Foucault di svolgere tutte le implicazioni del concetto di bio-politica e di mostrare in che senso egli ne avrebbe ulteriormente approfondito l’indagine, ma, in ogni caso, la politicizzazione della nuda vita come tale costituisce l’evento decisivo della modernità, che segna una trasformazione radicale delle categorie politico-filosofiche del pensiero classico”.43

Dunque, la vita spogliata dalla forma sociale che questa può assumere, la vita intesa nella sua dimensione più intima e domestica è la nuda vita e l’evento fondativo della modernità è segnato dall’ingresso della nuda vita nella polis. Scrive Foucault: “Per millenni, l’uomo è rimasto quel che era per Aristotele: un animale vivente e, inoltre, capace di esistenza politica; l’uomo moderno è un animale nella cui politica è in questione la sua vita di essere vivente”.44 La nuda vita viene dunque riassorbita, producendo una serie di effetti di adattamento e, addirittura, di trasformazione. A un certo punto della sua elaborazione sulla biopolitica Foucault si è chiesto come sia possibile che un sistema che mira a farsi carico della vita, pur nella forma della omologazione, possa aver prodotto quella negazione assoluta della vita che è stato il nazismo e possa ancora continuare a produrre guerre. Ma è questo punto il punto in cui – secondo Foucault - nasce il razzismo moderno. Il razzismo esisteva sicuramente prima, ma in modo diverso. Oggi, in effetti, non possiamo più intendere il razzismo come il tradizionale disprezzo tra le razze, oppure come una operazione ideologica attraverso cui gli stati dirottano le ostilità interne verso l’esterno. Perché allora la violenza? La violenza si produce nel momento in cui il razzismo, il razzismo moderno, diviene una articolazione fondamentale della biopolitica: se la biopolitica regolamenta e organizza la vita, si può dare la morte in nome della vita da salvare. Ogni guerra oggi è guerra alla razza o alla religione che minaccia la vita. Ogni forma di violenza mantiene una esemplare esigenza purificatrice. Nessuna società è stata più rassicurante di quella pensata dal nazismo e non esiste società più interessata e preoccupata della salute di quella totalitaria, ossessionata dalla contaminazione della sua popolazione. Il 14 luglio del 1933 il regime nazista emana una legge per la prevenzione della propagazione delle malattie ereditarie. Prima della guerra furono sterilizzate 300.000 persone disabili. Nel 1938 Hitler autorizza l’uccisione dei bambini disabili, estendendo più tardi l’ordine anche agli adulti. L’operazione di sterminio che inizia nell’inverno del 1939 viene definita “distruzione delle vite indegne di essere vissute.” (Vernichtung lebensunwerten Lebens). Nel 1941 seguirono gli zingari e gli ebrei. Sappiamo che erano già pronti elenchi di popolazioni non adatte alla sopravvivenza e quindi da eliminare una volta risolta la questione ebraica. L’eutanasia diventa un fatto biopolitico, giacché non sono in gioco questioni legate esclusivamente ad una appartenenza politica. Non si uccide solo per questo. I caratteri privatissimi del sangue e delle origini sono diventati fatto politico e 43 AGAMBEN G., Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995, p. 3-4 44 FOUCAULT M. F., La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1978, p. 127

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pubblico. Ormai in tutto il mondo cosiddetto moderno esistono movimenti e schieramenti che hanno fatto della questione razziale un fatto politico. L’Altro è strutturalmente impuro e minaccia la consistenza identitaria di ciascuno. Oggi le prostitute nigeriane frequentano gli stessi viali che frequentavano le nostre connazionali ma questa presenza, percepita come estranea e sconosciuta, è divenuta potenzialmente ostile. Tutte le ricerche, peraltro, confermano che l’aumento della sensazione di insicurezza non è per nulla correlato al numero di reati commessi. L’idea del pericolo, e della violenza intesa come rimedio, si associano all’idea di un godimento minaccioso quanto infetto. “Il nuovo Stato non conosce altro compito - sono le parole di Hitler - che l’adempimento delle condizioni necessarie alla conservazione del popolo”. “Queste parole del Fuhrer - commenta Ottmar von Verschuer, uno dei responsabili della politica sanitaria del Reich - significano che ogni atto politico dello stato nazionalsocialista, serve la vita del popolo [...] noi sappiamo oggi che la vita di un popolo è garantita solo se le qualità razziali e la salute ereditaria del corpo popolare sono conservate”.45 H. Arendt in Le origini del totalitarismo racconta quali sono i progetti di Hitler negli ultimi anni di guerra: “Dopo un esame radiologico nazionale, il Fuhrer riceverà una lista di tutti i soggetti malati, particolarmente di quelli affetti da disfunzioni renali e cardiache. Sulla base di una nuova legge sulla salute del Reich, le famiglie di questi soggetti non potranno più condurre vita pubblica e la loro riproduzione potrà essere vietata. Che cosa avverrà di esse, sarà materia di ulteriori decisioni da parte del Fuhrer”.46 Questo significa - se prendiamo il nazismo come paradigma estremo del bio-potere - che per un verso la medicina e la scienza avranno sempre di più libero accesso nelle stanze del potere ma significa anche che sarà data la simultanea possibilità a chi protegge la vita di autorizzarne l’olocausto. Nel momento in cui si costituisce una società universalmente assicurativa, universalmente regolatrice e universalmente disciplinare si assiste allo scatenamento più completo del potere omicida, vale a dire del vecchio potere del sovrano di uccidere. Ma di questo potere sovrano partecipano ora non solo i vertici statali, ma in un certo senso, in un senso limite, l’intera società. Il nazismo arriva a pensare a una distinzione tra vite degne e vite indegne di essere vissute. A vite da sopprimere perché potenzialmente portatrici di contagio, minaccia per le altre vite. Gli ideologi del Reich usano, per definire i loro pretesi nemici, l’appellativo di batteri, virus, parassiti. Questa biologizzazione del lessico, l’affidare a medici e biologi la funzione di guida del progetto immunitario per il popolo tedesco, mostra bene come il termine di sterminio diventa assurdamente appropriato se si tratta di distruggere delle vite ridotte a germi invasori e contagiosi. L’efficienza dei medici che si occupano della disinfestazione o di aprire il rubinetto del gas per la doccia finale (sono i termini usati dal Reich) è indicativa del ruolo che assume la medicina in questo processo. Eppure, i nazisti avevano lanciato una campagna contro il cancro, che limitava l’uso dei pesticidi, dei coloranti, del tabacco, siamo al punto in cui “mentre a Dachau il camino fumava si produceva miele biologico”. E giustamente dobbiamo chiederci come è stato possibile. Non possiamo pensare che sia solo saltato il confine tra guarigione e assassinio, dobbiamo pensare che questi due principi rischiano di diventare l’uno come la condizione dell’altro, come due versanti di uno stesso progetto. 45 VERSCHUER O. V., Rassenhygiene als Wissenschaft und Staatsaufgabe, Frankfurt 1936, p. 5 46 ARENDT H. A., Le origini del totalitarismo

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Parliamo di nazismo perché non è stato solo un incidente, un inciampo della storia, ma la rappresentazione della deriva immunitaria a cui il nostro mondo rischia di andare incontro. “I cinquanta milioni di morti con cui si chiude la seconda guerra mondiale – secondo Esposito - segnano il punto culminante di questo processo apocalittico”. 3.7 A proposito delle relazioni d’aiuto Vorrei provare ad argomentare le mie considerazioni a partire da una scena, da un messaggio pubblicitario che, come tale, merita attenzione, per la rappresentazione che ci propone del mondo, della forma dei legami, del rapporto tra le persone e con gli oggetti di consumo. � andata in onda qualche anno fa, ma la considero ancora una sorta di paradigma una espressione luminosa ed essenziale del nostro tempo. Provo a descriverla: esterno notte, una spiaggia, luci soffuse, due giovani, un uomo e una donna. Si cercano, si avvicinano, si sfiorano, trovano le condizioni ideali per il gioco dell'amore. Ad un certo punto lei accetta, dice di sì. Chiede però a lui una precauzione, gli chiede di usare il profilattico. Basta poco per non rinunciare a quell'incontro che sembra già scritto nei colori della notte.A pochi passi c'è un distributore automatico di preservativi. Lui si incammina verso l’apparecchio. Ha in mano una moneta, una moneta che gli consentirà quell'incontro. Ma a pochi passi c'è un altro apparecchio, che distribuisce gelati. Un’alternativa all’incontro, un’alternativa alla notte d’amore. Il giovane esita poiché ha una sola moneta ed è costretto a scegliere. La vita qualche volta ci mostra un bivio, ci chiede conto del nostro desiderio. Qui è questione di un attimo, anche perché la pubblicità ha i suoi ritmi. Sceglie il gelato. Mentre lo assapora una voce fuori campo spiega: “la vita è fatta di priorità”. Di che priorità si tratti lo sintetizza una versione scritta della pubblicità, che la riduce all’essenziale: “io e il mio magnum”. Un paradigma dicevo, perché ripropone, non certo per la prima volta, i tratti costitutivi che identificano un modello di relazione. Vi faranno seguito babbi natale che contendono cosce di pollo ai bambini, o delle nonne che negano ai nipoti quell’invito a cena che le caratterizza da sempre, per chiudersi in casa a mangiare prodotti surgelati. E ancora “Nespresso what else?”. Certo, questo è il messaggio di tutte le pubblicità: nella vita ci sono delle priorità, gli oggetti di consumo. In fondo la pubblicità ci chiede semplicemente di essere dei buoni consumatori lasciando perdere il resto. Tutto questo sta in un legame molto stretto con le relazioni di aiuto o, se vogliamo, ci dice come, qualsiasi forma di relazione, abbia nella nostra scena madre il suo paradigma. Il demone delle combinazioni inattese In effetti, il ragazzo che preferisce altro ad una notte d'amore non è solo un’invenzione pubblicitaria. La nostra scena mette in evidenza qual è oggi la nostra percezione della dimensione dello scambio, dell'incontro con l'altro. Se provassimo a considerare quali sono gli spazi che abitano i giovani del nostro spot, probabilmente li vedremmo passare molto del loro tempo in quel triangolo delle bermuda costituito dal divano, dal frigorifero e dallo schermo di un computer o di un televisore. Uno spazio in cui non c'è traccia dell'altro se non nel modo artificiale che propone lo schermo. Uno spazio in cui la commensalità può perdere il suo valore fondante. L’accesso al Convivio – da cum vivere, vivere insieme – l’accesso alla tavola comune, ha segnato, per gli esseri umani, l’ingresso in uno spazio relazionale

