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EGI 6CFU Prof Vito e Sorrentini

Date post: 31-Jan-2016
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Economia e Gestione delle imprese 6cfu Parthenope scienze motorie
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Università degli studi di Napoli PARTHENOPE Corso di Economia e gestione delle imprese 6 CFU Prof. Giuseppe VITO
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Università degli studi di Napoli

PARTHENOPE

Corso di

Economia e gestione delle imprese

6 CFU

Prof. Giuseppe VITO

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Economia e gestione delle imprese – Prof. Giuseppe Vito 2

Regole e indicazioni per l’esame di Economia e Gestione delle Imprese Facoltà di Scienze Motorie, Università Parthenope

Le regole e indicazioni riportate di seguito sono un utile strumento per comprendere come affrontare il compito di Economia e Gestione delle Imprese, nonché per consentire agli Studenti di effettuare una prima autovalutazione del proprio elaborato. L’esame di Economia e Gestione delle Imprese è strutturato in una prova scritta con 5 domande a risposta aperta tratte dalla dispensa disponibile sul sito internet della Facoltà di Scienze Motorie. Gli Studenti sono invitati a svolgere la prova scritta in 75 minuti; a ciascuna delle risposte fornite è assegnato un punteggio da 0 a 6. In particolare, affinché vi sia una valutazione positiva è necessario che:

- ogni risposta, di almeno mezza pagina, sia esposta in modo chiaro, completo e coerente con quanto richiesto;

- per domande in cui sono contenute “formule” è necessario esplicitare e commentare il procedimento sottostante la formulazione stessa, ivi compresi gli acronimi delle grandezze contenute nelle formule (es. EE = Voutput/Vinput dire “L’efficienza economica (EE) è data dal

rapporto tra il valore dell’output prodotto (Voutput) e degli input impiegati (Vinput)”); - per domande in cui sono previsti grafici e/o organigrammi (macrostrutture organizzative,

economie di scala, Break Even Point, ciclo di vita del prodotto, flusso dei fondi, ecc.) è necessario darne una rappresentazione grafica esauriente nonché una spiegazione analitica delle principali indicazioni che emergono dall’analisi del grafico.

Gli Studenti devono utilizzare una scrittura leggibile ed esporre in modo chiaro le risposte evitando eccessive cancellazioni, al fine di consentire ai docenti di valutare correttamente il contenuto del compito. E’ possibile, e in alcuni casi fortemente consigliato, scrivere in stampatello. In caso di numero elevato di iscritti all’appello di esame, al fine di consentire l’agevole svolgimento della prova scritta, è prevista la suddivisione in turni che potrà essere comunicata anticipatamente via Internet al sito della Facoltà di Scienze Motorie ovvero direttamente in sede. Si invitano pertanto gli Studenti a prendere visione di eventuali comunicazioni. I risultati della prova scritta sono pubblicati al sito Internet della Facoltà di Scienze Motorie all’interno della sezione dedicata agli Avvisi della sede di Napoli (http://www.uniparthenope.it/index.php/it/avvisinapoli) ovvero direttamente in sede al momento della convalida secondo il calendario d’esame della Facoltà. Per gli Studenti che ottengono alla prova scritta una votazione di almeno 27/30 è prevista una prova orale. Per ogni chiarimento gli Studenti possono rivolgersi ai docenti della propria classe, consultando l’orario di ricevimento sul sito internet della Facoltà (www.uniparthenope.it/index.php/it/didattica-motorie/docenti/orari-di-ricevimento).

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Esempi di domande oggetto della prova scritta

1. Descrivere i fattori di “fondo” e i fattori di “flusso” della funzione di produzione

2. Significato ed utilizzo delle quote di ammortamento

3. Criteri di efficienza tecnica ed economica

4. Illustrare i concetti di capacità produttiva, produttività e grado di utilizzo degli impianti

5. Capacità produttiva ottimale (economica)

6. Flessibilità ed elasticità degli impianti

7. Definizione di ROI e ROE e leva finanziaria

8. Diverse forme di investimento (PICO, CICO, ecc.) ed esempi

9. Flusso dei fondi e calcolo del ROI

10. Definire il valore aggiunto ed un suo possibile schema di calcolo a partire dal flusso dei fondi

11. Formazione delle disponibilità ai fini degli investimenti

12. Definire i costi fissi e variabili di un’impresa industriale e indicare i costi ricadenti nelle

rispettive categorie

13. Break-Even-Point (determinazione grafica ed analitica)

14. Curva dei costi di lungo periodo e dimensione ottima degli impianti

15. Economie di scala e “da apprendimento”

16. Indicare le condizioni tecnologiche e del microambiente che consentono alle imprese il

perseguimento di economie di scala

17. Macroambiente e microambiente

18. Varietà e variabilità dei microambienti

19. Barriere all’entrata di scala, di costo assoluto e di differenziazione

20. Forze competitive e potere contrattuale nel modello della concorrenza allargata di Porter

21. Definire i concetti di settore industriale e di Area strategica d’affari (ASA)

22. Ciclo di vita del prodotto

23. Classificazione dei prodotti

24. Discutere i riflessi delle caratteristiche ambientali e tecnologiche sulla struttura organizzativa

25. Illustrare le caratteristiche della struttura organizzativa funzionale in termini di risorse umane e

di specializzazione delle Unità Organizzative e disegnarne l’organigramma

26. Illustrare le caratteristiche salienti delle organizzazioni funzionali e divisionali

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27. Macrostrutture organizzative di base

28. Le cinque parti dell’organizzazione

29. Illustrare le caratteristiche della struttura organizzativa a matrice in termini di risorse umane e di

specializzazione delle Unità Organizzative e disegnarne l’organigramma

30. Meccanismi di coordinamento organizzativo

31. Dopo aver illustrato le caratteristiche salienti dell’organizzazione a matrice e di quella per

progetto, evidenziare le principali differenze tra le due strutture

32. Parametri di progettazione organizzativa: le risorse umane.

33. Si illustrino le caratteristiche della produzione di beni e le caratteristiche della

produzione dei servizi.

34. Differenziazione, segmentazione del mercato e posizionamento dell'impresa.

35. Si illustri il criterio di efficacia e si raffronti con il criterio dell'efficienza.

36. Definizione di costi fissi, costi variabili e costi unitari (curva di breve periodo) e loro

rappresentazione grafica.

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INDICE

Capitolo primo - Efficienza, efficacia e redditività delle imprese

1.1. Introduzione Pg 8

1.2. La funzione di produzione Pg 9

1.3. I fattori della produzione Pg 11

1.3.1. Il lavoro Pg 11

1.3.2. Il capitale Pg 11

1.4. Criterio di efficienza Pg 12

1.5. Criterio di efficacia Pg 15

1.6. Principio di redditività Pg 15

1.7. Valore aggiunto Pg 21

1.8. Cash Flow Interno Pg 23

1.9. L’utilizzo delle disponibilità ai fini degli investimenti Pg 23

1.9.1. L’impianto Pg 25

1.9.2. Immobilizzazioni immateriali Pg 25

1.9.3. Promozione Pg 25

1.9.4. Ricerca e sviluppo Pg 25

1.9.5. Formazione Pg 26

1.10. Tipologie di investimenti Pg 26

Capitolo secondo - L’analisi costi - volumi - profitti

2.1. Capacita’ produttiva e produttivita’: questioni definitorie Pg 31

2.2. La capacità produttiva economica e costi della produzione Pg 32

2.3. Costi diretti e costi indiretti Pg 36

2.4. Break-Even-Point Pg 37

2.4.1. Determinazione grafica Pg 37

2.4.2. Determinazione attraverso il flusso dei fondi Pg 37

2.4.3. Determinazione analitica Pg 38

2.5. La dimensione tecnico produttiva. Le economie di scala e la dimensione ottima dell’impianto

Pg 40

2.6. Le condizioni ambientali e tecnologiche come determinanti della dimensione degli impianti

Pg 44

Capitolo terzo – Analisi dell’ambiente e definizione di settore

3.1. Analisi dell’ambiente esterno Pg 46

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3.1.1 Le forze del macro-ambiente Pg 47

