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Dispense Didattica 07 - Dipartimento di Matematica · 3 PREMESSA SULLA NECESSITÀ DI CAMBIAMENTO...

Date post: 31-Dec-2018
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PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE

Questa è la seconda edizione del testo “I suggerimenti della ricerca in didattica della matematica per la pratica scolastica”: la prima edizione, con lo stesso titolo, pubblicata nel 1999 da “La Goliardica Pavese” di Pavia, è stata completamente rivisitata, in due differenti direzioni: anzitutto si sono effettuate numerose modifiche al testo precedente per ottenerne una esposizione più organica, sia con la semplificazione delle presentazioni di alcuni modelli teorici che con la loro suddivisione in Capitoli, qui numerati da 1 a 6; inoltre, la prima versione è stata ampliata con l’aggiunta di due Capitoli: il Capitolo 7, dedicato al modello di insegnamento – apprendimento cooperativo e il Capitolo 10, che descrive nei dettagli una delle esperienze didattiche realizzate in classe secondo tale modello. Dopo alcuni anni di sperimentazione del modello cooperativo e nella convinzione che si tratti di una sorta di sintesi ottimale dei modelli costruttivisti sviluppati negli ultimi vent’anni e qui descritti nei primi sei Capitoli, ho voluto proporre la descrizione completa del modello collaborativo che abbiamo realizzato in classe ed anche, a titolo di esempio, l’analisi di una esperienza didattica svolta con gli studenti del biennio di scuola secondaria superiore in accordo a tale scelta didattica. Si completa così, secondo gli studi che ho sviluppato e le esperienze didattiche svolte, il quadro sintetico di quanto la ricerca in didattica della matematica può suggerire oggi, per la prassi scolastica, a chi sta formandosi alla professione di insegnante di matematica oppure a coloro che, già in servizio, intendano tornare a riflettere sulle metodologie didattiche che la ricerca più recente indica come più adeguate per l’educazione matematica .

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PREMESSA SULLA NECESSITÀ DI CAMBIAMENTO NELL’INSEGNAMENTO DELLA MATEMATICA Negli ultimi decenni si è riscontrata in tutto il mondo una notevole insoddisfazione riguardante gli esiti dell’insegnamento della matematica, con la conseguente richiesta di un radicale cambiamento nella didattica di questa disciplina. Il progresso scientifico e tecnologico, le trasformazioni sociali e gli studi di psicologi e pedagogisti avevano fatto sentire da tempo la necessità di un rinnovamento, sia a livello di contenuti sia a livello di metodi. Per quanto concerne i contenuti, anche se non ci occuperemo qui dell’argomento, si sono ottenuti soddisfacenti risultati a partire dagli anni ‘80, con la formulazione dei programmi per la scuola media (1979), per la scuola elementare (1985) e per la scuola secondaria superiore (Programmi sperimentali P.N.I. e Brocca, 1990-92). Nell’ambito dei metodi di insegnamento, invece, certamente si sono fatti alcuni passi avanti ma occorre lavorare ancora per attuare un cambiamento che possa migliorare la situazione attuale, soprattutto nella direzione della traduzione, nella pratica della classe, di ciò che la ricerca didattica suggerisce da anni. È opinione unanime che la matematica debba essere insegnata in modo attivo, vale a dire con la diretta e costruttiva partecipazione dell’alunno. A tale proposito sembra significativo che fin dagli anni sessanta il matematico e psicologo Z.P. Dienes abbia intitolato una sua opera “Costruiamo la matematica” (il lavoro originale, del 1960, è stato tradotto e pubblicato in italiano nel 1962). Nell’introduzione egli esordisce con queste parole: “… vorremmo che per quel che riguarda la matematica l’accento battesse non tanto su “l’insegnamento” quanto su “l’apprendimento”, non tanto sulle nostre esperienze quanto su quelle dei ragazzi, in pratica che ci si spostasse dal nostro mondo al loro mondo…”. Secondo Dienes l’obiettivo principale dell’insegnamento di matematica non è tanto quello di far apprendere determinati contenuti, quanto piuttosto quello di realizzare un ambiente che permetta agli alunni di acquisire un atteggiamento di ricerca, per arrivare alla scoperta e costruzione personale dei risultati matematici. A tale scopo si dovrebbe fare in modo di valorizzare il più possibile l’esperienza degli alunni, proponendo loro situazioni che richiedano una attiva manipolazione

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(fisica o intellettuale) fino ad arrivare alla elaborazione di possibili soluzioni. L’idea di un insegnamento attivo non è nuova: non si intende proporre qui uno sviluppo completo di tale ideologia, che ha radici storiche molto lontane, tuttavia sembra interessante sottolineare che già il pedagogista boemo Comenius, vissuto nel XVII secolo, con l’opera “Didactica Magna” ed il pedagogista svizzero Enrico Pestalozzi, con l’opera “Come Geltrude istruisce i suoi figli”, scritta nel 1801, presentano i principi della cosiddetta “scuola attiva”. In questi scritti sono espresse, anche se non in maniera esplicita, due idee fondamentali: il metodo di insegnamento “per cicli” ed il metodo “intuitivo – costruttivo”. Il metodo per cicli è stato introdotto da Comenius e consiste nel trattare uno stesso programma in modi diversi, a seconda delle diverse età degli allievi e della loro conseguente capacità di comprensione. Questo è il metodo che sta alla base dell’ordinamento della nostra scuola per molte materie ed ha lo scopo di dare all’allievo una cultura completa dopo ogni ciclo di studi; se questi deciderà di continuare, potrà approfondire gli argomenti già trattati. Il metodo intuitivo – costruttivo è presente in entrambe le opere sopracitate. Dice Comenius: “La cognizione deve necessariamente principiare dai sensi (se è vero che nulla può essere oggetto dell’intelletto se prima non è stato oggetto del senso): perché dunque l’insegnamento deve principiare con un’esposizione verbale delle cose e non da un’osservazione reale delle cose stesse? E quando sarà stata fatta questa osservazione delle cose, allora venga pure il discorso a spiegarle meglio.”. Analogamente, nell’opera del Pestalozzi si ritrova lo stesso concetto cioè che la “descrizione” deve sempre precedere la “definizione” e che è necessario abbandonare la didattica cattedratica per evitare l’apprendimento passivo da parte dell’alunno: egli deve invece fare diretta esperienza, agire, rendersi conto da solo delle cose e delle operazioni sulle cose, deve “intuire”. Questo ultimo termine aveva, inizialmente, il significato statico di guardare con attenzione, contemplare, ma già in Rousseau e soprattutto in Pestalozzi assume un senso dinamico: l’intuizione è una costruzione. Agli inizi del ‘900 queste idee furono riprese e sviluppate da Maria Montessori e dal belga Ovide Decroly, considerati gli iniziatori della pedagogia scientifica. In qualità di medici si occuparono entrambi di bambini intellettualmente e psichicamente anormali, per i quali era chiaro che si dovesse partire dal concreto. Lo stesso metodo di

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indagine scientifica, opportunamente modificato, poteva poi applicarsi anche per i bambini normali, in modo da accelerare o da facilitare il processo di acquisizione. Il metodo della Montessori è attivo – sintetico: sintetico in quanto costruttivo, cioè dall’elemento si passa all’insieme degli elementi, al globale. Anche Decroly, traendo ispirazione dalla concezione pestalozziana dell’intuizione, propone un metodo operativo, ma ha ideali e mezzi d’attuazione diversi da quelli della Montessori. Partendo dal presupposto che la mente non è attratta dal particolare, ma da una veduta d’insieme, globale, egli non dà in mano al ragazzo un materiale per costruire, ma lo stimola a trarre osservazioni analitiche dai fenomeni naturali, lo porta dall’osservazione globale alla scomposizione del fenomeno. Si tratta di un metodo attivo – analitico, dal complesso si passa al semplice. I pedagogisti moderni hanno completato ed in parte modificato i metodi degli studiosi citati, ma hanno accettato la loro idea di fondo e cioè la necessità di una partecipazione attiva da parte dei ragazzi. Anche la psicologia sottolinea che i principi del metodo attivo sono i più idonei nell’insegnamento della matematica. Lo psicologo svizzero Jean Piaget ha illustrato ampiamente questa idea, sostenendo che le strutture fondamentali della matematica corrispondono alle strutture elementari dell’intelligenza: c’è infatti parallelismo fra il processo per cui dal concreto, attraverso l’astrazione e l’uso di simboli artificiali, si costruisce la “matematica” ed il meccanismo per cui le azioni, dapprima soltanto sensorie – motrici, vengono coordinate dall’intelligenza in operazioni mentali tramite la funzione simbolica ed il linguaggio. Perciò il ricorso all’azione e, in generale, all’esperienza non compromette assolutamente l’esigenza del rigore deduttivo, ma contribuisce ad esso presentando basi concrete e non soltanto premesse verbali. Molti altri, da allora, hanno condiviso e sviluppato queste idee fondamentali, cioè, in estrema sintesi, la necessità di partire dall’esperienza, di mantenere costante il riferimento a situazioni concrete e di realizzare il coinvolgimento attivo degli studenti. Negli anni sessanta e settanta del secolo scorso numerosi matematici, particolarmente coinvolti nei problemi della didattica (come, ad esempio, Castelnuovo, Bonfanti, Speranza, Checcucci, Prodi, Villani ed altri), hanno fornito importanti contributi: si può dire che la loro opera sia stata essenziale per realizzare quel rinnovamento dei contenuti della

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matematica scolastica che, come si è detto, appare chiaramente dalla lettura dei programmi di insegnamento. Nella direzione di un rinnovamento dei metodi, tuttavia, in quegli anni è stato realizzato molto meno: anche se i matematici citati hanno fornito ampio materiale didattico, con esempi di situazioni concrete da realizzare con gli alunni, si può dire che la metodologia adottata nella maggioranza delle nostre classi (sia di scuola media inferiore sia di scuola media superiore) rimaneva ancora troppo lontana da quella auspicata, soprattutto in relazione al coinvolgimento attivo degli alunni nella costruzione del sapere. Nei decenni successivi l’interesse della ricerca didattica si è sviluppata anche sulle metodologie di insegnamento ed oggi è riconosciuto da tutti che la matematica non debba essere insegnata come dogma attraverso una serie di conclusioni, né presentata come teoria completa ed indiscutibile, soltanto da verificare: deve invece essere “costruita” attivamente da chi impara, anche in armonia con i propri stili di apprendimento e le proprie risorse personali. In un insegnamento ispirato a tale principio è necessario accentuare gli aspetti problematici di ogni indagine, i limiti delle conclusioni, gli interrogativi ed i problemi lasciati insoluti, introducendo la componente del dubbio nello svolgimento della lezione. È importante, inoltre, condurre l’allievo a studiare i suoi errori per trovarne la causa e a praticare così l’autocorrezione, incoraggiare i suoi modi di espressione personale, portarlo alla precisione ed al rigore dandogli coscienza della necessità di comunicazione con gli altri, esigendo che chiarisca il suo pensiero ai compagni. Anche nelle indicazioni didattiche dei programmi di insegnamento della matematica si suggerisce di cercare di mettere gli studenti in condizione di sviluppare importanti abilità, come ad esempio la capacità di risolvere una grande varietà di problemi correlati alla matematica, di ragionare e comunicare matematicamente e di apprezzare il valore e le potenziali applicazioni della matematica. Per raggiungere questi obiettivi occorre che gli insegnanti abbandonino l’idea, ancora dominante, dell’insegnamento della matematica come diretta trasmissione del sapere e cerchino di creare nelle loro classi ambienti di apprendimento nei quali: • incoraggiare gli studenti all’esplorazione; • aiutarli a verbalizzare le loro idee matematiche; • far loro constatare che molte questioni matematiche hanno più di

una risposta corretta; • insegnare, attraverso esperienze, l’importanza di un ragionamento

accurato e di una comprensione corretta;

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• incoraggiare tutti gli studenti sulle loro capacità matematiche. Gli obiettivi citati nascono dai risultati della ricerca didattica e fanno parte di un ventaglio più ampio di ricerche su tematiche differenti: i contenuti del curriculum (cosa i contenuti matematici dovrebbero insegnare, con quale ordine, con che tipo di materiali educativi di supporto), il dialogo e l’attività in classe, la valutazione, il ruolo degli insegnanti e la loro formazione. Occorre dunque realizzare ancora fondamentali cambiamenti nei processi educativi e questo può accadere solo se il futuro insegnante riceve una adeguata preparazione professionale (non solo a livello di contenuti) e ciascun educatore già in servizio viene coinvolto in una revisione personale della propria mentalità pedagogica e matematica ed aiutato ad identificare alcune strade concrete nelle quali il suo metodo abituale possa essere modificato per riflettere i risultati di questa revisione. Le idee espresse in questa breve introduzione saranno approfondite nei Capitoli che seguono. In particolare si vedrà in dettaglio, nella PRIMA PARTE, che cosa si intende per sistema didattico, cioè la terna costituita da insegnante – alunno – sapere (Capitolo 1), come si caratterizza il modello della trasmissione della conoscenza (o empirismo) che sta alla base dell’insegnamento tradizionale (Capitolo 2) e quali sono i principali modelli di insegnamento – apprendimento che oggi si propongono come alternativi a quello tradizionale (Capitoli 3 - 7). Nella SECONDA PARTE saranno poi descritti (Capitoli 8 - 10) alcuni esempi di trasposizione didattica che possono essere considerati una buona interpretazione, nella pratica scolastica, delle idee costruttiviste esposte e dei suggerimenti metodologici che ne conseguono.

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Note 1. Per una sintetica ma approfondita sintesi sul lavoro in Didattica della Matematica di Z. P. Dienes nel ventennio 1960-1980 si può vedere l’articolo di R. Borasi, Presupposti teorici del metodo di Z. P. Dienes, sulla rivista L’insegnamento della matematica e delle scienze integrate, Vol. 3 n. 5, 1980, 49-69. 2. Sulla figura e l’opera di Pestalozzi si può consultare l’articolo di S. Foster, Pestalozzi, dalla mano al concetto matematico, sulla rivista L’educazione Matematica, Vol. 2, 1997, 4-25. 3. Nella presentazione dei vari argomenti dei Capitoli 1- 6 si è fatta la scelta di una esposizione il più possibile fedele al pensiero del ricercatore o dei ricercatori che hanno maggiormente sviluppato l’argomento affrontato. Nella ‘Bibliografia ragionata’ sono precisati, per ognuno di questi Capitoli (o per ogni gruppo di paragrafi) l’autore o gli autori di riferimento e gli articoli che sono stati consultati. Si è voluto evitare di aggiungere commenti personali ma si sono riportati, spesso alla lettera, i contributi originali dei ricercatori: la scelta di questi, ovviamente, è del tutto personale, come pure l’organizzazione che ne è risultata. L’obiettivo che così si è sperato di raggiungere è duplice: anzitutto una maggiore chiarezza espositiva, con la possibilità di approfondire le tematiche affrontate; inoltre si è voluto illustrare il contributo positivo della attuale ricerca in didattica della matematica, che presenta aspetti anche molto contrastanti ma di cui, qui, si sono voluti cogliere quei suggerimenti che sono stati ritenuti importanti per la formazione professionale di un insegnante di matematica. Il Capitolo 7, sul modello cooperativo, costituisce l’esito di alcuni anni di sperimentazione che ho condotto in collaborazione con alcuni insegnanti, soprattutto di scuola media superiore: a differenza dei precedenti Capitoli, questo presenta dunque osservazioni e convinzioni personali, ovviamente basate sulle esperienze svolte e collegate alla letteratura sugli stessi temi.

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PRIMA PARTE CAPITOLO 1 IL SISTEMA DIDATTICO

1. INTRODUZIONE

All’origine della didattica della matematica come campo scientifico, vi è la constatazione di una grande complessità di rapporti fra insegnamento ed apprendimento e la convinzione che le situazioni di insegnamento, nelle loro dimensioni epistemologiche, sociali e cognitive possano essere descritte in modo razionale. Qual è il campo di studi della didattica della matematica? Per Brousseau (1986) sono i “fenomeni legati all’attività di insegnamento, concernenti specificatamente il sapere insegnato”. Per Laborde (1989): “Ciò che noi chiamiamo didattica della matematica in Francia riguarda lo studio dei rapporti tra insegnamento ed apprendimento nei loro aspetti che sono specifici della matematica”. Per Margolinas (1990): “Oggetto di studio di questo campo scientifico è il sistema didattico = (Insegnante – Allievo – Sapere)”. Nonostante le diversità espressive, le tre precedenti definizioni possono essere considerate equivalenti e ci portano dunque ad occuparci del sistema didattico. 2. IL SISTEMA DIDATTICO

Il sistema didattico è costituito dalla terna Insegnante, Alunno e Sapere, con le interazioni tra Insegnante ed Alunno relative ad un dato Sapere, in una situazione di insegnamento. Per rappresentare tale situazione si usa di solito il seguente schema triangolare

S

I A

che, pur essendo riduttivo, supera il modello lineare di un’unica relazione pedagogica tra insegnante e alunno.

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Ciò che ci proponiamo è di capire il funzionamento del sistema didattico. Nonostante alcuni studi mettano l’accento su una sola delle componenti di tale sistema, esso è da considerarsi come un tutto inscindibile. Le sue componenti devono essere studiate all’interno di un disciplina specifica, la didattica della matematica. L’insegnante fa parte del sistema didattico ed è perciò oggetto di studio. Si formula l’ipotesi che le leggi del sistema didattico influenzino molto l’insegnante nella sua attività. Tale affermazione è in contrasto con l’idea comune che il buon insegnante sia capace di adattarsi ad ogni situazione di insegnamento. Per quanto riguarda l’alunno, la pedagogia ha spesso considerato la sua attività indipendentemente dal sapere insegnato e dunque indipendentemente dalla situazione didattica nella quale si trova. Contrariamente a questa posizione si può affermare che l’attività dell’alunno in classe è un’attività specifica che non può essere misurata convenientemente da alcun parametro che non tenga conto del progetto nel quale l’alunno è impegnato e che, durante l’ora di matematica, dipende dal sapere matematico in gioco. Il sapere stesso non deve essere considerato come un oggetto “inerme” del sistema didattico. Gli studi di didattica mirano anche a mettere in evidenza la complessità del sapere e dei fenomeni costitutivi della trasformazione del sapere nel corso della trasmissione (ciò che Chevallard chiama trasposizione didattica). Il sapere non è dunque un dato universale e a - temporale. Mentre nel sistema di insegnamento l’insegnante e l’alunno sono definiti dalle loro posizioni nell’istituzione scolastica, qui si devono definire in funzione delle loro relazioni con il sapere. Ciò che definisce l’insegnante e l’alunno come tali è il progetto del sistema didattico, cioè il passaggio da uno stato iniziale ad uno stato finale nei confronti del sapere, oggetto dell’apprendimento. Questi stati sono caratterizzati dalle differenti relazioni che insegnante e alunno hanno con il sapere. STATO INIZIALE: stato didattico

Si può definire stato didattico uno stato nel quale la relazione dell’alunno con il sapere è inesistente, o inadeguata, mentre invece quella dell’insegnante con il sapere stesso è una relazione privilegiata. Lo stato iniziale del sistema didattico è uno stato didattico nel senso che è stato precisato; in esso l’insegnante intrattiene una relazione privilegiata con il sapere. Dal punto di vista della relazione con il sapere, vi è una dissimmetria che è costitutiva del sistema didattico.

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Prima dell’insegnamento, non è detto che l’alunno non abbia qualche idea riguardo a quel particolare sapere, ma, semplicemente, la sua relazione con esso non è adeguata. Senza l’ipotesi di questa dissimmetria il sistema didattico non avrebbe motivo di esistere. Lo schema che rappresenta questo stato iniziale è il seguente:

S

I A STATO FINALE: stato non didattico

Si può definire stato non didattico uno stato nel quale l’alunno è solo e risolve un problema che non gli è stato sottoposto ai fini dell’insegnamento: la relazione dell’allievo con il sapere è indipendente dalla relazione con il sapere del maestro. Lo stato finale del sistema didattico è proprio uno stato non didattico; in esso l’insegnante è assente e l’alunno intrattiene una relazione adeguata con il sapere. Lo schema che traduce lo stato non didattico è il seguente:

S

( I ) A Si è dunque messo in evidenza che nel sistema didattico l’insegnante si distingue dall’alunno in quanto si suppone che egli “sappia” e sia anche in grado di fare in modo che l’alunno apprenda. Inoltre il sistema didattico ha, come caratteristica particolare, quella di dover scomparire. Se l’insegnante riesce ad assolvere il suo compito, deve potersi ritirare e l’alunno deve essere in grado di mantenere la sua relazione con il sapere anche quando l’insegnante non sia presente.

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2.1 IL SAPERE

Il termine “sapere” è molto generico ed interrogarsi sul suo significato conduce al di fuori del sistema didattico in senso stretto. Yves Chevallard (1985) distingue a questo proposito tre tipi di sapere: • sapere sapiente (oggetto di sapere); • sapere da insegnare (oggetto da insegnare); • sapere insegnato (oggetto di insegnamento). Presentiamo qui, in modo schematico, il processo generale di trasformazione che permette di passare dal sapere sapiente al sapere insegnato. Tale processo è stato denominato “trasposizione didattica” da Chevallard che per primo ne ha fatto l’analisi in didattica. “La trasposizione didattica in senso lato è rappresentata dallo schema: → oggetto di sapere → oggetto da insegnare → oggetto di insegnamento nel quale il primo anello della catena segna il passaggio dall’implicito all’esplicito, dalla pratica alla teoria, dal precostruito al costruito.” (Chevallard, 1985) Primo anello della catena: → sapere sapiente

Gli oggetti che costituiscono il sapere matematico sono prodotti dalla comunità matematica. L’attività scientifica è una attività umana che, come tale, si colloca in una storia personale, quella del ricercatore. Durante la fase di costruzione del sapere l’attività del ricercatore è personalizzata poiché è lui stesso a scegliere il problema del quale occuparsi, gli strumenti concettuali e la strada da adottare nella sua ricerca. Nell’elaborare le sue riflessioni egli può commettere errori, può avere dei ripensamenti e le dimostrazioni da lui ottenute possono essere diverse da quelle desiderate o previste. Risultano anche personali le motivazioni che hanno condotto il ricercatore a questo suo lavoro che, in genere, riguarda un problema specifico: perciò questa attività assume anche un carattere contestualizzato. Il ricercatore, dunque, elabora delle conoscenze, di cui alcune gli appaiono sufficientemente nuove ed interessanti per essere comunicate alla comunità matematica. Egli dà allora a tali conoscenze la forma più generale possibile, secondo le regole di comunicazione vigenti nella comunità scientifica cui appartiene. Questa fase rappresenta un momento molto importante nella attività matematica: è il momento della comunicazione del sapere.

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“Un ricercatore, per comunicare agli altri ricercatori ciò che pensa di aver trovato, lo trasforma: - elimina prima di tutto ciò che si potrebbe chiamare “l’infanzia” della sua ricerca: le riflessioni inutili, gli errori, gli itinerari tortuosi, troppo lunghi, che portano perfino a dei vicoli ciechi. Sopprime ugualmente tutto ciò che attiene all’ordine delle motivazioni personali o a quello del suo punto di vista sul basamento ideologico della scienza. Noi designeremo l’insieme di queste soppressioni con il termine di “depersonalizzazione”;

- egli sopprime successivamente la storia anteriore (tentennamenti, false piste, …) che lo ha condotto a tale ricerca, la distacca eventualmente dal problema particolare che voleva risolvere e cerca il contesto più generale nel quale il risultato è vero. E’ ciò che noi chiameremo con il termine di “decontestualizzazione”.” (G. Arsac, 1989)

La descrizione del processo attraverso il quale il ricercatore in matematica arriva a comunicare una scoperta ai suoi colleghi, serve qui per capire alcune caratteristiche dell’oggetto di sapere così come questo appare nei testi dell’istituzione produttrice: è ovvio però che non si può ridurre a ciò la descrizione del lungo processo storico che ha condotto ai vari oggetti del sapere matematico. La depersonalizzazione e la decontestualizzazione sono due caratteristiche dell’oggetto di sapere, così come questo appare culturalmente, e si può dire che esse abbiano sia un effetto positivo che un effetto negativo sul processo successivo di trasposizione didattica. L’effetto positivo è quello di rendere il sapere pubblico, dunque utilizzabile e verificabile da chiunque, almeno da tutti i membri di una stessa comunità scientifica. L’effetto negativo è quello di far scomparire parzialmente o totalmente il contesto della ricerca e della scoperta, che diventano quindi misteriose e private di senso. Questa perdita di senso non riguarda i ricercatori contemporanei o dello stesso settore dell’autore della pubblicazione, in quanto essi conoscono il retroterra del lavoro e la posizione esatta della scoperta nell’ambito dei problemi a loro familiari, poiché essi hanno accesso ad altri livelli di comunicazione.

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Secondo anello della catena: sapere sapiente → sapere da insegnare

Si potrebbe ritenere che l’insegnante sia in grado di trasformare direttamente, di sua iniziativa, un sapere “sapiente” in oggetto di insegnamento. In realtà, esiste un lavoro, essenziale, che precede quello dell’insegnante, nel quale quest’ultimo non ha influenza diretta in quanto solo insegnante (può averne in quanto membro della società dei professori di matematica, o di un sindacato, etc.). Il sistema di insegnamento deve essere considerato come un sistema aperto, cioè avente interazione con l’ambiente sociale (in particolare con le famiglie e le comunità scientifiche) ed il suo funzionamento deve essere compatibile con questo ambiente sociale. Yves Chevallard ha utilizzato il termine “noosfera” per designare l’insieme dei luoghi e delle istanze dove avvengono gli scambi tra il sistema di insegnamento ed il suo ambiente (rappresentato ad esempio da associazioni di specialisti e da commissioni di riflessione sull’insegnamento). “Nella noosfera dunque, i rappresentanti del sistema di insegnamento, comandati o no (dal presidente di una associazione di insegnanti al semplice professore militante) incontrano, direttamente o no, i rappresentanti della società (i genitori degli alunni, gli specialisti della disciplina che militano intorno al suo insegnamento, gli emissari degli organi politici, etc.). Il problema primario che deve essere risolto affinchè il sistema di insegnamento esista, cioè affinchè l’insegnamento sia possibile, è quello della compatibilità del sistema con il suo ambiente”. (Y. Chevallard, 1985) La noosfera deve sostenere costantemente la matematica in quanto disciplina, deve difendere e giustificare il suo ruolo all’interno dell’insegnamento, soprattutto quando se ne contestano i contenuti. In effetti, nella società non esiste nessuna istituzione che corrisponda alla noosfera; tuttavia visto che la trasposizione si verifica, sembra plausibile l’ammissione della sua esistenza all’interno della nostra teoria. Particolare e fondamentale compito della noosfera è quello di effettuare, nella trasposizione didattica, il passaggio dal sapere sapiente al sapere da insegnare. Un doppio vincolo pesa sulla noosfera quando essa deve indicare un sapere come sapere da insegnare: “da una parte il sapere insegnato deve essere visto dai “sapienti” stessi come sufficientemente vicino al sapere sapiente…, d’altra parte il sapere insegnato deve apparire come sufficientemente lontano dal sapere dei

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“genitori”, cioè dal sapere banalizzato dalla società (e banalizzato soprattutto dalla scuola).” (Y. Chevallard, 1985) La noosfera assolve il suo compito mediante una operazione di cambiamento di programmi, proponendo una parte di sapere proveniente dal sapere sapiente: in tal modo diminuisce la distanza tra il sapere da insegnare ed il sapere sapiente e ristabilisce la distanza con il sapere banalizzato. Il sapere da insegnare non si colloca solo nei testi dei programmi; un testo di programma deve infatti essere interpretato. Il sapere da insegnare è dunque quello che l’insegnante trova interpretato sui libri di testo e nelle abitudini che si consolidano nel tempo. Chevallard parla in questo senso globale del “testo del sapere”, sottolineando che questo testo non è interamente scritto da nessuna parte.

A questo punto merita attenzione un fenomeno che spesso influenza la trasposizione didattica nel passaggio da sapere sapiente a sapere da insegnare: si tratta del “processo di elementarizzazione” (Prodi, 1982) del sapere sapiente, nel quale l’insegnante in quanto tale può avere un ruolo determinante attraverso la sperimentazione di un sapere sapiente che non è ancora diventato sapere da insegnare. Questo processo, che rende più elementari certe concezioni o teorie che in quel momento sono proprie solo dei ricercatori, è di solito attuato da insegnanti in collegamento a gruppi di ricerca didattica e il suo sviluppo può anche richiedere un arco di tempo abbastanza lungo. In passato tale processo ha ricoperto un ruolo importante per ciò che riguarda il calcolo infinitesimale, la geometria analitica, le trasformazioni geometriche, l’informatica, la probabilità e la statistica, argomenti che fino a qualche tempo fa segnavano il distacco tra la matematica universitaria e quella preuniversitaria. Terzo anello della catena: sapere da insegnare → sapere insegnato

A questo livello interviene l’insegnante. Dal punto di vista della didattica, ciò che accomuna insegnante ed alunno è la relazione con il sapere, ma i progetti dell’uno e dell’altro nei confronti di questo sapere sono diversi perché sono differenti le loro posizioni nel sistema didattico. Per precisare e strutturare tali posizioni si parla di contratto didattico. Si può definire il contratto didattico come “l’insieme delle relazioni che determinano - esplicitamente in piccola parte, ma soprattutto implicitamente - ciò che ciascun partner, l’insegnante e l’insegnato, ha la responsabilità di amministrare e di cui sarà, in un

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modo o nell’altro, responsabile davanti all’altro. Questo sistema di obblighi reciproci assomiglia ad un contratto. Ciò che ci interessa qui è il contratto didattico, cioè la parte del contratto che è specifica del “contenuto”: la conoscenza a cui si mira”. (G. Brousseau, 1986). Sul concetto di contratto didattico si tornerà più in dettaglio nel Capitolo 5, nell’ambito della teoria delle situazioni didattiche. 2.2 L’INSEGNANTE

Mentre per descrivere i passaggi dal sapere sapiente al sapere insegnato non occorre precisare il modello di insegnamento - apprendimento cui si fa riferimento, ciò non risulta più possibile quando si passa ad esaminare le figure di insegnante ed alunno: è chiaro infatti che la descrizione dei loro ruoli non può prescindere da un modello di riferimento. In ciò che segue assumeremo dunque un modello costruttivista, nel senso che sarà precisato in dettaglio a partire dal Capitolo 3, cioè un modello alternativo a quello tradizionale (descritto nel Capitolo 2). L’insegnante interviene, come si è già detto, soprattutto nel passaggio da sapere da insegnare a sapere insegnato. “ L’insegnante non ha come missione quella di ottenere degli alunni che apprendono, ma piuttosto quella di fare in modo che essi possano apprendere. Egli ha come compito non la presa in carico dell’apprendimento (che rimane fuori dal suo potere) ma la presa in carico della creazione delle condizioni di possibilità dell’apprendimento”. (Chevallard, 1986) I ruoli principali dell’insegnante sono caratterizzati dal processo di devoluzione e dal processo di istituzionalizzazione. Devoluzione

In questa fase l’insegnante deve trasferire all’allievo la responsabilità di risolvere un problema e deve fare in modo che l’allievo decida di assumersi tale responsabilità. L’insegnante, inizialmente, svolge un lavoro inverso rispetto a quello del ricercatore: egli, infatti, cerca di ricontestualizzare e ripersonalizzare il sapere da insegnare; inoltre propone dei problemi che diano senso alle conoscenze da insegnare, in modo che l’attività dell’alunno possa assomigliare a quella del ricercatore. La modalità con cui si arriva alla conoscenza per l’alunno, deve avvicinarsi a quella con cui si arriva alla conoscenza nel sapere di riferimento, nel nostro caso la matematica.

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Istituzionalizzazione

Nella fase di istituzionalizzazione l’insegnante riprende la sua posizione rispetto al sapere, riconoscendo la correttezza (adeguatezza) del prodotto degli alunni. Anche se la fase di devoluzione ha funzionato nel migliore dei modi, nel momento in cui l’alunno ha trovato le soluzioni ai problemi posti, egli non sa che ha prodotto una conoscenza adeguata, da poter utilizzare in altre situazioni. Per trasformare le risposte e le conoscenze degli alunni in sapere, gli stessi, con l’aiuto dell’insegnante, devono poter ridecontestualizzare e ridepersonalizzare la conoscenza che essi hanno prodotto, per poter riconoscere, nel loro lavoro, qualche cosa dotato di un carattere universale, un sapere culturale riutilizzabile in altre situazioni. 2.3 L’ALUNNO

Lo scopo dell’alunno è quello di apprendere; ciò non va inteso, però, come un semplice trasferimento di informazioni provenienti dall’insegnante verso l’alunno stesso. Si è detto che il lavoro intellettuale dell’alunno deve essere paragonabile, in un certo senso, all’attività scientifica del ricercatore. “Conoscere la matematica non significa solamente apprendere delle definizioni e dei teoremi, per riconoscere l’occasione di utilizzarli e di applicarli; sappiamo bene che fare della matematica implica che ci si occupi di problemi. Non si fa della matematica se non occupandosi di problemi, ma ci si dimentica a volte che risolvere un problema è solo una parte del lavoro; trovare delle buone questioni è importante tanto quanto trovare delle soluzioni. Una buona riproduzione di un’attività scientifica da parte dell’allievo esige che si tratti, che si formuli, che si provi, che si costruiscano dei modelli, dei linguaggi, dei concetti, delle teorie, che egli li scambi con altri, che riconosca quelli che sono conformi alla cultura, che egli prenda a prestito quelli che gli sono utili, etc. . Per rendere possibile una tale attività, il professore deve dunque immaginare e proporre agli allievi delle situazioni che essi possano vivere e nelle quali le conoscenze appaiano come la soluzione ottimale che si può scoprire attraverso i problemi posti”. ( Brousseau, 1986) La comprensione della situazione didattica ed in particolare dell’apprendimento dell’alunno, necessita del completamento del triangolo sapere – insegnante – alunno con un quarto elemento: l ’ambiente, che

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in tutti i modelli costruttivisti è interpretato come sistema antagonista dell’alunno nella situazione didattica. A proposito dell’apprendimento si possono formulare le due seguenti ipotesi: 1) l’apprendimento avviene per adattamento, come si può dedurre dalla teoria di Piaget: il soggetto apprende adattandosi (assimilazione – accomodamento) ad un ambiente che risulta produttore di contraddizioni, di difficoltà e di squilibri; 2) un ambiente senza intenzioni didattiche (cioè non volontariamente organizzato per insegnare un sapere) è insufficiente ad indurre, in un soggetto, la conoscenza che si auspica egli acquisisca. L’insegnante deve dunque provocare negli alunni gli “adattamenti” desiderati attraverso una scelta adeguata di situazioni da proporre loro. Si può dire che il “senso” di una conoscenza, per l’alunno, derivi essenzialmente dalle situazioni nelle quali quella stessa conoscenza interviene, o è intervenuta, come l’adattamento più opportuno. Le due ipotesi citate saranno riprese e commentate più in dettaglio nel seguito, quando si descriverà la teoria delle situazioni didattiche, tuttavia qui sono importanti perché precisano meglio la posizione dell’alunno all’interno della sistema didattico.

