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Dossier Agricoltura , fascicolo 2

Date post: 23-Feb-2016
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Dossier Agricoltura , fascicolo 2
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NONOSTANTE LA CRISI, IL SETTORE CONSERVA IL PRIMO POSTO IN SICILIA: L’ECCELLENZA È QUI RAPPORTO SULLA AGRICOLTURA IBLEA I BUONI FRUTTI 2 FASCICOLO CON IL PATROCINIO DELL’ASSESSORATO  REGIONALE ALLE RISORSE AGRICOLE INSERTO AL N. 9 DEL 26 OTTOBRE 2012 CINQUE DECRETI ANTI-CRISI L’ASSESSORE AIELLO VARA IL MARCHIO “SICILIA” LA ZOOTECNIA QUOTE LATTE, UNA SCURE TAGLIA-IMPRESE LA SERRICOLTURA ANCHE I FIORI PIANGONO LA FINE DI UN MITO L’AGROALIMENTARE A TAVOLA I PIATTI CHE CELEBRANO LA NOSTRA CUCINA
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Page 1: Dossier Agricoltura , fascicolo 2

NONOSTANTE LA CRISI, IL SETTORE CONSERVAIL PRIMO POSTO IN SICILIA: L’ECCELLENZA È QUI

RAPPORTO

SULLA

AGRICOLTURA

IBLEA

I BUONI FRUTTI

2FASCICOLO

CON IL PATROCINIO DELL’ASSESSORATO 

REGIONALE ALLE RISORSE AGRICOLE

INSERTO AL N. 9 DEL 26 OTTOBRE 2012

CINQUE DECRETI ANTI-CRISIL’ASSESSORE AIELLO VARA

IL MARCHIO “SICILIA”

LA ZOOTECNIAQUOTE LATTE, UNA SCURE

TAGLIA-IMPRESE

LA SERRICOLTURAANCHE I FIORI PIANGONO

LA FINE DI UN MITO

L’AGROALIMENTARE A TAVOLAI PIATTI CHE CELEBRANO

LA NOSTRA CUCINA

Page 2: Dossier Agricoltura , fascicolo 2

Era la fine degli anni Ottanta. E si spendeva. Isoldi c’erano. I matrimoni venivano celebraticon oltre duecento invitati e menu da 70 milalire a cranio. Anche allora, all’inizio di ogninuovo anno, i giornali usavano domandare

speranze e auspici. Enzo Dipasquale, pasticciere ma an-che commis di pranzi nuziali, non ebbe esitazione a ri-spondere: «Mi auguro che per le serre di Vittoria sia unabuona annata anche quella che viene». In quelle pocheparole, pronunciate da un operatore economico ragusa-no a favore di un altro settore economico appartenentedopotutto a una diversa realtà, c’è tutta la storia del-l’agricoltura ragusana. La serricoltura era allora il volano non solo dell’Ippa-rino ma di tutta la provincia. Se andavano bene le serrenon nascevano solo villone con le maniglie d’oro alleporte ma si innescava un circolo virtuoso grazie al qualeanche chi allestiva pranzi di nozze, non certo il primodella filiera dunque, e comunque un offerente di benivoluttuari, ne traeva vantaggi molto cospicui. Le serreerano le regine dell’attività agricola, ma anche l’orto-frutticoltura in campo aperto dava risultati entusiasman-ti. Non meno privi di slancio erano gli altri tre settoricardine dell’economia iblea, che è storicamente fondatasull’agricoltura: floricoltura, zootecnia e industria lat-tiero-casearia.La terra è la risorsa di questa provincia al punto da es-

serne stata, agli albori della storia, anche un mito. Ladea greca Demetra ebbe una progenitrice sicula nelladea Ibla che fu adorata soprattutto in terra iblea ed ebbeun culto esteso a tutta l’isola. Una certa tradizione cherimanda a Diodoro Siculo vuole poi che il pastorelloDafni fosse un figlio degli Erei, che - se Erea è la Iblaragusana - si identificavano con gli Iblei. Questo gene ereditario ha segnato l’evoluzione dellaprovincia, legata alla terra come ostrica allo scoglio.Oggi Dipasquale non potrebbe più contare sulle serreipparine né su altre risorse dell’agricoltura. È pur veroche anche allora non c’erano mezzadri che, al momentodel pagamento del canone al proprietario, non lamen-tassero poveri raccolti, essendo nella coscienza conta-dina iblea piangere miseria per non pagare (e SerafinoAmabile Guastella ha testimoniato con arguzia queste“parità” tipicamente iblee), ma è altrettanto vero chequanto l’agricoltura ha reso a quel tempo un sacco digente ricca tanto oggi fa penare centinaia di famiglie.Vale ancora il teorema di Dipasquale per cui, se alloral’agricoltura assicurava fortuna a tutti, oggi è sempre lacrisi dell’agricoltura a produrre povertà. La congiuntura internazionale e la conseguente strettacreditizia integrano la causa prima di un regresso gene-rale che ha colpito con maggiore violenza l’agricolturaperché si tratta di un comparto per il quale l’eserciziodel credito bancario è stato prima provvidenziale (si

STATO DI SOFFERENZAOCCORRE UNA CURA

POLITICA AGRICOLA COMUNITARIA E STRETTA DEL CREDITO: COSÌ ILSETTORE È FINITO SOTTO SFORZO

RAPPORTO

SULLA

IBLEAAGRICOLT

URA

IL PRESENTE

PAGINA 2AGRICOLTURAIBLEA

diGianni Bonina

C’è stato untempo in cuil’agricoltura

era così importanteper l’intera

economia ragusana che

un pasticcierecome Enzo Dipasquale

poteva augurarsi peril nuovo anno

che le serre diVittoria

andassero bene

Il mercato diVittoriatransita oltre il60% della pro-duzione orto-frutticola dellaSicilia e si tro-va al centro diun’inchiestadella Finanzache avrebbeindividuato inesso una spe-cie di oligar-

chia checontrolla e im-pone i prezziai piccoli pro-duttori. In es-so opera la

figura del com-missionario,

assente in tut-ta Italia

IL MERCATODI VITTORIA

Page 3: Dossier Agricoltura , fascicolo 2

pensi al ruolo che ha avuto agli esordi la Banca agricolapopolare di Ragusa) e poi fondamentale e imprescindi-bile. Ogni istituto bancario elargiva fondi quasi senzalimite a fronte dell’iscrizione della sola ipoteca di primogrado sul prestito, nella certezza che il terreno ipotecatosarebbe stato rivenduto con estrema facilità e forse conmaggiore profitto. Oggi le banche (compresa, ma perultima, la benemerita Bapr) lesinano aperture di creditoin mancanza di garanzie reali costituite da grossi im-mobili o inattaccabili fideiussioni. Sanno che in caso diinsolvenza la vendita di un terreno all’asta, semprechési presenti qualcuno interessato all’acquisto, sortirebbeun risultato decisamente deludente. L’errore di fondo, nell’esercizio del creddito, è quellodi estendere all’agricoltura il regime fiscale che è pro-prio dell’industria, applicando ad essa le regole di va-lutazione aziendale che tengono conto del fatturato edei parametri di Basilea e assegnando dunque un ratingche è quanto di più estraneo possa riguardare un settorei cui bilanci di previsione dipendono perlopiù dalla na-tura. I criteri di analisi di un’azienda agricola dovreb-bero invece assumere due soli elementi di giudizio: ilreddito agrario (dato dal valore e dalla redditività dellacoltura) e il reddito dominicale (dato dal valore del ter-reno, se pascolo per esempio o seminativo). Le asso-ciazioni di categoria, con la Cia in testa, si stannoimpegnando a fondo perché passi finalmente una logicadel genere: che consideri quella agricola un’aziendaspeciale. Ma è anche vero che, a parere della Coldiretti,l’equiparazione dell’azienda agricola a una di tipo in-dustriale è da considerare una conquista perché ne fauna vera impresa. Comunque sia, pesano anche diret-tive comunitarie che imbrigliano gli stessi istituti di cre-dito dentro un modello comune a ogni forma dieconomia. Ma senza credito l’agricoltura siciliana - e iblea in par-ticolare - non può farcela quando si consideri pure ilfallimento della politica di associazionismo e di coope-razione iniziata con entusiasmo e rimasta per strada. Undeficit tutto ragusano. La pervicace convinzione che dasoli è meglio è figlia infatti di un pregiudizio culturaleche rimonta al Cinquecento e alla particolarità della for-mazione della coscienza ragusana nel segno della fram-mentazione. Quella che fu una grande conquista, laproprietà terriera divisa e concessa in enfiteusi con lacreazione di centinaia di piccoli proprietari, si è rivelataoggi un handicap. La tradizione che ha premiato la con-tiguità anziché la comunione ha lasciato in eredità unamentalità radicata e finito per danneggiare proprio ilpiccolo proprietario. Il produttore agricolo ibleo ha visto infatti nell’associa-zionismo non un’utile compartecipazione ma la solapossibilità di risparmiare negli acquisti, per esempio

della plastica. Incapace di guardare oltre il proprio oriz-zonte, il coltivatore ibleo ha scelto di fare concorrenzaal vicino piuttosto che ai mercati lontani, ritenuti inno-cui e ininfluenti e oggi finiti invece per fagocitarlo rag-giungendolo fin dentro la sua masseria. A farcela non possono che essere dunque i grandi grup-pi, anch’essi comunque impegnati duramente contro iprocessi di globalizzazione. E mentre realtà come LaMediterranea Fiori di Acate fronteggiano la crisi conforza, sia pur a fatica, si va affermando un fenomenonuovo, tipicamente ottocentesco: la coltivazione di nic-chia, specialmente olio e vino, sulla quale si sono ci-mentati non più i grandi proprietari ma la classeborghese formata dai professionisti. Avvocati, architetti,notai, farmacisti vanno sempre più esplorando, a tempoperso e come attività complementare a quella principa-le, il piacere e la possibilità di produrre un proprio vinoo un proprio olio. Questi imprenditori della domenica hanno realizzatoaziende che oggi vanno conquistando fette di mercatosempre più ricercato e raffinato. Ditte come la Avidedel notaio Demostene o la Cos di Giusto Occhipinti edell’architetto Cilia o ancora la cantina Valle dell’Acatedi Peppinello Iacono e della figlia Tania quanto alla zo-na occidentale della provincia, mentre per quella orien-tale valga l’azienda Eloro di Curto di Ispica, produconoun vino cerasuolo che fronteggia la recessione e con-quista i mercati esteri. Anche nella produzione di oliola classe borghese va in campagna e insedia aziende nonmeno in crescita. L’olio dei fratelli Schininà, impegnatiinnanzitutto nella vendita di autovetture, o quello Dopdei Monti Iblei prodotto dall’ingegnere chiaramontanoPeppino Rosso oppure ancora di Vito Catania, un im-prenditore giramondo che da Chiaramonte ha fatto or-mai stanza a Parigi, costituisce un prodotto incontrotendenza al faticoso andamento del settore pro-fessionalizzato.Ma se la produzione ristagna nelle mani di operatori im-pegnati a tempo libero, l’agricoltura rischia di perdereil primato storico di economia regina della provincia.Che essendo quella a maggiore vocazione agricola dellaSicilia costituisce un indice generale. In questa provin-cia si decide dunque il futuro del settore. Ma la battagliaè titanica. Gli ostacoli da vincere sono la politica agri-cola comunitaria, la famigerata Pac, che penalizza pe-santemente il Sud Europa, e la grande distribuzione, unsistema spregiudicato che ha colpito duramente la pro-vincia di Ragusa scavalcandola per rifornirsi, a prezzimigliori, nel Maghreb, da dove importa quei prodottiortofrutticoli che sono un genere ragusano di eccellen-za. A sostenere lo scontro sono la Regione e le associa-zioni di produttori. Ma fino a quando non scende incampo lo Stato, il Ragusano non sarà che in inferiorità.