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organizzato secondo modalità, tempi e luoghi culturalmente condivisi. Si tratta di uno spazio in cui può realizzarsi uno scambio simbolico, in cui si strutturano legami, che ribadiscono come, per gli umani, il rapporto con il cibo è innanzitutto rapporto con l’altro. In effetti, la condizione per il vivere comune, come ha sostenuto Freud, comporta una “rinuncia pulsionale”, una rinuncia al godimento immediato degli oggetti. Nella storia umana, la possibilit�di accedere alla civilt27, la possibilit�di sedersi alla tavola comune, �stata subordinata ad un dovere che ha limitato e organizzato le forme di godimento. Oggi, il godimento �diventato una forma inaudita e paradossale del dovere. Il dovere non costituisce pi�una limitazione, ma una nuova forma di obbligazione, che induce compulsivamente a godere degli oggetti, senza passare per l’altro, disertando la tavola comune. Per questo le nostre pubblicità offrono la rappresentazione di una sorta di mutazione antropologica del nostro rapporto con l’altro e indicano nuove priorità. Gli oggetti si delineano come generatori di un piacere autistico, dei “partner inumani” che, proprio per la loro natura, non espongono alle turbolenze e ai rischi che possono minacciare il rapporto con l’altro sesso. In effetti, il rapporto con l’altro, da sempre, è stato considerato denso di complicazioni e di disordine e, per questo – come ha magistralmente sintetizzato Lévinas – ha sempre evocato “il demone delle combinazioni inattese”, ha presentificato l’enigma che manda in frantumi le nostre rassicuranti rappresentazioni. “Io e il mio magnum” è la soluzione pret-a-porter, immediata; non sono necessari corteggiamenti, attese, timori di un rifiuto. Basta inserire la moneta nell’apposita fessura e già si profila l’idea di un’indipendenza che si accompagna con un’inedita e inquietante declinazione del concetto di libertà: “ogni uomo – come dice una pubblicità di prodotti surgelati – deve essere libero di non dividere le proprie patate con nessuno”. Nuovi partner dunque, partner inumani che sembrano offrire, a fianco di una nuova idea di libertà, anche maggiori garanzie. Anche Freud si era chiesto perché mai un alcolista avrebbe dovuto preferire la bottiglia ad una donna, la risposta gli era sembrata semplice: “perché la bottiglia dice sempre di sì.” L’uomo, la belva, il dio I legami liquidi, di cui ha parlato Bauman, che possono sciogliersi e riannodarsi con maggiore disinvoltura di un tempo, che possono galleggiare in un universo relazionale sempre più liquefatto e inconsistente, sembrano costituire una modalità sempre più attuale dei rapporti e, proprio per questo, sembrano influenzare le relazioni di aiuto. In primo luogo perché la liquidità dei legami è nutrita dall’idea che ogni forma di dipendenza debba considerarsi patologica. Ne deriva che lo scopo di una relazione di aiuto o, meglio ancora, l’alternativa alla relazione di aiuto, consisterebbe nel bastare a se stessi. La libertà che si prospetta nelle pubblicità pare un’alternativa, molto più conveniente, dell’impegno stringente di una relazione. Perché no? Cosa c’è di male nel provare a bastare a se stessi, cosa c’è di male nel cercare in un libro, in un film, nei farmaci, nella meditazione, la via per prendersi cura di sé? Credo che la risposta vada cercata provando a sbrogliare un concetto così intricato come quello di “bastare a se stessi”, concetto che, almeno in passato ha avuto altre considerazioni. Scrive Aristotele nella Politica: “è chiaro che la città è per natura e che è anteriore all’individuo perché, se l’individuo, preso da sé, non è autosufficiente, sarà rispetto al tutto nella stessa relazione in cui lo sono le altre parti. Perciò chi non può entrare a far parte di una

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comunità o chi non ha bisogno di nulla, bastando a se stesso, non è parte di una città, ma una belva o un dio.”47 Dunque, per Aristotele, chi basta a se stesso, chi non ha bisogno di nulla è una belva o un dio. Gli uomini sono altra cosa, e poiché non bastano a se stessi, trovano nella comunità la propria realizzazione e la propria misura. La chiarezza con cui viene sottolineata la necessità di stabilire legami mette ancora di più in luce le trasformazioni che oggi stiamo vivendo. E Aristotele non è certamente solo. In un testo di Filodemo, commentato da Foucault48 viene riportata la pratica di gruppo condotta nelle comunità epicuree, che consiste nel “salvarsi gli uni con gli altri”. La parola salvarsi – sozesthai – significa procurarsi l’accesso a una vita buona e felice. Nella salvezza del singolo, gli altri membri della comunità hanno un ruolo decisivo.49 Con questi due riferimenti intendo mettere in evidenza come, nella nostra storia, sia stato messo in valore il legame piuttosto che l’indipendenza. Con la modernità, invece, comincia a manifestarsi un’inguaribile allergia nei confronti delle alterità. Il tentativo di appropriazione del mondo corrisponde ad un analogo sforzo di appropriazione di sé, fino a far coincidere la libertà con l’autonomia che, etimologicamente - autòs (se stesso, il medesimo) nòmos (legge) - significa libertà di vivere con le proprie leggi. Le conseguenze di questa posizione sono più ampie di quelle che appaiono nella pubblicità. Se tutto quello che è fuori appare in funzione di sé e della propria, autonoma, libertà, allora ogni incontro con l’altro non può che corrispondere ad una assimilazione, ad una riduzione dell’altro a se stesso. Perciò, dietro la scena patinata che mostra “io e il mio magnum” dobbiamo scorgere la reazione a tutto ciò che scombina l’idillio: intolleranza, razzismo, violenza. Il senso stesso della Comunità, come ha evidenziato Roberto Esposito50, è confluito in questa deriva, fino a considerarla una piccola patria da proteggere, un territorio da tenere separato da coloro che non ne fanno parte. Le “città di quarzo”51, presidiate in nome della sicurezza, sono sempre più l’emblema della necessità di difendersi dal pericolo che minaccia i confini. E il confine mette in evidenza il luogo in cui si situa la minaccia: la frontiera tra gli stati, tra interno ed esterno, tra il proprio e l’estraneo. Si tratta del luogo da cui si intravede il volto inassimilabile dello straniero. In nome della sicurezza, in nome dell’immunità la Comunità ha dimenticato la sua vera essenza. Perché Communitas deriva dal termine latino munus, che significa dono, apertura all’altro. Il senso della Comunità, dunque, il suo senso originario, non sta nell’appartenenza, ma, al contrario, nell’offerta, nell’alterazione degli equilibri, nella donazione. Da questa prospettiva, lo spazio comunitario non è uno spazio da preservare, ma uno spazio esposto all’alterità. L’immunitas, il rifiuto del dono, il rifiuto dell’apertura in nome della sicurezza, produce, al di là delle migliori intenzioni, malattie immunitarie. È il destino dei dispositivi che, nel momento in cui si assumono il compito della protezione della vita – di una comunità o di un organismo – si incamminano sulla via della negazione della vita. Come ci insegna la biologia, nel momento in cui il sistema immunitario diventa ipertrofico, completamente orientato a proteggere la vita dalle potenziali minacce, allo stesso tempo insidia la vita. Quando la difesa di un organismo o di una comunità viene elevata alla massima potenza, la stessa difesa diventa una malattia, a volte mortale, una malattia immunitaria. La nostra storia è stata attraversata da

47 ARISTOTELE, Politica, Libro Primo 48 in FOUCAULT M., Discorso e verità nella Grecia Antica, Donzelli, Roma 1998, p. 76 49 cfr. ivi 50 ESPOSITO R., Communitas. Origine e destino della Comunità, Einaudi, Torino 2006 51 cfr. DAVIS M., Città di quarzo, Manifestolibri, Roma 1999

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tragedie immunitarie, consumatesi in nome della purezza, della difesa dalle contaminazioni. Dunque, il bastare a se stessi rischia di far risuonare nelle nostre Comunità un certo concetto di comune che, come ha messo in evidenza Derrida, può evocare il come-Uno. Il problema del come-Uno è dato dal fatto che una Comunità quanto più non tiene conto del diverso dall’Uno, quanto più misconosce le singolarità irriducibili in nome della difesa dell’Uno, tanto più – come abbiamo visto - è destinata alla propria distruzione. È possibile oggi contrastare questa tendenza? È possibile che le relazioni di aiuto possano costituire una nuova modalità, politica, di prospettare i legami?