3.1.2 Le forze del microambiente Pg 51

3.2 Le forze dell’ambito competitivo Pg 52

3.3 Le barriere all’entrata Pg 57

3.3.1. Barriere di costo assoluto Pg 58

3.3.2. Barriere di scala Pg 58

3.3.3. Barriere di differenziazione Pg 59

3.4 Introduzione allo studio dei settori industriali Pg 60

3.4.1 La delimitazione del settore Pg 61

3.4.2. Tipologie settoriali Pg 63

3.5 Schema per l’analisi settoriale Pg 64

3.6 Il concetto di ASA (Area strategica d’affari) Pg 66

3.7 Caratteristiche degli ambienti competitivi Pg 67

Capitolo quarto - L’organizzazione aziendale

4.1. Divisione del lavoro e coordinamento Pg 69

4.1.1. Le parti dell’organizzazione Pg 69

4.1.2. I meccanismi di coordinamento Pg 72

4.2. I parametri di progettazione organizzativa Pg 73

4.3. Le risorse umane (posizioni individuali) Pg 73

4.4. La macrostruttura organizzativa Pg 76

4.4.1. L'organigramma Pg 77

4.5. Le macrostrutture organizzative di base Pg 78

4.5.1. La struttura organizzativa semplice Pg 79

4.5.2. La struttura organizzativa gerarchico-funzionale Pg 79

4.5.3. La struttura organizzativa divisionale Pg 80

4.5.4. La struttura organizzativa a matrice e per progetti Pg 87

4.6. I collegamenti laterali Pg 90

4.6.1. I sistemi di pianificazione e controllo Pg 90

4.6.2. I collegamenti laterali basati sull’adattamento reciproco

Pg 92

4.7. Il decentramento decisionale Pg 93

Capitolo quinto - Il prodotto

5.1. Generalità sui prodotti e servizi Pg 94

5.2. Classificazioni dei prodotti Pg 94

5.3. Il portafoglio prodotti Pg 96

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5.4. Tipologie di mercati Pg 97

5.5. Il prodotto ed il mercato: standard, differenziazione, segmentazione

Pg 97

5.6. Ciclo di vita del prodotto

Pg 100

Capitolo sesto - Il valore della produzione

6.1. Il valore della produzione Pg 104

6.2. Il principio di equivalenza Pg 104

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Capitolo primo - Efficienza, efficacia e redditività delle imprese

1.1. Introduzione Ai fini dello studio sistematico delle problematiche gestionali ed organizzative delle imprese si rilevano alcune possibili principali classificazioni delle stesse. Le classificazioni possono essere effettuate lungo le dimensioni della tipologia produttiva (imprese produttrici di beni o servizi); dell’assetto proprietario (pubblico o privato); delle finalità perseguita dalle imprese (sociali o per il profitto, profit oriented); dalla dimensione (impresa piccola, media, grande). Queste non sono che alcune delle modalità mediante le quali è possibile classificare le imprese. Ad uno studio di maggiore dettaglio, infatti, si osserva che esistono altre modalità di classificazione; una di queste, per esempio, è rappresentata dal processo produttivo (continuo o discontinuo, di grande, media o piccola serie). Lo “spazio” problematico da esaminare è dunque complesso essendo a più dimensioni in quanto le imprese reali possono presentare –riguardo ai parametri considerati- caratteristiche molto diverse. Le problematiche gestionali ed organizzative di una piccola impresa, ad esempio, risultano significativamente diverse rispetto a quelle di un’impresa di medie dimensioni anche se le stesse sono, per quanto riguarda gli altri parametri, del tutto simili. Va osservato, tuttavia, che i principi che saranno illustrati in questo corso valgono, in generale ed in prima approssimazione, per tutti i tipi di imprese considerati. Imprese produttrici di beni o di servizi

La principale differenza tra la produzione di beni e quella di servizi consiste nella possibilità di trasportare ed immagazzinare i beni materiali ottenuti nel primo caso mentre ciò non è possibile per i servizi. La produzione industriale può essere pertanto concentrata in stabilimenti distanti dai luoghi di consumo, mentre l’erogazione di servizi impone quasi sempre il diretto coinvolgimento degli utenti: essa e’ dunque generalmente caratterizzata dalla simultaneità tra erogazione e consumo, mentre nelle attività industriali la produzione precede necessariamente il consumo.1

Con riferimento alla gestione delle quantità prodotte, la possibilità di accumulare scorte di materie prime, semilavorati, componenti, ecc. e giacenze di prodotti finiti consente, nelle attivita’ industriali, sia di svincolare i ritmi produttivi dalle fluttuazioni della domanda sia di sfruttare adeguatamente la capacità produttiva degli impianti.2 Al contrario, nel caso dei servizi, l’impossibilità di accumulare scorte o giacenze impone alla produzione di variare in funzione della domanda causando cosi’ notevoli problemi di dimensionamento della capacità produttiva. Infatti, questa deve essere tale da affrontare le punte di domanda della clientela per garantire in ogni momento la disponibilità del servizio riducendo al minimo le attese. Ciò determina, in tali imprese, un sistematico sottoutilizzo della capacità produttiva nei periodi in cui il livello di domanda risulta piu’ basso rispetto ai periodi di punta. 3

Un’ulteriore importante differenza riguarda la gestione della qualità. Nella produzione industriale è

1 Per una trattazione completa dell’argomento si vedano: Saraceno P. (1965), La produzione industriale, Venezia, Libreria Universitaria Editrice; Pivato G. (1958), Le gestioni industriali produttrici di servizi, Torino, UTET. 2 I termini “scorte” e “giacenze” vengono frequentemente utilizzati come sinonimi; è opportuno comunque osservare che il termine “scorte” è più appropriato nel caso ci si riferisca a materie prime, semilavorati, ecc. ovvero agli input del processo produttivo mentre il termine “giacenze” meglio si attaglia nel discutere dei prodotti finiti. 3 Nelle imprese di servizi, un corretto bilanciamento tra le esigenze di soddisfazione della domanda in una situazione di elevati costi fissi avviene mediante adeguate politiche commerciali di differenziazione delle tariffe per fasce orarie (per es. utenze elettriche) o per periodi specifici (compagnie aeree, servizi alberghieri, ecc.).

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possibile realizzare il controllo preventivo della qualità dei prodotti mediante adeguati collaudi prima della loro commercializzazione. Ciò consente di provvedere alla riparazione o sostituzione dei prodotti difettosi prima di effettuare la consegna al cliente, con evidenti riduzioni dei costi. Nella produzione di servizi la simultaneità tra produzione e consumo impedisce la realizzazione di qualsiasi controllo preventivo. Il servizio deve sempre espletarsi in modo corretto; se ciò non avviene, l’impresa è costretta a qualunque intervento correttivo successivo indipendentemente dal suo costo, per evitare danni di immagine e la possibile perdita del cliente.

