DOMENICA 10 APRILE 2011/Numero 321
DomenicaLa
di Repubblica
i sapori
Soia, il seme delle mille ricetteLICIA GRANELLO e RENATA PISU
l’incontro
Battiston, “Lasciatemi cambiare”IRENE MARIA SCALISE
cultura
La Grande Guerra di propagandaPAOLO RUMIZ
l’attualità
Canterbury-Vaticano, il controscismaENRICO FRANCESCHINI e AGOSTINO PARAVICINI BAGLIANI
EMANUELA AUDISIO
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NOVARA
Federica torna a casa. Si rituffa in Italia. Non potrebbemai cantare da sirenetta «J’ai deux amours». Addio Pa-ris, la seduzione non è riuscita, niente più Francia.«Non per lunghi periodi. Questi due mesi sono stati in-
terminabili. Ho provato e sofferto la nostalgia per il mio Paese. È unfatto di atmosfera, di cibo, di ritmi e di equilibri che cambiano. Unconto è avere la piscina a tre minuti, un conto a mezz’ora. Ti adat-ti, ma uno sportivo ha un suo ritmo, una sua metodicità calcolata.A me poi non piacciono le grandi metropoli, troppo dispersive».
Non un pesce fuor d’acqua, ma in cerca delle onde del suo de-stino. Il tradimento obbligato la restituisce alla sua fedeltà. «A Pa-rigi mi allenavo all’aperto alle sei di mattina. Nel buio più totale.Nuotare quasi di notte, anche se l’acqua è calda, mi dà strane sen-sazioni, quasi di non essere lucida, non è piacevole. È una prova
mentale. Mi ha ricordato di quando ero piccola e mi allenavo pri-ma di andare scuola con mia mamma che si svegliava alle cinqueper prepararmi la colazione e darmi dieci minuti di sonno in più, eio che alla sera mi chiudevo in bagno e piangevo perché non ne po-tevo più. Ho patito la lontananza con la mia famiglia, che abita fuo-ri Venezia, mia madre è venuta a trovarmi solo un volta, noi siamomolto legate, abbiamo bisogno di stare insieme e vicine». Già, an-che il piercing al capezzolo è stato fatto tenendo per mano Cinzia.Trasgressione, ma casalinga. Come tante ragazze che fanno le ri-belli, che sono ribelli, ma che vogliono anche dolcezza. «Papà for-se potrebbe accettare un anno di lontananza, se ne farebbe una ra-gione, mia madre no. Ferma in un posto non potrei mai stare. Mapiù di un mese fuori non resisto. Anche con la lingua è stato diffici-le, ho paura di sbagliare, non mi butto, mi vergogno. Ma pane ecroissant sono favolosi. E anche nei supermercati la scelta e l’of-ferta biologica è vasta e a buon prezzo, introvabile in Italia. Questasì che è stata una bella sorpresa».
(segue nelle pagine successive)
spettacoli
Record store day, l’orgoglio del vinileVINICIO CAPOSSELA e GINO CASTALDO
FedericaPesce
di nome
Un
Mercoledì i campionati italianiPrima di tuffarsi la Pellegriniracconta le sue nuove sfide
fuori e dentro la vasca
Repubblica Nazionale
36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10 APRILE 2011
la copertinaCampionesse
(segue dalla copertina)
Scelte, cambiamenti, trasferi-menti. Di Federica Pellegri-ni, anzi Pellegrinissima, conil superlativo, come la chia-mano i francesi. O di MissPellegrini che ci ha abituati
al world record, ai tacchi a spillo, alle un-ghie smaltate. Di un’azzurra che ha giàvinto e che è pronta a rivincere. Delladonna che si allena come un uomo. Co-stretta ad essere sola, perché le altre nonreggono il suo ritmo. Ad un esilio tecni-co, certo non in periferia. Nuovo allena-tore, nuova città, in cerca di una cuccia.Da Verona a Parigi, dal tecnico Morini,dopo la morte del ct Castagnetti, al fran-cese Philippe Lucas, sempre con LucaMarin, suo fidanzato e anche lui nuota-tore, con prove di convivenza. «I cam-biamenti fanno bene, ma un po’ di pau-ra l’avevo. Anche quello di non riuscire acondividere gli spazi con Luca, di sentir-mi soffocata, invece è stato molto rispet-
toso, dà sempre un mano, io cucinavo iprimi, lui la carne, per i piatti c’era la la-vastoviglie. Abbiamo pranzato e cenatoquasi sempre in casa. Se ti alleni di mat-tina e pomeriggio poi non ne hai più. Lepulizie di casa invece toccano a me, perscelta. Non trovo ci sia nulla di disdice-vole. Occuparsi del proprio spazio non èabbassarsi. Pulire mi distende, mi rilas-so a vedere la lavatrice che gira, stende-re i panni dà belle sensazioni, ma ormaiè una pratica proibita e dovrò comprar-mi un’asciugatrice. Con Lucas ho rico-minciato da zero, ho lavorato come maiprima, venti chilometri al giorno di nuo-to, è un allenatore con una metodologiaclassica, sa quando massacrarti e quan-do darti sollievo, e sa gestire le pressioni,Castagnetti sui programmi era più mo-derno. Cercavo un allenatore che fossegià stato in situazioni importanti, capa-ce di proteggerti dall’esterno. A me inte-ressava il tecnico, non la persona: Lucasè venuto a casa mia, si è seduto al nostrotavolo quadrato, ha guardato negli oc-chi me i miei genitori, e mi ha detto chesarebbe venuto a Verona a seguirmi. So-
no cose che contano. Io sono stata ai pat-ti: sono andata a Parigi ad allenarmi inattesa del rifacimento del centro sporti-vo di Verona, ora tocca a lui spostarsi, daqui ai Mondiali di Shanghai. E dopo iMondiali vedremo i risultati, non so secontinuerò con Lucas».
Nella costruzione di una campiones-sa olimpica e mondiale non ci sono solosveglie, lavoro, fatica, disagio adole-scenziale, acne, bulimia e miopia. C’è lasua famiglia, papà Roberto, mammaCinzia, il fratello Alessandro. E la capa-cità e la difficoltà di conoscersi, di sce-gliersi una via, di saper ubbidire nell’in-dipendenza. Anche se si è una ragazza diventitré anni, padrona del mondo e del-la storia, che ha affrontato il suo buio.«Dopo la morte di Castagnetti, che perme è sempre Alberto, sono passata aMorini. È stato un anno difficile, ho sop-portato cose intollerabili, io devo nuota-re, non mi posso caricare di tensione, dipressioni di altri. Se ho un rammarico èquello di non aver interrotto prima ilrapporto, però pensavo che a tutti va da-ta una seconda possibilità. Riuscire a ca-
pire quello di cui si ha bisogno è ancheassumersi la responsabilità di dire no. Eda mercoledì sono in acqua a Riccione,ai campionati italiani, dove nuoterò dai100 agli 800. Ci tengo ad essere veloce, arituffarmi nel mio nuoto, mi dispiaceche non ci sia Alessia Filippi, sono rima-sta molto sorpresa dalla sua scelta di ri-tirarsi per un po’, di non gareggiare più,di mettersi in stand-by. Capisco che èdifficile nel nostro sport farsi una fami-glia, o almeno provarci, ed essere com-petitive. E capisco anche la difficoltà distare a galla quando si sta male, è capita-to anche a me. Ma Alessia era un grandepunto di riferimento in un nuoto azzur-ro che ha piccole dimensioni, noi nonsiamo né l’America né l’Australia, nonabbiamo quei ricambi veloci, né tuttaquella possibilità di scelta fatta di grandinumeri, di nuovi serbatoi, infatti aspet-tiamo le nuove generazioni, sempresperando che si punti sui giovani. Da noifare il tecnico di nuoto significa fare unsecondo lavoro, non pagato. Ho iniziatoad andare in piscina che ero piccinina, aquattro anni, e le sveglie all’alba quando
sei ragazza pesano, perché ti ritrovi sola,in un ambiente quasi ostile, in molti pae-si invece lo sport è una pratica di vita fre-quente e quotidiana. In Australia, inAmerica, le sei di mattina sono comemezzogiorno, trovi impianti funzionalie funzionanti, persone con cui condivi-dere un’esperienza»..
Lo sport ha allungato le carriere, an-che in acqua. A Londra vuole tornareThorpe, ventotto anni. «Con tutto il ri-spetto per il signor Thorpe, che non èuno qualunque ma un campione im-menso, io ci vedo un’operazione pub-blicitaria. Tanti soldi per un ritorno,nulla di male, ma lo sport non è un pro-dotto a lunga scadenza. Dovrebbe esse-re un momento, non un’eternità. Inve-ce ora si gestiscono ritorni e passato co-me fossero presente. E allora io lì ci vedouna malattia, una dipendenza, quellache non puoi vivere senza successo,quella che se non vinci perdi sicurezza,non sai chi sei. Come se la gara fosse latua sola identità, la tua unica possibilitàdi esistere. Capisco quando sei giovane,ma dopo non va più bene. E so che un
EMANUELA AUDISIO
LE PAUREÈ paradossale, almeno
per una nuotatrice campionessa
olimpica, ma una delle sue più
grandi paure è legata al mare:
in particolare all’acqua alta
dove non si vede il fondo
L’IMPEGNOÈ molto attiva nella lotta
alla bulimia, sul fronte
della sicurezza stradale
ed è stata anche testimonial
dell’associazione donatori
midollo osseo
IN POSASotto: Federica col bicchiere in
testa, da piccola,
e in costume a 10 anni
le curiosità LA FAMIGLIAPapà Roberto, ex paracadutista,
di professione barman;
mamma Cinzia, il suo punto
di riferimento; Alessandro,
il fratello di due anni più piccolo
Abitano vicino Venezia
LE PASSIONILe scarpe con il tacco alto
(non torna mai da un viaggio
senza almeno uno o due paia
di scarpe nuove), le unghie
smaltate e la moda in genere
(è stata testimonial di Armani)
LA PRIMA VOLTALa prima volta in piscina
con mamma. A sinistra:
Federica a Carnevale, 1991
“Non sarà un cronometroa decidere della mia vita”
IL BATTESIMOFederica nella sua culla
il 25 settembre 1988,
giorno del battesimo
IN CASAAccanto, Federica bambina
e, a destra, con i genitori
e il fratello Alessandro
“Basta Parigi, la lingua, il buio del mattino, due mesiinterminabili”. Dopo le prove con il nuovo allenatorefrancese, Federica Pellegrini torna a casa e si tuffanei campionati italiani di nuoto. Parla di sport, sveglie,amore, violenza e tatuaggi. E di nostalgia per un Paeseche “visto da fuori sempre rimasto fermo al medioevo”
Repubblica Nazionale
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 10 APRILE 2011
grande campione nasce anche dai bu-chi che si porta dentro, dai disagi, dallefragilità, della insicurezze che cerca dicolmare, facendosi molto strapazzare.Quello squilibrio, quella disarmoniaservono all’inizio, ma poi non vai avan-ti solo con quelle, hai bisogno di fare pa-ce con te stesso. E non capisco uno co-me Alain Bernard, campione olimpicodei 100 stile libero, che agli Assoluti diFrancia parla ai microfoni di radio e tv,disprezzando gli avversari, anzi sbeffeg-giandoli. Lo dico perché c’ero. E alla finecosa fa? Nemmeno si qualifica per iMondiali, affonda miseramente. Dico:allora perché prendere a schiaffi il mon-do, perché mettersi addosso altre pres-sioni, quando hai ventotto anni e dovre-sti essere un po’ esperto? Questa è unacosa che non farò mai. Non vado a direche ammazzo tutte le avversarie per poisuicidarmi con le mie parole».