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CAPITOLO 4 LA PROGETTAZIONE SOCIALE, SANITARIA, EDUCATIVA, LA VERIFICA, LA VALUTAZIONE, IL MONITORAGGIO ED IL LAVORO DI RETE 4.1 La progettazione sociosanitaria come sfida alle passioni tristi In questa nostra epoca, che l’autore franco argentino Miguel Benasayag definisce “delle passioni tristi”52, nuove e delicate sfide si pongono per gli operatori sociosanitari ed educativi. La nostra società occidentale è passata da un concetto positivistico di futuro, che confidava nel progresso tecnico scientifico, ad un futuro minaccioso e senza prospettive. Allo stesso tempo, le istituzioni preposte a garanzia del welfare hanno sostituito alla logica dei doveri e dei diritti quella dei costi. Non vi sono più il soggetto e la classificazione dei suoi bisogni al centro degli interventi sociali, ma quanto essi costano alla collettività, il tutto ammantato in una logica di efficacia ed efficienza ed in processi di aziendalizzazione e di performance professionale standardizzate che hanno sostituito le risposte mirate al soggetto, formulate in base a un’attenta analisi dei bisogni e della domanda, con i protocolli e le procedure, con il tecnicismo, con la parcellizzazione degli interventi, con la barbarie dello specialismo53, con forme di progettazione centrate principalmente sui costi e sul risparmio. Intendiamoci tutto ciò non significa affatto che il tema del risparmio sia da sottovalutare, soprattutto se si pensa agli sprechi del passato o all’incapacità, da parte di molti Enti di Pubblico Servizio, di saper gestire e razionalizzare le proprie risorse finanziarie. Ma i significati irrinunciabili della relazione di aiuto ed educativa e della stessa progettazione operata in campo sociale, educativo e sanitario indicano la irrinunciabile necessità di riportare al centro dei propri interventi il mondo dei diritti e delle realizzazioni. Come nei precedenti capitoli si evidenzia non possiamo pensare alla relazione di aiuto ed educativa come elementi staccati dai propri contesti storici, economici, sociali, culturali. Sia la cura che l’educazione sono strettamente legate alla cultura poiché possono creare le condizioni affinché i soggetti possano accoglierla e farla propria. Educazione e salute, che per molto versi intrecciano i propri significati, devono poter andare di pari passo instradando il soggetto verso un’accettabile realizzazione di vita. Infatti, una vita realizzata è quella che riesce a raggiungere o mantenere buoni livelli di salute, buoni livelli di socialità ed affettività, una condizione economico lavorativa accettabile, degli strumenti culturali utili a poter leggere la complessità del mondo. In fin dei conti questo breve elenco di realizzazioni possiamo anche nominarlo progetto di vita. Purtroppo, oggi più che in passato, non sempre tutto procede in modo lineare, le diverse forme di disagio (malattie, deprivazioni, incapacità, disoccupazione, squilibri psicologici e fisici, deficit economici, multiproblemacità e sub culture, ecc.) attentano all’equilibrio dei cittadini. È proprio in queste situazioni che necessitano delle buone relazioni di aiuto ed educative ed una adeguata progettazione. Ma in questo momento storico la stessa progettazione sociosanitaria è chiamata al confronto con gli effetti dei cambiamenti epocali dei processi di globalizzazione, del postmoderno e del postindustriale54 ed è anche chiamata alla sfida di potersi sviluppare in un ambito di grande complessità, in maniera sinergica con reti, con altre istituzioni pubbliche e private, con la sperimentazione di nuove frontiere di welfare: generativo, di comunità, sussidiario. È chiamata al confronto con la creazione di un’attenta economia delle relazioni. 52 BENASAYG M. – SCHMIT G., L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano, 2005 53 ORTEGA Y GASSET J., La ribellione delle masse, SE, Milano, 2001 54 BAUMAN Z., Il disagio della postmodernità, Mondatori, Milano, 2000

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4.2 La progettazione e le sue tappe Le progettazione può essere applicata in diversi campi: nel lavoro con il singolo soggetto, con i gruppi, nel lavoro di comunità, nel lavoro di accompagnamento sociale nei processi di sviluppo o di riqualificazione urbana, nel lavoro con le reti ed anche, in campo aziendale, nella creazione di start-up di lavoro giovanile, nel lavoro di allestimento e strutturazione di servizi sociali, sanitari, educativi, ecc.. Le tappe della progettazione sono fondamentalmente 5: l’ideazione, l’attivazione, la progettazione, la realizzazione, la verifica55.

1° tappa 2° tappa 3° tappa 4° tappa 5° tappa Ideazione Attivazione Progettazione Realizzazione Verifica Una o più persone

ipotizzano di realizzare un

progetto

Verificano quali risorse umane, finanziarie e

strumentali hanno a disposizione

Elaborano un progetto cartaceo,

identificano e programmano le

diverse fasi dell’intervento

Realizzano l’intervento

mettendo in atto delle attività

Verifica di riformulazione o

conclusiva, ridefinizione o conclusione del

progetto 4.3 Le tipologie di progettazione Le tipologie di progettazione sono principalmente 3: sinottico razionale; concertativa o partecipata ed euristica. L’approccio sinottico – razionale:

• è un approccio “meccanicista” e rimanda ad uno sviluppo progettuale di tipo lineare e consequenziale, si realizza solo ciò che si è deciso a priori. Non ci sono interscambi tra una tappa e l’altra della progettazione.

L’approccio concertativo o partecipativo:

• è un approccio che si basa sulla concertazione e la partecipazione del soggetto o delle parti sociali chiamate in causa dal progetto, le problematiche e l’ambiente progettuali non sono dati a priori come fatti oggettivi (come avviene nel sinottico – razionale) ma il processo di interazione tra i diversi attori del progetto prosegue in tutte le tappe di sviluppo progettuale. Si tratta di un progetto che si sviluppa in un ambito dialogico (altrimenti detto progettazione dialogica).

L’approccio euristico:

• è un approccio che si basa sulla ricerca (eurisko = ricerca), si rinuncia a conseguire degli obiettivi predeterminati a monte. Si basa su di un processo condiviso di ricerca partecipata attraverso cui si definiranno con i destinatari gli obiettivi specifici, gli intereventi e le ipotesi di cambiamento. Questo modello punta molto sulla tappa progettuale dell’attivazione e si basa più sul prodotto che sui processi per poterlo raggiungere. È un modello mutuato

55 LEONE L. PREZZA M., Costruire e valutare i progetti nel sociale – manuale operativo per chi lavora su progetti in campo sanitario, sociale, educativo e culturale, Franco Angeli, Milano, 2003

       Sinottico  razionale                                                concertativa  o  partecipata                                                    euristica   Max. pre-strutturazione min. pre-strutturazione

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dalla ricerca azione (di cui più avanti si argomenterà), altrimenti detto di ricerca intervento partecipante. Anche in questo modello c’è interazione tra le diverse parti delle tappe progettuali. Nell’ambito della ricerca possono nascere non uno ma più progetti56.

4.4 Altre considerazioni Come si è potuto evincere dagli approcci sopra posti la progettazione, e soprattutto quella in campo sociosanitario è una materia molto complessa, poiché può rispondere a diversi approcci metodologici e teorici. Abbiamo potuto vedere che si può procedere con una progettazione di tipo lineare, dove, individuati gli obiettivi, linearmente si sviluppa un progetto per poterlo realizzare; oppure in un ambito di ricerca azione57, dove si parte dall’individuazione di un problema per poi giungere ad un obiettivo da raggiungere, obiettivo comunque sempre ridefinibile, appunto in base ai mutamenti della realtà di ricerca e di azione. Va detto che l’ancorarsi ad un rigido sviluppo lineare della progettazione può creare dei problemi poiché, questa metodologia di approccio deve comunque fare i conti con la dinamicità dei contesti e dei soggetti presi in esame. Sovente in questo tipo di progettazione gli obiettivi non possono “essere scolpiti nella pietra”, cioè rimanere immutabili, poiché gli sviluppi progettuali stessi e le diverse fasi di monitoraggio, di verifica e valutazione portano fisiologicamente ad una loro ridefinizione. Questo perché l’essere umano, le diverse realtà sociali e territoriali non sono statiche ma dinamiche, in continuo divenire. Come insegna la metabletica (cioè la scienza che studia il cambiamento) i cambiamenti possono essere sia evolutivi che involutivi. Quindi in estrema sintesi si può dire che la progettazione in campo sociosanitario non può essere solo intesa in senso lineare - progressivo ma può essere intesa anche in senso circolare (a spirale), cioè nella necessità di una continua ridefinizione degli obiettivi, considerando il fatto che ogni progettazione rivolta, ad esempio, verso la creazione di servizi e circuiti di salute e di agio per i cittadini va intesa in senso dinamico ed è soggetta all’imprevedibilità delle variabili delle azioni e dei comportamenti dei soggetti destinatari del progetto. 4.5 Gli ambiti di progettazione Come sopra accennato in campo sociosanitario ci sono diversi ambiti di progettazione, non saranno presi tutti in esame ma solo alcuni. Tra gli ambiti di progettazione presi in esame si possono schematizzare due direttrici di intervento:

1. la progettazione che risponde alle esigenze di mantenimento dei livelli di salute, alle richiesta di aiuto, ai compiti di istituto, ai principi del sostegno e del controllo sociale;

- Questa tipo progettazione, solitamente portata avanti dai servizi sociali e sanitari, interviene sul singolo o su interi nucleo famigliari, su problematiche conclamate, sovente risponde a provvedimenti presi da Istituzioni preposte al far rispettare le regole e leggi e al controllo sociale (T.O. e T.M.), in ogni caso si propone di creare, salute, integrazione o riabilitazione, crescita individuale e sociale.