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CAPITOLO 2

IL MODELLO DELLA TRASMISSIONE DELLA CONOSCENZA (EMPIRISMO) 1. INTRODUZIONE

Secondo il modello tradizionale, una lezione di matematica si sviluppa solitamente attraverso le seguenti fasi: la correzione dei compiti assegnati i giorni precedenti, la risoluzione da parte dell’insegnante o di uno studente dei problemi più complessi, la spiegazione data dall’insegnante di una parte nuova di programma e lo svolgimento di esercizi sul nuovo argomento. Una tale pratica didattica risulta ragionevole se si condividono le seguenti ipotesi: 1. una concezione logico – positivista della conoscenza matematica,

intesa come un corpo di argomenti e di tecniche precise, strutturate in modo gerarchico ed esistenti al di fuori di ogni contesto, che può essere trasmesso dagli insegnanti agli studenti poco alla volta: si tratta di una epistemologia oggettivista, secondo cui la vera conoscenza delle cose del mondo è possibile e la certezza in matematica è raggiungibile;

2. una concezione behavioristica dell’apprendimento, ovvero l’apprendimento come accumulo continuo di informazioni e di tecniche apprese attraverso l’ascolto, l’osservazione, la memorizzazione e la pratica: dunque la conoscenza, che è precostituita, è solo da ricevere da parte del discente. Si tratta di una visione passivo – ricettiva dell’apprendimento, che ascrive gli errori ed i misconcetti degli studenti ad una memorizzazione difettosa oppure ad applicazioni distratte;

3. una concezione dell’insegnamento come trasmissione diretta della conoscenza da parte dell’insegnante: l’efficacia è tanto più elevata quanto più chiare sono le spiegazioni date allo studente e quanto più attentamente egli le ascolta, le memorizza e si esercita.

Secondo la teoria empirista, la conoscenza sarebbe dunque indotta dal reale grazie alla percezione che ne ha lo studente. Nello schema empirista il motore dell’apprendimento è la percezione: l’insegnante deve rendere percettibile, sensibile, il sapere, deve mostrare il sapere. In questa concezione dell’insegnamento, l’allievo è il ricevitore – registratore della “mostra” del sapere realizzata dall’insegnante. La genesi della

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conoscenza non è essenziale e lo stato più recente di essa prende il passo sugli stati anteriori. A proposito di tale teoria, Piaget dichiara che è facile dimostrare, grazie ai metodi sperimentali della psicologia, che la genesi e lo sviluppo della conoscenza non si conformano allo schema empirista: questo costituisce uno dei risultati più chiari delle sue ricerche sulla formazione della conoscenza nel bambino. Un qualsiasi progetto che intenda insegnare la matematica in modo diverso da quello attuato fino ad oggi nella maggior parte delle scuole, esige una discussione ed una revisione delle concezioni appena esposte, che costituiscono il fondamento del paradigma della trasmissione. 2. LE CRITICHE AL MODELLO DI INSEGNAMENTO FONDATO SULLA TRASMISSIONE

Numerosi studi sul modo di insegnare a scuola le varie discipline, anche diverse dalla matematica, sono concordi nel ritenere che le attuali concezioni del modello di trasmissione riguardanti la conoscenza, l’insegnamento e l’apprendimento non possano più essere sostenute.

Una prima critica è di tipo essenzialmente economico: il mondo in cui viviamo ha subito tanti e tali cambiamenti che non è più richiesto agli studenti di acquisire solo alcuni concetti fondamentali e di sviluppare, come un tempo, l’abilità di calcolo. La sfera del lavoro pretende oggi persone in grado di assimilare nuove idee, di adattarsi ai cambiamenti delle situazioni, di cogliere le strutture e risolvere problemi non convenzionali, vale a dire persone che riescano a ricoprire il ruolo di ricercatore.

Un secondo tipo di critica al modello di insegnamento come trasmissione, si pone obiettivi più ampi della prima critica e deriva dal lavoro di filosofi che hanno studiato la questione essenziale di come l’uomo arrivi a conoscere il mondo. Una prospettiva semiotica della conoscenza, a partire dagli scritti del pragmatista americano Pierce (1839-1914), critica l’ipotesi che la conoscenza assoluta sia realizzabile: ogni conoscenza avviene in modo indiretto, in quanto noi conosciamo il mondo solo attraverso segni e, dal momento che questi devono essere interpretati da altri segni, non possediamo alcuna garanzia che la nostra conoscenza sia assoluta. Dunque Pierce sostiene che la conoscenza non può essere stabile e certa e propone la tesi di una conoscenza intesa come processo di ricerca motivato da incertezza, sempre esposta al dubbio. Questa posizione non è però scettica; egli, infatti, sostiene che non potremmo vivere ogni giorno con il dubbio e quindi non dobbiamo

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continuamente dubitare di ciò che accettiamo come stabile. Allo stesso tempo, dobbiamo riconoscere la contingenza di questa stabilità ed essere pronti a rivedere o rifiutare quelle conoscenze che si dimostrano false. La metafora che Pierce utilizza per esprimere questa sua concezione è che la conoscenza sia come camminare in una palude: “Noi non abbiamo mai un terreno roccioso sotto i piedi; camminiamo su una palude e possiamo essere sicuri che la palude è sufficientemente solida per sostenerci momentaneamente. Questa non è solo l’unica certezza che possiamo realizzare, ma è anche tutta la certezza che possiamo desiderare in quanto è proprio questo terreno così molle che ci spinge ad andare avanti… Solo il dubbio e l’incertezza possono motivarci a cercare nuova conoscenza.” In modo analogo, le analisi condotte da Kuhn (1970), da Lakatos (1976) e da Kline (1980) su alcuni eventi centrali della storia della scienza illustrano come anche la matematica non possa essere considerata la “disciplina della certezza” ma, piuttosto, un prodotto dell’attività umana. Questi studiosi affermano, partendo da esempi storici, che la crescita della conoscenza scientifica non è un processo cumulativo, nel quale, gradualmente, si scoprono dei fatti che si accumulano col tempo, ma è più simile ad un susseguirsi di rivoluzioni in cui la concezione del mondo viene rimpiazzata da una teoria più potente in grado di rendere conto di anomalie che precedentemente non si riusciva a spiegare. Le teorie costruttiviste, a partire da quella radicale, sostengono una concezione analoga, affermando che ogni conoscenza viene costruita e dunque è fallibile. Il rifiuto di una conoscenza assoluta implica che il concetto di “verità matematica” si debba riconsiderare: essa è da intendersi come un prodotto di negoziazione all’interno di una comunità di persone che conoscono il problema o ne stanno facendo oggetto di ricerca. Il ruolo della comunità nella costruzione della conoscenza è un tema importante per il costruttivismo che considera ogni disciplina come un’opera collettiva, costituita da un insieme condiviso di norme, di valori, di convinzioni e di pratiche.

Mentre i filosofi della scienza hanno concettualizzato il processo della conoscenza come un continuo processo di ricerca ed i sociologi, assieme agli antropologi, hanno dimostrato come questo processo si realizzi nella vita quotidiana, gli psicologi hanno concentrato la loro attenzione sulla conoscenza del singolo individuo ed in questo modo hanno inferto la terza critica dell’ipotesi dell’apprendimento basata sul modello behavioristico.

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Ispirandosi al modello dello sviluppo cognitivo di Piaget (da lui esposto a partire dal 1936 ed ampiamente dettagliato in numerose situazioni sperimentali fino agli anni settanta), che pone in primo piano come il ragazzo costruisca concetti e strutture attraverso l’interazione con il suo ambiente, diversi ricercatori, in riferimento all’apprendimento della matematica, hanno mostrato che, se si vuole realizzare un apprendimento significativo, lo studente deve costruire in modo attivo una personale comprensione dei concetti e delle tecniche matematiche. È tuttavia importante rendersi conto che questa concezione di apprendimento non porta necessariamente alla concezione dei costruttivisti sulla conoscenza, di cui si è accennato, ma potrebbe, invece, essere compatibile con altri approcci didattici come il “discovery learning” (apprendimento per scoperta) il quale ammette implicitamente che la conoscenza matematica che si deve acquisire sia prestabilita ed indiscussa, anche se richiede di essere costruita personalmente dal singolo allievo affinchè venga appresa. Il costruttivismo radicale sostiene invece che sia il processo della conoscenza sia l’oggetto di questa vengano costruiti personalmente attraverso l’esperienza e ritiene che il significato della conoscenza sia da considerare circoscritto a quella esperienza, vissuta all’interno di una data comunità di individui. Come appare chiaramente da quanto è stato esposto, si sono sviluppate numerose correnti di pensiero, a livello di psicologia dell’apprendimento, per contrastare il modello della trasmissione della conoscenza. Nei Capitoli successivi si esamineranno, più in dettaglio, alcuni di questi modelli alternativi, tutti di matrice costruttivista. 3. LA FASE DI VALUTAZIONE: UN MOMENTO TIPICO DELL’INSEGNAMENTO BASATO SULL’EMPIRISMO

La fase di valutazione è una delle modalità secondo cui può essere svolta la fase di conclusione del lavoro compiuto da un alunno o da un gruppo di alunni: durante questa fase si accede all’informazione sulla validità del proprio lavoro, informazione che è espressa dall’insegnante sotto forma di giudizio definitivo. Nella concezione empiristica dell’insegnamento, l’insegnante è sempre in relazione pubblica con il sapere, perché così l’allievo può cercare di rassomigliare all’insegnante, e ciò costituisce l’apprendimento. La fase di conclusione è dunque organizzata come fase di valutazione se in essa l’insegnante è un personaggio pubblico, cioè si esprime esplicitamente sul sapere in gioco.

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Questo momento potrebbe essere pubblico per un solo allievo, relativamente alla sua risposta, ma, per ragioni di economia, l’insegnante tende a realizzare la fase di valutazione pubblicamente per l’intera classe. Sempre per ragioni di economia, egli ha interesse ad esporre la sua soluzione (o quella di un allievo che è riuscito), perché, da una parte è la sola maniera di valutare tutte le risposte date dagli allievi e, d’altra parte, questa nuova dimostrazione può andare a costituire parte del sapere che vuole trasmettere. In particolare questa fase di valutazione gli permette di mostrare i criteri di validità che egli intende vedere utilizzati. Qual è lo stato prevedibile del sistema didattico durante la fase di valutazione? Durante la fase di valutazione, il lavoro dell’insegnante è dunque pubblico, le sue relazioni al problema ed al sapere sono pubbliche. Il fatto è che la relazione dell’allievo con il sapere, durante la fase di valutazione, non è vincolata dalla situazione. Si possono distinguere quattro possibili situazioni differenti, che caratterizzano le possibili situazioni per l’alunno. Nel primo caso l’allievo intrattiene una relazione privata con il sapere.

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I A

In effetti, l’allievo può leggere il discorso pubblico dell’insegnante stabilendo da sé una relazione privata con il problema e con il sapere in gioco: questo è ciò che l’insegnante spera. In questo caso, l’allievo interpreterà il discorso dell’insegnante durante la fase di valutazione come un discorso relativo al sapere. L’allievo può farsi carico di questo discorso come un ragionamento che potrebbe tenere lui stesso, quando avrà ben capito le nozioni matematiche in gioco nel ragionamento: egli legge il discorso dell’insegnante come un allievo - matematico. In questo caso, se egli avrà commesso un errore, cercherà di capire le ragioni matematiche che fanno sì che il suo risultato sia falso. Nel secondo caso c’è una relazione privata dell’allievo con l’insegnante visto come rappresentante dell’istituzione scolastica.

S

I A

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In effetti, l’allievo può leggere il discorso pubblico dell’insegnante come quello di un membro dell’istituzione scolastica particolarmente potente, senza che la valutazione sia collegata al sapere matematico, ma al potere istituzionale. È l’insegnante che ha ragione, perché ha il potere. In questo caso il discorso dell’insegnante durante la fase di valutazione è letto dall’allievo senza alcun rapporto con il sapere e con la verità matematica. Se l’allievo avrà commesso un errore, si sentirà in minoranza rispetto all’istituzione. Nel terzo caso c’è ancora una relazione privata dell’allievo con l’insegnante visto, questa volta, come persona.

S

I A In effetti, l’allievo può leggere il discorso dell’insegnante come indirizzato a lui personalmente. Egli sentirà il discorso come un rifiuto o un’accettazione della sua personalità. Anche in questo caso il discorso dell’insegnante, durante la fase di valutazione, è letto senza alcun rapporto con il sapere. Se l’allievo avrà commesso un errore, si sentirà rifiutato personalmente dall’insegnante che non accetta il suo risultato. Il suo risultato sarà “cattivo” (in opposizione a falso). Nell’ultimo caso c’è una relazione privata dell’allievo con sé stesso. In effetti, l’allievo può anche non ascoltare il discorso dell’insegnante, poiché il suo lavoro pubblico è finito, quello dell’insegnante comincia e questo è tutto.

S

I A In conclusione, la relazione dell’allievo con il sapere, durante la fase di valutazione, non è vincolata dalla situazione didattica ma dipende da ciò che, nell’allievo, è esterno a questo sistema, come ad esempio la sua personalità, la sua motivazione, la sua storia o il suo contesto socio – culturale.

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4. RIUSCITA DELL’INSEGNAMENTO BASATO SULL’EMPIRISMO

In questo paragrafo vogliamo provare a rispondere ad una domanda importante e paradossale. In effetti, se il sistema di insegnamento ha delle disfunzioni su una gran parte di punti, non è possibile negare, tuttavia, che ha permesso, sino ad oggi, una trasmissione del sapere. Come è possibile ciò? Nell’insegnamento tradizionale l’insegnante è quasi sempre un personaggio pubblico e quindi non dà sistematicamente l’occasione all’allievo di costruirsi (mediante, in particolare, un’interazione con l’ambiente) una rappresentazione del sapere. Quello che fa l’insegnante è allora di dare l’occasione all’allievo di operare questa costruzione ma senza che questa sia determinata da vincoli didattici. Come abbiamo detto prima, in particolare nella fase di valutazione, l’allievo può interpretare il discorso dell’insegnante come un ragionamento matematico ma può anche interpretarlo in modi molto diversi. Possiamo dire che ciò che l’insegnante si aspetta è che l’allievo continui a prendere in considerazione il problema e realizzi interiormente una fase di validazione, aiutandosi con criteri di validità forniti dall’insegnante. Poiché ha un carattere privato e non necessario all’interno della situazione esaminata, il lavoro atteso da parte dell’allievo è dunque interamente a suo carico. Proponendo molteplici presentazioni dello stesso problema e realizzando davanti all’allievo un lavoro interpretativo, l’insegnante dà l’occasione all’alunno di costruirsi un ventaglio di problemi significativi. L’insegnante dà così la possibilità all’allievo di ricostruire un significato di tipo privato. Se l’allievo effettua da solo un “va – e – vieni” tra le domande e le validazioni di queste domande, questa costruzione privata di una dialettica tra anticipazione e validazione gli permette di apprendere e dunque di trarre profitto dalla presentazione del sapere. Ecco dunque che risulta chiaro come possa comunque realizzarsi la trasmissione della conoscenza: tale trasmissione si realizza se l’alunno decide di farsi carico di questo processo. Il problema posto dall’insegnamento basato sull’empirismo è che nessuna garanzia a priori può essere assunta da questo metodo, per ciò che concerne l’apprendimento. Per avere garanzie a priori, bisogna disporre di una teoria e tale teoria non può essere basata sull’empirismo. In una prospettiva costruttivista le scelte didattiche sono basate sulla “messa in situazione” e sulla ricerca di vincoli che garantiscano la costruzione del sapere da parte dell’alunno. L’insegnamento basato sull’empirismo non garantisce dunque a priori un apprendimento per tutti.

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CAPITOLO 3 I MODELLI COSTRUTTIVISTI

IL COSTRUTTIVISMO RADICALE 1. INTRODUZIONE

Il costruttivismo radicale, nato con Piaget ed anticipato da Vico, nella sua moderna forma è stato completamente elaborato in termini epistemologici da Ernest Von Glasersfeld. In termini metodologici, invece, il suo sviluppo è dovuto a numerosi ricercatori, che ancora oggi stanno lavorando su questa tematica. Von Glasersfeld si è dedicato allo studio dello sviluppo della teoria costruttivista della conoscenza, con lo scopo di ottenere indicazioni per l’insegnamento della matematica o delle scienze in generale. Il punto di partenza di questo ricercatore è il lavoro che Piaget ha condotto sulle strutture logiche secondo le quali il bambino in crescita organizza il mondo che poco alla volta sperimenta. Egli considera il costruttivismo come “postepistemologico” nel senso che la teoria costruttivista sulla struttura e sull’acquisizione della conoscenza costituisce una rottura rispetto alla tradizione epistemologica in filosofia. Il costruttivismo radicale di Von Glasersfeld insiste sulla separazione tra conoscenza sperimentale e conoscenza metafisica, ma si occupa principalmente della costruzione concettuale della prima, con l’obiettivo di migliorare il rapporto tra studenti e insegnanti e tra gli stessi studenti. Dalla prospettiva costruttivista emerge, come è stato sottolineato da Piaget, che la conoscenza è un’attività di adattamento, vale a dire una sorta di compendio di concetti e di azioni che l’individuo costituisce per riuscire a realizzare gli scopi che ha nella mente. La realtà oggettiva relativamente a cui si parla di adattamento non è comunque accessibile alla cognizione umana, per quanto possa essere adatto l’essere che conosce: questa realtà rimane al di là delle sue azioni o concettualizzazioni. Ne deriva che il concetto usuale di verità, come corretta rappresentazione delle condizioni o degli eventi del mondo esterno, viene sostituito dalla nozione di adeguatezza, che elimina il principio secondo cui ci sarebbe un’unica definitiva verità che descrive il mondo. Una qualunque descrizione è relativa all’osservatore, dipende in gran parte dalla sua esperienza passata. C'è sempre più di

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un modo per risolvere un problema o per raggiungere un obiettivo: la preferenza per un particolare modo di procedere, piuttosto che per un altro, non può essere fatta solo sulla base della correttezza, ma si devono considerare altri fattori quali la velocità, l’economia, la consuetudine, l’eleganza, etc. Le idee espresse sono analizzate in dettaglio nei paragrafi che seguono, nella direzione di alcuni generali suggerimenti per l’insegnamento. 2. L’INFLUENZA DEL COMPORTAMENTISMO

SULL’INSEGNAMENTO

Von Glasersfeld sottolinea che per decenni ha dominato indiscussamente la teoria behavorista (comportamentista) e ciò ha influenzato negativamente gli insegnanti. I comportamentisti sono riusciti ad eliminare la distinzione tra addestramento, che si attua attraverso l’esecuzione di particolari compiti e l’insegnamento, che aspira invece alla comprensione. Nell’approccio behavorista si supponeva che gli insegnanti “rinforzassero” la risposta corretta dell’alunno mediante una “ricompensa”. Questo metodo può aumentare le probabilità di ottenere una risposta positiva in particolari situazioni, ma per ciò che riguarda la comprensione non serve assolutamente a nulla. Ricompensare l’alunno per il modo in cui risponde non chiarisce il perché dovrebbe essere perseguito quel particolare comportamento e pertanto è improbabile che si induca la curiosità per il sapere. Dunque tale metodo, anche quando riesce a condurre lo studente a fare la scelta “corretta”, non considera il fatto che la comprensione dei significati nel risolvere problemi è molto più importante dell’apprendimento di soluzioni particolari. Questa teoria dell’apprendimento ha avuto dunque conseguenze negative per quanto riguarda l’educazione: si è focalizzata l’attenzione sull’addestramento dei ragazzi piuttosto che sullo sforzo di far loro comprendere le ragioni per cui ci si deve comportare in un dato modo. Numerose ricerche hanno messo in evidenza come molti studenti, addestrati a dare le risposte “corrette” ai problemi proposti, dimostravano di non aver compreso le relazioni concettuali nel momento in cui veniva loro richiesto di risolvere problemi posti in forma diversa rispetto a quella a cui erano stati abituati. Per risolvere un problema in modo intelligente, l’alunno deve considerare quel problema come suo, come un ostacolo che blocca la possibilità di raggiungere l’obiettivo prefissato. L’avere esaminato e trovato la maniera

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per conseguire lo scopo, dà molta più soddisfazione dell’avere dato la risposta corretta. Una volta risolto il problema, lo studente può cercare una soluzione più comoda, più adeguata, meno dispendiosa, e, a questo punto, può essere molto importante l’azione dell’insegnante nell’orientare i ragazzi su altre strade da percorrere. La risoluzione dei problemi richiede non solo la comprensione dei concetti ma anche la comprensione delle relazioni tra essi esistenti; infatti solo quegli studenti che riescono a raggiungere questa consapevolezza possiedono una capacità intellettiva in grado di affrontare nuovi problemi. I concetti non possono essere trasferiti dall’insegnante agli alunni; essi devono nascere nelle menti degli studenti. Il costruttivismo ha tentato di introdurre una nuova concezione della struttura e dell’acquisizione della conoscenza e tutto questo si traduce in una nuova epistemologia. L’obiettivo di un approccio costruttivista allo sviluppo concettuale è quello di contribuire a migliorare il rapporto tra insegnante e studente e tra gli studenti stessi. 3. IL CONCETTO DI CONOSCENZA COME ADATTAMENTO

L’idea di distinguere in modo netto la conoscenza razionale o scientifica (derivata dall’esperienza) da quella metafisica è un principio fondamentale che il costruttivismo ha ereditato da Vico, considerato come colui che produsse il primo manifesto costruttivista (1710). Per Von Glasersfeld chiunque affermi di possedere una conoscenza che rappresenti il mondo oggettivamente, cioè come se potesse esistere prima dell’esperienza che si possa avere del mondo stesso, non può giustificarlo razionalmente. Egli asserisce che sia logicamente impossibile dire qualcosa, che potrebbe essere ragionevolmente dimostrato, su un mondo che si trova oltre la nostra interfaccia sperimentale. La conoscenza che si è in grado di giustificare razionalmente è la conoscenza del mondo che proviene dall’esperienza. Il costruttivismo radicale insiste dunque su questa separazione tra conoscenza sperimentale e conoscenza metafisica, occupandosi principalmente della prima. La conoscenza, più che una descrizione o una rappresentazione di un mondo indipendente, è una mappa di ciò che la realtà ci permette di fare, è il repertorio di concetti, di relazioni concettuali e di azioni o di operazioni che si sono rivelate adeguate per il conseguimento degli

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obiettivi prefissati. La conoscenza si può dunque considerare strumentale ed i suoi obiettivi si collocano sia sul piano biologico sia su quello concettuale. L’adeguatezza a livello biologico consiste nell’abilità di un essere a sopravvivere e a mantenere il proprio equilibrio, date le condizioni e le limitazioni poste dal suo ambiente contingente. L’adeguatezza a livello concettuale si riferisce invece al funzionamento ed alla reciproca compatibilità delle strutture concettuali degli organismi cognitivi ed è strettamente legata a ciò che i filosofi chiamano la “teoria di coerenza della verità”. Von Glasersfeld non nega la realtà assoluta, ma afferma che non si ha alcun modo per conoscerla; inoltre egli, come costruttivista, compie un passo avanti, asserendo che si può definire meglio il significato del termine “esistere” solamente considerandolo nella sfera delle esperienze compiute dal soggetto. Nel momento in cui la parola “esistenza” viene applicata al mondo indipendentemente dalla nostra esperienza, essa perde il suo significato e non può avere alcun senso. Il termine “realtà” viene dunque usato dai costruttivisti per indicare l’insieme di cose e relazioni su cui si basano nella loro vita e su cui credono si basino anche gli altri. Dalla prospettiva costruttivista emerge che la conoscenza è un’attività di adattamento; ciò significa che si potrebbe pensare alla conoscenza come ad una specie di compendio di concetti e di azioni che l’individuo ha costituito per riuscire a realizzare gli scopi che aveva nella mente. La realtà oggettiva relativamente a cui si parla di adattamento non è comunque accessibile alla cognizione umana, per quanto possa essere adatto l’essere che conosce : questa realtà resta al di là delle sue azioni o concettualizzazioni. Una importante conseguenza relativa a questo nuovo modo di concepire il pensiero è che il concetto usuale di verità, come corretta rappresentazione delle condizioni o degli eventi del mondo esterno, viene sostituito dalla nozione di adeguatezza. Per il costruttivismo i concetti, i modelli, le teorie sono adeguati se risultano efficaci nel contesto in cui vengono applicati. L’adeguatezza, abbastanza differente dalla verità, è relativa al contesto degli obiettivi e dei propositi, che non si limitano alla concretezza o alla materialità. Nella scienza, ad esempio, c’è, dietro lo scopo di risolvere un problema, l’obiettivo di costruire un modello il più possibile coerente con il mondo sperimentato. L’introduzione del concetto di adeguatezza porta ad eliminare l’idea secondo cui ci sarebbe solo un’unica definitiva verità che descrive il mondo. Una qualunque descrizione è relativa all’osservatore e dipende, in parte, dalla sua esperienza passata: dunque c’è più di un modo per

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risolvere un problema o per raggiungere un obiettivo. È ovvio però che le diverse soluzioni non si possono porre sullo stesso piano; tuttavia se ognuna raggiunge l'obiettivo prefissato, la preferenza per un particolare modo di procedere non può essere fatta sulla base della correttezza ma, come si è già sottolineato, si devono considerare altri fattori quali la velocità, la consuetudine, l’eleganza, l’economia. Questi cambiamenti concettuali sono difficili da attuare; colui che adotta in modo serio l’approccio costruttivista scopre che molti dei modi abituali di pensare e di agire devono essere modificati. 4. I DUE PRINCIPI FONDAMENTALI DEL COSTRUTTIVISMO RADICALE

Il costruttivismo radicale si fonda sui due seguenti fondamentali principi, enucleati da Von Glasersfeld: • “il soggetto conoscente costruisce attivamente la conoscenza, non la

riceve in maniera passiva; • la funzione della cognizione è adattativa e serve per organizzare il

mondo dell’esperienza, non per scoprire la realtà ontologica”. La metafora della mente, nel costruttivismo radicale, è quella di un organismo che si evolve: il soggetto che conosce è una creatura che riceve dall’esterno input sensoriali ed ha a disposizione strumenti per agire sul mondo esterno; crea schemi cognitivi per guidare le sue azioni e rappresentare le sue esperienze. Da una parte gli schemi evolvono e si adattano al mondo esperienziale del soggetto ; dall’altra l’organismo nel suo complesso si adatta al mondo delle sue esperienze, attraverso l’adattamento dei suoi schemi. La metafora del mondo è strettamente collegata a quella della mente: il mondo è un ambiente che circonda l’essere umano, è un mondo reale che resiste e contrasta l’uomo specie mentre quest’ultimo cerca di adattare i propri schemi al mondo. L’ontologia del costruttivismo radicale non suppone l’esistenza del mondo oltre la sfera soggettiva dell’esperienza. L’epistemologia del costruttivismo radicale è fallibilistica, scettica ed antioggettivista. Il fatto che non ci sia un’ultima, vera conoscenza possibile dei diversi domini del mondo, quali ad esempio la matematica, deriva chiaramente dal secondo principio.

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La teoria dell’apprendimento è radicalmente costruttivista: tutta la conoscenza viene costruita dall’individuo sulla base del dialogo tra i propri processi cognitivi ed il mondo esperienziale. La costruzione individuale è alla base della pedagogia. 5. SUGGERIMENTI PER L’INSEGNAMENTO

La teoria costruttivista della conoscenza mette in evidenza tre elementi fondamentali per l’insegnamento. • La nozione di insegnamento si deve distinguere dalla nozione di

addestramento; l’apprendimento non è un fenomeno di stimolo – risposta, richiede l’autoregolazione e la costruzione di strutture concettuali quali la riflessione e l’astrazione.

A differenza dell’istruttore, il quale concentra l’attenzione solo sulle azioni di chi viene addestrato, l’insegnante deve porre l’attenzione su ciò che passa per la testa degli studenti. L’insegnante deve ascoltare ed interpretare ciò che lo studente dice e fa; deve tentare di costruire un “modello” delle operazioni concettuali dell’alunno. Un insegnante può soltanto inferire, da come si comportano gli studenti, se essi hanno capito ciò che si voleva che capissero. Tale impresa non è di facile attuazione per l’insegnante perché le inferenze che egli fa sono incerte, poiché i pensieri e le idee di uno studente non possono mai essere confrontate direttamente con quelle di un altro. È fondamentale però tenere presente che tutto ciò che viene fatto o detto dall’alunno durante la risoluzione di un problema è ciò che in quel momento ha senso per lui: può forse non avere senso per l’insegnante ma quest’ultimo può cercare una spiegazione o generare un’ipotesi di come lo studente sia arrivato alla risposta. • La conoscenza è una rete di strutture concettuali e non può essere

semplicemente trasmessa con l’uso di parole, poiché deve essere costruita da ciascuno studente individualmente.

Da qui l’importanza dell’interpretazione del linguaggio, visto che per ogni singolo discente l’apprendimento inizia con l’acquisizione e la condivisione del significato di parole e di frasi. Il linguaggio può essere molto utile agli insegnanti per orientare l’attività concettuale degli studenti, suggerendo delle direzioni e precludendone altre. Poiché l’interpretazione degli elementi del linguaggio è qualcosa di soggettivo, cambia il concetto di comprensione; non sempre quanto detto suscita in

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chi ascolta le stesse strutture concettuali. È quindi essenziale comunicare qualcosa che possa essere controllato passo dopo passo. • L’insegnamento è un’attività sociale, cioè che coinvolge “altri”, mentre

l’apprendimento è un’attività privata, vale a dire che avviene nella mente dello studente. Per guidare l’apprendimento l’insegnante deve avere qualche nozione sui misconcetti, ovvero quei concetti che gli studenti già possiedono in modo non adeguato. Quindi prima di iniziare qualsiasi costruzione concettuale, il docente deve spesso operare una sorta di smantellamento, per poter avviare adeguatamente l’intervento didattico.

6. CONSIDERAZIONI SULL’INTERAZIONE SOCIALE

Von Glasersfeld afferma che l’interazione sociale è molto importante nell’acquisizione dei concetti, ad esempio quelli relativi alle figure geometriche fondamentali. Numerosi ricercatori hanno infatti sottolineato l’importanza della componente sociale nello sviluppo della conoscenza, arrivando ad una distinzione tra costruttivismo radicale e costruttivismo sociale. Piaget, considerato da Von Glasersfeld il più importante costruttivista del secolo scorso, è stato criticato duramente per non aver considerato l’interazione sociale nella sua teoria dello sviluppo del pensiero. È vero che Piaget ha concentrato maggiormente la sua attenzione sulle strutture logiche attraverso le quali il bambino in crescita organizza il mondo che poco alla volta sperimenta. Se si legge però la sua opera con attenzione, si scopre che egli ritiene che le più importanti occasioni per l’accomodamento si presentano nell’interazione sociale. Per lui, come per i costruttivisti radicali contemporanei, gli “altri”, con i quali si attua l’interazione sociale, fanno parte dell’ambiente, né più né meno degli oggetti permanenti che il bambino costruisce nell’ambito delle sue esperienze vissute. In riferimento alle interazioni con gli altri individui, Von Glasersfeld si pone la seguente domanda: se tutta la conoscenza è costruzione personale del soggetto che conosce, come può conoscere gli altri individui? La sua risposta ricorre a Kant che, nella prima edizione della “Critica della ragion pura” afferma che se uno vuole immaginare un altro essere pensante, deve mettersi al suo posto ed attribuirgli la propria soggettività.

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Nello sviluppo dei modi adeguati di agire nel suo ambiente, il bambino impara a fare previsioni sugli oggetti che sta per costruire; in tal modo si costruisce il concetto di “altri” al di fuori di se stesso e, subito, questi altri contribuiscono a dare l’immagine di se stesso. La conoscenza degli altri e della società in cui vive si basa dunque sulle proprie esperienze individuali. Von Glasersfeld affronta anche la questione delle pluralità, cioè della capacità di riconoscere che si è in presenza di più di un oggetto. La pluralità non è una proprietà sensoriale ma è una costruzione concettuale dell’osservatore, o meglio del soggetto che fa esperienza. Utilizzando i termini di Piaget, il concetto di pluralità non è figurativo ma operativo, deriva cioè da operazioni mentali e non da materiale concreto. Per apprenderne il significato, il bambino deve toccare, vedere il singolo oggetto; deve associare il suono del nome al singolo oggetto ed accorgersi che la medesima procedura ricognitiva può essere utilizzata ancora per un altro oggetto. Tutto ciò può essere costruito solo in base alla personale esperienza del soggetto. Nessuna realtà esterna può sostituirsi all’individuo nella costruzione della conoscenza, in particolare non lo possono fare né i genitori né gli insegnanti. I costruttivisti radicali riconoscono dunque nell’interazione sociale una componente indiscutibile nella costruzione della conoscenza da parte dell’individuo, tuttavia tale costruzione rimane essenzialmente personale. Per concludere, il costruttivismo radicale rappresenta un modello importante nelle teorie epistemologiche per l’educazione matematica e scientifica ed è un paradigma educativo ampiamente sviluppato. La conoscenza del singolo individuo, degli altri e della sfera sociale è intesa come costruzione di colui che singolarmente conosce. Alcuni ricercatori hanno criticato questa teoria in quanto teoria solipsistica, cioè eccessivamente centrata sul singolo individuo. Tuttavia i due principi del costruttivismo radicale non hanno ostacolato lo sviluppo del costruttivismo sociale, come si vedrà nel Capitolo che segue.

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CAPITOLO 4 I MODELLI COSTRUTTIVISTI

IL COSTRUTTIVISMO SOCIALE 1. INTRODUZIONE

Numerosi teorici della didattica, affermando che il costruttivismo radicale è eccessivamente individualistico, hanno dato un’interpretazione più sociale del costruttivismo che si basa, principalmente, sul lavoro di Vygotsky. Il costruttivismo sociale afferma che l’apprendimento è un processo necessariamente sociale, vale a dire che si realizza prima di tutto tra persone su un piano interpsicologico e solo in seguito appare all’interno dello studente su un piano intrapsicologico. Secondo i costruttivisti sociali Cobb, Wood e Yackel, “come Piaget, Vygotsky concepisce gli studenti come organizzatori attivi della loro esperienza, ma, in contrasto con Piaget, egli sottolinea le dimensioni sociali e culturali dello sviluppo” (1990). Tuttavia, Cobb ed i suoi colleghi sostengono che il movimento dal livello sociale a quello individuale non può essere un processo di internalizzazione, come suggerito da Vygotsky, ma piuttosto una questione di negoziazione sociale dalla quale nascono i significati intersoggettivi. Si è così giunti ad una distinzione tra costruttivismo radicale e costruttivismo sociale. Paul Ernest è lo studioso che ha proposto per primo una filosofia della matematica “costruttivista sociale”, vale a dire basata sui principi del costruttivismo radicale ma anche sull’esistenza di un mondo fisico e sociale, spiegando in tal modo l’apparente oggettività, utilità e fallibilità della matematica. Il costruttivismo sociale di Ernest pone al centro dell’apprendimento l’ipotesi che la matematica sia una costruzione sociale, un prodotto culturale.