Una ulteriore fondamentale differenza attiene la misura delle prestazioni. La valutazione delle prestazioni della produzione industriale puo’ avvenire infatti mediante criteri di misurazione oggettivi in grado di fornire risposte adeguate ed affidabili (contabilità industriale, controllo di qualità, livello di servizio). Nella produzione di servizi invece la difficoltà di codificare ex-ante l’output del processo in modo soddisfacente rende difficile l’applicazione di criteri di valutazione oggettivi in quanto si devono lasciare ampi margini di adattabilità alle esigenze individuali dei clienti ed all’intensità di erogazione imposta dalla domanda.4 Finalità perseguita dalle imprese Gli aspetti proprietari determinano, fondamentalmente, le finalità di profitto o sociali delle imprese. In generale –con l’eccezione della categoria delle imprese non-profit- l'impresa privata opera per il profitto mentre l'azienda pubblica opera per il miglioramento del benessere collettivo. Per comprendere il concetto di finalità sociale (miglioramento del benessere collettivo), basta soffermarsi a considerare che la principale caratteristica di un’impresa pubblica è di essere di proprietà della collettività; è evidente che, coincidendo produttore e consumatore, è esclusa la possibilità del fine di profitto e insorge l’obiettivo del miglioramento del benessere collettivo. L’impresa privata, invece, opera per il profitto stabile e duraturo da assicurare all’imprenditore, cioè opera per il profitto di lungo periodo, che significa anche crescita dell’impresa e, comunque, sopravvivenza della stessa. Gli obiettivi dell’impresa pubblica, invece, consistenti nella funzione del benessere della collettività, non si riducono ad una sola variabile (profitto di lungo periodo dell’impresa privata), ma sono molteplici e a volte tra loro contrastanti; i principali obiettivi dell'impresa pubblica, infatti, risultano i seguenti:

� coerenza con gli obiettivi di politica economica generale e con gli obiettivi di politica economica settoriale;

� redistribuzione del reddito; questa viene ottenuta attraverso la vendita (del bene o del servizio) a prezzi (o tariffe) sociali, non necessariamente legati al costo reale di produzione: attraverso il sistema della tassazione indiretta, in cui ciascun contribuente paga le tasse in funzione del proprio reddito, e che consente la produzione stessa del bene o del servizio, si crea infatti un flusso di ricchezza che si ridistribuisce tra le diverse classi sociali;

� capacità tendenziale di coprire, con i ricavi delle vendite, i costi di produzione, in modo tale da non dovere ricorrere alle sovvenzioni da parte dello Stato.

1.2. La funzione di produzione

Tutte le imprese, siano esse produttrici di beni oppure di servizi, svolgono, al centro del loro

percorso di creazione del valore, un’attività di trasformazione di risorse, che costituiscono gli “input” del processo produttivo, in altre risorse (“output”) aventi diverse caratteristiche e funzionalità.

Il concetto di trasformazione si lega strettamente a quello di produzione ma risulta più ampio.

4 Normann R. (1985), La gestione strategica dei servizi, Etas Libri, Milano.

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Infatti, quest’ultima locuzione evoca generalmente un processo chimico-fisico di trasformazione di risorse in beni materiali (per es. automobili, lavatrici, apparecchi televisivi, ecc.) aventi diverse caratteristiche e funzioni d'uso. Un'impresa automobilistica, per esempio, utilizza materie prime, semilavorati (lamiere di acciaio, ecc.) e componenti (il cruscotto, i vetri, gli pneumatici) per produrre autovetture destinate ad un mercato finale.5

Il processo chimico-fisico, in realtà, è sempre presente ma non costituisce, in molti casi, la parte sostanziale della trasformazione: per esempio, il trasporto è finalizzato a spostare merci e/o passeggeri nello spazio e come tale viene studiato (le sue caratteristiche di velocità, comfort, sicurezza, ecc.): il fatto che il gasolio per autotrazione subisca una trasformazione chimico-fisica in seguito al suo utilizzo nel motore diesel non appare, in questo caso, l'aspetto rilevante della trasformazione. Anche le imprese commerciali non effettuano una trasformazione chimico-fisica, come le banche e la maggior parte delle imprese del settore dei servizi (terziario). L’impresa manifatturiera trasforma materie prime, componenti, semilavorati in prodotti che possono essere destinati ad un mercato finale o ad un mercato intermedio. Un'impresa automobilistica, per esempio, utilizza materie prime, semilavorati (lamiere di acciaio, ecc.) e componenti (il cruscotto, i vetri, gli pneumatici) per produrre autovetture destinate ad un mercato finale. I semilavorati sono materiali che hanno bisogno di ulteriori lavorazioni per poter entrare a far parte del prodotto finito; i componenti entrano a far parte del prodotto finito (automobile) e non hanno bisogno di ulteriori lavorazioni (per esempio, gli pneumatici). Ai fini dello studio delle trasformazioni, l'impresa può essere vista come una "scatola nera" avente la proprietà di trasformare gli input (materie prime, semilavorati, componenti) in output (prodotti finiti). Questo processo di trasformazione è governato dalla funzione di produzione, che è una relazione matematica astratta che lega la massima quantità di prodotto ottenuto dall’impresa alle quantità di materie prime e di altri fattori produttivi che entrano nel processo. In particolare, nei corsi svolti precedentemente si è evidenziato che la quantità di prodotto (quantità di output di una funzione di produzione) è funzione di due grandi categorie di fattori produttivi: il capitale ed il lavoro. La formulazione generale e generica della funzione di produzione è: Q = f (C, L) Ove: "Q" è la quantità di prodotto; "C" è la quantità di capitale utilizzato; "L" è la quantità di lavoro; "f " rappresenta il legame funzionale tra Q, C ed L. Si sottolinea che la relazione vale in un determinato periodo di tempo, cioè la quantità di prodotto ottenuto in un determinato processo produttivo è funzione delle quantità di fattori produttivi impiegati in un periodo di tempo di riferimento.

5 I semilavorati sono materiali che hanno bisogno di ulteriori lavorazioni per poter entrare a far parte del prodotto finito; i componenti entrano a far parte di quest’ultimo come tali, senza bisogno di ulteriori lavorazioni.

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Da questo punto in poi, quando non diversamente specificato, il periodo di riferimento è posto uguale alla durata dell'esercizio, cioè un anno. Questa convenzione permetterà, nel prosieguo, di rendere coerenti le osservazioni tecniche proprie dell'Economia e gestione delle imprese con quelle contabili dell’Economia Aziendale e della Ragioneria. 1.3. I fattori della produzione Il capitale ed il lavoro rappresentano due grandi classi di fattori produttivi specifici: nelle due classi rientrano, infatti, numerosi fattori produttivi specifici. 1.3.1. Il lavoro Il lavoro comprende, fondamentalmente, due categorie specifiche di fattori produttivi: il lavoro imprenditoriale e il lavoro salariato. Il lavoro salariato è il lavoro svolto da tutti coloro che partecipano al processo produttivo dell’impresa in via diretta o indiretta, in ordine al raggiungimento degli obiettivi dell’impresa. II lavoro imprenditoriale si distingue dal lavoro salariato in relazione alle modalità di compenso; il lavoratore salariato, infatti, percepisce uno stipendio o, se è un professionista, il corrispettivo di una parcella per prestazioni professionali. II lavoro dell'imprenditore, invece, viene remunerato dall’attività dell’impresa solo se l'impresa produce un utile; in caso di perdita (riferita al periodo di riferimento, ovvero l'esercizio) l'imprenditore subirà direttamente la perdita stessa; in condizioni di perdita persistente, l'impresa sarà costretta a cessare la propria attività e con ciò la funzione dell'imprenditore. L'imprenditore è, infatti, colui che conferisce all'impresa almeno tre risorse fondamentali:

� un'idea imprenditoriale; � il suo lavoro d'imprenditore, consistente nello stabilire gli obiettivi di breve, medio e lungo

periodo e di mettere in atto strategie per perseguire quegli obiettivi al perseguimento degli obiettivi stessi;

� il capitale di rischio, connesso al concetto stesso d'impresa. Si possono effettuare ulteriori classificazioni del lavoro salariato, ad esempio tra lavoro impiegatizio e lavoro operaio, tra lavoro nell’area amministrativa dell'impresa, nell'area tecnica, in quella delle vendite, ecc. E' importante osservare che il lavoro svolto durante un determinato periodo di tempo non è riutilizzabile, cioè esso si “consuma” durante il processo produttivo: il lavoro viene, pertanto, definito un fattore di flusso della produzione. 1.3.2. Il capitale Il capitale si distingue in una parte necessaria per coprire tutti i costi che l'impresa sostiene per l'acquisizione di materie prime, semilavorati e componenti, ovvero i fattori della produzione che “si consumano" durante il periodo di tempo preso in riferimento (l'esercizio) e in una parte necessaria per realizzare le immobilizzazioni tecniche ovvero strutture, infrastrutture ed altro aventi durata pluriennale, ovvero che “non si consumano” nel corso del periodo di tempo preso in riferimento. E’ opportuno esplicitare che con il termine “si consumano” nel periodo di tempo preso a riferimento si intende la circostanza per la quale un determinato fattore produttivo, una volta utilizzato nel processo di