Com’è l’Italia vista da lontano? «Fuo-ri di testa, assurda e medioevale. Pienadi delitti e di aggressioni difficili da im-maginare. La ragazzina tredicenne cheviene presa a sassate dal fidanzatino, la
morte di Yara senza un colpevole, nes-suno ha visto, né sentito, eppure parlia-mo di un paesino, fatto da vicini di casa.Siamo indietro nella mentalità e nellacultura. Il maschio non accetta il no,non ammette che la donna possa avereuna vita propria, anzi deve stare zitta eobbedire. Se gratti sotto i jeans, sottol’abbigliamento moderno, trovi ragaz-zini antichi come i loro bisnonni. E dachi imparano, qual è il loro specchio?Credo, senza voler giudicare, dagliesempi che hanno in famiglia. Se guar-di la data del calendario siamo nel 2011,se guardi la cronaca siamo mille anniindietro. Però penso che l’Italia ha nel-la sua storia delle sportive che possonodare l’esempio. Campionesse che han-no deciso da sole cosa diventare. Capa-ci di gestirsi, di migliorarsi, di tenere abada il mondo. Senza fare le vittime, an-zi scrollandosi il ruolo delle vittime, diquelle che io sono piccola e le altre sonopiù forti e oddio che paura, e questo èimportante. Io ho dovuto mettere viapresto le bambole Barbie in cantina».
Federica ha uno sponsor giapponese
(Mizuno). «Li ringrazio perché nono-stante il terremoto e quello che stannovivendo non mi fanno mancare il loroappoggio, sono attenti, e puntano mol-to al mondiale, che a luglio si svolge aShanghai, in Cina, non troppo distanteda loro. E anche per me il Mondiale èimportante, per valutare se certe scelteche ho fatto in vista dei Giochi di Londradell’anno prossimo sono giuste. Poi do-po Londra mi prenderò un lungo perio-do di riposo, forse uno stacco. Lo sportt’invecchia in fretta, dà e toglie, ho vo-glia di tutte quelle cose che adesso sonocostretta a fare in fretta. Voglio averetempo, quello giusto, per la curiosità e ilpiacere. Non solo il cronometro a giudi-care la mia vita. E no, non per fare altritatuaggi. I miei hanno detto basta, sia-mo quasi alla proibizione. Ne ho già set-te. Forse farò un’eccezione, dovessesuccedere qualcosa di strepitoso, ma-gari alle Olimpiadi». Quello dell’ArabaFenice, che le esce dal collo, si vede be-ne. Federica cambia, risorge, si tuffa.Bentornata chez nous, a casa.
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L’ARGENTO AD ATENEA 16 anni vince l’argento
nei 200 stile libero: è il ritorno
di un’italiana sul podio
a 32 anni dalla Calligaris
2004LA DELUSIONE EUROPEAA Budapest la ferma
un problema alla spalla
Dopo gli europei la allena
Alberto Castagnetti
2006IL TRIONFO OLIMPICOL’11 agosto il record del mondo
nelle batterie dei 200 stile libero
Due giorni dopo lo migliora
in finale, vincendo il primo oro
2008IL RECORD MONDIALEAi mondiali vince 400
e 200 stile libero: è la prima
a fare i 400 metri
in meno di 4 minuti
2009
LE FOTOTutte le foto di queste pagine
provengono dall’archivio
di Federica Pellegrini
In copertina: Federica
si tuffa in piscina
con il fratellino Alessandro
SUL PODIOSopra, Federica sul podio
nel 2003 quando conquista
il primo titolo italiano
LO SQUALOA centro pagina e qui sopra:
Federica in tenuta
da “nuotatrice-squalo”
CARTA D’IDENTITÀdata di nascita:
5 agosto 1988 a Mirano (Venezia)
altezza:
177 cm
peso:
59 kg
segno zodiacale:
leone
squadra del cuore:
Juventus
I TATUAGGINe ha sette: un’Araba Fenice sul collo
(fatto a 17 anni), una piuma sul piede
sinistro (dopo l’Oro del 2008),
uno con scritto “Niente altro che noi”
dedicato al fratello (a 18 anni),
uno sul piede destro con la scritta
“Balù” dedicato al fidanzato
(nel 2008), uno tribale sul fondo
schiena (a 15 anni), un drago
sulla caviglia destra (a 14 anni),
e l’ultimo: tre rose posate sull'acqua
Ha anche un piercing al capezzolo
sinistro. Ma ora ammette: «I miei
hanno detto basta. Forse farò ancora
un’eccezione. Magari alle prossime
Olimpiadi...»
LA DIETADa adolescente ha avuto
problemi di bulimia, oggi
segue una dieta prescritta
dal suo allenatore
che prevede un po’ di tutto
limitando i dolci e i grassi inutili
L’ALLENAMENTOOtto ore al giorno, tutti i giorni
Solo dopo le gare qualche
giorno di ferie. Con il nuovo
allenatore, Philippe Lucas,
sveglia alle 5, in vasca
alle 6 per venti chilometri
“Non sarà un cronometro
IL FIDANZATOFederica con il fidanzato
Luca Marin in una foto
scattata nel 2008
Repubblica Nazionale
LONDRA
«Non mi sono sveglia-to una mattina conl’idea di diventarecattolico. È stato
un viaggio ecumenico, un lungo processo,una lenta progressione. Ci avevo pensatotante volte, in passato. Ho avuto conversa-zioni e discussioni con le persone a me piùvicine e più care. Da sacerdote anglicanomi ero sempre battuto per unire anzichéseparare le nostre due confessioni cristia-ne. E ricordo bene come io e mia moglie,quando eravamo giovani, a Liverpool, fos-simo affascinati dalle funzioni cattoliche,sentissimo un richiamo che ci portava ver-so quella direzione».
Io e mia moglie. Parole che suonerebbe-ro sacrileghe in bocca a un prete cattolico.Non in questo caso. Perché padre KeithNewton, 59 anni, si è sposato nel 1973 conGill Donnison, da cui ha avuto tre figli, Lucy,Tom e James (la primogenita gli ha già datouna nipotina), è diventato sacerdote angli-cano nel 1976, è stato parroco di Southwarke Bristol, ha fatto il missionario in Africa persei anni, nel 2002 è stato ordinato vescovodella Chiesa d’Inghilterra. Poi è cominciataun’altra storia: Newton ha compiuto ilgrande balzo verso Roma, convertendosi alcattolicesimo, insieme alla moglie, il primogennaio di quest’anno, e ricevendo l’ordi-nazione a sacerdote di Santa Romana Chie-sa due settimane più tardi, nella cattedraledi Westminster, ad opera dell’arcivescovoVincent Nichols, primate dei cattolici ingle-si, con la benedizione di papa BenedettoXVI, che nello stesso giorno lo ha nominatocapo dell’Ordinariato di Nostra Signora diWalsingham, facendone il leader del nuo-vo, crescente gregge degli anglicani conver-titi nel Regno Unito.
Newton è il figliol prodigo, la pecorellasmarrita più preziosa tra quelle tornate al-l’ovile. Ma non l’unica. La messe più ricca èdi qualche settimana fa: il 12 marzo scorsonovecento anglicani hanno partecipato alRito di elezione, primo passo verso il catto-licesimo. Anche se i cattolici nel regno Uni-to sono soltanto 4,2 milioni contro i 25 mi-lioni di anglicani, le parrocchie che si rifan-no a Santa romana chiesa sono in crescita.Giorno dopo giorno soprattutto gli espo-nenti della high church inglese, vale a direl’ala della chiesa d’Inghilterra da semprepiù conciliante verso un ritorno al Vaticano,si avvicinano un po’ di più al Tevere. Meritoanche di un contesto culturale favorevoleche ha avuto i suoi picchi nel 2007 con laconversione dell’ex premier Tony Blair, lavisita l’anno scorso di Benedetto XVI e la
beatificazione di John Henry Newman, ilgrande filosofo e teologo anglicano conver-titosi nel 1845.