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La matematica, secondo Ernest, è molto efficace nel descrivere il mondo attraverso le sue teorie e ciò non è casuale, ma deriva dalle sue origini empiriche e dalla sua funzione linguistica. La matematica è un ramo della conoscenza collegato con il resto della conoscenza attraverso il linguaggio naturale, linguaggio che permette di enunciare teorie su situazioni sociali e sulla realtà fisica. Queste teorie vengono poi continuamente analizzate per migliorare l’adattamento delle strutture matematiche alle aree esterne alla matematica. La certezza e l’obiettività matematica si fondano su regole del discorso socialmente accettate, sulle regole della logica, sulla coerenza che caratterizza l’uso del linguaggio naturale. Il costruttivismo radicale, secondo Ernest, non è solipsistico (il che ha come conseguenza che tutta la conoscenza è soggettiva), ovvero le basi del costruttivismo radicale non sono in contrasto con l’esistenza di una realtà fisica e sociale, non negano l’esistenza di un mondo esterno; anzi, aggiungendo opportune ipotesi, si può salvaguardare l’oggettività matematica che deve essere interpretata come costruzione sociale condivisa. 2. IL COSTRUTTIVISMO SOCIALE COME FILOSOFIA DELLA MATEMATICA

Ernest propone, come si è già sottolineato, una filosofia della matematica “costruttivista sociale” cioè che si fonda sui principi del costruttivismo radicale ma anche sull’esistenza di un mondo fisico e sociale. Il suo obiettivo è quello di costruire una teoria riconoscendo ed ampliando il lavoro compiuto in precedenza. Egli distingue dunque due principali correnti nella filosofia della matematica, a proposito dello statuto e dei fondamenti di questa disciplina: • le filosofie assolutiste, tra cui il logicismo, il formalismo,

l’intuizionismo, il platonismo, le quali asseriscono che la matematica è un corpo di conoscenze sicure e certe;

• le filosofie del cambiamento concettuale (si veda il paragrafo 2 del Capitolo 2), le quali affermano che la matematica è fallibile, è un prodotto sociale che può cambiare.

Ernest ritiene che, mentre per le altre scienze le concezioni assolutiste hanno ceduto il passo a concezioni di cambiamento concettuale, le filosofie assolutiste della matematica sono ancora oggi la visione dominante.

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Secondo gli assolutisti le verità matematiche sono universali, indipendenti dall’umanità e dalla cultura: la matematica si scopre, non si inventa. La posizione dei fallibilisti sta comunque consolidandosi gradualmente, anche a partire dal fatto che la certezza in matematica non può essere stabilita senza ipotesi e perciò si tratta di una certezza condizionata e non assoluta. Paul Ernest afferma che il costruttivismo sociale pone al centro dell’apprendimento l’ipotesi che la matematica sia una costruzione sociale, un prodotto culturale che, come ogni altro ramo della scienza può sbagliare. Tale concezione porta a due conseguenze fondamentali: la prima è che le origini della matematica sono sociali e culturali; la seconda è che la giustificazione della conoscenza matematica è determinata dalle sue basi quasi – empiriche. Ora, affinchè il contributo offerto dal costruttivismo alla matematica sia adeguato, è necessario esplicitare due assunzioni del costruttivismo sociale: l’assunzione del realismo (c’è un mondo esterno persistente) e l’assunzione della realtà sociale (c’è la specie umana e questa ha un linguaggio di comunicazione). Queste ipotesi permettono di sviluppare un’epistemologia costruttivista – sociale a partire dai due fondamenti del costruttivismo radicale di Von Glasersfeld che qui ricordiamo: • il soggetto costruisce attivamente la conoscenza, non la riceve in

maniera passiva; • la funzione della cognizione è adattativa e serve per organizzare il

mondo dell’esperienza. A questi due primi principi Ernest aggiunge dunque i seguenti: • le teorie personali che risultano dall’organizzazione del mondo

dell’esperienza devono “rispettare” i vincoli stabiliti dalla realtà fisica e sociale e realizzano questo con il ciclo teoria – predizione – controllo – fallimento – accomodamento – nuova teoria;

• la matematica è un insieme di teorie che hanno ottenuto il consenso sociale e sono conformi sia a schemi sociali sia a regole linguistiche.

I principi enunciati costituiscono le basi per una filosofia del costruttivismo sociale per la matematica. A partire da questi, l’autore vuole anzitutto precisare le ragioni per cui la matematica risulti tanto efficace nel descrivere il mondo attraverso le sue teorie. I concetti della matematica sono ottenuti attraverso l’astrazione dall’esperienza diretta del mondo fisico, la generalizzazione e l’ampliamento di concetti già costruiti. La matematica è quindi un ramo della conoscenza collegato, tramite il linguaggio naturale, con il resto della conoscenza; tale linguaggio permette di enunciare teorie su situazioni sociali e sulla realtà fisica. Tali teorie vengono poi ripetutamente analizzate per migliorare l’adattamento delle strutture

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matematiche alle aree esterne alla matematica, la quale si sviluppa provvedendo agli schemi e superando i contrasti che emergono durante la fase di modellizzazione. Dunque l’efficacia della matematica non è casuale ma deriva dalle sue origini empiriche e dalla sua funzione linguistica. Per spiegare invece l’apparente certezza e obiettività della matematica, Ernest osserva che essa si basa sul linguaggio naturale ed il simbolismo matematico altro non è che un’estensione del linguaggio scritto. Le regole della logica e la coerenza che caratterizzano l’uso del linguaggio naturale sono le fondamenta su cui poggia l’oggettività della matematica. Le verità matematiche, acquisite attraverso l’interazione sociale, nascono nelle verità di natura definitoria del linguaggio naturale. La certezza matematica si fonda dunque su regole del discorso socialmente accettate. Evidentemente il costruttivismo sociale offre la possibilità di una filosofia della matematica che tenga in considerazione l’oggettività, l’utilità e la fallibilità della matematica. Paul Ernest ha dunque dimostrato che le basi del costruttivismo radicale non sono in contrasto con l’esistenza della realtà fisica e sociale e non negano quindi l’esistenza del mondo esterno. Dai principi del costruttivismo radicale non è vero che discenda la soggettività della conoscenza matematica, anzi aggiungendo alcune ipotesi è possibile salvaguardare l’oggettività della matematica, la quale, interpretata come costruzione sociale, risulta essere qualcosa di esterno all’individuo. Ernest sottolinea che il costruttivismo radicale non implica però una teoria dell’insegnamento: per ricavare una tale teoria è necessario precisare un insieme di valori (non implicito nei principi del costruttivismo radicale), perché l’educazione dipende dalla scelta di quello che secondo la nostra cultura merita di essere trasmesso. 3. LE IDEE FONDAMENTALI

Come abbiamo osservato, il costruttivismo sociale considera gli individui in relazione alla sfera sociale. La formazione cognitiva dei soggetti umani dipende dalle loro interazioni con gli altri e dai processi individuali. In questo tipo di teoria la metafora della mente, che vi sta a fondamento, è quella delle persone che conversano. La mente è vista come parte di un contesto più ampio.

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Il modello costruttivista sociale del mondo è quello di un mondo socialmente costruito che crea (ed è costretto da) esperienze condivise della realtà fisica. La realtà costruita dagli uomini è continuamente modificata ed interagisce per adattarsi alla realtà ontologica. L’ontologia è alquanto sofisticata: c’è un mondo al di fuori che sostiene le apparenze che vengono condivise per accedervi, ma di esso non si ha alcuna certa conoscenza. Il costruttivismo sociale si basa su una epistemologia fallibilista che considera la conoscenza convenzionale come vissuta ed accettata socialmente. La relativa teoria d’apprendimento è costruttivista, con una particolare attenzione alla funzione del linguaggio e all’interazione sociale. La metodologia è eclettica e così pure la pedagogia, consapevole degli effetti interattivi dei contesti micro e macro sociali e della costruzione interna delle proprie credenze e cognizioni. Gran parte della didattica e dell’apprendimento avvengono direttamente per mezzo del linguaggio: anche l’apprendimento concreto o per rappresentazioni si colloca nel contesto sociale ed è mediato dal linguaggio e dalle relative interpretazioni negoziate socialmente. 4. UNA PEDAGOGIA BASATA SUI CONCETTI

DEL COSTRUTTIVISMO

Nelle diverse posizioni costruttiviste si è discusso sulla dicotomia individuale – sociale. Il costruttivismo di Piaget sembra sottolineare l’importanza dei processi cognitivi interni a scapito dell’interazione sociale nella costruzione della conoscenza da parte del discente. Tuttavia la maggioranza dei ricercatori ritiene essenziale la considerazione della complementarità tra costruzione personale e costruzione sociale. Von Glasersfeld, pur essendo il teorico del costruttivismo radicale, sostiene che la conoscenza matematica è condivisa attraverso ruoli e convenzioni accordate, che mettono esplicitamente in evidenza l’importanza dell’interazione sociale. Si può dire, in sintesi, che sia il paradigma del costruttivismo radicale sia quello del costruttivismo sociale abbiano conseguenze pedagogiche comuni, esposte brevemente nei seguenti punti: • gli approcci metodologici hanno bisogno di essere più cauti e

riflessivi perché non c’è un’unica via che conduce alla verità o vicino ad essa;

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• centro dell’interesse non sono le cognizioni del discente ma le cognizioni, le credenze ed i concetti che il discente possiede sulla conoscenza;

• in relazione all’insegnante ed all’educazione di quest’ultimo, non è solo importante la sua conoscenza dei contenuti e dei compiti specifici, ma sono importanti le credenze, i concetti e le teorie personali che l’insegnante possiede sui contenuti, sull’insegnamento e sull’apprendimento;

• anche se si può arrivare alla conoscenza degli altri interpretando il loro linguaggio e le loro azioni per mezzo delle proprie costruzioni concettuali, gli altri vivono realtà indipendenti dalla nostra, realtà che ci sforziamo di capire, ma che non possiamo considerare statiche;

• la consapevolezza della costruzione sociale della conoscenza suggerisce l’enfasi pedagogica sulla discussione, sulla collaborazione, sulla negoziazione e sui significati condivisi.

5. LA LEZIONE DI MATEMATICA COME PRATICA SOCIALE

Durante una lezione di matematica gli insegnanti e gli studenti, insieme ed interattivamente, producono regolarità e norme per parlare e per agire in matematica. Così, secondo il ricercatore Bauersfeld, lo sviluppo dell’attività di matematizzazione in classe può essere visto come la costruzione interattiva di una pratica sociale. I prodotti che vengono descritti come conoscenza matematica sono i risultati sociali di una cultura specifica: essi hanno caratteristiche specifiche in ogni classe, anche se ci sono molte coincidenze in classi, scuole e paesi differenti. Bauersfeld usa in questo caso la nozione di abitudine (habitus), intesa come schema in grado di spiegare come i membri che vivono una specifica condizione sociale arrivano a riprodurre i loro comportamenti anche in situazioni nuove, anziché quella di conoscenza, perché è un concetto che ritiene più indicato per le diverse connotazioni sociali. L’habitus della matematica scolastica dello studente emerge attraverso la pratica sociale nella lezione di matematica: consente così all’individuo di condurre le attività matematiche in accordo con le varie situazioni incontrate. Gli studenti conoscono dunque la matematica attraverso la partecipazione alla pratica sociale in classe, non attraverso la scoperta di strutture esterne esistenti ed indipendenti da loro stessi. L’apprendimento è inteso, dal punto di vista psicologico, come un processo olistico, vale a dire come un’esperienza che coinvolge tutti i

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sensi, e gli stati mentali del nostro cervello conservano questa multidimensionalità delle esperienze vissute. Di conseguenza, la maggior parte dell’apprendimento del soggetto è inevitabilmente inconscio, è un’attività non controllabile direttamente. Uno studente non apprende solo la matematica ma “apprende qualcosa sull’apprendimento” in situazioni definite soggettivamente. L’apprendimento dello studente tiene conto: • del successo, del fallimento e delle relative conseguenze; • dell’ansietà; • dell’impegno e delle emozioni dell’insegnante; • del modo di parlare adottato; • delle reazioni dei compagni; • delle modalità di comportamento nel gruppo. Poiché gli interessi di un individuo variano e sono soggetti al cambiamento, le esperienze diventano ricchi miscugli di situazioni specifiche, che rendono il soggetto in grado di disporre di differenti definizioni di situazioni. Secondo Bauersfeld ciò si adatta all’interpretazione dell’apprendimento come la formazione di “domini di esperienze soggettive”. Il successo raggiunto da ogni studente nel generare situazioni adeguate, è da attribuire sia agli studenti stessi, i quali si impegnano attivamente nella pratica sociale di matematizzazione, sia alle caratteristiche stesse dell’interazione sociale. È solo grazie al coinvolgimento attivo che le resistenze sperimentate all’interno del gruppo sociale possono sviluppare la loro potenza per il soggetto. Per Bauersfeld appare dunque urgente ricercare come si comprendano e si descrivano le relazioni tra il mondo sociale e lo sviluppo individuale. L’interazione sociale nella classe è da intendersi sia come interazione tra insegnante e studente, sia come interazione tra studenti. La pratica sociale, specie quella riguardante i tentativi di costruzione da parte degli studenti, può essere analizzata ed interpretata in riferimento a tre momenti: 1. durante l’interazione sociale (da una prospettiva a breve termine), si

può verificare il fallimento o il rifiuto di una costruzione messa in atto. L’obbligo di rispondere ad una domanda posta dall’insegnante o da un compagno può portare lo studente all’abbandono, alla correzione oppure al cambiamento della sua costruzione;

2. durante l’interazione sociale può accadere che l’insegnante o uno studente sottolinei l’importanza di qualcosa. In base alle regole di comunicazione di classe, questo indica un cambiamento di

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attenzione; ciò può portare gli studenti a modificare il corso delle loro azioni e a produrre costruzioni conseguenti;

3. da una prospettiva a lungo termine, si può verificare l’assenza di alternative e di ostacoli. Ciò che non è diventato realtà nell’esperienza del soggetto ha poche possibilità di essere creato fuori dall’esperienza stessa.

Le nuove costruzioni, come pure il concentrare l’importanza ed il cambiamento di attenzione (casi 1. e 2.) possono rappresentare delle sfide per la riflessione del soggetto. In queste situazioni le possibilità di riflessione migliorano se, in parallelo, l’insegnante sostiene con azioni ed esempi un’esplicita “negoziazione di significato” cioè un mutuo approccio degli studenti nella comunicazione verso un orientamento comune e condiviso per l’azione. A volte questa fase viene mal interpretata ed intesa come una discussione che può arrivare ad un qualsiasi accordo. Richiede invece il raggiungimento di un accordo esplicito o implicito da parte di tutti gli studenti che vi hanno preso parte: solo in questo caso il procedimento ha termine. Spesso la fine di questo processo viene decretata, in modo autoritario, dall’insegnante, tuttavia qui l’interesse per queste situazioni non è tanto nel momento finale, quanto piuttosto nell’enfasi posta ai momenti di chiarificazione e constatazione delle differenti costruzioni soggettive. Può anche accadere che gli studenti rifiutino le indicazioni dell’insegnante oppure che l’insegnante non consideri proposte alternative da parte degli studenti (caso 3.). In tale situazione mancano le sfide, non ci sono ostacoli e dunque il tutto rimane oscuro per lo studente: in un ambiente povero, anche uno studente molto impegnato ha poche possibilità di sperimentare una costruzione significativa del proprio sapere. In genere, gli insegnanti tendono ad essere rigidi nelle richieste matematiche agli studenti e permissivi nelle norme sociali in classe. Sarebbe importante studiare se, in alcune situazioni, ci sono modalità più adeguate di altre per favorire la negoziazione e la riflessione da parte di tutti. Come potrebbero, i concetti degli studenti, andare d’accordo con le idee degli insegnanti, se non ci fosse nessuna dettagliata negoziazione di significato e la correzione fosse data solo nella forma di ‘giusto’ o ‘sbagliato’ in relazione ai prodotti dei ragazzi? Come potrebbero gli studenti arrivare a sviluppare la riflessione e l’autocontrollo attraverso la matematizzazione, se tali attività non fossero parte integrante della comunicazione nella classe?

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Possibili conseguenze pragmatiche

Le normali modalità seguite in classe per fare in modo che gli studenti arrivino il più presto possibile a procedure corrette per le operazioni e a modelli efficaci per la soluzione di problemi non sono pienamente soddisfacenti: troppi studenti agiscono in un modo che non è quello desiderato dall’insegnante. Appare quindi evidente il bisogno di cambiare. Secondo Bauersfeld applicando la prospettiva costruttivista sociale si riescono a comprendere meglio i processi di classe come espressione di una particolare “cultura”, che esiste soltanto attraverso l’interazione che si stabilisce tra gli individui. Il cambiamento dovrebbe consistere nel porre maggior attenzione all’impatto che emerge dall’interazione in classe relativa ad un certo tema, poiché tale interazione è il mezzo attraverso cui le abitudini matematiche dei ragazzi arrivano a svilupparsi. È necessario però ricordare che è impossibile fornire un sommario di azioni per l’insegnante e che ci si può limitare a suggerire alcuni orientamenti. Nella prospettiva costruttivista sociale saranno dunque da tenere presente, nel fare matematica a scuola, i seguenti punti: • l’importanza di periodi in classe in cui i ragazzi organizzano da soli

la soluzione di un problema, lavorano in piccoli gruppi su nuovi compiti, in cui si sollecita l’inventiva dei ragazzi, ed anche di momenti in cui si esplicita come risolvere un problema. Ci saranno inoltre un’intensa negoziazione sui diversi modi di procedere e sulle differenti soluzioni e la presentazione di argomentazioni con la difesa delle proprie posizioni;

• l’organizzazione di momenti dedicati a prove anche in un periodo di tempo controllato, nei quali si riferisce la produzione verbale degli studenti e si ha cura che le descrizioni siano adeguate. Si attuerà lo sviluppo dei processi di costruzione, una promozione della riflessione sui compiti già conclusi, una discussione sulle alternative e si accetteranno i contributi positivi dei modi di parlare anche un po’ grezzi, come pure la scoperta dell’inadeguatezza di alcuni processi di costruzione;

• l’assegnazione di prove scritte, compiti a casa e procedure di controllo relative ai risultati. Ci sarà anche la programmazione di attività per studenti che sappiano provocare esperienze contrastanti, così da rendere evidente che fraintendimenti ed errori sono fenomeni necessari e concomitanti in una partecipazione attiva ed in una costruzione impegnata, e non sono dunque eventi accidentali da cancellarsi velocemente;

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• l’inevitabile ruolo dell’insegnante come esperto e rappresentante della società. Gli insegnanti devono essere anche il modello della cultura ricercata, devono presentarsi con modi trasparenti di pensare, di riflettere e devono anche controllarsi. Invece di interrogare i ragazzi uno dopo l’altro fino a che l’espressione desiderata venga fuori (anche se nessuno capisce perché proprio quella è considerata valida o come uno potrebbe arrivare ad essa) l’insegnante deve “vivere” tutte le proposte che escono dal gruppo classe.

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CAPITOLO 5 I MODELLI COSTRUTTIVISTI LA TEORIA DELLE SITUAZIONI DIDATTICHE 1. INTRODUZIONE

Prima di definire cosa si intende per situazione a–didattica, riprendiamo due definizioni che abbiamo già incontrato nel Capitolo 1. Una situazione si definisce didattica se coinvolge il sistema didattico in senso stretto, vale a dire il sistema sapere – insegnante – alunno: essa si svolge in prevalenza all’interno della classe tra insegnante e alunni attorno ad un sapere da insegnare. In tale contesto le intenzioni di insegnare e di apprendere sono esplicite. Una situazione è non didattica se nessuno la predispone appositamente per un apprendimento. In essa l’alunno è solo a risolvere un problema che non gli è stato sottoposto a scopo di insegnamento. Una delle finalità di quest’ultimo è proprio quella di consentire agli alunni, una volta terminati gli studi, di applicare le conoscenze acquisite in classe a situazioni non didattiche. Si definisce invece a–didattica una sorta di situazione ideale alla quale si dovrebbe fare riferimento: in essa l’alunno assume il ruolo di ricercatore in un problema matematico e l’insegnante, anche se è presente, lascia agire il ragazzo di propria iniziativa. Prima di vedere in dettaglio in cosa consiste, riprendiamo un altro concetto che è già stato presentato, quello di contratto didattico, per precisarne alcuni fenomeni, importanti per comprendere meglio il processo di insegnamento – apprendimento. 2. IL CONTRATTO DIDATTICO

Nel Capitolo 1 è stato fatto riferimento al cosiddetto contratto didattico; ora è necessario riprendere l’argomento ricordando che esso è l’insieme delle relazioni e degli obblighi reciproci, soprattutto impliciti, esistenti tra insegnante e alunno. Il contratto didattico esprime la responsabilità dell’uno di fronte all’altro nella gestione delle rispettive competenze; esso non è solo di natura pedagogica ma riguarda specificatamente la conoscenza in gioco. Esso non è comunque un contratto vero e proprio perché, essendo fondato

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sui risultati dell’insegnamento, non è completamente esplicitabile; inoltre non esistono mezzi per garantire a priori l’appropriazione di nuovi saperi. Nel momento in cui un alunno rifiuta, evita o non riesce a risolvere un problema che gli viene proposto, allora l’insegnante ha l’obbligo di aiutarlo e, a volte, di giustificare la scelta di un problema troppo difficile; inoltre egli deve assumersi la responsabilità dei risultati e assicurare agli alunni gli strumenti necessari per acquisire la conoscenza. In questo modo egli può riuscire a responsabilizzare l’alunno, il quale accetta di risolvere un problema nuovo per lui. Spesso si incappa in rotture del contratto che non risultano prevedibili a priori. Quando queste si verificano, l'alunno può accusare l’insegnante di non averlo saputo mettere nelle condizioni di affrontare e risolvere il problema; l’insegnante, dal canto suo, prova stupore poiché riteneva sufficienti le sue prestazioni. Occorre ricercare, a questo punto, un altro contratto a partire dalla nuova situazione. La conoscenza è quindi costruita anche come risposta alle difficoltà sorte con queste rotture del contratto didattico. Per mettere in evidenza la complessità delle relazioni tra insegnante ed alunno ed anche la difficoltà di un buon equilibrio all’interno del contratto didattico si possono sottolineare due “paradossi”, cioè due situazioni conflittuali che coesistono in classe, una relativa all’insegnante, l’altra all’alunno. L’insegnante deve fare in modo che l’alunno sia nella condizione di dare risposte adeguate, conformi al sapere da costruire. A questo scopo, se le risposte mancano o sono insoddisfacenti, egli aggiunge informazioni, fino ad ottenere le soluzioni più opportune. Ciò che è da sottolineare è che: “… tutto ciò che egli (l’insegnante) mette in opera perché l’alunno produca i comportamenti che egli si attende, tende a privare quest’ultimo delle condizioni necessarie alla comprensione e all’apprendimento della nozione a cui si mira: se il maestro dice ciò che egli vuole, non può più ottenerlo. Poiché l’alunno non ha dovuto effettuare né scelte, né tentativi di metodi, né modifiche delle sue conoscenze o delle sue convinzioni non ha dimostrato di aver appreso. Ne ha dato solo l’illusione.” (Brousseau, 1986) Si può riconoscere una situazione paradossale anche per l’alunno: “…se egli accetta che […] il maestro gli insegni i risultati, non li stabilisce da sé e dunque non li apprende […]. Se, al contrario rifiuta tutte le informazioni del maestro, allora, la relazione didattica si rompe. Apprendere, implica, per lui, che egli accetti la relazione didattica ma che la consideri come provvisoria e si sforzi di rigettarla.” (Brousseau, 1986)

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L’analisi della realizzazione della situazione a – didattica consentirà di capire come questi conflitti possano sciogliersi. 3. LA SITUAZIONE A–DIDATTICA

Per poter comprendere la situazione didattica ed in particolare l’apprendimento dell’alunno, sempre nel Capitolo 1 abbiamo ricordato che è necessario completare la terna sapere – insegnante – alunno con un quarto elemento, l’ambiente. Riprendiamo qui le due ipotesi fondamentali che si sono fatte a proposito dell’apprendimento: • ipotesi psicologica (apprendimento per adattamento): il soggetto

apprende adattandosi (assimilazione ed accomodamento) ad un ambiente produttore di contraddizioni, di difficoltà e di squilibri;

• ipotesi didattica: un ambiente senza intenzioni didattiche (cioè non volontariamente organizzato per insegnare un sapere) è insufficiente ad indurre in un soggetto tutte le conoscenze che la società desidera che egli acquisisca.

Si è inoltre già detto che è compito dell’insegnante provocare negli alunni gli adattamenti desiderati attraverso situazioni opportune. L’insegnante non può farsi carico direttamente del processo di apprendimento ma deve creare le condizioni, in classe, perché gli alunni possano apprendere. La scelta delle situazioni da proporre è particolarmente importante perché il senso di una conoscenza per l’alunno proviene essenzialmente da come la conoscenza interviene o è intervenuta come adattamento pertinente ad esse. Le conseguenze delle ipotesi citate portano ad introdurre il modello di situazione a – didattica. La situazione a–didattica è, come abbiamo accennato, una situazione ideale di riferimento. In essa l’insegnante fa in modo che gli alunni costruiscano o modifichino le loro conoscenze non perché richiesto dall’insegnante ma in risposta ad esigenze reali. In questa fase l’insegnante è in relazione privata con il sapere, mentre gli alunni sono in relazione, pubblica o privata, con lo stesso sapere. Una tale situazione è una situazione nella quale ciò che si fa, ha un carattere di necessità in relazione a degli obblighi che non sono né arbitrari né didattici, ma sono relativi al sapere. L’insegnante dovrebbe fare in modo che la risoluzione del problema diventi per l’alunno indipendente dal desiderio dell’insegnante stesso: la devoluzione che l’insegnante deve attuare, affinchè l’alunno possa apprendere, è dunque necessaria per dare luogo ad una situazione a – didattica.

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“In tutto l’insegnamento ci sono delle fasi a–didattiche. In effetti l’insegnante che dà un problema di matematica ai suoi alunni si aspetta che essi lo risolvano, almeno in parte, in quanto matematici.” (Margolinas, 1989) Brousseau (1986) caratterizza questa situazione nel modo seguente: “L’allievo sa bene che il problema è stato scelto per fargli acquisire una conoscenza nuova ma deve sapere anche che questa conoscenza è interamente giustificata dalla logica interna della situazione e che può costruirla senza fare appello a delle ragioni didattiche”. Nel contesto di questa situazione ideale, l’apprendimento nasce quindi da una modifica della conoscenza prodotta dall’alunno stesso: l’insegnante deve solo provocarla operando opportune scelte sui valori delle variabili delle situazioni, le variabili didattiche. Vi sono delle fasi a–didattiche in tutto l’insegnamento, in generale fuori dal controllo dell’insegnante. Chevallard ha introdotto la nozione di tempo didattico per indicare lo scarto fra il tempo dell’insegnamento ed il tempo dell’apprendimento: può accadere che questo scarto sia anche notevole. In generale l’introduzione ufficiale di nuovi oggetti di sapere modifica il rapporto con gli oggetti già esistenti. Vi è allora devoluzione all’alunno di una responsabilità in rapporto a questi precedenti oggetti di sapere: in quanto oggetti vecchi, egli ha la responsabilità di saperli. Vediamo ora quali sono le condizioni perché una situazione possa essere vissuta come a–didattica. Questo ci porta a ciò che i ricercatori chiamano analisi a priori. “L’analisi a priori di una situazione cerca di determinare se una situazione può essere vissuta come a – didattica dall’alunno. Si tratta di una ricerca di condizioni necessarie.” (Margolinas, 1989) Possiamo dire che occorrono almeno le tre condizioni seguenti: - l’alunno può immaginare una risposta ma questa risposta iniziale (procedura di base) non è quella che si vuole insegnare: se l’alunno conoscesse già la risposta corretta la situazione esaminata non sarebbe una situazione di apprendimento; - questa procedura di base deve rivelarsi immediatamente insufficiente o inefficace, in modo che l’alunno sia costretto a fare degli accomodamenti, delle modifiche al suo sistema di conoscenza; - deve esistere un ambiente per la validazione, cioè la situazione stessa deve consentire all’alunno di confermare la correttezza di ciò che ha ottenuto.

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Precisiamo subito che la fase di validazione può avvenire con differenti modalità, ad esempio attraverso l’uso di materiale concreto, oppure con la mediazione di un software didattico o in fase di discussione di classe (con la produzione di esempi, controesempi, argomentazioni, confutazione di ipotesi,...). Si osservi che la fase di validazione si contrappone, nei modelli costruttivisti, alla fase di valutazione del modello tradizionale, descritta nel paragrafo 3 del Capitolo 2: mentre nella prima la correttezza di un prodotto ottenuto viene discussa e decisa dagli alunni, nella seconda tale correttezza, come già precisato in dettaglio, è decretata dall’insegnante. Altre condizioni perché una situazione possa essere vissuta come a–didattica sono le seguenti: - deve esserci incertezza da parte dell’alunno riguardo alle decisioni da prendere; - l’ambiente deve permettere delle retroazioni, cioè devono essere possibili scambi con l’ambiente in modo che l’alunno possa recepirne l’influenza, ad esempio correggendo la sua azione, accettando o respingendo un’ipotesi, o scegliendo fra più soluzioni; - la conoscenza a cui si mira deve essere logicamente richiesta per passare dalla strategia di base alla strategia oggetto di insegnamento. 4. LA SITUAZIONE-PROBLEMA

Per indicare un compito da assegnare agli alunni che abbia tutte le caratteristiche che abbiamo descritto, così da poter dar luogo ad una situazione a–didattica, si usa il termine di situazione – problema. Da quanto esposto si deduce quindi che una situazione – problema deve avere le seguenti caratteristiche (Jaquet, 1993): • l’alunno deve poter procedere da solo, cioè le sue conoscenze iniziali

devono essere sufficienti; • devono essere costruite nuove conoscenze; • la situazione - problema deve permettere all’allievo di decidere se

una soluzione è corretta oppure no; • la conoscenza che si desidera che venga acquisita dall’alunno deve

essere lo strumento più adatto alla soluzione del problema; • il problema deve poter essere formulato in diversi ambiti quali, ad

esempio, quello geometrico, fisico, grafico, numerico. Per l’insegnante la situazione – problema esige innanzitutto un approccio epistemologico (da dove viene la nozione? a cosa serve?) ed una riflessione sul ruolo della nozione nell’insegnamento (quando appare?

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quando sarà utilizzata?). Essa necessita anche di un’analisi delle concezioni iniziali e finali degli allievi (ostacoli, errori, rappresentazioni, …), ma anche di un’analisi a priori (cosa faranno gli allievi? come gestire la classe?) ed infine di una valutazione (cosa bisogna valutare? con quali strumenti?). Lo sviluppo di una situazione – problema comporta le diverse seguenti fasi: • una fase di appropriazione; durante questa fase l’alunno riformula il

problema nel suo linguaggio; • una fase di ricerca e di azione durante la quale si fanno congetture,

prove, verifiche, giustificazioni; • una fase di validazione in cui si propongono soluzioni o formulazioni

alternative e poi si attua un dibattito fra gli allievi i quali argomentano sulle proprie soluzioni o su quelle degli altri;

• una fase di istituzionalizzazione durante la quale l’insegnante caratterizza ciò che è emerso come nuovo sapere, collegandolo al sapere precedente;

• una fase di strutturazione (esercizi, applicazioni). 5. IL CONCETTO DI OSTACOLO EPISTEMOLOGICO

La nozione di ostacolo epistemologico è stata introdotta da G. Bachelard (1938) nel testo “La formation de l’esprit scientifique” ed è stata poi ripresa e precisata.. Un ostacolo epistemologico è una conoscenza che funziona come tale su un insieme di situazioni e per certi valori delle variabili di queste situazioni, e che, quando il soggetto cerca di adattarlo ad altre situazioni o ad altri valori delle variabili, provoca errori specifici, riconoscibili ed analizzabili. I lavori di Bachelard e di Piaget evidenziano che l’errore non è solo l’effetto dell’ignoranza, dell’incertezza e del caso ma è anche l’effetto di una conoscenza anteriore che si rivela sbagliata o semplicemente inadatta. Molti errori non sono imprevedibili ma sono riproducibili e persistenti: essi sono costituiti in ostacoli. Brousseau distingue tre origini fondamentali degli ostacoli che si possono incontrare nell’insegnamento della matematica: • un’origine ontogenetica riguardante gli ostacoli legati alle limitazioni

delle capacità cognitive degli alunni coinvolti nel processo di insegnamento; un tipo di ostacolo che può essere ricollegato a tale origine si osserva ad esempio nell’applicazione errata del ragionamento proporzionale, prima che il tema ‘proporzionalità’ sia

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oggetto di studio sistematico. In questo caso si verifica che un buon numero di alunni (di 12-13 anni) ricorre spontaneamente ad uno schema additivo invece che moltiplicativo;

• un’origine didattica, che riguarda gli ostacoli legati alle scelte o ai progetti del sistema educativo; in questo caso si può citare, a titolo di esempio, la presentazione della moltiplicazione fra naturali come “addizione ripetuta” durante la scuola elementare: se questo schema non viene successivamente modificato può rimanere negli alunni come unico significato per la moltiplicazione, che viene anche applicato nel caso dei numeri razionali o reali; inoltre esso induce ovviamente la convinzione, comune anche a molti adulti, che la moltiplicazione implichi sempre un ‘ingrandimento’ rispetto ai fattori;

• un’origine epistemologica: sono gli ostacoli nel senso di Bachelard, vale a dire quelli legati alla resistenza di un sapere mal adattato; un esempio che può essere qui ricordato è sicuramente la difficoltà legata al concetto di infinito. “Un ostacolo epistemologico è costitutivo della conoscenza nel senso che colui che l’ha incontrato e superato, ha una conoscenza diversa rispetto a colui che non si è scontrato con l’ostacolo.” (Brousseau, 1989)

Il superamento di un ostacolo non significa eliminazione della conoscenza precedente: essa infatti continuerà a funzionare nel contesto ad essa relativo. Tale superamento significa invece la creazione di una strada parallela con i suoi problemi e le sue metodologie di soluzione. L’ostacolo è costituito come una conoscenza e resiste alla sua eliminazione, tenta di adattarsi localmente, di modificarsi e di ottimizzarsi su un campo ridotto seguendo un processo di accomodamento. Per rimuovere un ostacolo serve dunque un flusso sufficiente di situazioni nuove che vanno a destabilizzarlo ed a renderlo inefficace ed inutile; esso talvolta resiste o si presenta anche dopo che il soggetto ha eliminato il modello difettoso. Il superamento di un ostacolo esige quindi un lavoro simile a quello della formazione di una conoscenza, cioè l’individuazione di problemi veri, che consentano una continua dialettica tra l’alunno e l’oggetto della sua conoscenza.