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trasformazione, non può più essere riutilizzato. Ad esempio, i componenti (gli pneumatici dell’automobile) che entrano a far parte del prodotto finito “automobile” non si sono fisicamente, tecnologicamente ed economicamente “consumati”; essi si sono, tuttavia, consumati per quanto riguarda il processo di trasformazione. Infatti, una volta montati, gli pneumatici rappresentano per l'impresa un input non più utilizzabile. Dunque, il lavoro è un fattore di flusso e il capitale necessario per acquistare ciò che si consuma durante il processo produttivo è parimenti un fattore di flusso della produzione. Nell'impresa, tuttavia, esistono degli impieghi fissi di capitale la cui durata supera quella del periodo di riferimento. In sintesi, i fattori produttivi si distinguono in fattori di flusso della produzione (lavoro e capitale necessario per le spese correnti dell’impresa) e fattori di fondo (capitale utilizzato per acquisire le immobilizzazioni tecniche, ovvero capannoni industriali, impianti, macchine ecc.). Si noti che il capitale di flusso è necessario per acquistare i fattori di flusso della produzione e, come tale, è necessario anche per acquistare il fattore produttivo lavoro. Ciò non significa che nella formulazione della funzione di produzione si commette un errore di duplicazione, considerando due volte lo stesso fattore produttivo; infatti, per convenzione, si può considerare che il capitale di flusso in questione sia relativo solo all’approvvigionamento di materie prime, semilavorati e componenti. 1.4. Criterio di efficienza Come precedentemente esposto, la funzione di produzione, che è caratteristica di ogni azienda, indica che la quantità di prodotto ottenuta in un determinato processo di trasformazione è funzione dei fattori produttivi impiegati in un dato tempo (∆t, posto convenzionalmente pari ad 1 esercizio); "f" è la funzione che lega la quantità di output con la quantità di input. In sintesi grafica si ha: C Q L f Fig. n. 1.1

Per ciascuno dei fattori produttivi si individuano:

� nella categoria del capitale: il capitale necessario per l’acquisizione delle immobilizzazioni tecniche (CF) ed il capitale necessario per acquisire i fattori di flusso della produzione (CV);

� nella categoria del lavoro: il lavoro salariato (LS) ed il lavoro imprenditoriale (LI). La formulazione di “f” non è nota per nessuna impresa reale; tuttavia, per comprendere le caratteristiche di una certa funzione “f”, si ha a disposizione l’Efficienza Tecnica Globale (ETG):

input output

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Q output / Q input = ETG Questa grandezza può essere riguardata anche come il grado di sfruttamento dei fattori produttivi. E' opportuno precisare che la grandezza ETG talvolta assume indifferentemente la denominazione di produttività; tuttavia, in modo più corretto, il concetto di produttività deve essere espresso nel modo seguente: P (Produttività) = Quantità di prodotto ottenuta in un determinato intervallo di tempo (∆∆∆∆t = 1 esercizio). Es.: la produttività di un impianto che produce bulloni è data dal numero di bulloni che vengono prodotti in un anno; l’efficienza tecnica, invece, sarebbe data dal numero di bulloni ottenuti e le quantità dei fattori produttivi impiegati (quantità di ferro, ore di lavoro, energia elettrica, ecc.). Pertanto, i due concetti di efficienza tecnica globale e di produttività devono essere tenuti opportunamente separati. Con riferimento specifico all'ETG è opportuno precisare che tale rapporto è riferito alle quantità fisiche QL (quantità di lavoro) e QC (quantità di capitale), ovvero a grandezze non omogenee; pertanto, la difficoltà di pervenire ad una misurazione globale dell'ETG induce a considerare singolarmente i vari fattori produttivi e, di conseguenza, a misurare l’Efficienza Tecnica Specifica dei fattori Capitale e Lavoro. Per esempio, per quanto riguarda l’efficienza tecnica specifica del fattore lavoro (salariato) ETSL si ha: ETSL = Q output / L input = [ = ] N unità di prodotto / Ore di lavoro impiegate per la produzione Il simbolo "uguale" tra parentesi quadra ha il significato di uguaglianza dimensionale; il secondo membro dell'equazione, cioè, indica l'unità di misura del primo membro: per esempio, lunghezza [=] metri. L'utilizzo degli indici di efficienza tecnica specifica del lavoro e del capitale, peraltro non sommabili tra loro, non consente di ottenere una misurazione globale dell'efficienza tecnica. Pertanto, allo scopo di rendere omogenei i termini del rapporto, occorre procedere a stime di valore, trasformando, in tal modo, le misure di performance produttiva in una misura di economicità. All'uopo è opportuno fare riferimento non più a quantità fisiche ma al valore economico che deve essere attribuito ai singoli termini del rapporto. Pertanto, il rapporto ETG si trasforma in Efficienza Economica Globale (EEG): EEG = V output / V input = V output/ (VL + V capitale) Ove: “V output” = valore degli Output; “V input” = valore degli Input; “VL” = salari (espressi in $); “V capitale” = capitale immesso (espresso in $). Per semplicità, da ora in avanti, EEG verrà indicata con EE.

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In particolare, con riferimento al valore del lavoro e al valore del capitale si può notare che essi rappresentano i costi dell'impresa. EE = V output / (CL + CC) II valore dell'output, al numeratore, è espresso dai ricavi delle vendite (RV) allorquando si realizzano degli atti di acquisto effettivi da parte del consumatore: EE= RV / (CL + CC) I ricavi delle vendite, infatti, sono dati da p * Q, ove, p è il prezzo del prodotto e Q è la quantità venduta. Per quanto attiene il denominatore è necessario distinguere, con riferimento al capitale, il capitale di fondo da quello di flusso e, distinguere, con riferimento al costo del lavoro, il costo del lavoro salariato dal costo del lavoro imprenditoriale. Pertanto, il rapporto di EE può essere espresso nel modo seguente: EE = RV / (CLS + CLI + CCF + CCC) ove: “CLS” = costo lavoro salariato; "CLI" = costo lavoro imprenditoriale; “CCF” = capitale necessario per l’acquisizione dei fattori di fondo; “CCC” = capitale necessario per l’acquisizione dei fattori di flusso. Si noti che, per identità dimensionale, CLS può essere sommato a CLI; infatti, essi sono espressi in $/anno; viceversa, il valore del capitale fisso CCF (espresso in $) e i CCC (espressi in $/anno) rappresentando, rispettivamente, un fattore fondo e un fattore flusso, non risultano sommabili tra loro. Per superare tale difficoltà si ricorre all'ammortamento, che costituisce un procedimento contabile finalizzato a trasformare una grandezza di fondo in una grandezza di flusso. Si consideri, ad esempio, un'impresa che dispone di capitale fisso per un importo pari a 100 milioni di lire, utilizzati nel 2000 per acquisire la capacità produttiva consistente in un impianto la cui durata di utilizzo è prevista essere pari a 10 anni; mediante il procedimento dell’ammortamento il fattore di fondo (100 milioni di lire) può essere trasformato in fattore di flusso:

QA (quota di ammortamento) = 100 mil / 10 anni [ = ]]]] mil / anno = 10 In questo modo si determina la quota di costo pluriennale – in realtà, nell’esempio fatto, sostenuto "una tantum" nel 2000 - da attribuire a ciascuno dei 10 esercizi nei quali l’impianto viene utilizzato. Se si pongono tutti i costi di un’azienda al denominatore, eccetto quello del lavoro imprenditoriale (cioè costo del lavoro salariato, costo per acquisizione materie prime, quota di ammortamento), al numeratore dovrà risultare, perché il lavoro imprenditoriale venga remunerato, un valore maggiore: pertanto, il risultato dell'efficienza dovrebbe essere sempre maggiore di 1: EE = RV / (CLS + CCF + CCC) > 1

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Economia e gestione delle imprese – Prof. Giuseppe Vito 15

