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Dispense Storia della filosofia medievale UNIBG Storia...Riccardo Saccenti (UniBG) Storia della...

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Riccardo Saccenti (UniBG) Storia della filosofia medievale 1 Università degli studi di Bergamo Corso di Storia della filosofia medievale Dispense Prof. Riccardo Saccenti
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Riccardo Saccenti (UniBG) Storia della filosofia medievale

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Università degli studi di Bergamo

Corso di

Storia della filosofia medievale

Dispense

Prof. Riccardo Saccenti

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Riccardo Saccenti (UniBG) Storia della filosofia medievale

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Sommario

Nota introduttiva ........................................................................................................................... 3

Le radici e le eredità della filosofia tardoantica ............................................................................ 4

Il cristianesimo di fronte alla filosofia .......................................................................................... 6

Continuità del sapere e mutamenti storici: le lingue della filosofia ............................................. 8

La falsafa araba ............................................................................................................................ 11

Litterae e filosofia alla corte carolingia ........................................................................................ 13

Usi, abusi e fortuna della dialectica ............................................................................................. 14

La dialettica e l’argomentare teologico: Anselmo ....................................................................... 17

Teologia e discorso filosofico in Abelardo .................................................................................. 21

Il mondo di lingua araba fra X e XII secolo ................................................................................ 25

Philosophia: usi, lessico e polemiche nella prima metà del XII secolo ...................................... 27

Un sapere sistematico: le scuole e Pietro Lombardo .................................................................. 30

Traduzioni, filosofia e università ................................................................................................. 34

Le Università e la Philosophia: un ideale di cultura .................................................................... 36

Da Averroè a Étienne Tempier: una questione epistemologica .................................................. 39

Unicità dell’intelletto: una questione di esegesi aristotelica ....................................................... 41

Discussione sull’essere e il tornante “occamista” ....................................................................... 47

Primato delle lettere o pluralità di vie? Gli umanisti di fronte al medioevo ................................ 51

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Nota introduttiva Le presenti dispense costituiscono un supporto per il corso di Storia della filosofia medievale nella sua sezione manualistica (prime 30 ore). Si tratta di un’antologia di testi che saranno oggetto di studio e commento in classe e rappresentano l’itinerario storico-filosofico attraverso cui si fornirà una presentazione delle maggiori linee di sviluppo del pensiero filosofico nei secoli dal IV al XV, tenendo conto della pluralità linguistica e culturale nella quale prende forma la produzione di testi filosofici. Bergamo, ottobre 2020

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Le radici e le eredità della filosofia tardoantica

1. Plotino, I generi dell’essere II (Enneadi VI 2 [43], trad. Faggin) 1. Dopo aver fatto le nostre considerazioni sulle cosiddette dieci categorie e aver parlato anche di coloro che riducono tutte le cose a un genere unico e ammettono, quali specie di questo genere unico, quattro categorie, siamo portati a dire quella che è la nostra opinione su questi problemi cercando di ricondurla al pensiero di Platone.

Se fosse stato necessario stabilire l’unità dell’essere, non ci sarebbe stato bisogno di porre le seguenti questioni: se vi sia un unico genere sopra tutti gli altri; se vi siano generi che non cadono sotto un genere unico; se sia necessario ammettere dei principi e se i principi siano anche generi, invece, non siano principi o viceversa, o se, in ambedue i casi, soltanto alcuni principi siano generi o soltanto alcuni generi siano principi, se nei primi tutti gli uni siano equivalenti agli altri, mentre nei secondi solo alcuni equivalgano agli altri.

Ma poiché affermiamo che l’essere non è uno (Platone e altri ne hanno detto il perché), si rende forse necessario esaminare questi problemi e vedere anzitutto quanti e quali siano i generi dell’essere.

Poiché l’indagine verte sull’essere o sugli esseri, bisogna anzitutto fare, da noi stessi, le seguenti distinzioni: come noi intendiamo l’«essere» sul quale giustamente facciamo ora la ricerca e cosa pensino gli altri dell’essere che noi invece chiamiamo «divenire», in quanto esso non è affatto essere in nessun modo. È necessario pensare queste cose separate l’una dall’altra e non come se un genere, il «qualcosa», si divida in esse, e non credere che Platone abbia fatto così. È ridicolo porre in uno stesso genere l’essere e il non-essere, come se si ponesse nello stesso genere Socrate e il suo ritratto. Qui «dividere» vuol dire delimitare e mettere a parte; vuol dire affermare che ciò che appare come essere non è essere, dimostrando a loro che il vero essere è tutt’altro. Perciò Platone, aggiungendo «sempre» all’«essere», fa capire che l’essere dev’essere tale da non mentire mai nella sua natura. Ed è questo l’essere di cui parliamo ed è su questo, in quanto non è uno, che verte la nostra indagine. […] 3. Noi affermiamo dunque che i generi sono molti e che sono molti non per caso: perciò derivano dall’Uno. Certamente dall’Uno; però, se l’unità non è predicabile di essi, nel loro essere, nulla impedisce che ciascuno, non essendo eguale all’altro nella specie, sia un genere a sé.

Cioè, quest’Uno, che è esteriore ai generi che ne derivano, è dunque la causa ma non il predicato degli altri generi nella loro essenza?

Sì, Egli è fuori: l’Uno è al di là e perciò non può essere messo nel numero dei generi, poiché i generi che, in quanto generi, sono eguali fra loro, esistono per Lui.

E perché mai l’Uno non andrebbe messo nel loro numero? È perché noi indaghiamo sugli esseri, non su ciò che è al di là Sì, per Lui è così.

2. Plotino, Sulle tre ipostasi (Enneadi V, 1 [10], trad. Ninci)

8. Per tale motivo sorgono anche i tre gradi di Platone: tutto esiste intorno al re del tutto – con questo infatti egli designa ciò che è primo – il secondo è intorno al secondo e il terzo è intorno al terzo [cf. Pl., Ep. II, 312e1-4]. Dice che anche della causa vi è un padre, intendendo per causa l’intelletto; l’intelletto infatti per lui è demiurgo; sostiene che questo [l’intelletto] produce l’anima in quella coppa. Ora, se la causa è l’intelletto, egli afferma che padre è il bene e ciò che è al di là del dell’intelletto e al di là dell’essere [cf. Pl., Rep. VI, 509b9]. In molti luoghi definisce l’essere e l’intelletto come l’idea; cosicché Platone sapeva che dal bene deriva l’intelletto, dall’intelletto l’anima. E questi discorsi né sono nuovi né appartengono al tempo presente, ma sono stati pronunciati anticamente in maniera non esplicita, mentre i discorsi presenti risultano essere gli interpreti di quelli, assicurando che queste dottrine sono antiche attraverso la testimonianza degli scritti dello stesso Platone. Dunque, anche Parmenide toccò ancora prima una tale dottrina, in quanto congiunse in identità l’essere e l’intelletto, e l’essere lo pose al di fuori dei

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sensibili dicendo: È infatti la stessa cosa pensare ed essere. E questo lo dice immobile – pur aggiungendovi il pensare –, togliendo da lui ogni movimento corporeo, in maniera che permanga nell’identità con sé, e paragonandolo ad una massa sferica, perché ha tutte le cose serrate insieme e il pensiero non gli è esteriore ma risiede in lui stesso. Tuttavia, chiamandolo uno nei suoi scritti, si espose a critica, dal momento che questo uno veniva poi trovato essere molti. Il Parmenide platonico, parlando con maggior precisione, distingue invece l’uno dall’altro: il primo uno, che è più propriamente uno, il secondo, che dice uno-molti, e il terzo, uno e molti. E in questo modo anch’egli concorda con quelle tre nature.

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Il cristianesimo di fronte alla filosofia

1. Agostino, Contra Academicos III, 20, 43 Nessuno dubita che siamo spinti ad imparare dal duplice peso dell’autorità e della ragione. Io ho dunque deciso di non separarmi proprio in nessun caso dall’autorità di Cristo; non ne trovo infatti una di più valida. Quanto invece a ciò che deve essere perseguito con la ragione più fine – infatti mi trovo ormai disposto in modo tale che desidero con impazienza apprendere che cosa sia vero non solo credendo, ma anche capendo – ho fiducia di trovare per ora presso i platonici ciò che non sia incompatibile con i nostri testi sacri.

2. Agostino, De ordine II, 5, 16 Duplice è la via che seguiamo quando ci pone nel dubbio l’oscurità dell’oggetto: la ragione e la fede. La filosofia garantisce la ragione ma ne libera pochi assai. Tuttavia, essa non solo li induce a disdegnare le verità rivelate, ma è la sola a farcene formulare, nei limiti consentiti, il puro pensiero. E la vera e genuina filosofia ha l’esclusiva funzione di insegnare l’esistenza di un Principio inprincipiato del mondo, l’immensità dell’intelligenza che in lui esiste e il valore che da lui conduce alla nostra salvezza senza che egli si ponga nel divenire. E le verità rivelate aggiungono che egli è non solo Dio onnipotente ed insieme tripotente, Padre e Figlio e Spirito Santo. Esse, mediante la fede sincera, liberano dall’errore tutti gli uomini senza confondersi con le verità razionali, come alcuni dicono, ma anche senza dissidio, come molti vorrebbero. Grande è poi il mistero che un Dio così alto ha voluto rivestire e portare per noi la forma sensibile della natura umana. Ed esso, quanto più appare umiliante, tanto più conveniente alla sua bontà e profondamente lontano dall’orgoglio di certi uomini d’ingegno.

3. Agostino, De doctrina christiana II, 40, 60 Quanto a quelli che sia chiamano filosofi, se hanno detto cose vere e compatibili con la nostra fede, soprattutto i platonici, non solo non le dobbiamo temere ma le dobbiamo rivendicare da loro, quasi che non le posseggano legittimamente, per usarne noi. Gli Egiziani non soltanto avevano idoli e imponevano pesanti gravami, che il popolo d’Israele detestava e respingeva, ma possedevano anche suppellettili e ornamenti d’oro e d’argento e vesti, che il popolo uscendo dall’Egitto rivendicò nascostamente a sé per farne uso migliore agendo non di propria iniziativa ma per comando di Dio; e furono gli stessi Egiziani che, all’oscuro di tutto, affidarono loro questi oggetti di cui non sapevano fare buon uso. Allo stesso modo, tutte le discipline dei pagani non contengono soltanto invenzioni false e superstizioni e gravami faticosi e inutili, che ognuno di noi, quando sotto la guida di Cristo esce dalla società dei pagani, deve detestare ed evitare; ma contengono anche discipline liberali molto adatte all’esercizio della verità e utilissimi precetti morali; troviamo anche presso di loro alcune affermazioni veritiere nella venerazione dell’unico Dio. E come oro e argento che essi non hanno prodotto ma estratto, per così dire, dalle miniere della divina provvidenza, che è diffuso dovunque, e di cui fanno uso perverso e offensivo a servizio dei demoni. Quando il cristiano si separa spiritualmente dalla loro società apportatrice di miserie, deve strapparli da loro per volgerli al retto uso della predicazione del Vangelo. Anche i loro vestiti, cioè alcune norme istituite dagli uomini e tuttavia appropriate alla società umana dalla quale in questa vita non possiamo estraniarci, sarà lecito accoglierle e possederle per volgerle all’utilità dei cristiani.

4. Dionigi l’Areopagita, La gerarchia celeste I.2 (trad. P. Scazzoso) Allora, dopo aver invocato Gesù, luce paterna che è la vera luce che illumina ciascun uomo che viene in questo mondo, a opera del quale noi abbiamo ottenuto l’accesso al Padre, principio della luce, eleviamoci per quanto possibile alle illuminazioni delle Santissime Scritture tramandate a noi dai Padri, e secondo la nostra capacità fissiamo lo sguardo alle gerarchie delle intelligenze celesti manifestate a noi dalle Scritture simbolicamente e analogicamente. E dopo aver ricevuto con gli occhi immateriali e immobili dell’intelligenza il dono della luce principale e più che principale del Padre, principio tearchico, la quale ci mostra le beatissime gerarchie angeliche sotto simboli e figure, di nuovo eleviamoci da lei verso il

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raggio semplice della medesima. Infatti, questa non decade mai dalla sua unità singolare: se si moltiplica e procede per bontà verso una composizione la quale porta verso l’alto e unifica le cose a cui egli provvede, tuttavia rimane entro se stessa, stabilmente e uniformemente fissata in un’immobile identità. E coloro che aspirano a lei, per quanto è lecito proporzionalmente a ciascun essere, innalza e unifica secondo la sua potenza unificatrice e semplificatrice. Infatti non è nemmeno possibile che il raggio tearchico risplenda su di noi in altro modo che ricoperto anagogicamente con la varietà dei sacri veli e sia adornato dalla provvidenza paterna in maniera adatta e propria alle cose convenienti al nostro stato.

5. Dionigi l’Areopagita, I nomi divini XIII.3 (trad. P. Scazzoso) Inoltre, bisogna sapere che, secondo la specie prevista per ciascuna cosa, si dice che le cose unite formano unità e che l’uno è l’elemento costitutivo di ogni cosa. E se si togliesse l’uno, né la totalità né alcuna parte né alcun altro degli esseri ci sarebbe: infatti, l’uno uniformemente in anticipo comprende e abbraccia in sé tutte le cose. In questo modo, dunque, la Sacra Scrittura celebra con il nome di Uno tutta la Tearchia in quanto causa di tutte le cose. L’unico Dio è Padre, e l’unico Signore è Gesù Cristo e uno è il medesimo e lo Spirito a causa dell’indivisibilità supereminente di tutta l’unità divina, nella quale tutte le cose singolarmente sono raccolte e superunite e congiunte soprasostanzialmente. Perciò tutte le cose giustamente sono rese e attribuite a lei grazie alla quale, secondo la quale, attraverso la quale, nella quale e verso la quale tutte le cose sono e sono costituite e rimangono e sono contenute e sono riempite e ritornano. E non si potrebbe trovare alcun essere che grazie all’Uno, in quanto tutta la Divinità è chiamata così soprasostanzialmente, non sia ciò che è, raggiunga la sua perfezione e si conservi. Occorre che anche noi, in seguito alla virtù divina, convertendoci dalle moltitudini all’Uno, celebriamo unitariamente la Divinità tutta e una, l’Uno causa di ogni cosa, che precede ogni uno e ogni moltitudine e ogni parte e ogni insieme e limite e infinità e confine e interminabilità, che determina tutti gli esseri e l’essere stesso, e che è causa di tutte le cose e di tutto l’universo in maniera unitaria, e nello stesso tempo è causa prima di tutto e sopra tutto in maniera unitaria, e che sopra l’unità sostanziale determina questa stessa unità sostanziale. Infatti, l’uno sostanziale è nel numero degli esseri e il numero partecipa alla sostanza. L’Uno sosprasostanziale, invece, definisce l’uno sostanziale e ogni numero; ed è egli stesso il principio, la causa, il numero e l’ordine dell’uno e del numero di ogni essere. Perciò, l’unità celebrata e la trinità, ossia la Divinità che sta sopra a tutto, non è né unità né trinità conosciuta da noi o da qualcun altro degli esseri, ma, per celebrare veramente l’Uno supremo e la sua divina fecondità, lo chiamiamo la Divinità che supera ogni nome con i nomi di trino e uno in quanto essenza che supera tutti gli esseri: non vi è unità o trinità o numero o unità o fecondità né alcuna delle cose che sono o delle cose che si conoscono che spieghi il mistero, che trascende ogni ragionamento e ogni intelligenza, della suprema Divinità che supera ogni cosa soprasostanzialmente. Di lei non c’è nome né parola, ma è appartata nelle regioni inaccessibili. Nemmeno il nome di Bontà possiamo dare a lei in maniera adeguata, ma soltanto per il desiderio d’intendere e di dire qualche cosa intorno a quella natura ineffabile le consacriamo prima di tutto il più venerato dei nomi, e anche in questo saremmo d’accordo con i sacri autori, ma rimarremo sempre lontani dalla verità delle cose. Perciò anche questi hanno preferito la via delle negazioni, in quanto separa l’anima dai pensieri che le sono naturali e la guida attraverso tutti i pensieri divini, dai quali è ben lontano colui che sorpassa ogni nome e discorso e scienza, e l’unisce a lui alla fine, per quanto possibile al nostro essere di congiungersi al suo.

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Continuità del sapere e mutamenti storici: le lingue della filosofia

1. Boezio, De interpretatione (PL 64, 433) Dato che la fatica perfeziona il genere umano e lo ricolma coi ricchissimi frutti dell’ingegno, se una simile attenzione fosse posta ad esercitare la mente non ci serviremmo di un numero tanto esiguo di virtù degli uomini: dove però la pigrizia piega gli animi, l’abbondanza dell’animo prova orrore continuamente per la semenza ferina. E non sarei disposto a concedere che questo deriva dalla consapevolezza di cosa sia la fatica, ma piuttosto dall’ignoranza di questa. Chi infatti, esperto nel faticare, si allontanerebbe mai dalla fatica? Perciò occorre sostenere la capacità della mente ed è vero che l’animo si abbandona se viene trascurato. Tuttavia, se mi arriderà il più efficace favore divino, questo è il fermo proposito: che sebbene vi siano stati ingegni luminosi, la fatica e lo studio dei quali trasferì in lingua latina molte delle opere di queste che anche ora discutiamo, i quali divulgarono un qualche ordine e struttura e un ordine delle discipline secondo la disposizione, ogni opera di Aristotele che mi sia giunta fra le mani, volgendola in lettere romane, ne esporrò in lingua latina i commenti, così che quel che Aristotele ha scritto sulla sottigliezza dell’arte logica, sul valore dell’esperienza morale, sull’acume della verità naturale, io lo traduca tutto con ordine e in alcuni casi lo illustri anche con la chiarezza del commento e traducendo tutti i dialoghi di Platone e anche commentandoli, trasferisca anch’essi in forma latina. Nello svolgere queste attività certamente non trascurerò di richiamare ad una certa concordia i giudizi di Aristotele e Platone e dimostrerò che essi non dissentono su tutto, come crede la maggior parte degli uomini, ma al contrario concordano sulla maggior parte delle questioni e soprattutto sulla filosofia.

2. Boezio, De Trinitate 2 (ed. Moreschini, pp. 168-169) Vi sono tre parti speculative, la naturale, che non è astratta ed è nel moto, ἀνυπεξαίρετος (infatti considera le forme dei corpi con la materia, che non possono essere separate dal corpo in atto: i quali corpi sono in movimento, come quando la terra tende verso il basso e il fuoco verso l’alto, e la forma congiunta alla materia ha il movimento), la matematica, che non è astratta ed è priva di movimento (questa infatti specula sulle forme dei corpi privi di materia e per questo privi di movimento: le quali forme, poiché sono nella materia, non possono essere separate da quella), teologica, priva del movimento e astratta e separabile (infatti la sostanza di Dio manca sia di materia sia di movimento): dunque, sarà opportuno occuparsi delle questioni naturali in modo razionale, di quelle matematiche in modo disciplinato, di quelle divine seguendo l’intelletto e non dedurre secondo l’immaginazione, ma piuttosto studiare la stessa forma, quale forma in senso proprio non è immagine e quale essere stesso è e da quale essere viene. Infatti, ogni essere deriva da una forma.

3. Boezio, Consolatio philosophiae III, 12, 24-38 (trad. Moreschini) «Tu hai imparato nei miti che i Giganti mossero guerra al cielo; ma la forza che vuole il bene trovò anche per loro l’ordine che meritavano. O dobbiamo forse far contrastare questi ragionamenti l’uno con l’altro? Forse da un conflitto di questo genere potrebbe scaturire una bella scintilla di verità». «Fai come preferisci», risposi. «Che Dio sia onnipotente», disse, «nessuno potrebbe metterlo in dubbio». «Nessuno senza dubbio potrebbe contestarlo», risposi, «purché sia padrone della sua intelligenza». «Ma non c’è niente che non possa colui che è onnipotente». «Per niente affatto», dissi. «Orbene, può Dio fare il male?» «Certamente no». «Pertanto non esiste il male, dal momento che Dio non lo può fare, e pure non c’è niente che egli non possa fare». Risposi: «Ti prendi gioco di me, preparando, con i tuoi ragionamenti un inestricabile labirinto, ora entrando per dove sei uscita, ora uscendo di là dove sei entrata, oppure intrecci un cerchio mirabile di divina semplicità? Infatti poco fa, cominciando dalla felicità, dicevi che essa è il sommo bene, e aggiungevi che si trova in Dio. Spiegavi anche che Dio stesso è il sommo bene e la piena felicità, per cui sarebbe stato felice solamente chi fosse stato parimenti Dio, e ci donavi questo come se fosse un piccolo regalo. Ancora, tu dicevi che la forma stessa del bene costituisce la sostanza di Dio e della felicità e insegnavi che lo stesso Uno è quel bene che è cercato da tutte le cose per loro natura. Spiegavi anche che Dio regge l’universo con il timone della bontà e che

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tutte le cose gli obbediscono volontariamente e che non esiste la sostanza del male. E queste dottrine le spiegavi senza prendere dall’esterno dei postulati, ma in quanto l’una cosa ricavava dall’altra la sua attendibilità, con delle dimostrazioni interne al discorso e tipicamente sue». E quella: «Non ci prendiamo affatto gioco di te, ma per dono di Dio, al quale poco fa levammo la nostra preghiera, abbiamo compiuto l’impresa più importante di tutte. Ché la forma della sostanza di Dio è tale che essa non può diffondersi verso l’esterno e non può accogliere in sé alcuna cosa dal di fuori, ma, come dice di essa Parmenide:

«simile al volume di una sfera da ogni parte ben rotonda»

muove in giro il mondo, mentre si conserva immobile essa stessa. Ché se noi abbiamo discusse certe questioni senza desumerle dall’esterno, ma collocate all’interno dell’argomento che stiamo esaminando, non c’è nessun motivo per cui tu ti meravigli, dal momento che hai appreso dalla sentenza di Platone che i discorsi devono essere conformi alle cose di cui si sta parlando»

4. Al-Fārābi sulla trasmissione della filosofia In seguito all’avvento dell’Islam l’istruzione si trasferì da Alessandria ad Antiochia e là rimase per un lungo periodo. Infine, là rimase soltanto un insegnante, e da lui impararono due uomini che poi partirono, portando con sé i libri: uno di essi proveniva da Harrān, l’altro da Marw. Di quello di Marw furono allievi due uomini: uno era Ibrāhīm al-Marwazī, l’altro Yūhannā ibn Haylān. Di quello di Harrān furono allievi il vescovo Isrā’īl e Quiwayrī: ambedue andarono a Bagdad, e Isrā’īl si occupò delle cose della religione, mentre Quiwayrī iniziò a insegnare. Quanto a Yūhannā ibn Haylān, anch’egli si occupò delle cose della sua religione. Ibrāhīm al-Marwazī tornò a Bagdad e vi si stabilì.