La grande distribuzione transfrontaliera vasempre più emarginando la Sicilia. Acqui-

stando prodotti ortofrutticoli in Tunisia e in Ma-rocco abbatte i costi che in Sicilia si mantengonopiù alti e commercializza anche sul mercato sici-liano. Si calcola che i limoni vengano acquistatiin Nord Africa a meno di 7 centesimi al chilo eche in Sicilia la produzione ne costi 15. Le pro-duzioni sbarcano nel porto di Pozzallo (nella fo-

to) dove da tempo è richiesta un’azione dicontrollo sulla quantità delle merci. 

I MERCATI MAGHREBINISOFFOCANO LA SICILIA

PAGINA 3AGRICOLTURAIBLEA

Le bancheconsideranol’agricolturaalla streguadell’industriae valutano leaziende secondo ilfatturato.Non tengonoperciò contodi due elementi cenbtrali: ilreddito agrario e ilreddito dominicale

In assenza diun sistema dicommercializ-zazione i pro-dottiortofrutticoliiblei costanodi più agli stes-si ragusani. Ilpomodorino,per esempio,parte dalla Si-cilia su gom-mato, arriva aFondi, vieneconfezionato etorna in pro-vincia sui ban-coni deisupermercatial prezzo di unprodotto este-ro di importa-zione

IL RINCARODEI PREZZI

Page 4: Dossier Agricoltura , fascicolo 2

PAGINA 4AGRICOLTURAIBLEA

Il territorio della provincia di Ragusa, nonostantele diversità geomorfologiche ed economico-strut-turali delle parti che lo compongono (pianura, al-tipiano, montagna), sembra conservare un’identitàculturale che risalta con particolare evidenza non

solo agli occhi degli addetti ai lavori, ma anche a quellidel visitatore che, giunto in terra iblea, abbia tempo evoglia di riflettere su ciò che gli sta intorno.Al di là di quelle stesse luci ed ombre che è possibilecogliere nell’intero contesto siciliano dicui Ragusa è parte integrante, si posso-no però rintracciare i segni di una “per-sonalità forte” che, pur nell’assenza disoluzioni di continuità geografica conil resto della Sicilia, sembrano distin-guere, quasi fisicamente, i territoridell’antica contea di Modica. Le ragio-ni sono quindi di carattere storico. Pri-ma fra tutti è la divisione dellaproprietà che, nata alla metà del Cin-quecento, ha continuato per tutta l’etàmoderna e contemporanea a imporsicome la chiave esplicativa delle dina-miche politiche, economiche e sociali.L’operazione di censuazione delle terrefatta dai conti di Modica divenne infattiuna vera e propria operazione di eco-nomia agraria. Caratteristiche simili anzi, per certi versipiù marcatamente imprenditoriali, ebbero nello stessoperiodo le censuazioni di terre fatte dai conti Naselli aComiso, nonché le nuove fondazioni fatte nei primi an-ni del secolo XVII con la licentia populandi di SantaCroce (1605) e di Vittoria (1607). Anche in questi casile concessioni enfiteutiche provocarono la nascita di ap-

pezzamenti di terra che mediamente misuravano unasalma e mezza di terreno per ciascun enfiteuta; e ancoravenne concesso un pacchetto di facilitazioni materialie fiscali a chi decideva di diventare membro attivo dellaistituenda comunità. Le operazioni di censuazione delleterre di Modica, di Comiso, di Vittoria e di Santa Crocee, più in generale, dell’intero territorio ragusano prose-guirono ininterrottamente, con motivazioni diverse, peri secoli successivi, caratterizzando in maniera specifica

lo sviluppo dell’area. La vitalità dellapiccola e media azienda agraria infatti,mentre ha impedito la nascita di un uni-co centro urbano così come invece è av-venuto nel resto dell’Isola, dove la cittàè diventata punto di attrazione e di ge-stione di un territorio agrario fatto digrandi appezzamenti, ha favorito unastruttura policentrica, se è vero come èvero che in un territorio di poco più di100.000 ettari sono cresciute ben 12 co-munità agricole urbanizzate. La caratte-ristica strutturale dei territori dell’excontea ha così finito per polarizzare unamaggiore quantità di popolazione diquanto non abbiano fatto le altre zonedell’Isola, ad economia latifondistica. Nel Modicano la pressione demografica

era altissima. Nessun territorio dell’Isola equivalenteall’area iblea, se si fa eccezione per le grandi città sici-liane, vantava nel 1798 le 60.000 anime che vivevanonella contea di Modica: ma, non per questo era zona ric-ca. La miriade di piccole aziende sicuramente fornivapiù occasioni di lavoro di quanto non ne concedesse al-trove il latifondo, ma le remunerazioni ai salariati re-

ALTISSIMAFU LA

PRESSIONEDEMOGRAFICANEL MODICANOCHE NEL 1798CONTAVA 60

MILA RESIDENTI.MA RESTAVA

UN’ECONOMIA POVERA

RAPPORTO

SULLA

IBLEAAGRICOLT

URA

IL PASSATO

diNunzio Lauretta DODICI COMUNI, ANZI

COMUNITÀ AGRICOLE

IL CINQUECENTO GETTÒ LE BASIDEL MODELLO IBLEO E IL SECONDODOPOGUERRA LO HA RILANCIATO

Il fenomenodello

stanziamentorurale è statol’equivalentedel processo

di urbanizzazione

nelle città siciliane.

In provincia siè creato un

policentrismoche gravita

sulla polaritàdella

campagna

La provinciadi Ragusa

è stata teatronegli anni Ven-ti di scontri so-ciali tra agrarie massimalistisocialisti costi-tuiti da brac-

cianti econtadini. Ilfascismo ap-

poggiò la poli-tica agraria ma

non riuscì apiegare il fron-te contadinose non con in-terventi di for-za che ebberoragione ancorprima della

Marcia su Ro-ma

AGRARIE BRACCIANTI

Page 5: Dossier Agricoltura , fascicolo 2

stavano ai livelli di sopravvivenza. E la situazione nonha subìto cambiamenti a distanza di secoli. Se dalla fine del Settecento facciamo un salto fino aiprimi anni Venti del Novecento, troviamo i dati dell’in-chiesta Lorenzoni che ci descrive una situazione per laquale l’area catastale occupata dai latifondi (estensionidi terreno superiori ai 200 ettari) andava dal 18% del-l’intera provincia di Messina (percentuale più bassa) al42% della provincia di Caltanissetta (percentuale piùalta). L’area del Siracusano coperta dailatifondi era del 22%. Ma se da questaestrapoliamo solo il territorio ibleo tro-viamo una drastica riduzione al 7%dell’intera superficie catastale. Questodato, letto in controluce poi con quellodella pressione demografica, che nelventennio precedente al grande flussomigratorio (1881-1901) registra un in-cremento pari all’11,75% contro il9,78% della Sicilia ed il 6,91% del re-gno, con punte massime del 14,19% aRagusa e del 15,54% a Vittoria, ci dà ilquadro di una condizione economica esociale dell’area iblea divenuta ormaistrutturale ed immodificabile. Altri dati concorrono poi ad illustraremeglio la situazione dei territori dell’excontea del primo ventennio del secolo XX: la popola-zione agricola della zona, rilevata con il censimento del1911, risultava composta per il 692,80‰ da bracciantie contadini poveri, contro il 666,50‰ della Sicilia ed il463,99‰ del Regno; pressoché contemporaneamente(la rilevazione è del 1913) i salari orari medi dell’areaiblea si aggiravano intorno alle 0,10 lire con punte mas-

sime di 0,20 lire per Vittoria, contro un salario orarioche in Sicilia era mediamente di 0,23 lire. Il mosaicodelle cifre così completato ci permette di fare piena lucesul processo circolare di auto-alimentazione di un’eco-nomia agraria povera così come si era andata consoli-dando nell’area iblea. Le occasioni di lavoro diffuse,offerte dalla proliferazione delle piccole e medie azien-de agricole, riuscivano a sotto-occupare a livello di so-pravvivenza un numero di uomini, in percentuale ed in

valore assoluto, più grosso di quantonon ne riuscisse ad occupare la Sicilialatifondista. Questi lavoratori, permanendo sul ter-ritorio nonostante l’emigrazione, con-tribuirono a mantenere altissimal’offerta di lavoro e quindi bassissimi isalari, che a loro volta rappresentaronola condizione essenziale per la soprav-vivenza della piccola e media aziendaagraria. Nel primo ventennio del secoloXX si fecero più concrete per i conta-dini le possibilità di accedere alla pro-prietà della terra e grazie alle nuovedisponibilità acquisite con le rimessedegli emigrati e più in particolare grazieagli acquisti fatti da lavoratori che tor-navano dall’America, la piccola pro-

prietà fece un notevole balzo in avanti. Alla fine dell’Ottocento era già presente la proprietàparticellare soprattutto nei dintorni di Scicli, ma il con-fronto tra i dati dell’inchiesta Lorenzoni e quelli del Ca-tasto agrario del 1929 ci presenta una fotografia chevede la piccola proprietà diffusa per tutta la provincia.Le aziende agricole dell’area iblea nel 1931 risultavano

PAGINA 5AGRICOLTURAIBLEA

IL NUMERO DIOCCUPATI (SIA

PUR TUTTI MALPAGATI) FUNEGLI IBLEI PIÙALTO DI QUELLOCHE LA SICILIA

DEL LATIFONDO

RIUSCÌA IMPIEGARE

Nei primivent’anni delsecolo scorsol’area destinata alatifondo inprovincia diSiracusa eradel 22% contro il 42%del Nisseno.Ma nell’areaiblea la percentualecrollava addirittura al 7%