Tutto questo passa sopra le evidenti ecce-zioni che una figura come quella di Newtondovrebbe sollevare: un prete cattolico che èanche marito, padre, nonno, in violazionedelle rigide norme sul celibato fatte osserva-re dal Vaticano, alle quali il pontefice faun’eccezione appunto per i sacerdoti angli-cani che tornano nel suo gregge permetten-
do loro di conservare “l’identità e le tradi-zioni” del culto precedente. Tra le quali c’èla regola che consente ai preti di avere moglie figli. Il paradosso è che tutto ruota attornoalle donne, in questo ritorno delle pecorellesmarrite verso Roma: a causa delle (sue)donne Enrico VIII creò la Chiesa d’Inghilter-ra, a causa delle donne (preti e vescovi) i sa-cerdoti come padre Newton hanno decisodi convertirsi al cattolicesimo, sulle donne(loro spose) il Vaticano ha deciso di chiude-
re in questo caso un occhio. Anzi tutti e due.«Mia moglie e la mia famiglia mi sono sta-
ti di grande sostegno durante tutto il mio mi-nistero», dice padre Newton, «e so che con-tinueranno ad appoggiarmi in questo nuo-vo viaggio. Sono felice che la mia sposa ab-bia ricevuto la santa comunione cattolicainsieme a me, il primo gennaio scorso. È sta-to più difficile per i miei genitori, mio padreora è morto, mia madre non ha compreso fi-no in fondo la mia decisione ma la rispetta.Io sono nato e cresciuto come anglicano, al-l’inizio uno prende la fede della sua famiglia,è così per tutti. Ma ho sempre sentito il ri-chiamo del cattolicesimo. In seguito ho vis-suto l’ordinazione delle donne come preti evescovi della chiesa anglicana come unascelta sbagliata. Tuttavia non diventi catto-lico perché qualcosa non ti piace nella Chie-sa d’Inghilterra, lo diventi perché più cose ticonvincono in quella di Roma».
Padre Newton è un intellettuale, laurea-to in teologia al King’s College di Londra,con un master al Christchurch College diCanterbury: papa Ratzinger non lo ha scel-to a caso come capo degli anglicani con-vertiti. «Guardo ai miei 35 anni di ministe-ro anglicano con orgoglio e gratitudine, è lachiesa anglicana che mi ha allevato nella fe-de cristiana, è dentro di essa che ho scoper-to, quando ero ancora adolescente, la miavocazione. Non vedo la mia conversionecome una rottura, bensì come parte di uncontinuo pellegrinaggio di fede iniziato colbattesimo. Mi mancano i fedeli anglicaniche non mi hanno seguito, mi confortanoquelli che hanno voluto restare al mio fian-co in questo viaggio, convertendosi an-ch’essi. Mi piaceva fare il vescovo, ma incuor mio resto soprattutto un parroco.Quanti preti anglicani faranno come me?Per ora una cinquantina, credo. Ci sonostati e ci saranno momenti difficili, la no-stra scelta ha comprensibilmente deliziatoalcuni e irritato altri qui in Inghilterra, ma siè aperto un capitolo nuovo. E lo percorre-remo con fede, speranza, carità».
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l’attualitàFamiglie cristiane
Sempre più anglicani si convertono al cattolicesimoe tra di loro ci sono anche sacerdoti sposati e con figliEcco come vengono dispensati dal celibato.E come il papatocerca di risanare una ferita cominciata quasi cinquecentoanni fa con un re volubile, un divorzio impossibilee un matrimonio scandaloso
“Mia madrenon ha compresofino in fondo la miadecisione ma la rispettaHo vissuto l’ordinazionedelle donne preti comeuna scelta sbagliata”
38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10 APRILE 2011
ENRICO FRANCESCHINI
LE DONNEÈ l’unica chiesa
cristiana in cui
le donne possono
essere ordinate
sacerdoti
e in alcuni casi,
dall’inizio degli anni
Novanta, anche
vescovi
LA SUCCESSIONEI vescovi anglicani
non negano
la dottrina
della successione
apostolica:
i vescovi derivano
la sacralità
direttamente
dai primi apostoli
IL MATRIMONIOIl celibato
per i sacerdoti
non è obbligatorio
Gli anglicani
sposati
che si convertono
al cattolicesimo
sono dispensati
dal celibato
CHIESA CATTOLICA
A capo della Chiesa
vi è il Papa,
vescovo di Roma
e discendente
dell’apostolo Pietro
Sotto di lui,
i cardinali
e la chiesa
episcopale
Il Vaticano
si è sempre
opposto all’idea
di sacerdozio
femminile
Chiunque ordini
una donna prete
è punito
con la scomunica
Secondo i cattolici,
soprattutto
dopo alcune
riforme successive
a Enrico VIII,
la successione
apostolica
per gli anglicani
non è valida
Tra i sacerdoti
il matrimonio
è proibito
già dal Concilio
di Roma del 386
Posizione divenuta
inflessibile
soprattutto
dopo l’anno Mille
ENRICO VIII
LE CONVERSIONIIn alto, tre ex vescovi
anglicani, passati
al cattolicesimo,
durante la funzione
nella cattedrale
di Westmister:
il primo da sinistra
è Keith Newton
Sotto, Benedetto XVI
con l’ex primo ministro
inglese Tony Blair
convertitosi
al cattolicesimo nel 2007
CLEMENTE VII
LO SCONTRO
Nei ritratti a fianco, Enrico VIII d’Inghilterra
e papa Clemente VII. La rottura tra il sovrano
dei Tudor e Roma si consumò nel 1533
quando Enrico sposò Anna Bolena
ripudiando la legittima moglie Caterina
d’Aragona. Il Papa scomunicò il re
che rispose con l’Atto di supremazia
con il quale il re si proclamava capo
della chiesa d’Inghilterra
Qui a destra, la bolla di scomunica
Il controscisma d’Inghilterra
CHIESA D’INGHILTERRA
LA STRUTTURAIl capo della chiesa
è il sovrano
d’Inghilterra
Il primate
è l’arcivescovo
di Canterbury,
primus inter pares
di un governo
episcopale
Repubblica Nazionale
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 10 APRILE 2011
Il fattoreAnna Bolena
AGOSTINO PARAVICINI BAGLIANI
Scisma è una parola di originegreca che significa squarcio,fenditura, quindi anche dissidio
e, nel linguaggio ecclesiastico, sepa-razione all’interno della Chiesa cri-stiana, la cui storia è attanagliata dascismi fin dai primi secoli. Quelli anti-chi, di Novaziano, di Melezio e di Lu-cifero di Cagliari, per esempio, sonooggi dimenticati. Altri invece — quel-lo tra Bisanzio e Roma, consumatosinel 1054 — sono momenti di rotturache fanno parte della nostra memoriastorica. Anche la Riforma protestan-te, con le sue varie chiese, luterana,calvinista e zwingliana, provocò unaseparazione definitiva da Roma che èstata appena attenuata dall’ecume-nismo di questi ultimi decenni.
Meno di vent’anni dopo le famosetesi luterane di Wittenberg (1517) chesegnarono l’inizio della Riforma, il reinglese Enrico VIII promulgò nel1534 l’“Atto di supremazia” che glipermise di sostituirsi al Papa nel go-verno della chiesa del suo regno, al-lontanando così definitivamentel’Inghilterra dalla cattolicità romana.È una storia, quella dell’anglicanesi-mo, che ha conosciuto momenti dialtissima drammaticità. Nel 1587 lacattolica Maria Stuarda, regina diScozia, fu fatta imprigionare, con-dannare per tradimento e giustiziaredalla cugina Elisabetta I, regina d’In-ghilterra, figlia di Enrico VIII. Ma èuna storia attraversata anche da mo-menti di forte compromesso. Già ilLibro della preghiera comune (Bookof Common Prayer), pubblicato nel1549, lasciò ampio spazio alle ceri-monie e preghiere della liturgia cat-tolica. Nel Settecento, la gerarchiaanglicana, diretta da William Laud,arcivescovo di Canterbury, e soste-nuta da Carlo I, guardava con favoreal cattolicesimo, provocando unaforte opposizione dei puritani.
Contrariamente alla bassa chiesa(Low Church), più ostile a Roma, laHigh Church (chiesa alta) espressenella dottrina, nella liturgia e nell’or-ganizzazione ecclesiastica linee dicontinuità con la Chiesa cattolica, edè su questa linea storica di lunga du-rata che si sviluppò nei primi decennidell’Ottocento (1833) il cosiddettomovimento di Oxford, di cui fece par-te John Henry Newman, che LeoneXIII creerà cardinale nel 1879 (e Gio-vanni Paolo II beatificherà nel 2010).Aveva contribuito alla nascita del mo-vimento oxoniano il desiderio di ri-leggere i padri della Chiesa ma ancheuna certa nostalgia della ritualità cat-tolica. Il vicario anglicano W. J. E. Ben-ner aveva fatto scalpore intorno al1850 con le sue proposte di reintro-durre nella vita liturgica anglicana lecandele, l’incenso, oltre che oggetti evesti liturgiche.
Il movimento di Oxford segnalal’esistenza di una linea di fondo, in se-no all’anglicanesimo, che non riusci-ranno a fermare i regolamenti disci-plinari di tardo Ottocento e che, anzi,è contrassegnata da conversioni illu-stri, prima fra tutte quella di JohnHenry Newman (1845), la cui perso-nalità influenzò altri convertiti famo-si, come gli scrittori Julien Green(1916), G. K. Chesterton (1922) eEvelyn Waugh (1930). Su quell’ondalunga nascerà nel secondo Novecen-to un genuino orientamento ecume-nico sostenuto dall’arcivescovo diCanterbury A. M. Ramsey.
L’anglicanesimo, scisma nato perragioni essenzialmente politiche — ilmatrimonio di Enrico VIII con AnnaBolena, osteggiato dalla Chiesa di Ro-ma — ha da sempre oscillato tra unforte sentimento nazionale e anti-ro-mano, vicino ad altri movimenti rifor-matori (calvinismo), e un’attrazione,anche nostalgica, verso il cattolicesi-mo che si manifesta fin dall’inizio eche non sembra affatto essersi affie-volita. È uno scisma in qualche modoa metà — non a caso si attribuisce aNewman la coniazione del termine divia media — un caso unico in seno al-le Chiese nate dalla Riforma del primoCinquecento.