5. Barhdadbešabba ‘Arbaya, Storia ecclesiastica Era capo e interprete di quella scuola un uomo molto illuminato, il cui nome era Quiiore, che era totalmente uomo di Dio. Costui era totalmente divorato dall’amore del suo ufficio, al punto da tenere da solo tutto l’incarico dell’interpretazione, della lettura e della compitazione, e anche dell’eloquenza ecclesiastica. E benché digiunasse molto e fosse affatto continente, pure portava a compimento con potenza tutto questo lavoro. Tuttavia, da quest’unica cosa era afflitto, dal fatto che le interpretazioni dell’Interprete [ossia Teodoro di Mopsuestia] non fossero ancora uscite in lingua siriaca; al momento interpretava le Scritture a partire dalle tradizioni di Mar Efrem, che, come dicono, erano state tradite dall’apostolo Addai, che per primo aveva piantato l’assemblea di Edessa, dato che lui e il suo discepolo erano venuti a Edessa e vi avevano piantato questo buon seme. Di fatto, anche quella che chiamiamo “tradizione della scuola”, non diciamo che sia l’interpretazione dell’Interprete, ma quelle altre esegesi che di bocca in bocca sono state tradite fin da prima. In seguito, il beato Mar Narsai le ha mescolate nei suoi discorsi e sul resto delle sue composizioni. Quando uscì in siriaco l’interpretazione di Teodorico, allora essa fu tradita anche all’assemblea di Edessa e tutti ricevettero da Quiiore l’interpretazione dei Libri divini e le proprie traduzioni, ma lessero pure i libri dell’Interprete e ne furono istruiti. Quando quell’uomo, l’interprete della scuola, si addormentò, allora tutta la fraternità chiese a Mar Narsai di stare a capo dell’assemblea e di provvedere al suo bisogno. E Narsai disse loro: io non posso sostenere tutto il lavoro della scuola, come Rabban. Lui infatti era ricco di entrambe le cose, nella salute del corpo e nella grazia dello spirito, in una con l’anzianità dei giorni. Ma se costituirete un lettore e uno che insegni i primi rudimenti della lettura, forse io potrò interpretare le Scritture. Dopo che ebbero fatto quanto aveva chiesto, questo beato diresse l’assemblea per vent’anni, provvedendo ogni giorno all’interpretazione e al canto corale.

6. Giunilio Africo, Instituta regularia divinae legis libri duo D.: In quanti sensi la Scrittura parla di Dio? M.: In quattro: infatti, o indica la sua essenza, che in latino chiamiamo pure sostanza, come nel versetto: “Io sono Colui che sono” [Es 3, 14], o le persone come nel versetto: “Andate, insegnate a tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo” [Mt 28, 19], o l’operazione, come

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dove è scritto: “Secondo l’operazione della potenza della sua virtù, che ha operato in Cristo, risuscitandolo dai morti e facendolo sedere alla sua destra” [Ef 1, 19-20], o la sua relazione con le creature, come nel versetto: “Al re dei secoli, incorrotto, invisibile – al solo Dio onore e gloria nei secoli dei secoli” [1Tim 1, 17].

7. Paolo il Persiano, Trattato sull’opera logica di Aristotele La scienza si occupa delle cose vicine, evidenti e conoscibili; la fede di oggetti lontani, invisibili e non conoscibili con certezza. Questa versa nel dubbio, quella è priva di dubbi. Ogni dubbio conduce alla divisione, mentre l’assenza di dubbi all’unanimità. La scienza è dunque migliore della fede, ed è meglio scegliere quella di questa, anche se i credenti, sotto la pressione della fede, si scusano nei confronti della scienza e dicono: Quel che ora crediamo, più tardi lo sapremo: “oggi vediamo come in uno specchio, in enigmi, ma poi vedremo faccia a faccia” [1Cor 13, 12].

8. Anonimo [siriaco], Commento alle Categorie, prologo Secondo una parola degli antichi, o fratello nostro, Teodoro, l’uccello chiamato cicogna trova gioia e diviene più forte quando lascia i paesi abitati e giunge a un luogo deserto e vi fissa la sua dimora fino alla fine della sua vita. Allo stesso modo, mi sembra, nessuno può capire le dottrine degli antichi né penetrare i segreti della scienza dei loro libri, se non lascia il mondo e i suoi affari e non si allontana pure dalla carne – non fisicamente, ma nel pensiero – e non getta alle sue spalle tutti i suoi desideri. Solo allora, infatti, lo spirito è libero di tornare a sé e di guardare in sé, e di vedere con chiarezza quanto è stato scritto da loro.

9. Timoteo I e la traduzione araba dei Topici Ci è stata concessa un’udienza da nostro re vittorioso [al-Mahdī]. Nel corso della discussione circa la natura divina e la sua divinità a parte ante, il re ci disse qualcosa che noi non avevamo mai sentito da lui prima; egli disse: “O Catholicos, non si addice ad uno come te, un uomo dotto e di esperienza, dire di Dio l’Onnipotente che Egli prese per Sé una moglie e generò da essa un figlio”. Noi rispondemmo dicendo: “O Re, amico di Dio! Chi è quella persona che ha pronunciato una cosa tanto blasfema su Dio l’Onnipotente?”. Al che il re vittorioso mi disse: “Cosa sostieni allora a proposito di Cristo? Chi è?

10. Al-Ahbārī sull’impegno di al-Mahdī in favore delle traduzioni Al-Mahdī dedicò tutti i suoi sforzi a sterminare gli eretici e agli apostati. Questi comparvero ai suoi giorni e proclamarono pubblicamente le proprie credenze al tempo del suo califfato a causa della vasta circolazione dei testi di Mani, Bardesane e Marcione (tra quelli trasmessi da Ibn-al-Muqaffa‘ e altri), che erano stati tradotti dal neopersiano e dal pahlevi in arabo, e dei testi su questo tema in favore del manicheismo, del bardessanismo e del marcionismo, composti da Ibn-Abī-l-‘Awgā’, Hammād ‘Agrad, Yahyā ibn-Ziyād, e Mutī‘ ibn-Iyās. In questo modo i manichei crebbero di numero e le loro credenze si manifestarono all’aperto tra la gente. Al-Mahdī fu il primo califfo a ordinare ai teologi di utilizzare l’argomentazione dialettica (al-gadaliyyīn) nella loro ricerca di redigere dei libri contro gli eretici e gli altri infedeli che abbiamo già ricordato. I teologi poi produssero delle prove dimostrative contro i disputanti (mu ‘ānidīn), eliminarono i profeti posti dagli eretici e spiegarono la verità in termini chiari a quanti si trovavano nel dubbio.

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La falsafa araba

1. Teologia di Aristotele, prologo Dato che è stato stabilito per accordo dei maggiori filosofi che le cause originarie e iniziali del cosmo sono quattro, cioè la materia, la forma, la causa agente e il fine, è necessario esaminarle e conoscere i loro principi e le loro cause […]. Abbiamo già completato l’esposizione di quelle cause e la presentazione delle loro cause nel nostro libro su ciò che è al di là della fisica (fī kitābi-nā alladī ba‘d al-tabī ‘iyyāt) […]. Poiché ora abbiamo completato le cose che vengono abitualmente premesse […] non indugiamo su questa sezione, dato che ne abbiamo già parlato nel libro della Metafisica (fī kitābi Matātāfūsīqā), ma concentriamoci su ciò che abbiamo presentato qui e menzioniamo anche lo scopo che ci proponiamo in ciò che vogliamo esporre in quest’opera, ossia la scienza universale (‘ilm kullī), composta per dedicarci alla somma della nostra filosofia, e verso cui abbiamo diretto tutto ciò che il libr contiene […]. Il nostro scopo in questo libro è il discorso principale sulla sovranità divina (al-rubūbiyya) e la sua esposizione: come essa sia la Causa Prima, mentre sia il tempo che l’eternità sono al di sotto di essa; essa è la Causa e il creatore delle cause in un certo modo, e la potenza illuminatrice si effonde da essa sull’Intelletto e, con la mediazione dell’Intelletto sull’Anima universale celeste; dall’Intelletto, con la mediazione dell’Anima sulla Natura; dall’Anima, con la mediazione della Natura, sulle cose soggette a generazione e corruzione.

2. Liber de Causis, prop. 8[9] La stabilità e la sussistenza dell’Intelletto dipendono dal Bene Puro (al-hayr al-mahd) che è la Causa Prima. La potenza dell’Intelletto, a sua volta, è più unitaria delle cose secondarie che vengono dopo di lui, perché esse non racchiudono la sua conoscenza. Ciò perché esso è causa delle cose che si trovano al di sotto di lui. Il segno di ciò è questo che osserviamo: l’Intelletto governa tutte le cose che sono al di sotto di lui per la potenza divina che è in lui, e con questa mantiene le cose, perché tramite questa è causa delle cose: esso mantiene tutte le cose che sono al di sotto di lui e le comprende in sé. […] L’Intelletto comprende in sé le cose soggette a divenire, la natura e ciò che è al di sopra della natura, cioè l’anima – l’anima, infatti, è al di sopra della natura. Ciò accade perché la natura contiene il divenire, l’anima contiene la natura e l’Intelletto contiene l’anima. Perciò l’Intelletto contiene tutte le cose; e l’Intelletto è tale solo grazie alla Causa Prima, che trascende tutte le cose perché è causa dell’Intelletto, dell’anima, della natura e di tutte le altre cose. A sua volta, la Causa Prima non è né Intelletto, né anima né natura: anzi, essa è al di sopra dell’Intelletto, dell’anima e della natura, perché ha creato tutte le cose. Essa però ha creato l’Intelletto senza alcuna mediazione, ed ha creato l’anima, la natura e tutte le altre cose con la mediazione dell’Intelletto. La scienza divina non è come la scienza dell’Intelletto né come la scienza dell’anima, ma è al di sopra della scienza dell’Intelletto e della scienza dell’anima, perché ha creato ogni scienza; la potenza divina è al di sopra di ogni potenza dell’Intelletto, dell’anima e della natura perché è causa di ogni potenza. Inoltre: l’Intelletto ha yliathim, perché è composto di essere e forma, e analogamente anche l’anima ha yliathim, e la natura ha yliathim. Invece la Causa Prima non ha yliathim perché è soltanto essere. Se si dice “deve anch’essa avere yliathim”, rispondiamo: il suo yliathim è infinito, e la sua individuazione consiste nell’essere il Bene Puro (al-hayr al-mahd), che effonde sull’Intelletto tutte le perfezioni, e su tutte le cose con la mediazione dell’Intelletto.

3. Al-Kīndī, Sulla filosofia prima La più elevata fra le arti umane, la più degna, la più nobile è l’arte della filosofia, che è definita “scienza delle cose nella loro verità nella misura della capacità umana”, perché lo scopo del filosofo nella sua scienza è cogliere il vero, mentre nella sua azione è l’azione secondo il vero, non l’azione senza un termine, perché ci fermiamo e l’azione finisce quando raggiungiamo il vero; ma non troviamo ciò che ricerchiamo nel vero senza aver trovato la causa. Ora, la causa dell’essere di ogni cosa e della sua stabilità è il vero, perché ogni cosa ha tanto di essere quanto ha di verità, e il vero è necessariamente esistente dal momento che gli esseri sono esistenti. La filosofia più nobile e più elevata in rango è la filosofia prima (al-falsafa al-ūlā), intendo la scienza della verità prima, che è la causa di ogni verità. Perciò

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occorre che il filosofo perfetto e più nobile sia l’uomo che possiede questa scienza, la più nobile, perché la scienza della causa è più nobile della scienza dell’effetto, dato che noi conosciamo ogni cosa conoscibile con una conoscenza perfetta quando conosciamo la conoscenza della causa […]. La scienza della Causa Prima è stata giustamente definita “filosofia prima”, perché tutto ciò che fa parte della filosofia è compreso nella scienza di questa; essa è quindi prima per nobiltà, prima per genere, prima per rango riguardo a ciò che è più certo nella conoscenza e prima dal punto di vista del tempo, perché essa è causa del tempo.

4. Al-Fārābi, L’armonia delle opinioni dei due sapienti: il divino Platone e Aristotele (ed. Martini, pp. 37 e 64)

La filosofia, quanto alla sua definizione e alla sua essenza, è la scienza degli enti in quanto tali, e questi due sapienti sono stati le sorgenti della filosofia, quelli che hanno posto le basi dei suoi principi e fondamenti; ne hanno portato a perfezione le conclusioni ultime e le ramificazioni ad è in loro che si deve avere fiducia sia nelle questioni particolari che in quelle più importanti, ed essi sono la fonte di autorità sia nelle questioni facili che in quelle difficili. In ogni ambito, tutto ciò che proviene da loro è il principio solido nel quale ci si può appoggiare, perché è privo di difetti e incertezze. Le bocche lo dicono e la ragione lo testimonia, se non di tutti almeno della maggior parte di coloro che hanno il cuore puro e la ragione retta. Nella Teologia diviene chiaro che il Creatore grande e sublime ha creato la materia a partire dal nulla, che essa da prima è stata resa corporea dal Creatore – grande la sua lode – e secondo la sua volontà, e poi è stata ordinata. Egli ha mostrato nella Fisica che non è possibile che l’universo sia stato instaurato per caso e accidentalmente, e lo stesso nel libro Sul Cielo e il mondo, e come prova egli porta l’ordine mirabile delle parti del mondo: là egli espone la questione delle cause e del loro numero e stabilisce l’esistenza della causa efficiente; spiega inoltre la questione del principio generatore e del principio del movimento, che cioè è differente da ciò che è generato e mosso. Anche Platone spiega, nel suo libro intitolato Timeo, che la generazione di tutto ciò che viene ad essere procede necessariamente da una causa generatrice, e che il generato non può mai essere la causa del suo venire all’essere.

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Litterae e filosofia alla corte carolingia

1. Giovanni Scoto Eriugena, De divina praedestinatione I, 1 Poiché ogni regola della pia e perfetta dottrina, con la quale anche in modo assai rigoroso si ricerca il principio di tutte le cose, e lo si rende conoscibile in modo aperto, è stabilito in questa disciplina, che era solita essere chiamata filosofia dai greci, ritenemmo necessario esporre nei particolari, ma in modo conciso, riguardo alle divisioni e alle parti di quella. “Così infatti”, come dice Sant’Agostino, “si crede e si insegna, e questo è il principio della salvezza umana, che al filosofia, cioè l’amore della sapienza e la religione sono la stessa cosa, dal momento che non partecipano con noi ai sacramenti coloro di cui non condividiamo la dottrina” (De vera rel. 5, 9). Che altro è trattare di filosofia se non esporre le regole della vera religione e di contro che la vera religione è la vera filosofia, la quale dunque si divide in molte forme e in modi diversi, ma si distinguono due volte due parti principali che è necessario avere per risolvere ogni questione, le quali ai greci piacque denominare διαιρετική, ἑριστική, ἀποδικτική, ἀναλυπτική, e le stesse possiamo denominarle in latino: divisoria, definitoria, dimostrativa, risolutiva. Fra le quali, infatti, la prima isola uno fra i molti dividendo, la seconda deduce uno dai molti definendo, la terza svela le realtà occulte dimostrandole attraverso le realtà manifeste, la quarta risolve le realtà composite nelle semplici separando.

2. Giovanni Scoto Eriugena, Preiphyseon I, 441b-442a

Ritengo che la divisione della natura consista in quattro specie prodotte da quattro differenze: la prima si trova in quella che crea senza essere creta, la seconda in quella che è creata e crea, la terza in quella che è creata e non crea, la quarta in quella che non crea e non è creata. Queste quattro si oppongono a coppie: infatti la terza si oppone alla prima, la quarta alla seconda; la quarta, peraltro, rientra fra le cose impossibili, poiché il suo essere consiste nel non poter essere.

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Usi, abusi e fortuna della dialectica

1. Richerio, Historia Francorum Gerberto rendeva chiara la dialettica in termini luminosi, percorrendo nell’ordine i libri che ne trattavano. Spiegava innanzitutto le Isagoge di Porfirio, cioè le Introduzioni, secondo la traduzione del retore Vittorino, quindi, in più, secondo quella di Manlio (Boezio). In seguito, spiegava il libro di Aristotele sulle Categorie, cioè sui predicamenti. Esponeva anche nel modo più adeguato il trattato Perí Hermeneias, cioè Sull’interpretazione. Inoltre, insegnava ancora ai suoi uditori i Topici, cioè i “luoghi” degli argomenti tradotti dal greco in latino da Tullio (Cicerone) e illustrati dal console Manlio e illustrati dal console Manlio con un commento in sei libri. Leggeva anche e commentava in modo utile quattro libri (di Boezio) sulle differenze topiche, due libri sui sillogismi categorici, tre sugli ipotetici, un libro sulle definizioni ed uno sulle divisioni.

2. Indice del ms. Chartres, Bibliothèque Municipale, 100 Porfirio, Isagoge (f. 1) Aristotele, Categorie (f.12) Aristotele, Categorie (trad. attribuita ad Agostino) (f. 27) Boezio, De diffinitionibus (f. 49) Cicerone, Topici (f. 63) De Interpretatione (f. 75) Apuleio (?), De Interpretatione (f. 85) Boezio, De differentiis topicis (f. 93) Boezio, De cognatione rethorica (f. 123) Lora rethorica (f. 126) Trattato sui sillogismi (f. 128) Boezio, Liber divisionum (f. 149) Gerberto di Aurillac, De ratione uti et rationali (f. 160) Boezio, De syllogismis cathegoricis (f. 163) Boezio, De ypotheticis sillogismis (f. 191) Tavole esplicative (f. 222)

3. Berengario di Tours e Lanfranco sulla controversia eucaristica Berengario

Alla dialettica, il beato Agostino, concede l’onore di una magnifica definizione come la seguente: “La dialettica è l’arte delle arti, la scienza delle scienze: insegna a studiare, insegna ad ammaestrare; non solamente ha per fine quello di rendere gli uomini sapienti, ma li rende davvero tali”. Lanfranco Cercheremo di ribattere a queste ragioni dialettiche, affinché tu non abbia a pensare che su questo punto batto in ritirata dinanzi a te per mancanza di scienza. Forse alcuni vedranno in questo comportamento iattanza e l’attribuiranno più all’ostentazione che alla necessità. Ma Dio e la mia coscienza mi sono testimoni che, quando si tratta di lettere divine, io desidererei evitare di proporre questioni dialettiche ed anche di dover fornire soluzioni in risposta a questioni dialettiche proposte. Tuttavia, quando il tema della disputa è tale da poter essere illustrato più chiaramente per mezzo delle regole di questa scienza, dissimulo la scienza, più che posso, sotto proposizioni equivalenti, affinché non sembri confidare più in questa scienza che nella verità e nell’autorità dei santi Padri. E questo anche se il beato Agostino, in alcuni suoi scritti, in particolare nella sua opera Sulla dottrina cristiana,

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pronuncia un magnifico elogio di questa disciplina ed afferma l’estensione della sua validità ad ogni ricerca inerente le lettere sacre. Berengario In verità, è proprio di uno spirito sommamente magnanimo ricorrere alla dialettica in ogni questione, dato che ricorrere ad essa significa ricorrere alla ragione; e colui che non ricorre alla ragione, dato che è stato fatto a immagine di Dio proprio in quanto dotato di ragione, smarrisce la sua dignità senza avere più la possibilità di essere rinnovato giorno per giorno a immagine di Dio. Lanfranco Tu abbandoni le autorità sacre e ti rifugi nella dialettica. Ma in verità, quando devo intendere e rispondere cose pertinenti a proposito del mistero della fede, io preferisco intendere e dare come risposta autorità sacre piuttosto che ragioni dialettiche.

4. Pier Damiani, De divina omnipotentia §1-2. All’abate Desiderio, reverendissimo rettore del Monastero di Monte Cassino, e a tutta la santa comunità, Pietro, monaco peccatore, dona il bacio della pace nello Spirito Santo. […] Un giorno eravamo entrambi a tavola, come puoi ricordare, allorché questa affermazione del beato Girolamo fu citata nella conversazione: “Io – dice quello – parlerò arditamente: sebbene Dio possa fare ogni cosa, non può però rendere vergine colei che non lo è più. Egli ha certamente il potere di liberarla dalla sua pena, ma non di restituirle la corona della verginità perduta”. E io, non senza timore, dal momento che non osavo affatto discutere a cuor leggero la testimonianza di un uomo simile, io ho allora voluto esprimere il mio sentimento tanto preciso a colui che è un’anima sola con me, cioè a te. “Questo giudizio – dissi – confesso di non averlo mai potuto accettare, perché io tengo in considerazione non tanto colui che parla ma quello che egli dice. E dunque, sarebbe troppo sconveniente, mi pare, attribuire in modo tanto superficiale un’impotenza a Colui che può tutto, a meno che non lo si faccia in ragione del mistero di una comprensione più elevata”. Tuttavia, tu rispondesti diversamente che quanto era stato affermato era certo e ben stabilito: Dio non può rendere vergine colei che non lo è più. In seguito, attraverso delle lunghe e prolisse argomentazioni, passando in rassegna molte cose, arrivasti infine a chiudere la tua definizione col dire che Dio non può compiere questo atto per nessune altra ragione se non perché non lo vuole. §13. Enunciamo ancora una volta l’obiezione che ci pone questa questione superflua e indaghiamo da quale radice essa viene, affinché essa non travolga e non sconvolga impetuosamente le ricche messi della pura fede, ma questo ruscello che è degno di essere inghiottito dalla terra, sia essiccato a partire dalla sua stessa fonte. Poiché all’affermazione che Dio non può rendere vergine una donna dopo la sua caduta, essi [cioè i “dialettici”] aggiungono come per una conseguenza logica: perché Dio può far sì che sia accaduto quello che ancora non è accaduto? Come se, una volta stabilito che una vergine è stata corrotta, sarebbe per lei impossibile ritrovare la propria integrità. Dal punto di vista della natura questo è certamente vero, la frase è coerente: che cioè qualcosa sia accaduto e non accaduto, non lo si può qui dire di una sola e medesima cosa. Si tratta infatti di due condizioni contrarie l’una all’altra, così che, se l’una è vera l’altra non può esserlo. E infatti, di ciò che è accaduto non è vero dire che non sia accaduto e all’opposto di ciò che non è accaduto non è corretto dire che sia accaduto, poiché le cose contrarie non possono darsi allo stesso tempo in un unico e medesimo soggetto.