2. la progettazione che si sviluppa nell’ambito della prevenzione, primaria, secondaria e terziaria:

-­‐ nel merito della prevenzione primaria si intende una progettazione in grado di creare i presupposti per evitare il disagio sociale, attraverso la costruzione di occasioni, eventi, riqualificazioni, reti solidali, culture condivise, cittadinanza attiva, spirito di comunità, campagne di sensibilizzazione ed informazione mirate all’evitamento di problematiche relative alla salute, ecc;

56 ibidem 57 LEWIN K., Teoria e sperimentazione in psicologia sociale, Il Mulino, Bologna, 1972

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-­‐ nel merito della prevenzione secondaria si intende una progettazione capace di creare occasioni di intervento tempestivo ai primi sintomi di disagio sociale o sanitario, anche attivando le risorse proprie delle reti primarie, e secondarie di un dato territorio;

-­‐ nel merito della prevenzione terziaria si intende una progettazione che gestisce la cronicità, cioè pone le condizioni di mantenimento di un certo equilibrio socio sanitario evitando la riacutizzazione delle problematiche sociali, sanitarie, ecc..

Fanno parte della progettazione al punto 1.

• La progettazione dei servizi sanitari ed il trattamento o la riabilitazione di soggetti affetti da diverse forme di patologia medica e psichiatrica; la progettazione dei servizi sociali centrata sulla creazione dei processi di apprendimenti, simbolizzazione e cambiamento in cittadini che manifestano diversi livelli di disagio sociale. L’anima di questa progettazione, ovvero i suoi significati principali si sviluppano attraverso la relazione di aiuto e la relazione educativa. Si può dire che questo tipo di progettazione si occupa delle problematiche dei cittadini “dalla culla alla bara”.

• La progettazione socio – assistenziale che mira a creare per il cittadino portatore di svantaggi sociali occasioni di riscatto dalle sue situazioni di indigenza (problemi economici, abitativi, lavorativi, di malattia, ecc.). Anche questo tipo di progettazione si occupa delle problematiche dei cittadini “dalla culla alla bara”. Sia la progettazione educativa che quella socio – assistenziale possono far parte di un unico progetto e, come già detto, solitamente intervengono su problematiche già conclamate.

Fanno parte della progettazione al punto 2.

• La progettazione di lavoro territoriale o di strada. Questo tipo di progettazione non si da degli obiettivi a priori, l’analisi dei bisogni e della domanda le indicano delle possibili tracce di intervento. La sua finalità principale è quella che il disagio sociale non si formalizzi in una domanda presso le istituzioni, ma con interventi precoci di prevenzione primaria e secondaria possa essere eliminato o contenuto in ambito territoriale. Gli esempi classici di questa progettazione sono il lavoro di strada con gruppi di adolescenti a rischio di devianza (prevenzione secondaria); o il camper che distribuisce siringhe per evitare contagi e devianza per soggetti portatori di problemi di tossicodipendenza.

• La progettazione di riqualificazione territoriale ed accompagnamento sociale. Questo tipo di progettazione, individuata una certa territorialità, principalmente lavora in un ambito di prevenzione primaria e secondaria attraverso l’eliminazione strutturale, economica e sociale dei possibili fattori di disagio. Agli interventi strutturali di riqualificazione di strade, piazze, giardini, edifici si accompagnano interventi in campo economico, lavorativo, culturale, sociale (interventi di accompagnamento sociale).

• La progettazione di comunità. Questo tipo di progettazione lavora in un ambito di prevenzione primaria. Si individua un territorio delimitato ed in quell’ambito si portano interventi utili a creare, anche attraverso la costruzione di eventi, nei cittadini residenti sviluppo, spirito di partecipazione e di comunità, cittadinanza attiva, senso e rispetto del bene pubblico comunitario, integrazione sociale e culturale e rispetto della diversità vista come risorsa e non come problema. Sono affini al lavoro di comunità qui a Torino, ad esempio, i contratti di quartiere.

Queste progettazioni sviluppano per eccellenza ambiti relazionali. In questo senso l’anima dei contenuti progettuali sta nella capacità di costruire e facilitare lo sviluppo di occasioni in cui si intrecciano e costruiscono, comunicazioni, rapporti e relazioni, perché è proprio attraverso queste

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dinamiche relazionali che si possono instaurare dei percorsi di apprendimento, cambiamento, autonomia, crescita. Per ulteriore correttezza va detto che le progettazioni relative allo sviluppo, alle riqualificazione urbane e quella di comunità hanno delle affinità e molti punti di lavoro in comune, anche se ai suoi esordi il lavoro di comunità “puro” non nasceva quasi mai per iniziativa pubblica “dall’alto” ma si avviava sempre “dal basso” e cioè dalle esigenze dei cittadini. Pertanto, dopo aver delineato gli ambiti sopra esposti risulta importante affrontare la tematica della progettazione affrontandola nei suoi significati generalizzabili ai suoi diversi contenuti. Per questo possiamo dire che il “corpo” della progettazione è composto da diverse parti. 4.6 Le parti della progettazione La parti della progettazione sono:

• la definizione e l’analisi del problema, • l’identificazione degli obiettivi, • i beneficiari dell’intervento, • il modello di intervento e le azioni che verranno svolte, • i mezzi e le risorse. • la verifica e la valutazione58

4.7 La definizione e l’analisi del problema La definizione e l’analisi del problema (altrimenti detta analisi dei bisogni e della domanda o analisi del contesto) è un’articolazione fondamentale della progettazione. Una cattiva analisi delle problematiche in esame può inficiare tutto lo sviluppo progettuale. Gli aspetti su cui è necessario porre l’attenzione per poter fare una buona analisi dei bisogni e della domanda o dei problemi sono i seguenti:

• su quale problema si intende intervenire, • qual è la definizione del problema e se c’è o no condivisione rispetto alla definizione, • in che modo si manifesta il problema, • quali sono le cause del problema, di che natura sono, se c’è condivisione o meno rispetto

alle cause identificate, • per chi è perché è rilevante quel problema e se le persone che sono coinvolte direttamente

dal problema lo percepiscono come tale e desiderano un cambiamento, • qual è la sua entità, incidenza, rilevanza, e se il problema è in espansione o meno. Perché si

ritiene importante intervenire su quel problema, • quali altri problemi genera a sua volta, • chi (istituzioni, servizi, strutture sanitarie, privato sociale, gruppi di cittadini, operatori,

ecc.) si sta già occupando di quel problema o del settore che include il problema.59 4.8 Gli elementi costitutivi dell’analisi dei bisogni e della lettura della domanda Nel campo della progettazione nella delicatissima fase relativa all’analisi dei bisogni e della domanda coloro che devono portare la propria opera professionale verso la creazione di circuiti di salite e agio sociale, dovranno predisporsi alle seguenti tre necessità:

58 LEONE L. PREZZA M., Costruire e valutare i progetti nel sociale – manuale operativo per chi lavora su progetti in campo sanitario, sociale, educativo e culturale, Franco Angeli, Milano, 2003 59 ibidem

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1. sospendere il giudizio sino a quando non si hanno in proprio possesso nutriti elementi di

valutazione e disporsi all’ascolto dell’altro (con chiunque si interloquisca), delle situazioni, del territorio,

2. non desistere mai dal proprio desiderio che l’altro (situazione sociale - sanitaria) faccia bene, evitando l’accanimento laddove non ci sono i presupposti per portare il proprio intervento,

3. prendere atto della impossibilità che l’altro (situazione sociale - sanitaria) possa farcela e saper dare e prendere tempo, senza farsi prendere dall’ansia di realizzazione. È anche, ad esempio, necessario saper “perdere” la propria rappresentazione dell’altro cogliendolo nella sua essenza o fallibilità.