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40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10 APRILE 2011
La Grande Guerradi propaganda
trinceain
Giornali
TRIESTE
ATrieste ai tempi del-l’asilo passavo orestupende nella sof-fitta della nonna tra
mucchi di cose dimenticate. Ci stavocome un topo nel formaggio, e fu lìche scoprii l’esistenza dellaguerra. Accadde quandovennero fuori gli scarponichiodati con cui nonnoFerruccio, in divisa au-striaca, era tornato dalfronte russo in Gali-zia. Da allora mi misia cercare febbril-mente, come un ar-cheologo in una tom-ba assiro-babilonese.In quella ricerca, il se-condo conflitto mon-diale non aveva lasciatotraccia, non fosse per un el-metto della Wehrmacht conun’indecifrabile scritta in pen-nello bianco: “Jatoj”.
Il fantasma che usciva dai cas-settoni e dagli armadi era sempre lostesso: la Grande Guerra. Di quelloc’erano immagini. Non foto, ma di-segni e caricature. Il meglio eranodue risme di una rivista in lingua te-desca a caratteri gotici. Portava il no-me di Muskete, “il moschetto” ed erastampata a Vienna. Lo scontro piùsanguinoso del secolo vi apparivacome un fumettone per adolescen-ti. La trincea asburgica era uno spa-zio di allegre scorribande, dove le cu-cine fumavano sempre, mentre ilnemico italiano era magro e scalca-gnato, una banda di polli da infilzareallo spiedo. Impossibile non parteg-giare per gli austriaci.
Poi accadde che in un armadio,accanto a una scorta di nocino e co-tognate coperta di ragnatele, venis-sero fuori cartoline con disegni a co-lori di parte italiana. Favolose, un ve-ro tesoro. Le ricordo come fosse ieri.C’era scritto La Tradotta, con accan-to la firma dell’autore, Antonio Ru-bino. Una aveva per titolo “Sul Piavepiove”, e mostrava una pirotecnia digranate sul fiume, contro le trincee
All’inizio erano solo fogli di brigata ciclostilati, fu dopo Caporettoche tutto cambiò. Per risollevare il morale delle truppe, e risponderecolpo su colpo alla “controinformazione” austriaca, per la prima volta
il fronte italiano venne raccontato con meno retorica e più colore dai migliori umoristi,disegnatori e poeti del Paese: De Chirico, Malaparte, Ungaretti. Nacquero allorariviste come “La tradotta” o “la Ghirba”. Ora esposte in una mostra a Genova
CULTURA*
PAOLO RUMIZ
LE IMMAGINIIn queste pagine i giornali
del fronte della Grande
Guerra italiani e austriaci
Quelli italiani saranno
esposti nella mostra
Giornali di trincea durante
“La storia in piazza”
Repubblica Nazionale
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 10 APRILE 2011
austriache piene di uomini dai nasia patata, le bocche aperte e la divi-sa grigia. Un’altra era “L’offensivadella sete”, con fanti italiani checon gli scarponi schiacciano i“crucchi” in un pantano pienodi allegri ranocchi.
Confuso, andai dalla nonnaa chiederle per chi parteggia-re, austriaci o italiani. La vec-chia spiegò pazientementeche Trieste era un luogo spe-ciale. Il nonno aveva fatto laguerra con gli austriaci, masuo fratello era scappatodall’altra parte per far vin-cere l’Italia. Anche perquesto, disse, dopo il ’18erano piovute nel sotto-tetto scartoffie di en-trambe le parti in con-flitto. Concluse che latrincea era una por-cheria e quei disegninon dicevano il ve-ro. Fui ovviamentedeluso, perché dabambini si ha bi-sogno del buonoe del cattivo. Daallora la soffitta
mi interessò meno, fin-ché mi dimenticai di quelle meravi-glie di carta. Le quali, al primo traslo-co, finirono inevitabilmente al ma-cero o dal robivecchi.
Solo più tardi ho capito il sensodella propaganda e imparato a de-crittarne la grafica. Ed ecco che da-vanti alle mostre sul tema, comequella sui giornali di trincea in aper-tura dal 14 al 17 aprile al Palazzo Du-cale di Genova nell’ambito della se-rie “Storia in piazza”, mi si apre undoppio viaggio nel tempo: nell’in-fanzia e nella Grande Guerra. Cura-ta da Francesco Maggi, originaria-mente filatelico, la rassegna porta inluce un’iconografia rivoluzionariaper l’Italia di allora (vedi www.gior-naliditrincea.it). È quella che esplo-de dopo Caporetto, quando il sadicoCadorna viene mandato a casa e ilnuovo comandante in capo Arman-do Diaz ordina di rialzare il moraledelle truppe con la diffusione di gior-
nali da prima linea, sotto il coordi-namento di uno speciale ufficio del-lo stato maggiore.
Fino a quel momento la guerraper parte italiana esprime poco: fo-gli ciclostilati di brigata, come LaBaionetta o La marmitta, ristretti —spiega Mario Isnenghi, tra i pochi adavere frugato criticamente in questoangolo della storia nazionale — auna dimensione di «intrattenimen-to goliardico», minimali come illu-strazioni e per addetti ai lavori. Nel-l’inverno del ’18 cambia tutto, na-scono giornali nuovi, irrompe il co-
lore, il linguaggio diventa meno re-torico, i migliori disegnatori e umo-risti del Paese si mobilitano. È l’ade-guamento alla pubblicistica che glialleati — Francia, Inghilterra, StatiUniti — hanno già messo in campo.
Ed ecco La Tradotta, con i disegnidi Antonio Rubino ed Enrico Simo-ni, e la rubrica delle lettere del solda-to Baldoria alla sua fidanzata, a curadell’inviato del Corriere BernardoFraccaroli. Ecco Ardengo Soffici chefonda La Ghirbae chiama a disegna-re Giorgio De Chirico; è il più salacedei giornali di trincea, con la corri-
spondenza fra il fante «quasi arditoex piantone» Arcibaldo Dalla Daga ela bella, di nome ovviamente Teresi-na, e di cognome, pensate un po’,Dal Fodero. Il motto di Soffici è «Laguerra è amara, addolciamola conl’allegria». Sul Montello appaiono idisegni del futurista Mario Sironi; sulSempre avanti delle truppe italianein Francia, scrivono Giuseppe Un-garetti e Curzio Malaparte.
Mai esposti prima, a Genova com-paiono anche i giornali di con-troinformazione in lingua italianache il nemico diffonde oltre la lineadel Piave con gli aerei o le “Frieden-granate”, le granate (inoffensive)della pace. Ci sono La domenica del-la Gazzetta, che propaganda l’inesi-stente dolce vita dei prigionieri ita-liani in Austria, o il foglio La Gibernacon la triste istoria dei profughi dal-l’Istria e Dalmazia che finiscono, siscrive, in un’Italia alla fame.
L’Austria, che non aveva un Ca-dorna capace di irritare anche lastampa del proprio Paese (vedi nel1915 la polemica col direttore delCorriereAlbertini) era partita in anti-cipo coi periodici di guerra, in tutte ledieci lingue dell’impero. Prima fu laconversione bellica di settimanalicome l’Interessante Blatt o il miticoMuskete con le caricature di FritzSchoenpflug, poi vennero i giornalidi trincea, come il Vilàglapia in un-gherese o l’Unsere Krieger, che ha inprima pagina lo stemma di Turchia,Germania e Bulgaria accanto all’a-quila austriaca.
Roberto Todero, che anche sulterreno è uno dei più attenti ricerca-tori di cose della Grande Guerra at-torno a Trieste e Gorizia, un giornoha trovato in una grotta del Carsoun’armonica a bocca asburgica av-volta in una copia del giornale Mili-tarzeitung. «Era lì da novant’anni —dice — ma sembrava appena depo-sta dal suo proprietario. Ne so ancheil nome, perché sul foglio c’eranoprove a inchiostro della sua firma.Briciole di umanità perduta che tifanno sentire quella guerra tremen-damente vicina».
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Le lettere d’amore tra il fanteArcibaldo Dalla Dagae la bella Teresina Dal Fodero
Mai esposte prima le testateche il nemico diffondeva oltrela linea del Piave con gli aerei
LA MOSTRA
La seconda edizione
de La storia in piazza
(curata da Donald Sassoon)
a Genova, Palazzo Ducale
dal 14 al 17 aprile affronta
il tema della guerra con
incontri, letture, musica,
teatro. Ospiti tra gli altri:
Marco Aime, Antonio
Cassese, Enzo Bianchi,
Salvatore Veca, Lucio
Caracciolo, Adriano Sofri,
Tzvetan Todorov, Maurizio
Ferraris, Vincenzo Cerami
Info: tel. 010 - 5574064/65
www.lastoriainpiazza.it
Repubblica Nazionale
Messi in crisi da Internet, dati per morti a causa dei grandi megastore,i vecchi antri delle meraviglie specializzati in “scommettoche non ce l’avete”, ritrovo di musicisti, monomaniaci
e perditempo sono ancora lì. Ora un libro li racconta mentre festeggianoin tutto il mondo il giorno dell’orgoglio del vinile
Scaricare musica forsecosta meno
Ma cosa ascoltanoin quel negozio?
NienteChi ci incontrerete?
NessunoDove sono le bacheche
per formare banddestinate a sfondare?Risparmierete un po’di sterline, ma avrete
gettato alle orticheuna carriera,
un bel po’ di amici,il vostro gusto musicale e,
alla fine, la vostra animaI negozi di dischi
non vi salveranno la vita,ma possono renderla migliore
SPETTACOLI
42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10 APRILE 2011
Negozi di dischi? E cosa sono? po-trebbe rispondere un adolescentefoderato di gadget elettronici, abi-tuato all’idea che la musica si trovain Rete (e dove se no?). Il caro vec-chio negozio di dischi,
quello dove si va a perderetempo, ad ascoltare,a farsi consigliare, è arischio estinzione,strangolato dai mega-store globali e soprat-tutto dalla pratica deldownload. Estinzione sì,ma non del tutto rasse-gnata. Anzi, tira aria di ri-scossa, a partire da una cla-morosa iniziativa che, ini-ziata in sordina nel 2008, ap-proda trionfalmente allaquarta edizione, il Record Sto-re Day, programmato per il 16aprile, con l’appoggio convintodi molte rockstar, alcune dellequali, come i Radiohead, pubbli-cheranno proprio quel giorno undisco in vinile con due brani inedi-ti da vendere, per l’appunto, nei fa-mosi negozi, quelli che resistono eche oggi rialzano la testa.