Ciò a condizione, si ribadisce, che non si consideri il lavoro imprenditoriale; in tale caso il risultato sarebbe uguale ad 1. Ciò deriva dal fatto che l’obiettivo prioritario dell’azienda è quello di produrre un reddito. Pertanto, nell’Economia e gestione delle imprese, l’efficienza ha un significato del tutto diverso dall’efficienza dei processi fisici e chimico-fisici, in cui essa assume un valore sempre minore di 1. 1.5. Criterio di efficacia In termini generali, l'efficacia esprime una misura del grado con cui un'organizzazione riesce a realizzare i propri fini (sviluppo, dominio del mercato, autonomia nell'ambiente, ecc.) e gli obiettivi prestabiliti. Tale concetto può essere scisso in due sottocriteri: � efficacia esterna: riguarda il grado di soddisfazione del consumatore, ed è legato al concetto di

accettazione del prodotto. Si considerino, ad esempio, la Barilla e la Molisana, imprese produttrici di pasta alimentare; la Barilla ha una prospettiva esterna più importante di quella della Molisana, comprovata dal numero di persone che acquistano il primo tipo di pasta alimentare fondamentalmente per “l'identità visuale” dell'impresa;

� efficacia interna: esprime il rapporto tra il risultato ottenuto ed un risultato prefissato a priori:

EI = risultato ottenuto / risultato prefissato Il risultato prefissato (standard) può essere, per esempio, la quantità di prodotto che ci si prefigge di ottenere in un dato anno. Per esempio, se un'impresa si pone come obiettivo di ottenere una quantità di produzione pari a 100 unità di prodotto in un dato periodo e consegue, invece, una produzione pari a 80 unità di prodotto, il risultato in termini di efficacia, nel perseguimento di quel determinato obiettivo, è pari a 80/100 = 80%. Il risultato prefissato è, dunque, una variabile soggettiva, e l'obiettivo, lo standard prefissato, deve essere quanto più possibile realistico e coerente con le risorse di cui l'azienda dispone. 1.6. Principio di redditività Il principio di redditività, che esprime la capacità dell'impresa di produrre reddito (utili) è espresso, in prima approssimazione, dallo stesso rapporto che indica l'efficienza economica: EE = RV / (CLS + CCF + CCC) > 1 Tale rapporto, come già esposto, deve assumere un valore maggiore di 1. Al fine di aumentare il contenuto informativo delle grandezze contenute in tale rapporto si può ricorrere ad un procedimento di detrazioni successive dalla grandezza RV (ricavo delle vendite misurato in $/anno) delle singole voci di costo al denominatore, nel modo indicato nella fig. n. 1.2.

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Fig. n. 1.2 - Flusso dei fondi (Schema parziale n. 1)

Ove:

� “CLS” = costo del lavoro salariato; � “CMP” = costo materie prime; � “UL” = utile lordo dell'impresa (costo del lavoro imprenditoriale, remunerazione

dell'imprenditore) (espresso in $/anno); � “iD” = interessi passivi che l'impresa deve corrispondere al sistema bancario per

l'approvvigionamento di eventuali mezzi finanziari (espresso in $/anno)6; � “D” = capitale di terzi (espresso in $/anno); � “i" = tasso d’interesse bancario sul debito D (il tasso di interesse è una grandezza dimensionale,

D è espresso in $). Il Margine Lordo Commerciale (MLC) è un risultato (lordo) che si ottiene dalla differenza tra RV e CLS+CMP; in altre parole il MLC misura la differenza tra il fenomeno economico delle vendite e quello degli acquisti (dei fattori di flusso della produzione); se dal MLC si detraggono QA e iD si ottiene l’utile lordo dell'impresa. In via generale, il capitale di un'impresa è suddiviso tra capitale di terzi (D) e capitale proprio (CP). CP = capitale proprio (espresso in $) D + CP = K (capitale totalmente investito nell'impresa) Il grafico in fig. 1.2 è definito “flusso dei fondi” ed è anche, in estrema sintesi, l'ossatura del conto economico dell'impresa.

6 I debiti di cui trattasi sono debiti a medio e lungo termine e non debiti a breve (ad esempio, debiti di fornitura relativi all’acquisizione di fattori produttivi di flusso presso un fornitore con pagamento a tre mesi). Ciò in quanto tutte le grandezze considerate nel flusso dei fondi sono relative all’intervallo di tempo ∆t considerato; se tale intervallo è pari ad un esercizio (1 anno), i debiti accesi e ripagati nel corso dell’anno –ed i relativi interessi- non risultano “visibili”: in particolare, l’interesse eventuale sul debito a breve va a comporre, cumulativamente, il costo del fattore della produzione acquistato in tal modo.

CLS, CMP

QA iD

UL

MLC

RV

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I dati economici precedentemente richiamati devono essere opportunamente interpretati tenendo conto del fatto che un'impresa deve ispirarsi al criterio di redditività oltre che ai criteri di efficienza tecnica ed efficienza economica. A conclusione si osservi che l'efficienza tecnica ha una natura diversa dall’efficienza economica; pertanto, un buon livello di efficienza tecnica non implica necessariamente un pari livello di efficienza economica. Sulla base delle considerazioni fin qui svolte sembra opportuno approfondire lo schema del flusso dei fondi, a cui si è precedentemente fatto richiamo; con riferimento ai fattori di costo e di ricavo, definiti nella funzione di produzione, si determina il Margine Lordo Commerciale (MLC), detraendo dai ricavi delle vendite il costo del lavoro salariato e il costo delle materie prime; in tal modo si ottiene una grandezza intermedia data dalla differenza tra i ricavi ed i costi correnti di produzione. Proseguendo nello schema, dal Margine Lordo Commerciale si detraggono le quote di ammortamento, ottenute dalla ripartizione del costo pluriennale in più anni, e un costo per gli interessi pari ad una massa debitoria D relativa ad un capitale K, costituito, per esempio, per metà da capitale di terzi e per metà da capitale proprio, ottenendo l’utile lordo; infine dalla differenza tra utile lordo e l'ammontare delle imposte (TAX) che gravano sugli utili d’impresa, si ottiene l'utile netto (UN).

Fig. n. 1.3 - Flusso dei fondi (Schema parziale n. 2)

Nella fig. n. 1.3 si considera un'immobilizzazione tecnica pari a 100 $ e la durata di vita utile della stessa pari a 10 anni; si considera, inoltre, che il costo dell'immobilizzazione tecnica sia stato coperto per il 50% con capitale proprio CP (50 $) e per il 50% attraverso capitale di terzi D (50 $). Si supponga che un'impresa si prefigge l'obiettivo di conseguire un utile lordo pari a 5 $ nel periodo di riferimento; se tale impresa deve accantonare quote di ammortamento pari a 10 $/anno (poiché l'immobilizzazione tecnica è uguale a 100 $ e la durata di vita utile dell'immobilizzazione stessa si considera pari a 10 anni), deve corrispondere al sistema bancario interessi sui debiti pari a 5 $/anno (il 10% sui 50 $ di capitale di terzi D), il MLC sarà di conseguenza uguale a 20 $/anno; ciò significa che

7

27

20

10 5 5

CLS, CMP

QA iD

UL

MLC

RV

UN

TAX

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una parte di MLC deve essere impiegata per coprire le quote di ammortamento, una parte gli interessi sui debiti ed una parte formerà l'utile lordo. Se si considera, proseguendo, che il costo del lavoro salariato ed il costo delle materie prime è pari a 7 $/anno, i ricavi delle vendite dovranno risultare pari a 27 $/anno per garantire un MLC pari a 20 $/anno; al riguardo, bisogna ricordare che i ricavi delle vendite si ottengono dal prodotto tra la quantità venduta e il prezzo di vendita e, pertanto, costituiscono un dato certo. Infine, sapendo che il numero N di prodotti venduti è pari a 10 si può determinare il prezzo di vendita, in questo esempio pari a 2,7 $. Si noti che i ricavi delle vendite RV sono stabiliti in funzione della quantità Q di produzione ottenuta e di un prezzo p; in via generale il ricavo delle vendite di beni e servizi prodotti effettivamente nell'unità di tempo (esercizio) dall'impresa considerata, assume nel caso di produzioni multiple la seguente forma: k