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CAPITOLO 6

I MODELLI COSTRUTTIVISTI IL MODELLO “INQUIRY”

1. INTRODUZIONE

Nelle ricerche degli ultimi anni si è affrontata la tematica di un utilizzo positivo degli errori durante il processo educativo ed il valore dell’errore è stato ormai recuperato a livello epistemologico e didattico. Si suggerisce infatti un uso dell’errore nella didattica della matematica come stimolo naturale per riflessioni ed esplorazioni che altrimenti risulterebbero imposte artificiosamente. Nei paragrafi che seguono viene descritto un modello costruttivista di insegnamento – apprendimento che propone in modo specifico un utilizzo positivo degli errori nella didattica della matematica. Tale modello è dovuto essenzialmente a Raffaella Borasi e l’esposizione che segue riporta una sintesi dell’ampio contributo di questa ricercatrice, con l’obiettivo principale di affrontare la costruzione di una strategia di apprendimento nella quale gli errori svolgano un ruolo positivo fondamentale. 2. LE IPOTESI CENTRALI

Il modello inquiry ha una particolare concezione di conoscenza, di matematica, di apprendimento e di insegnamento e si presenta come diretta conseguenza delle critiche fatte al modello trasmissivo (esposte nel Capitolo 2). Gli assunti - chiave sono i seguenti: • la conoscenza non è generalmente intesa come un corpo stabile di

risultati preconfezionati ma come un processo dinamico di indagine dove l’incertezza, il conflitto cognitivo ed il dubbio rappresentano le motivazioni per cercare di continuo una comprensione del mondo sempre più perfezionata. Tale processo si realizza all’interno di una comunità di ricerca;

• la matematica è concepita come disciplina umanistica; in altre parole i risultati della matematica non sono immutabili ed assoluti ma sono costruiti nella società come qualsiasi altro prodotto dell’attività umana e perciò non sono infallibili; tali risultati sono influenzati dalle

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finalità e dal contesto che giustificano il loro uso e sviluppo ed anche da valori tanto culturali quanto personali;

• l’apprendimento è concepito come processo di costruzione di significati, realizzato in modo personale dal discente, influenzato dal contesto e dalle finalità dell’attività stessa di apprendimento e realizzato mediante interazioni sociali;

• l’insegnamento è inteso come attività che deve fornire il necessario sostegno alla ricerca autonoma della comprensione da parte dello studente, realizzando una situazione feconda per l’apprendimento che possa stimolare le sue indagini e organizzando la classe come una comunità di discenti impegnati nella costruzione della conoscenza matematica.

Una lezione di matematica fondata su questi assunti assumerebbe un aspetto del tutto differente da quello a cui, generalmente, siamo abituati. Vediamo dunque le caratteristiche di un insegnamento della matematica basato sull’inquiry. L’assunzione di una concezione umanistica della matematica porta a criticare le usuali programmazioni didattiche come troppo restrittive poiché definite unicamente in termini di contenuti tecnici. All’interno di un approccio di tipo inquiry si dovrebbe considerare importante includere anche esperienze che rendano gli studenti in grado di valorizzare sia lo sviluppo storico dei concetti matematici specifici, sia il potere e le limitazioni delle tecniche studiate per risolvere problemi, sia le componenti cognitive ed emotive dell’apprendimento dei contenuti. Nelle classi in cui si utilizza il metodo inquiry si tende ad introdurre l’incertezza nei contenuti matematici studiati così da generare dubbi genuini e, di conseguenza, condurre gli studenti all’inquiry. Mentre nelle lezioni tradizionali l’ambiguità, le anomalie e le contraddizioni vengono opportunamente eliminate così da evitare potenziali motivi di confusione, in una lezione inquiry questi elementi devono essere messi in luce e sfruttati per stimolare e dare forma a domande, congetture ed esplorazioni. Nel modello inquiry gli studenti avviano un processo che non è a finale obbligato ma è aperto e generativo vale a dire che né l’insegnante né gli alunni sanno quale sarà la direzione dell’inquiry in cui si sono impegnati. Nel processo di inquiry i problemi sono presentati con una struttura non ben definita e successivamente precisati per mezzo della riflessione da parte degli studenti che, attivamente coinvolti nel prendere decisioni, agiscono come una comunità di ricercatori. Ciò non significa che in un simile approccio l’insegnante di matematica abbandoni

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completamente il suo ruolo nel programmare e gestire l’attività in classe. Infatti gli studenti non diventano discenti attivi per caso ma di proposito, attraverso l’uso di piani che l’insegnante struttura per guidare l’esplorazione e l’inquiry. Nelle classi in cui si utilizza tale metodo gli studenti sono chiamati ad avere iniziative nella loro attività matematica, ad esempio porsi problemi e domande per esplorare da soli e controllare il loro lavoro, notare ambiguità ed anomalie e condurre ricerche per risolvere i dubbi che nascono in contesti diversi. Dagli studenti ci si aspetta di ottenere una migliore comprensione della matematica come disciplina, apprezzandone le radici e le motivazioni del suo sviluppo storico, la natura fallibile e socialmente costruita dei suoi risultati, la potenza e i limiti delle sue applicazioni per risolvere problemi in altri ambiti ed il ruolo positivo giocato dall’ambiguità, dall’incertezza e dalla controversia nella creazione della conoscenza matematica. Gli insegnanti hanno il compito di sostenere i ragazzi in questo cammino, non di dare loro stessi le spiegazioni appropriate. Gli studenti hanno il ruolo di ricercatori, non di spettatori passivi esterni che considerano la conoscenza come un qualcosa che viene loro affidato dall’alto e che viene presentato nei libri di testo. Viene così smitizzata l’autorità dei libri di testo; infatti i ragazzi capiscono che ciò che si trova scritto in essi è spesso il risultato di un elaborato dibattito che può essere stato deciso in seguito a determinate argomentazioni ma non è semplicemente una corrispondenza tra un fenomeno e l’affermazione che lo descrive. A differenza degli ambienti in cui domina il modello trasmissivo, dove gli studenti apprendono grazie alla presenza di altre persone ma non con le altre persone, in quelli in cui si attua l’apprendimento per inquiry sono indispensabili la collaborazione e l’interazione sociale, che sostengono e sono fondamentali per il processo di comprensione personale. Gli studenti in questo modo imparano a rispettare le opinioni degli altri e a costruire nuovi significati, nuove idee, piuttosto che duplicare una conoscenza costituita in precedenza. Il fattore distintivo del metodo inquiry è proprio la generazione di nuove idee nella classe, attività che viene favorita da molteplici strategie didattiche, tra cui la scrittura e la lettura di elaborati. Gli insegnanti, dunque, non trasmettono direttamente la conoscenza ma cercano di sostenere la ricerca degli studenti fissando un insieme di regole e valori sociali, escogitando modi differenti per far sì che gli alunni siano resi partecipi del processo di inquiry ed invitandoli ad impegnarsi in tale processo e a valorizzare ogni fase che l’essere una comunità di ricercatori comporta. Questi insegnanti, invece di dire agli

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studenti semplicemente cosa fare e come farlo, formulano questioni sui modi di pensare e sulle strategie degli studenti, producendo ulteriori questioni ed arrivando a condividere i loro modi di pensare e le loro decisioni. In tal modo si rende pubblico ciò che solitamente si fa tra ricercatori. Un aspetto fondamentale per gli insegnanti che utilizzano il modello inquiry è quello di saper ascoltare gli studenti; infatti l’ascolto permette di comprendere le convinzioni che gli studenti possiedono sull’apprendimento, di approfondire la loro conoscenza sui significati, sulle relazioni che costruiscono, sugli interessi e sulle domande che emergono durante il processo. Nel modello inquiry la comunicazione assume perciò un ruolo centrale; infatti il linguaggio viene usato in modo fondamentale per costruire la conoscenza. Successivamente è necessario negoziare con altre persone, perché non è detto che la conoscenza sia automaticamente accettata, come tale, dalla comunità; in tal caso si deve agire per riuscire a farla accettare e per questo è fondamentale la lettura e la scrittura. “Ne consegue che leggere e scrivere non dovrebbe più essere considerato come un ostacolo potenziale all’apprendimento della matematica, ma come risorsa per generare, estendere, rivedere, comunicare e riflettere sul significato”. (Borasi, Siegel, 1994) Gli studenti diventano così membri attivi di una comunità di lavoro, assumendo con gli insegnanti la responsabilità di programmare le lezioni, di condividere e riflettere sulle loro ricerche alla presenza di altri membri della comunità, ovvero dell’insegnante e dei coetanei. Questa nuova concezione di studente esige dallo stesso l’assunzione di nuove e più grandi responsabilità, quali la volontà di ascoltare e di negoziare con gli altri, cosa a cui di solito non è abituato. Da quanto esposto emerge che il modello inquiry ha alcune conseguenze immediate, ad esempio le seguenti: • l’obiettivo didattico passa dal prodotto al processo; • la negoziazione continua tra obiettivi ed attività didattiche deve

essere favorita da un’adeguata dinamica scolastica; • l’ambiente d’apprendimento deve promuovere l’assunzione di rischi e

di iniziative individuali piuttosto che la produzione di risposte corrette;

• occorre elaborare ed attuare strategie didattiche che stimolino e sorreggano l’attività di ricerca matematica dello studente;

• c’è soprattutto “l’esigenza di mettere in nuova luce l’ambiguità e l’incertezza del contenuto matematico studiato in modo da generare negli studenti dubbi genuini o situazioni conflittuali e quindi una

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rinnovata spinta a proseguire l’inquiry sulla base dell’iniziativa e della padronanza degli studenti nel loro apprendimento della matematica”. (Borasi, Siegel, 1994)

3. UNA CONCEZIONE ALTERNATIVA DEGLI ERRORI

Alcuni contributi filosofici, come ad esempio quello di Lakatos, per il quale gli errori non sono qualcosa da evitare il più possibile ma piuttosto un passaggio necessario e costruttivo nella creazione della conoscenza matematica, suggeriscono che gli errori hanno la potenzialità di far sorgere dubbi e domande costruttive che possono portare ad investigare importanti questioni matematiche. Tali indagini non devono essere, giocoforza, ridotte alla ricerca delle cause dell’errore, con l’obiettivo finale di eliminare l’errore stesso. Piuttosto, se si è propensi a porsi domande più provocatorie del tipo “che cosa succederebbe se accettassimo questo risultato?” oppure “in quale circostanze questo risultato potrebbe essere considerato corretto?”, allora l’analisi di un errore potrebbe condurre ad una riformulazione del problema studiato, ad una comprensione più profonda del contesto nel quale il problema si è generato ed anche ad alcuni risultati nuovi ed inaspettati. Una esplicita focalizzazione sugli errori può servire agli studenti perché potrebbe contribuire allo sviluppo di alcune abilità metacognitive identificate come necessarie per diventare buoni risolutori di problemi. Innanzitutto, tale focalizzazione metterebbe gli studenti in condizione di familiarizzare con strategie specifiche per rivedere criticamente e controllare il loro linguaggio matematico, sviluppando contemporaneamente l’idea che l’identificazione e la correzione degli errori sia essenzialmente una responsabilità di chi apprende piuttosto che degli insegnanti (contrariamente a ciò che gli studenti sono portati a credere, come risultato della tradizionale educazione matematica). Inoltre, gli errori, creando un conflitto o producendo un risultato non accettabile, possono forzare chi apprende la matematica o risolve un problema ad esaminare in modo esplicito e a discutere il proprio lavoro (per esempio gli obiettivi, le strategie utilizzate, i sentimenti provati, etc.) da un punto di vista metacognitivo e, nello stesso tempo, forniscono un concreto punto di partenza per tale attività. Prima di esaminare una strategia educativa che riesca ad impegnare gli studenti in attività che sfruttino la potenzialità degli errori per stimolare ed essere d’appoggio ad un inquiry matematico, cominciamo a riflettere

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su come vengono usualmente percepiti gli errori nel processo di insegnamento – apprendimento della matematica. Molti studenti ed anche molti insegnanti provano sentimenti negativi nei confronti degli errori, i quali vengono visti come eventi sfortunati, che generano frustrazione e che perciò devono essere eliminati e possibilmente sempre evitati. Spesso le risposte scorrette ad una richiesta dell’insegnante durante una lezione, sono respinte o ignorate finchè non si arriva ad una risposta corretta; gli insegnanti cercano di assegnare compiti che gli studenti “bravi” siano in grado di svolgere senza errori. Questi atteggiamenti hanno giustificazioni teoretiche nella concezione behaviorista dell’apprendimento in accordo al paradigma della trasmissione della conoscenza. La ricerca behaviorista suggerisce che l’apprendimento è favorito quando le risposte corrette sono ricompensate (rinforzo positivo) e quelle sbagliate sono punite (rinforzo negativo) oppure sono eliminate attraverso la mancanza di attenzione (trattenimento del rinforzo positivo). All’interno di tale concezione, gli studenti e gli insegnanti non sono invitati a vedere gli errori in una luce positiva e, inoltre, prestare attenzione agli errori durante la lezione può anche essere considerato pericoloso, perché potrebbe interferire con il “fissaggio” del risultato corretto nella mente degli studenti. Nella ricerca didattica degli ultimi venti anni, lo studio degli errori matematici degli studenti si è sviluppato verso direzioni più coerenti con una concezione costruttivista dell’apprendimento. Gli errori sono visti come parte inevitabile ed integrante dell’apprendimento e come sorgente preziosa di informazioni sui processi di apprendimento, una traccia da cui ricercatori ed insegnanti dovrebbero trarre vantaggio per scoprire cosa uno studente conosce realmente e come ha costruito questa conoscenza. Questo approccio più positivo agli errori è rivelato dall’uso di termini come “misconcetti”, “concezioni alternative”, o “teorie implicite” al posto della parola “errori”. Lo studio dei misconcetti degli studenti può essere caratterizzato dall’aver posto l’attenzione: • sul ruolo delle teorie degli allievi sull’apprendimento; • sulla comprensione delle origini dei misconcetti degli studenti,

piuttosto che sul tentativo di eliminarli; • sull’assunzione del punto di vista dello studente piuttosto che

dell’esperto; • sul riconoscimento della ragionevolezza del misconcetto dello

studente e del bisogno per lo stesso di constatare la limitatezza del misconcetto come prerequisito per modificarlo.

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Questo ultimo punto, in particolare, suggerisce il potenziale valore degli errori come essenziale per un cambiamento concettuale nell’educazione, come è implicito nella discussione di Confrey sul ruolo giocato, più generalmente, dalle anomalie: “Von Glasersfeld… accentua che è attraverso la discrepanza, la perturbazione, o gli incontri con l’inaspettato che possiamo individuare le qualità delle nostre costruzioni; questi momenti chiave della nostra attività di riflessione sono opportunità per valutare i nostri costrutti. Comunque, egli ci avverte anche che i nostri problemi, cioè la nostra percezione della devianza, possono non coincidere (e probabilmente non coincidono) con quelli dei bambini. Così, se volessimo investigare questi concetti, avremmo bisogno di scovare i loro problemi, non di imporgli i nostri.” (Confrey, 1990) L’analisi degli errori e dei misconcetti degli studenti ha fornito informazioni e suggerimenti preziosi per l’educazione scolastica ma ha influito solo raramente sullo sviluppo di strategie d’insegnamento per rendere costruttivo l’uso degli errori. L’approccio educativo proposto dall’inquiry mira ad eliminare i concetti erronei degli studenti grazie ad una serie di passi che comportano: (a) una “fase intuitiva”, in cui si svolgono attività per scoprire e far

emergere concetti specifici erronei; (b) una “fase conflittuale”, in cui si generano concetti alternativi per

offrire un contrasto con i precedenti e dare vita ad un conflitto cognitivo;

(c) una “fase risolutiva”, che porta ad una discussione durante la quale gli studenti sono di fronte alle incoerenze così rivelate e cercano di risolverle trovando la concezione migliore;

(d) una “fase retrospettiva” nella quale gli studenti riflettono sul significato e sulle implicazioni della loro risoluzione.

Esaminiamo ora, in modo più analitico, come gli errori potrebbero contribuire allo sviluppo della conoscenza matematica: • la presenza di errori può generare il bisogno di più rigore nelle

procedure o nelle giustificazioni assunte (bisogno che non nasce fino a quando tali procedure o giustificazioni propongono risultati accettabili);

• la scoperta di contraddizioni e controesempi può mostrare l’inadeguatezza delle congetture iniziali o di teoremi dimostrati, come pure può fornire una guida concreta per perfezionarli;

• alcuni errori e contraddizioni possono consentire di individuare l’applicazione ingiustificata di concetti e procedure familiari in nuovi settori; un uso costruttivo di tale tipo di errore porta ad importanti

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conseguenze, infatti può motivare una analisi del vecchio e del nuovo settore e del concetto considerato, conducendo a: - una migliore comprensione delle caratteristiche del nuovo settore ed in special modo delle sue analogie e differenze con il settore familiare; - un migliore apprezzamento delle implicazioni delle caratteristiche del settore familiare che erano state trascurate; - la realizzazione che definizioni alternative del concetto considerato possono non essere equivalenti in ogni campo;

• alcuni errori possono aprire nuove aree di ricerca e mostrare possibilità mai considerate in precedenza.

E’ chiaro dunque che gli errori, visti come stimolo e punto di partenza concreto per un inquiry matematico, si presentano come occasioni didattiche molto ricche, senza dubbio da cogliere e sfruttare.. È molto probabile che nell’attività dei matematici professionisti siano usuali alcune modalità di utilizzo degli errori, anche se risulta difficile dimostrare tale affermazione visto che solo i risultati finali e ripuliti del loro lavoro sono resi pubblici. Così, i soli errori fatti dai matematici di cui i non addetti ai lavori vengono a conoscenza, sono quelli rari e misteriosi che sono sfuggiti agli stessi loro autori e solo successivamente identificati da altri matematici. Si pensi, ad esempio, ad alcuni problemi storici come quelli legati alla costruzione dei numeri relativi o dei numeri complessi, o alle questioni legate all’infinito. Questi eventi hanno mutato in modo considerevole l’idea che la conoscenza matematica sia stata acquisita attraverso il tempo come risultato di una scoperta graduale e lineare di verità preesistenti. L’immagine della matematica che ne emerge è quella di una disciplina fallibile e sperimentale, creata come risultato di sforzi individuali e di trattative sociali e soggetta a miglioramenti continui e, occasionalmente, a radicali rivoluzioni. All’interno di tale concezione della conoscenza matematica, gli errori non possono dunque essere semplicemente eliminati ma, piuttosto, devono essere visti come parte integrante per la costruzione di nuova conoscenza. 4. L’INQUIRY COME STRATEGIA EDUCATIVA Come conseguenza diretta della concezione alternativa degli errori, esposta nel paragrafo precedente, si ha che gli obiettivi dell’educazione matematica dovrebbero andare al di là della pura eliminazione meccanica dell’errore: gli stessi studenti dovrebbero avere l’opportunità

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di sfruttare il potere motivazionale degli errori, utilizzandoli come spunti per esplorazioni creative di carattere matematico e per stimolanti riflessioni sulla natura stessa della matematica. Un tale uso degli errori potrebbe offrire varie opportunità, durante le lezioni di matematica, per attività originali e creative, in grado di coinvolgere gli studenti persino nella formulazione e nella soluzione di nuovi problemi. Le riflessioni nate dallo studio di alcuni errori con queste intenzioni, potrebbero procurare agli studenti una migliore “comprensione” della matematica come disciplina, risultato che dovrebbe essere un importante obiettivo nell’insegnamento stesso della matematica, a tutti i livelli. Riconoscere le limitazioni della matematica può essere d’aiuto agli studenti per superare atteggiamenti negativi verso questa disciplina, che sono ancora troppo comuni. È vero che gli errori non sono l’unico strumento didattico capace di realizzare tali obiettivi educativi, tuttavia essi presentano caratteristiche favorevoli in tal senso. Innanzitutto un errore stimola all’azione, poiché significa che non si è riusciti ad ottenere il risultato atteso ed occorre dunque procedere ulteriormente. Inoltre l’errore procura un concreto punto di partenza, perché contiene nuove informazioni utili (anche se per lo più di carattere negativo) non solo relative al risultato che si voleva raggiungere, ma anche nei riguardi sia del contesto in cui si stava operando sia della metodologia impiegata. L’errore può portare, spontaneamente, a riconoscere l’esistenza di alternative che prima non si era pensato di potere o volere considerare, in quanto indica un contrasto con il risultato cercato. Gli errori possono permettere, anche a studenti che non hanno un bagaglio tecnico considerevole, l’esplorazione di temi che sarebbero altrimenti troppo astratti se affrontati direttamente e a tutto campo. Inoltre lo studio di un errore possiede un valore educativo che va al di là dei suoi vantaggi per l’apprendimento dalla matematica: può essere importante per lo studente rendersi conto che gli errori non sono inutili né costituiscono una disgrazia da evitarsi ad ogni costo. Di conseguenza, lo studente può sentirsi più incoraggiato a “rischiare” nelle risposte ed imparare anche ad apprezzare il contenuto informativo dei propri errori, in qualunque campo. Risulta ovvio che, durante un intero corso di matematica, l’insegnante non dovrà, né potrà utilizzare tutti gli errori degli studenti come strumenti di scoperta. Lo studio approfondito di un errore può richiedere molto tempo ed energie e quindi deve essere limitato ad errori particolarmente ricchi ed interessanti o a quelli che l’insegnante ritenga utili per raggiungere determinati obiettivi curriculari.

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Si potranno anche incontrare ostacoli causati da atteggiamenti negativi di studenti ed insegnanti nei confronti degli errori, dalle comuni aspettative relative alla mentalità deterministica della usuale istruzione matematica e dal ruolo tradizionalmente passivo dello studente. In sintesi, nonostante una attività didattica centrata sull’errore richieda tempo e buona organizzazione e inoltre possa incontrare ostacoli, da quanto esposto appare chiaramente che gli errori possono costituire sia lo stimolo per riesaminare criticamente le nostre concezioni matematiche sia un punto di partenza per affrontare alcune questioni metamatematiche. Si tratta dunque di un’occasione di sfida alla concezione deterministica della matematica che può portare ad apprezzarne gli aspetti più umanistici, contribuendo così, notevolmente, a ridurre ansia e timore verso questa disciplina ed a sviluppare invece atteggiamenti positivi e sicuramente più aperti al successo.

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CAPITOLO 7

I MODELLI COSTRUTTIVISTI IL COOPERATIVE LEARNING

1. INTRODUZIONE

Uno dei concetti più noti nell’ambito della ricerca in didattica della matematica è quello di sistema didattico, costituito dalla terna insegnante, alunno e sapere (e ambiente) e caratterizzato dalle interazioni tra insegnante ed alunno relative ad un dato sapere, in una situazione di insegnamento. E’ quanto si è descritto in dettaglio nel Capitolo 1, dove si è precisato che lo stato iniziale del sistema didattico è quello in cui l’insegnante intrattiene una relazione privilegiata con il sapere, mentre quella dell’alunno è inadeguata o inesistente. Dal punto di vista della relazione con il sapere questa dissimmetria è ciò che dà senso all’esistenza del sistema didattico. Lo stato finale del sistema didattico è invece quello in cui l’insegnante come tale è assente e l’alunno intrattiene una relazione privilegiata con il sapere. Come si può notare, le definizioni ricordate parlano di “relazione” in riferimento al livello cognitivo disciplinare: nella descrizione del sistema didattico non si tiene conto esplicitamente di relazioni di altro tipo ma si pone l’accento esclusivamente al piano della disciplina; non si allude certo, ad esempio, a relazioni in cui le persone siano presenti come persone “in toto”, compresa dunque la loro storia e le loro caratteristiche personali. Questa esigenza tuttavia, cioè la necessità di tener conto della sensibilità, delle emozioni, delle credenze, delle scelte e delle risorse delle persone coinvolte nel processo educativo, è stata condivisa ed evidenziata da numerosi studi di pedagogia, psicologia e sociologia (si vedano ad esempio i testi di Demetrio D., Fabbri D., Gherardi S., 1994). Nell’ambiente specifico della didattica della matematica si è già visto, nel Capitolo 4, che il modello del Costruttivismo Sociale favorisce la messa a fuoco, nel processo di insegnamento-apprendimento, di elementi interpersonali che vanno al di là della disciplina (si veda in particolare il paragrafo 5 del Capitolo 4). In particolare in Italia si sono sviluppate, a partire dagli anni ’90, alcune ricerche che puntano a costruire modelli di insegnamento apprendimento che si facciano carico delle emozioni, percezioni, credenze, storie, aspettative, delle persone

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coinvolte nella costruzione di conoscenza (ricerche del gruppo di R. Zan), partendo dalla convinzione che ogni atto conoscitivo coinvolga sempre le persone in modo globale e sia dunque impossibile prescindere dalla considerazione di tale complessità. Un modello di insegnamento–apprendimento che si fa carico, in modo esplicito, sia della dimensione disciplinare che della dimensione affettiva e sociale delle relazioni tra i protagonisti del processo didattico, è quello del Cooperative Learning (o apprendimento cooperativo): proprio perché questo modello non si focalizza solo su relazioni di tipo disciplinare ma è bilanciato anche su relazioni più personali, di tipo affettivo e sociale, si può dunque dire che esso costituisca una nuova interpretazione del sistema didattico. Questo Capitolo riporta i brani più significativi di un articolo apparso sulla rivista L’insegnamento della matematica e delle scienze integrate (Pesci A., Insegnare e apprendere cooperando: esperienze e prospettive, Vol. 27A-B n. 6, 638-670) 2. I PRINCIPI GENERALI DELL’APPRENDIMENTO COOPERATIVO

L’apprendimento cooperativo si riferisce ad una modalità di gestione democratica del processo di insegnamento-apprendimento, centrata essenzialmente sulle risorse dei discenti. Negli ultimi decenni si è ampiamente diffusa a livello internazionale ed è stata applicata ad una notevole varietà di categorie di persone, dagli alunni in età pre-scolare agli adulti in contesti professionali. In Italia il movimento di diffusione, discussione e applicazione di questa modalità educativa si è sviluppato dagli anni 80 e due studiosi, in particolare, ne sono stati al centro: M. Comoglio, dell’Università Pontificia Salesiana di Roma e G. Chiari, dell’Università di Trento, entrambi coinvolti sia in ricerche scientifiche puntuali che in ampie attività di diffusione. In una dettagliata analisi (D. W. Johnson, R. T. Johnson, M. B. Stanne, 2000) riguardante l’efficacia delle varie tipologie di apprendimento cooperativo rispetto ad altre modalità di insegnamento-apprendimento, si fa riferimento ad oltre 900 studi di ricerca: a tutt’oggi sono dunque veramente numerose non solo le esperienze condotte in modo cooperativo ma anche le analisi scientifiche su di esse e questo mette in evidenza quanto sia ampia la portata del fenomeno. Le modalità che di solito vengono considerate come contrapposte a quelle di tipo collaborativo sono la modalità di tipo competitivo, in cui l’obiettivo è quello di raggiungere uno scopo senza che lo raggiungano

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gli altri, e quella di tipo individualistico, in cui l’obiettivo è che il singolo raggiunga uno scopo indipendentemente dal fatto che lo raggiungano gli altri. Nell’analisi citata, in cui si sono considerate ricerche condotte in America del Nord, Europa, Medio Oriente, Asia ed Africa, si mette in luce come esse abbiano provato la maggior validità dell’apprendimento cooperativo rispetto agli altri metodi. Le variabili che sono state esaminate nella ricerca sono molteplici e riguardano sia compiti cognitivi specifici, come ad esempio la memorizzazione, la capacità di trasferire conoscenze, la produzione di ragionamenti complessi, sia atteggiamenti verso se stessi e verso gli altri, come ad esempio l’autostima, il benessere psicologico, la riduzione di stereotipi e pregiudizi e lo sviluppo di competenze sociali. Si è detto che l’apprendimento cooperativo è un modello di insegnamento-apprendimento in cui si combinano i processi di indagine scientifica con lo sviluppo di competenze sociali: dunque gli obiettivi da raggiungere non si giocano solo sul piano disciplinare ma anche su quello sociale, ponendo una inevitabile enfasi sulle relazioni che si stabiliscono tra le persone. E’ questo un aspetto innovativo centrale: l’insegnante di classe è da sempre stato ritenuto responsabile del livello cognitivo raggiunto dai suoi studenti nella disciplina di cui è specialista, ma non si può dire altrettanto in relazione al “clima” della classe a livello psicologico e sociale; le eventuali tensioni e i conflitti tra specifici individui o tra particolari gruppi di studenti, le convinzioni degli alunni sui valori veicolati dalla scuola, i loro atteggiamenti verso il mondo scolastico o verso la società in generale, non sono mai stati ritenuti oggetto di riflessione da parte degli insegnanti disciplinari, né tantomeno collegabili ai compiti stessi degli insegnanti. E’ chiaro dunque che l’apprendimento cooperativo costituisce una effettiva evoluzione tra i modelli di insegnamento-apprendimento, proprio per la globalità e la complessità con cui affronta l’analisi dei processi educativi, facendosi anche carico della qualità delle relazioni personali al loro interno. Nell’ambito delle teorie costruttiviste, non solo ad esempio nella teoria delle situazioni didattiche (Capitolo 5), che è molto centrata sulle relazioni cognitive disciplinari, ma neppure nell’”Inquiry” (Capitolo 6) o nel costruttivismo sociale (Capitolo 4), dove sono più evidenti i richiami alla necessità di sviluppo di relazioni interpersonali, non è così esplicita l’urgenza del riferimento alla doppia polarità, disciplina - relazione tra persone, assunta come irrinunciabile in questo modello. Un’altra ragione, di natura meno generale ma non per questo meno significativa, che contribuisce a dare significatività all’apprendimento

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cooperativo è il fatto che con questa modalità la discussione di classe risulta molto ben organizzata e in ultima analisi dunque facilitata. L’importanza di argomentare e discutere in classe è stata ampiamente sottolineata dalla ricerca didattica, in particolare a livello nazionale: basta ricordare ad esempio gli studi sviluppati da M. G. Bartolini Bussi e M. Boni (1991, 1995), i contributi di vari gruppi di ricerca raccolti in L. Grugnetti, R. Iaderosa, M. Reggiani (1996) o le analisi di specifiche situazioni didattiche (R. Garuti et al., 2000, A. Pesci, 2000, 2002, M. A. Mariotti et al., 1998). Ciò che emerge da queste ricerche è che in ogni caso la conduzione di una adeguata discussione di classe risulta un compito molto difficile: spesso l’insegnante non riesce a dare a tutti la possibilità di esprimersi, non è molto abile a sollecitare gli interventi di chi non è abituato ad intervenire spontaneamente, non è sempre in grado di cogliere gli interventi dei ragazzi che potrebbero dar origine a sviluppi produttivi, non riesce ad essere sufficientemente attento alle dinamiche sociali della classe, ha difficoltà a gestire i tempi nel modo più opportuno. Attraverso i gruppi cooperativi, almeno nella interpretazione che ne abbiamo dato nelle nostre esperienze, abbiamo constatato che la discussione di classe risulta molto semplificata, in quanto la fase finale di discussione avviene soprattutto fra gruppi (e quindi su un numero limitato di proposte), dopo che all’interno di ogni singolo gruppo si è già discusso e condiviso un prodotto finale. Il coinvolgimento dei ragazzi avviene dunque in due momenti successivi, uno all’interno del singolo gruppo e uno in fase di discussione di classe, facilitando sia il processo di produzione di quanto richiesto che quello di confronto e discussione collettiva. Tutto ciò risulterà più chiaro nel paragrafo successivo, quando si entrerà nel dettaglio della prassi che abbiamo adottato per realizzare in classe i gruppi cooperativi.

Vediamo ora di richiamare le idee centrali su cui si è sviluppato questo movimento educativo. I ricercatori che si sono occupati di tracciare lo sviluppo storico del Cooperative Learning fanno spesso riferimento a J. Dewey, K. Lewin e M. Deutsch come ai padri di questo modello educativo. Secondo la filosofia educativa di Dewey (1943, prima edizione 1899) è essenziale che si pensi al processo di insegnamento-apprendimento considerando sia gli aspetti cognitivi che quelli motivazionali e socio-interattivi: la scuola, in tutti i suoi processi, dovrebbe funzionare come una società democratica e gli studenti, come i cittadini di una società democratica, dovrebbero prender parte alla progettazione del loro

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ambiente scolastico e delle loro attività di apprendimento, da sviluppare prevalentemente in modo collaborativo. Anche Lewin (1935) e Deutsch (1949), i cui contributi nell’ambito della psicologia sociale dei gruppi sono ritenuti fondamentali, concordano sulla necessità di impostare l’educazione in modo cooperativo per migliorare la società. Il primo sottolineò in modo particolare l’importanza delle interazioni con gli altri e delle caratteristiche organizzative dell’ambiente come elementi determinanti per l’interpretazione del comportamento umano: ciò che facciamo in un dato contesto è influenzato profondamente da come questo contesto è organizzato e dai modi in cui i vari individui si rapportano fra loro. A Lewin, Deutsch e Vygotsky fanno riferimento i ricercatori statunitensi R. T. Johnson e D. W. Johnson (1980), che dagli anni ’70 hanno dato vita ad un vasto movimento di ricerca e diffusione del Cooperative Learning: il concetto di interdipendenza positiva introdotto da Deutsch, in particolare, è stato da loro considerato come l’ingrediente fondamentale per realizzare una esperienza significativa di apprendimento cooperativo (su questo concetto torneremo tra breve). A Dewey e Lewin fanno riferimento i ricercatori israeliani Y. Sharan e S. Sharan, (1992) considerati anch’essi tra i principali esponenti del Cooperative Learning: un altro loro fondamento teorico è costituito da J. Piaget e da tutta la scuola cognitiva costruttivista, che ha posto l’accento sull’importanza del conflitto come momento cruciale per la costruzione di conoscenza da parte dell’individuo. Durante il dibattito di gruppo gli studenti dovrebbero imparare a sfruttare in modo positivo i conflitti e le situazioni di interrelazione come occasioni finalizzate sia all’apprendimento disciplinare, sia allo sviluppo di modalità di lavoro cooperativo. Oggi sono molto numerosi i ricercatori che si occupano di studiare i modelli di apprendimento cooperativo e di classificarne le varie tipologie: alcuni autori ad esempio tracciano sei tipologie differenti (M, Comoglio, M. A. Cardoso, 2000), altri ne individuano dieci (R. T. Johnson et al., 2000). In questo contesto non sembra significativo illustrare la molteplicità di tali modelli e presentare la differente nomenclatura che li individua; è invece importante metterne in evidenza alcune caratteristiche centrali, sia perché sono tra le più condivise, sia perché sono collegate al lavoro di sperimentazione didattica che noi abbiamo realizzato in classe e che altri potrebbero progettare di realizzare. Tra le condizioni che sono ritenute necessarie ad un apprendimento di tipo cooperativo c’è anzitutto l’interdipendenza positiva, che si raggiunge quando i membri del gruppo comprendono che la collaborazione è tale

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che non può esistere il successo individuale senza il successo collettivo e, di conseguenza, il fallimento di un solo elemento del gruppo è un fallimento per tutti. Ognuno deve essere intimamente convinto di poter dare un contributo personale utile e indispensabile alla realizzazione del progetto comune e in questo modo sviluppa un forte senso di responsabilità che si traduce in un maggior impegno personale, con conseguenze positive sull’apprendimento e sulla capacità di lavorare in gruppo. Un’altra condizione importante è la definizione e l’assegnazione di ruoli a ciascun componente del gruppo cooperativo: la ripartizione di competenze sociali e disciplinari tra i membri del gruppo favorisce la collaborazione e l’interdipendenza, assicura che le abilità individuali vengano utilizzate per il lavoro comune e riduce la possibilità che qualcuno si rifiuti di cooperare o tenda a dominare gli altri. In questo ambito è essenziale precisare la differenza tra lo status di un individuo e il ruolo a lui attribuito: il ruolo è assegnato per via gerarchica da una autorità, ad esempio dall’insegnante, invece lo status è quello che viene riconosciuto ad una persona dalla società, non solo in riferimento alle sue doti intellettive o alle sue caratteristiche personali, ma anche alla sua condizione sociale. Alle caratteristiche di status sono legate aspettative generali di competenza, condivise non solo dal gruppo ma anche dall’individuo stesso e questo potrebbe essere un ostacolo in relazione agli obiettivi che si vogliono raggiungere nel lavoro cooperativo: chi è considerato di livello “basso” tende ad intervenire meno di chi è considerato di livello “alto” e quindi ha meno occasioni per sviluppare la sua competenza, consolidando ulteriormente il suo “basso” livello (E. G. Cohen, 1984). Con l’attribuzione di un ruolo ad uno studente si dà piena attuazione alla sua autonomia, cioè lo si autorizza a prendere delle decisioni, a valutare e a controllare. Quando più ruoli agiscono contemporaneamente si viene a stabilire una situazione di pari autorevolezza, che mette in atto il protagonismo delle persone, cioè la personalità, le emozioni, la capacità di decidere e gestire le varie competenze. Il riconoscimento di un ruolo da parte dei compagni, che avviene a prescindere dalle difficoltà della persona e si attua attraverso le relazioni interpersonali, favorisce il superamento di eventuali problemi (come ad esempio una scarsa autostima, la mancanza di regolazione, il senso di non efficacia) che solo attraverso lo status non sarebbe possibile affrontare (L. Vianello, 2003). Un’altra componente ritenuta essenziale nell’attuazione di un apprendimento cooperativo riguarda le abilità sociali: una efficace gestione delle relazioni interpersonali richiede che gli studenti sappiano

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sostenere un ruolo di guida all’interno del gruppo, prendere decisioni, esprimersi e ascoltare, chiedere e dare informazioni, stimolare la discussione, sapere mediare e condividere, sapere incoraggiare ed aiutare, facilitare la comunicazione, creare un clima di fiducia e risolvere eventuali conflitti. Queste abilità vanno insegnate con la stessa consapevolezza e cura con cui si insegnano le abilità disciplinari. In relazione al problema della valutazione l’apprendimento cooperativo richiede che si considerino i risultati raggiunti sia a livello individuale che a livello di gruppo. Il lavoro di gruppo si conclude sempre con una valutazione individuale degli aspetti disciplinari e relazionali, di solito affidata all’insegnante, ma è anche importante che ci sia una fase di discussione in cui ogni gruppo possa valutare ciò che ha prodotto attraverso il confronto con gli altri. La valutazione del gruppo in quanto tale costituisce una forte motivazione per i suoi membri a migliorare la qualità del lavoro collaborativo e questo, inevitabilmente, si traduce in un progresso individuale. Da quanto esposto emerge chiaramente quanto sia essenziale il ruolo dell’insegnante di classe. Accanto alle competenze disciplinari assumono una importanza decisiva anche le competenze sociali. In relazione ad esse l’insegnante, ad esempio, deve prendere decisioni per la formazione dei gruppi, sviluppare negli studenti le competenze sociali di cui si è già detto, controllare l’adeguatezza del lavoro di gruppo, intervenire con suggerimenti opportuni, favorire la discussione, promuovere interventi e valutare i risultati ottenuti.