Certo, può darsi che i Radioheadintervengano perché avvertono unleggero senso di colpa, essendo traquelli che, proponendo nel 2007 l’ac-quisizione del loro disco In Rainbowsdi-rettamente dal loro sito, contribuironoad allargare la ferita mortale che il down-load sta infliggendo ai negozi. Ma la mobi-litazione è ampia, uno squillo di tromba indifesa dei territori privilegiati della musica.Del resto chi nella vita ha sperimentato l’at-mosfera unica, l’aura di complice condivi-sione che si può sperimentare in un negoziodi dischi ben organizzato, sa quale perditapossa essere per la qualità della musica, comeè magistralmente raccontato nel romanzo Altafedeltà di Nick Hornby.
A celebrarne la saga arriva anche un libro, scrit-to da un infaticabile ed entusiasta distributore didischi inglese, Graham Jones, uno di quelli che coinegozi ha convissuto per tutta la vita e che ora hadeciso di raccontarne la storia, gli aneddoti, glieroismi, un diario di viaggio che si intitola Il 33° gi-ro. Gloria e resistenza dei negozi di dischi. E di gloriasi tratta. Il libro racconta di un drappello di soprav-vissuti ben intenzionati a vendere cara la pelle, per-fino ottimisti sul futuro, piccoli eroi del territorio,amorosi, competenti, empatici col pubblico degliacquirenti, in grado di capire subito se un tipo chechiede Jammy Rocker in realtà vorrebbe dire Jami-roquai, oppure cercando un disco di canti grego-riani chiede un disco di Greg Orian. O l’attempatacliente che in cerca di una compilation chiede una“copulation”, oppure quello che con altera sicu-rezza pretende un disco di Dj Ango (per DjangoReinhardt). Emerge dai racconti uno straordinario
spaccato delle bizzarrie umane, visto che per defi-nizione il negozio di dischi attira una clientela dimaniaci, curiosi, o semplicemente perditempo.
A Bath, racconta Jones, c’è un negozio di nomeDuck, Son & Pinker aperto dal 1848, come negoziodi strumenti musicali, perché i dischi all’epoca an-cora non c’erano. Tra i clienti più devoti vanta unasignora che compra solo dischi che hanno volatiliin copertina. Ci sono clienti che puzzano (secondal’esperienza di Jones in media ogni negozio ne ave-va uno) e altre stramberie come il tipo che compra-va le cose sempre in numero di sette (fossero pun-tine da giradischi, pulisci-cassette o altro). Ognistoria è di fatto la storia di una passione commer-ciale, dei trucchi escogitati per incrementare levendite, per combattere la crisi con ingegno e crea-tività. In un negozio di Trowbridge, Sound intere-sting, il proprietario ha messo fuori un cartello con
la scritta «Siamo specializzati in: scommetto chenon ce l’avete» sfidando la tenacia dei cercatori piùaccaniti. Ci sono negozi semplicemente belli, co-me quello di stile new age a Glastonbury, ce ne so-no in Cornovaglia, nel Surrey, nel Sussex. Uno deipiù famosi, l’Afdrian recods di Wickford, cominciòcome un negozio che vendeva lana e dischi allostesso tempo, per poi dividersi in due per l’assolu-ta incompatibilità tra i diversi acquirenti. Insom-ma un divertente affresco che racconta la storia pa-rallela alle vicende della musica, quella dei luoghidove per decenni la musica è stata venduta. Spes-so con incroci esilaranti.
Ovviamente può capitare che tra i clienti ci sianoanche gli stessi musicisti. Van Morrison apparespesso nel libro, un frequentatore di negozi parti-colarmente burbero. Al suo apparire il commessotrema. Chiede cose difficili, si arrabbia se uno non
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GINO CASTALDO
capisce e se un malcapitato si azzarda a lanciare unconsiglio rischia seriamente la sua incolumità.Uno degli aneddoti più divertenti riguarda i Clash.Il proprietario di Selectadisc, un bel negozio di Not-tingham, si accorse che nel vicino pub c’era JoeStrummer. Gli parlò e gli confessò di essere rimastomale per il fatto che i Clash non avevano parteci-pato alla mobilitazione dei musicisti inglesi in fa-vore dei minatori in sciopero. Strummer risposeche avrebbero fatto un concerto nel suo negozio. Ecosì fu, i Clash suonarono in piedi sui banconi di Se-lectadisc, e la situazione era talmente assurda cheun ragazzo andò da Strummer per congratularsiper come avevano eseguito bene le cover dei Clash,proponendo di ingaggiarli per la festa da ballo delcollege. Dove poteva accadere tutto questo, se nonin un negozio di dischi?
La resistenzadei negozidi dischi
Nick Hornby‘‘
‘‘Chuck BerryLa musica è parte essenzialedella nostra cultura, e i negozidi dischi sono fondamentaliper mantenere in vita la magia
Tom WaitsChi lavora qui ci capisceNon rimpiazzateli con chi non hale idee chiare. Teneteli aperti,sono le orecchie della città
Repubblica Nazionale
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 10 APRILE 2011
‘‘Ian GillanComprate musicanei negozi di dischidegni di questo nome,o verrò a casa vostrae me la prenderòcon vostra madre
‘‘Bruce SpringsteenCompro cd in continuazioneEntrerò in un negozioe ne acquisteròper cinquecentodollari. Sostengoda solo ciò che restadel music business
‘‘Henry RollinsHo visto scomparirei negozi di dischiEcco perché ne visitoil più possibile e faccioincetta di dischi. Se tuttigli esercizi indipendentichiudessero i battentisarebbe una perditaenorme. Ogni voltache acquistate un disco in questi posti sferrateun colpo all’impero
IL LIBRO E L’INIZIATIVA
Esce martedì 12 aprile Il 33° giro. Gloria e resistenza
dei negozi di dischi di Graham Jones (Arcana, 390
pagine, 14,50 euro). E per il 16 aprile è in programma
il “Record store day”, una giornata dedicata
ai negozi di dischi e organizzata da molte rockstar
che pubblicheranno per l’occasione
un disco in vinile con due brani inediti da vendere
nei negozi “che resistono”
Trentatré giri, come un derviscioVINICIO CAPOSSELA
Checos’è questo buco nero, lucido come una pista da ballo?Che gira in tondo a giri sempre più piccoli? Un oggetto conuna sua bellezza che va oltre la musica che riproduce. Un
incantesimo da derviscio, una strada lucidata dalla pioggia chesuoniamo con i tacchi delle scarpe, prima di prendere il volo ap-pesi ad un ombrello…
Il disco è stato il primo formato di riproduzione della musica,dunque, come il metro, le ha dato forma e misura. Nel 45 giri hadeterminato la forma delle canzoni, la durata. Nel caso dell’al-bum, e in questa qualifica c’è il primo riferimento all’opera chesta dietro un disco, gli ha dato una forma divisa in due atti. Il latoA e il lato B. Dividere i lati lascia un respiro, che è scomparso conil suo successore, il cd digitale. Il disco in vinile è come il pia-noforte, necessita di un tetto sulla testa, e del tempo. Acquistareoggi un vinile significa dedicarsi del tempo, avere una serata daspenderci insieme. Come darsi un appuntamento. O ancora, co-me andare al cinema invece di guardare il film sullo schermo delcomputer.
Il mio amico Mr. Dum ha smesso di comprare musica da unpezzo, ma fino a che l’ha fatto ha acquistato solo vinile, spesso ce-dendo al fascino della copertina, perché «avendo una superficiepiù grande per l’immagine, mi dava l’impressione di comprareinsieme alla musica un opera d’arte...». Al di là della bellezza del-la grafica, della copertina e dell’oggetto in sé, che è imparagona-bile, c’è anche questa idea fondamentale di organicità dell’ope-ra dietro a un disco. Siamo liberi di spizzicare tra tutte le tracklistche vogliamo, ma nell’opera ci sono anche i recitativi, non sol-
tanto le arie. Un’opera è un lavoro in cui una canzone non può fa-re a meno dell’altra, così come le tappe fanno un viaggio per in-tero. In questo senso il vinile è ancora lo strumento più serio perascoltare un’opera. Non si può fare spesso, e per questo regalauna fruizione più intensa, che richiede più attenzione e dà qual-cosa di più in cambio. Richiede un atto. L’atto di ascoltare.
Personalmente ogni tanto mi concedo un atto ancora più sen-tito, quella specie di seduta spiritica che è il 78 giri. Mettere ognivolta una puntina nuova, una specie di chiodo affilato, caricare lamanovella, staccare il fermo e liberare il fruscìo e la danza ele-gante della bachelite… La voce che esce dalla scatola è davverouna seduta spiritica con il tempo attraverso la musica. La vocesembra depositata nella scatola, come in un incantesimo si rie-suma quasi fisicamente un’epoca. Intensità opposta a sottofon-do. Emoziona anche per l’invenzione che c’è dietro: pensare aquei pionieri che hanno cercato di fissare in un supporto l’emo-zione riproducibile, come i fotografi fissavano l’immagine. Ogniepoca ha avuto il suo modo di fruire la musica. La nostra ci con-sente di andarci a spasso, di avere una scelta, sta a noi compierla.Il vinile è importante che esista, è un oggetto più duraturo e hauna storia molto più lunga dei supporti che gli sono succeduti, eoggi trova una nuova vita con l’incorporazione del digital down-load. È un elefante, richiede spazio e tempo, ma una volta che cisi sale in groppa c’è tutta un’altra vista. Per me ha segnato la sta-gione in cui la musica era “bigger than life”, cosa che mi pare con-tinui ad essere il suo scopo ultimo.