Per riuscire a trovare un equilibrio tra i tre punti esposti, risulta quanto mai necessario comprendere bene la situazione che si ha di fronte. Proprio per questo l’analisi dei bisogni e della domanda diviene nello sviluppo dell’intervento un momento di cruciale importanza. Quindi nello specifico degli elementi costitutivi dell’analisi dei bisogni e della lettura della domanda troviamo:

- l’osservazione – in campo sociale è preferibile non asettica ma partecipata; in campo sanitario può essere più legata a criteri di natura oggettiva e scientifica,

- l’ascolto – che non significa solo sentire l’altro in che cosa chiede, ma essere attivi ed interatti verso l’altro,

- l’analisi delle domanda – significa anche cogliere gli impliciti ed i non detti, significa valutare la fattibilità delle richieste,

- l’osservazione e l’ascolto – devono permettere di cogliere, “strutturalmente ” l’altro e le situazioni, vale a dire, ad esempio, comprendere quali sono i “pilastri” psicologici, fisici, materiali, morali, economici, ecc. che lo tengono in piedi,

- l’analisi dei bisogni e la lettura della domanda – deve permettere la distinzione tra i bisogni reali e quelli percepiti, deve in sostanza riuscire a comprendere la differenza esistente tra bisogni e desideri,

- l’analisi dei vincoli e delle risorse – deve poter far capire su che cosa si può realmente contare sia per quanto riguarda il beneficiario che per quanto riguarda l’erogatore,

- il contesto – che è affettivo, sociale, economico e culturale, politico, ecc., - il tempo – come già detto per conoscere l’interlocutore o la situazione, è necessario

avere e dare tempo – il tempo nella progettazione sociale non può essere solo cronologico ma anche logico,

- gli strumenti – test, letture quantitative e qualitative, tecniche di colloquio e ascolto, analisi diagnostiche e dei dati, ecc.60

4.9 L’identificazione degli obiettivi Operata l’analisi dei bisogni e della domanda si identificano gli obiettivi che si possono così articolare: Obiettivi di scopo o obiettivi generali Indicano un’aspirazione, una direzione, una formulazione generica abbastanza astratta. Solitamente hanno a che fare con i propri compiti di istituto, o con le finalità generali che muovono la propria azione. Ad esempio: per un infermiere professionale potranno essere quelli che il paziente possa correttamente assumere i farmaci utili alla sua guarigione; per un fisioterapista che un 60 ibidem

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paziente possa eseguire gli esercizi utili per il recupero funzionale della deambulazione; per un educatore professionale potranno essere quelli di favori percorsi di apprendimento, crescita ed autonomia nei suoi assistiti; per un animatore interculturale favorire scambi culturali ed integrazione sociale; per un orientatore o operatore del lavoro favorire l’occupabilità, per un giovane che opera nella creazione di una start-up di lavoro creare le condizioni, sociali, economiche, strutturali, organizzative per la realizzazione d’impresa e lavoro, ecc. Sotto obiettivi Sono più circostanziati degli obiettivi generali ma possono a loro volta essere scissi in ulteriori obiettivi specifici. Quando gli obiettivi generali o di scopo sono molto ampi, prima di passare alla definizione degli obiettivi specifici, sarà utile scinderli in sotto obiettivi, dai quali potranno discendere gli stessi obiettivi specifici. Ad esempio: con l’obiettivo generale di favorire i processi di integrazione socio culturale e lavorativa dei cittadini stranieri i sotto obiettivi potrebbero essere: favorire per i cittadini stranieri il riconoscimento del titolo di studio conseguito in patria, ecc; oppure, come nel caso di una creazione di start-up di lavoro giovanile, acquisizione di competenze (vedi acquisire elementi nel campo della progettazione sociale), reperimento delle risorse economiche ed umane, delle strutture, degli strumenti, ecc. Obiettivi specifici Indicano con chiarezza i cambiamenti o i risultati attesi. Da ogni sotto obiettivo possono discendere uno o più obiettivi specifici. Quindi riprendendo l’esempio sopra posto a proposito dei cittadini stranieri, potremmo avere come obiettivo generale il favorire i processi di integrazione socio culturale e lavorativa dei cittadini stranieri, come sotto obiettivo il favorire per i cittadini stranieri il riconoscimento del titolo di studio conseguito in patria, come obiettivi specifici l’acquisizione delle lingua italiana, iscrizione a corsi di preparazione per sostenere eventuali esami integrativi, ecc.61 Lo  schema  degli  obiettivi  

4.10 Beneficiari dell’intervento Ovviamente i beneficiari dell’intervento (o popolazione target o popolazione bersaglio) nell’ambito dello sviluppo progettuale devono essere stati individuati già dal momento in cui si delineano gli obiettivi generali ed a maggior ragione quando si fissano gli obiettivi specifici.

61 ibidem

Obiettivo di scopo generale Sotto obiettivo Sotto obiettivo Sotto obiettivo A B C A1 B1 B1 C1 C2 C3 Obiettivi specifici

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Che cosa è importante conoscere dei beneficiari

-­‐ gli aspetti anagrafici (età, genere, grado d’istruzione, stato civile, professione), -­‐ gli aspetti valoriali (valori, credenze, abitudini, usanze, stili di vita, ecc.), -­‐ che percezione hanno delle eventuali problematiche o richieste che li riguardano (rivolgono

o non rivolgono una domanda di aiuto – vogliono o meno entrare in un processo di cura, cambiamento, di consumo, di utilizzo di servizi, ecc.),

-­‐ i limiti e le risorse (competenze, abilità, capacità, livelli cognitivi, comportamenti, affetti, socialità, salute psicofisica, precedenti di devianza o meno, situazione economica, lavorativa ed abitativa, ecc.). Più nello specifico, per la progettazione sociosanitaria, di aiuto ed educativa, sono importanti da prendere in esame alcune sfere di funzionamento soggettivo quali:

-­‐ senso motoria, comportamentale e dell’autonomia, -­‐ affettivo relazionale e della socializzazione, -­‐ cognitiva e dell’apprendimento, -­‐ gestione creativa della quotidianità, -­‐ percorsi di crescita ed autonomia e di realizzazione del progetto di vita (scuola,

lavoro, casa, vita sociale, affettiva, ecc.), -­‐ collaborazioni interne ed esterne, -­‐ percorsi di partecipazione e comunicazione, -­‐ livelli culturali, possibilità economiche e status.62

4.11 Il modello di intervento, ovvero la metodologia Evidentemente, per metodologia si intende il “come” costruire e realizzare un progetto. La metodologia si deve poter ispirare al target individuato. Vale a dire, come già accennato, che un discreto approccio metodologico di lavoro potrà riferirsi, in una visione globale dei soggetti in questione, al loro potenziamento di capacità, abilità, competenze, autonomie, livelli di agio e salute psico – fisica, consumo di beni e servizi. Appare, oltremodo, evidente che uno sviluppo metodologico riferito a quanto sopra espresso potrà valutare come opportuno avere più appigli dal punto di vista dei riferimenti teorici, siano questi sistemici, cognitivi, psico dinamici, comportamentali o quant’altro. In altro modo si può considerare che questa sfida professionale per il momento può anche essere situata sul versante dell’innovazione, della sperimentazione, della ricerca, dello sviluppo territoriale e della creazione di beni e servizi. Ed è proprio sui significati connessi alla parola ricerca che potrebbe essere possibile trovare un punto di orientamento stabile in uno sviluppo metodologico svolto in un ambito di ricerca – azione, nella staffetta prassi – teoria – prassi. Come è già stato detto la progettazione sociosanitaria è naturalmente deputata agli approcci metodologici della ricerca – azione, poiché:

-­‐ la predisposizione alla ricerca continua, stimola la creatività delle proposte espressive, nel continuo ascolto di quanto la realtà pone;

-­‐ la predisposizione alla ricerca è d’obbligo, soprattutto quando la realtà si presenta come microcosmo sconosciuto.

Un’altra metodologia utilizzabile potrebbe essere quella attiva, che attraverso l’individuazione degli obiettivi pone un’agenda su cui, assieme ai soggetti verso i quali si porta la proposta di animazione,

62 ibidem

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si stende un programma degli interventi e gli strumenti utili per poterlo realizzare. In quest’ambito si può parlare di co – progettazione. Gli strumenti, sono “giochi attivi” che chiamano i soggetti ad essere protagonisti dei propri apprendimenti e cambiamenti (apprendere facendo – il soggetto non è considerato come una bottiglia vuota da riempire ma come portatore di saperi, abilità e conoscenze che possono, se stimolate, venire alla luce). La metodologia attiva affonda le proprie radici nell’ambito della pedagogia attiva e della non violenza. Spesso è utilizzata anche nell’ambito della mediazione dei conflitti e della loro elaborazione e risoluzione dialettica. 4.12 Le azioni Per azioni in ambito progettuale dobbiamo proprio intere con chiarezza ciò che concretamente bisogna fare per realizzare gli obiettivi specifici. Chiaramente, ad esempio, per quanto riguarda le azioni in campo socio – sanitario ed educativo è necessario fare riferimento alle funzioni indicate sia nella relazione di aiuto che in quella educativa. Più nello specifico possiamo riferirci a: - conoscenza dei soggetti, del loro momento evolutivo, dei loro problemi e del loro ambiente di

vita; - stimoli creativo – relazionali attraverso, eventi o momenti socializzanti particolari; - percorsi di stimolo e potenziamento delle competenze, capacità, abilità (in relazione al

momento evolutivo dei beneficiari, anche ad esempio fare proposte di attività che evitino regressioni nelle abilità psicofisiche, e potenziamento degli spazi di autonomia);

- salvaguardia della salute, dell’incolumità fisica e delle risorse impiegate; - sviluppo di rapporti collaborativi con altri per facilitare le realizzazioni progettuali.63 4.13 I mezzi e le risorse Strumenti - Tutti gli strumenti utilizzabili e utili al raggiungimento degli obiettivi specifici; - diario di lavoro (appunti su aspetti importanti della relazione con soggetti difficili, e su

richieste fatte dai soggetti); strumenti medico diagnostici e di trattamento della malattia, ecc. - diario economico (note spese, promemoria scadenze, dati acquisti e fornitori, aggiornamento

eventuali entrate); - archivio computerizzato, dati soggetti e progetti realizzativi; - materiale di cancelleria, di ufficio (computer, telefoni, ecc.); - tavoli sociali e di coordinamento (protocolli di intesa, ecc). Risorse - la motivazione delle risorse umane (se stessi e la capacità di mettersi professionalmente in