A conclusione di questo paragrafo può essere interessante esporre, in sintesi, quali sono i vantaggi di tipo disciplinare e di tipo relazionale che la letteratura evidenzia come propri dell’apprendimento cooperativo. Dal punto di vista disciplinare: • maggiore motivazione verso i contenuti, migliore relazione con la disciplina e aumento del lavoro personale; • maggiore autonomia nell’acquisizione e nell’utilizzo delle conoscenze; • aumento di abilità metacognitive e conseguente potenziamento delle strategie di studio; • maggiore autonomia nelle scelte; • maggiore capacità critica e di sintesi; • aumento del senso di autoefficacia. Dal punto di vista relazionale: • maggiore capacità di lavorare in gruppo nella realizzazione di un progetto comune; • aumento delle occasioni per condividere con i compagni sentimenti, aspirazioni, difficoltà, soddisfazione;

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• aumento delle relazioni positive con i compagni; • maggiore capacità di affrontare problemi interpersonali e di risolvere situazioni conflittuali; • aumento delle possibilità di esperire ruoli differenti con la conseguenza di sviluppare una migliore percezione di se stessi; • maggiore tolleranza e capacità di comprensione e accettazione degli altri. 3. LA DEFINIZIONE DEI RUOLI NEL GRUPPO COOPERATIVO

Nella nostra interpretazione della modalità cooperativa ci siamo attenuti, con poche modifiche, alle indicazioni di L. Vianello, che ha lavorato per anni con insegnanti di scuola elementare e secondaria per realizzare esperienze didattiche fondate sulla collaborazione tra pari. Ogni gruppo cooperativo (o collaborativo)1 prevede cinque o sei componenti, per ciascuna delle quali c’è un compito disciplinare, comune a tutti, da portare a termine in collaborazione, ed inoltre un ruolo specifico da svolgere, da scegliere tra i seguenti (i profili di ruolo sono riportati in sintesi nell’Allegato a fine Capitolo):

orientato al compito: è la persona che deve fare in modo che il suo gruppo raggiunga il migliore risultato possibile. Si occupa dunque di tradurre il compito in un adeguato piano di lavoro, di fare in modo che nessuno si disperda su aspetti secondari del problema, di fare il punto della situazione e di sollecitare il gruppo a prendere decisioni;

orientato al gruppo è la persona responsabile del clima comunicativo nel gruppo. Deve dunque fare in modo che tutti partecipino positivamente alla soluzione del compito, incoraggiando chi sembra in difficoltà, facendo in modo che i vari interventi siano equilibrati nei tempi e nei modi e sdrammatizzando eventuali conflitti;

memoria : nel gruppo è la persona responsabile della verbalizzazione scritta dei risultati raggiunti. Durante il lavoro ripete le decisioni condivise, chiede conferma delle formulazioni parziali dei risultati e della relazione finale, in accordo con tutti i componenti del gruppo ma soprattutto con il relatore;

1 Il termine “collaborativo” oggi sembra essere da alcuni preferito al termine “cooperativo” (si veda ad esempio il titolo del testo di S. Locatello e G. Meloni, 2002, ispirato proprio alle idee di L. Vianello). In questa sede, per semplicità, i due termini si possono considerare sinonimi, in quanto caratterizzano entrambi una modalità di lavoro fondata su una condivisione di risorse da parte dei partecipanti al processo, che si attua in un clima di relazioni personali positive e in riferimento ad un compito disciplinare assegnato.

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relatore : è il responsabile per il gruppo della relazione orale sugli esiti del lavoro svolto collaborativamente. Concorda dunque, in particolare con la memoria, la versione finale scritta dei risultati raggiunti e ne dà lettura in fase di presentazione finale a tutta la classe;

osservatore : è il responsabile dell’osservazione del processo interattivo nel gruppo. Osserva se ognuno svolge attivamente e adeguatamente il compito, ad esempio senza prevaricare gli altri, se ognuno svolge opportunamente il proprio ruolo e se le fasi del lavoro vengono tutte realizzate. Prende appunti su quanto ha osservato e ne dà comunicazione direttamente a tutta la classe nella fase di discussione finale. Nel caso di sei componenti nel gruppo, è preferibile che sia duplicato proprio il ruolo dell’osservatore, in modo da disporre di più punti di vista in merito alla conduzione dell’attività; nel caso invece sia necessario formare gruppi di quattro persone è preferibile far coincidere il ruolo della memoria con quello di relatore, per l’analogia dei loro compiti.

E’ da rilevare che l’osservatore partecipa alla soluzione del compito disciplinare ma lo svolgimento del suo ruolo non è esplicito: egli osserva il comportamento dei compagni e prende appunti ma non li riferisce al gruppo, li riferisce alla fine a tutta la classe. L’osservatore deve conoscere bene le competenze richieste ai compagni per svolgere i vari ruoli ed è una figura molto importante perché la sua posizione gli consente di esprimere giudizi sugli altri. Se ad esempio in una classe ci fosse un alunno in difficoltà per una scarsa stima di sé, potrebbe essere utile fargli rivestire questo ruolo: trovandosi in una situazione riconosciuta dal gruppo dei pari che lo legittima ad osservare e valutare i compagni, potrebbe sviluppare competenze che andrebbero ad influire positivamente sulla sua autostima. Una nota tecnica, che comunque non è priva di importanza, è che ognuno, per facilitare il riconoscimento del proprio ruolo sia da parte dell’insegnante che da parte dei compagni, abbia un cartellino con il nome preciso del ruolo che riveste: si tratta di un efficace segno esterno che favorisce sia l’assunzione che il riconoscimento del ruolo.

Il ruolo previsto per l’insegnante è quello di supervisore: al di là dell’organizzazione del lavoro fuori della classe (scelta del compito disciplinare, scelta dei criteri di costituzione dei gruppi, preparazione del materiale didattico), in classe, durante il lavoro cooperativo, non deve dare suggerimenti relativi alla soluzione del compito disciplinare assegnato ma essere particolarmente attento ai processi interrelazionali. Se si accorge ad esempio che qualcuno non svolge adeguatamente il

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suo ruolo gli si avvicina e gli dà qualche utile suggerimento, a bassa voce, così che solo l’interessato possa sentire. In questo modo l’insegnante diventa complice dei suoi allievi, creando un rapporto più personale e più paritario. A conclusione delle attività a gruppi si svolge, come poi sarà ancora precisato, la discussione di classe e in questa fase il ruolo dell’insegnante è senza dubbio complesso e decisivo per la riuscita di tutta l’esperienza. occorre dosare opportunamente il tempo degli interventi, focalizzare l’attenzione della classe sui nodi centrali delle questioni affrontate, riprendere adeguatamente discussioni lasciate in sospeso, favorire una sintesi condivisa delle soluzioni emerse.

Nella modalità presentata si hanno dunque, in una classe, un certo numero di gruppi, di solito da quattro a sei, che si impegnano tutti sullo stesso compito disciplinare, assegnato dall’insegnante o emerso da questioni proposte dagli alunni stessi: durante lo svolgimento del compito in ciascuno dei gruppi i componenti assumono, a rotazione, i ruoli descritti. La rotazione dei ruoli è essenziale, in modo che ognuno possa fare esperienza di compiti differenti e possa quindi dare accesso e sviluppo a risorse personali differenziate e talvolta nascoste. Il riconoscimento di un ruolo specifico ad una persona da parte degli altri si può considerare un po’ la chiave della struttura organizzativa descritta: questo permette di sviluppare la propria autonomia nel prendere decisioni, valutare e controllare, sentendosi autorizzati a svolgere determinati compiti, tutti funzionali al raggiungimento dell’obiettivo comune. La ripartizione di compiti sociali e disciplinari tra i membri del gruppo favorisce la collaborazione e l’interdipendenza, assicura che le abilità individuali vengano utilizzate per il lavoro comune e riduce la possibilità che qualcuno si rifiuti di cooperare o tenda a dominare gli altri. Il riconoscimento dell’importanza dell’assunzione di un ruolo con compiti specifici è un risultato abbastanza recente nel campo educativo ed oggi connota in modo del tutto nuovo la modalità del lavoro di gruppo, almeno nei termini che noi stiamo sviluppando. Negli anni ’60 , in cui si è cominciato a riconoscere e studiare l’efficacia pedagogica del lavoro in collaborazione, Bruner riteneva che andasse incoraggiato “un metodo che si avvicini approssimativamente ad un reciproco scambio tipico di un “seminario”, in cui la discussione è il veicolo dell’istruzione. Questa è reciprocità...” e riconosceva che quando si opera in gruppo alcuni ruoli specializzati vengono a svilupparsi: “il critico, l’innovatore, il secondo aiutante, il moderatore.” Sottolineava inoltre che è “proprio esplicando questi ruoli complementari che i

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partecipanti acquistano il senso di operare reciprocamente in un gruppo. Non ha importanza alcuna se l’allievo, durante questo trimestre, in questo seminario, svolge un compito piuttosto specializzato e circoscritto. Tale compito cambierà. Nel frattempo, se egli riuscirà a rendersi conto del contributo da lui dato alla efficacia del lavoro svolto dal gruppo, nel campo della storia, della geometria o in altro qualsivoglia campo, sarà probabilmente proprio lui l’alunno più stimolato ad apprendere. Sicuramente uno dei ruoli che emergerà è quello dell’aiutante maestro: tolleriamolo, anzi incoraggiamolo. Esso non potrà che attenuare la noia di una classe, in cui un esperto è là sulla cattedra e tutti gli altri qua giù, chini sui banchi.” (J. S. Bruner, 1967, p. 194-195). Appare evidente quanto oggi il discorso si sia sviluppato, riconoscendo in particolare come l’attribuzione di un ruolo sia fondamentale per mettere in atto il protagonismo delle persone, cioè la personalità, le emozioni, la capacità di decidere e gestire differenti competenze. In questo modo può avvenire che si superino eventuali problemi legati allo status riconosciuto ad una persona dal gruppo di appartenenza (ad esempio la timidezza o la scarsa efficacia scolastica) e si sviluppino in modo decisivo le molteplici intelligenze personali (E. G. Cohen, 1984 e 1999, L. Vianello, 2003) Da quanto esposto emerge chiaramente che è importante conoscere e condividere i compiti relativi ad ogni ruolo e, soprattutto in fase iniziale, questo richiede un po’ di tempo per discutere, confrontarsi e circoscrivere eventualmente i compiti che si ritengono essenziali. Al termine del lavoro di gruppo si svolge una discussione di classe nella quale si mettono in comune i risultati ottenuti e gli eventuali problemi irrisolti. Questa fase finale prevede anzitutto l’esposizione dei relatori a cui segue subito l’esposizione degli osservatori. Solo a questo punto la discussione è aperta a tutta la classe e il dibattito si sviluppa sia sugli esiti relativi al compito disciplinare assegnato che su eventuali problemi di tipo relazionale emersi nello svolgimento dei ruoli. E’ dunque evidente che sono continuamente offerte alla classe occasioni di riflessione sia sulla disciplina che sulle relazioni interpersonali che si sono costituite. A conclusione di tutto il lavoro è importante che i ragazzi siano invitati ad esprimere per iscritto una valutazione sul lavoro svolto, ad esempio rispondendo individualmente a domande preparate dall’insegnante, oppure esprimendo più liberamente le loro osservazioni sull’esperienza compiuta.

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4. ALCUNI PROBLEMI METODOLOGICI E DIDATTICI: POSSIBILI SOLUZIONI

I problemi che abbiamo dovuto affrontare nella realizzazione del lavoro di gruppo cooperativo hanno riguardato sia aspetti prevalentemente metodologici sia aspetti più specificatamente didattici. In questo paragrafo se ne presentano alcuni, scelti tra quelli che in base alle esperienze realizzate sembrano rilevanti nel determinarne l’esito. Le prime due questioni riguardano la formazione dei gruppi e la preparazione del materiale didattico necessario per lavorare in gruppo: si tratta quindi di questioni metodologiche, tuttavia la loro gestione ha ovviamente grande influenza sull’esito globale dell’esperienza, andando dunque ad incidere sull’evoluzione sia disciplinare che sociale dei ragazzi. Le altre due questioni, su come fare in modo che ogni ragazzo conservi una traccia personale di tutta l’attività disciplinare svolta in classe e su come osservare e valutare le relazioni interpersonali fra gli alunni in questa modalità operativa, sono tematiche specificatamente didattiche, tuttavia vedremo come anch’esse si ripercuotano a livello metodologico: i due aspetti quindi, quello metodologico e quello didattico, risultano dunque fortemente intrecciati, andando a determinare reciprocamente l’esito di tutta l’esperienza.

La formazione dei gruppi

Il problema di come formare gruppi di lavoro in una classe è stato ampiamente dibattuto e non è questa la sede per esaminare nel dettaglio le varie possibilità: è noto ad esempio che si possono avere gruppi omogenei o gruppi eterogenei, a seconda del tipo di compito disciplinare, degli obiettivi che si vogliono raggiungere, delle caratteristiche della classe. E’ noto, ancora, che l’omogeneità o eterogeneità può essere relativa a competenze disciplinari o a caratteristiche personali e sociali. Mi limito qui a riferire come ci siamo comportati nelle esperienze da noi condotte, proponendo le strategie che abbiamo adottato e alcune riflessioni. In alcuni casi gli studenti erano gia abituati ad attività in gruppo, soprattutto durante le ore di laboratorio di informatica e l’insegnante ha scelto allora di adottare gli stessi gruppi anche per il lavoro cooperativo in matematica, confidando nel fatto che ci fosse già un certo affiatamento tra i componenti del gruppo su cui impostare la nuova modalità.

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Quando la classe non si era mai suddivisa in gruppi allora in alcuni casi l’insegnante ha scelto di affidare ai ragazzi stessi la formazione dei gruppi oppure ha proposto direttamente la loro composizione: questa seconda modalità è stata adottata soprattutto in presenza di marcate difficoltà, o dal punto di vista disciplinare o dal punto di vista relazionale. Ad esempio, se in una classe c’era un gruppo di alunni piuttosto turbolenti e autoritari, allora l’insegnante ha preferito suddividerli in gruppi diversi, per equilibrare il “clima” globale della classe; in presenza invece di alunni poco inseriti nella classe e con scarsi risultati a livello disciplinare, l’insegnante ha cercato di collocarli insieme ad alunni con esito scolastico abbastanza buono ma anche aperti ai contatti personali, con l’obiettivo di favorirne sia le relazione sociali che i progressi disciplinari. E’ chiaro dunque che nella realizzazione delle nostre esperienze non abbiamo deciso a priori precise modalità da seguire, confidando nel fatto che l’insegnante, specie se è attento alle dinamiche della sua classe, ha molto spesso la percezione delle scelte più opportune ed è capace di adottarle in modo adeguato. L’obiettivo generale da perseguire ogni volta è comunque quello di avere dei gruppi che siano capaci di collaborare tra loro, evitando tensioni personali ma mettendo davvero a frutto le risorse che ognuno è sollecitato a mettere a disposizione di tutti. Comunque si siano formati i gruppi, in presenza di grossi problemi interpersonali si può decidere di proporre alla classe qualche cambiamento di composizione: nelle nostre esperienze questa eventualità si è verificata davvero raramente e in alcuni casi la presenza di contrasti personali ha portato l’insegnante ad affrontare il problema esplicitamente con tutta la classe, dedicandovi momenti specifici di discussione e favorendo la riflessione sulla importanza di atteggiamenti di accoglienza e tolleranza verso gli altri.

La preparazione e conservazione

del materiale didattico per ogni gruppo

Prima di entrare in classe per una attività in gruppi cooperativi, è necessario che l’insegnante prepari il materiale da consegnare ad ogni gruppo, materiale che ora vorrei precisare in dettaglio. Dopo che i gruppi si sono formati, in ognuno di essi vengono distribuiti i 5 ruoli: quest’ultima operazione può essere fatta dai componenti stessi del gruppo, a caso o scegliendo secondo le proprie preferenze, ma

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senza troppo insistere sulle inclinazioni di ciascuno, tenendo conto che comunque ogni alunno deve cambiare ruolo nel compito successivo. E’ importante che ogni gruppo disponga di 5 fogli, uno per ogni ruolo, su cui siano precisati i compiti specifici di quel ruolo: l’elenco completo dei compiti relativi ai ruoli è nell’allegato A, secondo la versione di L. Vianello (riportata nel testo di S. Locatello e G.Meloni, 2003) A seconda dei casi, è possibile che l’insegnante riduca gli elenchi dei compiti, soprattutto all’inizio, quando la classe non è ancora abituata a questo tipo di attività, scegliendo quelli che ritiene più significativi. Può essere opportuno, in alternativa, che l’insegnante dedichi un po’ di tempo a discutere, con la classe, come effettuare tale scelta, ad esempio affidando ad un gruppo di alunni la scelta dei compiti per l’orientato al gruppo, ad un altro la scelta dei compiti per la memoria e così via. Un altro foglio da consegnare al gruppo è quello su cui l’osservatore scrive le sue note, come già precisato, note che poi leggerà a tutta la classe nella fase di esposizione che precede la discussione finale: si tratta dunque di un foglio bianco, con scritto semplicemente “Note dell’osservatore”. Ancora, è indispensabile che il compito specifico matematico che la classe, e dunque ogni gruppo, deve affrontare, sia scritto su un foglio a parte, su cui è bene precisare anche il nome del gruppo, eventualmente la data e la classe, e il nome degli alunni che rivestono i vari ruoli. Il compito matematico deve essere espresso in poche domande, presentate nel modo più diretto e chiaro possibile: questa osservazione può sembrare banale, tuttavia non ci si rende mai conto abbastanza di quanta confusione e dispersione di energie possano generare una domanda mal posta o un elenco troppo lungo di questioni. Nelle nostre esperienze abbiamo sempre preferito scrivere il compito su un solo foglio, e non prevedere un foglio per ogni alunno, in modo che la lettura stessa del testo e la sua interpretazione diventi un momento da coordinare insieme, di stretta collaborazione, senza escludere peraltro momenti di riflessione individuale, da programmare e rispettare durante lo svolgimento del compito. Su questo stesso foglio la memoria, in accordo con i compagni del gruppo e soprattutto con il relatore, scrive gli esiti relativi al compito affrontato, che poi saranno esposti a tutta la classe da parte del relatore prima della discussione finale. Si è gia notato quanto sia importante che all’interno di ciascun gruppo ognuno abbia un cartellino con il nome preciso del ruolo che riveste, per facilitare il riconoscimento del proprio ruolo sia da parte dell’insegnante che da parte dei compagni: dunque anche questi

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cartellini vanno preparati, o dall’insegnante o da parte degli alunni stessi, come spesso accade vogliano fare, con vivaci personalizzazioni nell’uso di caratteri e colori. L’uso dei cartellini, che in un primo momento potrebbe apparire infantile, e potrebbe frenare qualche insegnante nella maggior parte dei casi ha un effetto inaspettato: al di là dell’essere funzionale nel ricordare quale ruolo sia rivestito da ognuno, sembra che marchi con maggior decisione l’assunzione del ruolo, implicando una azione concreta che sancisce con maggiore forza quanto stabilito già verbalmente. Naturalmente se il compito specifico esige l’uso di materiale didattico come fogli di carta, forbici, carta millimetrata, calcolatrici tascabili, computer, è banale osservare che ogni gruppo deve poterne disporre. Nelle nostre esperienze che prevedevano l’uso del computer ogni gruppo disponeva di un solo computer e si è dunque dovuto coordinare, all’interno di ogni gruppo, anche l’uso della macchina (che è stato regolato spontaneamente dai componenti del gruppo stesso). Infine, in base alle esperienze realizzate, mi sembra interessante che gli insegnanti preparino per ogni gruppo una cartellina in cui conservare, fin dal primo incontro di apprendimento cooperativo, tutti i fogli utilizzati, i cartellini con i nomi ed eventualmente il materiale didattico comune. Queste cartelline potrebbero essere diverse, per connotare in modo unico il gruppo di riferimento e possono essere conservate in classe, se si dispone ad esempio di un armadio, o raccolte dall’insegnante o da un alunno che le rende disponibili la volta successiva. Procedendo nel lavoro questa cartellina ovviamente si arricchisce di fogli e di oggetti, andando a tracciare in modo evidente il cammino percorso insieme e testimoniando concretamente il lavoro compiuto. L’appartenenza ad un gruppo, spesso denotato con un nome illustre scelto dai ragazzi (Gauss, Archimede, Newton,...) e la presenza della cartellina in classe, quasi sempre personalizzata (con aggiunta di firme e disegni) sembrano molto importanti, come segni di affermazione della propria identità e riconoscimento della propria esistenza in un dato luogo: è noto come questi bisogni siano fondamentali per ogni individuo e dunque quanto sia importante non sottovalutarli, focalizzando l’attenzione anche ai particolari che determinano quello che, più generalmente, viene chiamato setting dell’esperienza.

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La traccia, per ogni alunno, del lavoro disciplinare svolto

Nel corso delle esperienze svolte in classe si è manifestata presto l’esigenza di studiare come fare in modo che ogni alunno, individualmente, possa conservare la traccia di tutta l’attività svolta nel gruppo cooperativo e soprattutto la formulazione delle conclusioni concordate alla fine della discussione di classe, che chiude i lavori di gruppo e le esposizioni di relatori e osservatori. E’ inutile osservare l’importanza didattica di questa traccia: spesso nel compito assegnato non si tratta di risolvere semplicemente degli esercizi ma di riflettere su questioni fondamentali, che diventano parte della teoria che insieme si ripercorre o si costruisce. Un semplice esercizio può essere risolto da soli, anche a casa, ma nel gruppo cooperativo ha senso affrontare una questione più complessa, che ha bisogno delle risorse di tutti e su cui l’insegnante ritiene indispensabile investire tempo e energie: almeno questo è il modo in cui noi abbiamo interpretato l’insegnamento-apprendimento cooperativo. Ogni insegnante ha proposto soluzioni personali a questo problema, anche in relazione al tipo di compito matematico affrontato. Ad esempio, nel caso del teorema di Pitagora (A. Baldrighi et al., 2004, esperienza qui riportata nel Capitolo 10), a conclusione di ciascuna delle due dimostrazioni proposte nei gruppi, dopo la discussione di classe e il confronto delle differenti strategie dimostrative emerse, i ragazzi hanno scelto quella che sembrava preferibile per semplicità e argomentazioni richieste, ne sono stati puntualizzati i passi alla lavagna, utilizzando le proposte dei vari gruppi e se ne è ottenuta un’unica versione, che ciascuno ha trascritto sul proprio quaderno. Nel caso di un’esperienza sulla costruzione della formula risolutiva delle equazioni di secondo grado, poiché il compito richiedeva che ogni alunno riflettesse su alcuni passaggi algebrici proposti, che richiedevano di avere tutta l’espressione sotto gli occhi, l’insegnante, insieme alla formulazione del compito, unica per ogni gruppo, ha preparato anche fotocopie individuali di tali espressioni: ognuno doveva incollarle sul proprio quaderno, esaminarle secondo le indicazioni date e poi discutere e concordare con gli altri componenti del gruppo i passaggi da effettuare. A conclusione poi della discussione finale di classe ogni alunno avrebbe scritto quanto deciso insieme ancora sul proprio quaderno, avendo dunque a disposizione anche la versione condivisa da tutti, arricchita di tutte le osservazioni e argomentazioni proposte. Ogni insegnante può dunque adottare strategie personali, anche in riferimento a ciò che ritiene più efficace e più consono al tipo di attività

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proposta, non trascurando tuttavia questo passaggio. In questo modo riteniamo che l’attività collettiva possa diventare conoscenza personale, scritta, cui poter ricorrere individualmente in seguito per ulteriori riflessioni e rielaborazioni o semplicemente per rinforzo alla propria memorizzazione.

L’osservazione e valutazione delle relazioni interpersonali

In analisi precedenti (A. Baldrighi et al., 2003) si è già osservato diffusamente come la valutazione nell’apprendimento cooperativo sia un momento importante e decisamente più complesso di quanto non lo sia di solito, poiché non si tratta di verificare solo il livello qualitativo e quantitativo dell’apprendimento, ma di monitorare anche il progresso delle competenze sociali che mediano i processi di apprendimento. Inoltre, l’apprendimento cooperativo richiede che si considerino i risultati raggiunti sia a livello individuale che a livello di gruppo. E’ proprio nell’affrontare il problema della osservazione e dello sviluppo delle competenze relazionali e sociali che abbiamo incontrato gli ostacoli più significativi, non disponendo sostanzialmente di una preparazione di base sufficiente, a differenza di quanto accadeva invece sul versante disciplinare. Si sono dunque resi necessari, e sono tuttora in corso, studi e riflessioni specifiche su questa tematiche, con la produzione di alcuni materiali di supporto. In particolare, in riferimento al gruppo, si era rivelata di difficile gestione l’osservazione e la valutazione del comportamento sociale degli allievi. In una prima esperienza ci si era posto, fin dall’inizio, il problema di come registrare fedelmente i comportamenti degli allievi in gruppo, cercando di rilevare progressivamente lo sviluppo di particolari competenze sociali. Durante lo svolgimento del lavoro, l’insegnante, coadiuvata da un osservatore esterno (laureanda), aveva osservato gli studenti, e, talvolta, al termine delle lezioni, aveva annotato in appunti brevi la ricostruzione di alcuni avvenimenti, così da poter riesaminare la situazione. A conclusione dell’esperienza, la valutazione delle abilità sociali era avvenuta sulla base del ricordo dell’insegnante e dell’osservatore esterno e delle parziali osservazioni qualitative condotte. Le note registrate al termine delle lezioni erano però risultate piuttosto frammentarie e condizionate dalle convinzioni e dai giudizi dell’osservatore. Ci era dunque sembrato importante elaborare qualche specifico strumento.

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Per una valutazione sistematica del lavoro di gruppo avevamo così predisposto una griglia per l’osservatore, che allo stesso tempo guidasse la sua osservazione, agevolandola, ma anche fornisse all’insegnante notizie utili circa l’andamento delle relazioni interpersonali: il numero e la qualità degli interventi, registrati sulla scheda, avrebbe consentito una lettura agevole di come si fosse sviluppata l’attività di gruppo. Adottata tale griglia nelle esperienze successive, era stato osservato dalle insegnanti che spesso chi rivestiva il ruolo dell’osservatore completava solo alla fine la scheda, mettendo qua e là alcune “crocette”, apparentemente a caso o forse in base alla memoria. In alcuni casi si era notato che i compagni stessi reclamavano la presenza di “crocette” relativamente alla loro casella. Era dunque evidente che lo strumento era stato interpretato in molti casi come messaggio all’insegnante esclusivamente ai fini di una valutazione, inficiando del tutto la significatività della rilevazione. Abbiamo dunque deciso di eliminare la griglia di osservazione, lasciando bianca la scheda per le note dell’ osservatore. Non volendo però rinunciare a prestare particolare attenzione alla evoluzione delle relazioni interpersonali, abbiamo concordato di dedicare, ad esempio ogni due mesi, un momento di lavoro specifico per commentare lo svolgere dell’attività cooperativa. Si è così preparato un nuovo questionario, con domande abbastanza aperte per lasciare esprimere gli studenti più liberamente. Ecco le domande del questionario: 1. Molti dicono che l’apprendimento cooperativo richiede più impegno ma risulta più efficace: qual è la tua opinione dopo l’esperienza svolta? 2. Come ti sei sentito durante i lavori di gruppo? 3. Cosa pensi della discussione di classe a conclusione dei lavori di gruppo? Come ti sei sentito durante le varie discussioni? 4. Cosa ti è piaciuto di più dell’esperienza compiuta? Perché? 5. Cosa ti è piaciuto di meno dell’esperienza compiuta? Perché? 6. Hai considerazioni da aggiungere? In relazione invece alla osservazione della partecipazione degli alunni in fase di discussione finale, abbiamo elaborato e sperimentato più volte una griglia che consentiva di registrare la frequenza, per ogni alunno, degli interventi, distinguendo anche tra interventi spontanei oppure sollecitati dall’insegnante. Ci sembra abbia dato risultati interessanti, sia in riferimento all’atteggiamento degli studenti che in relazione alle strategie adottate dall’insegnante, con conseguenti suggerimenti per eventuali modifiche nell’attività didattica successiva. Durante la discussione finale, che risulta sempre un momento piuttosto complesso da gestire, può accadere che l’insegnante non riesca a

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percepire correttamente quanto e come ogni alunno intervenga: spesso si è molto concentrati a cogliere i collegamenti tra le varie proposte degli alunni, a scegliere quegli interventi che sembrano più opportuni da riproporre alla classe per fare il punto della situazione o per far emergere eventuali conflitti o per sollecitare sintesi significative. Una riflessione successiva su questa griglia riassuntiva può invece offrire l’occasione di utili ripensamenti, sia in riferimento agli atteggiamenti degli studenti, sia, di conseguenza, in relazione alle strategie didattiche da adottare. Ad esempio, se risulta che ci sono numerosi interventi solo per uno o due alunni e sono poco numerosi, o nulli, gli interventi di tutti gli altri, è chiaro che la discussione è stata troppo polarizzata da questi studenti: può essere preferibile, le volte successive, sollecitare diversamente gli interventi, ad esempio invitando ciascuno a parlare brevemente, sia per concordare sia per esprimere disaccordo. Può essere anche utile avviare la discussione cominciando a dare la parola, tra chi la richiede, a chi di solito si esprime di meno. E’ quasi inutile poi osservare che l’esame qualitativo degli interventi, oltre ad essere funzionale alla valutazione della qualità della partecipazione di ogni studente, mette anche in evidenza le azioni dell’insegnante: là dove mancassero costantemente (cioè in più schede) segni di intervento relativi ad uno o due studenti, sarebbe evidente che l’alunno non ha mai chiesto la parola ma neppure è stato mai interpellato dall’insegnante. Quando si è verificata una tale situazione nelle nostre esperienze c’è stato anzitutto lo stupore dell’insegnante, che non se ne era reso conto prima e non aveva certo programmato di non consultare lo studente o gli studenti in questione, ma soprattutto c’è stato un cambiamento per gli incontri successivi, con la messa a punto di strategie mirate proprio alla loro partecipazione. 5. LE IDEE CENTRALI NELLE ESPERIENZE DIDATTICHE REALIZZATE

Si è già detto all’inizio che la principale caratteristica del modello di insegnamento-apprendimento cooperativo è, insieme al fatto di avvalersi in modo cruciale delle risorse degli studenti, quella di sviluppare sia competenze disciplinari che sociali, ponendo dunque al centro di tutto il processo la qualità delle relazioni interpersonali tra i partecipanti al processo stesso. Cominciare a prendere in considerazione le relazioni personali all’interno di una classe è dunque urgente ed implica la necessità di tener conto

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della sensibilità, delle emozioni, delle credenze, delle scelte e delle risorse delle persone coinvolte nel progetto educativo: in breve, l’insegnante non può ridursi a seguire lo sviluppo di un discorso disciplinare, occorre che tenga conto dei suoi studenti in modo più ampio, che comprenda anche la loro storia e la loro corporeità. Questa, forse, è l’innovazione che può apparire più forte, più difficile da attuare e che qualcuno considererà anche estranea, rispetto alla figura usuale di insegnante di matematica, specie alla scuola secondaria superiore. Tuttavia l’esigenza di sanare la scissione tra corpo e mente, che ha caratterizzato a lungo la nostra cultura, è ormai avvertita da numerosi studi, in campo medico come nelle altre scienze, arrivando anche ad interessare la pedagogia, la psicologia e la sociologia. Anche sulla base di quanto le neuroscienze ci hanno svelato, negli anni più recenti, circa la stretta connessione, tra emozione, sentimento e cognizione (Damasio, 1999), sono numerosi, oggi, i contributi di studiosi convinti dell’urgenza di una riconciliazione, nella prassi educativa, tra mente e corpo e alcuni specifici studi sono anche stati svolti nell’ambito dell’educazione matematica, sottolineando l’importanza di farsi carico delle caratteristiche personali degli individui o la necessità di “embodiment”, cioè di passaggio attraverso la percezione corporea per la costruzione di concetti. Nella direzione citata, per favorire l’accoglienza degli alunni da parte dell’insegnante e l’apertura degli studenti stessi a modi positivi di comunicazione e relazione, abbiamo pianificato, nel nostro progetto, alcuni momenti specifici, che favorissero la riflessione sulla propria storia, il racconto di sé, l’ascolto degli altri, in sintesi una maggiore conoscenza di sé e una relazione di gruppo più distesa e accogliente. Poiché quando uno studente arriva alla scuola superiore ha già alle spalle una storia abbastanza lunga in riferimento alla sua relazione con la matematica, in alcuni casi l’insegnante ha dedicato uno spazio specifico al ricordo e alla descrizione di questa relazione, o attraverso una libera descrizione da parte dei ragazzi o attraverso la scelta di opportune metafore che descrivessero tale relazione. Spesso si è fatto ricorso al linguaggio metaforico per ricordare avvenimenti della propria storia personale, intrecciando così la narrazione di sè, sollecitata oggi in ambiente pedagogico e psicologico, ad un tipo di comunicazione particolarmente produttivo2. A commento del ricorso alla scrittura autobiografica vorrei sottolineare che dagli anni ’80 sta diventando sempre più diffusa in campo

2 Sulla rilevanza del discorso metaforico in senso trasformativo a livello personale, in quanto modalità capace di raggiungere la parte meno razionale e più profonda degli individui, ho già scritto in A. Pesci, 2003, cui si rimanda per i dettagli.