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44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10 APRILE 2011
le tendenzeGiungle d’asfalto
Bermuda o short, ma soprattutto veli impalpabili, cappellida Indiana Jones, stivali superleggeri, sciarpe di linoe sandali piatti. In attesa dell’estate che verrà, dominanobeige, look safari e effetto esotico.Perché con una sahariana addosso è molto più facile sentirsi in vacanza
L’importante è non esagerare. Con il deserto, con la sabbia, conil safari look. Ormai un grande classico che torna puntual-mente ogni anno con il primo caldo. Non è solo una moda, oun modo di vestire, ma un pacchetto di sensazioni e di emo-zioni, una cartolina illustrata che viene da molto lontano, uninsieme suggestivo di richiami esotici che ci fa sentire in va-
canza quando mancano ancora quattro mesi.Deserto, dune, una tenda. Chiudiamo gli occhi e siamo tutti in saharia-
na. L’archetipo, o meglio il testimonial più illustre, è Ernest Hemingway, chela sua safari jacket se la faceva confezionare con ben cinque tasche: quattroevidentemente non gli bastavano. Ma le signore devono dire grazie al miti-co Yves Saint Laurent, poi copiatissimo: saranno stati i natali in Algeria, o ilsuo genio ispiratore, fu lui che ridisegnò, caricandola di glamour e di sex ap-
peal, la sahariana, fu lui che nefece un’irrinunciabile oggettodi seduzione femminile. Era il1968, anno memorabile a Pari-gi per ben altri motivi, quandola top model Verushka posò inminiabito-sahariana YSL perVogue Francia. Quell’immagi-ne sensuale e libera diventòistantaneamente un’icona.
Dalla divisa coloniale all’u-niforme per la vacanza, per il safari all included, per la luna di miele in Kenya.Ma il look desert chic irrompe anche in città, in ufficio, nelle giungle d’a-sfalto, al supermercato, nella vita di ogni giorno. In fondo sono cinque pez-zi facili: smontabili e accessoriabili. La sahariana, il bermuda che può an-che essere uno short, il pantalone flou, l’abito di foggia coloniale, i desertboots. L’importante è l’effetto monocolore, che deve essere sabbia. Di sab-bia, vera sabbia proveniente dal deserto del Sahara, volle riempire il set diuna delle sue memorabili sfilate parigine Valentino, il quale si impuntò per-ché non era esattamente la sabbia che lui aveva in mente, come ci mostranei dettagli il film Valentino, l’ultimo imperatore.
Color sabbia che poi vuol dire kaki ma anche beige. Curioso: la parola bei-ge è identica in molte lingue. Italiano, francese, inglese, tedesco, spagnolo,svedese, olandese. Beige, salvacondotto esotico ma anche colore rifugio dichi non vuole sbagliare e aspira ad essere impeccabile. Colore perbene eperbenista che dona soprattutto alle bionde naturali. I signori della modalo declinano in cento sfumature diverse. Allora beige non vuol dire più nien-te: è piuttosto ecru, crema, toffee, talpa, tortora, ocra, cammello, caramel-lo, nocciola, caffellatte, avorio, avena, avana, fieno, greige... Comunque uncolore delicato e aristocratico, il sobrio colore coloniale di chi esplora e dichi comanda, ma anche il colore della perfetta neutralità.
La vie en rosediventa la vie en beige. È come se si spalancassero i bauli mo-nogrammati di un accampamento nel deserto: l’aroma è vintage, le stoffeesclusivamente naturali, cotone, drill, lino purissimo, ogni indumento èstazzonato ad arte, vissuto. Ci si sente come Meryl Streep ne La mia Africa,o come Kristin Scott Thomas nel Paziente Inglese, o come Debra Winger conJohn Malcovich in Un tè nel deserto. E il ricordo, la suggestione, il miraggiovolano ancora più lontano: ad Humphrey Bogart e a Catherine Hepburnnella Regina d’Africa. O al Clark Gable, alla Ava Gardner, alla Grace Kelly diMogambo. Intrigo, passione, avventura. Tutto grazie a una semplice giac-chettina beige.
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Il colore dell’avventuraper esploratrici di cittàLAURA LAURENZI
SNAKECappello in pelle di pitone
È la proposta di Etroper un look da deserto
EFFETTO USATOBoots in pelle
“effetto usato”La proposta Twin Set
di Simona Barbieriper la primavera 2011
PELLECon fiocchetto
e nappine,è in pelle intrecciata
la ballerinagriffata Prada
RESISTENTETracolla canvas in cotone organico
e pelle bovina: dettagli in metalloResistente all’acqua. Timberland
CLASSICOFibra naturale per il cappello
da uomo BorsalinoUn classico dal 1887
Repubblica Nazionale
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 10 APRILE 2011
“Alla donna che viaggia moltoserve una bella carta geografica”
SIMONE MARCHETTI
Ci sono intuizioni capaci di creare unimpero della moda. Una di queste è lacarta geografica d’antiquariato che
ha fatto da scintilla alla fortuna di AlvieroMartini 1A Classe, marchio di accessori eabbigliamento che ha eletto l’estetica delviaggio come principio fondante. In unastagione che vede il ritorno di sahariane, co-lori sabbiosi e accessori dall’effetto usato,da sempre assi nella manica di questobrand, abbiamo chiesto ad Antonella Me-mo, amministratore delegato dell’azienda,di entrare nel dettaglio di questa tendenza.
Cosa pensa del ritorno del look da viag-giatrice?
«Più che di look occorre parlare di realtà.Le donne che cercano questi prodotti sonodelle vere viaggiatrici. Per lavoro o per sva-go, prendono treni, aerei, navi. Sono moltopratiche e non hanno un’età precisa. La pri-ma cosa che richiedono è il comfort: il taccododici, su un volo di otto ore, non è proprioil compagno ideale. Ecco allora il successodelle sahariane, dei pantaloni comodi, del-le borse leggere oppure di quelle molto ca-pienti».
Come si spiega, invece, la predominan-za di colori chiari come bianco e kaki?
«Anche in questo caso, la scelta nasce daun’esigenza più pratica che astratta. Lamaggior parte dei viaggi di piacere si svol-gono in paesi caldi, dove le sfumature neu-tre sono più comode di quelle forti o di quel-le scure. Di conseguenza, anche in città sicontinua a scegliere questo tipo di esteticaper via della sua facilità».
Quali sono gli accessori e i pezzi più ri-chiesti?
«Oltre l’intramontabile sahariana, cheoggi rivive in tante versioni, soprattutto tec-
niche e anti-pioggia, c’è grande richiesta diT-shirt eleganti e di pantaloni comodi. Perle scarpe, poi, non ci sono dubbi: la nostrasneaker “Geo crossing”, una sportiva cheimpiega materiali preziosi insieme alla fa-mosa cartina di Alviero Martini 1A Classe, èil best seller. Unisce moda e praticità, duefattori fondamentali per capire questa ten-denza».
A proposito di cartina geografica, com’èstato crescere e sviluppare un’idea cosìbrillante?
«La stampa che ha reso famosa quest’a-zienda è la testimonianza di come il viaggioe la voglia di viaggiare siano un filo condut-tore della moda, un evergreen che nonsmetterà di dettare tendenza. La scommes-sa è rendere questo principio nuovo, arric-chendolo di colori e di dettagli. Nell’ultimastagione, per esempio, la fantasia “GeoWhite”, quella che ha sostituito il solito co-lor cuoio con un bianco ottico, ha ottenutoun grande successo. Il disegno tradizionale,però, continua a essere in cima alle prefe-renze: ci sono addirittura alcune clienti chechiedono una borsa col disegno del Paeseche hanno appena visitato».
Dai viaggi veri a quelli virtuali: questolook piace anche a chi compra online?
«Assolutamente sì. La voglia di viaggiare,per esempio, ha fatto nascere fan pagespontanee per il nostro marchio. Oggi ab-biamo una pagina Facebook istituzionaledove gli utenti continuano a commentare,postare idee, promuovere prodotti. Di con-seguenza, il commercio online è diventatouna realtà importante: oggi, sarebbe im-possibile fare business senza il mondo vir-tuale».
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CORNO & CANVASGilet con bottoni in corno,
pantaloni con volantse stivaletto in canvas
con riporti in pelleLa mise Emporio Armani
MILITAREChiara citazione militarenella giacca scamosciata
con tanto di coulisseche sottolinea il punto vita
Per la donna di Siviglia
COLONIALEAbito coloniale kakiin cotone con tascheTagliato dalla cintura
si abbina a sandali beigeComptoir des Cotonniers
DESERTOCintura in pelle e sandalialla schiava, si abbinano
alla tunica saharianain seta/lino colore
incenso. Di Ferragamo
CAMOSCIOLa camicia sportivaè in camoscio beige,
la gonna in seta lavataha il piegone. Alviero
Martini 1A Classe
MORBIDOJust Cavalli sceglie
un abito “tie and die”lungo in seta nei tonidella terra. Completail look la maxicollana
Antonella Memo/Alviero Martini 1A Classe
Repubblica Nazionale
Amatoe vessato, incensato dai me-dici e storpiato dai genetisti, adot-tato dagli chef eppure indirizzatoper gran parte nell’alimentazioneanimale, immancabile sulle tavoleorientali, mentre noi lo confinia-
mo nel territorio della nutriceutica. È il semedella discordia.
Sono queste le settimane giuste per semi-nare la soia, regina delle proteine vegetalidalle infinite proprietà gastro-terapeutiche,che abbiamo imparato a coltivare nelle re-gioni del nord, fino a diventare più bravi, intermini di rendimento agricolo, perfino diStati Uniti, Brasile e Argentina, ovvero iprimi produttori a livello mondiale con ol-tre due terzi della quantità totale disponi-bile sul mercato.
Per millenni, la soia ha parlato sola-mente cinese, grazie a una coltura agri-cola dedicata. Da lì al Giappone, molti se-coli dopo. Ma ben più tardivo è stato il suoarrivo in Europa, dove ancora nel Sette-cento la soia era presa in considerazionesolo come reperto botanico. Lo stessoBenjamin Franklin non va molto oltre la ci-tazione erudita nei suoi appunti scientificidatati 1775. Toccherà a erboristi e cucinieridi inizio Novecento dare finalmente dignitàalimentare a questa leguminosa, pur senzaraggiungere gli entusiasmi gastronomici chele riservano da sempre tutti i cuochi d’Oriente,seguiti negli ultimi anni da una vigorosa pattu-glia di chef occidentali.