Andiamo però oltre: questa impossibilità si ha senza dubbio ragione di affermarla quando la si rapporta ai limiti della natura; ma che ci si guardi bene dall’attribuirla alla maestà divina, poiché Colui che ha dato la vita alla natura, Egli le può togliere con facilità, quando lo voglia, la sua necessità. Colei che comanda alle creature è infatti soggetta alle leggi del Creatore e Colui che ha creato la natura cambia l’ordine della natura a motivo della sua potenza; Colui che ha posto tutte le creature sotto il dominio della natura ha riservato al proprio potere sovrano l’obbedienza docile della natura. Riflettendo opportunamente, è chiaramente evidente che dall’origine del mondo, dalla sua nascita, il Creatore ha

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cambiato come ha voluto le leggi della natura. Più ancora: la natura stessa, per così dire, lo ha fatto, in un certo senso, contro natura. Infatti, non è forse contro natura che il mondo sia stato creato dal nulla? Ed è per questo che i filosofi dicono che “niente è fatto dal niente”. E che gli animali siano creati al solo potere del suo comando e non a partire da animali ma da elementi semplici? Che l’uomo che dorme perda una costola e non soffra? Che dal solo uomo, senza una donna, la donna sia creata? E che tutte le membra del corpo umano si differenzino da un medesimo lato? Che gli esseri umani si vedano l’un l’altro nudi e non solo non arrossiscano ma non lo sappiano nemmeno di essere nudi? E molte altre cose la cui enumerazione sarebbe lunga.

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La dialettica e l’argomentare teologico: Anselmo

1. Monologion Prologo

Alcuni confratelli mi pregarono ripetutamente e con insistenza di scrivere per loro, come esempio di meditazione, le cose che avevo loro esposto, parlando con linguaggio usuale, intorno all’esistenza di Dio e ad alcuni altri argomenti connessi con questa meditazione. E, badando più al loro desiderio che alle difficoltà della cosa o alla mia possibilità, mi prescrissero questo metodo nello scrivere la meditazione: che nulla vi fosse persuaso con l’autorità della Scrittura, ma tutto ciò che si concludesse in ogni singola investigazione fosse dimostrato brevemente con argomenti necessari e manifestato apertamente dalla luce della verità; e tutto ciò con stile piano e argomenti accessibili a tutti e con semplice discussione. Vollero pure che non trascurassi di risolvere le obiezioni che si potessero presentare, anche le più semplici e apparentemente sciocche. […] § 1 Se uno, o per non averlo udito o perché non crede a ciò che ha udito, ignora che vi è una natura più alta di tutto ciò che esiste, a sé sufficiente nella sua eterna beatitudine, che dà a tutte le altre cose l’essere e le fa in qualche modo buone con la sua onnipotente bontà, e ignora altresì le molte altre verità che dobbiamo credere di Dio o della creazione, credo che della maggior parte di queste stesse cose possa almeno convincersi, se è appena di mediocre ingegno, con la sola ragione. Potrà farlo in molti modi, ma io gliene proporrò uno, che giudico essere a più facile portata. Infatti, poiché tutti desiderano godere soltanto di quelle cose che reputano buone, è ovvio che una volta o l’altra si rivolga l’occhio della mente a ricercare ciò onde sono buone le cose che si desiderano proprio perché si giudicano buone; affinché poi, sotto la guida della ragione, e proseguendo verso le cose che irragionevolmente si ignorano, si proceda ragionevolmente. … È facile dunque che uno tacitamente dica fra sé: poiché vi sono beni così innumerevoli, di cui sperimentiamo coi sensi e discerniamo con la ragione la grandissima diversità, è da credere che vi sia un ente solo, in virtù del quale sia buono tutto ciò che è buono, o alcuni beni son beni in virtù di una cosa, altri in virtù di un’altra? È invero certissimo e chiaro per tutti quelli che vogliono prestarvi attenzione, che tutto ciò che si dice tale, in modo che in rapporto con altri si dica più o meno o egualmente tale, è tale in virtù di qualcosa che non è diverso nelle diverse cose, ma identico, sia che lo si consideri in esse allo stesso modo o diversamente. Infatti, tutte le cose che son dette giuste, siano esse ugualmente, o più o meno giuste le une delle altre, non possono essere concepite tali se non in virtù di una sola giustizia che non sia diversa nelle diverse cose. Dunque, poiché è certo che tutte le cose buone, se sono paragonate fra loro, sono ugualmente o inegualmente buone, è necessario che tutte siano buone per qualche cosa che è concepita identica in loro, sebbene talora alcune cose sembrino esser dette buone per un motivo, altre per un altro. ….

2. Proslogion § II

Ora noi crediamo che tu [Dio] sia qualche cosa di cui nulla può pensarsi più grande. O forse non esiste una tale natura, poiché «lo stolto disse in cuor suo: Dio non esiste» (Ps 13,1 e 52,1)? Ma certo quel medesimo stolto, quando ode ciò che dico, e cioè la frase «qualcosa di cui nulla può pensarsi più grande», intende quello che ode; e ciò che egli intende è nel suo intelletto, anche se egli non intende che quella cosa esista. Altro infatti è che una cosa sia nell’intelletto, altro è intendere che la cosa sia. Infatti, quando il pittore si rappresenta ciò che dovrà dipingere, ha nell’intelletto l’opera sua, ma non intende ancora che esista quell’opera che egli ancora non ha fatto. Quando invece l’ha già dipinta, non solo l’ha

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nell’intelletto, ma intende pure che l’opera fatta esiste. Anche lo stolto dunque, deve convincersi che vi è almeno nell’intelletto una cosa della quale nulla può pensarsi più grande, poiché egli intende questa frase quando la ode, e tutto ciò che si intende è nell’intelletto. Ma certamente ciò di cui non si può pensare il maggiore non può esistere solo nell’intelletto. Infatti, se esistesse solo nell’intelletto, si potrebbe pensare che esistesse anche nella realtà, e questo sarebbe più grande. Se dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore esiste solo nell’intelletto, ciò di cui non si può pensare il maggiore è ciò di cui si può pensare il maggiore. Il che è contradditorio. Esiste dunque senza dubbio qualche cosa di cui non si può pensare il maggiore e nell’intelletto e nella realtà. § III E questo ente esiste in modo così vero che non può neppure esser pensato non esistente. Infatti si può pensare che esista qualche cosa che non può essere pensato non esistente; e questo è maggiore di ciò che può essere pensato non esistente. Onde se ciò di cui non si può pensare il maggiore può essere pensato non esistente, esso non sarà più ciò di cui non si può pensare il maggiore, il che è contraddittorio. Dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore esiste in modo così vero, che non può neppure essere pensato non esistente. E questo sei tu, o Signore Dio nostro. Dunque esisti così veramente, o Signore Dio mio, che non puoi neppure essere pensato non esistente. … § IV Ma come disse in cuor suo ciò che non poté pensare? O come non poté pensare ciò che disse in cuor suo, quando è la stessa cosa dire nel proprio cuore e pensare? E se pensò veramente, anzi poiché pensò veramente ciò che disse in cuor suo, e non disse in cuor suo poiché non poteva pensarlo, vuol dire che non c’è un modo solo di dire nel proprio cuore o di pensare. In altro modo infatti si pensa una cosa quando si pensa la parola che la significa, e in altro modo quando si pensa ciò che è la cosa. Ora, nel primo modo si può pensare che Dio non esista, nel secondo modo no. Nessuno infatti che intenda ciò che è Dio può pensare che Dio non esista, anche se dice in cuor suo queste parole, o senza dar loro significato o dando loro un significato diverso. Dio infatti è ciò di cui non si può pensare il maggiore. Ora chi intende bene questo, capisce che gli esiste in tal modo da non poter neppure essere pensato non esistente. Chi dunque capisce che Dio è tale, non può pensare che egli non esista. E ti ringrazio, buon Signore, ti ringrazio, poiché quel che prima ho creduto per tuo dono, ora lo intendo grazie al tuo lume, sì che anche se non volessi credere che tu esisti, non potrei non capirlo con l’intelligenza.

3. Gaunilone in difesa dello stolto § 2

A questo argomento si può forse rispondere in questo modo: se questo ente è già nel mio intelletto soltanto poiché io capisco ciò che si dice, non potrei dire di avere similmente nell’intelletto anche tutte le cose false e assolutamente inesistenti, per il solo fatto che capisco ciò che dice qualcuno quando ne parla? A meno che forse non consti che esso sia tale da non poter essere nel pensiero come vi sono tutte le cose false e dubbie, e allora non si dica che io penso o ho nel pensiero quello che ho udito, ma che lo intendo e l’ho nell’intelletto; ossia che non posso pensarlo se non sapendo, ossia comprendendo con scienza, che quello esiste in realtà. Ma se è così, in primo luogo non sarà una cosa diversa avere prima la cosa nell’intelletto, e poi sapere che la cosa esiste, come avviene della pittura che prima è nella mente del pittore, e poi nell’opera. In secondo luogo, è difficilmente credibile che, quando si è detto e sentito «ciò di cui non si può pensare il maggiore», non si possa pensare che esso non esista come si può pensare che non esiste Dio. Infatti, se non si può, perché istituire tutta codesta discussione contro colui che nega o dubita che esiste una tale natura? In terzo luogo, che codesto ente sia tale che la sua esistenza sia appresa come indubitabile appena lo si pensi, deve esser provato con qualche saldo argomento, e non con questo,

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che, quando l’ho inteso dire, esso è già nel mio intelletto; poiché in questo modo si potrebbe dimostrare che esistono tutte le cose che reputo ancora incerte o anche false dette da uno di cui intendo le parole; e ancor di più se io, che ancora non credo questo, le credessi, ingannandomi, come spesso accade. § 3 Perciò neppure l’esempio del pittore che ha in mente la pittura da fare può adattarsi bene a questo argomento. Infatti quella pittura, prima di essere realizzata, è nell’arte del pittore, e una tale realtà nell’arte dell’artefice non è altro che una parte della sua intelligenza, poiché, come dice sant’Agostino «quando un artefice preconcepisce nell’arte sua un’arca che deve attuare, l’arca attuata esteriormente non è vita, quella invece che è nell’arte dell’artefice è vita, poiché vive dell’anima di lui, nella quale si trovano tutte queste cose, prima di essere espresse» (Tractatus in Joh., I, 16). Poiché infatti queste cose sarebbero vita nell’anima vivente dell’artefice, se non perché sono la stessa scienza o intelligenza dell’anima di lui? E invece, ogni cosa vera si apprenda, o per averne sentito parlare o per averla escogitata con l’intelletto (all’infuori di ciò che appartiene alla natura della mente), è distinta dall’intelletto che la concepisce. Perciò, anche se fosse vero che vi è qualcosa del quale nulla può essere pensato maggiore, tuttavia questo, di cui si fosse udito e si fosse pensato, non è come la pittura non ancora realizzata, quando è nell’intelletto del pittore. § 4 A ciò si aggiunga quello che abbiamo accennato sopra, e cioè che, dopo averlo udito, io non posso pensare o avere nell’intelletto quell’ente più grande di tutte le cose che si possono pensare, e che si dice non poter essere altro che Dio, rappresentandomelo in base a una cosa nota o nella sua specie o nel suo genere, come non posso pensare o avere nell’intelletto Dio, e per questo posso pensare che Dio non esista. Non conosco infatti quell’ente in se stesso né posso congetturarne la natura in base a un altro che gli sia simile, poiché tu stesso dici che nessuna cosa può essere simile a lui. Infatti, se udissi dire qualcosa di un uomo a me affatto ignoto, del quale ignorassi perfino l’esistenza, potrei tuttavia pensarlo nella sua realtà di uomo mediante quel concetto speciale o generale per cui so che cosa sia un uomo o cosa siano gli uomini. E ciò nonostante potrebbe accadere, per al menzogna di colui che me ne parlasse, che quell’uomo che io penso non esistesse; eppure io lo penserei mediante quella vera realtà che è, non già quell’uomo individuo, ma l’uomo in generale. Ma quando sento dire «Dio» o «l’ente più grande di tutti» non posso averlo presente nell’intelletto neppure così come potrei avere nell’intelletto la falsa conoscenza di quell’uomo, poiché quello posso pensarlo in base a una realtà vera a me nota; Dio, invece, non posso pensarlo se non in base alle parole. Ora, con le sole parole non si può, o a mala pena si può rappresentarsi qualcosa di vero, poiché quando si pensa così non si pensa la parola stessa, ossia il suono delle lettere o delle sillabe, che è certo una vera realtà, ma il significato della parola udita; e non lo si pensa come lo pensa colui che sa cosa significhi solitamente quella parola, e quindi la pensa in base a una realtà, abbia pure questa realtà una verità solo nel pensiero; ma lo si pensa come lo pensa colui che non sa cosa significhi solitamente quella parola, e, non sapendolo, deve pensare in base al solo moto dell’animo prodotto dall’audizione di quella parola e deve tentare di fabbricarsi un significato della parola udita. E sarebbe un miracolo se in realtà potesse arrivarci. Così, dunque, e non altrimenti, ho nell’intelletto quell’ente quando sento e capisco uno che parla di un ente più grande di tutti quelli che si possono pensare. E questo sia detto dell’affermazione secondo la quale quella somma natura sarebbe presente nel mio intelletto. … § 7 Quando si dice che questa somma realtà non può essere pensata non esistente, meglio si direbbe forse che non può essere conosciuta come non esistente o capace di non esistere. Infatti, a parlare propriamente, le cose false non possono essere conosciute, ma possono essere pensate, a quel modo in cui lo stolto pensò che Dio non esiste. Anch’io so certissimamente di essere, ma so che posso anche non essere. Quando invece si tratta del sommo ente, ossia di Dio, conosco senza dubbio che egli non

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può essere e non essere. Non so poi se posso pensare di non essere mentre so certissimamente di essere. Ma se posso, perché non potrei pensare non esistente tutto ciò che so con la medesima certezza? E se non posso, questo non potere non sarà una caratteristica solo del modo in cui penso Dio.

4. Risposta di Anselmo § 1 Quanto ciò sia falso me lo prova la tua stessa fede e la tua coscienza. Dunque, «ciò di cui non si può pensare il maggiore» è veramente compreso e pensato, ed è nell’intelletto e nel pensiero, e quindi o non son vere le cose che ti sforzi di dimostrare, o da esse non segue ciò che tu credi di poterne concludere. … § 3 Ma tu obietti: è come se uno dicesse che non si può dubitare dell’esistenza di un’isola dell’oceano che è superiore per fertilità a tutte le terre, chiamata isola «perduta», per la difficoltà di trovarla, anzi per l’impossibilità di trovare ciò che non esiste – perché uno se la rappresenta facilmente quando gli venga descritta con parole. Rispondo tranquillamente che se uno mi trovasse esistente o in realtà o solo nel pensiero un altro ente a cui si possa applicare il mio argomento all’infuori di «ciò di cui non si può pensare il maggiore», troverò e gli darò anche l’isola perduta, che ormai non si perderà più. Oramai è manifesto che «ciò di cui non si può pensare il maggiore», che esiste per una ragione di verità così certa, non può essere pensato non esistente. Altrimenti non potrebbe esistere in nessun modo. E se uno dice di pensarlo non esistente, gli rispondo che, quando lo pensa, o pensa qualcosa di cui non si può pensare il maggiore, o non lo pensa. Se non lo pensa, non pensa che non esista, poiché non può pensare che non esista ciò che egli non pensa. Se poi lo pensa, deve pensare qualcosa che non può neppure essere pensato non esistente. Se infatti potesse essere pensato non esistente, si potrebbe pensare che avesse un principio e una fine. Ma l’ente di cui non si può pensare il maggiore non può avere inizio o fine. Dunque chi lo pensa, pensa qualcosa che non può neppure essere pensato non esistente. E chi lo pensa, non pensa che esso non esista. Altrimenti penserebbe ciò che non può essere pensato. Dunque non si può pensare che non esista ciò di cui non si può pensare il maggiore. § 4 Quando poi osservi che meglio si direbbe non può conoscere che questa somma realtà non esiste o possa non esistere, piuttosto che non si può pensare che essa non esista, insisto che si doveva proprio dire: non può essere pensata non esistente. Se infatti avessi detto: non si può conoscere che quella realtà non esista – forse tu stesso che dici che nel significato proprio di questo verbo non si possono conoscere le cose false, obietteresti che nulla di ciò che esiste può esser conosciuto come non esistente. È falso infatti che ciò che è non sia. E perciò non è proprio di Dio il non poter essere conosciuto come non esistente. Ma se si può conoscere che non esista una delle cose che certissimamente esistono, si potrà conoscere similmente che non esistano anche le altre cose certe. Ora questa obiezione, a guardar bene, non si può fare a proposito del pensiero. Infatti, anche se nessuna cosa esistente potesse essere veramente conosciuta come non esistente, tutte però possono essere pensate non esistenti, all’infuori del sommo ente. Possono infatti esser pensate non esistenti tutte quelle cose, e solo quelle, che hanno inizio o fine o congiunzione di parti, e, come ho già detto, tutto ciò che non è tutto in un determinato luogo o in un determinato tempo. Non può invece esser pensato non esistente soltanto quell’essere in cui non vi è né inizio né fine né congiunzione di parti e che il pensiero trova sempre e dappertutto.

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Teologia e discorso filosofico in Abelardo

1. Abelardo, Sic et Non Poiché in una moltitudine tanto grande di parole anche molti detti dei santi sembrano non solo esser diversi l’uno dall’altro ma addirittura opposti fra loro, non si deve temere di giudicare coloro da cui il mondo stesso deve esser giudicato, come è scritto: “I santi giudicheranno i popoli” e ancora: “Siederete anche voi e giudicherete”. Non presumiamo di dimostrare che sono tanto mendaci o che sono da disprezzare perché sono così erronei coloro ai quali è stato detto da Dio: “Chi vi ascolta, ascolta me e chi vi disprezza, disprezza me”. Perciò, facendo appello alla nostra infermità, crediamo che manchi a noi la grazia nel comprendere piuttosto che sia mancata quella nello scrivere a quelli ai quali dalla stessa Verità è stato detto: “Non siete infatti voi che parlate, ma lo Spirito del padre vostro che parla in voi”. Perché dunque stupirsi se, essendo in noi assente lo stesso spirito per il quale quelle cose sono state scritte e dettate e anche indotte dallo stesso in coloro che scrivevano, a noi manca la comprensione degli stessi? Alla quale ci impedisce di arrivare soprattutto il modo inconsueto del discorso e ancor più il diverso significato delle stesse parole, poiché lo stesso vocabolo viene detto ora con questo significato ora con quello. Certamente, ciascuno come eccede nel proprio significato così anche nei suoi vocaboli. E dal momento che secondo Cicerone “in ogni cosa l’identità è madre della sazietà”, cioè genera tedio, è opportuno anche variare gli stessi vocaboli nel trattare la stessa cosa e non svelare ogni cosa con termini volgari e comuni; le quali cose, come dice il beato Agostino, per questo sono ricoperte, affinché non perdano di valore, e così sono tanto più gradite quanto sono studiate con maggiore cura e più difficilmente acquisite. Spesso inoltre, a causa della diversità di coloro con cui parliamo, è opportuno cambiare i vocaboli, poiché spesso accade che il significato proprio dei termini è ignoto o meno familiare alla maggior parte delle persone. Se dunque vogliamo, com’è opportuno, parlare con loro della dottrina, occorre tentare di imitare più l’uso che essi fanno del linguaggio che la sua natura, come insegna lo stesso principe della grammatica e ordinatore dei linguaggi, Prisciano. Poiché anche l’acutissimo dottore della Chiesa, il beato Agostino, allorché nel quarto libro Sulla dottrina cristiana istruisce il dotto ecclesiastico, considerando tutte quelle cose che ostacolano l’intelligenza di coloro ai quali si rivolge, ammonisce a rifuggirle e a trascurare tanto la ricercatezza quanto la natura del discorso, se da parte di questi è possibile raggiungere più facilmente la comprensione. Dice: “Colui che insegna non si preoccupi di quanta eloquenza insegna ma di quanta chiarezza. Il desiderio scrupoloso talvolta trascura i termini più ricercati. Per cui qualcuno dice, parlando di un tal genere di stile, che in esso vi è una qualche scrupolosa negligenza”. … Perché dunque meravigliarsi se talvolta anche dai santi padri è stato pronunciato o anche scritto qualcosa in base all’opinione piuttosto che alla verità? È necessario discutere con scrupolo anche questo, quando sullo stesso argomento si dicono cose diverse, che cosa sia diretto al vincolo del precetto, che cosa alla remissione dell’indulgenza o all’esortazione della perfezione, affinché in base alla diversità delle intenzioni ricerchiamo il rimedio del male. Se dunque si tratta di un precetto, occorre esaminare se sia generale o particolare, cioè se sia diretto a tutti senza distinzioni oppure in modo specifico ad alcuni. Si deve anche distinguere il tempo e le cause delle cose dispensate, poiché spesso ciò che viene concesso in un tempo è lo stesso che si trova proibito in un altro, e ciò che spesso viene prescritto in ragione del rigore talvolta viene stabilito come concessione. Tuttavia, è necessario distinguere queste cose soprattutto nelle disposizioni dei decreti e dei canoni ecclesiastici. Si troverà poi più facilmente la soluzione di molte controversie se potremo rendere ragione delle stesse parole utilizzate dai diversi autori con diversi significati.

Il lettore scrupoloso cercherà di risolvere le controversie negli scritti dei santi padri in tutti questi modi predetti. Poiché, se una controversia evidente fosse così forte da non poter essere risolta

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con nessuna argomentazione, occorre confrontare le autorità e attenersi preferibilmente a quella che gode della considerazione più alta e della maggiore solidità. … Esaminate dunque queste cose è bene, come abbiamo stabilito, confrontare le diverse affermazioni dei santi padri che siano occorse alla nostra memoria a motivo della dissonanza che possono avere suscitato nella discussione, le quali stimolino i sensibili lettori alla più elevata pratica della verità da ricercare e li rendano più acuti grazie alla ricerca. In realtà, questa prima chiave della sapienza è individuata nel porre domande in modo assiduo o frequente; al conseguimento della quale mediante il desiderio più grande, quel filosofo perspicacissimo che è Aristotele, nel discorso sulla relazione, esorta gli studiosi dicendo: “Forse è difficile parlare in modo certo delle cose di tal genere se non siano state trattate a lungo. Tuttavia, non sarà inutile dubitare delle singole questioni”. Infatti, è dubitando che giungiamo alla ricerca; ricercando cogliamo la verità. Cosa su cui la stessa Verità afferma: “Cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto”. La Verità, del resto, istruendoci moralmente col proprio esempio, a circa dodici anni di età volle esser trovata mentre sedeva e poneva domande in mezzo ai dottori, mostrandoci per quale sia la disposizione del discepolo attraverso il domandare prima che quella del maestro attraverso il proclamare, pur essendo egli stesso la piena e perfetta sapienza di Dio. Quando allora sono presenti alcuni detti della Scrittura, tanto più stimolano il lettore e lo invitano alla ricerca della verità, quanto più egli rende illustre l’autorità della stessa Scrittura.