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formativo, anche in età adulta, come strategia che mira a sviluppare positivamente la comunicazione interpersonale e sociale. Non meno significativo, nell’attività di gruppo, è l’ascolto biografico, che coesiste con la narrazione autobiografica da parte dell’altro e consente a chi si narra di riflettere e ricostruire la propria trama di vita. Quando chi ascolta è disponibile all’accoglienza e all’apertura, la relazione dialogica che si instaura favorisce il generarsi, in ognuno, di nuove possibilità di rappresentazione e di comprensione di se stessi, di significazione degli eventi, dei contesti e delle relazioni personali. In conclusione, è evidente che realizzare un processo di insegnamento – apprendimento con la modalità dell’apprendimento cooperativo, nei termini complessi ma neppure esaustivi messi in evidenza, implica per l’insegnante un lavoro articolato e difficile. E’ infatti necessario un grosso impegno, sia per una revisione epistemologica della disciplina che per lo sviluppo di adeguate competenze a livello didattico e relazionale. La prospettiva dell’insegnamento-apprendimento cooperativo è dunque quella di un cammino lungo e impegnativo, tuttavia sembra molto promettente, sostanziandosi in un effettivo miglioramento di tutto il processo educativo.

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Allegato ORIENTATO AL COMPITO Il suo obiettivo è far raggiungere al gruppo il mig lior risul tato possibi le in relazione al compito assegnato PROFILO DI RUOLO

1. Traduce in termini operativi e in un piano di lavoro gli obiettivi e il compito assegnato al gruppo.

2. Fa sì che tutte le parti del problema siano analizzate e discusse 3. Prevede nell’attività sia la riflessione individuale sia la discussione collettiva 4. Fa sì che il gruppo non si disperda su aspetti secondari del problema 5. Segnala le incongruenze logiche e gli squilibri argomentativi 6. Fa periodicamente il punto della situazione rispetto all’obiettivo e al tempo. 7. Promuove e attiva i momenti decisionali

ORIENTATO AL GRUPPO

E’ i l responsabile del clima comunicativo

PROFILO DI RUOLO

1. Sostiene con la relazione tutti i partecipanti 2. Fa sì che tutti siano partecipi senza che lo sentano come imposizione 3. Fa sì che i contributi di tutti siano equilibrati nel tempo e nel modo 4. Fa sì che i partecipanti si riconoscano nel processo e nella produzione di gruppo 5. Sdrammatizza eventuali conflitti. 6. Riattiva i momenti di stasi.

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MEMORIA E’ responsabile della formalizzazione del risultato del lavoro di gruppo

PROFILO DI RUOLO

1. Durante il processo di analisi e sistemazione degli argomenti fa sì che essi risultino evidenti al gruppo: ripete le decisioni, chiede conferma per la formalizzazione, mette per iscritto ciò che viene confermato come versione definitiva

2. Alla fine del processo perfeziona la versione definitiva e sintetica del prodotto finale (relazione), d’accordo con il gruppo ed in particolare con il “relatore”

RELATORE E’ i l responsabile per i l gruppo della relazione orale sul lavoro svolto

PROFILO DI RUOLO

1. Collabora con la memoria nel perfezionare la versione definitiva e scritta del prodotto del lavoro di gruppo

2. Fa una “prova” di esposizione al gruppo della relazione orale e raccoglie suggerimenti

3. Svolge la relazione orale nella discussione plenaria

OSSERVATORE

E’ i l responsabile del feedback al gruppo su alcuni e lementi del processo interattivo

PROFILO DI RUOLO OSSERVA: 1. Quali/quanti partecipanti intervengono 2. La scansione temporale delle fasi di lavoro (analisi del problema,

discussione e sintesi) 3. Frequenza degli interventi nelle fasi di lavoro 4. Autoesclusione di alcuni membri e relative dinamiche 5. Grado di copertura del proprio profilo di ruolo da parte dei diversi membri

del gruppo 6. Registra i dati osservati e ne dà comunicazione alla classe a conclusione

delle singole sessioni di lavoro

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SECONDA PARTE ESEMPI

CAPITOLO 8

L’AVVIO ALLA COSTRUZIONE DEL RAGIONAMENTO PROPORZIONALE

1. INTRODUZIONE In questo capitolo descriveremo una esperienza didattica svolta in una scuola media relativamente alla costruzione del ragionamento proporzionale: essa può essere considerata una buona interpretazione nella pratica scolastica delle idee costruttiviste esposte nei capitoli precedenti. Una sintesi di ciò che segue è stata presentata al XV Internuclei Scuola Media sul tema “Argomentare e dimostrare nella scuola media”, svoltosi a Salice Terme (18 - 20 aprile 1996) ed è raccolta negli Atti dello stesso Convegno. Ulteriori analisi di questa esperienza didattica e di altre successive sullo stesso tema sono state poi raccolte globalmente nel testo “Lo sviluppo del pensiero proporzionale nella discussione di classe” (edito da Pitagora e citato in Bibliografia).

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Prima di entrare nel dettaglio della descrizione dell’esperienza è importante premettere alcune riflessioni sul modo in cui il ragionamento proporzionale viene di solito insegnato, a partire dalla scuola elementare.. Nella scuola elementare, gli alunni imparano a conoscere il rapporto con i significati cosiddetti di "ripartizione" e "contenenza". Questo quadro viene generalmente ampliato nella scuola media, dove, nell'ambito della tematica della proporzionalità, l'idea di rapporto fra grandezze (omogenee e non) viene applicata a molteplici situazioni in matematica, fisica o altro. Il fatto è che i libri di testo affrontano la proporzionalità in un modo che si può definire dogmatico perché la teoria è presentata nella maggior parte dei casi senza alcuna argomentazione e giustificazione. Di solito poi i testi fanno seguire una grande molteplicità di esercizi che gli studenti imparano a svolgere spesso solo in modo meccanico: la stessa collocazione degli esercizi, nella parte di testo dedicata a rapporti e proporzionalità, non fa certo sorgere nei ragazzi il dubbio del ricorso a rapporti piuttosto che ad altre strategie risolutive. Il concetto di rapporto, e in generale di proporzionalità, riveste un ruolo particolarmente importante in matematica, perché ne costituisce senza dubbio un concetto centrale, che trova molteplici applicazioni anche a livello di scuola superiore e di università. È solo nel corso della scuola media, però, che gli studenti hanno l'occasione di studiare il rapporto e la proporzionalità fra grandezze come argomento a sé stante, e di affrontare, tra i vari tipi di problemi, anche situazioni che richiedono un ragionamento proporzionale: è quindi il caso di dedicarvi tempo e di curarne la concettualizzazione. Nella scuola media superiore, anche quando l'argomento della proporzionalità fra grandezze viene ripreso, non si mette certo in dubbio che i ragazzi non conoscano la problematica e si dà per scontato che gli studenti sappiano individuare senza incertezze le situazioni che necessitano del ricorso a tale concetto. È proprio nel corso della scuola media, quindi, che si può collocare un intervento didattico su questo argomento, mirato a mettere in dubbio, prima ancora che a presentare, uno schema di ragionamento che ricorra alla costanza di rapporti. La proposta didattica che abbiamo elaborato per la seconda media si propone dunque l'ampliamento del concetto di rapporto e la costruzione del ragionamento proporzionale, una costruzione ragionata, discussa e condivisa da tutta la classe, attraverso la presentazione di opportune situazioni problematiche.

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Ci siamo proposti di costruire un itinerario didattico in cui il ricorso alla costanza di rapporti nascesse come strategia necessaria per affrontare le situazioni problematiche proposte e soprattutto si scontrasse con altre strategie risolutive, abbastanza spontanee ma di fatto non adeguate alle situazioni stesse. Momenti fondamentali di questo itinerario sono state proprio le discussioni della classe sulle varie strategie risolutive emerse, durante le quali l'insegnante non si è pronunciata sulla correttezza delle argomentazioni, lasciando così spazio alle varie espressioni di assenso o dissenso. In precedenza un test esplorativo composto da 15 problemi era stato proposto durante il secondo quadrimestre a 162 alunni appartenenti a nove classi di terza media di Pavia e provincia, allo scopo di valutare con quanta consapevolezza venisse usato il rapporto a conclusione del ciclo della scuola dell'obbligo. È nella soluzione del seguente problema che gli studenti avevano commesso la maggiore percentuale di errore, forse anche per il contesto problematico poco usuale : “ Mario partecipa a un torneo di ping-pong di 18 partite, vincendone 12. Antonio, partecipando a un altro torneo di 24 partite, ne vince 16. Chi ha avuto il miglior risultato? ”. Senza entrare nel dettaglio degli esiti ottenuti, è interessante osservare, per quello che si dirà poi, che dei 45 studenti (28%) che hanno sbagliato e non hanno usato un rapporto, 38 (23%) sono ricorsi al calcolo di differenze. Inoltre 10 alunni (6%) non hanno tentato neanche di risolvere l'esercizio. In conclusione, il problema aveva costituito una notevole difficoltà per il 34% degli studenti di fine terza media. 2. LA PRIMA SITUAZIONE PROBLEMATICA: I RAGAZZI ARGOMENTANO LE STRATEGIE Esaminiamo qui solo la prima parte di un itinerario didattico che abbiamo sperimentato in una seconda media di 26 alunni . Questa parte si sviluppa in quattro schede (numerate da 0 a 3) che devono essere completate individualmente dai ragazzi ed essere seguite da una discussione "a-didattica", che permetta una interazione verbale tra gli studenti stessi, in due momenti: a conclusione della scheda 0 e a conclusione della scheda 3. L'articolazione di questa fase dell'itinerario didattico ha richiesto 8 ore circa di lavoro in classe. Secondo la programmazione scolastica, quando la classe della sperimentazione ha iniziato l'itinerario didattico si erano già affrontati il

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confronto fra frazioni, le operazioni di moltiplicazione e divisione, e si erano appena iniziate somma e differenza di frazioni. Per la prima scheda, avente lo scopo di testare il ricorso spontaneo all'utilizzo del concetto di rapporto, si è pensato a un contesto piuttosto noto ai ragazzi e non insolito nei testi scolastici: il miscuglio di colori. Il testo della scheda è il seguente3:

Analisi delle SOLUZIONI L'analisi delle schede ha condotto alla seguente catalogazione delle risposte e delle strategie risolutive degli alunni : Categoria A La risposta fornita è del tipo :"Luisa deve aggiungere 9 barattoli di giallo, Piero deve aggiungere 2 barattoli di blu"

3 Nella versione finale di questa scheda si è cambiato il numero dei barattoli blu a disposizione di Luisa: sono diventati 10 invece di 6, per evitare l’emergere della strategia scorretta descritta come “Categoria C” nel seguito e focalizzare meglio l’attenzione dei ragazzi sul confronto tra il ricorso alle “differenze costanti” e quello ai “rapporti costanti”.

SCHEDA 0

Si devono dipingere di verde tre pannelli di dimensioni diverse e si hanno a disposizione barattoli tutti uguali , di colore giallo e blu . I pannelli devono avere tutti la stessa tonalità di colore . MARCO ha dipinto il primo pannello utilizzando un miscuglio ottenuto con 4 barattoli di blu e 6 barattoli di giallo LUISA deve dipingere il secondo pannello: per ottenere la stessa tonalità di colore ed avendo a disposizione 6 barattoli di blu , quanti barattoli di giallo deve aggiungere ? PIERO, per il terzo pannello, ha 3 barattoli di giallo: quanti barattoli di blu deve aggiungere ? Spiega il tuo ragionamento per rispondere alle domande: per LUISA.......................................................................................................................... .......................................................................................................................................................................................................................................................................................... per PIERO.......................................................................................................................... ..........................................................................................................................................................................................................................................................................................

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La soluzione è motivata da un corretto ragionamento di proporzionalità: per maggior chiarezza si è pensato di suddividere ulteriormente gli elaborati, nelle categorie: A1: la spiegazione fa esplicito uso del rapporto ( 2/3 o 3/2 o 1/2 ).

A2: la spiegazione è corretta senza far ricorso esplicito al rapporto.

Categoria B: La risposta fornita è del tipo: "Luisa deve aggiungere 8 barattoli di giallo, Piero deve aggiungere 1 barattolo di blu" Questa risposta è motivata dal fatto che Marco usa 2 barattoli di giallo in più rispetto ai blu, allora allo stesso modo si devono comportare sia Luisa, sia Piero, ovvero deve esserci la stessa differenza tra i barattoli gialli e i barattoli blu usati da ciascuno. Categoria C: La risposta fornita è del tipo: "Luisa deve aggiungere 4 barattoli di giallo, Piero deve aggiungere 7 barattoli di blu" La motivazione risiede nel fatto che ognuno deve usare lo stesso numero totale di barattoli (nel nostro caso 10). La seguente tabella evidenzia i risultati ottenuti in riferimento ad ognuna delle categorie sopra citate:

TABELLA 1

CATEGORIA N° STUDENTI PERCENTUALE A1 3 11 %

A2 2 8 %

B 19 73 % C 2 8 %

Si può dunque notare che solo 5 dei 26 alunni della classe (cioè il 19% del totale) ricorrono in modo spontaneo ad una strategia che tanga conto della costanza di un rapporto. Passiamo ora ad esaminare in modo più approfondito le singole categorie , dando alcuni esempi di soluzione .

CATEGORIA A

1

Alberto espone il suo pensiero in modo chiaro e conciso: "Per LUISA Avrà bisogno di 9 barattoli gialli perché i gialli sono i 3/2 dei blu altrimenti con un altro rapporto la tonalità varierebbe.

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Per PIERO Avrà bisogno di 2 barattoli blu perché i blu sono i 2/3 dei gialli altrimenti con un altro rapporto la tonalità varierebbe." Giulio ragiona in modo diverso ma egualmente corretto: "Per LUISA: Luisa deve aggiungere 9 barattoli di giallo. Per rispondere alla domanda ho pensato che 4 barattoli blu siano un intero e 6 barattoli gialli un altro intero; poi ho controllato e Luisa aveva 3/2 dei barattoli blu occorrenti. Per fare la giusta tonalità di colore allora doveva avere 3/2 anche di giallo che è 9 perché 6:2= 3 e 3 ! 3 = 9 . Per PIERO: A Piero occorrono solo 2 barattoli di blu, perché ho pensato che 6 b. gialli e 4 b. blu fossero 2 interi. Quindi 3 b. gialli equivalevano a 1/2 per i b. gialli e per fare la giusta tonalità bisogna mescolare solo 1/2 di blu che equivale a 2 4:2 = 2 2 ! 1 = 2 ."

CATEGORIA A

2

Alessandra C. risponde così alle domande: "Per LUISA: Mettiamo che il pannello di Marco misuri 2 metri . Per 1 m , usa 2 barattoli di blu e 3 di giallo . Se Luisa usa 6 barattoli di blu, significa che il suo pannello misura 3 m. So che per 1 m ci vogliono 3 barattoli di giallo e quindi, per 3 m ce ne vogliono 9. Luisa deve aggiungere 9 barattoli di giallo. Per PIERO: Essendo 3 la metà di 6, i barattoli blu che devo aggiungere sono 2, la metà di 4 . Marco 4 B 6 G Piero 2 B 3 G "

CATEGORIA B

Tra gli studenti che condividono questo tipo di soluzione, Ester ha dato una spiegazione molto minuziosa: "Per LUISA devo aggiungere 8 barattoli di giallo per avere la stessa tonalità di verde ottenuta da Marco, perché , in questo problema, i pannelli sono di dimensioni diverse , quindi per il più piccolo ci vorranno meno barattoli degli altri , ma la stessa differenza tra il n° dei barattoli di blu e i barattoli di giallo . La differenza in questo caso è di

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2 barattoli. Quindi basta togliere 2 al n° dei barattoli di giallo o aggiungere 2 ai barattoli di blu. Per PIERO devo aggiungere 1 barattolo di blu perché, togliendo la differenza che c'era negli altri due casi al n° dei barattoli gialli usati da Piero, ho risultato 1 ." Giovanni fa riferimento addirittura alla proprietà invariantiva e scrive: "Per LUISA 8 barattoli di giallo. Bisogna avere sempre la differenza di 2 barattoli. Il colore giallo deve essere maggiore dei barattoli di blù. Per me c'è una specie di prop. invariantiva perché aggiungendo o sottraendo lo stesso numero ai due termini il risultato non cambia. Per PIERO 1 barattolo di blu. Per me c'è sempre una specie di prop. Invariantiva."

CATEGORIA C

Simone risponde così: "Per LUISA Sommando il numero dei barattoli che ha Marco , ottengo 10. Secondo me per avere 10, Luisa ai suoi 6 barattoli blu deve aggiungere 4 gialli. Per PIERO Ai suoi 3 barattoli gialli ne dovrà aggiungere 7 blu. In questo modo tutte e tre le persone hanno usato 10 barattoli a testa." In sintesi, dunque, ecco i risultati che si sono ottenuti: - 5 alunni (19%) forniscono risultati corretti e motivano la soluzione mediante un ragionamento proporzionale: 9 barattoli di giallo per Luisa e 2 di blu per Piero. - 19 alunni (73%) ricorrono al criterio della “differenza costante”, cioè in ogni caso ritengono che il numero dei barattoli gialli sia uguale al numero dei barattoli blu più 2. Per questi alunni, Luisa ha bisogno di 8 barattoli di giallo, mentre a Piero ne occorre 1 di blu. - 2 alunni (8%) mantengono costante il numero totale di barattoli (10) che ognuno deve usare: Luisa userà 4 barattoli di giallo e Piero 7 di blu. Dagli esiti ottenuti appare chiaramente che la strategia spontanea più frequente è "di tipo additivo": la regolarità che gli alunni notano nel caso di Mario (numero barattoli di giallo = numero barattoli di blu + 2) è di tipo additivo e la impongono negli altri due casi.

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La DISCUSSIONE Senza ritirare le schede, si è dato quindi avvio alla discussione, allo scopo di far emergere le differenti strategie utilizzate spontaneamente dai ragazzi ed anche le motivazioni a sostegno delle strategie stesse. In questa fase non si è comunque dichiarato quale fosse la strategia più opportuna, ci si è limitati a fare emergere le idee dei ragazzi, eventualmente sollecitandone la verbalizzazione. Riportiamo qui di seguito un tratto che ci è parso particolarmente significativo : ...... Alberto : qui dice che i pannelli devono avere tutti la stessa tonalità di verde e per avere la stessa tonalità bisogna avere i barattoli blu tutti nello stesso rapporto con i barattoli di giallo, altrimenti potrebbe venire un po' più chiaro o un po' più scuro . Insegnante : Jacopo , secondo te , Alberto ha ragione o no ? Jacopo : Non lo so . Giovanni : Per me , no , perché non c'entra quanti sono i barattoli .Se la differenza è sempre di 2 , i colori sono sempre uguali , anche se la quantità cambia . Jacopo : I barattoli di blu non sono sempre lo stesso numero , però se tu aggiungi sempre più 2 di gialli , la tonalità , secondo me , viene uguale . Alessio : Voglio dire una cosa interessante . Immagina di dover dipingere una casa con la stessa tonalità di verde . Se usi 1000 secchi di blu e 1002 di giallo ; secondo te viene la stessa tonalità di verde ? Giovanni : Si . Alessio : Si ? Giovanni : Si , cambierà la quantità , ma viene fuori verde . Pamela : secondo me è sbagliato quello che dice Jacopo , però non sono completamente d'accordo con Alberto , perché qua dice che i pannelli non hanno la stessa dimensione , allora se si usano meno barattoli sia di blu che di giallo , però sempre nella quantità giusta, allora non è che viene un verde diverso . Paolo : ma infatti lui non usa sempre gli stessi barattoli . Ad esempio se uno ha un pannello grande il doppio , userà il doppio anche di pittura : cioè userà 4!2 barattoli di blu e 6!2 barattoli di giallo . Niccolò D. : io , grazie all'esempio di Alessio della casa , ho capito che per avere la stessa tonalità bisogna tenere il rapporto perché non sono convinto che aggiungendo a 1000 barattoli di blu 1002 barattoli di giallo mi diventa verde .

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A questo punto si crea un po' di confusione perché l'esempio di Alessio ha creato due opposte fazioni: i sostenitori e gli oppositori. Osserviamo che Alessio, nella scheda 0, aveva scelto la strategia della "differenza costante", ma già nella prima parte della discussione si era convinto della adeguatezza del ricorso a rapporti costanti e da quel momento in poi ne è diventato uno dei maggiori sostenitori. Il suo intervento , in cui si fa riferimento a 1000 secchi di blu e 1002 secchi di giallo, è di natura "teorica" : egli vuol far capire che quando la differenza è 2 ed i numeri in gioco sono molto alti si ha "quasi" la stessa quantità per ogni colore : quindi il colore risultante non può essere paragonabile al caso iniziale, con 4 barattoli di blu e 6 barattoli di giallo. Vedremo che, più avanti, la stessa argomentazione sarà espressa da Paolo, pur con parole diverse. Jacopo: usando 1000 litri di blu e 1002 litri di giallo oppure mescolando 1 litro di blu e 3 di giallo, secondo me , si ottiene la stessa tonalità . L'insegnante chiede: siete d'accordo con Jacopo ? Si scatena un coro di si e di no. Nessuno recede dalle proprie posizioni . Si creano problemi per stabilire se e come si mantiene una data tonalità di verde . Paolo espone un'idea interessante : Paolo:se uno ha 2 barattoli di blu e 2 di giallo, gli viene un verde; se aggiunge altri 2 barattoli di giallo, gli viene un verde più chiaro, quasi giallo. Però, se uno ha moltissimo verde e aggiunge due barattoli di giallo, non gli viene una cosa verso il giallo, rimane un verde quasi uguale. ....... Paolo intende dire che 2 barattoli di giallo su tantissimo verde "pesano" molto meno che su un verde ottenuto con 2 barattoli di giallo e 2 di blu. È importante osservare come Paolo riesca a inserirsi nel ragionamento di Alessio ( per contrastare Jacopo ): questo atteggiamento non è così comune, anzi durante la discussione si è notata la difficoltà dei ragazzi ad "entrare" nel ragionamento dei compagni: spesso un alunno, interrogato, si limitava a ripetere la propria strategia risolutiva e l'insegnante doveva riproporre il confronto con la soluzione oggetto di discussione. È interessante osservare che, durante la discussione, quattro studenti correggono la propria scheda passando dal criterio della differenza costante al ragionamento proporzionale.

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Non tutti gli studenti hanno compreso e condiviso i discorsi di Alessio e Paolo tuttavia l'insegnante non si è pronunciata in merito alla correttezza delle varie strategie. Con le schede successive la classe può dunque affrontare nuovamente la stessa problematica in un contesto diverso. 3. LA SECONDA SITUAZIONE PROBLEMATICA: ULTERIORI ARGOMENTAZIONI Si è proseguito l'itinerario didattico ponendo all'attenzione dei ragazzi le schede 1, 2, 3, una alla volta. La prima introduce gli alunni in un nuovo contesto problematico, le partite a tennis, e, dati il numero delle partite giocate e vinte da ognuno di 4 giocatori, si chiede chi sia il più bravo. Il testo della scheda è il seguente.

Si tratta ancora di una scheda esplorativa, per rispondere alla quale non è fondamentale l'uso del rapporto; infatti, volutamente, i dati numerici proposti danno la possibilità di adottare più strategie risolutive: in particolare Carlo, poiché è l'unico che vince più di quanto perde (28 è più della metà di 52), è senza dubbio il più bravo. Attraverso le risposte dei ragazzi, si può comunque constatare se qualcuno ricorra spontaneamente ad un confronto di rapporti, eventualmente anche a seguito della discussione effettuata.

SCHEDA 1 Alberto, Bruno, Carlo e Dario sono giocatori di tennis della stessa categoria. Durante l'anno scolastico hanno partecipato a diversi tornei ottenendo i seguenti risultati: Alberto Bruno Carlo Dario Partite vinte 15 20 28 48 Partite giocate 30 90 52 100 In base agli esiti ottenuti, secondo te chi è il più bravo ? Spiega come sei arrivato alla tua conclusione. Se ti sembra utile puoi anche utilizzare tabelle, schemi, segmenti, ...

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In riferimento agli esiti ottenuti, 22 alunni (85%) forniscono la risposta corretta con motivazioni adeguate e circa la metà di essi utilizza esplicitamente rapporti : in relazione alla scheda 0 si può dunque dire che il numero di alunni che ricorre ai rapporti sia passato da 5 a 11. Osserviamo inoltre che anche nelle schede successive questi 11 alunni si sono mostrati stabili su questa strategia. La scheda 2 chiede di completare una tabella con dati mancanti riguardanti sempre il numero delle partite giocate e vinte da ogni giocatore, in modo che tutti si possano considerare ugualmente bravi a uno stesso giocatore, di cui sono assegnati entrambi i valori numerici. Questa scheda esige, per una risposta corretta al quesito, l'utilizzo del rapporto; quindi, più della precedente, evidenzia chi ricorre al rapporto. Il testo della scheda è il seguente.

SCHEDA 2 Nella seguente tabella ci sono gli esiti delle partite a tennis giocate da alcuni giocatori della stessa categoria. Completa la tabella in modo che i giocatori si possano considerare "ugualmente bravi" (in base agli esiti della tabella): Claudio Enzo Anna Marco Elena

N° partite vinte 20 10 ..... 50 .....

N° partite giocate 70 ..... 105 ..... ..... Spiega come hai fatto a trovare i numeri per completare la tabella .

Si ottengono i seguenti risultati : 18 alunni (69%) ricorrono decisamente a una "legge moltiplicativa": di questi, 16 usano "rapporti in colonna" (2/7 oppure 7/2) , 2 usano "rapporti in riga", ad esempio osservano che 10 è la metà di 20 per completare con 35 il n° di partite giocate da Enzo. Invece 8 alunni (31%) si fanno guidare da una "legge additiva": per ogni giocatore la differenza tra partite giocate e vinte è 50. La scheda 3 sottopone all'attenzione degli studenti una tabella che si richiede di completare in modo che per ognuno degli 8 giocatori proposti sia uguale a 30 la differenza tra partite giocate e partite vinte. Si chiede poi se i giocatori della tabella siano tutti ugualmente bravi. Questa scheda ha lo scopo di far riflettere sull'utilizzo del criterio della differenza costante per giudicare la bravura di un giocatore, criterio che spesso emerge nel completamento della tabella della scheda precedente.

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Si è pensato di "obbligare" tutta la classe a riflettere su un possibile uso della differenza al posto del rapporto, pur ritenendo delicato questo momento, avendo constatato che nella maggioranza dei casi la discussione del metodo differenza produce un buon esito e favorisce la riflessione. Il testo della scheda è il seguente:

SCHEDA 3

Completa ora la seguente tabella in modo che per ogni giocatore la differenza tra il numero delle partite giocate e quello delle partite vinte sia 30.

Ada Aldo Bice Enzo Anna Ivo Gino Emma N° partite vinte 2 30 10

N° partite giocate 32 64 100 In base ai dati della tabella completa sei disposto a considerare tutti i giocatori “ugualmente bravi” ? Giustifica la tua risposta:

In questo caso 15 alunni (58%) rispondono negativamente alla domanda della scheda e 13 di essi sostengono che occorre far riferimento al rapporto. Gli altri 11 non rispondono in modo corretto, cioè per loro aver perso un ugual numero di partite è indice di uguale bravura. Dopo aver ritirato anche la scheda 3 si è dato il via alla discussione, lasciando che gli alunni avessero un ruolo centrale, mentre ancora l'insegnante aveva la funzione di coordinatore. Riportiamo due passaggi che riteniamo particolarmente significativi e che si riferiscono in particolare alla discussione relativa alla scheda 3 : ....... Niccolò M. : Per me non sono tutti bravi ugualmente, perché non appartengono tutti alla stessa classe di equivalenza, perché se divido numeratore e denominatore ottengo risultati completamente diversi . Insegnante : Luisa , vedo che fai una faccia un po' così. Luisa : Io avevo detto di si perché è lo stesso ragionamento della seconda scheda : le partite vinte sono sempre 30 in meno di quelle giocate. Insegnante : Alessio, tu cosa dici ?

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Alessio : Io dico che come è possibile che due giocatori siano bravi uguali quando uno ne gioca 70 e ne vince 20 e un altro ne gioca 100 e ne vince 50 ? E se uno ne gioca 50 e ne vince 0 ? Marco V.: Se un giocatore ne gioca 30 e ne vince 0 e uno ne gioca 2000 e ne vince 1970 , lui ne ha vinte 1970 , però 30 ne ha sempre perse. Insegnante : Quindi per te è ugualmente bravo, giusto ? Marco V.: Si. Giovanni : Per me ha ragione Marco. E' come per i colori, la differenza è sempre quella : giocarne 30 e vincerne 0 è come giocarne 31 e vincerne 1. Alessio : Questi sono i barattoli che giocano a tennis. E' lo stesso discorso. Si possono giocare anche miliardi di partite, l'importante è che si mantenga il rapporto. Pamela : Per me, è sbagliato quello che dice Marco perché se un giocatore ha giocato 32 partite e ne ha vinte 2, la differenza è 30 allora sono più le partite perse che quelle vinte; mentre se un giocatore ne ha giocate 80 e ne ha perse 30 vuol dire che quelle vinte sono 50 e sono di più quelle vinte di quelle perse. Nel ragionamento di Pamela c'è l'ipotesi che se uno vince più partite di quelle che perde è più bravo di un altro che perde più partite di quelle che vince. ..... Alessio : Io vorrei fare uno dei miei soliti esempi. Supponiamo di avere un pezzo di pane. Dividiamolo in 30 parti; seguendo il suo ragionamento, la differenza deve essere 30, non te ne do niente. Prendo un altro pezzo di pane, lo divido in 70 parti e te ne do 40. Secondo te, hai mangiato uguale ? Giovanni : No. Però dipende dagli esempi perché nei colori era giustissimo Insegnante : noi non abbiamo detto che era giusto, non abbiamo detto niente. Giovanni : Per me era giusto; la quantità sarà stata diversa, però il colore era lo stesso. Insegnante : Paolo. Paolo : Io vorrei dire una cosa a Giovanni. Tu sostieni che, per avere la stessa tonalità, i gialli devono essere sempre 2 in più dei blu. Ma se i barattoli gialli sono 2, i blu devono essere 2 in meno, quindi sono 0. Non si può ottenere la stessa tonalità; infatti viene giallo. Perciò non può essere sempre la differenza uguale.

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Osserviamo, negli interventi di Alessio, Pamela e Paolo, la notevole efficacia degli esempi numerici scelti (in particolare del ricorso allo 0) e delle analogie proposte. Nella verifica individuale proposta a conclusione di queste schede, ma prima di una trattazione sistematica della proporzionalità e senza aver lavorato su altre situazioni problematiche, si è potuto constatare l'incisività delle argomentazioni dei ragazzi emerse durante le discussioni in classe. Ad esempio, di fronte al quesito: "Per preparare un'aranciata mescoli 6 parti di succo concentrato d'aranciata ed 8 parti di acqua. Luisa per avere la stessa concentrazione mescola 12 parti di acqua con 10 di succo. E' giusto il procedimento di Luisa? Giustifica." la totalità della classe concorda sulla scorrettezza del procedimento di Luisa e 5 alunni ripropongono esplicitamente argomentazioni con il ricorso allo zero, come ad esempio nel seguente protocollo di Marco : "No, il procedimento di Luisa è sbagliato perchè avere 10 parti di succo e 12 parti di acqua è diverso che avere 8 parti di acqua e 6 parti di succo. Non può essere uguale perchè se Luisa prendesse 0 parti di succo e 2 di acqua non sarebbe uguale, anche pur essendovi la differenza di 2." Anche se la spiegazione di Marco non è del tutto esplicita, costituisce comunque una prova di quanto abbiano inciso gli esempi "con lo zero" emersi proprio dai ragazzi. 4. OSSERVAZIONI CONCLUSIVE Vogliamo qui esporre, in sintesi, ciò che ha caratterizzato le due situazioni problematiche descritte nei paragrafi precedenti e che, anche secondo il giudizio degli insegnanti, è stato determinante per il coinvolgimento cognitivo di tutta la classe (si tratta delle condizioni che caratterizzano una situazione-problema, esposte al paragrafo 4 del Capitolo 5): • le conoscenze iniziali degli alunni della classe erano state giudicate

sufficienti affinché essi potessero procedere da soli, cioè pensare di utilizzare una strategia che facesse riferimento, anche inconsapevolmente, a un ragionamento proporzionale o a un altro tipo di "regolarità" che comunque erano in grado di accettare o confutare;

• gli allievi potevano decidere da soli se una soluzione era corretta oppure no : fondamentale, in questo caso, è stata la discussione che

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l'insegnante ha saputo sollecitare nella classe a partire dalle strategie proposte dagli alunni stessi, a conclusione del lavoro individuale;

• dovevano essere costruite nuove conoscenze : nel nostro caso infatti, come già osservato, l'obiettivo era quello di costruire il ragionamento proporzionale;

• la conoscenza che si desiderava venisse acquisita dall'allievo doveva essere lo strumento più adatto alla soluzione dei problemi proposti: in entrambi i casi le strategie additive si rivelavano inadeguate e lo strumento matematico più opportuno risultava il ricorso a rapporti costanti.