La piccolaproprietà

registra un in-cremento neglianni Venti congli acquisti diterreno chefanno gli emi-grati che rien-trano. Ilfenomeno cre-sce grazie aisalari che re-stano bassissi-mi a causadell’altissimaofferta di lavo-ro. Questa di-sparitàconsente allapiccola e me-dia aziendaagricola di so-pravvivere

LA PICCOLAPROPRIETÀ

Nella metà dell’Ottocento, la plaga Mesopotamio era vitata e sierano perfezionate tecniche produttive e di vinificazione di

prim’ordine.  Paolo Rizza, prima, e il figlio Vito, poi, trasforrma-rono la fisionomia agraria del feudo di Fegotto impiantando vi-gneti e costruendo il primo palmento e la prima cantina. La plagaMesopotamio è la zona compresa tra i fiumi Dirillo e Ippari e con-nota, da Chiaramonte a mare, l’area di produzione del vino Ce-rasuolo di Vittoria Docg Classico e delle Doc Vittoria Rosso,Vittoria Nero D’Avola, Vittoria Frappato, Vittoria Inzolia, VittoriaNovello. Si parla anche di “strade del vino”

LA FAMIGLIA RIZZA E LA PLAGA MESOPOTAMIO

Page 6: Dossier Agricoltura , fascicolo 2

così suddivise per classi d’ampiezza e per forma di con-duzione.La tendenza al frazionamento della proprietà terriera sirafforzava ed insieme ad essa si rafforzarono le carat-teristiche strutturali dell’economia iblea, che eranoquelle di un’economia agricola povera che riusciva atenere legata alla terra una massa enorme di braccianti.In questo quadro l’emigrazione del primo ventennio delsecolo scorso non riuscì a modificare alcunché: anzi, adefinitiva conferma della diversità di fondo della zonaiblea con la Sicilia del latifondo, va notato che il feno-meno migratorio incise molto di più nel contesto isola-no che non nelle zone di proprietà frazionata come ilMessinese o il Ragusano, dove per esempio non rag-giunse mai livelli alti, nemmeno negli anni a ridossodella fine del primo decennio del secolo. In terra iblea prese vita un fenomeno politico assoluta-mente unico (un esempio, seppure non puntuale, è ri-scontrabile nella campagna pugliese), che consistettenell’affermazione di un socialismo massimalista, prima,e di un fascismo agrario autoctono, dopo, a causa il pri-mo delle disastrose condizioni di vita dei braccianti, chefecero lievitare un’organizzazione politica che cercavalo scontro con la piccola e media azienda ragusana, ge-stita per il 45% dai massari, i quali non riuscivano a farfronte alle richieste di aumenti salariali; a causa il se-condo del fiato corto proprio dei massari sul quale at-tecchisce il fascismo, che chiude violentemente laquestione sociale con largo anticipo rispetto alla marciasu Roma del 1922. A conferma di un tale clima politico astioso, nelle ele-zioni politiche del 1921 risultarono eletti due fascisti edun socialista massimalista. Il fascismo inaugurò una po-litica marcatamente filo-agraria, ma non riuscì a modi-ficare di molto l’assetto della proprietà terriera. Forserallentò per un decennio il processo di frantumazionedell’assetto proprietario ma, con le lotte contadine del

Secondo dopoguerra tale fenomeno riesplose con piùvigore di prima e disegnò il paesaggio agrario così co-me ancora oggi lo vediamo. Ora, se proviamo a ripor-tarci agli anni Cinquanta del secolo scorso edosserviamo la mappa fondiaria dell’area iblea, soprat-tutto quella delle coste, non con il senno di poi, non allaluce di ciò che è successo negli anni Sessanta e Settanta,ma la osserviamo con il filtro delle considerazioni fattedai tecnici agrari sulle condizioni necessarie a far de-collare un’economia agraria capitalistica (che ha comepresupposto indispensabile l’unità colturale di una gran-de estensione di terreno), dovremmo aspettarci, datol’estremo frazionamento, un futuro di miseria edun’economia agraria di sussistenza.Ebbene, su quelle zone nacque e si sviluppò il processodi rivoluzione agraria più consistente che la Sicilia ab-bia mai avuto: la serricoltura. Nel boom della serricol-tura c’è anche un altro elemento che deve essereconsiderato per capire a pieno ciò che è successo: unelemento che ancora una volta è peculiare e che diffi-cilmente è possibile leggere nella vicenda delle altreagricolture siciliane. Guardando infatti a ciò che è successo negli anni Ses-santa sul litorale ragusano ed osservando la velocità conla quale la sperimentazione di alcuni è diventata in bre-ve tempo patrimonio di tutti, torna alla mente una pa-gina di storia agraria tutta iblea della finedell’Ottocento, quando gli studi condotti dall’agronomomodicano Clemente Grimaldi permisero di guidare inbrevissimo tempo la riconversione della viticoltura, for-nendo ad una massa di piccoli e medi proprietari i criteritecnici per superare la crisi della fillossera. Gli effetti economici furono allora immediati e permi-sero alla viticoltura iblea di vendere a prezzi estrema-mente remunerativi il prodotto vino in un momento incui tutta l’Europa era colpita dall’epidemia fillosserica.Quello citato non è stato un caso isolato. Infatti più tar-

RAPPORTO

SULLA

IBLEAAGRICOLT

URA

PAGINA 6AGRICOLTURAIBLEA

Il frazionamento

fondiario incise anchesulla emigra-

zione, che nel Ragusano nonraggiunse mai

le vette toccate nella

Sicilia del latifondo nellastagione di piùforte espatrio

Il gasolio agri-colo è impie-gato in misuraridotta nellenostre serre

rispetto ad al-tre realtà eu-ropee. Peresempio, a

Sanremo perogni metro

quadrato co-perto in un so-

lo cicloproduttivo oc-corrono 8 chi-logrammi dipetrolio, in

Austria 15 kg,in Belgio 34kg, in Irlanda

36 kg, in Olan-da 50 kg e inSvezia 55 kg

LE SPESEDI ENERGIA

Page 7: Dossier Agricoltura , fascicolo 2

di, nel primo decennio del secolo, proprietari illuminaticome i Penna ed i Mormino-Penna, alla ricerca del mo-do di produrre primizie, avviarono sperimentazioni chein breve tempo divennero patrimonio condiviso. Piccoliproprietari e braccianti coprirono il pomodoro primacon le sipàle dei ficodindia, poi con le canne. Si trattòdi un’esperienza vissuta per circa un cinquantennio checonsentì loro di acquisire le tecniche e valutare gli ef-fetti della copertura dell’ortaggio. È in questo modo che si giunse alla serra mediterranea,che divenne il fulcro portante dell’avventura produttivadegli anni Sessanta del Novecento. Quindi la serricol-tura nasce e si perfeziona secondo un modello collau-dato: quello di ottimizzare le rese agraria pur inpresenza di piccole proprietà fondiarie. Non è un caso che essa nasca qui, dove non è mai esi-stita la cultura degli sprechi, tipica dell’economia lati-fondistica, e dove la necessità, prima, e l’ingegno, dopo,hanno fatto sì che dalle pietre più dure potessero nasce-re i fiori più belli. Il modello dell’economia iblea si ri-produce in forma nuova, ma con le caratteristichestrutturali di sempre: guarda con attenzione ai problemicomuni, percorre la strada della cooperazione e crea lecondizioni per un’utilizzazione progressiva della ma-nodopera di colore. In queste condizioni si è sviluppata la serricoltura, di-ventata fenomeno molto rilevante, considerata oggi ilvero motore dell’economia iblea. Quel che qui importaè riuscire a dimostrare come funziona oggi il modellodi sviluppo economico ibleo, nel quale le attività serri-cole hanno un ruolo portante: basti ricordare ad esempioche nel 1995 il prodotto vendibile lordo delle coltureprotette ragusane è stato di circa 730 miliardi di lire. Ilsistema poi che ruota attorno alle serre, a sua volta, pro-duce ricchezza: basti pensare alla fase della commer-cializzazione dei prodotti orticoli e floricoli, al sistemadei trasporti, ai trattamenti delle colture protette, alla

produzione, vendita e riciclaggio di teli di polietilene,alla produzione di pallets, pianali e cassette, alla pro-gettazione e produzione di serre in alluminio ed in le-gno, solo per citare le più importanti attività collaterali. Non va poi trascurato quanto un tale sistema economicoabbia inciso e continui ad incidere sull’espansione delcomparto edilizio. A tal fine valgono gli 86 chilometridi costa disseminate delle seconde case dei ragusani,esito diretto o indiretto del benessere economico che hainvestito la provincia nel suo complesso a partire daglianni Sessanta. Con l’attivazione a tali livelli del comparto edilizio pos-siamo dire che il cerchio si chiude, perché attorno ruo-tano le restanti attività economiche: calcestruzzi,pietrisco, sbancamenti, sondaggi geognostici, consoli-damento, fondazioni speciali, imprese di costruzione,profilati in alluminio, produzione serramenti, produzio-ne porte, produzione saracinesche automatiche, produ-zione accessori per serramenti, produzione pareticontinue, produzione piastrelle, industrie lapidee, se-gherie di marmo, lucidature marmo e granito per citareancora una volta le più importanti; tutte attività che vi-vono e prosperano solo in funzione dell’industria edili-zia. Se ci spostiamo poi sul versante del polo petrolchimico,anche qui le relazioni con il comparto edilizio non man-cano (produzione cementi, additivi, bande isolanti,etc.), così come quelle dirette tra il polo petrolchimicoed il comparto terricolo (produzione teli di polietilene,concimi chimici, etc.). Ciò che sfugge a questo quadrotrova la sua origine nel settore primario: colture arboree,zootecnia, colture a pieno campo, cerealicoltura, viti-coltura e avicoltura. Un rapporto diretto lega alcune di queste attività con ilsettore terricolo che preleva dalla zootecnia e dall’avi-coltura i concimi organici stallatici e pollinei per la ri-vitalizzazione dei terreni.