2. Abelardo, Scito te ipsum § 1. Chiamiamo costumi i vizi o le virtù dell’animo, che ci rendono proni alle opere buone o malvagie. Vi sono però vizi o beni non solo dell’animo ma anche del corpo, come la debolezza o la fortezza del corpo, che chiamiamo forze, la pigrizia o la rapidità, l’essere claudicante o il camminare eretto, la cecità o la vista. Perciò, a differenza di simili cose, quando abbiamo detto ‘vizi’, abbiamo premesso ‘dell’animo’. Questi vizi poi, cioè quelli dell’animo, sono contrari alle virtù, come l’ingiustizia è contraria all’ingiustizia, l’ignavia alla costanza, l’intemperanza alla temperanza. Ci sono anche molti vizi o beni dell’animo che sono distinti dai costumi e non rendono la vita umana degna di vituperio o di lode, come nel caso della lentezza dell’animo o della rapidità d’ingegno, l’essere smemorato o l’avere memoria, l’ignoranza o la scienza. Certo tutte quelle cose, poiché sono comuni allo stesso modo ai reprobi come ai buoni, non riguardano in nulla la disposizione dei costumi né rendono la vita turpe o onesta. Perciò, correttamente quando abbiamo premesso all’inizio ‘vizi dell’animo’, per escludere questi tali abbiamo aggiunto ‘che ci rendono proni alle opere malvagie’, cioè inclinano la volontà verso qualcosa che in misura minima è bene compiere o perdonare. § 2. Tuttavia, il vizio dell’animo di questo genere non è la stessa cosa del peccato, né il peccato è la stessa cosa che l’azione malvagia. Ad esempio: essere iracondo, cioè prono o facile ad essere trasportato dalla passione impetuosa, è un vizio e inclina la mente a compiere un’azione in modo impetuoso e irrazionale, cosa che è assai poco opportuna. Questo vizio dunque è nell’anima, così che essa è facile ad adirarsi anche quando non è spinta all’ira, come l’essere claudicante, circostanza per cui un uomo viene detto claudicante, è presente in quello stesso uomo anche quando non cammina claudicando, perché il vizio è presente anche quando non è presente l’azione. Così la stessa natura o la complessione del corpo rendono proni molti uomini alla lussuria come all’ira. E tuttavia non peccano per questo stesso modo di essere, poiché sono in tal modo, ma ricavano da questo motivo di lotta, così che, trionfando su se stessi attraverso la virtù della temperanza, ricevono la corona, secondo quelle parole di Salomone: Colui che è paziente è migliore dell’uomo forte, il quale è dominato dal suo animo, e che espugna le città. Infatti, la religione non ritiene di essere vinta dall’uomo ma dal vizio turpe. Certo, il primo è proprio anche degli uomini buoni, col secondo “ci allontaniamo dai buoni”. Raccomandandoci questa vittoria l’Apostolo dice: Questi non riceverà la corona se non avrà lottato bene. “Avrà lottato”, dico, ‘non tanto resistendo agli uomini quanto ai vizi, affinché cioè non ci trascinino nella congiura dei malvagi’. Le quali cose [i vizi],

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anche se avessero fine gli uomini, non cesserebbero di assalirci, poiché è tanto più pericolosa la lotta contro di loro quanto è più frequente e tanto più luminosa la vittoria quanto più è difficile. Gli uomini del resto, anche se prevalgono, non portano nulla di turpe alla nostra vita, se non quando in conseguenza del costume dei vizi e avendoci, per così dire, convertiti ai vizi essi ci soggiogano ad un consenso turpe. Sebbene quelli dominino il corpo, finché l’animo sarà libero, niente della vera libertà sarà in pericolo, non incorreremo in nulla che riguardi la servitù riprovevole. Infatti, non è turpe servire l’uomo ma il vizio, e non deturpa l’anima il dedicarsi alla cura del corpo ma l’essere soggetta ai vizi. Tutto ciò che infatti è ugualmente comune ai buoni e ai cattivi non si riferisce in alcun modo al vizio o alla virtù. Perciò il vizio è ciò per cui siamo resi proni a commettere peccato, cioè siamo orientati a dare il consenso a ciò che non è opportuno, così che facciamo o abbandoniamo quello. § 3. Dunque, questo consenso lo chiamiamo in senso proprio peccato, cioè colpa dell’anima, per la quale meritiamo la dannazione o che è ritenuta come colpa presso Dio. Che cos’è infatti questo consenso se non il disprezzo di Dio e l’offesa di quello? Dio infatti non può essere offeso dal danno ma dal disprezzo. Certo egli stesso è la suprema potestà che non è diminuita da alcun danno, ma punisce l’offesa che gli viene recata. Perciò il nostro peccato è il disprezzo del creatore, e peccare significa disprezzare il creatore, cioè non fare mai per lui ciò che crediamo debba esser da noi fatto per lui, o non abbandonare per lui ciò che crediamo debba essere abbandonato. Quando allora definiamo il peccato per via negativa, dicendo cioè di non fare o non abbandonare ciò che è opportuno, mostriamo chiaramente che non esiste alcuna sostanza del peccato, il quale consiste piuttosto nel non essere che nell’essere, al modo in cui, se definiamo le tenebre, diciamo che esse sono assenza di luce, là dove la luce ha esistenza. § 4. Forse potresti chiedere perché la volontà di un’opera malvagia è peccato, così che ci costituisce colpevoli di fronte a dio, come la volontà dell’opera buona ci fa giusti, in modo che, come la virtù si pone nella volontà buona, così anche il peccato in quella cattiva, non solo nel non essere ma anche, come anche quella [la virtù], nell’essere. Come infatti, volendo fare ciò che è gradito a dio, noi stessi proviamo piacere, allo stesso modo, volendo fare ciò che crediamo non sia gradito a dio, noi stessi proviamo dispiacere e ci sembra di offendere e disprezzare lui stesso. Ma affermo che se ci soffermiamo con maggior attenzione, si deve arrivare ad una conclusione ben diversa da quanto ci appare. Infatti, poiché non pecchiamo mai in ragione di ogni volontà malvagia e poiché la stessa volontà malvagia quando è frenata, ma non estinta, ottiene per coloro che resistono la palma e offre materia di lotta e conferisce la gloria della corona, non deve esser definita peccato quella quanto piuttosto una infermità che è necessaria. § 5. Ecco infatti un tale che è innocente, contro il quale il suo signore crudele è mosso a tal punto dal furore che, sguainata la spada, lo insegua per ucciderlo. Questi, dopo esser fuggito a lungo da lui, per quanto gli è possibile, per evitare la propria uccisione, costretto infine e pur non volendo, lo uccida per non essere ucciso da quello. Dimmi, chiunque tu sia, quale volontà malvagia vi è in questo fatto. Certamente egli volendo sfuggire alla propria morte voleva preservare la propria vita. Ma in che cosa questa volontà era malvagia? Diresti, come penso, che non lo è quella, quanto piuttosto quella che aveva di uccidere il padrone che lo inseguiva. Parli bene, rispondo, e con arguzia, se puoi individuare una volontà in quello che dici. Ma, come già ho detto, costui compì questo atto non volendo e costretto, poiché, fintanto che la sua vita poté essere incolume, egli lo evitò sapendo anche che incombeva per questo omicidio metteva a rischio la propria vita. In che modo allora egli ha fatto volontariamente questo gesto che commise anche mettendo a rischio la propria vita? Se tu rispondessi che anche questo è stato fatto senza volontà, ritenendo che egli è stato indotto a compiere questo gesto senza volontà, cioè quella di evitare la morte non quella di uccidere il suo signore, questo non lo contesteremmo in alcun modo.

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Ma, come si è già detto, non deve essere affatto rimproverata come malvagia questa volontà per la quale egli, come dici, voleva sfuggire alla morte e non uccidere il signore. E tuttavia, sebbene fosse costretto dal timore della morte, della ingiusta uccisione, commise peccato nel dare il proprio consenso al fatto che era più opportuno per lui salvare sé stesso piuttosto che sacrificarsi. Infatti, prese da sé la spada, da nessun potere gli venne ordinato di impugnarla. Perciò la Verità afferma: Chi prenderà la spada perirà di spada. Dice “chi prenderà la spada” ‘per precauzione, non a colui al quale è stata affidata per amministrare la vendetta’. “Perirà di spada”, cioè ‘incorrerà nella dannazione e nell’uccisione della propria anima a motivo di questa sconsideratezza’. Volle dunque, come si è detto, evitare la morte, non uccidere il signore. Poiché però prestò il proprio consenso all’uccisione alla quale non lo doveva, questo suo ingiusto consenso che precedette l’uccisione fu un peccato.

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Il mondo di lingua araba fra X e XII secolo

1. Avicenna, Metafisica, I, 1.1-2. (trad. Bertolacci) Poiché Dio, fonte di misericordia e di prosperità, ci ha dato success, ed abbiamo esposto a sufficienza le cose riguardanti le scienze logiche, naturali e matematiche, è opportuno cominciare a far conoscere adesso le cose riguardanti la sapienza. Iniziamo, invocando l’aiuto di Dio. §1.1 Noi dichiamo che le scienze filosofiche, come è stato indicato altrove nei libri precedenti di quest’opera, si dividono in scienze teoretiche e scienze pratiche. La distinzione tra questi due tipi di scienze è già stata indicata. È stato ricordato che le scienze teoretiche sono quelle in cui si ricerca la perfezione della facoltà teoretica dell’anima, la quale si ottiene grazie all’acquisizione dell’intelletto in atto. Ciò accade quando si acquisisce la conoscenza, per via di concettualizzazioni ed asseverazioni, di cose che sono ciò che sono non per il fatto di essere nostre azioni e nostri stati. Il fine delle scienze teoretiche è, dunque, l’acquisizione di un’opinione e di un convincimento che non sono un’opinione ed un convincimento riguardanti la modalità dell’azione, o la modalità del principio dell’azione in quanto principio dell’azione. È stato ricordato che le scienze pratiche sono quelle in cui si ricerca, in primo luogo, la perfezione della facoltà teoretica dell’anima grazie all’acquisizione della conoscenza, per via di concettualizzazioni ed asseverazioni, di cose che sono ciò che sono per il fatto di essere nostre azioni – per ottenere da queste scienze, in secondo luogo, la perfezione della facoltà pratica [dell’anima] per mezzo dei caratteri morali. §1.2 È stato ricordato che le scienze teoretiche sono riducibili a tre gruppi, e cioè le scienze naturali, le scienze matematiche e le scienze divine. Il soggetto delle scienze naturali sono i corpi dal punto di vista del loro essere in moto e in quiete. L’indagine che esse svolgono riguarda gli accidenti che ineriscono di per sé ai corpi da questo punto di vista. Il soggetto delle scienze matematiche è p una quantità astratta dalla materia di per sé, oppure è qualcosa dotato di quantità. Il loro oggetto di indagine sono gli stati che ineriscono alla quantità in quanto quantità; nelle definizioni di questi stati non viene assunta nessuna specie di materia e nessuna potenza di movimento. Le scienze divine indagano le cose separate dalla materia nella sussistenza e nella definizione. Hai appreso anche che la scienza divina è quella in cui si indagano le cause prime dell’esistenza naturale, dell’esistenza matematica e di ciò che dipende da queste, e la Causa delle cause ed il Principio dei principi, cioè la divinità.

2. Maimonide, Guida dei perplessi I, 54 (trad. Zonta) Sappi che il maestro di color che sanno, ‘Mosè nostro maestro’, pose due questioni ed ebbe risposta a tali questioni. La prima questione consistette nel chiedere a Dio di fargli conoscere la Sue essenza e la Sua realtà. La seconda questione, ed è quella che Gli pose per prima, fu di fargli conoscere i Suoi attributi. La risposta Dio alle due questioni consistette nella promessa di fargli conoscere tutti i Suoi attributi, di fargli sapere che la Sua essenza non può essere percepita per quello che è. Egli però alludeva ad un livello di speculazione con il quale l’uomo può percepire il massimo di ciò che è in grado di percepire a questo proposito. Ora, ciò che percepì Mosè non lo aveva percepito nessuno prima, e nessuno lo avrebbe percepito dopo. La sua richiesta di conoscere gli attributi divini consiste nel suo detto: ‘Fammi conoscere le Tue vie e io Ti conoscerò ecc.’ Rifletti ora su ciò che di meraviglioso racchiude questo detto. Dire: ‘Fammi conoscere le Tue vie ed io T conoscerò’ è una prova del fatto che Dio viene conosciuto mediante i Suoi attributi, perché conoscere le ‘vie’ è conoscere Lui. Il detto di Mosè ‘affinché io trovi grazia ai Tuoi

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occhi’ è prova del fatto che chi conosce Dio è colui che ‘trova grazia ai Suoi occhi’: costui, dunque, non è chi si limita a digiunare e pregare, ma chiunque Lui conosca, ossia colui che è favorito e vicino a Lui, mentre chi Lo ignora è colui che Gli dispiace ed è lontano da Lui. Il favore e il disfavore, la vicinanza e la lontananza sono in misura della conoscenza e dell’ignoranza di Dio. Siamo però usciti dallo scopo del presente capitolo.

3. Averroè, L’incoerenza dell’incoerenza dei filosofi, conclusione (trad. Campanini) Al-Gazali accusa i filosofi di miscredenza su tre questioni. La prima è questa dell’immortalità dell’anima, ma noi abbiamo detto quale sia la vera opinione dei filosofi e che, secondo loro, si tratta comunque di un problema speculativo. La seconda è la teoria per cui Dio non conoscerebbe i particolari, ma anche qui abbiamo dimostrato che tale non è l’opinione dei filosofi. La terza è l’eternità del mondo, ma noi abbiamo provato che con siffatta espressione i filosofi intendono una cosa diversa da quella per cui sono accusati di miscredenza dai teologi. Al-Gazali asserisce in questo suo libro che nessun musulmano crede in una resurrezione puramente spirituale, ma in un altro libro però afferma che tale sarebbe l’opinione dei mistici sufi. Coloro che credono in una resurrezione spirituale, ma non sensibilmente percepibile, non sono dichiarati miscredenti dal consenso comunitario (igma), il quale anzi permette di credere in una resurrezione spirituale. Ma in un libro ancora, Al-Gazali ribadisce le accuse di miscredenza fondandole sul consenso comunitario. Come si vede c’è una gran confusione. Non vi è dubbio che quest’uomo sbagli nelle questioni religiose come sbaglia riguardo alla sapienza filosofica (hikmah). Dio soccorre nel trovare la verità ed Egli comunica la verità a chi vuole!

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Philosophia: usi, lessico e polemiche nella prima metà del XII secolo

1. Abelardo, Theologia scholarium Che cos’altro può significare, infatti, il dire che Dio si è fatto uomo se non che la divina sostanza, che è spirituale, ha unito a sé la sostanza umana, che è corporale, nell’unità della persona? Infatti ciò che è spirituale non può essere reso corporeo. Ma in quell’unione realizzata nella persona di Cristo, nella quale sono conciliate tre nature, la divinità del Verbo, l’anima e la carne, ciascuna di queste tre sostanze mantiene la propria natura in modo tale che nessuna si trasformi nell’altra; così la divinità che è congiunta all’umanità non diviene anima o carne, come non è possibile che l’anima diventi carne, anche se in ogni uomo l’anima e la carne sono una sola persona. Mentre l’anima infatti è un’essenza spirituale e semplice, la carne è un’entità corporea umana e composta di parti. È dunque assolutamente impossibile che la seconda si trasformi nella prima, la quale in nessun modo può in sé avere parti quantitativamente divisibili. Il Signore stesso mostra ciò chiaramente quando dice: «Toccate e vedete in me» (Lc. 24, 39). Comunque l’anima e la carne, reciprocamente congiunte in un’unica persona, mantengono ciascuna la propria specifica natura, in modo che l’una non si trasformi nell’altra (in questo caso infatti non diremmo che sono due), così la divinità unita all’umanità, cioè associata entro un’unica persona allo stesso tempo all’anima umana e alla carne, non assume la natura dell’altra, in modo tale che la sostanza spirituale e divina che ha assunto l’uomo si trasformi nella sostanza corporea: piuttosto, rimane pienamente ciò che era prima. ha assunto ciò che era nostro senza perdere ciò che era suo. Inoltre non ci si può trasformare in altro, senza cessare di essere ciò che si era prima. Prima era una sostanza spirituale unita alla nostra sostanza corporea, ora continua a essere spirituale come prima, senza essere divenuta corporea. […] In virtù di questa unità di persona, quando si dice che Dio si è fatto uomo o si ammette che diventa diverso da ciò che era prima, ciò deve essere inteso non nei termini di un cambiamento di sostanza, ma di unità di persona: Dio ha unito a sé l’uomo in un’unica persona e ha legato a sé in questa unione un’entità in possesso di un’altra natura. Dunque Dio non si è trasformato in qualcosa di diverso da ciò che era, anche se in questa unione, come si è detto, ha unito a sé ciò che era altro da sé. Infatti le nostre anime, quando verranno unite in una sola persona ai corpi risorti, non diventeranno diverse da ciò che erano, anche se di nuovo animeranno e daranno vita al corpo e lo faranno diventare da inanimato animato, in modo tale che sarebbe più corretto affermare per questo motivo che il corpo stesso è trasformato dall’anima, e non l’anima dal corpo. Il corpo infatti migliora la propria condizione per intervento dell’anima, non l’anima per intervento del corpo, traendo da essa calore e movimento, sebbene l’anima rimanda immobile in sé stessa. Tanto meno allora si deve sostenere che Dio, al quale la creatura non può conferire nulla, nel momento in cui si unisce all’uomo, diventi perciò diverso. Dunque affermiamo che Dio è assolutamente immune da ogni cambiamento.

2. Gilberto, Commento al libro di Boezio contro Eutiche e Nestorio Fin qui [Boezio] mostrò che natura e persona sono diverse per specifiche differenze. Ora comincia a esporre e rimuovere gli errori di Nestorio e di Eutiche. E per primo espone e distrugge l’errore di Nestorio. Ovvero a dire: «Persona è individua sostanza di natura razionale»; Nestorio con la sua opinione sostiene che ciò, ossia la persona, è duplice in Cristo: vi è cioè una persona divina e una persona umana. […]

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Ma tutte queste cose non vogliamo che siano comprese se non a proposito delle cose create. Quanto segue ci dimostrerà infatti che in ciò che riguarda Dio alcuni procedimenti sono simili, altri differenti. Crediamo infatti che non tutte (e neanche nessuna) delle definizioni che in natura e in logica si danno, siano da trasferire in questioni teologiche. Perciò è compito di una filosofia particolarmente sottile e articolata distinguere i significati comuni a entrambi gli ambiti e quelli specifici di ciascuno. Abbiamo accennato a questo problema per gli inesperti, che estendono ad ogni ambito ciò che è specifico di uno solo, e utilizzano come specifico ciò che è universale. […] Ora non ci rimane che trattare ciò che poco sopra promettemmo di spiegare presto: dobbiamo cioè illustrare in che senso la fede cattolica affermi che Cristo è costituito sia da dure nature, sia in due nature. Quando sopra, argomentando contro Nestorio, affermava che l’unione tra Dio e l’uomo non era fatta kata parathesin, cioè secondo giustapposizione, ricordo che fu detto che diversi erano i modi per congiungere cose diverse fra di loro: alcune si congiungono per giustapposizione, senza dare origina a un’unica cosa, altre per composizione, dando origine a una unità. Di quelle che si uniscono per composizione, alcune si uniscono per commistione di una o di entrambe, altre senza commistione. Perciò è chiaro che ogni composito è costituito da entrambi i suoi componenti o che la sua specifica natura è costituita dalle nature di entrambi i componenti. Anche questo si verifica in molti modi, come risulta dalla precedente suddivisione. L’altro modo è ecc. […] Poi aggiunge: L’altro modo è di far consistere qualcosa di entrambe le nature, ossia intende quel qualcosa, che le due da cui è detto essere congiunto rimangono né in nessun modo, l’una nell’altra si trasformano: cioè né l’una né l’altra né in sé reciprocamente entrambe. E dimostra ciò con un esempio preso dall’artigianato dell’uomo: come quando diciamo che la corona è composta da oro e da gemme. […] Sono infatti gemme le gemme, e oro è l’oro, dei quali la corona consiste: come a dire: mantengono la loro sostanza. Non potremmo dire ciò se uno dei due componenti o entrambi nella composizione si modificassero unendosi. […] Così la fede cattolica dice che Cristo consiste in entrambe le nature, poiché entrambe rimangono immutate: ma anche da entrambe, perché la persona di Cristo, che era nell’eternità unica e senza essere composta, diventa non ciò che era, cioè una unità nella persona, ma ciò che non era, appunto unica persona in seguito all’unione di entrambe le nature. […] Poiché dunque secondo la testimonianza della sacra Scrittura «come l’anima razionale e la carne sono un unico uomo, così Dio e l’uomo formano un unico Cristo», cioè: poiché riguardo all’unico Cristo la natura divina e umana sono indicate con tali nomi (che sono propri di Cristo per queste due nature), «Dio» e «uomo», veramente, e senza la diminuzione comportata da una qualche traduzione, così come riguardo a ciascun uomo la natura dell’anima e la natura della carne sono indicate con quei nomi dai quali l’uomo è designato in virtù delle stesse nature – cioè «anima» e «carne». Posto come soggetto lo stesso Cristo, ciò che si predica di ciascuno di questi nomi si potrà predicare dell’altro e ogni cosa della natura significa per l’uno accompagna naturalmente la ragione dell’altra. […] Queste quattro e non altre, secondo la consuetudine delle cose, possono verificarsi: a riguardo delle persone e delle nature o si tratta di diverse nature e diverse persone – come Platone e Cicerone sono diversi per le loro persone e le loro nature – o di una sola persona e di una sola natura – come Dio Padre che è una persona e una è la sua natura – o di diverse nature e una sola persona – come Platone che è una persona ma di diverse nature, che sono l’anima e il corpo – o di una sola natura in persone diverse – come il Padre e il Figlio e lo Spirito che procede da entrambi, che sono persone diverse ma un’unica natura. Poiché dunque questa è la vera e perfetta articolazione delle persone e delle nature, di una o di diverse, a discutere a proposito di queste in Cristo e nella natura è necessario o che in Cristo vi siano due nature, una divina e una umana, e due persone, una Dio e una uomo, come dice Nestorio: o una sola persona,

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Cristo, e una sola natura, che proviene dall’umana convertita in divina, come dice Eutiche; o due nature, una divina e una umana, e una sola persona, Cristo, che essendo uno è Dio e uomo insieme, come crede la fede cattolica; o una natura e due persone, come ancora nessuno ha affermato.