E’ evidente, infine, il collegamento alla teoria dell’Inquiry descritta nel Capitolo 6, centrata sull’uso positivo degli errori nell’educazione matematica. La discussione di classe, come si è visto, si è sviluppata proprio intorno alla strategia scorretta, quella delle “differenze costanti”, emersa dalla maggioranza degli alunni. La Scheda 3, in particolare, propone la riflessione su questa strategia a tutta la classe, forzandone così la confutazione in base alle argomentazioni sollecitate dalla scheda e che infatti, come si è visto, sono emerse nella discussione.

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CAPITOLO 9

LA DIVISIONE TRA POLINOMI IN ANALOGIA ALLA DIVISIONE FRA INTERI

1. INTRODUZIONE In questo capitolo si riporta un articolo apparso sulla rivista ‘L’insegnamento della matematica e delle scienze integrate’ (Vol. 19B, n. 1, 1996, pagg. 11-28) relativo ad una esperienza didattica realizzata nella scuola media superiore: esso illustra in concreto due particolari aspetti, cioè l’uso dell’analogia in matematica per ampliare a contesti nuovi concetti ed algoritmi già noti e soprattutto la possibilità che questo uso sia realizzato dagli studenti stessi e non semplicemente descritto dagli insegnanti. L'unità didattica qui presentata affronta la questione della divisione fra polinomi in una variabile. Questo argomento viene di solito presentato durante il primo anno della scuola media superiore: l'algoritmo della divisione non è usualmente giustificato nè tantomeno vengono presentati gli aspetti teorici dell'argomento, tenuto anche conto della sua precoce presentazione ai ragazzi. Occorre dire che alcuni autori, ad esempio Prodi (Matematica come scoperta, vol. 2, D'Anna), Oriolo Coda (Algebra ed informatica, vol. 2, Mondadori), e Maraschini Palma (Manumat 2, Paravia) ne rimandano la trattazione al secondo anno, quando è più abituale la "manipolazione" di tipo algebrico e più opportuna anche una eventuale riflessione teorica. Tra gli autori citati soltanto G. Prodi propone agli studenti una completa giustificazione dell'algoritmo ed è proprio alla sua trattazione che si è ispirata la nostra unità didattica. Dopo aver analizzato e discusso le presentazioni di questo argomento su alcuni libri di testo, il nostro gruppo ha concordato di formulare una proposta didattica su questo tema, con particolare attenzione sia agli aspetti teorici che a quelli metodologici.

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Dal punto di vista teorico, sfruttando l'analogia con l'algoritmo della divisione fra interi che ricorre al metodo delle "differenze ripetute", si è fatto in modo che i ragazzi stessi costruissero l'algoritmo per la divisione fra polinomi. L'obiettivo non è solo quello di motivare e comprendere meglio la tecnica della divisione ma anche quello di mostrare concretamente ai ragazzi quanto sia possibile intervenire personalmente nella costruzione stessa della matematica. Dal punto di vista metodologico, prevedendo un lavoro a gruppi, si è pensato di puntare a una costruzione più significativa della matematica favorita dalla partecipazione al lavoro, che di solito nel gruppo è più condivisa, e dallo scambio verbale tra pari che sollecita l'argomentazione e in ultima analisi la comprensione. Sperimentata la proposta sia in prima che in seconda superiore, la maggioranza del gruppo si è espressa a favore di una sua collocazione in seconda. Per quanto riguarda i prerequisiti strettamente collegati alla proposta stessa è chiaro che occorre aver introdotto il concetto di monomio e di grado di un monomio, le operazioni usuali fra monomi, il concetto di polinomio e di grado di un polinomio. In particolare, a proposito del concetto di polinomio, il nostro gruppo ha discusso sia la possibilità di una introduzione di tipo funzionale che di un approccio di tipo più sintattico, indipendente da una interpretazione numerica attribuibile alla variabile (o alle variabili) del polinomio. Non vogliamo entrare qui nel dettaglio di questa discussione ma ci sembra interessante che si sia rilevato che entrambi gli approcci descritti siano essenziali per una completa comprensione dell'oggetto matematico "polinomio". Un libro di testo come quello del Prodi, in cui i due suddetti aspetti sono chiaramente delineati offre senza dubbio un valido appoggio in tal senso. La proposta didattica che qui presentiamo non presuppone comunque che si sia privilegiato uno dei due approcci menzionati. In questo articolo si vuole esporre in dettaglio l'articolazione della proposta didattica e descrivere poi in particolare come si è svolto il lavoro in una seconda classe dell'Istituto Tecnico Industriale di Pavia. La stessa esperienza didattica è stata anche presentata e discussa durante un seminario per insegnanti di scuola media superiore al Convegno "Incontri con la matematica n. 7" svoltosi a Castel San Pietro Terme nell'autunno 1993 (Crosia L. et al., 1993). Per completezza e per inquadrare al meglio l'attività qui presentata occorre dire che buona parte del lavoro con il gruppo di insegnanti è stata di natura teorica, anche con sviluppi non strettamente legati al tema della proposta didattica qui illustrata.

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Con la collaborazione di una laureanda (Negri P., 1994) si è infatti approfondito il tema della fattorizzazione di un polinomio a coefficienti in un dominio a fattorizzazione unica o in un campo distinguendo, nel secondo caso, il campo complesso da quello reale o razionale. Si è poi visto in particolare come il problema della riducibilità in Q[x] possa essere studiato in Z[x] ed in questo ambito si sono esaminati alcuni semplici ed interessanti test di irriducibilità (Lindsay Childs, 1989, Knuth D. E., 1969). 2. L'ITINERARIO PROPOSTO DALL'UNITA' DIDATTICA La realizzazione in classe della presente unità didattica ha richiesto circa 5 lezioni: si ritiene che essa possa essere presentata nel 2° quadrimestre del primo anno di scuola secondaria superiore o meglio, come si è detto, posticipata al 2° anno. Essa offre, tra l'altro, un momento di interazione tra concetti matematici e metodi e strumenti tipici dell' informatica, nell'eventualità che questo sia previsto dai programmi della classe. Con la prima proposta di lavoro viene "scoperto" (o ricordato) il metodo delle sottrazioni successive per eseguire la divisione con resto tra interi positivi. Tale proposta prevede, volendo, anche la stesura e l'esecuzione al computer di un programma (in Pascal o altro linguaggio) che richiede l'utilizzo della struttura di iterazione. La successiva sistemazione, con la riflessione sulle analogie tra l'insieme Z degli interi relativi e l'insieme dei polinomi in una variabile, può servire anche come presentazione della seconda proposta di lavoro. La seconda proposta di lavoro sollecita gli alunni ad ottimizzare l'algoritmo prodotto nella prima: la procedura richiesta consiste nel sottrarre al dividendo opportuni multipli del divisore al fine di ridurre il numero delle sottrazioni da eseguire ("divisione canadese"). Ci si vuole così avvicinare al procedimento che gli alunni dovranno scoprire nella terza proposta di lavoro nel caso dei polinomi. L' inserimento di questo secondo momento, non contemplato in una prima versione, si è reso necessario per le difficoltà incontrate durante la prima sperimentazione: i ragazzi non erano riusciti, da soli, a compiere il "salto" concettuale dal procedimento delle sottrazioni successive con i numeri a quello per i polinomi. Il passaggio attraverso la "divisione canadese", che costituisce un po' la novità rispetto alla presentazione di G. Prodi cui si è fatto riferimento, ha facilitato questo momento.

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Con la terza proposta di lavoro, infine, si intende trasferire il metodo delle sottrazioni successive alla divisione tra due polinomi in una variabile e si "scopre" la seguente proposizione: Dati due polinomi A(x) e B(x), B(x) non nullo, a coefficienti in Q (o R), con il grado di A(x) maggiore o uguale del grado di B(x), è possibile sottrarre ad A(x) un multiplo di B(x) in modo da ottenere un polinomio di grado inferiore a quello di A(x). Ripetendo questo procedimento è possibile eseguire la divisione tra polinomi ed arrivare a costruire lo schema "a tabella" che viene presentato su tutti i libri di testo. La sistemazione finale si conclude con il teorema: Dati due polinomi A(x) e B(x) , con B(x) non nullo, esiste un' unica coppia di polinomi Q(x) , R(x), detti rispettivamente quoziente e resto) che soddisfano la relazione:

A(x) = B(x)*Q(x) + R(x) , con grado R(x) < grado B(x) A questo punto può essere illustrato lo schema classico riportato da tutti i libri di testo che facilita l'esecuzione dei calcoli : si invitano gli alunni a commentare e giustificare i passaggi del "nuovo schema", trovando l'analogia con il procedimento che loro stessi hanno costruito. 3. LE PROPOSTE DI LAVORO In questo paragrafo riportiamo le tre proposte di lavoro nella formulazione presentata ai ragazzi per il lavoro di gruppo, alcune possibili risposte desunte dalle prime sperimentazioni ed esempi di sintesi delle sistemazioni fatte dall'insegnante alla fine di ogni lavoro di gruppo, a conclusione della discussione con la classe. Si può notare che ogni volta la sistemazione dell'insegnante ha anche lo scopo di far emergere un nuovo problema, che viene proposto ai ragazzi nel successivo momento di lavoro. PROPOSTA DI LAVORO 1 Situazione:

Devo eseguire una banale divisione tra interi, 1384:75 , ma mi accorgo che il tasto " : " della mia calcolatrice non funziona; devo rassegnarmi ad eseguirla manualmente o posso utilizzare ugualmente la calcolatrice?

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Un mio amico mi suggerisce di provare con il tasto " - " Un po' perplesso mi metto al lavoro : 1384 - 75 = 1309 1309 - 75 = 1234 1234 - 75 = ..... Sarà la strada giusta ? Quando terminerò ? Problema 1 Determina quoziente intero e resto della precedente divisione utilizzando questa tecnica, che possiamo chiamare di "sottrazioni successive". Dopo aver scoperto l'algoritmo, scrivilo in linguaggio naturale, prova a vedere se funziona con altre semplici divisioni, quindi traducilo in un programma Pascal e provalo al computer. POSSIBILE RISPOSTA ALLA PROPOSTA DI LAVORO 1 Algoritmo in linguaggio naturale Inizio Sottrai il divisore dal dividendo, ripeti questa operazione prendendo come dividendo il risultato della sottrazione e contando il numero delle sottrazioni fino a quando l'ultimo risultato è minore del divisore, il quoziente è il numero di sottrazioni effettuate, il resto è il risultato dell'ultima differenza calcolata, Fine.

Versione in Pascal Program divisione intera; (*metodo delle sottrazioni successive*) var DIVIDENDO, DIVISORE, RESTO, CONT :integer; begin clrscr; writeln('Introduci il dividendo '); readln ( DIVIDENDO ); repeat writeln('Introduci il divisore '); readln ( DIVISORE );

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until DIVISORE<>0; CONT:=0; while DIVIDENDO >= DIVISORE do begin DIVIDENDO := DIVIDENDO - DIVISORE ; CONT:= CONT+1 end; RESTO := DIVIDENDO ; writeln; writeln(‘Il quoziente intero è’,CONT); writeln; writeln('Il resto è ',RESTO); end. Alla esecuzione di ogni proposta di lavoro fa seguito una fase durante la quale vengono confrontate e discusse le risposte dei gruppi, infine si fa il punto della situazione "sistemando" le scoperte effettuate ed aprendo eventualmente nuove questioni.

SISTEMAZIONE DELLA PROPOSTA DI LAVORO 1 La divisione con resto tra interi positivi può essere eseguita mediante successive sottrazioni: ad esempio per dividere 29 per 8 si può procedere così: 29 - 8 = 21 21 - 8 = 13 13 - 8 = 5 A questo punto, il processo ha termine perchè l'ultimo resto è minore del divisore (5<8). Sommando membro a membro le tre uguaglianze si ricava: 29-8+21-8+13-8 = 21+13+5 ! 29-3*8=5 ! 29 = 3 * 8 + 5 ↓ ↓ quoziente resto TEOREMA:

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Dati due numeri naturali a e b con b ! 0, esistono due e due soli numeri naturali q ed r, con r < b, tali che

a=b*q+r Il teorema non viene dimostrato ma solo enunciato e commentato. Ritornando al precedente esempio, il singolo passo del procedimento consiste nell'"abbassare", con una sottrazione, il valore del dividendo. C'è però un inconveniente non trascurabile legato al numero di sottrazioni da eseguire. Se tale numero è molto elevato l'algoritmo delle sottrazioni successive, pur mantenendo inalterata la sua efficacia al computer, che ha tempi di esecuzione brevissimi, si rivela troppo faticoso se eseguito "manualmente", anche con il supporto di una calcolatrice tascabile. Non resta allora che portare qualche modifica all'algoritmo, cercando di ridurre il numero delle sottrazioni da effettuare. PROPOSTA DI LAVORO 2 Situazione: Devo eseguire la seguente divisione 3648 : 15 , sempre con il metodo delle sottrazioni successive, ma questa volta senza ricorrere alla calcolatrice nè tantomeno al computer; invece di sottrarre ogni volta 15 (operazione che dovrei ripetere almeno 200 volte !) voglio trovare un metodo più efficace. Problema 2 ( alla scoperta della via più breve ) Scoprire una strategia che renda più efficace il metodo delle sottrazioni successive. Ogni gruppo illustri a parole la tecnica utilizzata per arrivare più rapidamente a quoziente e resto della precedente divisione. POSSIBILE RISPOSTA ALLA PROPOSTA DI LAVORO 2 Il "trucco" consiste nel sottrarre successivamente da 3648 degli opportuni multipli di 15; ad esempio, se devo sottrarre 15 per 100 volte, posso sottrarre "in un colpo solo" 1500 (cioè 15*100 ) e questo è un bel risparmio di tempo e di fatica.

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Una strategia possibile è la seguente: 3648 - 15*200 = 3648 - 3000 = 648 648 - 15* 40 = 648 - 600 = 48 48 - 15* 3 = 48 - 45 = 3 La somma dei numeri in neretto ( 200+40+3=243 ) rappresenta quante volte si è sottratto 15 dal dividendo ed è quindi il quoziente. Il risultato dell'ultima sottrazione, cioè 3, è il resto della divisione.

SISTEMAZIONE DELLA PROPOSTA DI LAVORO 2 A questo procedimento possiamo dare un assetto migliore con il seguente schema che ricorda la tecnica appresa alle elementari.

3648

3000

15 200 + 40 + 3 → quoziente

648 600

48 45

3 → resto Se indichiamo con a e b dividendo e divisore, con q1, q2,..., qn gli opportuni multipli di b da sottrarre, con r1, r2,..., rn i risultati delle sottrazioni, possiamo generalizzare la divisione canadese nel seguente modo:

a - b*q1 = r1 r1 - b*q2 = r2 r2 - b*q3 = r3

.............. rn-1- b*qn = rn con rn< b.

Sommando membro a membro si ottiene: a - b*(q1+q2+....+qn) + r1 + r2 +...+ rn-1= r1 + r2 +...+ rn-1 + rn

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e semplificando i termini uguali: a - b*(q1+q2+....+qn) = rn cioè: a = b*(q1+q2+.....+qn) + rn → resto ↓ quoziente Siamo ora pronti ad affrontare la divisione tra polinomi. Abbiamo visto che ogni passo della tecnica utilizzata per eseguire la divisione nelle precedenti proposte di lavoro consisteva nell' "abbassare", con una sottrazione, il valore del dividendo. Possiamo seguire una strada analoga nel caso dei polinomi ? Viene spontaneo pensare al grado del polinomio: basterà "abbassare opportunamente" il grado del polinomio dividendo. E' ciò che viene proposto, a partire da un esempio, nel lavoro che segue. PROPOSTA DI LAVORO 3

Situazione Consideriamo i seguenti polinomi: A(x)=2x4 + x3 - 3x2 + 9x -15 e B(x)= x2 + 3 Vogliamo determinare due polinomi Q(x) ed R(x), (rispettivamente quoziente e resto), in modo che valga la relazione:

A(x) = B(x)*Q(x) + R(x) con gr. A(x) < gr. B(x) analoga alla relazione a = b*q + r, valida per i numeri naturali. Osserviamo che il procedimento seguito nella proposta di lavoro 1, applicato pari pari, eseguendo le sottrazioni:

A(x) - B(x) = R1(x) , R1(x) - B(x) = R2(x) ,

................................ non può andar bene perchè (controlla, eseguendo i calcoli !) il grado di A(x) non si abbassa e quindi la procedura non ha termine. Dovremo allora apportare qualche modifica! Se, come abbiamo detto prima, il "trucco" consiste nell'abbassare il grado del polinomio dividendo, si tratterà allora di "decapitare" A(x) togliendogli il monomio di grado maggiore, ma per far questo bisognerà sottrarre da A(x) un opportuno multiplo di B(x).

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Ora prova tu. N.B. Forse il lavoro svolto per risolvere il problema 2 potrà esserti molto utile !!

Problema 3 ( giocando con i multipli dei polinomi )

Determina quoziente e resto della divisione del polinomio A(x) = 2x4 + x3 - 3x2 + 9x -15

per il polinomio B(x) = x2 + 3

POSSIBILE RISPOSTA ALLA PROPOSTA DI LAVORO 3 Per determinare quoziente e resto della divisione tra i polinomi

A(x) = 2x4 + x3 - 3x2 + 9x -15 e B(x) = x2 + 3 si devono eseguire i seguenti passi: A(x) - B(x)* 2x2 = x3 - 9x2 + 9x - 15 = R1(x)

R1(x) - B(x)* x = 9x2 + 6x - 15 = R2(x)

R2(x) - B(x)*(-9) = 6x + 12 = R3(x)

Ora il procedimento ha termine perchè il grado di R3(x) è inferiore al grado di B(x). La somma dei termini in neretto rappresenta "quante volte" si è sottratto B(x) da A(x) ed è quindi il quoziente. Sommando membro a membro le tre precedenti relazioni e semplificando si ottiene:

A(x) - B(x)*(2x2 + x - 9) = 6x + 12 = R3(x) Il polinomio 6x + 12 è il resto ed il polinomio 2x2 + x - 9 il quoziente.

SISTEMAZIONE DELLA PROPOSTA DI LAVORO 3 Questo procedimento può essere applicato ad una qualsiasi coppia di polinomi A(x) e B(x) , con B(x) ! 0 ; possiamo pertanto concludere con il seguente

109

Teorema: dati due polinomi A(x) e B(x), con B(x) non nullo, esiste un'unica coppia di polinomi Q(x), R(x) (detti rispettivamente quoziente e resto) che soddisfano la relazione:

A(x) = B(x)*Q(x) + R(x) , con gr.R(x) < gr.B(x). N.B. L'esistenza della coppia di polinomi è garantita dal precedente algoritmo, l'unicità, invece, andrebbe dimostrata ! 4. ANALISI DI UNA SPERIMENTAZIONE Vogliamo a questo punto mettere in evidenza le osservazioni più significative che sono emerse dall'esame dei protocolli dei ragazzi di una classe seconda dell'I.T.I.S. "Cardano" di Pavia. La classe era composta da 25 alunni, che hanno lavorato in gruppi di 3-4, per un totale di 7 gruppi. L'unità didattica ha occupato circa 6 ore di lezione, cioè 2 ore per ogni proposta di lavoro, comprendendo il lavoro di gruppo, la discussione sugli elaborati dei ragazzi, la risposta alla proposta di lavoro e la sistemazione teorica. A proposito della prima proposta di lavoro si sono sintetizzate le seguenti note. a) Tutti i gruppi sono riusciti a calcolare numericamente quoziente e resto della divisione col metodo delle sottrazioni successive con una impostazione analoga alla seguente:

1384:75 1- 1384 - 75 = 1309 2- 1309 - 75 = 1234 3- 1234 - 75 = 1159 ................................... ................................... 16- 259 - 75 = 184 17- 184 - 75 = 109 18- 109 - 75 = 34 34 < 75 QUOZIENTE : 18 RESTO : 34

110

Inoltre tutti hanno controllato con altri esempi numerici la validità dell'algoritmo. b) Un gruppo ha anche cercato di formalizzare il procedimento nel seguente modo: " NUMERO 1 - NUMERO 2 = RISULTATO 1

RISULTATO 1 - NUMERO 2 = RISULTATO 2 RISULTATO 2 - NUMERO 2 = RISULTATO 3

RIPETO L'OPERAZIONE FINO A QUANDO TROVO UN RISULTATO <75" c) Le difficoltà sono iniziate nel momento in cui i ragazzi avrebbero dovuto tradurre l'algoritmo in linguaggio naturale: non sono riusciti ad esplicitare verbalmente la sostituzione del dividendo con il risultato della prima sottrazione nel secondo passaggio (e le analoghe successive sostituzioni negli altri passaggi) e tutti si sono espressi in un modo analogo al seguente: ABBIAMO SOTTRATTO RIPETUTAMENTE AL NUMERO 1384 IL NUMERO 75, FINO A CHE ERA POSSIBILE RIMANERE NELL'INSIEME DEI NUMERI NATURALI. Solamente provando ad eseguire "alla lettera" ciò che avevano scritto, i ragazzi si sono resi conto del loro errore. Si è comunque dovuto insistere parecchio per convincerli dell'importanza che ci sia sempre corrispondenza tra quello che si esegue numericamente e quello che si riferisce a parole. Abituarli a questo tipo di lavoro li costringe a riflettere su ciò che fanno e li aiuta a rendersi consapevoli dei procedimenti utilizzati. Per quanto riguarda la seconda proposta di lavoro abbiamo riscontrato nei lavori dei ragazzi le due seguenti diverse tipologie di soluzione. I) Tre gruppi hanno cercato di utilizzare multipli del divisore mediante potenze di 10; offrendo ad esempio la seguente soluzione: " 3648 : 15

15 x 100 = 1500

1- 3648 - 1500 = 2148 2- 2148 - 1500 = 648

15 x 10 = 150

111

1- 648 - 150 = 498 2- 498 - 150 = 348 3- 348 - 150 = 198 4- 198 - 150 = 48

15 x 1 = 15

1- 48 - 15 = 33 2- 33 - 15 = 18 3- 18 - 15 = 3

QUOZIENTE : 2x100 + 4x10 + 3x1 = 24

RESTO : 3 " I I) Altri tre gruppi hanno usato un metodo che possiamo definire "per tentativi". Ecco un esempio di protocollo. " 15 x 300 = 4500 (da scartare perchè maggiore del dividendo) 15 x 250 = 3750 (ancora maggiore del dividendo) 15 x 240 = 3600 3648 - 3600 = 48 1- 48 - 15 = 33 2- 33 - 15 = 18 3- 18 - 15 = 3 QUOZIENTE : 240 + 3 = 243 RESTO : 3 " Solo un gruppo non è riuscito a coordinare i vari tentativi numerici effettuati. Relativamente alla terza proposta di lavoro può risultare interessante esporre per intero la risposta di uno dei gruppi di alunni.

" POLINOMIO DIVIDENDO A(x) = 2x4 + x3 -3x2 + 9x - 15 POLINOMIO DIVISORE B(x) = x2 + 3 1- Moltiplico x2 + 3 per 2x2 per eliminare 2x4 2x4 + x3 - 3x2 + 9x -15 -2x2.(x2 + 3) = = 2x4 + x3 - 3x2 + 9x - 15 - 2x4 - 6x2 =

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= x3 - 9x2 + 9x - 15 2- Moltiplico x2 + 3 per x per eliminare x3 e lo sottraggo dal resto ottenuto x3 - 9x2 + 9x - 15 - x.(x2 + 3) = = x3 - 9x2 + 9x - 15 - x3 - 3x = = - 9x2 + 6x - 15 3- Da questo resto sottraggo x2 + 3 moltiplicato per -9 per eliminare -9x2 - 9x2 + 6x - 15 - (-9).(x2 + 3) = = - 9x2 + 6x - 15 + 9x2+ 27 = = 6x + 12 6x + 12 è il resto: non si può più moltiplicare x2 + 3 per un monomio che mi permetta di eliminare 6x : 6x + 12 è un polinomio di grado minore di quello del divisore. Il quoziente è 2x2 + x - 9 : è dato dalla somma algebrica dei monomi che, moltiplicati per il divisore, mi hanno permesso di eliminare i monomi di grado maggiore. A (x) - B(x).2x2 = R1(x) R1(x) - B(x).x = R2(x) R2(x) - B(x).(-9)= R (x) Q(x) = 2x2 + x - 9 " La risposta alla terza proposta di lavoro è stata trovata da tutti i ragazzi senza bisogno di suggerimenti. In realtà non tutti i gruppi hanno svolto un lavoro completo come quello appena presentato, comunque tutti hanno saputo ricavare il polinomio quoziente ed il polinomio resto. Il protocollo riportato è significativo perchè ci sembra una buona sintesi dei tre momenti di lavoro a cui abbiamo voluto cercare di abituare i ragazzi: la scoperta di un algoritmo a partire da esempi numerici, il tentativo di una sua generalizzazione e formalizzazione ed inoltre l'esposizione in linguaggio verbale dei passaggi effettuati.

113

CAPITOLO 10

IL TEOREMA DI PITAGORA NELLA SCUOLA SECONDARIA SUPERIORE

1. INTRODUZIONE Questo Capitolo riporta un articolo apparso sulla rivista L’insegnamento della matematica e delle scienze integrate (Vol. 27b n. 2, 125-145, 2004) e qui costituisce un esempio di traduzione didattica del modello di insegnamento-apprendimento del Cooperative Learning descritto nel Capitolo 7. In ciò che segue si punterà l’attenzione sull’evoluzione della competenza disciplinare degli alunni in relazione allo sviluppo di due dimostrazioni del teorema di Pitagora, ma si commenteranno anche alcuni cambiamenti di tipo relazionale osservati nell’interazione fra studenti. La classe scelta per lo sviluppo dell’esperienza era una seconda dell’I.T.I.S. “G. Cardano” di Pavia, composta da 22 alunni, che sono stati suddivisi in quattro gruppi, due di 5 e due di 6 elementi. Ricordiamo che i ruoli previsti per gli studenti in ogni gruppo sono stati cinque: orientato al compito, orientato al gruppo, memoria, relatore e osservatore (Pesci A., 2004) In una prima fase di prova sono state proposte cinque attività, allo scopo di abituare i ragazzi a lavorare in gruppo, svolgendo, oltre al compito, il ruolo loro assegnato. Come compiti sono stati scelti un gioco aritmetico e quattro esercizi relativi a sistemi di due equazioni in due incognite, l’ultimo argomento che l’insegnante aveva trattato prima di iniziare il lavoro di gruppo cooperativo. Per quanto riguarda invece il teorema di Pitagora si sono elaborate quattro schede, che presentavano le seguenti richieste: 1. ricordare la formulazione del teorema di Pitagora, già studiato alla scuola media 2. commentare le formulazioni del teorema scaturite dalla scheda 1 3. una prima dimostrazione del teorema di Pitagora 4. una seconda dimostrazione del teorema di Pitagora

114

Vedremo in dettaglio la parte di esperienza riguardante questo teorema, con esempi di soluzioni proposte dalla classe e i relativi commenti.

2. DUE COMPITI SUL TEOREMA DI PITAGORA

I ragazzi conoscevano già il teorema di Pitagora perché l’avevano studiato alla scuola media, quindi si è chiesto loro di ricordarne l’enunciato (Scheda 1) e successivamente (Scheda 2) di scrivere gli eventuali commenti sulle quattro formulazioni scaturite dall’esecuzione della prima scheda. Tra la prima e la seconda scheda sono state presentate, dai relatori di ogni gruppo, le formulazioni concordate tra i componenti del gruppo, ma non è stata svolta alcuna discussione sulla correttezza degli enunciati proposti, in modo da lasciare piena libertà di decisione ai ragazzi. Ecco il testo delle due schede:

Scheda 1

Alla scuola media avete studiato il Teorema di Pitagora.

Cercate di ricordare, insieme, l’enunciato di questo teorema e

scrivetelo qui.

Teorema di Pitagora: ....................................................................................……

...................................................................................................................................................... Scheda 2 Osservazioni sulle quattro formulazioni del teorema di Pitagora: ......................................................................................................................................................

...................................................................................................................................................... Passando a descrivere brevemente gli esiti ottenuti in relazione alla formulazione richiesta: • due gruppi si sono dimenticati di precisare “triangolo rettangolo”, ma si sono subito corretti in sede di discussione.

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• la precisazione “cateto minore” e “maggiore”, presente in una formulazione, ha dato luogo ad un interessante dibattito sulla necessità di essere utilizzata o meno, giungendo a condividere che era superflua. In tutte le proposte i ragazzi hanno utilizzato le “aree” dei quadrati costruiti sui cateti e sull’ipotenusa, collegando all’enunciato una figura di questo tipo:

e formule analoghe alle seguenti:

22ACBCAB != ; 22

ABBCAC !=

22ACABCB +=

A conclusione della discussione di classe i ragazzi hanno condiviso il seguente testo del teorema: “In un triangolo rettangolo la somma delle aree dei quadrati costruiti sui cateti è uguale all’area del quadrato costruito sull’ipotenusa”. Opportunamente guidati dall’insegnante, in fase di discussione i ragazzi hanno notato che in ogni gruppo c’era differenza tra la formulazione verbale e quella simbolica del teorema: le formule proposte non traducevano affatto le espressioni verbali utilizzate ma rispecchiavano piuttosto l’uso più consueto del teorema nelle procedure di calcolo necessarie per trovare cateti o ipotenusa rispettivamente. Al termine della discussione hanno dunque deciso di affiancare al testo, più opportunamente, la seguente scrittura:

222CAABCB += .

116

3. LA PRIMA DIMOSTRAZIONE DEL TEOREMA

Si è deciso di proporre ai ragazzi una dimostrazione del teorema di Pitagora che si trova spesso anche sui testi della scuola media inferiore. La scheda, che riproponeva anche l’enunciato condiviso dalla classe, è la seguente:

SCHEDA 3

Questo è l’enunciato del teorema di Pitagora: In un triangolo rettangolo la somma delle aree dei quadrati costruiti sui cateti è uguale all’area del quadrato costruito sull’ipotenusa In simboli:

DIMOSTRAZIONE Secondo alcuni storici la prima dimostrazione del teorema di Pitagora è quella che ora vi proponiamo di sviluppare. Considerate i due seguenti quadrati che sono uguali e scomposti in modo diverso:

Osservate attentamente le due scomposizioni, come potreste arrivare a dimostrare che c2= a2 + b2 ? Se non riuscite potete chiedere il primo suggerimento.

c2 = a2 + b2

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Si è anche pensato a due schede con suggerimenti, che non sono state consegnate subito ma solo se i ragazzi ne facevano richiesta. Ecco rispettivamente i due testi:

PRIMO SUGGERIMENTO

La somma delle aree dei quadrati tratteggiati nella prima figura

è ........................... L’area del quadrato tratteggiato nella seconda figura è ........................................ Riuscite ora a dimostrare che c2= a2 + b2 ?

Se non riuscite potete chiedere il secondo suggerimento.

SECONDO SUGGERIMENTO

Osservate i quattro triangoli bianchi nella prima figura e i quattro triangoli bianchi nella seconda figura. Come sono?................................................................. Ricordate che i due quadrati “grandi” sono uguali, unite ciò che avete scoperto con i due suggerimenti e giustificate perché vale c2 = a2 + b2.

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Lo sviluppo della dimostrazione richiedeva che i ragazzi si accorgessero che l’area dei quattro triangoli all’interno del primo quadrato avessero la stessa area dei quattro triangoli nel secondo quadrato: poiché i due quadrati di partenza erano uguali, per differenza, dovevano concludere che la somma delle aree dei due quadrati all’interno del primo quadrato era uguale all’area del quadrato all’interno del secondo quadrato, concludendo così la dimostrazione.

Osserviamo che non si è chiesto di precisare perché le figure tratteggiate fossero quadrati né di dimostrare che gli otto triangoli rettangoli fossero tutti uguali, per non appesantire il procedimento dimostrativo. Si è dunque rimandato alla discussione di classe di riflettere su queste dimostrazioni, che d’altra parte richiedono semplici considerazioni su angoli, parallelismo e perpendicolarità

4. GLI ESITI RELATIVI ALLA PRIMA DIMOSTRAZIONE

Le risposte dei ragazzi sono state classificate in tre tipologie differenti, a seconda delle loro spiegazioni.

a) I gruppi 2 e 4 hanno sviluppato la dimostrazione secondo il suggerimento e il loro procedimento si può schematizzare nel seguente modo:

i due quadrati “grandi” sono uguali i triangoli “bianchi” sono uguali (e sono quattro per ogni quadrato) quindi la parte tratteggiata in ogni quadrato ha la stessa area

Nel compiere il passo finale si può ritenere che abbiano utilizzato, senza precisarlo, un ragionamento di questo tipo: “togliendo cose uguali da cose uguali il risultato è uguale”.

b) Nel protocollo del gruppo 1 si legge: Nella prima figura sottraendo a2 + b2 otteniamo quattro triangoli rettangoli ABC. Nella seconda figura sottraendo l’area di c2 otteniamo gli stessi quattro triangoli ABC. Di conseguenza le due aree sottratte sono uguali 222

cba =+!

Il gruppo 3 non ha fornito spiegazioni verbali ma ha proposto questa sequenza:

119

( ) ( ) ( )

222

222

222

2222222

22222

0

022

22

cba

cba

cababba

baabbacabba

babacba

=+

=!+

=!!++

!!++=!++

+!+=!+

I due gruppi hanno utilizzato in modo essenziale sia l’uguaglianza tra i quattro triangoli della prima figura e i quattro triangoli della seconda figura, sia il fatto che essi si ottengono, in un caso sottraendo a2 + b2 e nell’altro caso sottraendo c2. Si può dire che si siano implicitamente riferiti al principio: “se da cose uguali si sottraggono cose e si ottengono cose uguali, le cose sottratte sono uguali”.

c) Il gruppo 3 ha proposto una ulteriore strategia: I quattro triangoli rettangoli della prima figura corrispondono ai quattro triangoli rettangoli della seconda figura, sapendo che l’area delle due figure è la stessa, l’area dei due quadrati che mancano nella prima figura deve essere uguale all’area del quadrato mancante nella seconda figura. Per questa formulazione il gruppo ha implicitamente utilizzato un ragionamento di “completamento” che può essere espresso nel seguente modo: “se a cose uguali si aggiungono cose e si ottengono cose uguali, le cose aggiunte sono uguali”.

È evidente che le strategie risolutive proposte dai ragazzi sono equivalenti, tuttavia sono diversi i processi mentali ad esse collegati, come è emerso anche in fase di discussione di classe. La prima proposta del gruppo 3, in particolare, ha suscitato alcune contestazioni dovute alla difficoltà di attribuzione di significato alla prima uguaglianza proposta. Interpretandola infatti come “togliendo cose uguali da cose uguali il risultato è uguale”, non sarebbe corretta, perché utilizzerebbe ciò che si vuole invece dimostrare, cioè che c2 = a2 + b2. La “lettura” data dagli autori, come è risultato dalla discussione, ha evidenziato invece la correttezza del procedimento, quello prima descritto. Le frasi di Rita e Riccardo espresse in fase di discussione e qui riportate sintetizzano adeguatamente le due diverse interpretazioni della stessa formula:

Rita: Le due equazioni, per essere uguali, ad una cosa uguale devi togliere una cosa uguale, quindi devi sapere fin dall’inizio che a alla seconda più b alla seconda è uguale a c alla seconda.