“gioco” ed in relazione); - risorse interne, istituzionali – finanziamenti, strutture, risorse umane, volontariato, ecc.; - risorse presenti sul territorio – associazionismo, modo del volontariato, terzo settore; - reti formali ed informali (altre istituzioni e servizi utili presenti sul territorio e terzo settore,

mercato). I vincoli Chiaramente i vincoli sono da mettere in relazione sia con le risorse che con la situazione socio ambientale e con la tipologia del target verso cui è rivolto il progetto. Ciò nonostante si possono individuare dei vincoli sui seguenti aspetti:

63 ibidem

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- finanziari, economici, strutturali, amministrativi, normativi e gestionali. Vale a dire: trovare i

finanziamenti, quante risorse economiche ci sono a disposizione, chi ne detiene la responsabilità e può valutare il loro impiego, chi le gestisce, e chi ne verifica l’impiego, quali strutture si possono mettere a disposizione, ecc.;

- quando i soggetti non permettono la co – progettazione, gruppi o soggetti patologici o a rischio di devianza, fortemente oppositivi;

- impossibilità di poter far sviluppare la propria progettualità nel rispetto delle norme, ecc.. Le Strategie Per strategie progettuali dobbiamo intendere: - il massimo coinvolgimento delle istituzioni o delle agenzie territoriali (alleanze, protocolli di

intesa, ecc.), - lo sviluppo di competenze professionali di tipo organizzativo, manageriale, conoscenza di

metodologie e tecniche di realizzazione, strategie di relazione e coinvolgimento dei soggetti e delle risorse territoriali,

- la massima attenzione alle dinamiche “sotterranee” del gruppo e dell’équipe di lavoro, e all’implicito che i soggetti comunicano,

- la massima attenzione alle diverse tipologie di target, osservazione e ascolto degli indicatori, monitoraggio continuo e verifiche intermedie, ecc,

- l’evitare di creare nello sviluppo progettuale fattori di rischio e facilitare l’insorgere dei fattori di protezione.

I tempi Per ciascuna situazione progettuale è necessario indicare i tempi entro i quali si intendono conseguire gli obiettivi specificati nel progetto. Tali tempi devono poter essere rispettosi della situazione delle necessità dei beneficiari e dei loro tempi di apprendimento e realizzazione – nel contempo – devono rispondere ad esigenze di rendicontazione e verifica rispetto al raggiungimento degli obiettivi preposti. Non sempre questi due importanti aspetti riescono ad andare di pari passo.64 4.14 Il progetto e la pianificazione La progettazione in campo sociosanitaria sovente rientra all’interno di processi di pianificazione. Per pianificazione dobbiamo intendere la capacità di fissare degli obiettivi/impegni generali dilazionati nel tempo e per la realizzazione dei quali sarà necessaria lo sviluppo di un progetto. Ad esempio, molto banalmente, possiamo stabilire che il prossimo anno faremo un viaggio all’estero, ma non sappiamo ancora dove, quando, come, con chi, ecc.. Per poter realizzare tale pianificazione è necessario approfondirla facendo un progetto mirato alla sua realizzazione. 4.15 Il progetto e la programmazione Redigere e sviluppar un progetto è molto importante ma può non bastare per la sua realizzazione. Infatti è necessario articolare quanto è stabilito nella progettazione in una programmazione. La programmazione è l’articolazione della progettazione in relazione ai luoghi, ai tempi e ai contenuti65. Ad esempio, noi potremmo progettare la nostra partecipazione ad un torneo di calcio ma è necessario programmare in che luoghi ci dovremo recare per giocare, le date e le ore in cui dovremo giocare ed i soggetti necessari per poter giocare (11 calciatori, ecc.). In altro modo nella

64 ibidem 65 GAZZONI E., Programmazione e controllo nel no profit. Aziende sanitarie, associazioni, fondazioni, cooperative sociali, Carocci, 2004

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progettazione sociale sovente si parla di crono programma che rappresenta la scansione dei tempi entro i quali si realizzeranno le diverse fasi ( o anche azioni) del progetto. 4.16 Il progetto e l’organizzazione Per poter realizzare un progetto è necessario munirlo di un apparato logistico – organizzativo. L’organizzazione permette lo sviluppo e la realizzazione di un progetto attraverso:

- l’individuazione ed il rispetto delle regole, delle responsabilità, dei meccanismi operativi e delle procedure;

- l’individuazione delle strutture, delle risorse finanziarie e dei materiali necessari per la sua realizzazione;

- l’individuazione delle risorse umane da impiegare; - l’individuazione della ipotesi gestionale (chi fa che cosa e per quanto

tempo); - l’individuazione dei comportamenti professionali (come si fa); - l’individuazione delle strategie e dei rapporti con l’esterno (

comunicazioni e reti formali ed informali); - l’individuazione del sistema premiante (remunerazioni, riconoscimenti,

progressioni di carriera, ecc.) e punente (se non funziona chi si prende la responsabilità e come si sanziona).

4.17 La verifica, la valutazione ed il monitoraggio La verifica, la valutazione ed il monitoraggio rientrano a pieno titolo nei meccanismi di controllo della progettazione. Il momento della verifica e della valutazione sono fondamentali poiché è proprio grazie ai processi di verifica e di valutazione che è possibile giungere o alla constatazione che si sono realizzati gli obiettivi prefissati, o alla loro ridefinizione, in valutazione dei dati emersi. In linea generale i controlli di merito praticamente coincidono quasi del tutto con gli aspetti tecnici relativi alle verifiche ed alle valutazioni. Le verifiche e le valutazioni in letteratura di settore si sviluppano sempre nella triplice articolazione della:

o verifica di stato - ad esempio si verifica all’avvio del progetto se quanto previsto è a disposizione dello sviluppo progettuale; con quali elementi e su quali basi parte il progetto e con quali obiettivi e tempi di realizzazione (gli elementi solitamente sono: strutturali, gestionali, amministrativi, organizzativi, strumentali, delle risorse umane ed economiche, ecc.);

• valutazione – analisi dei dati emersi nella verifica di stato e con gli elementi a disposizione si potrà valutare una previsione di valori attesi.

o verifica di processo – si verificherà durante il percorso del progetto a che punto si è giunti; a che livello di processo funzionale sono gli elementi a disposizione; che cosa si è realizzato rispetto agli obiettivi dati;

• valutazione – analisi dei dati emersi nella verifica di processo e con gli elementi a disposizione si potrà valutare: la verifica degli obiettivi e una loro possibile ridefinizione in itinere; gli aggiustamenti amministrativi, organizzativi, gestionali, i livelli di spesa rispetto al budget assegnato, una ridefinizione dei valori attesi, ecc.

o verifica di risultato – si potranno verificare a chiusura progetto e nel rispetto dei tempi indicati se gli obiettivi sono stati raggiunti e se i valori attesi corrispondono. Inoltre si potranno verificare: gli esiti amministrativi, gestionali, strumentali, economici, ecc.;

• valutazione – analisi dei dati emersi nella verifica di risultato e con gli elementi a disposizione si potrà valutare: i significati dei valori attesi rispetto agli obiettivi dati, i livelli di efficacia efficienza del progetto, la customer satisfaction delle utenze, il livello di costi

41

benefici, le risorse ed i problemi emersi; quali cambiamenti soggettivi o sociali si è riusciti a produrre66.

4.18 Schema di tappe della valutazione

Quando si valuta

Prima ex ante Durante Dopo

Tappe del progetto

Ideazione attivazione Progettazione pre operativa

Implementazione Avvio, contat., attività primarie

Valutaz. esiti

Tipo di valutazione

-­‐ Rilevanza -­‐ contatti -­‐ fattibilità

-­‐ Rilevanz -­‐ logico

formale -­‐ sforzo

-­‐ Monitoraggio -­‐ processo

Esiti risultati

4.19 Il monitoraggio, le verifiche e le valutazioni in una logica di ricerca azione In altro modo va correttamente detto che gli aspetti relativi alla verifica e alla valutazione rimangono strettamente legati al monitoraggio. Tale termine, originatosi dapprima in ambienti tecnico scientifici ed industriali e poi applicato anche nel campo delle scienze sociali, è tratto dal latino monitor – oris che significa ammonire, avvisare, informare, consigliare. Quindi, per certi versi, anche il monitoraggio in campo sociosanitario rimane legato ad una dimensione di controllo, mentre per altri va inteso nel suo significato molto attinente con una rilevazione di dati significativi nel merito di un contesto, che nel nostro caso sarà di progettazione socio – educativa. Il monitoraggio può essere:

! continuo - rilevazione continua dei dati relativi ad un progetto, un soggetto (es. in campo sanitario - monitoraggio dei battiti cardiaci);

! ad alta frequenza - ci sono delle discontinuità nella rilevazione dei dati; ! a media e bassa frequenza - la rilevazione dei dati si effettua in tempi prestabiliti (che, ad

esempio, possono anche essere giornalieri nella consultazione degli aggiornamenti di una banca dati, ecc.).