Il guaio è che nessuno sembra più accontentar-si di impianti e rese tradizionali. La soia è conside-rato l’alimento a più alto tasso di contaminazioneOgm del pianeta, a partire dal 1995, quando la mul-tinazionale Monsanto lanciò sul mercato i semiRoundup Ready, modificati con l’inserimento diun batterio per essere più resistenti a erbicidi co-me il glifosfato. Ma in questo modo, le infestantidiventano ogni anno meno sensibili ai defolianti.Quindi, viene consigliato agli agricoltori di misce-lare il glifosfato con l’acido 2,4 diclorofenossiace-tico, già messo al bando in Scandinavia come can-cerogeno potente.
Malgrado la moratoria in atto contro gli Ogm,l’Europa importa ogni anno 41 milioni di tonnel-late di soia Ogm dal Sudamerica, giocando sullavaghezza della normativa riguardo la differenzatra alimenti geneticamente modificati tout court ealtri generati grazie a un supporto Ogm terzo, co-me nel caso dei mangimi per animali.
Per fortuna, il movimento contro gli organismigeneticamente modificati guadagna proseliti pro-prio nei Paesi più coinvolti nella produzione, dagliUsa al Brasile. E in contemporanea allo sloganOgm-free, cresce la percentuale di soia coltivatabiologicamente, per accontentare patiti del sushie intolleranti al glutine, dannati del colesterolo evegetariani, conquistati da questo minuscolo si-mil-fagiolo che sa trasformarsi in bistecca e budi-ni, cracker e panna, olio e salse.
Se vi sentite in vena di piccoli esperimenti gour-mand, provate a montare un cucchiaino di leciti-na di soia granulare con un filo d’olio (o di acquatiepida, nella versione ipo-calorica). Otterrete unafinta maionese da insaporire a piacere, in onoredel francese Maurice Gobley, che per primo isolòla lecitina nel tuorlo d’uovo (da cui il nome,lekithos) nel 1850. Sarà il vitel tonné più leggerodella vostra vita.
46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10 APRILE 2011
i saporiEtnici
Incensata dai medici e modificata dai genetisti, adottatadai grandi chef ma più spesso destinata all’alimentazioneanimale, immancabile sulle tavole orientali e ancoraguardata con sospetto sulle nostre. Soluzione idealeper allergici e vegetariani si lascia trasformare in bistecca,budino, cracker, olio. Oppure anche in vitel tonné
SoiaLICIA GRANELLO
BaccelliI frutti della glycine max,
in semina in questi giorni
nelle varietà gialla o nera,
hanno da due a quattro
semi ad alto tasso proteico
LattePreparato macerando,
frullando e cuocendo
in acqua i semi. È proteico
e poco grasso: perfetto
per gli allergici al lattosio
GermogliDi colore giallo e sapore
burroso (spesso scambiati
con quelli verdi, derivati
dai fagioli mung) hanno
qualità drenanti estimolanti
MisoBase della minestra apri-
pasto giapponese, è
una pasta sapida e densa
con semi di soia e riso
fermentati in acqua e sale
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Ingredienti per 4 persone
1 kg fegato di rana pescatrice1 litro acqua45 gr dashi (tonno affumicatoin polvere)45 gr sakè50 gr zenzero grattugiato75 gr salsa di soia60 gr lime150 gr brodo di dashi1 gr xantana (addensante vegetale)
LA
RIC
ETTA Albert Raurich
è chef-patron
di “Dos Palillos”
(due bacchette)
nel centro storico
di Barcellona,
dove reinterpreta
mirabilmente
le tapas spagnole
in versione
orientale
••••••••••Marinare in frigo il fegato pulito in acqua, dashi, sakè
e zenzero. Asciugarlo, salarlo e chiuderlo in una garza,
dandogli forma cilindrica. Cuocerlo a vapore per 20’
Appoggiare le fette su alghe wakame reidratate. Aggiungere
a lato un poco di rapa daikon grattugiata. Condire con salsa
Ponzu (lime, dashi, salsa di soia, xantana)
Fegato alla rana pescatricealla giapponese
Il seme della discordia
Repubblica Nazionale
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 10 APRILE 2011
itinerariDOVE DORMIRECASA MASOLI
Via Rossi 22
Tel. 335-6099471
Doppia 70 euro con colazione
DOVE MANGIAREOSTERIA DEL TEMPO PERSO
Via Gamba 12
Tel. 0544-215393
Solo la sera,
menù da 35 euro
DOVE COMPRARECOCCINELLA BIO
Via Faentina 63
Tel. 0544-463582
Ravenna
DOVE DORMIRELA DOLCE VITE
Via Cola di Rienzo 39
Tel. 02-48952808
Camera doppia da 120 euro
DOVE MANGIAREPONT DE FERR
Ripa di Porta Ticinese 55
Tel. 02-89406277
Menù da 35 euro
DOVE COMPRAREGELATO ECOLOGICO
Via Ravizza 5
Tel. 02-48010917
Milano
Il presidente Maoe il gioiello giallo
RENATA PISU
Il presidente Mao tuonava: colui che non sa di-stinguere i cinque semi non è un vero cinese!E i cinque semi erano riso, frumento, miglio,
orzo e soia: venivano mostrati agli intellettualiborghesi delle città e di loro si faceva grande scor-no se non li riconoscevano. Della soia allora, era-no gli anni Sessanta, da noi si sapeva poco e so-prattutto noi umani non la mangiavamo e dubi-to che ne avremmo riconosciuto il seme. I cinesiinvece se ne nutrivano da tremila anni almeno.Così rimasi esterrefatta quando in un bugigatto-lo di Pechino che si affacciava su un polverosohudong mi trovai davanti a una bella scodella dilatte tiepido che era latte di soia. C’era talmentetanto poco latte di mucca a Pechino in quegli an-ni che mi lasciai tentare. E bevvi il mio latte di soia.Buono? Non saprei. Di certo nutriente perché inCina lo adoperavano come sostituto del latte ma-terno, lo chiamavano “salvezza dei neonati”.Penso che tanti neonati siano stati davvero sal-vati dal latte di soia e che tanti ragazzini siano cre-sciuti forti e robusti grazie al tofu, che noi chia-miamo formaggio di soia ma che i cinesi chia-mano invece “carne senza ossa”.
L’aveva scoperto un alchimista del II secolo dinome Liu An il quale, nel corso dei suoi espri-menti per trovare l’elisir di lunga vita, si accorseche facendo cagliare i semi di soia tritati e sbol-lentati, si otteneva una sostanza pastosa, dellaconsistenza pressappoco di una mozzarella,inodore e anche insapore. Da allora in Cina, e an-che nei paesi che di molto le sono debitori, di to-fu si vive e la soia è da sempre celebrata come “ilgioiello giallo” e “il fagiolo sacro”. Nella Cina del-l’epoca di Mao, dove l’incubo delle periodichecarestie continuava a turbare le speranze di so-pravvivenza, la parola d’ordine era “lotta allospreco!” . In tutte le mense e i ristoranti statali sta-va scritto “mangia fino all’ultimo fagiolo” e nonc’era bisogno di questa esortazione perché i fa-gioli nelle ciotole erano tanto pochi che si pote-vano contare sulle dita delle mani. Pensare che,invece, i giapponesi li buttavano per strada i fa-gioli di soia, un rito antico per festeggiare l’iniziodella primavera. Ancora oggi l’uomo più anzianodella famiglia si mette sulla porta di casa con ilvolto coperto da una maschera da demone gri-dando “fuori gli spiriti del male, dentro la fortu-na!” e sparge fagioli di soia tutt’intorno. Non so sei cinesi abbiano mai avuto una simile usanza, co-munque all’epoca di Mao non sarebbe stata am-messa mai e poi mai.
Ma il tempo passa e in Cina la soia ha trovatouna nuova utilizzazione secondo una leggendametropolitana che si è rivelata realtà. Un indu-striale di Shanghai, tale Li Guangqi, nel 1999 di-chiarò di avere scoperto il modo di lavorare fibree baccelli di soia per ricavarne uno splendido tes-suto, leggero e piacevole al tatto. Non gli credet-tero ma ora ha avviato la produzione del rivolu-zionario “cashemere di soia” a dimostrazioneche questo fagiolo è davvero una benedizione.
le calorie per 100 grammi
di spaghetti di soia
335
gli ettari della coltivazione
mondiale
100 milioni
gli ettari di coltivazione
della soia in Italia
200mila
TofuIl formaggio di soia
si fa coagulando il suo latte
con cloruro di calcio (Cina)
o magnesio (Giappone)
C’è fresco e conservato
SalsaNella ricetta-madre, soia
intera cotta al vapore,
grano tostato a secco
e kogji (lievito aspergillus
oryzae) fermentati in legno
FarinaNiente glutine, alto
tasso di fibre e proteine,
basso indice glicemico
La tostatura elimina
l’amaritudine
LecitinaRicavata dai semi di soia
e dal tuorlo d’uovo,
ha proprietà emulsionanti
Riduce l’assorbimento
del “colesterolo cattivo”
SpaghettiSottilissimi, si cuociono
a fuoco spento per pochi
minuti in acqua di primo
bollore. Saltarli nel wok
con verdure e salsa di soia
YogurtSostituisce per sapore
e cremosità lo yogurt
vaccino, pur in assenza
di grassi animali e lattosio
Esiste anche alla frutta
DOVE DORMIRECASA CAMILLA
Via Pirano 2
Tel. 049-618907
Camera doppia da 80 euro
DOVE MANGIARECALANDRINO
Via Liguria 1
Località Sarmeola Rubano
Tel. 049-630303
Menù da 20 euro
DOVE COMPRAREPASTICCERIA BIASETTO
Via Jacopo Facciolati 12
Tel. 049-8024428
Padova
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Repubblica Nazionale
Con “Pane e tulipani” diventa famosoe il cinema gli assegna subito l’etichettadi caratterista. Un ruolo che a questofriulano grande e grosso, partito
da Udine con la passioneper il teatro, sta semprepiù stretto: “Ho sceltoquesto mestiere perchémi tiene sveglioIl mio incubo è ripetereall’infinito lo stesso
personaggio ma so che il pubbliconon gradirebbe. Bisogna semprealzarsi da tavola con un po’ d’appetito”
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Giuseppe Battiston
l’incontroCorpi di scena
Con la tecnologianon ho un bel rapportoHo tutto, ma non usonulla. Il mio computerè perfetto, ha millefunzioni. Ma spessoè spento. Lo accendosolo quando vogliovedermi un film
gli riesce così bene. Indubbiamente èbravo. Per i critici addirittura bravissi-mo. Ha vinto il premio Ubu per PetitoStrengedi Alfonso Santagata, due Daviddi Donatello, un Ciak d’oro, il premioHystrio, il premio Eti ed ha collezionatotre nomination al Nastro d’argento.Sentendo recitare l’elenco s’intimidi-sce. Si tocca i capelli come per spostarel’attenzione: «Continuo a recitare per-ché è la sola cosa che mi viene bene».