3. Bernardo di Clairvaux, Sermo XX in Cantica canticorum Amare con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze significa dunque non lasciarsi allettare dalle seduzioni, ingannare dalle insidie o abbattere dalle sopraffazioni. Prestate attenzione: l’amore del cuore è in un certo senso un amore carnale, perché il cuore dell’uomo entra in relazione piuttosto con il corpo del Cristo, o con quelle cose che il Cristo ha compiuto od ordinato durante la sua permanenza terrena. Il cuore ricolmo di questo amore si lascia facilmente muovere a compassione ascoltando ogni discorso su questi argomenti. Non c’è nulla che il cuore ascolti con maggiore gioia, legga con maggior desiderio, studi con maggior applicazione e mediti con maggior piacere; e riempie le preghiere sacrificali, come si ingrassa un vitello. L’uomo in preghiera tiene davanti agli occhi la sacra immagine del Dio-uomo, o quando nacque, o mentre suggeva il latte o nell’atto di insegnare, o al momento della morte, o della resurrezione o dell’ascensione. Quale che sia tale immagine deve legare l’anima all’amore delle virtù, distruggere i vizi della carne, scacciare le tentazioni e spegnere le passioni. Questo è, a mio avviso, il motivo fondamentale per cui il Dio invisibile ha voluto mostrarsi nella carne e vivere come uomo tra gli uomini, cioè per spingere tutti gli affetti delle creature carnali, che non potevano amare se non nella carne, verso l’amore salvifico della sua carne, per indurli così a poco a poco verso l’amore spirituale. Non si trovano forse a questo livello coloro che dicevano: «Ecco, abbiamo abbandonato tutto e ti abbiamo seguito» (Mt. 19, 27)? Avevano abbandonato tutto, è chiaro, solo per il desiderio della sua presenza fisica, tanto che non tolleravano di sentirgli pronunziare alcuna parola relativa alla sua passione e alla sua morte imminente, per quanto questa dovesse apportar loro la salvezza, così come in seguito avrebbero assistito con grave afflizione alla sua gloriosa ascensione. Diceva loro: «Poiché vi ho detto questo, la tristezza ha invaso il vostro cuore» (Io. 16, 6). In questo modo Cristo li aveva liberati da ogni amore carnale soltanto con la grazia della sua presenza carnale.

4. Bernardo di Clairvaux, Sermo LXII in Cantica canticorum Bisogna dunque temere di scrutare la maestà di Dio; invece scrutare la volontà è cosa per nulla rischiosa, anzi è cosa santa. Perché non dovrei sforzarmi con tutto il mio impegno a scrutare il glorioso mistero della sua volontà, alla quale so bene di dover obbedire in tutto? Dolce è questa gloria, che non ha altra fonte se non la contemplazione della sua dolcezza, dei tesori della sua bontà e della sua infinita misericordia. «Noi vedemmo la sua gloria, gloria come di figlio unigenito del Padre» (Io. 1, 14). Tutto quel che è apparso di questa gloria era davvero buono e degno di un padre. È una gloria che non mi opprime, per quanto mi protenda con tutte le mie forze verso di lei; vorrei piuttosto sprofondare in lei. Infatti «a viso scoperto, riflettendola come in uno specchio, veniamo trasformati in quella stessa immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore» (2Cor. 3, 18). Veniamo trasformati, poiché ci conformiamo a lei. L’uomo si guardi però dal presumere di conformarsi a Dio, guardando alla gloria della sua maestà, invece che alla modestia della sua volontà. Motivo di gloria sarà se un giorno sentirà dire di me: «Ho trovato un uomo conforme al mio cuore» (Act. 13, 22). È il cuore dello sposo, il cuore del Padre.

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Un sapere sistematico: le scuole e Pietro Lombardo

1. Giovanni di Salisbury, Metalogicon II, 10 Quando, ancora ragazzo, raggiunsi per la prima volta la Gallia per compiere gli studi, nell’anno che seguì alla morte dell’illustre re Enrico [I] d’Inghilterra, “il Leone di giustizia”, mi recai presso il peripatetico del Paraclito, che insegnava sul Monte Sainte Geneviève. Questi era un famoso e dotto maestro ammirato dai più. Ai suoi piedi appresi i principi elementari di questa arte, assimilando, consumato dal desiderio, per quanto potevo in ragione delle mie limitate capacità, ogni parola che usciva dalla sua bocca. Dopo la sua partenza, che mi sembrò giungere troppo presto, divenni discepolo del maestro Alberico, che aveva un’alta reputazione come il migliore fra gli altri dialettici. Alberico era infatti uno dei più radicali oppositori della setta nominalista. Dopo aver trascorso almeno due interi anni sul Monte, io ebbi, quali maestri in quest’arte, Alberico e inoltre maestro Robert di Melun – quest’ultimo portava il cognome che aveva in ragione della sua attività di maestro, sebbene per nascita egli appartenesse alla nazione anglica. Alberico era sempre assai meticoloso e trovava ovunque qualcosa da discutere. Per lui nemmeno una superficie che fosse completamente liscia avrebbe potuto essere completamente libera da increspature. […] Diversamente Robert di Melun era sempre pronto a rispondere. Per abilità retorica, egli non avrebbe mai completato la propria discussione su uno specifico punto senza per prima cosa aver scelto di prendere in considerazione la tesi opposta, o mostrare con una ricercata varietà di discorsi, che c’era più di una risposta. In breve, mentre Alberico era pieno di sottili questioni, Robert era penetrante, conciso e sempre pronto a replicare. Se qualcuno avesse avutole qualità di Alberico e Robert combinate assieme, al livello a cui essi stessi le possedevano separatamente, sarebbe stato impossibile, nel nostro tempo, trovare un dialettico più valente. […] Dopo aver studiato con i suddetti maestri per due interi anni, io ero divenuto così abile nell’uso delle questioni, le regole e altri principi elementari, con i quali i maestri imbrigliano le giovani menti, e di cui i suddetti autori erano abili maestri, che queste cose mi sembravano tanto familiari quanto lo sono le mie ginocchia e le mie dita. Infatti, avevo appreso la materia [la dialettica] con tanta abilità che, con una giovanile mancanza di riflessione, io esageravo senza giustificazione nel mio tentativo di conoscere. Mi consideravo un giovane saggio, nella misura in cui conoscevo la risposta a quello che io avevo pensato. Tuttavia, tornai in me stesso e ripresi il controllo delle mie facoltà. Mi trasferii allora, …, con l’approvazione dei miei maestri, alla scuola del grammatico di Conches. Io studiai con lui per tre anni, durante i quali appresi molto e non mi dolgo del tempo così speso. In questo modo divenni discepolo di Riccardo, conosciuto come “il vescovo”. […] Alla fine dei tre anni ritornai e attesi all’insegnamento di maestro Gilberto, di cui divenni discepolo nelle questioni di dialettica e teologia. Ma troppo presto Gilberto venne trasferito. Il suo successore fu Robert Pullen, un uomo allo stesso modo lodevole per la sua virtù e il suo sapere.

2. Pietro Lombardo, Sententiae, prologo

Desiderando come la povera donna gettare qualcosa dalla nostra povertà e debolezza nel tesoro del Signore, cioè esaminare cose difficili, abbiamo osato intraprendere un’opera superiore alle nostre forze, riponendo nel Samaritano la fiducia del completamento e la ricompensa della fatica, lui che dopo aver offerto due denari per le cure dell’uomo assalito, promise di rifondere tutto se si fosse speso di più. Ci attira la verità, ma ci spaventa l’immensità della fatica; il desiderio di progredire ci incoraggia, ma ci scoraggia il timore del fallimento, il quale è vinto solo dallo zelo per la casa di Dio. Infiammati da questo zelo, ci siamo preoccupati di fortificare con gli scudi della torre di David, o piuttosto mostrare fortificata, «la nostra fede contro gli errori degli uomini carnali e ferini», di aprire i segreti delle indagini teologiche, nonché di dar notizia dei sacramenti della chiesa per quel poco che può la nostra intelligenza, «non riuscendo a buon diritto a resistere ai fratelli che ci chiedono insistentemente di metterci al servizio dei loro lodevoli desideri in Cristo con la lingua e la penna, che sono in noi come una biga trainata dalla carità di Cristo» (Agostino, De Trin. III, pr., 1).

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Tuttavia non dubitiamo che «ogni parola del discorso umano è sempre stata esposta alla calunnia e alla contestazione dei rivali. Quando infatti i moti delle volontà dissentono, cominciano a dissentire anche le opinioni della mente, e così, benché ogni affermazione sia perfetta per il solo criterio della verità, tuttavia finché ognuno ritiene o preferisce una cosa diversa l’errore dell’empietà fa muro contro la verità che non viene compresa oppure fa male, e ne risulta l’invidia della volontà. Il dio di questo mondo la produce nei figli della ribellione che non sottomettono la volontà alla ragione, né si dedicano allo studio della dottrina, ma si sforzano di adattare le parole della sapienza ai loro sogni, cercando le ragioni non di ciò che è vero, ma di ciò che piace. E l’iniqua volontà non li sollecita a comprendere la verità, ma a difendere le cose che piacciono, perché non desiderano essere istruiti nella verità, ma ascoltare le favole alle quali si sono rivolti abbandonando la verità. La loro preoccupazione è conquistare più le cose che piacciono che le cose da insegnare, e non desiderare le cose da insegnare, ma adattare l’insegnamento ai loro desideri. Hanno reputazione di sapienza per la religiosità apparente, perché alla mancanza di fede fa seguito l’ipocrisia menzognera, cosicché almeno nelle parole rimanga quella pietà che la coscienza ha ormai perduto; e questa stessa pietà simulata la rendono empia con ogni menzogna verbale, sforzandosi di corrompere la santità della fede con i principi della falsa dottrina, e sollecitando negli altri la curiosità di ascoltare cose nuove tramite i nuovi dogmi conformi ai loro desideri. Essi, amando la contesa, combattono senza requie contro la verità. Infatti tra l’affermazione della verità e la difesa di ciò che piace c’è una continua battaglia, perché la verità afferma sé stessa, e la volontà dell’errore resiste» (Ilario di Poitiers, De Trin. X, 1). Dunque, volendo disperdere la loro assemblea detestata da Dio e tappare loro la bocca, perché non possano instillare in altri il veleno della loro malvagità, e volendo innalzare in un candelabro la lucerna della verità, con molta fatica e sudore abbiamo realizzato, con l’aiuto di Dio, un volume composte di testimonianze di verità stabili in eterno, diviso in quattro libri. In esso troverai gli esempi e l’insegnamento dei nostri Padri; in esso tramite la genuina professione di fede del Signore abbiamo denunciato il carattere ingannevole della dottrina velenosa, abbracciata la strada della dimostrazione della verità senza correre il rischio di una dichiarazione empia, usando una equilibrata moderazione tra le due cose. E se da qualche parte anche la nostra voce è un poco risuonata, mai si è allontanata dai confini dei Padri. «Questo mio lavoro non deve quindi apparire superfluo a nessuno, sia egli un pigro o una persona molto dotta, dato che a molti né pigri né dotti, e fra questi anche a me, esso è non poco necessario», perché riassume in un breve volume le sentenze dei Padri, citando le loro testimonianze; in tal modo non è necessario per chi ricerca sfogliare una gran quantità di libri, giacché gli offre raccolte senza fatica quelle brevi cose che cerca. E per questo trattato «desidero non soltanto un lettore benevolo, ma anche un critico libero di spirito, soprattutto dove la questione della verità è importante: magari questa avesse tante persone che propongono soluzioni, quante avanzano obiezioni!» (Agostino, De Trin III, pr., 1). E affinché si trovi più facilmente ciò che si cerca, abbiamo premesso i titoli con cui sono distinti i singoli capitoli.

3. Pietro Lombardo, Sententiae, III, d. 5, 3. Perché [Cristo] non assunse la persona dell’uomo, dal momento che ne assunse l’umanità. Non assunse la persona umana, perché quella carne e quell’anima non erano unite in una sola persona, che egli avrebbe potuto assumere. Infatti la persona non era costituita da esse quando il Verbo si unì loro: si unirono reciprocamente nel momento in cui si univano al Verbo. Ma quei due elementi, cioè anima e carne, sono uniti fra loro con un certo tipo di unione, mentre con il Verbo sono uniti mediante un altro tipo, perché una è l’unione dell’anima con la carne, un’altra quella del Verbo con quell’anima e quella carne. Perciò il Verbo di Dio non assunse la persona dell’uomo, ma la natura, perché quella carne e quell’anima non costituivano una persona che il Verbo avrebbe accolto, bensì egli le unì ricevendole e le ricevette unendole. Obiezione con cui alcuni vogliono dimostrare che la persona assunse la persona. Qui alcuni oppongono che la persona assunse la persona: «Persona è infatti sostanza razionale di natura individuale». Ma questo è l’anima; dunque, se assunse l’anima, assunse anche la persona. Tuttavia la deduzione non è valida: perché l’anima non è la persona quando è unita in modo personale a un’altra cosa, bensì quando è da

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sola. Staccata dal corpo, infatti, è persona, come un angelo. Ma quell’anima non esistette mai senza essere unita a un’altra entità: perciò non è vero che assumendo quella viene assunta anche la persona. […] Risposta in precisazione alle asserzioni precedenti. Ma poiché è illecito dire o sentire ciò, le espressioni suddette e quelle simili a esse vanno interpretate in questo senso: che l’uomo-Cristo, sia quel determinato uomo sia un uomo qualsiasi, si dice assunto dal Verbo o unito al Verbo, non perché la persona dell’omo sia stata assunta o unita al Verbo, ma perché sono state assunte e unite al Verbo quell’anima e quella carne in cui consiste la persona di Dio e dell’uomo: in modo che, quando la Scrittura afferma con simili espressioni che fu assunto o unito, che fu l’uno o l’altro, si intenda la natura dell’uomo e non la persona. Perciò quando si chiede, senza addurre un’autorità, se qualcuno o un certo uomo sia stato assunto dal Verbo o unito al Verbo, non si risponda senza distinguere i significati, poiché il problema che abbiamo preso a esaminare è complesso; ma all’insistenza della richiesta si risponda con questa definizione: «Se chiedi della persona umana, rispondo di no; se chiedi della natura umana, dico di sì».

4. Pietro Lombardo, Sententiae III, d. 7, 3. Non si deve dire «uomo Signore». E sebbene si dica «uomo Dio», tuttavia non è corretto dire «uomo Signore». Agostino. Perciò Agostino nel libro delle Ritrattazioni sostiene: «Non mi sembra che si possa chiamare correttamente uomo Signore colui che è “Cristo Gesù mediatore fra Dio e gli uomini” (1Tim. 2, 5), dal momento che è certamente il Signore; a esprimermi in questo modo mi autorizza il fatto di aver letto questa espressione in alcuni trattati cattolici. Ma ogni volta che l’ho affermato, non avrei voluto dirlo. In seguito mi resi conto che non si doveva dire, sebbene si possa difendere con qualche ragione». Secondo costoro si può dire anche che la persona del Figlio consiste in due nature e da due nature, secondo l’unione e l’inerenza: una infatti si unisce a lui, l’altra gli è innata. Le asserzioni premesse non bastano a risolvere questo problema. La questione proposta prima l’ho trattata con sufficiente cura, secondo le diverse opinioni, senza postulati e preconcetti. Ma in un argomento così importante e difficile da conoscere, non voglio credere che al lettore debba bastare questa nostra discussione: legga anzi altre opere, forse più meditate e approfondite, e rifletta con animo più vigile e acuto, se può, sulle idee che qui possono provocare stupore; ma si attenga sempre saldamente a questa professione, che si trova nell’opera Sui dogmi ecclesiastici: «Dio assunse l’uomo, l’uomo passò in Dio non per una possibilità di mutazione della natura, ma per concessione divina: in modo che Dio, assumendo l’uomo, non si mutasse in sostanza umana, né l’uomo glorificato in Dio si mutasse nella sostanza divina, poiché il cambiamento o la mutabilità della natura implica una riduzione o un annullamento della sostanza».

5. Pietro Lombardo, Sententiae III, d. 10, 1. Se Cristo in quanto uomo sia una persona o qualcosa. Alcuni sono anche soliti chiedersi se Cristo, in quanto uomo, sia una persona oppure qualcosa. Discussione di entrambe le soluzioni del problema. Si presentano argomenti su entrambi gli aspetti della questione. Dimostrano infatti che è una persona con queste prove: se in quanto uomo è qualcosa, allora è una persona o una sostanza o qualcosa; ma non è altro, dunque è una persona o una sostanza. Ma se è sostanza, è razionale o irrazionale; ma non è una sostanza irrazionale, quindi è razionale. Se però in quanto uomo è una sostanza razionale, allora è una persona, perché la definizione di persona è «sostanza razionale di una natura individuale». Se dunque in quanto uomo è qualcosa, sempre in quanto uomo è una persona. Viceversa, se in quanto uomo è una persona, o è una delle tre della Trinità o è un’altra; ma non è un’altra, quindi è una delle tre della Trinità. Ma se in quanto uomo è una persona della Trinità, allora è Dio. Per queste contraddizioni e per altri motivi alcuni dicono che Cristo in quanto uomo non era una persona o qualcosa, a meno che «in quanto» esprima l’unità personale. Infatti «in quanto» ha un uso differenziato: perché talora esprime la condizione o la proprietà della natura divina o umana, talora l’unità della persona; talora indica la condizione (habitus), talora la causa. E il lettore osservi

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accuratamente il senso di questa distinzione, e la tenga presente per non confondere i significati, quando si parla di Cristo. Anche se si dice che Cristo in quanto uomo è sostanza razionale, non ne deriva però che sia persona in quanto uomo. Ma quanto è stato indotto nella dimostrazione precedente non è una derivazione logica, cioè che se Cristo in quanto uomo è sostanza razionale sia allora persona. Perché solo l’anima di Cristo è sostanza razionale, ma non è una persona, perché non agisce di per sé, ma unita a un’altra realtà. Tuttavia quella definizione di persona non vale per le tre persone (della Trinità). Altra dimostrazione che Cristo è persona. Ma tentano anche in altri modi di dimostrare che Cristo in quanto uomo è persona: perché Cristo in quanto uomo «fu predestinato» a essere «Figlio di Dio» (cfr. Rom. 1, 4). Ma è quello che è stato predestinato a essere; quindi se fu predestinato in quanto uomo a essere Figlio di Dio, sempre in quanto uomo è Figlio di Dio perché lo ottenne in quanto uomo per grazia; e tuttavia non sarebbe Figlio di Dio in quanto uomo, se «in quanto» non esprimesse l’unità della persona, in modo da significare: Figlio di Dio lo stesso che è uomo; ma ha per grazia la possibilità di essere, pur essendo uomo, Figlio di Dio. Ma se si guarda la causa, è falso: perché non è Figlio di Dio per il fatto di essere uomo.

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Traduzioni, filosofia e università

1. Giovanni di Salisbury, Metalogicon II, 13 I tre ambiti della filosofia: naturale, morale e razionale, offrono tutti materiale per l’esercizio della dialettica. Ciascuno presenta i propri problemi specifici. L’etica indaga questioni come se sia più giusto obbedire ai genitori o alle leggi quando le due cose sono in disaccordo. La fisica ricerca se il mondo sia eterno, o perpetuo, o abbia un inizio e una fine nel tempo, o se nessuna fra queste alternative sia adeguata. La logica considera se i contrari appartengano allo stesso ramo di studi tanto quanto essi implicano gli stessi termini. Perciò, ogni ambito della filosofia ha le proprie questioni. Ma mentre ciascuno studio viene rafforzato dai propri principi particolari, la logica è la loro comune serva e li supporta tutto con i suoi “metodi” o principi di ragionamento rigoroso. Dunque la logica è la più valida fra le parti della filosofia, non solo al fine di permettere l’esercizio delle nostre facoltà, ma anche in quanto strumento di un argomentare razionale e nei diversi ambiti di studio che riguardano la filosofia.

2. Giovanni di Salisbury, Metalogicon II, 16 Aristotele, Apuleio, Cicerone, Porfirio, Boezio e Agostino, così come Eudemo, Alessandro e Teofrasto, per non menzionarne altri, i cui nomi non è necessario che io enumeri sebbene essi non siano sempre famosi, tutti loro, con dedizione entusiasta, alzarono il vessillo della logica come, per così dire, la suprema arte. Tuttavia, mentre ciascuno di questi autori è illustre per ragioni sue proprie, tutti loro si preoccupano di proseguire con attenzione lungo le orme di Aristotele. Questo è così vero che il nome comune ‘filosofo’ è stato utilizzato, con una certa preminenza, con riferimento ad Aristotele. Perciò Aristotele viene chiamato ‘il Filosofo’ per antonomasia o per eccellenza. È lui che ha ordinato i metodi per raggiungere una prova ad un’arte. Partendo, come si vede, da ciò che è più elementare egli è andato avanti fino a completare con successo la struttura che si era prefisso di realizzare. Questo è chiaro a coloro che studiano e discutono le sue opere. Prendendo le parole nei loro sensi primari, cioè le parole non combinate, dalle mani del grammatico, egli ha scrupolosamente spiegato le loro differenze e implicazioni, in modo tale che esse potessero contribuire in modo più efficace alla formazione di proposizioni e alle scienze dell’invenzione e del giudizio.

3. Giovanni di Salisbury, Metalogicon IV, 7 La scienza della dimostrazione era così tanto stimata dai peripatetici che Aristotele, che per altro eccelleva su tutti gli altri filosofi praticamente in ogni campo, determinò il proprio diritto al diversamente comune nome di ‘filosofo’, come se fosse una sua prerogativa specifica quella di darci questo genere di sapere [cioè quello per via dimostrativa]. È per questo, ci viene detto, che Aristotele venne chiamato ‘il filosofo’. Se qualcuno non mi crede chieda a Burgundio da Pisa, che è la mia fonte per questa affermazione. Dal momento che questa scienza disperde le ombre dell’ignoranza e illumina il suo possessore con il privilegio della prescienza, è spesso servita come lampada per guidare dalle tenebre alla luce gli accademici, con i quali apertamente professione il nostro accordo su questioni che rimangono dubbie per un uomo saggio. E proprio come, all’inizio, Aristotele, elaborando un metodo di analisi degli argomenti, rese abile colui che giudica, così qui egli eleva il proprio discepolo alla posizione autorevole del maestro. Cosa che è in un ordine ben disposto, dal momento che colui che ha assolto in modo credibile la funzione di giudice merita di essere elevato alla cattedra del maestro.