Va inoltre detto che sia il monitoraggio, sia le verifiche che le valutazioni in campo sociosanitario nelle loro articolazioni di sviluppo progettuale possono entrare, loro malgrado, in una logica di ricerca azione. Tale approccio metodologico mutuato dalla psicologia sociale di K Lewin si rifà alla staffetta prassi – teoria – prassi e cioè:

-­‐ operare in un contesto; -­‐ analizzare i dati del contesto e delle proprie azioni; -­‐ individuare le risorse ed i problemi; -­‐ studiare strategie di risoluzione dei problemi e la massimizzazione delle risorse; -­‐ darsi degli obiettivi o ridefinirli;

Pertanto, pur avendo (come nel nostro caso) le progettualità che ci si appresta a realizzare degli obiettivi già stabiliti, non è detto che questi non possano essere modificati, negli ambiti del monitoraggio e, soprattutto in quelli delle verifiche – valutazioni di processo, ovvero dove si può e sovente si deve (se non si vuole assistere ad un fallimento progettuale) procedere per una ridefinizione degli obiettivi poiché, come è già stato detto:

" la progettazione sociosanitaria interviene in un ambito dinamico e non statico; " la progettazione sociosanitaria necessariamente incontra indicatori, variabili ed

imprevisti che, determinando problemi, ne possono influenzare lo sviluppo; " la progettazione sociosanitaria pur avendo obiettivi dati dovrà tenere conto, in un

ambito di ricerca azione, della loro possibile non pertinenza e congruenza con i dati che emergono dal monitoraggio e dalle verifiche e dalle valutazioni;

66 ibidem

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" la progettazione sociosanitaria non può esimersi da un ambito di ricerca continua.67 4.20 I criteri della valutazione In altro modo, la progettazione sociosanitaria non può esimersi da un ambito di ricerca azione poiché gli indicatori che concorrono alla sua definizione rappresentano un ambito di alta complessità che, sovente, non è riducibile a schematizzazioni, in uno sviluppo di progettualità lineare di: obiettivi, metodo, strumenti, verifiche, risultati. Al contrario molti sviluppi di queste progettualità sono a spirale, prevedono cioè ambiti di ricerca complessi, continue ridefinizioni degli obiettivi, continue manutenzioni delle reti di supporto, ecc. In ogni caso la letteratura di settore individua 13 criteri di valutazione. Ad esempio nell’ambito della progettazione sociale troviamo:

1. capacità di lettura del territorio, 2. capacità di esprimere progettualità per il proprio territorio, 3. capacità di essere un soggetto che concorre ad animare la comunità, 4. capacità di creare legami formali con gli attori del territorio, 5. capacità di appartenere a reti di relazioni sovra territoriali, 6. capacità di gestire le relazioni informali con i soggetti del territorio, 7. capacità di attivare risorse, 8. capacità di sviluppare attività di scambio ed arricchimento culturale tra ambiti diversi, 9. capacità di costruire sistemi aperti di governance del territorio, 10. capacità di creare culture della valutazione e della trasparenza, 11. capacità di gestire le risorse umane, 12. capacità di gestire i processi di produzione, 13. capacità di amministrare le risorse economiche.

Ma oltre ai 13 criteri sopra evidenziati, negli ambiti dell’applicazione della progettazione sociale, ve ne è un quattordicesimo molto importante. Questo consiste, fondamentalmente, nell’acquisire la capacità di creare culture di servizio, volendo con questo intendere la capacità di sapersi astrarre dalla mera esecutorietà, motivandosi alle proprie funzioni, anche interrogandosi sui significati più profondi del proprio agire professionale, sapendo dare senso a tali significati nel microcosmo della pragmatica operativa e nel macrocosmo dei contesti politici, culturali, economici, sociali, ecc. Quindi alla luce di tali comprensioni saper rimanere aperti allo scambio di saperi, in una dinamica continua di apprendimento, simbolizzazione e cambiamento.68 4.21 Gli attori interessati alla valutazione Ci sono diversi tipi di valutazioni perché ci sono diversi attori che concorrono con propri fini alla valutazione e tra questi troviamo:

-­‐ il politico legislatore, che sarà interessato alla rilevanza sociale del problema e alla sua legittimità,

-­‐ gli amministratori che saranno interessati ai bilanci, ai costi benefici, -­‐ gli utenti che, attraverso le associazioni di categoria, saranno interessati alla rilevanza

sociale, all’accessibilità e ai valori veicolati, ai diritti e alla dignità dei beneficiari, -­‐ gli stessi operatori / esecutori del progetto che, come detentori del sapere professionale,

saranno interessati a verificare costantemente il progetto nel raggiungimento degli obiettivi e nell’efficacia di impatto, cioè quali cambiamenti il progetto ha portato,

67 CAMPOSTRINI S., “La valutazione: quali problemi metodologici?”, Impresa Sociale, n. 3, 2005 68 ibidem

43

-­‐ i consulenti o ricercatori esterni che assumeranno l’ottica del loro committente che può essere uno qualsiasi degli attori sopra menzionati.69

4.22 Che cosa si verifica e si valuta Nella valutazione delle tappe di progettazione di stesura del progetto e di progettazione operativa si valutano:

• la rilevanza: l’attinenza del progetto a problematiche ritenute rilevanti, capacità di rispondere a problemi sociali ritenuti prioritari e significativi, dettagliatezza e completezza operativa,

• l’adeguatezza: comprensibilità e chiarezza di obiettivi che siano realistici, • la congruenza: tra le diverse parti del progetto e tra questo e le risorse attivabili • lo sforzo: inteso come tempo, energie impiegate.

4.23 Stime di verifica e di valutazione Si possono verificare i risultati ottenuti stimando:

• l’efficacia: capacità del progetto di raggiungere gli obiettivi fissati, • l’impatto: i cambiamenti indotti dal progetto, • la rilevanza: capacità del progetto di incidere sui problemi del soggetto o di rilevanza

sociale, • l’efficienza: classicamente intesa come rapporto fra costi e ricavi, • la produttività: il rapporto tra risorse impiegate e output ottenuti, • la trasferibilità e riproducibilità del modello: in termini di metodologie applicabili in altre

occasioni, buone prassi e soluzioni organizzative, buone conoscenze, esperienza che fa cultura di servizio.

69 ibidem

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CAPITOLO 5 LE RETI 5.1 Che cosa sono le reti sociali Come è sopra accennato nelle strategie è necessario che i progetti in campo sociosanitario non nascano e crescano in maniera isolata dal contesto in cui si pongono. Pertanto possono risultare (non solo strategicamente ma anche professionalmente) molto importanti le collaborazioni con le reti informali e formali del territorio. La rete sociale è costituita da uno o più insiemi di attori sociali e di relazioni definite tra tali insiemi di attori70. Le reti sono quindi strutture relazionali tra attori ed in quanto tali costituiscono una forma sociale rilevante che definisce il contesto in cui si muovono quegli stessi attori. La rete sociale risulta essere allora la struttura di relazioni le cui caratteristiche possono essere usate per spiegare – in tutto o in parte - il comportamento delle persone che costituiscono la rete. Quindi, per reti si intende una varietà di attori diversi, quali la Pubblica Amministrazione, gli interessi organizzati, le imprese e le loro rappresentanze, il settore non profit, ecc., che si consolidano attorno ad un ambito, un soggetto o ad un progetto creando condivisione di obiettivi, collaborazioni, sinergie, realizzazioni. 5.2 I punti rete Gli elementi costitutivi della rete sociale sono i soggetti, che rappresentano le unità, i nodi che compongono la rete; possono essere individui, gruppi, posizioni, luoghi, istituzioni; le relazioni, che legano i soggetti che compongono la rete e che vengono rappresentate graficamente mediante linee, frecce, archi e possono essere reciproche o simmetriche e asimmetriche. 5.3 Le diverse tipologie di rete Le reti, per il tipo di legami che le costituiscono, possiamo schematizzarle diverse tipologie:

-­‐ reti di sostegno ( o di supporto sociale – es. reti composte da persone di particolare importanza per il soggetto – parenti amici, ecc.):

-­‐ reti formali (istituzioni sociosanitarie) -­‐ reti informali (non presentano una veste istituzionale definita) -­‐ reti primarie (es. legami naturali, famigliari, parentali, amicali, di vicinato) -­‐ reti secondarie (costituite da relazioni di conoscenza indiretta) -­‐ reti complesse (reti scale free – con pochi nodi che hanno un numero altissimo di

connessioni es. internet - reti small world – reti estese con milioni di nodi e nonostante questo la distanza due nodi qualsiasi è piccola ed indipendente dalla grandezza della rete);

-­‐ reti personali (reti ego-centrate – la rete degli amici); -­‐ reti totali (reti complete – es. somma delle persone presenti nella vita di un soggetto); -­‐ reti funzionali (es. persone della rete totale che costruiscono rapporti di mutua

collaborazione).