Friulano di Udine, Battiston a sedicianni incrocia una manifestazione tea-trale cittadina. E per lui comincia l’av-ventura. «Fu un’esperienza di teatro tragiovani, completamente autogestita,ma fondamentale per scegliere di an-dare a vivere a Milano e studiare recita-zione». E quel giovane friulano si am-bienta velocemente, consumandosi tragiornate di prove e spettacoli: «Non homai avuto l’anima del secchione, anchea scuola non studiavo ma compensavocon la buona memoria». Poi, altrettan-to per caso, nella sua vita arriva il cine-ma. «Silvio Soldini veniva a vederci e michiamò per un provino per il film Un’a-nima divisa in due, dove ho avuto unpiccolo ruolo ed è andata bene. Poi,sempre con Soldini, ho lavorato per Leacrobate e per Pane e Tulipani. Almenocon lui i provini ho smesso di farli». Tor-nare sul set, chiamato dallo stesso regi-sta, è un bel riconoscimento. «È moltobello quando chi ci ha diretto decide dirichiamarci, ma io sento sempre unaforte tensione alla ricerca e, la mia an-goscia, è ripetere all’infinito lo stessopersonaggio». Una fobia che, per la pri-ma volta, si è affacciata proprio dopoPane e tulipani, il film che gli ha dato piùvisibilità. «Dopo quella parte mi capita-rono offerte che andavano tutte nellastessa direzione, ma ho saputo allonta-narmene. Altrimenti, sarei rimasto persempre legato al personaggio del figlioscemo». Un’altra volta, altrettanto in-volontariamente, è entrato nel filonedegli amici del protagonista e anche lìha dovuto dire basta: «La verità è chenon mi sono mai riconosciuto sul signi-ficato di caratterista e penso sia un de-litto stufare il pubblico mentre, come sidice, “bisognerebbe alzarsi da tavolasempre con un velo di appetito”». An-che grazie a quei faticosi no, Battistonha indossato le sembianze dell’uomoingenuo e incapace di Non pensarci.Del piccolo borghese che tratta le don-ne in modo rozzo ne La giusta distanzae dell’operaio rimasto senza lavoro inGiorni e nuvole. Ora gli piacerebbe in-terpretare un cattivo vero. Uno senzascrupoli. In teatro è diventato famosorappresentando Orson Welles. Certo,un Welles alla maniera di Giuseppe Bat-
tiston: «Era uno spettacolo nato dallostudio di una piccola intervista e così li-bero che mi ha permesso di mostrare unlato dell’uomo che nessuno aveva indi-viduato prima».
Battiston ha l’animo dello sperimen-tatore. Ama inoltrarsi in territori nuovi.«Purtroppo il teatro non ha più l’impor-tanza di un tempo e neppure la stessafunzione e io credo in una forma di coe-renza per cui, se non è puro intratteni-mento, salire sul palco è comunque unatto politico che dovrebbe stimolare leriflessioni del pubblico. Comunque peril solo fatto di acquistare il biglietto, lepersone dimostrano una marcia in piùperché creano un’azione. Si tratta di unafetta di pubblico preparata che rimaneuna minoranza e che non riesce a trasci-nare la massa». Per ora ha recitato quasisempre in Italia, ma vorrebbe lavorarefuori. Anche perché l’Italia, che amatantissimo, offre un quadro sconfortan-te: «Gli italiani forse sono più coscien-ziosi e cominciano a non meritare quel-
lo che ci sta capitando». Ciò che più lospaventa è la crescente povertà. «Le co-se che succedono intorno a noi, come inTunisia, in Egitto e in Libia, hanno signi-ficati preoccupanti e arriverà un giornoin cui la gente si stancherà di tanti sofi-smi. Quando sento gli operai in televi-sione non posso fare a meno di doman-darmi: “Ma tu, Giuseppe, hai mai fattoun turno in fabbrica?”. La gente intornoa me è sempre più in difficoltà. Un tem-po alla chiusura del mercato di Milano,per farsi regalare le cose avanzate, c’era-no i barboni. Ora cominciano ad andar-ci le persone normali, soprattutto gli an-ziani che comunque una pensione cel’hanno. L’eccesso di flessibilità sta ge-nerando persone sempre più povere.Cosa succederà ai precari di oggi cheuna pensione non ce l’avranno mai?» Iltema del precariato lo affronta anche in18 mila giorni. Il pitone. Il pitone è unanimale che prima osserva il nemicoprendendone le misure e poi, quandoha raggiunto la sua stessa lunghezza eforza, lo uccide. «Il nostro spettacoloparte da una metafora ed ha come pro-tagonista un uomo di cinquant’anniche perde il lavoro. Le riflessioni s’in-trecciano per sottolineare come, in solidiciottomila giorni, siano mutate le pro-spettive e le aspettative sociali in Italia.Dalla dignità del lavoro, in un’epoca incui era un diritto e un elemento fonda-mentale, al trionfo del precariato comeforma di ricatto sociale». Con i precari dioggi, con i giovanissimi, ha un ottimorapporto. Ama la loro curiosità: «Quelliche vengono nei camerini sono pieni didomande e mi confessano che non sa-pevano niente di Orson Welles. Ecco,questa è la mia gioia, far riflettere i gio-vani. I ragazzi sono colpiti dall’indipen-denza che insegna l’auto sufficienza.Vorrei che tramontasse quel mito delsuper lavoro, che ti fa guadagnare quat-tro volte di più, ma poi ti costringe aspendere i soldi dall’analista per ripren-derti quella parte che ti ha divorato lostress». Si agita sulla sedia e gli occhiali siappannano ancora. L’espressione nor-malmente seria diventa corrucciata: «Èper questo che probabilmente da noi havinto il modello di un uomo che avevacome slogan “Ghe pensi mi”. Senza par-lare di quelli cui stanno sui coglioni i ci-nesi ma poi gli affittano le case. Quelliche sono infastiditi dagli immigrati mali sfruttano».
Si alza dal tavolo. Ordina due tazze ditè. Una colazione leggera per una molecome la sua: «Sono un atleta solo del-l’anima e ogni tanto mi devo controlla-re col cibo. In realtà un corpo così in-gombrante sul palcoscenico ti condi-ziona meno che nel cinema perché, co-
munque, è un territorio libero in cui re-citi indipendentemente da come sei».Il rapporto con il pubblico, inteso comepopolarità, non lo ha cercato. Però unoscambio è inevitabile. «C’è chi ti fermaper strada, chi ti chiede una foto, in-contri casuali che sono forme di dialo-go». Intorno a lui, attori e attrici apronoi gruppi su Facebook e inaugurano sitiinternet. Lui sorvola. Esattamente co-me succede con il telefono, ha difficoltàcon le tecnologie: «Ho tutto ma non usonulla. Non sono in nessun socialnetwork, non guardo mai la mail, ho uncomputer perfetto, con mille funzioni,ma lo uso solo per vedere i film». Ancheperché per andare al cinema non trovamai il tempo. In realtà, nella vita priva-ta sembra avere poco spazio per tutto,tranne che per le amicizie: «Ho affettida anni che resistono alle distanze, cer-to mi piacerebbe “prestino” mettere sufamiglia anche se riconosco che è unastruttura in crisi, esattamente come lasanità. Ognuno è il frutto anche dellasua esperienza ed io non credo possaesistere una famiglia senza scontri».Per i prossimi quarant’anni sognagrandi colpi di scena. Anche di passaredall’altra parte della macchina da pre-sa. C’è da pensare che, nonostante lasua poca dimestichezza con le macchi-ne, ci riuscirà.
IRENE MARIA SCALISE
TORINO
Nella vita di Giuseppe Bat-tiston il rapporto più dif-ficile è quello con il te-lefono. Un oggetto mi-
sterioso. Di più, un nemico. Sembraquasi di vederlo mentre osserva i nume-ri attraverso le lenti da miope con unasorta di sommesso stupore. Ma una vol-ta superata la prova di forza con la tec-nologia, Giuseppe Battiston è personagentilissima. E puntualissima. Arriva al-la Mole Antonelliana, in una Torino lim-pida e piena di fascino, in perfetto ora-rio. Alto e imponente come uno se l’a-spetta ma, a sorpresa, lieve nei modi enel tono di voce. Ha da poco superato isuoi primi quarant’anni. Li definisce«Amari e soddisfacenti in egual misura».
«Questa città mi piace molto», dicedietro gli occhiali sottili che si appanna-no per il caldo improvviso del piccolobar. A Torino si è fermato per provare lospettacolo 18 mila giorni — Il pitonechepoi ha portato in tutta Italia. Il teatro è lasua passione. «Ho scelto di fare questomestiere perché mi teneva sveglio»,racconta divertito, «ma la verità è che èun grande privilegio poter fare, nel la-voro che mi piace, le cose che scelgo».Sarà per questa passione, che recitare
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