4. Il corpus vetustius di Aristotele Organon (Categorie, De interpretatione, De elenchis sophisticis, Analytica Priora, Analytica Posteriora, Topica) Fisica De caelo De generatione et corruptione Meteorologica (col De mineralibus di Avicenna) De plantis di Nicola Damasceno

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De anima De memoria De snesu De somno (col De insomniis) De morte et vita (cioè il De longitudine et brevitate vitae) De differentia spiritus et animae di Qustâ ben Lûqâ Liber de causis Metaphysica (I-IV) Ethica Nova (libro I) Ethica Vetus (libri II-III)

5. Giovanni di Salisbury, Metalogicon IV, 6 La scienza degli Analitici Secondi è estremamente sottile e qualcosa che solo poche menti sono in grado di affrontare. Questo fatto è evidente per due ragioni. In primo luogo, l’opera discute l’arte della dimostrazione, che è la più impegnativa fra tutte le forme di ragionamento. In secondo luogo, la suddetta arte, sino ad oggi, è di fatto caduta in disuso. Oggi nessuno impiega la dimostrazione, eccezion fatta per i matematici, e anche fra loro essa è divenuta quasi esclusivamente riservata ai geometri. Tuttavia, lo studio della geometria non è così noto fra noi, mentre questa scienza e largamente diffusa nella regione dell’Iberia e nei confini dell’Africa.

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Le Università e la Philosophia: un ideale di cultura

1. Boezio di Dacia, De summo bono Poiché in ogni specie di ente vi è un qualche sommo bene possibile, e l’uomo è una certa specie di ente, è necessario che vi sia un qualche sommo bene possibile per l’uomo. Non parlo del sommo bene in senso assoluto, ma di quello che è più alto per lui [cioè per l’uomo]; infatti i beni possibili per l’uomo hanno un termine e non procedono all’infinito. Tuttavia, che cosa sia questo sommo bene, che è possibile per l’uomo, lo ricercheremo utilizzando la ragione. Il sommo bene che è possibile per l’uomo è a lui dovuto in ragione della sua virtù più elevata. Infatti, non consegue dall’anima vegetativa, che è propria delle piante, né dall’anima sensitiva, che è propria delle fiere, e dalla quale derivano anche i piaceri sensibili delle fiere. Al contrario, la più alta virtù dell’uomo è la ragione e l’intelletto: infatti il più elevato stile di vita umana consiste tanto nello speculare che nell’operare. Dunque, il sommo bene che è possibile all’uomo è a lui dovuto quanto all’intelletto. E perciò devono dolersi gli uomini che si soffermano solo sui piaceri dei sensi, per il fatto che essi omettono i beni intellettuali, poiché non attingono mai dal proprio sommo bene. Essi sono dediti solo ai sensi così che non ricercano quello che è il bene dello stesso intelletto. Contro di loro il Filosofo afferma: «Guai a voi uomini che siete annoverati nel numero delle fiere poiché non comprendete quel che di divino è in voi!». Chiama quindi divino nell’uomo l’intelletto: se infatti nell’uomo vi è qualcosa di divino, è bene che questo sia l’intelletto. Come infatti ciò che in tutta la totalità degli enti è ottimo questo è anche divino, così anche ciò che nell’uomo è ottimo questo è chiamiamo divino. […] Poiché l’intelletto primo è proprio della più alta delle virtù nel comprendere, e poiché ciò che è intelligibile è nobilissimo per il fatto di comprendere, poiché è l’essenza di esso stesso – che cosa infatti l’intelletto divino può comprendere di più nobile che l’essenza divina? – allora ha una vita assai desiderabile. Perciò, poiché non vi è un bene più grande che possa riguardare l’uomo attraverso l’intelletto speculativo che la conoscenza della totalità degli enti che sussistono in ragione del primo principio e attraverso questa del primo principio, per quanto è possibile, e il piacere in questo, allora ne consegue quanto si è concluso più sopra, che cioè il sommo bene, che è possibile per l’uomo in ragione dell’intelletto speculativo, è la conoscenza del vero nelle cose singole e il piacere che si prova in quello stesso atto.

Inoltre, il sommo bene che è possibile all’uomo in ragione dell’intelletto pratico è il compimento del bene e il piacere che si prova in questo. Che cosa infatti può essere più buono per l’uomo in ragione dell’intelletto pratico che l’agire secondo il medio che può essere scelto in tutte le azioni umane e provare piacere in quello? Infatti, non è giusto se non colui che prova piacere nelle opere della giustizia. E allo stesso mood si deve intendere riguardo alle opere delle altre virtù morali.

Da quanto si è detto si può evidentemente concludere che il sommo bene che è possibile all’uomo è la conoscenza del vero e il compiere il bene e il piacere che prova in entrambe le cose.

E dal momento che il sommo bene che è possibile all’uomo è la sua beatitudine, ne consegue che la conoscenza del vero e il compiere il bene e il piacere che prova in entrambe le cose è la beatitudine umana. Per questo infatti l’arte militare è ordinata nella città dal legislatore, affinché, respinti i nemici, i cittadini possano divagare attraverso le virtù intellettuali contemplando il vero e con le virtù morali compiendo il bene e vivano una vita beata; in queste due cose infatti consiste la vita beata. Questo è il bene più alto che l’uomo può ricevere da Dio e che Dio può dare all’uomo in questa vita. […] Tutte le virtù che sono nel filosofo operano secondo l’ordine naturale: ciò che viene prima in ragione di ciò che viene dopo e ciò che è inferiore in ragione di ciò che è superiore e più perfetto. Dunque, tutti

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gli altri uomini che vivono secondo le virtù inferiori scegliendo le azioni proprie di quelle e i piaceri, che sono in quelle azioni, sono ordinati in modo innaturale e commettono peccato contro l’ordine naturale. Infatti, la deviazione dell’uomo dall’ordine naturale è un peccato nell’uomo e poiché il filosofo non devia da questo ordine, per questo motivo non compie peccato contro l’ordine naturale. […] Il filosofo che considera tutte queste cose è condotto all’ammirazione di questo primo principio e all’amore di quello, poiché noi amiamo ciò da cui provengono i nostri bene e soprattutto amiamo ciò da cui provengono i nostri beni più grandi. Perciò il filosofo, che sa che tutti i suoi beni vengono da questo primo principi e che gli sono conservati da esso, per quanto sono conservati, attraverso questo primo principio è indotto all’amore più alto di questo primo principio sia secondo la retta ragione della natura sia secondo la retta ragione intellettuale. E dal momento che colui che prova piacere in ciò che ama e soprattutto prova piacere in ciò che ama in sommo grado, e il filosofo ha amore soprattutto del primo principio, come si è detto, ne consegue che il filosofo prova piacere soprattutto nel primo principio e nella contemplazione della sua bontà. E questo solo è il retto piacere. Questa è la vita del filosofo, la quale, chiunque non la abbia non ha una vita retta. Chiamo quindi filosofo ogni uomo che viva secondo il retto ordine della natura e che abbia acquisito il più alto e l’ultimo fine della vita umana. Il primo principio di cui si è parlato è Dio glorioso e sublime, che è benedetto nei secoli dei secoli. Amen.

2. Tommaso d’Aquino, Commento all’Etica Così come afferma il Filosofo all’inizio della Metafisica, la sapienza consiste nell’ordinare. La ragione di ciò consiste nel fatto che la sapienza è la più potente perfezione della ragione, di cui è proprio conoscere l’ordine delle cose; infatti, anche se le forze della sensibilità conoscono certe cose in modo assoluto, tuttavia conoscere l’ordine di una cosa, in relazione all’altra è compito solo dell’intelletto o ragione.

Ma nelle cose si trova un duplice ordine. Uno è l’ordine delle parti di un certo tutto, o di una certa molteplicità nel suo relazionarsi, come le parti di una casa si ordinano una in connessione con l’altra, ma altro è l’ordine delle cose relativo al loro fine, e questo ordine è più importante del primo. Infatti, come dice il Filosofo nell’undicesimo libro della Metafisica, l’ordine delle parti di un esercito si determina in virtù del rapportarsi dell’esercito stesso a chi comanda.

Ma l’ordine viene paragonato alla ragione in quattro modi. C’è un ordine che la ragione non crea, ma soltanto osserva, e questo è l’ordine delle cose naturali. Ma vi è un secondo ordine che la ragione crea nell’osservare, e lo fa con atto proprio, per esempio quando ordina i propri concetti gli uni in relazione agli altri, e i segni di tali concetti che appunto si chiamano vocaboli in grado di conferire un significato. Vi è poi un terso ordine che la ragione determina nell’osservare le attività della volontà. Il quarto ordine infine è quello che la ragione crea osservando le cose esterne, quelle che essa stessa produce, come è il caso di un forziere o di una cassa.

E poiché l’osservazione della ragione si realizza grazie al proprio modo di essere scientifico secondo questi diversi ordini, che propriamente la ragione considera, vi sono altrettante scienze diverse. Infatti proprio della filosofia naturale è osservare l’ordine delle cose, che la ragione umana considera ma non crea. Perciò in ciò che comprendiamo sotto il titolo di filosofia naturale vi sono anche la matematica e la metafisica. L’ordine poi che la ragione crea, osservando in virtù di un atto proprio, è caratteristico della filosofia razionale, il cui compito consiste nell’osservare l’ordine delle parti di un discorso nel loro reciproco relazionarsi, e l’ordine dei principi nei sillogismi conclusivi. L’ordine poi delle azioni volontarie è proprio della filosofia morale. Infine, quello che la ragione fa nel dominio delle cose esteriori, formatesi grazie alla ragione umana, è proprio delle arti meccaniche.

È dunque proprio della filosofia morale intorno alla quale discute il presente testo, osservare le azioni umane, in quanto sono ordinate l’una in relazione all’altra e in direzione di un fine. Di tali operazioni affermo poi che provengono dalla volontà dell’uomo, secondo l’ordine della ragione. Infatti, se si riscontrano nell’uomo attività che non soggiacciono alla volontà e alla ragione, queste non

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possono essere dette propriamente umane, ma naturali, come risulta dalle attività dell’anima vegetativa, che in nessun modo possono essere oggetto di considerazione da parte della filosofia morale. Giacché dunque oggetti della filosofia naturale sono il movimento o le cose in movimento, allora oggetto della filosofia morale è l’attività umana ordinata ad un fine, o anche l’uomo in quanto agisce in vista di un fine sulla base della sua volontà.

Occorre poi sapere che, giacché l’uomo è naturalmente un animale sociale, in quanto la sua vita abbisogna di molte cose, che non è in condizione di procurarsi da solo, ne consegue che l’uomo è naturalmente parte di una moltitudine in cui può trovare un aiuto per vivere bene.

Per questo abbisogna di due cose. In primo luogo, per quelle cose che sono necessarie alla vita, senza le quali la vita presente non può continuare, viene in aiuto dell’uomo la comunità domestica, di cui egli è parte. Infatti, ogni uomo riceve dai suoi genitori la vita, il nutrimento e l’educazione. E analogamente anche i singoli che fanno parte di una famiglia, si aiutano fra di loro in vista delle cose necessarie alla vita.

In altro modo, l’uomo dipende dalla moltitudine di cui è parte, in vista di una vita sufficientemente compiuta, non solo in vista della sua mera sopravvivenza, ma perché possa vivere avendo tutte quelle cose che gli sono sufficienti per vivere. Così è di aiuto per l’uomo la società civile, di cui egli stesso è parte, non solo in vista delle cose che attengono al corpo, sebbene nella civitas vi siano molte cose fatte dall’uomo, che una famiglia da sola non può procurarsi, ma anche quanto alle cose morali, poiché giovani insolenti sono costretti dal potere pubblico a comportarsi bene per paura di una pena in quanto l’ammonimento paterno non è sufficiente a correggerli.

È da sapersi poi che questa totalità, che è formata o dalla società civile o dalla famiglia, possiede solo l’unità data dall’ordine, secondo la quale non vi è nulla di semplicemente uno. E perciò la parte di questa totalità può fare un’attività che non è l’operazione di tutta la totalità, come un soldato nell’esercito può compiere un’attività che non è di tutto l’esercito. Nondimeno questa totalità può effettuare una qualche attività, che non è propria di una qualche parte, ma della totalità stessa, per esempio, l’attacco di un esercito nel suo complesso. E il procedere della nave è operazione della moltitudine che la trae. Poi tutta l’altra totalità è ciò che ha unità non solo nell’ordine, ma nella composizione o nel legame o anche nella continuità, e secondo questa unità vi è semplicemente qualche cosa di uno. E perciò nessuna attività è propria della parte, che non appartenga anche all’intero. Infatti, nella cosa continuativa è presente tanto il movimento del tutto, tanto il movimento della parte stessa, e analogamente nelle cose composte l’attività della parte è principalmente attività dell’intero. Perciò è necessario che una considerazione della totalità e delle sue parti sia presente in ogni scienza. Tuttavia, la considerazione della totalità, in cui l’unità si trova nell’ordine delle parti, non è pertinente all’ambito di questa scienza, che ha solo l’unità dell’ordine e delle sue stesse parti.

Perciò la filosofia morale viene articolata in tre parti, di cui la prima considera il fine delle attività di un solo uomo ordinate ad un fine, e questa viene chiamata monastica. Ma la seconda parte riguarda le attività della comunità familiare, e viene chiamata crematistica. La terza infine l’attività della comunità statale, e viene chiamata politica.

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Da Averroè a Étienne Tempier: una questione epistemologica

1. Averroè, Il trattato decisivo sull’accordo della religione con la filosofia

Il fine di questo scritto è indagare, dal punto di vista dello studio della Legge religiosa, se la speculazione filosofica e le scienze logiche siano lecite secondo il shar‘ o proibite o obbligatorie, sia perché commendevoli sia perché necessarie. Invero, Abu Hamid (al-Ghazali) li (cioè al-Farabi e Ibn Sina) taccia di miscredenza nel suo noto libro L’Incoerenza dei Filosofi su tre questioni: cioè l’eternità del mondo; la non conoscenza dei particolari da parte di Dio – ma l’Altissimo è ben al di sopra di tutto ciò! –; e l’interpretazione allegorica della resurrezione dei corpi e delle (modalità) della vita futura. Il mondo sembra godere di una duplice rassomiglianza: con i singoli esistenti e con l’Eterno. Per cui, chi insiste sulla rassomiglianza del mondo con Dio piuttosto che con i contingenti, lo definisce “eterno”; mentre chi preferisce insistere sulla somiglianza coi contingenti, lo definisce “prodotto”. Ma in realtà il mondo non è propriamente né creato né eterno, poiché il creato è di necessità corruttibile, mentre l’eterno non ha alcuna causa che lo determini. C’è poi – e si intende Platone e i Platonici – chi lo chiama “prodotto e contemporaneamente coevo al tempo”, e ciò perché crede il tempo finito nel passato. È ammissibile che colui il quale, tra i sapienti, erra su queste questioni, sia scusato, mentre, se ha ragione, ottenga ringraziamenti e ricompense; egli però deve comunque accettare l’esistenza reale (dell’aldilà), e, anche se sottomettesse a interpretazione allegorica l’allegorizzabile, per esempio il modo di esistere dell’aldilà, non potrebbe negarne l’attuale realtà una simile conclusione sarebbe infatti miscredenza, poiché la vita futura fa parte dei principi fondamentali della religione, e ad essa bisogna prestare obbligatoriamente assenso.

2. Ètienne Tempier, Condanna parigina del 1270

Questi sono gli errori condannati e soggetti a scomunica assieme a tutti coloro che li insegnano consapevolmente e li asseriscono, dal signor Stefano, vescovo di Parigi, nell’anno del Signore 1270, il mercoledì successivo alla festa di san Nicola in inverno.

Il Primo articolo è: che l’intelletto di tutti gli uomini è uno e lo stesso per numero. 2. Che questa frase è falsa: l’uomo comprende 3. Che la volontà dell’uomo vuole e sceglie per necessità 4. Che tutte le cose che accadono qui nelle realtà inferiori sottostanno alla necessità determinata

dai corpi celesti 5. Che il mondo è eterno 6. Che non vi è mai stato un primo uomo 7. Che l’anima, la quale è forma dell’uomo in quanto uomo, si corrompe una volta corrotto il

corpo. 8. Che l’anima che dopo la morte è separata dal corpo non soffre per un fuoco corporeo 9. Che il libero arbitrio è una capacità passiva, non attiva, e che è mosso per necessità da ciò che

è desiderabile. 10. Che Dio non conosce le realtà individuali 11. Che Dio non conosce nient’altro all’infuori che sé stesso 12. Che gli atti degli uomini non sono retti dalla provvidenza di Dio 13. Che Dio non può dispensare l’immortalità o la non corruzione di una cora corruttibile e

mortale.

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3. Ètienne Tempier, Condanne parigine del 7 marzo 1277.

Stefano, per volontà di Dio servo indegno della Chiesa di Parigi, salute nel Figlio della Vergine gloriosa a tutti coloro che prenderanno conoscenza della presente lettera.

Un rapporto più volte giunto da persone eminenti e serie, animate da uno zelo ardente per la fede, ci ha messo a conoscenza del fatto che a Parigi alcuni uomini di studio nelle arti, oltrepassando i limiti della loro facoltà, osano esporre e disputare nelle scuole, come se non fosse possibile dubitare della loro falsità, certi errori manifesti e esecrabili, o piuttosto delle menzogne e dei falsi ragionamenti, contenuti sul rotolo o sulle schede annesse alla presente lettere – senza prestare attenzione a quelle parole di Gregorio: “Che colui che si sforza di parlare con saggezza non rischi di mettere in pericolo, col proprio discorso, l’unità del proprio uditorio”, soprattutto allorché intendono fondare questi errori, richiamati sopra, sugli scritti di pagani di cui affermano – quale onta! – che essi sono a tal punto vincolanti che, nella loro ignoranza, non sanno che cosa rispondere loro

E tuttavia, per non mostrare che essi affermano quanto insinuano in questo modo, essi dissimulano le loro risposte in modo tale che, pensando di evitare Scilla, cadono nel gorgo di Cariddi.

Dicono infatti che questo è vero per la filosofia, ma non per la fede cattolica, come se esistessero due verità contrarie e come se, contro la verità della santa Scrittura, ci fosse del vero nelle parole di questi pagani dannati, a proposito dei quali è scritto: “distruggerò la saggezza dei saggi”, perché la vera saggezza annienta la falsa saggezza.

Essi avrebbero fatto meglio ad ascoltare il consiglio del saggio che dice: “Se hai intelligenza, rispondi al tuo prossimo: altrimenti, metti la tua mano sulla bocca per non esser colto mentre dici parole non soppesate ed essere così confuso”.

Dunque, affinché questo modo imprudente di parlare non induca le persone semplici in errore, in ragione del consiglio che ci è stato dato tanto dai dottori esperti nella santa Scrittura quanto da altri uomini prudenti, interdiciamo fermamente che tali e simili cose si producano e le condanniamo del tutto, scomunicando tutti coloro che avranno professato, o avranno osato difendere o sostenere, in qualunque modo, i detti errori o uno fra essi, così che i loro uditori, a meno che non si presentino davanti a noi o davanti al cancelliere di Parigi entro sette giorni per rinnegare questi errori, nel qual caso noi procederemo ugualmente contro di loro infliggendogli, secondo quanto prescrive il diritto, altre sanzioni proporzionate alla natura del loro errore. […] Dato nella Curia di Parigi, nell’anno del Signore 1277, la domenica in cui si canta Letare Iherusalem <cioè il 7 marzo 1277>. […] 32. Che vi è un intelletto di tutti gli uomini unico per numero, sebbene infatti sia separato da questo corpo non lo è tuttavia da tutti quanti. 87. Che il mondo è eterno quanto a tutte le specie contenuti in lui; e il tempo è eterno, così come lo sono il movimento, la materia, l’agire e il patire; ed è così perché tutto questo procede dalla potenza infinita di Dio ed è impossibile che vi sia innovazione nell’effetto senza una innovazione nella causa. 89. È impossibile rifiutare gli argomenti del Filosofo in favore dell’eternità del mondo, a meno che noi diciamo che la volontà del Primo implica degli incompossibili.

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Unicità dell’intelletto: una questione di esegesi aristotelica

1. Aristotele, De anima, III. 5

Dal momento che in ogni natura vi è qualcosa che funge da materia (ed è ciò che è in potenza ogni cosa), e vi è un’altra cosa che è causa e principio di produzione, perché produce tutte le cose, al modo in cui l’arte si rapporto alla materia, è necessario che anche nell’anima vi siano queste differenze: e vi è un intelletto che diviene tutte le cose e un altro che le produce tutte, come fosse una qualche disposizione simile alla luce. Infatti, in un certo senso, anche la luce rende i colori che sono in potenza colori in atto. E questo è l’intelletto separato, che non è soggetto a passione e a commistione, essendo per essenza in atto: infatti, quel che opera è sempre superiore a quel che subisce e il principio è superiore alla materia. Vi è, del resto, identità fra la conoscenza in atto e l’oggetto conosciuto: mentre la potenza è cronologicamente precedente nel singolo individuo, sul piano generale non è precedente nemmeno quanto al tempo, ma non accade che questo intelletto in una circostanza pensa e in un’altra no. Ciò che è separato è il solo ad esistere veramente, e questo <intelletto> è il solo immortale ed eterno (non ricordiamo però perché questo è l’intelletto impassibile e l’intelletto passivo è incorruttibile), e senza questo nulla vi è che pensi.

2. Averroé, Commento grande al De anima III.5.

Quando dichiara che l’intelletto materiale non ha una qualche forma delle cose materiali, inizia a definire lo stesso intelletto in questo modo, e dice perché non ha una natura specifica se non la natura della possibilità di ricevere le forme materiali che comprende. E dice: E così non ha alcuna natura, etc. Cioè, quella parte dell’anima che dunque viene chiamata intelletto materiale non ha alcuna natura ed essenza in ragione di cui viene costituito in quanto è materiale se non la natura della possibilità, dato che è privato di ogni forma materiale e intelligibile.

Dice poi: e chiamo intelletto, etc. Cioè, e intendo qui per intelletto la capacità dell’anima che è veramente detta intelletto e non quella che è chiamata intelletto in senso largo, cioè quella che in lingua greca è la capacità immaginativa, ma la capacità grazie alla quale distinguiamo le realtà speculative e pensiamo le cose da fare nel futuro. Dice quindi: non vi è nulla degli enti in atto prima che sia compreso. Cioè, la definizione dell’intelletto materiale è: ciò che in potenza è tutte le intenzioni delle forme materiali universali, e non è in atto nessuno degli enti prima che esso stesso li abbia pensati.