Per reti formali si intende la rete territoriale delle istituzioni e delle proprie emanazioni pubbliche, cioè i servizi pubblici, o gestita da privati (settore nonprofit – mercato, Cooperative) su mandato pubblico.71 Più nello specifico delle istituzioni e dei servizi emanati troviamo: 70 MAGUIRE L., Il lavoro sociale di rete. L’operatore sociale come mobilizzatore di risorse, Erikson, Trento, 1987 71 CAPRA R., Operatori sociali e nuove reti, opportunità e prospettive, Carocci, 2008

45

- gli enti pubblici (es . Stato, Regione, Città Metropolitane, Comuni, Circoscrizioni, ASL, ASO, ecc.) – ovvero: • la scuola; • i servizi sociali di base; • il servizio di neuropsichiatria infantile; • il servizio della psichiatria adulti, DSM; • i consultori familiari e pediatrici; • gli ospedali; • i SERT; • la pubblica sicurezza; • il Tribunale ordinario e Tribunale per i minorenni; • i trasporti e vari servizi alla persona (biblioteche, tempo libero, sport,

ecc.). Grosso modo noi possiamo dividere questi servizi in 5 grossi comparti di intervento: 1. scuola - comparto istruzione, formazione e apprendimenti, CFP, UNIVERSITA’; 2. agio sociale – commercio – viabilità – eventi – comparto sport – tempo libero – cultura –

servizi vari di service ai cittadini 3. servizi sociali di base, R.A (residenza assistenziale), R.A.F (residenza assistenziale flessibile),

R.S.A (residenza sanitaria assistenziale), centri diurni, c.a., case famiglia - comparto socio – assistenziale;

4. OS, NPI, D.S.M., SER.D. - C.A. Terapeutiche - comparto socio – sanitario; 5. T.O. (tribunale ordinario), G.T. (giudice tutelare), T.M. (tribunale per i minori) e P.S. (pubblica

sicurezza)- comparto della tutela del cittadino e del rispetto delle leggi. Nell’ambito dei servizi sociali (quelli torinesi), dove gli interventi si svolgono prevalentemente sul versante socio – assistenziale, anche se le nuove normative parlano di lavoro integrato con le competenze sanitarie, troviamo le seguenti aree:

- area minori; - area anziani; - area disabili (handicap psicofisico);

- adulti in difficoltà (senza fissa dimora, ecc.); - stranieri e nomadi.72

Ad ognuna di queste aree corrispondono diversi servizi (strutture diurne, residenziali, di pronta accoglienza, di educativa territoriale, di educativa di strada, CAD e CENTRI DIURNI, dormitori, mense, uffici, progetti mirati alle peculiarità dell’utenza, progetti di prevenzione e di comunità. La rete informale, invece, è costituita dal mondo del volontariato e dell’associazionismo e da diverse agenzie del territorio. Quindi possiamo intendere:

- associazioni sportive, culturali, ludico ricreative; - cooperative di tipo A, B.( se lavora non su mandato pubblico); - parrocchie o altri enti o istituti religiosi; - associazioni di volontariato.

Il rapporto con le reti formali ed informali del territorio permette, in campo sociale e sanitario, alle progettualità di:

- sviluppare il proprio progetto in un ambito di visione allargata della realtà sociale con relativo reperimenti di sinergie, risorse e saperi diversi ;

72 Schema organizzativo dei Servizi Sociali della Città di Torino

46

- di trovare e cercare, se il progetto incontra delle difficoltà nel suo sviluppo, nei punti rete scambio di esperienze o consulenza, sostegno, collaborazione, aiuto o presa in carico di ciò che la progettualità non può sostenere;

- un confronto etico (confronto con una comunità scientifica allargata) della propria esperienza con altri settori73.

5.4 Come si crea una rete Nell’ambito della progettazione sociosanitaria il lavoro di rete può essere di fondamentale importanza e pertanto, sempre più spesso, diviene esso stesso parte integrata della attuazione dei progetti sociali. A questo proposito è necessario sottolineare il fatto che il lavoro di rete mira non al fatto che il pubblico, pur mantenendo le proprie competenza di tutela dei diritti e dei doveri, non si sostituisca alle risorse che un dato territorio può autonomamente mettere in campo. Il lavoro di rete in sostanza deve mirare ad attivare o facilitare l’attivazione delle risorse che la società nel suo complesso può mettere in campo. Il lavoro di rete funziona bene quando crea autonomie e non dipendenze.74 Dunque come si può creare una rete? Innanzi tutto va detto che la rete può già essere preesistente al progetto e quindi in questo caso non la si crea ma la si coinvolge. Nel caso in cui si deve attivare una rete in base all’oggetto della progettazione si procede nel seguente modo:

• si fa un’approfondita analisi dei contesti e delle risorse territoriali; • si individuano tutti gli attori pubblici e del privato sociale che trattano l’oggetto di

progettazione; • si contattano questi attori ed è preferibile che si possa fare con loro degli incontri diretti vis

a vis dove si presenta il progetto e le proprie finalità e la possibilità di creare delle sinergie con altre risorse che trattano una materia comune;

• con tali attori si cercano, osservando principi democratici e di reciprocità, degli obiettivi comuni sui quali poter lavorare e si stabiliscono la natura delle collaborazioni e le sinergie che si possono mettere in atto, poi si procede all’attuazione;

• è necessario avere i riferimenti e la reperibilità di ogni attore o punto rete (nomi e cognomi, enti di appartenenza, indirizzi, recapiti telefonici, indirizzo di posta elettronica), si stila una mailing list per poter comunicare con loro più facilmente,

• in base alle esigenze progettuali può anche essere necessario che i diversi punti rete, se non sono già in contatto tra loro, si possano incontrare tra di loro per armonizzare le risorse da mettere in campo ed a questo proposito può quindi anche nascere la necessità di: - stabilire un calendario di incontri e le regole di collaborazione; - poter stilare un protocollo di intesa (se si ha a che fare con altre istituzioni); - poter creare un tavolo sociale di coordinamento e verifica delle attività; - poter creare dei brevi percorsi di formazione - auto formazione, ecc.

5.5 Come si gestisce un tavolo sociale Il tavolo sociale può essere parte integrante del lavoro rete e l’operatore che ne tenta l’attivazione deve poterlo far funzionare nel seguente modo:

73 BERTIN G., SONDA G., MARGHERI C., I fattori di qualità dell’impresa sociale di comunità, Quaderni di Restore, Trento, 2007; 74 CALICCHIO S., "Il Fattore Network. Utilizzare le Reti Umane e Sociali per Migliorarsi in Ambito Personale, Professionale e Finanziario", Bruno Editore, Roma, 2010

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• si organizza un primo incontro dove si stabiliscono le funzioni ed i contenuti di lavoro del tavolo;

• si decide democraticamente il tipo di conduzione (coordinamento, leadership fissa o migrante) e le seguenti assunzioni di responsabilità:

• chi conduce • chi verbalizza e fa poi giungere il verbale dell’incontro ai partecipanti, • chi relaziona, • chi convoca il tavolo, • chi decide e come si stila l’ordine del giorno.

Quindi, una volta avviati i lavori del tavolo ed in base ai contenuti degli ordini del giorno presentati: - si presentano i problemi, i vincoli o le risorse, - si apre una dialettica costruttiva, - si aprono mediazioni, - si prendono decisioni, - si verificano situazioni, - si avviano nuove attività, - si modificano o annullano le attività in corso.

5.6 La manutenzione delle reti Le reti affinché possano esistere non basta crearle o formalizzarle ma necessitano di una continua “manutenzione” poiché possono esprimere potenzialità sia positive che negative e quindi tendono verso:

• la coesione e la stabilità; • l’auto-regolazione; • l’autonomia rispetto agli obiettivi e al controllo dell’autorità pubblica; • l’interorganizzazione e l’auto referenzialità; • l’interdipendenza tra le organizzazioni dei punti rete; • l’indipendenza dal referente pubblico; • l’interazione tra i punti rete con scambio di risorse e negoziazione degli obiettivi; • il riconoscimento, la fiducia e la credibilità reciproca; • l’accettazione delle regole di comportamento; • l’integrazione degli obiettivi nella coesione delle azioni.75

5.7 Le reti relazionali È scientificamente dimostrato che nelle reti non si depositano solo valori materiali ma soprattutto non materiali (economia delle relazioni). Questi contribuiscono a determinare la “ricchezza” individuale e collettiva relazionale delle reti. La rete è quindi anche una rete di comunicazione, relazione76. Tutto ciò dal punto di vista della positività del lavoro di rete. Invece sul versante dei rischi va sottolineato il fatto che le reti sono non sono entità immateriali ma sono incarnate da persone, gruppi di persone che comunicano e si relazionano. Su questo punto possono subentrare delle variabili indipendenti dai contenuti progettuali e di lavoro di rete, variabili che sono di natura soggettiva. Si incontrano diverse soggettività, emozioni, visioni del mondo e della vita. Per questi motivi nella manutenzione delle reti non va affatto trascurata anche la necessità della gestione delle dinamiche del gruppo rete. Per questo nella loro gestione bisogna potersi riferire ai contenti teorici della psicodinamica, della psicologia sociale e del lavoro.

75 SALVINI A., Analisi delle reti sociali. Teorie, metodi, applicazioni, Franco Angeli, Milano, 2007 76 SALVINI A., Analisi delle reti sociali. Risorse e meccanismi, PLUS, Pisa, 2005

48

Le reti possono creare anche un sistema e pertanto sottostanno come tutti i sistemi alle leggi sistemiche. Tra le più importanti leggi sistemiche troviamo:

1. in un sistema il tutto è più della somma delle singole parti, 2. in un sistema la parte è più della parte 3. se all’interno di un sistema si inserisce un nuovo elemento o il nuovo elemento si integra

nell’equilibrio del sistema o il sistema stesso dovrà trovare un nuovo equilibrio 4. se anche un solo elemento del sistema pone l’esigenza (che sia critica o costruttiva) di

cambiamento o il sistema lo espelle per mantenere l’equilibro dato o deve trovare un nuovo equilibrio sulle proposta di cambiamento.77

5.8 La “biodegradabilità” delle reti Le reti attivate con il mondo del volontariato si possono facilmente sciogliere poiché soggette appunto al volontarismo dei soggetti interessati. Il volontariato non può essere assunto come punto rete strutturale, come ad esempio può essere per un’altra istituzione formale. In altra maniera, se le reti non riescono a costruire un impianto strutturale, capace di rendersi autonomo dalle volontà delle persone che le hanno animate, difficilmente resistono e si esauriscono assieme alla spinta volontaristica delle persone che le hanno attivate.  

77 MORIN, E., Il metodo, Ordine disordine organizzazione, Milano, Feltrinelli Editore, 1983.

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