RV = ΣΣΣΣ ni * pi = n1 * p1 + n2 * p2 + … + nk * pk i=1 ove: � “n” è il numero dei prodotti venduti; � “k” è il numero dei prodotti che si producono; � “p” è il prezzo di vendita di ciascun prodotto. L’utile lordo annuale di un’impresa non coincide, tuttavia, col concetto di redditività che deve essere analizzata su due livelli: redditività del capitale proprio investito (capitale di rischio) e redditività del capitale complessivo investito (capitale proprio e capitale di terzi). Con riferimento alla fig. n. 1.3 ed alle considerazioni precedenti, l'impresa consegue un utile lordo pari a 5 $/anno avendo immobilizzato un capitale iniziale pari a 100 $, suddiviso in 50 $ di capitale proprio e in 50 $ di capitale di terzi. E' intuitivo che redditività del tutto diversa sarebbe stata ottenuta se a parità di utile lordo (5 $/anno), l'impresa avesse impiegato un capitale pari a 100 $. Una misura realistica della prestazione dell'impresa nel periodo considerato è data, pertanto, dal rapporto tra l'utile lordo più gli interessi sui debiti ed il capitale K complessivamente immobilizzato (nel caso considerato, tale rapporto risulta uguale a 10/100). ROI = (UL + iD) / (CP + D) In realtà, infatti, la ricchezza prodotta dall'impresa nel periodo di tempo considerato comprende, oltre all'utile lordo, anche gli interessi sui debiti che l'impresa deve rendere al sistema bancario. Il ROI (Return On Investment), esprime il rendimento del capitale complessivamente impiegato (cioè del capitale proprio e del capitale di terzi) e rappresenta una prima fondamentale espressione di redditività. Altrettanto importante è il rapporto ROE (Return On Equity - ritorno sul capitale proprio): ROE = UL/CP

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Tale indice si riferisce al capitale proprio investito nell'impresa. Si noti che il ROE non risulta necessariamente uguale al ROI, cioè il rendimento del capitale proprio non coincide necessariamente con il rendimento del capitale complessivamente investito (capitale proprio e capitale di terzi). Infatti, la relazione tra ROE e ROI è Ia seguente: ROE = ROI + (ROI - i) * D/CP [equazione n. 1] Tale relazione si ottiene, stanti le precedenti formulazioni di ROI e ROE, mediante i seguenti semplici passaggi: ROE = UL / CP, quindi UL = CP * ROE Sostituendo UL nella formula del ROI si ha: ROI = (ROE * CP + iD) / (CP + D) Moltiplicando ambo i membri per (CP + D): ROI * CP + ROI * D = ROE * CP + iD Dividendo per CP e semplificando si ha: ROI * CP/CP + ROI * D/CP = ROE * CP/CP + iD/CP ROE = ROI + ROI * D/CP – i * D/CP ROE = ROI + (ROI – i) * D/CP [equazione n. 1] L'equazione n. 1 dimostra chiaramente che ROI e ROE risultano uguali solo al verificarsi di condizioni particolari, segnatamente quando:

1. D = 0 (non c’è indebitamento, ovvero l’impresa opera esclusivamente mediante capitale proprio),

2. ROI = i (il rendimento dell’impresa è uguale al tasso d'interesse che l’impresa corrisponde sui debiti contratti).

Negli altri casi si evidenzia il fenomeno della leva finanziaria. Infatti, il ricorso all’indebitamento (in date condizioni di domanda ed offerta di fondi e di risultati d’esercizio) permette di aumentare la redditività del capitale proprio grazie ad un effetto leva denominato appunto leva finanziaria. La leva finanziaria opera quando gli investimenti vengono finanziati con mezzi di terzi dando luogo alla conseguente variazione della redditività dei mezzi propri espressa dall’indice ROE: è dunque l’onere finanziario che variando agisce sul ROE esaltandolo rispetto al ROI. Tale effetto leva è proporzionale all’intensità del grado di indebitamento cioè al rapporto tra capitale proprio e capitale di terzi. Nel caso in cui:

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1. ROI > i ROE > ROI. Effetto leva positivo. Ci si trova in una situazione in cui il rendimento dell’impresa è superiore al tasso di interesse che deve essere corrisposto sul capitale preso a prestito. Ciò implica che il ROE (ritorno sul capitale proprio investito) è superiore al ROI (ritorno sul capitale complessivamente investito). Tale circostanza indurrebbe l’impresa ad indebitarsi ulteriormente, anche in presenza dei mezzi finanziari necessari per intraprendere e svolgere la propria attività economica;

2. ROI < i ROE < ROI. Effetto leva negativo. In questo secondo caso, il rendimento dell’impresa è inferiore al tasso di interesse che deve essere corrisposto sul capitale preso a prestito. Ciò implica che il ROE (ritorno sul capitale proprio investito) è inferiore al ROI (ritorno sul capitale complessivamente investito). In questo caso all’impresa non conviene indebitarsi ulteriormente.

In sintesi: D = 0, ROI = i ROE = ROI

ROI > i ROE > ROI Effetto leva positivo

ROI < i ROE < ROI Effetto leva negativo

L’esistenza dell'effetto leva dimostra che la disponibilità di un capitale proprio (pari, ad esempio a 50 $) deve considerare tre possibili soluzioni di impiego:

1. investire il capitale in titoli “di tutto riposo” ad esempio con un interesse annuo del 5% (ottenendo, in tal modo, 2,5 $/anno);

2. investire il capitale nella “migliore alternativa possibile”, caratterizzata da un rendimento “j” definito “costo opportunità del capitale”(dato dall’opportunità di investire diversamente detto capitale ed è dunque il costo della rinuncia);

3. investire il capitale in un'impresa caratterizzata da un'immobilizzazione tecnica pari a 100 $ con ciò contraendo un debito di altri 50 $ con il sistema bancario.

L'approccio alla scelta può essere fatto in modo graduale, attraverso le seguenti considerazioni: a) valutare il rendimento dei titoli di “tutto riposo” (ad esempio titoli di Stato che, privi di rischio,

garantiscono la corresponsione di interessi oltre alla restituzione del capitale); b) valutare il rendimento del migliore impiego dei 50 $ disponibili (costo-opportunità del capitale

proprio); c) valutare il rendimento dell'impresa, di cui sopra, richiedente un'immobilizzazione tecnica pari a 100

$ (ROI); d) valutare l'effetto leva eventualmente derivante da un differenziale positivo tra ROI e i (tasso di

interesse sul debito D). Ad esempio, se: - rendimento dei titoli di tutto riposo pari al 5%, - costo-opportunità del capitale pari al 7%, - ROI dell'impresa pari al 6% e tasso di interesse è pari al 4%,