E dal momento che questa è la definizione di intelletto materiale, è evidente che esso stesso differisce dalla materia prima per il fatto che questo è in potenza tutte le intenzioni delle forme universali materiali, mentre la materia prima è in potenza tutte queste forme sensibili senza conoscerle né comprenderle. E la causa per cui questa natura è quella che distingue e conosce, mentre la materia prima ne conosce ne distingue, è che la materia prima riceve forme diverse, cioè le forme individuali e singole, mentre questa riceve le forme universali. E da questo si ricava che questa natura non è qualcosa di specifico, né un corpo né una capacità nel corpo; poiché, se così fosse, allora riceverebbe le forme in quanto diverse e singole, e se così fosse, allora le forme esistenti nella stessa <materia prima> sarebbero pensate in potenza, e così non si distinguerebbe la natura delle forme per il fatto che sono forme, come accade con una disposizione nelle forme individuali, o spirituali o corporali. E allora è necessario, se questa natura che è chiamata intelletto riceve le forme, che riceva le forme in modo diverso dal modo in cui queste materie ricevono le forme, l’esito delle quali a partire dalla materia è il limite della prima materia in esse. E allora non è necessario che <l’intelletto materiale> sia del genere di queste materie nelle quali è inclusa la forma, né che sia la materia prima. Dal momento che, se così fosse, allora il ricevere in loro sarebbe di questo genere; infatti la diversità della natura di ciò che è ricevuto determina la diversità della natura del ricevente. Dunque, questo muove Aristotele a proporre questa natura che è altra dalla natura della materia e dalla natura della forma e dalla natura di ciò che è riunito.

E questa stessa considerazione spinse Teofrasto e Temistio e molti altri commentatori a ritenere che l’intelletto materiale sia sostanza né generabile né corruttibile. Tutto ciò che infatti è generabile e

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corruttibile è una realtà individuale; ma si è già dimostrato che l’intelletto materiale non è una tale realtà, né un corpo né una forma nel corpo. E spinse questi a ritenere, con questo, che questa sia la posizione di Aristotele. Infatti questa interpretazione, cioè che questo intelletto è tale, appare adeguata a coloro che considerano l’argomentazione di Aristotele e le sue parole riguardo alla dimostrazione di cui trattiamo e riguardo alle parole perché dice che lo stesso intelletto non è passivo e che è separabile e semplice. Queste tre parole, infatti, sono utilizzate in questo testo da Aristotele e non è corretto, anzi è raro, utilizzare qualcuna di quelle nel sapere dimostrativo riguardo al generabile e al corruttibile.

Tuttavia, quando poi videro che Aristotele sostiene che è necessario, se vi è un intelletto in potenza, che vi sia anche un intelletto in atto, cioè un intelletto agente (ed è quello che porta ciò che è in potenza e lo porta dalla potenza all’atto), e che vi sia un intelletto che è portato dalla potenza all’atto (ed è quello che l’intelletto agente pone nell’intelletto materiale al modo in cui l’artificio pone le forme artificiali nella materia dell’artefice), e una volta considerato questo, ritennero che questo terzo intelletto, che pone l’intelletto agente nell’intelletto materiale ricevente (ed è l’intelletto speculativo), è necessario che sia eterno; come infatti il ricevente è eterno e l’agente è eterno, è necessario che sia esso stesso eterno. E dal momento che credono questo, accade che nella verità della cosa non vi è l’intelletto agente, né il fatto, dal momento che l’agente e il fatto non sono compresi se non mediante la generazione nel tempo. Oppure si dice che il dire agente e fatto non è se non per similitudine e che l’intelletto speculativo non è altro se non la perfezione dell’intelletto materiale mediante l’intelletto agente, così che l’intelletto speculativo è qualcosa di composto dall’intelletto materiale e dall’intelletto che è in atto. E dice che e quel che emerge, che l’intelletto agente talvolta comprende quando è mischiato a noi e talvolta non comprende, accade ad esso in ragione della mescolanza, cioè per la mescolanza di questo con l’intelletto materiale; e che soltanto in questo modo Aristotele fu costretto a porre un intelletto materiale, non perché gli intelligibili speculativi sono generati e fatti.

E confermarono questo sulla base del fatto che Aristotele spiega che l’intelletto agente esiste nella nostra anima, perché sembra che noi, per prima cosa, spogliamo le forme della materia e poi le comprendiamo. E spogliare le forme non è altro che renderle comprese in atto dopo che lo erano in potenza, allo stesso modo che comprendere non è altro che ricevere quelle forme.

E dal momento che videro che questa azione che è creare i concetti e generarli è ricaduta sulla nostra volontà e può essere accresciuta in noi in ragione del crescere dell’intelletto che è in noi, cioè quello speculativo, e poiché si è già detto che l’intelletto che crea e genera gli intelligibili e i concetti è l’intelligenza agente, allora dissero che l’intelletto che è nella disposizione è questo intelletto, ma per esso talvolta si verifica una debolezza e talaltra un’aggiunta a causa della commistione. E questo spinge Teofrasto e Temistio e altri a ritenere questo dell’intelletto speculativo, e a dire che questa era l’opinione di Aristotele. […]

Nel trattato che scrisse sull’intelletto secondo l’opinione di Aristotele, <Alessandro> sostiene che l’intelletto materiale sia una capacità generata dalla complessione. E queste sono le sue parole: “Poiché dunque da questo corpo, quando sarà mischiato con un'altra mescolanza, genererà qualcosa dalla mescolanza, così quello che è adatto a far da strumento di questo intelletto che è in questa realtà mista, dal momento che esiste in ogni corpo e questo strumento è anche il corpo, allora si dice che sia l’intelletto in potenza; ed è la capacità che è generata dalla commistione che si verifica nei corpi, la quale è adeguata a ricevere l’intelletto che è in atto”.

E questa opinione sulla sostanza dell’intelletto materiale dista grandemente dalle parole di Aristotele e dalla sua dimostrazione: dalle parole con cui dice che l’intelletto materiale è separabile e che non ha uno strumento corporeo, e che è semplice e non partecipe, cioè non soggetto a mutamento, e dove loda Anassagora per il fatto di aver detto che non è misto al corpo; dalla dimostrazione poi come si sa per quel che abbiamo scritto.

Alessandro allora espone la dimostrazione di Aristotele dalla quale conclude che l’intelletto materiale non è passivo, né è qualcosa, né è corpo né capacità nel corpo, così che intende la stessa preparazione e non il soggetto della preparazione. E allora dice nel suo libro sull’Anima che l’intelletto materiale è più simile alla preparazione che si fa di una tavola non scritta piuttosto che alla stessa tavola

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preparata; e dice che di questa preparazione si può davvero dire che non è una determinata cosa, né corpo né capacità nel corpo, e che non è passiva.

E tuttavia, quel che dice Alessandro è nullo. […]

La seconda questione, che dice in che modo l’intelletto materiale è uno nel numero in tutti i singoli uomini, non generabile né corruttibile, e i concetti esistenti in esso in atto (e si tratta dell’intelletto speculativo) sia numerato secondo il numero dei singoli uomini, generabile e corruttibile a motivo della generazione e corruzione degli individui, questa domanda è assai difficile e comporta un alto grado di ambiguità.

Si infetti ponessimo che questo intelletto materiale è numerato in ragione del numero dei singoli uomini, ne consegue che sia qualcosa di specifico, o che sia il corpo o che sia una capacità nel corpo. E se fosse qualcosa di specifico, sarebbe un concetto compreso in potenza. Se poi fosse posto il soggetto che riceve, sarebbe qualcosa di specifico, ne conseguirebbe che la realtà riceve sé stessa, come abbiamo detto, il che è impossibile.

E anche se concedessimo che una stessa cosa riceve sé stessa, ne conseguirebbe che riceverebbe sé stessa come diversa. E così la capacità dell’intelletto coinciderebbe con quella del senso o non vi sarebbe differenza alcuna fra l’essere di una forma fuori dall’anima o nell’anima. Infatti, questa materia individuale non riceve le forme se non queste e come individuali. E questo è uno di quelli che attestano che Aristotele ritiene che questo intelletto non sia l’intenzione individuale. […]

Diciamo allora che è chiaro che l’uomo non è un pensante in atto se non per la continuazione di ciò che in esso è compreso in atto. Ed è anche chiaro che materia e forma si uniscono vicendevolmente così che quanto è frutto della loro unione è una cosa sola, e questo è vero soprattutto per l’intelletto materiale e il concetto compreso in atto; ciò che infatti si compone di queste cose non è un qualche terzo altro da essi come accade nel caso degli altri composti di materia e forma. Perciò è impossibile che sia dia una connessione del concetto con l’uomo se non mediante la connessione di una delle due di queste parti con quello, cioè della parte che in esso funge da materia e di quella che nello stesso (cioè nell’intelletto) funge da forma.

E dal momento che si è detto, in ragione degli interrogativi esaminati in precedenza, che è impossibile che l’intelletto si unisca con ogni singolo uomo e che sia numerato secondo il numero degli uomini per il fatto che quello fa da materia, cioè l’intelletto materiale, rimane che la connessione degli intelletti con noi uomini si dia mediante la connessione dei concetti compresi con noi (e sono le intenzioni figurate nell’immaginazione), cioè della parte di quelli che in un qualche modo è in noi come una forma. E allora dire che un infante è intelligente in potenza può essere inteso in due modi, dei quali l’uno è che le forme prodotte nell’immaginazione che sono nell’intelletto sono comprese in potenza, il secondo è che l’intelletto materiale, che ha la innata capacità di ricevere quella forma immaginata, è una capacità di ricevere in potenza ed è connesso con noi in potenza. […]

3. Averroè, Commento grande al De anima III.36 Poiché abbiamo stabilito che l’intelletto materiale è eterno e che i concetti speculativi sono generabili e corruttibili al modo in cui abbiamo detto, e che l’intelletto materiale comprende ambedue, cioè le forme materiali e le forme astratte, è chiaro che il soggetto dei concetti speculativi e l’intelletto agente sono in tal senso un’unica e medesima cosa, cioè l’intelletto materiale. Ed è simile a questo il diafano, che riceve simultaneamente il colore e la luce e la luce è causa efficiente del colore.

4. Tommaso d’Aquino, Commento al De anima di Aristotele, III, 1, ed. Leonina pp. 205-207. <Che l’intelletto possibile dell’uomo non è una sostanza separata>

Di fronte a queste parole in molti si ingannano a tal punto da ritenere che l’intelletto possibile sia, quanto al suo essere, separato dal corpo, come una fra le sostanze separate. Cosa che certo è del tutto impossibile.

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È infatti chiaro che questo uomo pensa1: se infatti si negasse questo, allora colui che sostiene questa opinione non penserebbe qualcosa né dovrebbe essere ascoltato. Se però pensa, è allora necessario che, parlando in termini di forma, pensi ad altro; ma questo è l’intelletto possibile di cui il Filosofo dice: «Chiamo intelletto ciò con cui l’anima pensa ed elabora opinioni»; dunque l’intelletto possibile è ciò con cui questo uomo, parlando formalmente, pensa. Tuttavia ciò con cui si opera come principio attivo, quanto all’essere, può esser separato da quanto viene operato, come se dicessimo che il balivo è operato dal re perché il re lo spinge ad agire. È però impossibile che ciò con cui qualcosa viene operato quanto alla forma sia separato da quello secondo l’essere, e questo perché niente agisce se non in quanto è in atto. Dunque, qualcosa viene operato quanto alla forma da altro come da quel che determina in atto, ma un ente non ne determina un altro se è separato da quello quanto all’essere; per cui è impossibile che ciò con cui qualcosa agisce secondo la forma sia separato da quello quanto all’essere. È dunque impossibile che l’intelletto possibile con cui l’uomo pensa talvolta in potenza e talvolta in atto sia separato da quello quanto all’essere.

E allora, considerando questo, coloro che hanno sostenuto questa posizione sono spinti ad escogitare un qualche modo con cui quella sostanza separata che chiamano intelletto possibile sia in continuità con noi o sia a noi unita, così che il pensare di quello sia il nostro pensare. Dicono infatti che la specie intelligibile è la forma dell’intelletto possibile (grazie ad essa infatti giunge all’atto), ma il soggetto di questa specie è una certa rappresentazione immaginaria [phantasma] che è in noi. Così, dunque, dicono che l’intelletto possibile è unito a noi grazie alla sua forma.

Tuttavia questo che viene detto non dimostra affatto una qualche continuità dell’intelletto in noi. Cosa che è evidente da quanto segue: l’intelletto possibile infatti non è un’unica cosa con l’intelligibile se non per il fatto di essere intelletto in atto, così come nemmeno il senso è la stessa cosa del sensibile in potenza, come in precedenza si è detto. Perciò, la specie intelligibile non è la forma dell’intelletto possibile se non in quanto è intelligibile in atto, ma non è intelligibile in atto se non in quanto è astratta dalle rappresentazioni immaginarie. È allora chiaro che in quanto è unita all’intelletto, la specie intelligibile è lontana dalle rappresentazioni immaginarie e quindi non è in questo modo che l’intelletto è unito a noi. Ma è chiaro che l’autore di questa tesi è stato ingannato da una fallacia accidentale2, quasi che deducesse in questo modo: le rappresentazioni immaginarie sono, in un certo senso, un’unica cosa con la specie intelligibile; ma la specie intelligibile è un’unica cosa con l’intelletto possibile; dunque l’intelletto possibile è unito alle rappresentazioni immaginarie. È chiaro che l’autore di questo ragionamento cade in una fallacia accidentale, poiché la specie intelligibile in quanto è un’unica cosa con l’intelletto possibile è astratta dalle rappresentazioni immaginarie, come si è detto.

Ammesso però che in questo modo ci sia una qualche unione dell’intelletto possibile con noi, questa unione non ci renderebbe però capaci di pensare ma piuttosto oggetti di pensiero. Infatti, ciò di cui la specie è somiglianza, che esiste in una qualche capacità conoscitiva, non per questo rende capaci di conoscere ma rende conosciuti: infatti, il fatto che la specie che è nella pupilla è a somiglianza del colore che è sulla parete non significa che il colore veda ma piuttosto che è visto. Dunque, dal fatto che la specie intelligibile che è nell’intelletto possibile ha una qualche somiglianza con la rappresentazione immaginaria non consegue che noi siamo capaci di pensare, ma che noi, o piuttosto le nostre rappresentazioni immaginarie, sono pensate da quella sostanza separata.

Vi sono molte altre cose che si possono dire contro questa posizione, le quali abbiamo vagliato con attenzione altrove; qui invece questo solo sia sufficiente, cioè che da questa tesi consegue che questo uomo3 non pensa.

È chiaro che questa posizione è contraria all’intenzione di Aristotele. Per prima cosa perché Aristotele qui si interroga «sulla parte dell’anima»: così infatti inizia questo trattato. È allora evidente che l’intelletto possibile è parte dell’anima e non è una sostanza separata. Inoltre, perché egli stesso procede a interrogarsi, riguardo all’intelletto, se nel soggetto esso sia separabile dalle altre parti dell’anima oppure no, così che è chiaro che il procedere consiste nel chiedersi se nel soggetto l’intelletto sia separabile dalle altre parti dell’anima. Inoltre, perché afferma che l’intelletto è ciò con cui l’anima pensa. Tutte

1 Cioè che l’uomo individuale, il singolo, pensa. 2 Cioè un errore nel trarre le conclusioni del sillogismo. 3 Cioè il singolo uomo.

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queste cose mostrano che Aristotele non dice che l’intelletto è separato al modo delle sostanze separate. È allora sorprendente con quanta superficialità i sostenitori di questa posizione siano caduti in errore per il fatto che dice che l’intelletto è «separato», dal momento che nel suo stesso scritto si trova la spiegazione di questo termine: l’intelletto si dice infatti «separato» perché non ha un organo al modo dei sensi. E questo accade perché l’anima umana, a motivo della sua nobiltà, sopravanza la capacità della materia corporea e non può essere contenuta nella sua totalità da quella; perciò le rimane una qualche azione nella quale non agisce in comune con la materia corporea e per questo la sua facoltà di compiere questa azione non ha un organo corporeo che le corrisponda, ed è questo l’intelletto separato.

5. Tommaso d’Aquino, Commento al De anima di Aristotele, III, 4, ed. Leonina pp. 220-221.

<Che l’intelletto agente non è una sostanza separata> In relazione alle cose che qui sono dette alcuni sostennero che l’intelletto agente è una sostanza separata e che differisce, quanto alla sostanza, dall’intelletto possibile.

Questo però non sembra esser vero. Non vi sarebbe infatti l’uomo, come realtà che la natura ha adeguatamente istituito, se non avesse in sé stesso i principi con i quali poter espletare l’azione che gli è propria, che è il pensare, la quale certo egli non potrebbe portare a compimento se non per mezzo dell’intelletto possibile e dell’intelletto agente. Per cui la perfezione della natura umana richiede che ciascuno di questi intelletti sia presente nell’uomo.

Vediamo anche che, come l’agire dell’intelletto possibile, che è l’apprendere ciò che è intelligibile, viene attribuito all’uomo, così è anche per l’agire dell’intelletto agente, che è astrarre le realtà intelligibili; ma questo non potrebbe darsi se il principio formale di questa azione, quanto all’essere, non fosse congiunto all’uomo. Perché questa azione sia attribuita all’uomo non è nemmeno sufficiente che le specie intelligibili create mediante l’intelletto agente siano in un qualche modo sostituite nel soggetto con le rappresentazioni immaginarie che sono in noi, perché, come si è detto sopra parlando dell’intelletto possibile, le specie non sono intelligibili in atto se non perché sono astratte dalle rappresentazioni immaginarie e così con la mediazione di quelle4 l’azione dell’intelletto agente non può essere attribuito a noi. Inoltre, l’intelletto agente è in rapporto con le specie pensate in atto come l’arte lo è con le specie delle cose artificiali, per le quali è chiaro che le cose artificiali non possiedono l’azione dell’arte, così che, anche ammesso che le specie rese intelligibili in atto siano in noi, non ne seguirebbe che noi possiamo avere l’azione dell’intelletto agente.

Anche la predetta posizione è contraria all’intenzione di Aristotele che dice espressamente che queste due differenze, cioè l’intelletto agente e l’intelletto possibile, sono nell’anima, circostanza per la quale Aristotele fa apertamente ritenere che i due intelletti siano parti o potenze dell’anima e non altre sostanze separate.

Contro questa tesi però sembra esserci soprattutto il fatto che l’intelletto possibile è posto in relazione agli intelligibili come ciò che è in potenza rispetto a quelli, mentre l’intelletto agente è posto in relazione agli intelligibili come l’ente in atto. Tuttavia non sembra che possa essere la stessa cosa rispetto all’intelletto l’essere in potenza e l’essere in atto e perciò non sembra possibile che l’intelletto agente e quello possibile siano entrambi presenti nell’unica sostanza dell’anima.

Questo problema però si risolve facilmente se si considera in modo corretto in che modo l’intelletto possibile è in potenza rispetto agli intelligibili e in che modo gli intelligibili sono in potenza rispetto all’intelletto agente. Infatti, l’intelletto possibile è in potenza rispetto agli intelligibili come l’indeterminato lo è al determinato: l’intelletto possibile, infatti, non possiede in modo determinato una natura di qualcuna delle realtà sensibili, ma ciascun intelligibile è una determinata natura di una qualche specie. Per questo, in precedenza, Aristotele ha detto che l’intelletto possibile si relaziona con gli intelligibili come la tavola con le pitture determinate. Rispetto a questo, l’intelletto agente non è in atto: se infatti l’intelletto agente avesse in sé la determinazione di ogni intelligibile, l’intelletto possibile non avrebbe bisogno delle rappresentazioni immaginarie ma mediante il solo intelletto agente porterebbe in atto tutti gli intelligibili e così non sarebbe in relazione con gli intelligibili come colui che fa è in relazione con ciò che è fatto, come qui dice il Filosofo, ma come l’esistente con gli stessi intelligibili.

4 Cioè delle rappresentazioni immaginarie.

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Dunque, è in relazione come l’atto lo è con gli intelligibili in quanto è una certa capacità immateriale attiva che può rendere le altre cose simili a sé stessa, cioè renderle immateriali, e in questo modo quelle che sono le realtà intelligibili in potenza le rende intelligibili in atto. Così, infatti, anche la luce rende il colore in atto e non per il fatto che essa abbia in sé la determinazione di ogni colore. Questo genere di capacità in atto è una certa partecipazione della luce intellettuale da parte delle sostanze separate, e perciò il Filosofo dice che è come una disposizione, come una luce, cosa che non sarebbe conveniente dire dell’intelletto agente se fosse una sostanza separata.

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Discussione sull’essere e il tornante “occamista” 1. Avicenna, Metafisica

[a. Distinzione tra «esistenza» e «cosa». a1. Prima formulazione] Noi diciamo che la nozione di «esistente» e la nozione di «cosa» vengono concepite nell’anima come due nozioni [distinte]. «Esistente», «ciò che è stabilito [come esistente]» e «ciò che è realizzato» sono dei sinonimi [che significano] un’unica nozione. Non dubitiamo che la loro nozione sia già presente nell’anima di chi legge questo libro. Con «cosa» e ciò che le equivale si significa in tutte le lingue un’altra nozione. Ogni oggetto, infatti, possiede una verità intrinseca grazie alla quale esso è ciò che è. La verità intrinseca del triangolo è il fatto di essere triangolo, e la verità intrinseca della bianchezza è il fatto di essere bianchezza. Questa verità intrinseca è ciò che talvolta chiamiamo «esistenza propria». Con questa espressione non intendiamo la nozione di esistenza che riguarda lo stabilire qualcosa come esistente. Anche con il termine «esistenza», infatti, si significano molte nozioni, una delle quali è la verità intrinseca in conformità alla quale qualcosa è. Ciò in conformità a cui qualcosa è, quindi, è come se fosse la sua esistenza propria. [a2. Seconda formulazione] Ritorniamo a dove eravamo. Noi diciamo che è chiaro che ogni cosa possiede una verità intrinseca propria che è la sua quiddità. Ora è noto che la verità intrinseca propria di ogni cosa è diversa dall’esistenza che è sinonimo di «stabilire qualcosa come esistente». Infatti, quando dici: «Una verità intrinseca di questo tipo esiste negli oggetti concreti, o nelle anime, o assolutamente» – includendo in quest’ultimo i primi due casi – la tua affermazione ha un senso determinato e comprensibile. Se, invece, tu dicessi: «Una verità intrinseca di questo tipo è una verità intrinseca di questo tipo», oppure: «Una verità intrinseca di questo tipo è una verità intrinseca», avresti un’inutile ridondanza del discorso. Se dicessi: «Una verità intrinseca di questo tipo è una cosa», si tratterebbe ancora di un discorso che non informa riguardo a ciò che si ignora. Ancor meno informativo è che tu dica: «La verità intrinseca è una cosa», a meno che con «cosa» non si intenda «esistente», come se tu dicessi: «Una verità intrinseca di questo tipo è una verità intrinseca esistente». Quando dici: «La verità intrinseca di A è una certa cosa, mentre la verità intrinseca di B è un’altra cosa», questa asserzione è corretta e informativa solamente perché sottintendi nella tua anima che la verità intrinseca di A è una cosa che è altra, dotata di caratteristiche proprie e differente rispetto alla seconda. È come se tu dicessi: «la verità intrinseca di A è una certa verità intrinseca, mentre la verità intrinseca di A è un’altra verità intrinseca». Senza, al tempo stesso, sottintendere questo e stabilire questa congiunzione l’asserzione non sarebbe informativa. Con il termine «cosa» si intende, dunque, questa nozione. [b. «Esistente» consegue necessariamente a «cosa»] Ma il fatto che la nozione di «esistente» le consegua necessariamente non si separa mai dalla «cosa». Al contrario, la nozione di «esistente» le consegue necessariamente sempre. La «cosa», infatti, o esiste negli oggetti concreti, oppure nella facoltà estimativa e nell’intelletto. Se così non fosse non sarebbe una «cosa».