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Riccardo: Io quella lì l’ho scritta solo perché so che quello che rimane è uguale.

È evidente dunque, dalle parole di Riccardo, che ciò che giustifica l’uguaglianza è il fatto che i quattro triangoli, nella prima e nella seconda scomposizione, sono uguali. La discussione di classe è stata complessa, tuttavia ha costituito un momento importante, poiché si è constatato quanto sia cruciale conoscere le motivazioni di una strategia per poterne riconoscere la validità. 5. LA SECONDA DIMOSTRAZIONE DEL TEOREMA

Allo scopo di far constatare ai ragazzi quanto sia importante focalizzare l’attenzione sui processi piuttosto che sui risultati raggiunti si è deciso di proporre loro una seconda dimostrazione del teorema di Pitagora, meno usuale della prima ma anch’essa abbastanza semplice. La scheda di lavoro è la seguente:

SCHEDA 4

Questo è l’enunciato del teorema di Pitagora:

In un triangolo rettangolo la somma delle aree dei quadrati costruiti sui cateti è uguale all’area del quadrato costruito sull’ipotenusa In simboli:

UN’ALTRA DIMOSTRAZIONE

Quella che ora vi proponiamo di sviluppare è una dimostrazione del teorema di Pitagora elaborata nel 1821 da John Garfield, che è stato presidente degli Stati Uniti d’America.

c2 = a2 + b2

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La figura ACMN, formata da tre triangoli rettangoli, è un trapezio

rettangolo.

Come potreste arrivare a dimostrare che c2 = a2 + b2 ?

Pensate a come si può esprimere l’area di ACMN………

Se non riuscite potete chiedere il primo suggerimento

Come nel primo caso, anche qui si sono preparate due schede con suggerimenti, da consegnare ai gruppi solo nel caso l’avessero richiesto.

PRIMO SUGGERIMENTO

Utilizzando a, b, c, esprimete l’area del trapezio in due modi diversi:

I MODO: usando la formula nota: “somma delle basi per altezza diviso

due”

II MODO: scrivendo l’area come somma delle aree dei triangoli

rettangoli.

Come potreste arrivare a concludere che c2 = a2 + b2 ?

Se non riuscite potete chiedere il secondo suggerimento.

SECONDO SUGGERIMENTO

Uguagliate le due espressioni dell’area del trapezio trovate seguendo le

indicazioni del primo suggerimento………….

Ricordate che dovete dimostrare che: c2 = a2 + b2.

Per sviluppare la dimostrazione era sufficiente scrivere in due modi diversi l’area del trapezio rettangolo riportato nelle schede, la prima

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come somma delle basi per altezza diviso due e la seconda come somma delle aree dei tre triangoli rettangoli che compongono il trapezio. Anche in questo caso la scheda non richiedeva di verificare che la figura ACMN, formata dai tre triangoli rettangoli indicati, fosse un trapezio rettangolo. La questione sarebbe stata poi precisata in fase di discussione. 6. GLI ESITI RELATIVI ALLA SECONDA DIMOSTRAZIONE

I gruppi 1, 2 e 4 hanno sviluppato la dimostrazione secondo il suggerimento proposto nelle schede. Il gruppo 3 ha invece “completato” la figura della scheda come segue:

Accanto alla figura data è stato costruito un altro trapezio identico, in modo da formare un quadrato di lato a + b e si è uguagliata l’area dei quattro triangolini di cateti a e b ed ipotenusa c, scritta in due modi diversi. Ecco l’uguaglianza proposta: ( ) ( )

222

222

22

22

42/

cba

abcabba

abcba

=+

=!++

=!+

È evidente che gli alunni di questo gruppo hanno riproposto, per questa seconda dimostrazione, un procedimento analogo a quello che loro stessi avevano seguito per la prima. Anche in questo caso dunque è stato individuato un procedimento diverso, in aggiunta a quello indicato nei suggerimenti: tutto ciò è stato sottolineato in fase di discussione di classe, facendo apprezzare la possibilità di seguire strade diverse per ottenere lo stesso risultato.

123

7. UN APPROFONDIMENTO SULLE “NOZIONI COMUNI” DI EUCLIDE Dopo la prima dimostrazione era stato proposto un lavoro di gruppo con la seguente questione:

“Qual è il principio generale che sta alla base della dimostrazione che avete trovato?”

Si voleva che emergesse la formulazione di un principio analogo alla nozione comune di Euclide: “se da cose uguali sono sottratte cose uguali i resti sono uguali”, a cui si riferivano in modo più o meno esplicito tutte le procedure utilizzate dai ragazzi. Tutti i gruppi hanno dato risposte interessanti anche se quasi tutte diverse da quella che ci aspettavamo. Si è notato che i ragazzi, di fronte alla richiesta, cercavano di ricordare qualche concetto studiato in passato invece di spiegare il ragionamento che aveva sorretto il loro lavoro. Dai vari gruppi sono scaturite le seguenti risposte: Gruppo 1 : I due quadrati sono uguali Gruppo 2 : La dimostrazione si basa su una equivalenza Gruppo 3 : Trasformare da un linguaggio grafico ad un linguaggio logico-matematico Gruppo 4 : Sottraendo una stessa area dalle due figure uguali si ha una figura equivalente a quella data Nella discussione di classe in cui si sono condivise e discusse le differenti formulazioni si è cercato di capire meglio le risposte dei vari gruppi. Il gruppo 1 ha evidenziato l’uguaglianza dei due quadrati iniziali, senza la quale la dimostrazione non avrebbe potuto essere sviluppata, quindi ha voluto sottolineare l’importanza del primo passo della procedura. Il gruppo 2 ha ritenuto rilevante specificare che la dimostrazione si basa su un’equivalenza, focalizzando forse l’attenzione sul risultato finale del processo. Il gruppo 3 ha invece puntualizzato che per sviluppare la dimostrazione era necessario attribuire un opportuno significato alle figure, facendo emergere la centralità, nella dimostrazione proposta, del passaggio dal linguaggio grafico a quello matematico. Solo il gruppo 4 si è riferito al procedimento effettuato per dimostrare il teorema, ottenendo una dicitura simile a quella del citato principio di Euclide. A conclusione della discussione, per dare maggior rilievo a quanto era emerso, è stata distribuita una copia di alcune pagine del Libro I:

124

Nozioni Comuni, (“Gli elementi di Euclide” a cura di A. Frajese e L. Maccioni, Utet, Torino, 1970) con la formulazione delle nozioni di Euclide e la precisazione del significato di “nozione comune”. Dopo aver chiarito cosa si intende per “nozioni comuni” e la differenza con il significato dei postulati, sono state lette le otto formulazioni di Euclide; è subito emersa la difficoltà di cogliere l’aspetto fondamentale di quelle nozioni: i ragazzi le ritenevano troppo ovvie, dunque sembrava loro superfluo precisarle. Alcuni alunni infatti, dopo la lettura, hanno commentato: “bella scoperta ha fatto Euclide, queste sono cose ovvie!”. Nonostante questa reazione si è condivisa la validità di queste proposizioni e da quel momento Euclide è stato riconosciuto dagli alunni come l’“autorità storica”: successivamente, in altre occasioni, alcuni studenti hanno citato esplicitamente Euclide per giustificare specifici passi dimostrativi.

8. CONCLUSIONE DEL LAVORO IN CLASSE L’esperienza didattica non si è conclusa con il lavoro di gruppo sulla seconda dimostrazione, ma è proseguita con momenti di sintesi, di approfondimento, di verifica. In particolare sono stati effettuati: a) la ricostruzione e la relativa verbalizzazione delle dimostrazioni b) una verifica sul lavoro svolto.

In relazione al primo punto è stato chiesto agli alunni di ricostruire, da soli e come compito a casa, le due dimostrazioni elaborate nei gruppi; successivamente, in classe e con la collaborazione di tutti, le stesse dimostrazioni sono state riscritte e spiegate ai compagni che erano rimasti assenti durante il lavoro cooperativo. Questa attività di sintesi ha permesso a ogni alunno di riportare sul proprio quaderno entrambe le dimostrazioni del teorema di Pitagora. In questa fase, in riferimento alla prima dimostrazione si è scelto, per semplicità, di seguire solo la traccia indicata dai due suggerimenti, in relazione alla seconda dimostrazione si sono invece riprese entrambe le procedure emerse, quella tracciata dai suggerimenti e quella emersa dal gruppo 3.

La verifica sul lavoro svolto è stata inserita in un compito in classe, che prevedeva, oltre ad alcuni problemi ed esercizi, anche la richiesta “Enuncia il teorema di Pitagora e scrivi la dimostrazione”. E’ interessante osservare, nella tabella che segue, la relazione tra la valutazione globale dei compiti e la valutazione sulla parte relativa al teorema di Pitagora.

125

Si sono indicati “sufficienti” i compiti che sono stati valutati da 6 a 7, “insufficienti” i compiti valutati meno di 6 e “buoni” i compiti valutati più di 7.

E’ interessante osservare come la parte relativa al teorema di Pitagora abbia avuto un esito nettamente migliore rispetto alla globalità della verifica. Solo il compito di un ragazzo è risultato insufficiente nella parte relativa al teorema di Pitagora, ma si tratta di un ragazzo che aveva avuto diverse assenze durante il lavoro cooperativo. Si può anche notare che tra i sei alunni che hanno effettuato la verifica a livello insufficiente sono comunque cinque quelli che hanno svolto la parte su Pitagora a livello sufficiente o buono. Si può infine osservare che tra gli otto compiti sufficienti ben cinque presentano una valutazione buona nella parte relativa al teorema di Pitagora. L’esito positivo dell’attività su questo teorema è stato anche confermato successivamente in altre occasioni, oltre che durante i colloqui orali: la forte partecipazione di ognuno nello sviluppo del lavoro proposto ha lasciato dunque tracce evidenti anche a distanza di tempo, favorendo sia la comprensione dei procedimenti che la loro memorizzazione. 9. UN BILANCIO DELL’ESPERIENZA SVOLTA

L’esperienza svolta in classe ci ha permesso di osservare che il metodo dell’apprendimento cooperativo è più complesso rispetto a quello tradizionale di tipo individualistico, in quanto gli studenti devono impegnarsi sia nel compito disciplinare che nelle relazioni interpersonali

Valutazione

VERIFICA

N° ALUNNI

Valutazione della parte su PITAGORA

N° ALUNNI

Insufficiente 1 Sufficiente 4

INSUFFICIENTE

6 Buono 1

Insufficiente 0 Sufficiente 3

SUFFICIENTE

8 Buono 5

Insufficiente 0 Sufficiente 0

BUONO

7 Buono 7

126

con i compagni e con l’insegnante. Questo duplice sforzo comporta tuttavia alcuni vantaggi sia dal punto di vista cognitivo che da quello relazionale e sociale. Il lavoro cooperativo implica un positivo cambiamento dell’ambiente in cui viene vissuta l’esperienza didattica: gli alunni lavorano più volentieri e con maggior piacere, anche divertendosi, come loro stessi hanno sottolineato e partecipando al processo di apprendimento con maggior fiducia nelle proprie capacità. In particolare si è potuto constatare che, dal punto di vista relazionale, il metodo cooperativo aiuta gli studenti ad acquisire gradualmente la capacità di collaborare per raggiungere obiettivi comuni, poiché ognuno si sente corresponsabile del progresso del gruppo. Attraverso l’assunzione e il riconoscimento dei diversi ruoli, i ragazzi imparano ad avvertire i propri limiti e a riconoscere ed esprimere le proprie competenze, migliorando la percezione di sé come persone. In tale contesto si è notato che diminuisce lo squilibrio nella partecipazione tra alunni dotati e alunni in difficoltà. Tutti possono intervenire con maggior spontaneità e sono stimolati e autorizzati, ognuno nel proprio ruolo, a prendere decisioni e così, sapendo di essere ascoltati, acquisiscono maggior fiducia in sé e negli altri. A differenza della lezione di tipo tradizionale, che offre poche occasioni di contatto interpersonale tra compagni e stimola maggiormente la competizione, l’apprendimento cooperativo favorisce la comunicazione e il dialogo tra studenti e con l’insegnante e aumenta l’interazione, il rispetto delle diversità e il sostegno reciproco, soprattutto fra studenti di differenti capacità. A questo proposito possiamo citare i casi di S. e F., due alunni a scarso rendimento scolastico che durante la lezione tradizionale seguivano con apparente attenzione, ma senza particolare motivazione. Nel gruppo cooperativo hanno sempre svolto con entusiasmo e serietà il loro ruolo all’interno del gruppo, intervenendo spesso e con spontaneità per dare il loro contributo nel compito disciplinare e, in particolare, per migliorare l’aspetto relazionale. Entrambi infatti si sono attivati costantemente, ognuno nel proprio gruppo, e F. anche nella discussione di classe, per affrontare i conflitti tra compagni, cercando di interpretare positivamente le situazioni di difficoltà attraverso la condivisione dei problemi e la ricerca di risorse comuni per superarli. Il lavoro cooperativo li ha aiutati ad individuare le loro qualità e ad applicarle per contribuire al progresso del gruppo; è aumentata la loro motivazione, il loro impegno si è fatto più preciso ed hanno acquisito i concetti con maggior consapevolezza rispetto al passato. Analogo cambiamento è stato osservato per M., un ragazzo che generalmente mostrava tempi di attenzione molto limitati e scarsa

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disponibilità a partecipare attivamente al lavoro di classe. Nel lavoro cooperativo il suo atteggiamento è migliorato perché ha mostrato un coinvolgimento più attivo e collaborativo, partecipando positivamente anche in alcune fasi del processo di ragionamento in atto nel gruppo. M., in una interrogazione, tra i concetti trattati fino a quel momento, ha saputo recuperare adeguate conoscenze personali solamente sull’argomento affrontato con il gruppo cooperativo. Anche in riferimento a tutta la classe l’esperienza svolta ha permesso di osservare significativi progressi nella capacità di riflessione e nell’utilizzo di strategie di ragionamento: si è notato che ogni componente del gruppo era stimolato nella partecipazione critica, raggiungendo così un più alto livello di comprensione degli argomenti trattati. A conclusione dell’esperienza svolta ci sembra che tutti i ragazzi abbiano riconosciuto l’importanza del lavorare insieme per obiettivi comuni, l’utilità dell’aiuto reciproco per facilitare l’apprendimento e l’utilità dei ruoli per migliorare i rapporti sociali, per aumentare le abilità organizzative e il senso di responsabilità.

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BIBLIOGRAFIA RAGIONATA CAPITOLO 1 Gli articoli di riferimento sono i seguenti: Bessot A. , La Didattica della Matematica in Francia. Una introduzione alla “teoria delle situazioni” di Guy Brousseau, L’Educazione Matematica, aprile 1991, n. 1, 61–74. Bessot A., Panorama del quadro teorico della Didattica della Matematica in Francia, L’Educazione Matematica, febbraio 1994, n. 1, pag. 37 – 63 (a questo articolo si rimanda anche per le citazioni di Arsac, Brousseau e Chevallard) Margolinas C., Una introduzione alle problematiche della didattica della matematica in Francia, Quaderni di Ricerca Didattica G.R.I.M., n. 1, Palermo, 1990, 5-25. Per un ampliamento si può consultare il testo: Brousseau G., Theory of Didactical Situations in Mathematics, edito e tradotto da N. Balacheff, M. Cooper, R. Shuterland e V. Warfield, Kluwer, 1997. Sul processo di ‘elementarizzazione’ si può vedere: Prodi G ., Tendenze attuali nell’insegnamento della Matematica, Accademia Nazionale delle Scienze dette dei XL, 1982, 183-196. CAPITOLO 2 Per i paragrafi 1 e 2 si è fatto riferimento all’analisi presentata da R. Borasi nel capitolo 2 del testo: Borasi R., Reconceiving Mathematics Instruction: a Focus on Errors, Ablex P. C., Norwood, NJ, 1996, cui si rimanda anche per le fonti delle citazioni di Pierce e Confrey. Una sintesi si trova anche in: Borasi R. – Siegel M., Un primo passo verso la caratterizzazione di un “inquiry approach” per la didattica della Matematica, L’insegnamento della Matematica e delle Scienze Integrate, Vol. 17A – 17B, n. 5, settembre – ottobre 1994, pag. 468 – 493. Per i paragrafi 3 e 4 si è fatto riferimento al contributo: Margolinas C., Una introduzione alle problematiche della didattica della matematica in Francia, Quaderni di Ricerca Didattica G.R.I.M., n. 1, Palermo, 1990, 5-25. CAPITOLO 3 Von Glasersfeld E., A Constructivist Approach to teaching, in Steffe Leslie P., Gale Jerry (Eds.), Constructivism in Education, Hillsdale, New Jersey: LEA, 1995, 3–15. Von Glasersfe ld E., Apprendimento e Insegnamento dal punto di vista del Costruttivismo, L’educazione Matematica, Vol. 3.a.1, aprile 1992, 27–37. La descrizione del costruttivismo radicale come paradigma educativo, presentata al paragrafo 4., è di P. Ernest e si trova in:

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Ernest P., The one and the Many, in Steffe Leslie P. – Gale Jerry (Eds.), Constructivism in Education, Hillsdale, New Jersey: LEA, 1995, 459–486. CAPITOLO 4 Ernest P., The one and the Many, in Steffe Leslie P. – Gale Jerry (Eds.), Constructivism in Education, Hillsdale, New Jersey: LEA, 1995, 459–486. Ernest P., Il costruttivismo sociale come filosofia della matematica: riabilitazione del costruttivismo radicale? in Speranza F. (Ed.), Quaderni di Didattica della Matematica e dei suoi fondamenti, Parma: Università degli Studi di Parma, 1993, 7–16. Per il punto 2.5 si veda Bauersfeld H., The Structuring of the Structures: Development and Function of Mathematizing as a Social Practice, in Steffe Leslie P. – Gale Jerry (Eds.), Constructivism in Education, Hillsdale, New Jersey: LEA, 1995, 137–158. CAPITOLO 5

Per i paragrafi 1. , 2. , 3. , si vedano gli articoli: Bessot A. , La Didattica della Matematica in Francia. Una introduzione alla “teoria delle situazioni” di Guy Brousseau, L’Educazione Matematica, aprile 1991, n. 1, 61–74. Bessot A., Panorama del quadro teorico della Didattica della Matematica in Francia, L’Educazione Matematica, febbraio 1994, n. 1, pag. 37 – 63 cui si rimanda anche per le fonti delle citazioni di Brousseau e Margolinas. Per il paragrafo 4. si veda: Jaquet F ., Dalla ricerca in didattica alla pratica in classe, L’Educazione Matematica, Vol. 4, 1993, 47-66. Il paragrafo 5. è una rielaborazione personale del concetto di ostacolo epistemologico, a partire dalla esposizione che si trova in: Bessot A., Panorama del quadro teorico della Didattica della Matematica in Francia, L’Educazione Matematica, febbraio 1994, n. 1, 37 – 63 cui si rimanda anche per le fonti delle citazioni di Brousseau. CAPITOLO 6

Per i paragrafi 2. , 3. , 4. , si vedano: Borasi R., Sbagliando s’impara: alternative per un uso corretto degli errori nella didattica della Matematica, L’insegnamento della Matematica e delle Scienze Integrate, Vol. 11, n. 4, 1988, 366–402. Borasi R. – Siegel M., Un primo passo verso la caratterizzazione di un “inquiry approach” per la didattica della Matematica, L’insegnamento della Matematica e delle Scienze Integrate, Vol. 17A – 17B, n. 5, settembre – ottobre 1994, 468–493. Borasi R., Fare degli errori un trampolino di lancio per la ricerca: un esperimento d’insegnamento, L’insegnamento della Matematica e delle Scienze Integrate, Vol. 19B, n. 5, ottobre 1996, 428–476, e soprattutto:

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Borasi R., Reconceiving Mathematics Instruction: a Focus on Errors, Ablex P. C., Norwood, NJ, 1996, dove, oltre alla descrizione completa della teoria dell’Inquiry, si trovano numerosi esempi di attività didattiche svolte secondo tale modello di insegnamento-aprrendimento. CAPITOLO 7

Per completezza si riportano tutt i i riferimenti citati nel Capitolo , in modo da offr ire la possibilità al lettore di rintracciare le fonti delle idee esposte. Baldrighi A., Pesci A., Torresani M., 2003, Relazioni disciplinari e sociali nell’apprendimento cooperativo. Esperienze didattiche e spunti di riflessione, Atti Matematica e Difficoltà n. 12 “Osservare, valutare, orientare gli alunni in difficoltà”, a cura di P. Longo, A. Davoli, P. Sandri,, Pitagora, 170-178 Baldrighi A., Fattori A., Pesci A., 2004, Un’esperienza di apprendimento cooperativo nella scuola secondaria superiore: il teorema di Pitagora, L’insegnamento della matematica e delle scienze integrate, Vol. 27b n. 2, 125-145 Baldrighi A., Bell inzona C., 2004 Esperienze di apprendimento cooperativo: le equazioni di secondo grado, L’insegnamento della matematica e delle scienze integrate, Vol. 27 A-B n. 6, 773-784 Baldrighi A., Bell inzona C., Pesci A., 2005 L’evoluzione disciplinare e sociale di alcuni alunni in difficoltà durante esperienze di apprendimento cooperativo, Atti del Convegno Nazionale n. 14 Matematica & Difficoltà, “Alunni, insegnanti, matematica. Progettare, animare, integrare”, a cura di A. Davoli, B. Piochi, P. Sandri, Pitagora, Bologna, 104-109 Bateson Gregory , 1974, Mente e natura, Adelphi, Milano Brousseau G., 1986, Fondements et methods de la didactique des mathématiques, Recherches en Didactique des Mathematiques, vol. 7 n. 2, La Pensée Sauvage, Grenoble, 33-115 Bruner J. S., 1967, Verso una teoria dell’istruzione, Armando Editore, Roma (la versione originale è Toward a Theory of Instruction, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge-Massachussetts, 1966) Cohen E. G., 1984, Talking and working together: Status, interaction, and learning, in P.Peterson, L. C. Wilkinson, M. Hallinan (Eds.), The social context of instruction: group organization and group processes, New York, Academic Press, 171-188 Cohen E. G ., 1999, Organizzare i gruppi cooperativi, Erickson, Trento Comoglio M., Cardoso M. A. , 2000, Insegnamento e apprendimento in gruppo: il cooperative learning, LAS, Roma Damasio A. R., 1999, Emozione e Coscienza, Adelphi Demetrio D., Fabbri D., Gherardi S., 1994, Apprendere nelle organizzazioni, La Nuova Italia Scientifica, Roma Farina G., 2002, Le isometrie con Cabri–Géomètre: un’esperienza di apprendimento cooperativo nella scuola secondaria superiore, Tesi di laurea in Matematica, Università di Pavia, A.A. 2001/2002

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Fattori A ., 2001, Il teorema di Pitagora nella scuola secondaria superiore: un’esperienza di apprendimento cooperativo, Tesi di laurea in Matematica, Università di Pavia, A.A. 2000/2001 Johnson D. W., Johnson R. T., Holubec E. J., 1996, Apprendimento cooperativo in classe, Erickson, Trento (la versione originale è The nuts and bolts of cooperative learning, Interaction Book Company, 1994) Locatello S., Meloni G. , 2003, Apprendimento collaborativo in matematica, Pitagora, Bologna Margolinas C., 1990, Una introduzione alle problematiche della didattica della matematica in Francia, Quaderni di Ricerca Didattica G.R.I.M., n. 1, Palermo, 5-25 Pesci A., 2003, Insegnanti di matematica e studenti: come migliorare il lato umano delle loro relazioni?, L’insegnamento della matematica e delle scienze integrate, Vol. 26B n. 4, 521-545 Pesci A, 2003, Could metaphorical discourse be useful for analysing and transforming individuals’ relationship with mathematics?, Proceedings 6th International Conference of the Mathematics Education into the 21st Century Project, The Decidable and the Undecidable in Mathematics, A. Rogerson (Ed.), 224-230 Pesci A., 2004, Insegnare e apprendere cooperando: esperienze e prospettive, L’insegnamento della matematica e delle scienze integrate, Vol. 27A-B n. 6, 638-670 Sharan Y, Sharan S., 1998, Gli alunni fanno ricerca, L’apprendimento in gruppi cooperativi, Erickson, Trento (la versione originale è Expanding cooperative learning through investigation, Teachers College Columbia University, New York, 1992) Vianello L., 2003, La relazione tra intelligenze ed autonomia, Atti Matematica e Difficoltà n. 12 “Osservare, valutare, orientare gli alunni in difficoltà”, a cura di P. Longo, A. Davoli, P. Sandri, Pitagora, 27-40 Zan R., 1998, Problemi e convinzioni, Pitagora, Bologna Zan R., 2007, Difficoltà in matematica. Osservare, interpretare, intervenire, Springer-Verlag Italia

Nota: Il modello di apprendimento cui si fa riferimento in questo Capitolo 7 è dovuto a Lino Vianello, psicologo e musicoterapeuta che ha collaborato con il CSA e l’Università di Venezia e si trova descritto anche in Locatello S., Meloni G., 2003 (testo citato, dove si riferisce di una esperienza condotta per anni nella scuola elementare) CAPITOLO 8

I principali riferimenti relativi all’esperienza didattica condotta sono i seguenti: Baldrighi A., Giuliani E., Joo C., Pesci A., Romanoni C., 1994, "Ratio concept and graphical mediators : an exploratory study with 13-14 year-old pupils" Atti CIAEM XLV, Cagliari, 4-10 luglio 1993. Bartolini Bussi M., Boni M., 1995, "Analisi dell'interazione verbale nella discussione matematica : un approccio Vygotskiano", L'insegnamento della matematica e delle scienze integrate, Vol. 18A - N. 3.

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Jaquet F ., 1993, "Dalla ricerca in didattica alla pratica in classe", Educazione Matematica, anno XIV, serie III, Vol. 4. Mariotti M. A., Sainati Nello M., Sciolis Marino M., 1988, "Il ragionamento proporzionale nei ragazzi di 13-14 anni", Parte prima e Parte seconda, L'insegnamento della matematica e delle scienze integrate, Vol. 11 - N. 2 , N.4. Vergnaud G., 1985, "Il campo concettuale delle strutture moltiplicative e i numeri razionali", a cura di Artusi, Numeri e operazioni nella scuola di base, Zanichelli. Vergnaud G., 1990, "La teoria dei campi concettuali", a cura di F. Speranza, La matematica e la sua didattica, anno VI n. 1, in lingua francese, "La théorie des Champs Conceptuels", Recherches en Didactique des Mathématiques , Vol. 10 - n° 2-3, (1990). CAPITOLO 9 Questa è la bibliografia originale relativa all’articolo riportato, con i principali riferimenti che sono stati utilizzati per la realizzazione della proposta didattica descritta.

AA. VV. , Guida al progetto d'insegnamento della matematica nelle scuole secondarie superiori proposto da G. Prodi, D'Anna, Messina Firenze,1978. Crosia L., Grignani T., Magenes M. R., Pesci A., La divisibilità tra polinomi: una proposta didattica per la scuola media superiore, Atti del Convegno Incontri con la matematica n.7, Castel San Pietro Terme, Pitagora, 1993, 119-120. Lindsay Childs, Algebra, un'introduzione concreta, Trad. di C. Traverso, ETS, 1989. Knuth D. E., The art of Computer Programming, Vol. II, Seminumerical algorithms, Addison Wesley, 1969. Negri P. Aspetti didattici relativi alla teoria della divisibilità fra polinomi, Tesi di laurea in Matematica, Università di Pavia, 1994. Prodi G., Matematica come scoperta per il biennio delle scuole medie superiori,, Vol. 2, D'Anna, Messina - Firenze, 1977. CAPITOLO 10 Per semplicità, sono riportati qui di seguito i riferimenti bibliografici citati nel Capitolo, anche se alcuni di essi sono già presenti in elenchi precedenti. Baldrighi A., Pesci A., Torresani M., 2003, Relazioni disciplinari e sociali nell’apprendimento cooperativo: esperienze didattiche e spunti di riflessione, Matematica e Difficoltà n. 12, Pitagora, 170-178 Chiari G., 1997, Gruppi e apprendimento cooperativo: un’alternativa ai gruppi di recupero, Scuola Democratica, n. 1, 24-34. Cohen E. G. , 1984, Talking and working toghether: Status, interation, and learning, in P.Peterson, L. C. Wilkinson, M. Hallinan (Eds.), The social context of instruction: group organization and group processes, New York, Academic Press, 171-188

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Comoglio M., 1996, Apprendimento cooperativo e insegnamento reciproco: strategie per favorire apprendimento e interazione sociale, in Vianello R., Cornoldi C., Metacognizione disturbi di apprendimento e handicap, Ed. Junior, Bergamo, 77-105 Comoglio M., Cardoso M. A. , 2000, Insegnamento e apprendimento in gruppo: il cooperative learning, LAS, Roma Fattori A ., 2001, Il teorema di Pitagora nella scuola secondaria superiore: un’esperienza di apprendimento cooperativo, Tesi di laurea in Matematica, Università di Pavia, A.A. 2000/2001 Johnson D. W., Johnson R. T. , 2002, An Overview of Cooperative Learning, www.clcrc.com/pages/overviewpaper.html Johnson D. W., Johnson R. T., Holubec E. J., 1994, The nuts and bolts of cooperative learning, Interaction Book Company. Traduzione italiana: 1996, Apprendimento cooperativo in classe, Erickson, Trento Johnson D. W., Johnson R. T., Stanne M. B., 2000, Cooperative learning methods: A Meta-Analysis, www.clcrc.com/pages/cl-methods.html Pesci A. , 2000, Promoting mathematical investigation in class: reflections on the role of the teachers on the basis of experiences conducted in the secondary school, A. Rogerson (Ed.), Proceedings of the International Conference “Mathematics for Living”, Amman, 234-239 Pesci A., 2002, Mathematics teachers and students: how can we improve the human side of their relationship?, Proceedings of the International Conference “The Humanistic Renaissance in Mathematics Education”, Terrasini, Palermo, (A. Rogerson Ed.), 11-19. La versione italiana di questo contributo è la seguente: Pesci A., 2003, Insegnanti di matematica e studenti: come migliorare il lato umano delle loro relazioni?, L’insegnamento della matematica e delle scienze integrate, Vol. 26B n. 4, 521-545 Pesci A., 2004, Insegnare e apprendere cooperando: esperienze e prospettive, L’insegnamento della matematica e delle scienze integrate, Vol. 27A-B n. 6, 638-670 Sharan Y, Sharan S., 1992, Expanding cooperative learning through investigation, Teachers College Columbia University, New York.Traduzione italiana: 1998, Gli alunni fanno ricerca, L’apprendimento in gruppi cooperativi, Erickson, Trento Tressoldi E., 1996, Apprendimento cooperativo e insegnamento reciproco: strategie per favorire un apprendimento attivo ed indipendente e l’educazione alle relazioni interpersonali, in Vianello R., Cornoldi C., Metacognizione disturbi di apprendimento e handicap, Ed. Junior, Bergamo, 108-115 Vianello L. , 2002, La relazione tra intelligenze ed autonomia, Grimed XI, Osservare, valutare, orientare gli alunni in difficoltà:”per non fare parti uguali tra disuguali”, Castel San Pietro Terme, 1-2/3/2002

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INDICE PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE PREMESSA SULLA NECESSITÀ DI CAMBIAMENTO NELL’INSEGNAMENTO DELLA MATEMATICA

PRIMA PARTE CAPITOLO 1 IL SISTEMA DIDATTICO

1. Introduzione, 9 2. Il sistema didattico, 9

2.1 Il sapere, 12 2.2 L’insegnante, 16 2.3 L’alunno, 17

CAPITOLO 2 IL MODELLO DELLA TRASMISSIONE DELLA CONOSCENZA (EMPIRISMO)

1. Introduzione, 19 2. Le critiche al modello di insegnamento fondato sulla trasmissione, 20 3. La fase di valutazione: un momento tipico dell’insegnamento basato sull’empirismo, 22 4. Riuscita dell’insegnamento basato sull’empirismo, 25 CAPITOLO 3 I MODELLI COSTRUTTIVISTI - IL COSTRUTTIVISMO RADICALE

1. Introduzione, 26 2. L’influenza del comportamentismo sull’insegnamento, 27 3. Il concetto di conoscenza come adattamento, 28 4. I due principi fondamentali del costruttivismo radicale, 30 5. Suggerimenti per l’insegnamento, 31 6. Considerazioni sull’interazione sociale, 32

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CAPITOLO 4 I MODELLI COSTRUTTIVISTI - IL COSTRUTTIVISMO SOCIALE 1. Introduzione, 34 2. Il costruttivismo sociale come filosofia della matematica, 35 3. Le idee fondamentali, 37 4. Una pedagogia basata sui concetti del costruttivismo, 38 5. La lezione di matematica come pratica sociale, 39 CAPITOLO 5 I MODELLI COSTRUTTIVISTI - LA TEORIA DELLE SITUAZIONI DIDATTICHE

1. Introduzione, 44 2. Il contratto didattico, 44 3. La situazione a-didattica, 46 4. La situazione-problema, 48 5. Il concetto di ostacolo epistemologico, 49 CAPITOLO 6 I MODELLI COSTRUTTIVISTI - IL MODELLO “INQUIRY”

1. Introduzione, 51 2. Le ipotesi centrali, 51 3. Una concezione alternativa degli errori, 55 4. L’inquiry come strategia educativa, 58 CAPITOLO 7 I MODELLI COSTRUTTIVISTI – L’APPRENDIMENTO COOPERATIVO

1. Introduzione, 61 2. I principi generali dell’apprendimento cooperativo, 62 3. La definizione dei ruoli nel gruppo cooperativo, 68 4. Alcuni problemi metodologici e didattici: possibili soluzioni, 72 5. Le idee centrali nelle esperienze didattiche realizzate, 79

SECONDA PARTE

ESEMPI

CAPITOLO 8 L’AVVIO ALLA COSTRUZIONE DEL RAGIONAMENTO PROPORZIONALE

1. Introduzione, 84

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2. La prima situazione problematica: i ragazzi argomentano le strategie, 86 3. La seconda situazione problematica: ulteriori argomentazioni, 93 4. Osservazioni conclusive, 97 CAPITOLO 9 LA DIVISIONE TRA POLINOMI IN ANALOGIA ALLA DIVISIONE FRA INTERI

1. Introduzione, 99 2. L’itinerario proposto dall’unità didattica, 101 3. Le proposte di lavoro, 102 4. Analisi di una sperimentazione, 109 CAPITOLO 10 IL TEOREMA DI PITAGORA NELLA SCUOLA SECONDARIA SUPERIORE

1. Introduzione, 113 2. Due compiti sul teorema di Pitagora, 114 3. La prima dimostrazione del teorema, 116 4. Gli esiti relativi alla prima dimostrazione, 118 5. La seconda dimostrazione del teorema, 120 6. Gli esiti relativi alla seconda dimostrazione, 122 7. Un approfondimento sulle “nozioni comuni” di Euclide, 123 8. Conclusione del lavoro in classe, 124 9. Un bilancio dell’esperienza svolta, 126 BIBLIOGRAFIA RAGIONATA , 128


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