PAGINA 7AGRICOLTURAIBLEA

La serra ibleanasce dagliesperimentidi quanti cominciaronoa coprire ilpomodoroprima con le“sipale” deifichidindia epoi con lecanne. Fuuna epopeairripetibile

Lle serreiblee sono

“serre fred-de”. Il consu-mo di energiaè ridotto, ma ècostretta asopportare co-sti aggiuntividi trasportomolto alti perraggiungere imercati euro-pei. Incidonofortementel’assenza dellarete ferrovia-ria, il mancatoammoderna-mento del si-stema viario  ela strozzaturadello stretto diMessina

I COSTIAGGIUNTIVI

Page 8: Dossier Agricoltura , fascicolo 2

RAPPORTO

SULLA

IBLEAAGRICOLT

URA

LA ZOOTECNIA

E L’INDUSTRIA 

LATTIERA LA QUOTA LATTE?LA STRADADELLA CHIUSURA

SENZA LIQUIDITÀ PER PRODURREDI PIÙ E CON COSTI DI ESERCIZIODIVENUTI ORMAI INSOSTENIBILI

Il 13 ottobre scorso è stata gran festa sull’altipianoibleo. È piovuto per tutto il pomeriggio. Gli alle-vatori hanno alzato gli occhi al cielo salutando congioia la fine dell’estate e li hanno riabbassati a ter-ra, sui campi non più da dover irrigare e dove con-

tinuare a spendere soldi. L’arrivo della pioggiaquest’anno è stato visto come una grazia divina: vederecrescere l’erba e potere così mandare la mandria a pa-scolare significa ogni anno non soltanto smettere diconsumare acqua e luce per irrigare i campi di soia e dimais - chi ce l’ha -, ma anche contenere il consumo delforaggio, che in molti allevamenti ha cominciato pau-rosamente a scarseggiare non avendo gli allevatoriprovveduto ad approvvigionarsi in tempo contando sulcielo. Che quest’anno ha però chiuso troppo a lungo lecatenelle come le banche il credito. La conseguenza in casi del genere è obbligata. Si trattadi scegliere tra abbattere il 20, 30% di capi di bestiameo licenziare parte del personale, composto perlopiù daimmigrati. Gli allevatori non hanno colpa. Se hannoesaurito le scorte foraggiere è perché non sono stati ingrado di impegnare fondi liquidi nell’acquisto. Gli ul-timi dodici mesi sono stati i più pesanti della lunga sta-gione di crisi che ha colpito anche la zootecnia. Bastanopochi numeri. Il prezzo del latte, che si aggira oggi in-torno ai 35 centesimi al litro è rimasto lo stesso di quel-lo di dieci anni fa ma i costi di produzione si sono piùche raddoppiati. Se appena l’anno scorso la soia costava40 centesimi al chilo oggi ne costa 70 mentre il mais èpassato da 17 a 33 centesimi. A queste impennate vannoaggiunti i picchi del gasolio agricolo, dell’energia elet-trica e del costo del lavoro. Si è calcolato che inun’azienda media che produca 27 litri al giorno di latteil prezzo di 22 di essi basta appena a coprire i costi ali-mentari. Alla fine l’allevatore ibleo che vende a 35 cen-tesimi un litro di latte si trova a registrare una perditadi 8 centesimi. Solo per pareggiare i costi alimentari unlitro di latte dovrebbe dunque essere venduto a 43 cen-tesimi, una cifra che però è oggi del tutto improponibileall’industria lattiera e al mercato in generale. Che fare?Chi non ha fatto investimenti e non ha quindi affida-menti bancari aperti chiude. Chi invece ha comprato unterreno o un trattore o ha avuto prestiti bancari è co-stretto a resistere, sperando in un miracolo e continuan-do intanto ad accrescere i debiti. Il miracolo potrebbeessere una riduzione dei costi di produzione o l’innal-zamento del prezzo del latte. Ma le prospettive prefigu-rano il contrario. Il problema è nella filiera.Molti anni fa le industrie di trasformazione (da Latte

Sole a Latte Zappalà) operavano direttamente nell’ac-quisto del latte rivolgendosi alle aziende zootecniche.Il rapporto diretto aveva però un grosso handicap: l’in-dustria imponeva il prezzo all’azienda, priva di poterecontrattuale e della capacità di provvedere al confezio-namento e alla commercializzazione. Era necessaria unconcessionario, sicché per bilanciare le parti, nacquenell’84 la prima cooperativa ragusana, la Nuova Agri-coltura, cui seguì un anno dopo la Altopiano, oggi ri-battezzata Progetto Natura. Negli anni le cooperativesono diventate sette e hanno organizzato l’85% degliallevatori mentre il rimanente 15% è rimasto sganciatopreferendo conferire direttamente alle industrie lattiere.Le cooperative si sono poste come interlocutrici delleindustrie patteggiando i prezzi sulla base della capacitàdi produzione delle aziende iblee, le più grandi fornitricidi latte della Sicilia. È stato un decennio d’oro finchénon è poi arrivata la globalizzazione. A quel punto le industrie hanno preteso di volere im-porre di nuovo il prezzo, ma non più alle aziende quantoalle cooperative. Le quali hanno risposto vendendo illatte ibleo a concessionari non siciliani, figure terze chesi sono introdotte nella filiera come ulteriore mediazio-ne. La conseguenza, dai contorni decisamente parados-sali, è stata quella che ha segnato gli ultimi dieci anni:le aziende conferiscono alle cooperative che provvedo-no ai controlli e a tutte le prescrizioni; poi le cooperati-ve vendono a terzi non siciliani e questi vendono alleindustrie siciliane che erano prima in rapporto con lestesse cooperative. Con la creazione di un passaggio in-termediario in più il prezzo del latte al consumo è ov-viamente aumentato, ma è convenuto a tutti:l’allevatore, minacciando di conferire direttamente al-l’industria, ha potuto vendere alla cooperativa a unprezzo più alto, la cooperativa ha fatto altrettanto conil concessionario forestiero e l’industria siciliana haavuto lo stesso latte a un costo a volte più basso di pri-ma. Questo stato di cose ha portato però a un’ultimaevoluzione: molti produttori si sono sganciati dalla coo-perativa, che ha perso il filo diretto con l’industria, e hastabilito rapporti separati con la stessa industria o il se-condo intermediario: come un tempo insomma. L’an-cestrale spinta del produttore ragusano di starsene dasolo e rifuggire la cooperazione sta avendo il soprav-vento. Ma i tempi sono cambiati. Oggi l’industria vasempre più rivolgendosi verso ambiti di produzione,fuori dalla Sicilia e anche dall’Italia, che assicurano lat-te a prezzi molto più vantaggiosi per via del minor costodi produzione. Il risultato è che nei frigoriferi delle case

PAGINA 8AGRICOLTURAIBLEA

Le quote lattehanno

significatol’entrata in

crisi delleaziende iblee.Per accrescerela produzione

occorre averne di più

e quindi spendere di

più. Moltissimiallevatori nonpossono farlo

e chiudono

Èaccertatoche la

zootecnia hacontribuito 

alla salvaguar-dia del territo-

rio contro iprocessi di de-sertificazione.Mentre la col-tivazione in-

tensivainfluisce a ren-dere sterile unterreno, l’alle-

vamento alcontrario lo

preserva e nefrena l’inaridi-mento. La ric-ca vegetazioneche continua alussureggiarene è la prova

ALLEVAMENTIPRO-TERRENO

Page 9: Dossier Agricoltura , fascicolo 2

PAGINA 9AGRICOLTURAIBLEA

siciliane rischia di finire latte siciliano che siciliano nonè. I piccoli e medi allevatori, messi alle strette, si tro-vano riportati nelle condizioni originarie quando eranole industrie a imporre unilateralmente il prezzo, cosic-ché oggi vendono un prodotto che anziché un profittodetermina una perdita. L’impossibilità ad accrescere la produzione per via delregime delle quote latte e per l’ulteriore aumento deicosti di alimentazione nel caso di acquisto di nuovi capispinge le industrie a rifornirsi altrove, dal momento chetutta la Sicilia non assicura che il solo 25% del fabbi-sogno. Di conseguenza il 75% del latte imbottigliato inSicilia è di Oltrestretto. Ci sarebbe dunque grande spa-zio per il latte ragusano, ma nei fatti così non è. Per pro-durre di più un’azienda zootecnica deve innalzare lapropria quota latte. Può farlo affittando la quota daun’altra azienda o acquistandola. Nel primo caso pagaun centesimo a litro, nel secondo 5. Conviene quindiaffittare. E ciò può avvenire a fine campagna, cioè a ri-dosso del 31 marzo, quando l’allevatore si rende contose rischia o meno di superare la propria quota: un’ipo-tesi questa che comporterebbe una sanzione pecuniariadel 110% dell’eccedenza.Per scongiurare questa penalizzazione, l’allevatore hadue strade: o si procura la quota latte necessaria ad an-nullare il sovrappiù o conferisce al mercato nero, casonel quale il massimo che può augurarsi è di limitare lespese affrontate per la sovraproduzione, visto che i costialimentari li ha sostenuti allo stesso modo. Aumentarela produzione di latte comporta quindi nuovi investi-menti. Che essendo oggi insostenibili costringe a tenersia un fatturato misurato e conforme alla capacità delleproprie stalle. Il capestro della quota latte, che relega lamucca alla stregua di un rubinetto, non consente peròdi ridurre la produzione al di sotto della quota latte as-segnata perché la parte che manca viene confiscata emessa poi con tutte le altre nella disponibilità generale.Un’azienda zootecnica non può quindi produrre più diquanto è autorizzata, pena multe salatissime, e non puòrallentare la produzione, pena la sottrazione della quotanon colmata. Per molte aziende questa logica ha significato la chiu-sura. Altre rimangono in vita solo perché legate a inve-stimenti in corso. In questa situazione si trovano oltreil 70% delle aziende zootecniche del Ragusano. Un datoevidente dell’attuale stato di crisi è sotto gli occhi dichiunque attraversi in macchina le campagne iblee. Fi-no a dieci anni pullulavano di capi di bestiame al pa-scolo. Oggi l’impressione è che gli animali siano