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la scelta da fare risulta dal confronto tra un rendimento del capitale proprio pari al 7% e il rendimento del capitale proprio qualora investito nell'impresa, che, alla luce dell’effetto leva, risulta: ROE = ROI + (ROI – i) * D/CP [equazione n. 1] 6% + 50/50 (6% - 4%) = 8% Ciò indica che il migliore impiego del capitale disponibile è proprio nell'impresa previo indebitamento, anche se il confronto tra ROI e costo-opportunità del capitale proprio indica la circostanza opposta. Se il costo opportunità del capitale proprio fosse stato del 9%, allora, ovviamente, il criterio utilizzato avrebbe indicato per la scelta della “migliore alternativa di impiego” del capitale proprio. Esempi pratici sono contenuti alla fine del Capitolo. Un'altra fondamentale grandezza è rappresentata dal costo medio ponderato del capitale (cmp): cmp = iD + coCP / (D + CP) ove co = costo-opportunità del capitale proprio. Il cmp rappresenta la media ponderata tra il costo del capitale proprio ed il costo del capitale di terzi. Si consideri, ad esempio, sempre nell'ipotesi che il capitale complessivamente investito sia pari a 100 $ e sia composto da capitale proprio per 50 $ e da capitale di terzi per 50 $, un costo del capitale di terzi pari al 10% e un costo opportunità del capitale proprio pari al 15%; II costo medio ponderato del capitale risulta pari al 12.5%. cmp = 0.1 * 50 + 0.15 * 50 = 5 + 7.5 = 12.5 = 12.5% Dalle precedenti considerazioni risulta evidente che l’impresa deve puntare al conseguimento di un utile lordo tale che il ROI ad esso corrispondente risulti maggiore del tasso di interesse sui debiti. Inoltre, dallo schema del flusso dei fondi si evince che la variabile sulla quale l'impresa può agire con maggiore prontezza è il prezzo p di vendita del prodotto; in secondo luogo, è possibile cercare, al fine di incrementare il ROI, di ridurre il costo del lavoro e quello delle materie prime incrementando il loro grado di sfruttamento, ovvero i livelli di efficienza tecnica ed economica. 1.7. Valore aggiunto Da un’osservazione approfondita dello schema del flusso dei fondi si può definire un'altra grandezza di fondamentale importanza: il Valore Aggiunto (VA). II valore aggiunto è dato dalla differenza tra i ricavi delle vendite e i costi delle materie prime (come riportato nello schema, CMP), ovvero il valore che l’impresa aggiunge alle materie prime, ai semilavorati, ai componenti per effetto dell’utilizzo degli impianti e della forza lavoro. RV - CMP = VA [equazione n. 2]

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Riprendendo la schematizzazione dell’impresa quale “scatola nera” in cui affluiscono materie prime, semilavorati e componenti aventi un certo valore (VMP), espresso, d’altra parte, dal costo (certo) che l’impresa sostiene per la loro acquisizione (CMP); corrispondente da tale “scatola nera” defluiscono prodotti aventi valore VP pari ai ricavi delle vendite. Fig. n. 1.4

Pertanto, il valore aggiunto è dato dal valore della produzione “meno” il valore di materie prime, semilavorati e componenti. La formulazione esposta del valore aggiunto spiega che il valore aggiunto proviene dall'apporto dei fattori produttivi diversi da materie prime, semilavorati e componenti, apporto che può essere valutato considerando le variabili dello schema del flusso dei fondi che non compaiono nella formulazione stessa: � “CLS” = costo del lavoro salariato; � “QA” = quota di ammortamento; � “iD” = interessi sui debiti; � “UL” = utile lordo (somma tra le tasse e l'utile netto). La somma tra queste grandezze, ovvero l'apporto dei mezzi impiegati nell'impresa alla creazione di valore costituisce una seconda formulazione del valore aggiunto: CLS + UL + QA + iD = VA [Equazione n. 3] Un riscontro dell'identità tra l'equazione n. 2 e l'equazione n. 3 si può ottenere attraverso il flusso dei fondi, dal quale è evidente che: RV – CMP = CLS + UL + iD + QA Infatti, dal flusso dei fondi si ha: RV = CMP + CLS + UL + iD + QA Il Valore Aggiunto, pertanto, può essere calcolato attraverso entrambi le formulazioni. Si osservi che il VA, rispetto al ROI, non ha un significato altrettanto preciso e definito. Infatti, se un obiettivo dell’impresa può essere la massimizzazione del ROI (massimizzazione del rendimento), la massimizzazione del VA può provenire da un basso valore (costo) delle materie prime. Al contrario, si può avere un VA basso in imprese ad alta tecnologia propria perché il CMP è più elevato rispetto al CMP di imprese con tecnologia povera; pertanto, il VA non è tanto una misura della

VP = RV VMP = CMP

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capacità dell’impresa di svolgere la propria funzione in modo efficace ed efficiente quanto una misura della complessità del ciclo produttivo che nell’impresa stessa viene svolto. 1.8. Cash Flow Interno

La grandezza quota di ammortamento “più” utile non distribuito viene denominata Cash-Flow Interno (CFINT), ovvero flusso di cassa interno: QA + UND = CFINT => Cash-Flow interno => Flusso di cassa interno II flusso di cassa interno, da non confondere con il cash-flow generati dall’attività dell’impresa, contribuisce all’autofinanziamento dell’impresa. 1.9. L’utilizzo delle disponibilità ai fini degli investimenti Definite tutte le grandezze di interesse è possibile rappresentare il flusso dei fondi nella sua forma completa. In particolare, si osservi che l’utile netto dell'impresa ha una doppia possibile destinazione: investimenti e dividendi. Queste due categorie concettuali richiamano quelle note dai corsi precedentemente svolti in cui il reddito delle famiglie può essere destinato a consumi o a risparmi: in effetti vi è identità concettuale tra consumi e dividendi e tra risparmi e investimenti ove, invece di riferirsi al reddito delle famiglie, ci si riferisca al reddito delle imprese. Pertanto, lo schema completo del flusso dei fondi assume la forma seguente:

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Fig. n. 1.5 - Flusso dei fondi

Gli utili non distribuiti (UND), alimentano un fondo dell’impresa da utilizzare, in condizioni di normale funzionamento, per gli investimenti dell'impresa stessa. Si osservi, tuttavia, che nulla vieta di utilizzare la disponibilità del fondo per l'acquisizione di materie prime o per il pagamento dei debiti a breve termine, ecc. Tuttavia, questo tipo di impiego del fondo denota una situazione di funzionamento anomalo dell’impresa. Infatti, i fondi necessari per l'acquisizione di fattori di flusso della produzione dovrebbero integralmente provenire dai ricavi delle vendite.

CCP

RV

UN

TAX

UL

QA

MERCATO FINANZIARIO

DIV UND FONDO

EMISSIONE NUOVE AZIONI

iD

MLC

EMISSIONE OBBLIGAZIONI

Investimenti

BREVETTI-LICENZE DI PRODUZIONE

IMPIANTI

PUBBLICITA’

FORMAZIONE

R & S Ricerca e sviluppo

NUOVI DEBITI

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Se durante l’anno l’impresa non utilizza l’utile non distribuito, questo fondo non verrà distribuito tra i soci, ma sarà accantonato in modo da poter essere utilizzato negli esercizi successivi. Per definizione l'investimento è l'impiego di un fondo per l’acquisizione di immobilizzazioni tecniche (materiali o immateriali) finalizzate all’accrescimento del volume d’affari dell’impresa e destinate a permanere nell’impresa per un periodo più lungo di un singolo ciclo produttivo. Un investimento può riguardare in linea generale più tipologie di impieghi: impianti, brevetti, licenze di produzione, investimenti pubblicitari o promozione, ricerca e sviluppo (R&S), formazione. 1.9.1. L’impianto L’impresa acquisisce un nuovo impianto per aumentare la capacità produttiva, oppure per sostituire o aggiornare tecnologicamente gli impianti preesistenti. Si distinguono:

� investimenti di primo impianto (si hanno quando l’impresa comincia Ia propria attività); � investimenti di ampliamento finalizzati all’incremento della capacità produttiva; � investimenti di sostituzione; � investimenti finalizzati all’aggiornamento tecnologico.

1.9.2. Immobilizzazioni immateriali Un’ulteriore forma di investimento è costituita dalle licenze di produzione e dai brevetti; una licenza di produzione, infatti, è certamente duratura nel tempo ed è necessaria allo svolgimento della funzione di produzione al pari dell'impianto stesso. 1.9.3. Promozione La caratteristica di investimento in attività di promozione, al contrario delle due precedenti, è meno intuitiva. Una importante corrente di pensiero scientifico sostiene che i costi sostenuti per la promozione in un determinato periodo producano i loro effetti successivamente (con ciò le spese in pubblicità rispetterebbero la condizione di produrre i propri effetti nel lungo periodo, condizione per definire l'acquisizione di una risorsa come un investimento). Inoltre, in tale corrente di pensiero si sostiene che le spese in pubblicità subiscono un processo di accumulazione (nella coscienza dei consumatori) alla stregua di un fattore di fondo della produzione. Tali argomentazioni dimostrerebbero che le spese in promozione effettivamente costituiscono un investimento. II concetto di promozione contiene il concetto di pubblicità ma anche altre azioni (di promozione, appunto): concorsi a punti, scarti sulle vendite, partecipazione a fiere, mostre, convegni, e cosi via. In particolare, alla pubblicità ci si riferisce come all'acquisizione di spazi pubblicitari sui "media" (televisione, radio, giornali). Per generalità, pertanto, è opportuno - in assenza di una conoscenza specifica del fenomeno in esame - parlare di promozione più che di pubblicità. 1.9.4. Ricerca e sviluppo

Un altro tipo di investimento in attività immateriali è in ricerca e sviluppo (R&S), svolta nell'ambito dell’impresa.