2. Tommaso d’Aquino, De ente et essentia

Poiché – come dice il Filosofo nel I libro su Il cielo e il mondo – un errore piccolo in principio può diventare grande alla fine, e poiché l’ente e l’essenza sono ciò che per primo viene concepito dall’intelletto, come afferma Avicenna all’inizio della sua Metafisica, è necessario, per penetrare nella loro difficoltà e perché non si cada in errore a causa dell’ignoranza di tali termini, spiegare cosa significhino «ente» e «essenza», in che modo si trovino nelle diverse cose e in che rapporto stiano con le intenzioni logiche, e cioè con il genere, la specie e la differenza. E dal momento che dobbiamo ricavare la conoscenza delle cose semplici da quella delle cose composte, e procedere da ciò che è derivato a ciò che precede – in modo che, iniziando dalle cose più

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facili, il procedimento stesso risulti più agevole – si dovrà passare dal significato del termine «ente» a quello del termine «essenza». Occorre dunque sapere che, come afferma il Filosofo nel V libro della Metafisica, l’ente per sé si dice in due modi: nel primo, è ente ciò che si divide nei dieci generi; nell’altro, è ente ciò che sta a significare la verità delle proposizioni. La differenza sta qui nel fatto che nel secondo senso può dirsi ente tutto ciò intorno a cui è possibile formare una proposizione affermativa, anche qualora non indichi nulla di reale; e in questo senso si dicono enti anche le privazioni e le negazioni: diciamo infatti che l’affermazione è opposta alla negazione, e che la cecità è nell’occhio. Nel primo modo invece può dirsi ente solo ciò che pone qualcosa di reale, e in questo senso la cecità e le altre cose di questo tipo non sono enti. Il termine essenza non si ricava dunque dalla seconda accezione di ente: si dicono infatti enti in questo modo alcune cose che non possiedono un’essenza, come è evidente nelle privazioni; l’essenza si ricava invece dalla prima accezione di ente. Per questo il Commentatore, nello stesso luogo, dice che l’ente inteso nel primo modo è ci ciò che indica la sostanza della cosa. E poiché, come si è detto, l’ente inteso in questo modo si divide nei dieci giorni, occorre che l’essenza indichi qualcosa di comune a tutte le nature attraverso cui i diversi enti possono essere collocati nei vari generi e nelle varie specie, così come l’umanità è l’essenza dell’uomo, e così via. E poiché ciò per mezzo di cui la cosa viene costituita nel proprio genere o nella propria specie viene significato attraverso la definizione che esprime ciò che la cosa è, ne consegue che il termine essenza viene cambiato dai filosofi in quello di quiddità: e questo è anche ciò che il Filosofo spesso chiama «ciò che era l’essere», cioè per mezzo di cui qualcosa possiede il fatto di essere quella cosa. L’essenza viene chiamata anche forma, nella misura in cui con forma s’intende la certezza di ogni cosa, come dice Avicenna nel secondo libro della sua Metafisica. E con altro nome, l’essenza viene anche chiamata natura, prendendo «natura» secondo la prima delle quattro accezioni distinte da Boezio nel trattato Sulle due nature, e cioè quella per cui si dice natura tutto ciò che in qualunque modo può essere appreso dall’intelletto; infatti ogni cosa è intelligibile solo in virtù della sua definizione ed essenza, e in questo senso anche il Filosofo afferma, nel quinto libro della Metafisica, che ogni sostanza è una natura. Tuttavia il termine natura, inteso in questo modo, sembra significare l’essenza della cosa in quanto è ordinata alla sua propria operazione, dal momento che nessuna cosa può venire meno alla sua operazione essenziale; il termine quiddità è invece desunto da ciò che viene espresso attraverso la definizione. Ma si dice essenza per il fatto che l’ente possiede il suo essere in virtù di essa e in essa. In questo poi l’ente si dice in senso assoluto e in primo luogo delle sostanze, e secondariamente e quasi in senso relativo degli accidenti, si può concludere che l’essenza si trova propriamente e veramente nelle sostanze, mentre negli accidenti è in qualche modo, e in senso relativo. Tra le sostanze poi alcune sono semplici e alcune composte, e in tutti e due i tipi vi è l’essenza, ma in quelle semplici in modo più vero e più nobile, nella misura in cui anche il loro essere è più nobile: esse sono infatti cause di quelle composte, o almeno lo è la sostanza prima semplice, che è Dio. Ma poiché le essenze delle sostanze semplici sono per noi meno manifeste, occorre partire dalle essenze delle sostanze composte, in modo che partendo dalle cose più facili il procedimento risulti più agevole. […] Da quanto si è visto, appare quindi chiaro in che modo l’essenza si ritrovi nelle diverse cose. Si trovano dunque nelle sostanze tre diversi modi di possedere l’essenza. Vi è infatti qualcosa, come Dio, la cui essenza è il suo stesso essere, e perciò ci sono alcuni filosofi che affermano che Dio non ha quiddità o essenza, poiché la sua essenza non è altro che il suo essere. E da ciò segue che Egli stesso non è in un genere, poiché tutto ciò che è in un genere deve necessariamente avere oltre l’essere una quiddità; dal momento che la quiddità o natura del genere o della specie non si distingue secondo il modo di essere della sua natura in ciò di cui è genere e specie, ed è invece l’essere a darsi in modi diversi nelle cose diverse. […]

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In un secondo modo l’essenza si trova nelle sostanze create intellettuali, in cui l’essere è altro dalla loro essenza, per quanto l’essenza stessa sia priva di materia. Il loro essere non è perciò assoluto, ma ricevuto, e perciò limitato e finito secondo la capacità della natura ricevente; ma la loro natura o quiddità è tuttavia assoluta, non ricevuta in alcuna materia. […] In un terzo modo l’essenza si ritrova nelle sostanze composte di materia e forma, nelle quali non solo l’essere è ricevuto e finito, per il fatto che ricevono l’essere da altro, ma la stessa natura o quiddità è in questo caso ricevuta nella materia segnata. E per questo sono finite tanto in basso quanto in alto, e in esse è già possibile, per la divisione della materia segnata, la moltiplicazione degli individui all’interno di una stessa specie. Come poi in queste sostanze l’essenza stia in rapporto con le intenzioni logiche, si è già detto sopra.

3. Giovanni Duns Scoto, Commento alla Metafisica Il primo oggetto della nostra intelligenza non può essere se non ciò che essenzialmente vien compreso in qualunque oggetto di natura sua intelligibile, come il primo oggetto della vista non può essere altro se non ciò che essenzialmente si racchiude in tutto ciò che è visibile, come il colore nel bianco e nel nero. Ora qualunque essere è per sé intelligibile e non può essere percepito essenzialmente che come ente. Dunque, il primo oggetto della nostra intelligenza è l’ente.

4. Giovanni Duns Scoto (L’ecceità) Qual è quell’entità individuale donde ha origine la differenza individuale? È, forse, la materia? È, forse, la forma? È, forse, il risultato della composizione dell’una e dell’altra? Rispondo: Questa entità non è né la materia, né la forma, né il risultato della loro composizione, in quanto ciascuna di esse ha una natura comune … L’entità quidditativa sia parziale che totale di un genere per sé è indifferente a questa o a quella entità … Come il composto non ha in se stesso, naturalmente, l’entità ond’è questa cosa, e non un’altra, così neppure la materia ha in se stessa, naturalmente, l’entità che la distingue. La materia è il fondamento della natura del tutto indistinto e indeterminato. Dunque, non può essere il fondamento o la causa della distinzione e della diversità di un essere dall’altro: ciò che è non distinto né diverso non può essere la causa della distinzione e della diversità. La materia è la stessa nel generato e nel corrotto. Dunque, ha in essi la stessa singolarità. Ciò che si può concepire come universale, non può essere da se stesso la ragione per cui è questa cosa e non l’altra. Ora la materia, la forma e il loro composto si possono concepire sotto un aspetto universale. Bisogna, perciò, concludere che nella materia, nella forma, nel composto vi è la natura e con questa una proprietà o entità speciale che l’individualizza. Questa entità è l’ultima realtà dell’ente, comune alla materia, alla forma, al loro composto, capace nondimeno di essere determinata e di potersi distinguere formalmente in più realtà, delle quali l’una non è formalmente l’altra. È questa una entità formalmente singolare, mentre quella della materia, forma e loro composto è formalmente entità di natura comune. L’ecceità è quella forma, in ragione della quale tutto il composto è questo essere. L’ecceità non può intendersi come alcunché di universale: la sua natura la porta ad essere questa cosa e non un’altra; conseguentemente la natura specifica a cui si aggiunge non è possibile che sia universale.

5. Guglielmo d’Ockham, Commento alle Sentenze, prologo, art. 1 (Conoscenza intuitiva e astrattiva) La distinzione fra conoscenza intuitiva e conoscenza astrattiva è la seguente: la conoscenza intuitiva di una cosa è quella conoscenza in virtù della quale si può sapere se una cosa esiste o non esiste, di modo che, se una cosa esiste, subito l’intelletto la giudica esistente e sa con evidenza che essa è, a meno che non ne sia impedito dall’imperfezione di quella conoscenza […]. Astrattavia è invece quella conoscenza in virtù della quale non si può sapere con evidenza se una cosa contingente esiste o non esiste. In questo senso la conoscenza astrattiva prescinde dall’esistenza e dalla non esistenza, poiché per mezzo di

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essa non si può sapere con evidenza di una cosa esistente che esiste, né di una cosa non esistente che non esiste, in opposto alla conoscenza intuitiva. Similmente, mediante la conoscenza astrattiva non si conosce nessuna verità contingente, soprattutto circa il presente, come può essere chiaramente desunto dal fatto che quando in loro assenza si conoscono Socrate e la bianchezza, in virtù di tale notizia incomplessa non si può conoscere che Socrate esiste o non esiste, né che è bianco o che non è bianco, né che esista o meno da un certo luogo, e così a proposito delle verità contingenti. Tuttavia è certo che queste verità possono essere conosciute con evidenza; inoltre ogni conoscenza complessa dei termini o delle cose significate dai termini si riduce in ultima analisi alla conoscenza incomplessa dei termini. […] La conoscenza intuitiva e quella astrattiva differiscono di per se stesse e non circa gli oggetti conosciuti né circa le loro cause, benché secondo l’ordine naturale la conoscenza intuitiva non possa darsi senza l’esistenza della cosa, la quale è veramente la causa efficiente diretta o indiretta della conoscenza intuitiva, come si dirà altrove. La conoscenza astrattiva invece può per sua natura esserci anche se la cosa conosciuta è andata interamente distrutta.

6. Guglielmo d’Ockham, Commento alle Sentenze, prologo, q. 1, art. 6 (Conoscenza del non ente) C’è buona probabilità nel dire che la conoscenza incomplessa dei termini e l’apprensione della proposizione e il giudizio conseguente si distinguono realmente e che ciascuno di essi è separabile dall’altro in virtù dell’onnipotenza di Dio. La prima parte della tesi è evidente da quanto si è detto; la seconda parte può essere dimostrata così: di nessun assoluto si deve negare che possa esistere senza qualsiasi altro assoluto distinto da esso per opera della potenza di Dio, a meno che non ci sia una flagrante contraddizione. Ma non c’è manifesta contraddizione che ci sia il giudizio che segue l’apprensione e che non ci sia l’apprensione; e nemmeno c’è contraddizione nel fatto che ci sia l’apprensione di una proposizione e che non ci sia la conoscenza incomplessa dei termini. Se qualcuno dubitasse che c’è manifesta contraddizione nel fatto che una persona sia il suo assenso a una proposizione e tuttavia non ne abbia l’apprensione, e anche nel fatto che una persona apprenda una proposizione e tuttavia non apprenda i termini di essa, posso rispondere in questo modo: non è contraddittorio che un intelletto dia il suo assenso a una proposizione e che insieme non l’apprenda con un’apprensione realmente distinta da quell’assenso. Tuttavia ritengo che ci sarebbe contraddizione se succedesse che l’intelletto dia l’assenso senza averne apprensione alcuna.

7. Guglielmo d’Ockham, Commento alle Sentenze, d. 2, q. 8 (Conoscenza astrattiva dell’universale) L’universale non è qualche cosa di reale, dotato di un essere soggettivo intramentale o extramentale, ma possiede solamente un essere oggettivo nella mente, ed è una rappresentazione mentale nell’essere soggettivo. E questo avviene così: l’intelletto che vede una cosa extramentale se ne rappresenta una simile nella mente, in modo che, se avesse il potere di produrre le cose nella realtà come ha il potere di produrre le idee, farebbe esistere quella cosa nella realtà exrtamentale, con un proprio essere soggettivo e numericamente distinta dalla prima. … Chi non accetta l’opinione che intende il concetto come rappresentazione mentale dotata di un essere oggettivo, può sostenere che il concetto e ogni universale sono delle qualità esistenti soggettivamente nell’intelletto, che per natura sono segni delle cose extramentali esattamente come le parole sono segni delle cose per un’istituzione convenzionale […]. A dire il vero questa opinione può essere diversamente spiegata: in un primo modo, si potrebbe affermare che questa qualità che esiste soggettivamente nella mente coincide con l’atto stesso di intendere; questa opinione può essere sostenuta con delle prove e si possono confutare gli argomenti ad essa contrari, come ho dichiarato altrove. In un secondo modo, si potrebbe dire che questa qualità è qualcosa di distinto dallo stesso atto di intendere e posteriore ad esso.

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Primato delle lettere o pluralità di vie? Gli umanisti di fronte al medioevo

1. Lorenzo Valla, Encomio di Tommaso d’Aquino (trad. Radetti) Io lodo moltissimo in San Tommaso l’esimia sottigliezza dell’espressione, ne ammiro la diligenza, resto stupefatto dalle sue dottrine. E aggiungo, anche se molti rifiutano di attribuirgli ciò, che alcuni ricordano che egli abbia detto di non aver letto mai un libro senza intenderlo facilmente e questo non so se sia accaduto, ai nostri giorni, ad alcun giurista nel diritto civile, o medico nella medicina, o filosofo nella filosofia, o oratore nello studio dell’antichità, e così in tutte le altre arti. Ma io non ammiro tanto queste cose, la cosiddetta metafisica, e i modi del significare e altre cose del genere, che i recenti teologi considerano come una nona sfera or ora scoperta, o ammirano come gli epicicli dei pianeti, né penso che abbia grande importanza se si conoscano o non si conoscano: forse sono deli impacci che sarebbe meglio ignorare poiché impediscono la conoscenza di cose migliori. Non porterò delle argomentazioni per spiegare ciò, sebbene potrei farlo: ma citerò gli antichi teologi, Cipriano, Lattanzio, Ilario, Ambrogio, Gerolamo, Agostino, i quali non solo non hanno trattato di queste cose nei loro libri, ma non le hanno nemmeno nominate. Per ignoranza forse? E come avrebbe potuto essere? Se queste cose hanno un fondamento nella nostra lingua, gli scritti di quei padri furono latinissimi, mentre i moderni tutti sono quasi dei barbari. Se nella greca, essi conobbero il greco, costoro l’ignorano. Perché dunque non ne avranno trattato? Perché non andavano trattate e forse bisognava ignorarle, e ciò per due ragioni: l’una nelle cose stesse, l’altra nelle parole. Per le cose, poiché appariva che non portavano alcun contributo alla scienza della divinità. Così pensarono anche i teologi greci, Basilio, Gregorio, Giovanni Crisostomo e gli altri loro contemporanei, che ritennero di non dover mescolare alle sacre dottrine le gherminelle dei dialettici né le ambagi metafisiche né le futilità dei modi del significare. E non fondarono sulla filosofia le loro trattazioni poiché avevano letto Paolo che esclama: “non per philosophiam et inanem fallaciam” (Col. 2, 8), e sappiamo che a questa affermazione egli è stato fedele. Che cosa c’è dunque nella filosofia, non dico in quella razionale, tutta di parole, della quale ho già detto e dirò, ma in quella morale e naturale, che cosa c’è di indubbio, di certo, se non ciò che gli esperimenti dei medici o di altri riuscirono a cogliere nella filosofia naturale? Quanto alle parole, poiché diversa è la situazione della lingua greca da quella latina, e ampio argomento vi sarebbe alla discussione, fuori luogo in questo momento, basterà dire che i dottori latini della Chiesa si guardarono bene dall’usare questi vocaboli che non avevano mai visti adoperati dagli autori latini, ossia dai maestri della loro lingua, dottissimi nelle lettere greche: vocaboli che i nuovi teologi ripetono continuamente: ente, entità, quiddità, identità, realtà, essere proprio, e quei termini coi quali significano essere ampliato, esser diviso, esser composto e simili. Quindi essi considerano che queste cose, in gran parte futili, non andavano trattate, o bisognava ignorarle per non ignorare cose più importanti. Non dico questo per defraudare di qualche cosa i teologi contemporanei (e perché dunque vorrei svalutare l’età in cui vivo?) ma per difendere gli antichi ingiustamente ripresi e bollati; essi non hanno teologizzato in questo modo ma si sono abbandonati completamente all’imitazione dell’apostolo Paolo, principe di tutti i teologi e maestro nel teologizzare. Il suo stile, la sua forza, la sua maestà sono tali che l frasi che negli altri, anche negli altri apostoli, sono banali, in lui sono elevate, quelle che negli altri sono ferme, in lui si muovono e combattono, quelle che negli altri appena rilucono, in lui sembrano sfolgorare e ardere, onde acconciamente lo si raffigura con in mano la spada ossia la parola di Dio. Questa è la vera teologia e, come va detto, la legittima; e coloro che la seguono seguono certo il migliore stile dell’eloquenza e della teologia. Non c’è ragione perciò che i nuovi teologi svalutino quelli antichi, veri discepoli di Paolo, per il fatto che non hanno mescolato la filosofia alla teologia, o che il nostro Tommaso sia da anteporsi ad essi.

2. Pico della Mirandola, Orazione sulla dignità dell’uomo 178-192 (trad. Bausi) Io sostengo che quanto ho fatto non è superfluo, ma necessario; il che, se costoro considerassero il mio metodo di filosofare, anche di malavoglia sarebbero costretti a confessare apertamente. Coloro, infatti, che si sono consacrati interamente a una qualsiasi delle scuole filosofiche, aderendo per esempio a Tommaso o a Scoto, che ora godono di grandissimo favore, possono mettere alla prova la loro dottrina

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nella discussione di poche questioni. Io però mi son dato queste regole: non giurare sulle parole di nessuno, spaziare per tutti i maestri di filosofia, esaminare ogni pagina, conoscere tutte le scuole. Pertanto, dovendo io trattare di tutti i filosofi (affinché, se per difendere una particolare dottrina avessi tralasciato le altre, non sembrassi vincolato a quella), non potevano non essere molteplici le questioni presentate complessivamente riguardo a tutti, anche se poche ne venivano proposte singolarmente intorno a ciascuno di essi. Né questo mi venga imputato, di giungere come ospite dovunque la tempesta mi spinga. Da tutti gli antichi fu infatti osservata questa norma, di passare in rassegna ogni genere di scritti, non tralasciando di leggere alcun libro che potessero procurarsi; e in modo particolare fu osservata da Aristotele, che per questo motivo era chiamato da Platone «lettore». E, in verità, è indizio di un ingegno limitato rinchiudersi entro il solo Portico o la sola Accademia; né, fra tutte, può scegliere convenientemente la propria compagnia chi prima non le abbia conosciuta tutte quante. Aggiungi poi che in ciascuna scuola c’è qualcosa di peculiare, che essa non condivide con nessun’altra. E per cominciare ora dai nostri, ai quali in ultimo è pervenuta la speculazione filosofica, c’è in Giovanni Scoto qualcosa di vigoroso e concitato, in Tommaso di solido ed equilibrato, in Egidio di terso e preciso, in Francesco di penetrante e acuto, in Alberto di severo, ampio e maestoso, in Enrico, a quanto mi sembra, di sempre sublime, venerando. Fra gli Arabi, c’è in Averroè qualcosa di fermo saldo, in Avempace e in Alfarabio di grave e pensoso, in Avicenna di divino e platonico. Fra i Greci la filosofia è in generale limpida, e nei più antichi anche pura; in Simplicio è ricca e copiosa, in Temistio elegante e succinta, in Alessandro severa e dotta, in Teofrasto nobilmente elaborata, in Ammonio agile e aggraziata. E se ti volgerai ai platonici, per non toccar che di pochi, in Porfrio sarai attratto dalla ricchezza degli argomenti e dalla multiforme religiosità, in Giamblico venererai la più arcana filosofia e i misteri dei popoli barbari; in Plotino non troverai qualcosa di peculiare da ammirare, giacché egli si rivela degno di ammirazione sotto ogni aspetto, e con studiata oscurità perla delle cose divine divinamente, delle cose umane in modo di gran lunga superiore all’umano, tanto che i platonici, pur sudandovi sopra, a fatica lo intendono. Tralascio i più recenti: Proclo, esuberante di asiatica fecondità, e tutti quelli che da lui discesero, come Ermia, Damascio, Olimpiodoro, e molti altri, nei quali tutti sempre risplende quel «divino» che costituisce il tratto distintivo dei platonici. Bisogna anche aggiungere il fatto che, se qualche scuola attacca i principi più veri e calunniando irride le giuste cause della ragione, essa conferma la verità, anziché infirmarla, e, come se questa fosse una fiamma agitata dal movimento, la ravviva, anziché spegnerla. Io, mosso da questa convinzione, ho voluto sottoporre a pubblico dibattito i principi non di una sola (come qualcuno avrebbe preferito), ma di ogni sorta di dottrine, affinché, grazie a questo confronto tra le molteplici scuole e all’esame dei più svariati sistemi filosofici, risplendesse più luminosamente nei nostri animi, a mo’ del sole che sorge, quel fulgore della verità di cui parla Platone nelle sue epistole.


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