scomparsi. In gran parte sono finiti macellati, anche a400 euro a capo. Una miseria. Tutta colpa delle quote latte. La crisi è cominciata giàprima della loro introduzione. Che in Sicilia fu vista co-me una manovra per aumentare le tasse per cui gli alle-vatori, prima dell’entrata in vigore, ridussero laproduzione, convinti da molti persuasori occulti (anchepolitici) che più latte avessero prodotto più avrebberodovuto versare allo Stato. In settentrione invece agironoal contrario: in attesa delle quote latte tutti accrebberoal massimo la produzione sicché fissarono le quote auno standard più alto incuranti di eccedere. Quando ciòavvenne gli allevatori riuscirono a spingere la Lega aottenere che a pagare le multe fossero tutti gli italiani.In provincia di Ragusa gli allevatori che hanno prodottoin più continuano invece a pagare multe anche oltre 70mila euro. L’Italia furba del Nord e quella scema delSud. Che diventa più scema quanto più a Sud si scende.Scema o onesta è la stessa cosa.Le quote latte peraltro non hanno uno stesso costo. Sidividono a secondo se l’azienda si trovi in zona monta-na, svantaggiata (o collinare) oppure in pianura.Quest’ultima paga di più. E tali sono considerate in pro-vincia di Ragusa anche le aziende dell’altipiano, cioèla gran parte. Né si possono affittare o comprare quotetrasferendole da una altitudine a un’altra. Pur essendomontuoso, il Ragusano è stato insomma assimilato allaPianura padana. I tentativi per colmare gli svantaggi hanno riguardatoanche la capacità produttiva. Il capo autoctono degliIblei è la razza modicana, una specie che produce unlatte superiore di qualità ma in una quantità ridotta ri-spetto per esempio alle pezzate nere e rosse. Ciò haspinto molti allevatori a riempire le stalle di pezzate.Ma molti vecchi allevatori hanno preteso dai figli checontinuassero ad allevare solo la modicana: un fatto diidentità e di cuore. Due aziende sono diventate le piùgrosse della provincia, riuscendo addirittura a rendersiautonome, confezionando e commercializzando in pro-prio, allevando solo modicane. Sono la Floridia di Ispi-ca e la Tumino di Ragusa. Le altre hanno diversificatoil parco mucche. Giovanni Petriglieri, una famigliadell’altipiano modicano, che alleva dal 1951, non si èmai appassionato ai pregi-difetti della modicana e halasciato che il figlio Rosario colorasse le stalle di ognirazza. Rosario è uno di quegli allevatori che lavora perrendersi autonomo. Produce parte dei foraggi da sé, hapascoli propri e conferisce a una cooperativa. Anche luiha esultato sotto la pioggia il pomeriggio del 13.

Due aziende,la Floridia ela Tumino,hanno sceltodi allevaresoltanto mucche dirazza modicana,una specieche produceuna qualità dilatte migliorema in quantità inferiore

Ci sono tretipi di fo-

raggio impie-gato inprovincia: ilpascolo, danovembre amaggio, cheperò richiedepochi animalie molto terre-no; il fieno,coltivato ocomprato; i fo-raggi insilati,cioè fermenta-ti prodotti dal-le stesseaziende in col-tivazioni in-tensive. Gliinsilati dannoun foraggio piùdigeribile

TRE TIPIDI FORAGGIO

Page 10: Dossier Agricoltura , fascicolo 2

Del genio ibleo in fatto di serre diede moltianni fa prova un serricoltore modicanoche coltivava rose. Le produceva primadegli altri e le vendeva quindi al prezzoche decideva lui. Il segreto era alla vistadi tutti, purché passassero davanti alla

serra di notte, quando le luci erano accese. Quel serri-coltore, ormai deceduto, aveva scoperto che con la luceartificiale i fiori germogliavano più in fretta. Dopo dilui tutti i serricoltori hanno lasciato, andando via, la luceaccesa. C’è stato un tempo, quando l’energia elettricanon costava quanto oggi, che le serre formavano unaluminara da fare sparire le stelle nel cielo. Poi anchequelle luci si spensero, perché nessuno produceva piùprima degli altri sicché non conveniva accrescere i co-sti. Oggi le serre sono non solo spente ma anche chiuse,anzi divelte. I costi di produzione sono diventati esor-bitanti e tenere la luce accesa di notte sarebbe propriouna pazzia. Né avrebbe granché senso visto che altriprodotti arrivano oggi prima sul mercato: quelli stranie-ri o comunque non ragusani né siciliani.Un settore ibleo d’eccellenza in campo serricolo è lafloricoltura, che - avendo un maggiore mercato - spuntada sempre guadagni più alti della orti-coltura ma richiede anche costi maggio-ri di produzione. Lievitando questi, laproduzione ristagna sicché la floricoltu-ra risente la crisi ancora di più. Ancheperché è invalso un po’ ovunque l’eser-cizio della serrifloricoltura, per giuntacon l’uso di substrati inerti e fuori suolo.Il fiore coltivato in campo aperto e suun terreno del quale sfrutti le proprietàorganiche così da specificarsi in una va-rietà ben distinta non esiste quasi più.Può essere piantato a un metro dal suoloe su sostanze inerti, perciò in qualunqueluogo. Questo significa che distinguereuna rosa siciliana da una olandese di-venta non solo impossibile ma anche ir-rilevante. Quel che rimane di autoctono e identitario èil prodotto frutto del clima locale, che ha una forte in-cidenza non solo sulla qualità ma anche sui costi. Il cal-do nuoce alle rose se eccessivo.Antonio Calabrese è un agronomo che coltiva rose inun’azione serricola di Cava d’Aliga avuta dal padre,uno dei primi in provincia ad essersi dedicato al fiorepiù bello e più costoso. I costi di energia elettrica chedeve affrontare nei tre mesi estivi per un ettaro di su-

perficie protetta si aggirano oggi intorno ai quindicimilaeuro e sono tesi a ridurre gli effetti del sole nella serraattraverso impianti di raffrescamento che, con l’impie-go di pannelli e ventole alimentati tutti ad energia elet-trica, riescono ad abbassare la temperatura da 38 a 28gradi. Calabrese ha calcolato che per ogni ettaro occor-rano 60 kilowatt. Ma altri consumi di energia elettricasi aggiungono a questi e derivano dalla concimazione,dalla fertirrigazione, dalle celle frigorifere, dalle mac-chine selezionatrici e da tutti gli altri impieghi di lucepossibili in un’azienda. L’escalation dei costi ha ridotto negli ultimi dieci annile superfici ragusane di coltivazioni di rose del 70% afronte del dato che registra il 40, 50% in meno della flo-ricoltura in genere. Ad aver avuto un’impennata esor-bitante sono stati i fertilizzanti aumentati fino 300%.Sulla scia dell’aumento del prezzo del petrolio è schiz-zato in alto, oltre al prezzo del gasolio agricolo, anchequello dei fitormarci per i nitrati e i nitriti in essi conte-nuti. La conseguenza più grave della crisi è il calo dellospirito d’impresa: se un’annata va bene si coprono i co-sti. Questo risultato, unito alla pesante stretta creditizia,impedisce gli investimenti e quindi l’innovazione, che

nella serricoltura è importantissima, econ gli investimenti si ferma anche losviluppo. Senza sviluppo viene meno illavoro, cosicché la crisi non fa che av-vitarsi sempre più.Per un’altra serie di circostanze, a ren-dere più difficile il quadro è anche laconcorrenza estera. Nel campo dellafloricoltura l’Olanda è il Paese cheesporta di più anche in Sicilia. Tutti imercati e i siti web di vendita di fiorioffrono i fiori olandesi di ogni varietà,che si sono fatti gran fama, insieme conquelli locali. I fiori di Scicli, che secon-do una certa nomea priva di fondamen-to erano quelli che addobbavano ilpalco del Festival di Sanremo, stanno

vivendo anni di magra - se anche la Liguria, la regioneche ha inventato la floricoltura è anch’essa in ginoc-chio. Eppure i fiori prodotti nell’area sciclitana, comein quella ipparina, riescono a sostenere la concorrenzastraniera grazie a uno standard di qualità che per ottomesi l’anno sa farsi valere. Per garantire una produzio-ne anche estiva ed altrettanto competitiva occorrono letecnologie, per impiegare le quali sono però richiestifondi liquidi, la cui scarsità frena dunque ogni progetto.

LA FINE DEL MITONON RISPARMIANEMMENO I FIORI

LA DISMISSIONE DELLE SERRE CONTINUA. E LA FLORICOLTURA ATTRAVERSA UN PERIODO NERO

RAPPORTO

SULLA

IBLEAAGRICOLT

URA

LA SERRICOLTURA

E LA FLORICOLTURA

LA CONCORRENZA

ESTERA, SPECIALMENTEOLANDESE, HACONTRIBUITO ARENDERE PIÙ

RISCHIOSALA PRODUZIONE

DI FIORI

PAGINA 10AGRICOLTURAIBLEA

Il forte aumento dei

costi di produzione,

che ha costretto il

20% delle serre

orticole achiudere, hadeterminato

nel campo floricolo un

calo della superficie

coltivata a rosa del ben

70%

La coltivazionein serre ha

costituito ai suoialbori, all’inizio

degli anni Set-tanta, il vero fat-

to nuovodell’agricolturaitaliana. Pochi

pionieri trasfor-marono terreni

dell’Ipparino pri-vi di alcun reddi-

to in distese didecine di miglia-ia di metri qua-drati di colture

protette: melan-zane, pomodori e

zucchine furonocoltivate per tut-to l’anno con ri-

sultatientusiasmanti.

IL PRODIGIODELLE SERRE

Page 11: Dossier Agricoltura , fascicolo 2

Insieme con Santa Croce e Marsala, Scicli rappresentail più grosso centro di produzione floricolo della Sicilia.Il loro mercato è essenzialmente quello locale, regiona-le al massimo. Manca la forza di commercializzare allamaniera olandese, mancano le organizzazioni capaci diimmaginare grandi scenari e conquistare mercati lonta-ni. Ma c’è un’altra ragione perché i fiori iblei fanno po-ca strada. La Sicilia è infatti unaconsumatrice forte di fiori che per il60% sono richiesti a uso funerario. Il culto tutto siciliano dei morti con l’of-ferta, nei cimiteri e nei funerali, di fiori,un culto che dura tutto l’anno e che nonregistra flessioni, è quello che sostienel’industria floricola anche ragusana. Ac-canto alle celebrazioni funebri ci sonoperaltro anche quelle liete come i matri-moni e le occasioni nelle quali il fiore re-sta il principale simbolo del dono. Lestelle di Natale, per esempio, hanno inSicilia un vastissimo consumo e la ser-rifloricoltura iblea è molto impegnata suquesto versante. Si è peraltro scopertoche il consumo di fiori è più elevato nelle grandi cittàcome Catania e Palermo dove le tradizioni sono piùmassificate. Una ulteriore fetta di mercato è occupata poi dal “vasofiorito”, con ciclamini, rose e gerani, ma è il crisantemo,nella particolare varietà del crisantemino, a detenere ilprimato. Molte aziende si sono specializzate perciò nel-la coltivazione del crisantemino, che è diventata la prin-cipale attività della più grande impresa floricola della

provincia, La Mediterranea Fiori di Acate, la sola chesoddisfa in proprio l’intero ciclo: dalla produzione alconfezionamento alla commercializzazione esportandoin tutta Europa ormai da quindici anni. Le altre aziendevendono ai “magazzini”, strutture private che svolgonoil compito dei commissionari. Le più grandi sono quelladi Scicli, Guarino, e quella di Vittoria, Lo Monaco, due

mercati del fiore dove operano com-missionari, che ricevono una provvi-gione sul vendito, e commercianti checomprano e vendono in aste che a Vit-toria si tengono il mercoledì e il sabatoin un ambito interamente automatizza-to. Ma non è la sola produzione siciliana aessere messa in vendita. Accanto ad es-sa le transazioni riguardano produzionianche nordafricane e del Centro Ame-rica o magari provenienti solo dal La-zio. Il 90% delle aziende produttiveragusane conferiscono in queste strut-ture private o nelle altre due o tre mi-nori attive in provincia. Solo a Vittoria

conferiscono oltre 700 produttori che sono perlopiù del-la provincia. Anche La Mediterranea, un vero e propriogigante, per gli effetti della crisi economica, conferiscein piccola parte nelle strutture private. La crisi sta spingendo a ridimensionare programmi e ri-schi anche nella serricoltura orticola. Su 10 mila ettaridi serre, si calcola che il 20% delle aziende hanno chiu-so. La plastica dismessa e abbandonata indica un feno-meno che sembra innaturale in questa provincia.

IL 90% DEI PRODUTTORICONFERISCE

NELLE DUE GRANDISTRUTTURE

PRIVATE DELLAPROVINCIA. INPARTE PURE LAMEDITERRANEA

PAGINA 11AGRICOLTURAIBLEA

La rosa con-tinua a con-

servare iltitolo di reginadelle coltiva-zioni floricole.Le serre delloSciclitano edel Vittoriese,nonostante ilpiù alto costodi produzione,non hanno ab-bandondatoquesta coltura,che dà il mag-gior profittograzie allagrande doman-da del merca-to. Ma iprofitti non so-no più quelli diuna volta.

LA ROSAREGINA

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Giorno 11 ottobre l’assessore Aiello hafirmato quattro decreti (più uno insiemecon l’assessore alla Sanità Russo) chepotrebbero introdurre reali elementi dicambiamento nella politica agricola re-gionale. Si tratta di interventi che, come

ha detto Aiello annunciandoli a Ragusa, sono figli dellebattaglie sostenute soprattutto nel Ragusano. La madredi tutte le battaglie è quella per l’identità del prodotto:marchiarlo significa distinguerlo e impedire che vengacontraffatto. Per l’agroalimentare siciliano, che vanta ilmaggior numero di Dop in Europa e può vantare unbrand affermato in ogni continente, dotarsi di una cartad’identità e di un marchio distintivo è una via obbligata.Se viaggiatori riferiscono di aver visto a Shanghai com-mercianti boemi vendere loro prodotti spacciandoli persiciliani significa che il made in Sicily ha successo. Mai tecnici dell’assessorato regionale all’Agricoltura si so-no resi conto che specificare la provenienza, dire peresempio “carota di Ispica”, sui grandi mercati interna-zionali, soprattutto i più distanti, non significa niente.La logica del campanile, ha spiegato Aiello, equivale aquella per cui ogni quartiere debba avere la sua squadradi calcio, tutte costrette alla fine a una vita magra. Lasoluzione è un marchio per tutti i prodotti, a prescinderedal comune di produzione. E dal momento che è il pro-dotto siciliano ad avere un forte impatto, sarà dunque“Sicilia” il marchio che connoterà i prodotti siciliani. Ilmarchio servirà anche a dimostrare che quello che laSicilia produce è il meglio in fatto di qualità, mentre fi-nora l’attestazione di superiorità è stata data dal merca-to, ciò che ha comportato che molti prodotti si sono

impossessati arbitrariamente della presunzione indebitadi autenticità siciliana. Il marchio sarà rilasciato, su richiesta dell’azienda, atre tipologie di prodotti: quelli già da marchio, i Dop,per esempio, cioè ottenuti in Sicilia; quelli che rispon-dono ai disciplinari di qualità della Regione e sianoquindi certificati; e quelli tracciabili. Le aziende saran-no periodicamente sottoposte a verifiche ispettive daparte dell’assessorato e costrette ad adeguarsi al rego-lamento, ai disciplinari di qualità e agli altri documentiprescrittivi. Si tratta di uno strumento del tutto nuovoche, prima ancora dei produttori, garantisce i mercatiperché certifica una varietà circa le sostanze con cui èprodotta. Questo decreto è accompagnato da un altro che è col-laterale. Garantire un prodotto con un marchio significaanche salvaguardarlo circa i rischi di contraffazione. Diqui il decreto sulla salvaguardia della produzione sici-liana entro la quale quella iblea ha una posizione domi-nante. Indicazione del luogo di origine, etichettatura,conformità alla normativa comunitaria e corretta pre-sentazione: sono misure di cui si farà carico il Diparti-mento per gli interventi infrastrutturali che segnalerà icasi di frode all’assessorato per le sanzioni previste.Fra queste l’iscrizione in una black list, contrapposta auna white list, dove l’azienda sarà tenuta per tre annisenza possibilità di accesso a ogni forma di interventofinanziario regionale. Non solo. All’azienda inadem-piente sarà data la possibilità di risolvere la non confor-mità entro un dato periodo di tempo, fissato caso percaso ma potrà anche, in presenza di una particolare gra-vità, vedersi revocata la licenza di marchio e ricevere

IL MADE IN SICILYAVRÀ UN MARCHIO

CINQUE DECRETI REGIONALI PER DARERESPIRO ALL’AGRICOLTURA: RICERCA,KM ZERO, SALVAGUARDIA E CONTROLLI

RAPPORTO

SULLA

IBLEAAGRICOLT

URA

IL NUOVO CORSO

AGRICOLTURAIBLEA

Il marchio sarà rilasciatodalla Regione

a quelleaziende

virtuose chevorranno produrre

secondo il regolamento

e i disciplinariprescritti. Il

marchio garantirà

l’origine, lasalubrità e

l’impiego ditechiche corrette

La Sicilia pro-duce quat-

tro miliardi dieuro di prodot-ti agroalimen-tari l’anno mane consumadieci. Questo

significa che glialtri sei riguar-dano spese perprodotti di im-portazione. Se-

condo ildirettore gene-rale del Diparti-mento per gliinterventi in-

frastrutturali inagricoltura  Da-rio Cartabellot-

ta occorreinvertire que-sta tendenza

TROPPOIMPORT

PAGINA 13PAGINA 12

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una ingiunzione a ritirare addirittura il prodotto dal mer-cato. Norme quindi severissime nell’ottica della finalitàdin un decreto che intende combattere le frodi e le con-traffazioni ma nello stesso tempo valorizzare e difen-dere i prodotti siciliani quanto a genunità ecertificazione.Il terzo decreto firmato da Aiello riguarda la ricerca el’innovazione, un campo nel quale la provincia di Ra-gusa si è dotata di istituti come il Corfilac di Ragusa,l’Asca di Ispica e il Centro per le colture protette di Vit-toria, di cui però soltanto il primo è in piena attività. Ildecreto istitutivo dello “Psari” (acronimo che sta per“Piano dei servizi avanzati, ricerca e innovazione”) in-tende gestire l’innovazione tra il mondo della ricerca,il pubblico e il privato, la qualficiazione e la valorizza-zione degli operatori e delle imprese, lo sfruttamentodelle opportunità di finanziamento comunitarie, nazio-nali e regionali e si configura quindi in un’azione di in-tegrazione di sistema e in una condivisione diprogettualità, conoscenze e capacità finalizzate a stimo-lare i processi di ricerca. Il decreto rilancia la strada intrapresa negli anni Novan-ta proprio dalla produzione agroalimentare iblea che siavvicinò all’università e agli enti locali per studiare co-me ottenere prodotti di qualità certificati. Nacqueroquegli istituti che negli anni hanno esaurito la loro spin-ta e che ora la Regione vuole rimettere in piede e riat-tivare: anche per facilitare - ed è questo uno degliobiettivi del decreto - la nascita di nuove aziende. Sitratterà di costituire una rete integrata che riunisca e co-ordini i vari centri ed istituti finora lasciati ad operareda soli, rivalutando - quanto alla provincia iblea - nonsolo il Corfilac ma anche il Centro di contrada Perciatae il Servizio informativo agrometeorologico sicilianodi Ispica, la defunta Asca.Non si tratta di un decreto di interesserelativo ai soli centri di ricerca, perchériguarda anche i produttori. Lo Psari in-fatti promuoverà la diffusione di stru-menti informativi quali libri,audiovisivi, giornali e Internet; lo svol-gimenti di seminari e convegni, oltreche di corsi di formazione; l’apertura disportelli di orientamento e assistenzatecnica alle aziende; il supporto allaprogettazione, al finanziamento e allarealizzazione di azioni di ricerca; la ge-stione di progetti di aggregazione e svi-luppo di attività avanzate; accordi difiliera e infine l’assistenza alla interna-zionalizzazione delle imprese e la cer-tificazione di prodotto per la filiera di competenza.Il quarto decreto rilancia la politica del cosiddetto “chi-lometro zero”, cioè del prodotto che viene ottenuto do-ve è consumato. La Regione mette a disposizione dellapubblica amministrazione (ospedali, scuole, caserme...)prodotti agroalimentari certificati indicati in liste auto-rizzate. Per prodotti agricoli a chilometro zero dovrannointendersi quelli Dop (denominazione di origine con-trollata), gli Igp (indicazione geografica protetta), gliStg (specialità tradizionale garantita) e naturalmente iprodotti riconosciuti con il marchio “Sicilia”. Si trattadi un logo che verrà rilasciato dall’assessorato all’Agri-coltura nel cui ambito sarà istituita una commissionevalutatrice per il rilascio della licenza valida al suo uso,oltre che un Tavolo di concertazione per promuovere laconoscenza e la diffusione delle produzioni agroalimen-tari siciliane. Anche in questo campo sarà introdotta una

lista nera nella quale verranno iscritti per tre anni glioperatori che non si atterranno alle prescrizioni. Il quinto decreto integra un accordo interassessorialeche coniuga salute e tavola secondo lo slogan coniato atal fine “Vivi sano, mangia siciliano”. Lo scopo è di as-sociare la dieta siciliana ai prodotti agroalimentari ri-conosciuti come genuini e tipici. Si è scoperto che ladieta siciliana è superiore a quella mediterranea ed è co-munque propria della sola Sicilia. Le sue proprietà han-no portato a un incredibile dato: una corretta dietasiciliana fa regredire certe forme tumorali anche del35%. Gli Stati Uniti, che vivono il problema endemicodell’obesità, si sono mostrati molto interessati e hannochiesto di visionare questa dieta. Si è poi visto che allaclinica Maddalena di Palermo la macerazione di fogliedi ulivo somministrata a un malato di cancro per ottantagiorni ha ridotto il cancro del 40%. Tutto merito dellanatura e quindi dell’agricoltura, purché genuina. Di quila necessità di promuovere prodotti agroalimentari diineccepibile autenticità per integrare una dieta di cuil’Istituto zooprofilattico (che fa capo all’assessorato allaSanità) possa rilasciare l’attestato di produzione certi-ficata. L’obiettivo prossimo è l’Expo 2015 dove questodecreto dovrà dare i suoi frutti in termini di affermazio-ne appunto della nostra specialissima dieta.«Mettere insieme agricoltura e sanità - ha detto Aielloillustrando il decreto - significa operare nel senso dellaqualità e dell’eccellenza che sono i due fattori di distin-zione della nostra agricoltura». Pur criticando l’attualegoverno tecnico nazionale, «perché la politica non puòessere fatta dai tecnici», Aiello non ha mancato di sot-tolineare il ruolo che sta svolgendo il ministro all’Agri-coltura Mario Catania, il quale - primo fra tutti - haammesso che la filiera agroalimentare del Sud è rimastaferma al Dopoguerra. Catania, che viene dalla Coldi-

retti, ha in sostanza riconosciuto la dif-ficoltà dei prodotti agroalimentarimeridionali a competere sui mercati.Sulla politica dei prezzi in ambito co-munitario Aiello ha ricordato poi chesin dal 2007 il Parlamento europeo halanciato l’allarme circa le distorsionicreate dalla grande distribuzione. Il pro-blema principale, oltre alla Pac, che stacreando tante Europe secondo le latitu-dini, è proprio la grande distribuzioneche, secondo Aiello, è incolore, non èpoliticizzata, e pertanto supera ognisteccato facendosi spregiudicata. Con-tro i danni della grande distribuzione ilrimedio è una maggiore qualità. Quanto

più la grande distribuzione massimizza tanto piùl’agroalimentare di qualità deve invece affinarsi e spe-cializzarsi. Ecco perché è necessaria un’educazioneall’alimentazione che sia condotta attraverso ogni ca-nale di informazione e in ogni sede, a cominciare dallescuole. I consumatori devono sapere cosa prendono inmano nei supermercati, guardare la provenienza delprodotto e non soltanto il prezzo. Solo così è possibileaffermare non un regime autarchico del consumo, peril quale i siciliani producono ciò che i siciliani mangia-no, ma un circolo virtuoso che declini salute e cibo. Il disposto dei cinque decreti, la cui attuazione è de-mandata nei fatti al futuro governo, mira a integrare inun unico obiettivo programmi che tendono a uno storicotraguardo: dare al made in Sicily una patente che final-mente possa costituire per l’agricoltura dell’isola unareale occasione di ripartenza.

AGRICOLTURA ESALUTE, UN

BINOMIO CHEDOVRÀ

COSTITUIREIL LANCIO

DELLA DIETA SICILIANA NEL

MONDO

AGRICOLTURAIBLEA

L’azione dicontrastro alle frodi èteso a garantire ladifesa e la valorizzazionedei prodottiagricoli locali.Sono previsticontrolli sullaprovenienza ela tracciabilitànonché sullacorretta presentazionedei prodotti.Ma anche severe sanzioni e l’scrizione inuna lista neraper tre annioltre che l’impossibilitàdi accdere ainterventi finanziari regionali

La Regioneintende in-

dirizzare ogniintervento eogni sforzo nelsenso dellaqualità. Que-sto perché ècresciuto no-tevolmente ilbrand Sicilia.La sola parola“Sicilia” vieneoggi utilizzatanei mercati in-ternazionalicome sinonimodi qualità. Diqui la necessi-tà di marchia-re la Sicilia edi dare albrand un no-me.

UN BRANDVINCENTE

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Farmaco, lusso, voluttà, il cibo è una filosofiadi vita che parla di identità, di creatività, disocialità, di bellezza, di catarsi, di generosità,di libertà, di viaggi. Ma in Sicilia, la tavoloz-za di colori e la fragranza dei profumi di pie-

tanze povere o principesche, che raccontano di antichiriti e di antiche fatiche, sembrano più che in ogni altroluogo racchiudere l’alfa e l’omega della cucina. Tutta-via, viaggiando nella geografia delle cento cucine sici-liane (tante quante le sicilie bufaliniane) un postod’eccezione occupa quella iblea, con la sua alchimiaspeciale che impasta sapori di monti e di mare, con ilsuo bouquet che tra l’altopiano e la costa spira profumid’Arabia. E se cucinare e consumare il cibo insieme significa con-divisione (lo sosteneva già nel 1825 Anthelme Brillat-Savarin nella sua Fisiologia del gusto), in poche cucinesiciliane come in quella iblea l’acciuga e il polpo, il ma-ialino e il coniglio, la fava con il fagiolo, la pastinacacon la cicoria si amalgamano così bene sulla tavola spe-ziata della fantasia. La cucina iblea è il “pinsero” di Montalbano, che danulla è più spaventato che dal mangiare in bianco, edesorcizza il mostro di senili pappine di semolino contrionfi di “nivuro di siccia”, sarde con cipollata, cacio-cavallo di Ragusa, “nzalata di mari”, “triglie in sarset-ta”, “aulive” e “passuluna” e tanto altro, magaripreparato dalla fida Adelina insieme con “tanticchia” diorigano, rosmarino, salvia, alloro, cipolla, aglio, zaffe-rano, timo e, naturalmente, con l’olio sincero degli ulividell’altopiano. Ora, volendo, nella creativa pentola iblea, separare (solosulla carta s’intende) cucina di terra da cucina di mare,possiamo cominciare proprio da quella terragna pienez-

za dei prodotti della terra, benedetta da Dio. Tra i legu-mi, la regina è la fava, antica e nobile, evocatrice di leg-gende legate al regno dei morti e all’eterna rinascita,una preziosità per la tavola iblea quando il suo fruttosecco, cotto a lungo a fuoco lento e ridotto a crema, vie-ne esaltato dal finocchio che con la sua selvatichezzaodorosa allarga i polmoni sulla montagna dove si rac-coglie. Racconta la leggenda che il brodo della fava modicana(che si usa esporre al sole primaverile coi suoi lunghibaccelli verdi) contribuì durante l’epidemia della Spa-gnola a salvare molte vite umane. Ma, ricette miraco-lose a parte, veramente il “maccu” di fave colfinocchietto o aromatizzato al sesamo è una dolcezzache si scioglie in bocca con la sua sinuosa pastosità.Piatto da contadini, ma con la nobile semplicità deigrandi, è la variante della “pastari casa” (preferibilmen-te “manichi ri fauci”, un tipo di pasta fresca dell’anticagastronomia ragusana) “chi favi” o “chi vurrani” (laborragine), o “chi salichi”, la bieta selvatica. Tuttavia, le varianti della misteriosa fava sono tante:“favi a ‘nzincaredda", e cioè fave sbucciate e cotte inacqua di cisterna condite con olio e sale e - se si prefe-risce - cipolla cruda; “u macculurdu”, fave cotte insie-me a ceci, fagioli, lenticchie e lardo di maiale, piattopopolare del Giovedì grasso, fave e ricotta e quindi “ilolli no maccu”, rollini di pasta amalgamati con il “mac-cu” di fave ridotte a crema. Se poi si preferisce una minestra un po’ brodosa, e cioè“annacatella”, l’indicazione è che, dopo aver fatto sof-friggere l’aglio e aggiunto il pomodoro con un po’ dizucchero e allungando con acqua e sale, bisogna farvicuocere i “vurrani” e la pasta (rigorosamente “ri casa”)non senza condire alla fine con caciocavallo tagliato a

TUTTI I NIPOTINIDEL CACIOCAVALLOL’ELENCO È QUESTO

RAPPORTO

SULLA

IBLEAAGRICOLT

URA

PAGINA 14AGRICOLTURAIBLEA

Il rinomato cacicavallo

ibello è oggi intutte le

migliori cucineed è notoquanto il

pomodorino diPachino. Deve

il nome al fatto che

veniva sospesosu un bastone

a creare ai laticome due

bisacce

Tagliare ametà

dei pomodorirotondi e suc-cosi e  privarli

dei semi; aparte, in unaciotola impa-stare i semi

con la muddica

(il pangrattato)l’origano, il sa-le e il pepe-

roncinosbriciolato.

Riempire conquesta farcia i

pomodori,quindi friggerli

in poco oliod’oliva. Farlidorare e la-

sciarli appassi-re. Infine

disporli sulpiatto.

POMODORIAMMUDDICATI

I PIATTI IBLEI

diPatrizia Danzè

UNA PRELIBATA VARIETÀ CHE SI È RESA FAMOSA. L’ALTA QUALITÀ IBLEAVINCENTE ANCHE NELLA CUCINA

RICETTE

Page 15: Dossier Agricoltura , fascicolo 2

cubetti. Il ragusano “maccu” di San Giuseppe metted’accordo legumi rinsecchiti come fave, ceci, lentic-chie, fagioli, piselli, con la compagnia di castagne e po-modori (anch’essi rigorosamente secchi) e verdurefresche, come finocchietti, borragine, giri, scarola, pi-selli e favette novelle con sedano, olio, sale e pepe. Ancora finocchietti selvatici, anzi i loro getti teneri ta-gliati, bolliti e mescolati con uova, sale, peperoncino efarina (non si getta, o, almeno, non si gettava mai nullanella cucina iblea della parsimonia) per i “puppetti i fi-nuccieddu” (polpette di finocchietto selvatico). Cresco-no rigogliose sull’altopiano sia la “jta” (bieta selvatica)che le “patacche” (portati questi secoli fa sui Monti ibleidai colonizzatori spagnoli) preparati in “pastizzu” (unatorta salata), sia la “majurana” (la maggiorana) con cuisi aromatizzano ravioli di ricotta. Si accompagna a tutto il caciocavallo (così chiamatoperché questo formaggio si sospende “a cavallo” daognuna delle due parti di un bastone dopo avergli datola forma di due sacche): quello stagionato lo si riduce adadini e lo si soffrigge in poco olio d’oliva fino a farlodiventare biondo e aggiungerlo così, esaltato dalla cot-tura, a qualunque pietanza. Cercare conforto nel cibo è come rifugiarsi nel seno ma-terno ed è la pietanza forse più materna la “scaccia” cheparte da una “mamma” comune, una sfoglia, tirata col“lasagnaturi” (il mattarello) e farcita a piacere: piegataa portafoglio o rotonda, bisogna comunque fare atten-zione a chiudere bene i lembi praticando “u rieficu”,per far sì che il ripieno non fuoriesca: a Vittoria c’è la“scaccia ripitrusinu” (con il profumo del nostro prezze-molo), tipica del Ragusano è la “scacciata cu’ pumarorue milinciani” dove i succosi pomodori pelati a cubettisi impastano con i cubetti gemelli di melenzane e colcaciocavallo, il basilico e il pepe. Ed è di Acate la “scac-cia” di ricotta e salsiccia, spolverata di pepe. Nella gran-de famiglia delle scacce non sfigurano né “i ‘mpanati”(focacce), originariamente solo fatte in casa con i restidel giorno prima, oggi in trionfi variopinti nei panificie nei bar dove si propongono in varianti che soddisfanotutti i desideri del palato, né i “vastidduzzi”, schiaccia-tine di pasta fritta.Nella memoria rurale dell’altopiano ci sono tante ver-dure, da quella spontanea come la cicoria, con la suaselvatichezza terrosa, agli asparagi, ai “salichi”, ai “vur-rani”: verdura da consumare cotta su tavole frugali e dariusare il giorno dopo, magari rigirata con mollica ab-

brustolita o mescolata ai legumi. Sono speciali gli aspa-ragi dell’altopiano, lunghissimi e d’un verde intenso,cotti in frittata (“frittata risparici”) o col risotto. Si preparano nelle case di campagna modicane sia i“ciappiripumaroru” e cioè il pomodoro fatto asciugareal sole e ben essiccato, poi conservato in bocce con olio,basilico e peperoncino, sia lo “strattu”, l’estratto rica-vato da una salsa di pomodoro densa e curata al sole (ilsegreto è mescolarla spesso per evitare che si formi lacrosta). Sono festosi col loro rosso i pomodori “ammud-dicati” e fritti con un filo d’olio d’oliva; stanno grossie paciosi in bella vista con il viola, il verde e giallo dimelenzane, peperoni e zucchine, patate di polpa giallalesse. Sono speciali, insieme alle carote novelle, i car-ciofi blu di Ispica, i “cacuòccili”, le cui foglie vanno se-parate e riempite di “muddica” (pangrattato), pepe nero,prezzemolo e formaggio ragusano stagionato; poi, cosìornato, il carciofo si dispone in una casseruola di terra-cotta tra aglio e olio e fatto cuocere, ben coperto, a fuo-co lento con acqua. È un pesto diverso dal restodell’isola quello ibleo: ingrediente principe le mandorle“pizzute” di Avola e poi l’olio di casa e la nepitella. A pensarci bene la cucina è una delle cose più demo-cratiche che ci siano, che unisce e non divide, che nonsi nutre di conflitti né alimenta invidie o complessi diinferiorità. Allieta in compagnia il palato e la tavola la“capunatarimilinciani”, che stempera il gusto forte dicipolle, olive, pomodori, sedano e capperi selvatici conla matura burrosità delle melenzane e i “pipi cini”, pe-peroni lunghi teneri e profumati ripieni di uova, pan-grattato, aglio, prezzemolo, latte, olio o anche cotti inpadella in agrodolce e poi mescolati con mollica abbru-stolita.Zucca a spezzatino, funghi di carrubo a spezzatino eolive novelle nere e verdi fatte addolcire sono piatti ti-picamente autunnali. Altra cosa la zucca iblea che ma-tura in estate, lunga e verdissima, dalle foglie chiare ecarnose, i “tinniruma” che piacciono tanto a Montalba-no in minestra o con la “pasta ri casa”. “Piliddi” (broc-coletti) con la ricotta in “pastratedda” per condire glignocchetti di casa (“a pizzilatieddi”, cioè a pizzicotti)un piatto unico modicano antichissimo di cui si va per-dendo la tradizione. E ancora “pastizzu ch’e ciurietti”(coi cavolfiori), e il “sanapu”, un’amarissima verduraspontanea dell’altopiano, lattughe, finocchi, porri, cru-dità, lupini, tutto magari accompagnato dal nero d’Avo-la e dal Cerasuolo.

PAGINA 15AGRICOLTURAIBLEA

Tra i legumila regina è lafava, antica enobile,evocatrice dileggende legate al regno deimorti e al-l’eterna rinascita. IlMontalbanotelevisivoama molto ilegumi e pareapprezzi con slancio lacucina delle sueAdeline iblee

Lasciar ap-passire,

preferibilmen-te in una pen-tola diterracotta,una cipolla diGiarratana inolio abbondan-te, aggiungeredue pomodorimaturi a filet-ti, basilico e ifasolaviddi, ifagioli verdisbucciati. Farliinsaporire gi-rando e copri-re con duebicchieri d’ac-qua. Far cuo-cere a fuocolento perun’ora.

FASOLAVIDDIIN UMIDO

RICETTE

Page 16: Dossier Agricoltura , fascicolo 2

RAPPORTO

SULLA

IBLEAAGRICOLT

URA

L’ASSESSORE

REGIONALE

AGRICOLTURAIBLEA

ssessore Aiello, traiamo le conclusioni

sulla situazione. Il settore che sta peg-

gio è quello che in passato stava me-

glio e cioè la zootecnia. Perché?

Perchè è un comparto maggiormente diimpresa, cresciuto affrontando il mercato in una fase diriflusso e di dominio sui prezzi da parte di soggetti chene condizionano a vario titolo le dinamiche. Non che icomparti assistiti stiano meglio, ma zootecnia e serri-coltura, che si muovono autonomamente, pagano di più.Appena il latte è pronto le aziende si trovano di frontea un mercato fortemente controllato da forme pesantidi speculazione. Questi gruppi privatisvolgono la stessa azione che era pri-ma delle banche come interlocutoriunici. Discutiamo di fenomeni imma-teriali, di un processo di commercia-lizzazione che va piazzando saldipicchettatori.In un certo senso anche le coopera-

tive rientrano in questo ambito.

La cooperazione non ha saputo assol-vere al compito originario. Nasce incontrotendenza rispetto all’unità d’Ita-lia ed è figlia dei progetti settentrionaliche puntano a farla in proprio l’unifi-cazione, almeno quella dei produttori.Ma poi le dinamiche di mercato spac-cano la cooperazione: da un lato la cooperazione di ter-ritorio rimane isolata e dall’altro la cooperazionecommerciale di processo se ne va altrove, verso il Ma-rocco, l’Egitto, l’Est. Finisce così anche la solidarietànazionale e c’è solo la grande distribuzione. A Cesenaho assistito a un dibattito presente il ministro Catania,che a un produttore settentrionale che annunciava il ri-torno del Nord al Sud chiedeva perché non ci fosserogià e perché se ne fossero andati. Il dramma di questoPaese va letto dunque in chiave di responsabilità nonsolo di casta e di politica ma anche e soprattutto di gran-di dinamiche che vanno dove va la globalizzazione. Lecooperative rientrano in questo gioco e ne sono rimasteintrappolate.Ma negli ultimi anni in provincia si assiste a un fug-

gi-fuggi generale dalle cooperative. I produttori con-

feriscono direttamente alle industrie, come

moltissimi anni fa.

Rompono i ranghi, è vero. Ma anche questo è nel contodi una strategia ben precisa. A Ragusa si pone una gran-de necessità: la collocazione non neutrale delle istitu-zioni. Se l’assessorato all’Agricoltura continua a staresopra le parti e non rompe lo schema schierandosi dallaparte dei produttori, la zootecnica iblea sarà totalmente

distrutta, perché via via che crescerà la capacità dei Pae-si orientali di aumentare la produzione, il latte rischiadi venire solo da fuori. E le isole di agricoltura avanzatache ci sono nel Sud Italia e a Ragusa, che vivono in ungrande sistema di relazioni industriali per cui i costi so-no rapportati a questo modello e sono quindi più alti,sono destinate a scomparire. Rompere questo schemanon significa istituire tavoli per stabilire, in un meroesercizio retorico, il prezzo del latte e ottenere l’indo-mani un centesimo meno. Significa dare un senso al fat-to che gli industriali del latte ricevono finanziamenticospicui quanto alla promozione e alle strutture, sicché

le aziende agricole devono capire chela logica della divisione va respintaperché più passa questa logica più de-boli diventano tutte le aziende, anchequelle più grosse che hanno un parte-nariato forte con gli industriali. Le ri-sorse regionali per la zootecnia vannoinvece spese per creare a Ragusa lacentrale del latte siciliano, visto che èla provincia più produttiva, creare aRagusa le strutture regionali unificate.Ma non c’è solo la zootecnia in gi-

nocchio. C’è anche la serricoltura.

Non c’è dubbio. Dentro questa grandecrisi dobbiamo collocare quella delcomparto più avanzato, quella che è

nata prima, che ha più esperienza, che ha conosciutomomenti di felicità nell’innovazione: la serricoltura ap-punto. Si è creduto per molto tempo all’idea sbagliatasecondo cui la grande azienda fosse necessaria per vin-cere sul mercato. Abbiamo invece dovuto constatareche venendo meno il 70% delle piccole e medie impreseanche quelle grandi hanno il destino segnato. In provin-cia abbiamo aziende che hanno avuto fino a 500 dipen-denti e sono anch’esse pesantemente in crisi. Significache in crisi non sono queste o quelle aziende ma il mo-dello stesso di serricoltura come lo abbiamo inventato.Perché questo? Perché l’accesso al credito si misura sul-la stessa scala, unica per tutti, così come i costi di pro-duzione e tutte le altre voci. Ma soprattutto l’attaccodall’esterno colpisce tutti, chi di più chi di meno. Colpadi un sistema stolido che è incapace di avere uno mini-mo di progettualità siciliana e rincorre il mercato glo-balizzato. E questa crisi, voluta dai mercati aperti, èesplicitamente sostenuta dall’Unione europea che havoluto un Psr in funzione antimerdionale e che ha im-posto in zootecnia un modello standard proprio dell’Eu-ropa continentale per cui molte risorse restanoinaccessibili per un comparto ancora in fase di evolu-zione.

UN FRONTE UNICOCONTRO I MERCATI

AIELLO PENSA ALLA CENTRALE DELLATTE SICILIANO DA ISTITUIRE ARAGUSA E A STRUTTURE UNIFICATE

PAGINA 16

A Ragusa sipone un grande

problema: chele istituzioni,a cominciare

dalla Regione,escano dallaposizione di

neutralità e sischierino al

fianco dei produttori

zootecnici, assoggettati al

regime dellagrande

distribuzione

L’accordoeuro-

marocchino,secondo 

FrancescoAiello, 

permette al sistema 

globalizzato dipersegurirel’affarismo

determinato inquesti anni daigrandi flussi di

consumo e dalla grande

distribuzione.“Il rimedio?Abbattere i 

costi di produzione

sfalsati rispet-to al Nord da 1

a 10”

RIDURREI COSTI

A


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