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La ricerca riguarda la individuazione di nuovi processi o di nuovi prodotti a livello tecnologico; lo sviluppo, invece, riguarda le implementazioni successive alla scoperta (di prodotto o di processo) necessarie per Ia commercializzazione della soluzione trovata. Lo sviluppo, cioè, mette a punto i processi e i prodotti in senso economico, cosicché essi costituiscano qualcosa di concretamente commercializzabile. La ricerca rappresenta, generalmente, un investimento ad alto rischio in quanto essa può avere esiti negativi oppure pervenire a soluzioni (prodotti o processi) che non si riescono a sviluppare e pertanto a commercializzare. Sono, infine, indiscutibili la proprietà di accumulazione delle spese in R&S e la loro prospettiva di ritorni pluriennali. 1.9.5. Formazione Infine, l'impresa può effettuare investimenti in formazione, al fine dell'aggiornamento dei propri dipendenti in vista di risultati negli anni futuri. A questo punto è essenziale chiedersi se il fondo proveniente dall'accumulo degli utili non distribuiti sia sufficiente a coprire tutti gli investimenti dell'impresa. In caso negativo, al fine di approvvigionarsi di capitali nuovi per tali investimenti, l’impresa può ricorrere alle seguenti fonti di finanziamento:

� indebitamento a medio e lungo termine; � emissione di obbligazioni; � emissione di nuove azioni.

Nel caso di indebitamento a medio e lungo termine l’impresa dovrà sostenere, nell'anno successivo, un maggiore costo per interessi sui debiti. La stessa considerazione vale nel caso dell’emissione di obbligazioni. Nel caso dell’emissione di nuove azioni l’impresa dovrà riconoscere ai finanziatori il diritto di partecipazione agli utili (se il risultato netto è positivo) attraverso i dividendi. 1.10. Tipologie di investimenti Gli investimenti, indipendentemente dalla loro natura (investimenti finanziari, di Ricerca e Sviluppo, di formazione ecc.), possono definirsi, con riferimento ai movimenti di denaro da essi generati, come una successione di esborsi ed incassi. Relativamente alle logiche proprie del succedersi degli esborsi e degli incassi caratterizzanti i vari investimenti, è possibile classificare gli stessi in quattro categorie principali:

1. P.I.C.O. 2. C.I.C.O. 3. P.I.P.O. 4. C.I.P.O.

Gli investimenti di tipo P.I.C.O. (Point Input - Continuous Output) sono caratterizzati da un unico esborso di capitale iniziale (Point Input) ed un ritorno, in forma continua negli anni, dei MLC generati

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dall’utilizzo dell’impianto (Continuous Output). Questa tipologia di investimenti è tipica degli investimenti industriali. Gli investimenti C.I.C.O. (Continuous Input - Continuous Output) sono caratterizzati da continui esborsi di capitale, ripartiti progressivamente nel tempo (Continuous Input), ai quali fanno seguito, serie continue di MLC (Continuous Output). Costituiscono esempi di investimenti di tipo C.I.C.O. talune forme di assicurazioni sulla vita, che prevedono continui esborsi di capitale ai quali fanno seguito, secondo modalità temporali prestabilite contrattualmente, incassi finali continui (caso pensioni integrative). Gli investimenti di tipo P.I.P.O. (Point Input - Point Output) comportano un unico esborso iniziale di capitale (Point Input), al quale fa seguito, un unico incasso finale (Point Output): un esempio si ha in caso di acquisto in contanti di un immobile a fini speculativi anche se, lo stesso investimento, sarà di tipo C.I.P.O nel caso di acquisto con ricorso all’indebitamento. Gli investimenti di tipo C.I.P.O. (Continuous Input - Point Output) sono caratterizzati da continui esborsi di capitale nel tempo (Continuous Input) e da un unico incasso finale (Point Output). Un esempio di quest’ultima tipologia di investimenti è dato da alcuni contratti assicurativi sulla vita che comportano esborsi continui di capitali, sotto forma di premi periodici, ai quali si fa corrispondere il diritto all’incasso, alla scadenza del contratto, di un prestabilito capitale finale. Va osservato che gli investimenti industriali sono considerati di tipo P.I.C.O. anche se nella realtà le imprese fanno generalmente ricorso al credito sia verso le banche che verso le stesse aziende produttrici dei beni industriali oggetto dell’investimento (è il caso di vendite con pagamento rateale). In tali casi, l’impresa dovrà rimborsare con rate periodiche, comprensive di quota capitale e quota interesse, il capitale preso a prestito in base ad un definito piano di ammortamento, per cui si avranno continui esborsi di denaro. Ne consegue che se si considera il solo sistema di attori della transazione formato dall’impresa che effettua l’investimento (I) e il fornitore del bene o servizio oggetto dell’investimento (C), si ha un investimento di tipo P.I.C.O. Se si considera il sistema di tutti gli attori, incluso l’ente o l’impresa finanziatore (B), si ha un investimento di tipo C.I.C.O. Fig. n. 1.6

I C

B

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ESERCITAZIONI

Gli indici di redditività

Esercizio n. 1

In presenza dei seguenti dati economici e patrimoniali si calcolino la redditività del capitale totale investito (ROI) e la redditività del capitale proprio (ROE): Capitale investito (CP + D) 3.010

Capitale di terzi (D) 2.010

Capitale proprio (CP) 1.000

Ricavi 5.000

Costi della produzione 4.000

Reddito operativo 1.000

Oneri finanziari (iD) 800

Utile lordo 200

Il ROI può calcolarsi come ROI = UL + iD/(CP + D) da cui ROI = 200+ 800 / 3.010 = 33% Il ROE può ottenersi attraverso il rapporto tra Utile lordo e Capitale proprio (UL/CP) per cui: ROE = 200/1.000 = 20%

Esercizio n. 2

Discutere il funzionamento della leva finanziaria per le aziende Alpha, Beta e Gamma le quali presentano:

- la stessa redditività del capitale investito (ROI) pari al 20%; - la medesima onerosità dell’indebitamento (i) pari al 10% da corrispondere ai finanziatori; - uguale tassazione dell’utile lordo pari al 40%.

Alpha Beta Gamma

Capitale di Terzi (D) - 4.000 1.000 Capitale Proprio (CP) 5.000 1.000 4.000 Capitale investito (CP + D) 5.000 5.000 5.000 Reddito operativo 1.000 1.000 1.000

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Economia e gestione delle imprese – Prof. Giuseppe Vito 29

(-) Interessi passivi (iD) - 400 100 Utile lordo 1.000 600 900 (-) Imposte 400 240 360 Utile netto 600 360 540

L’ammontare di capitale investito risulta essere lo stesso nelle tre aziende considerate mentre sono differenti le relative strutture finanziarie in quanto:

- l’azienda Alpha non ricorre a capitale di terzi e ricorre esclusivamente a capitale proprio; - l’azienda Beta è fortemente indebitata in quanto ricorre per 4.000 a capitale di terzi; - l’azienda Gamma è indebitata per soli 1.000.

Da ciò consegue che gli interessi passivi (iD) da corrispondere sono:

- per l’azienda Alpha pari a zero in quanto non indebitata; - per l’azienda Beta pari a 400 (dato dal prodotto tra 4.000 * 10%); - per l’azienda Gamma pari a 100 (dato dal prodotto tra 1.000 * 10%).

Il reddito operativo delle tre aziende può ricavarsi dalla formula inversa del ROI per cui ROI = Reddito operativo/ (CP + D) da cui si ottiene che Reddito operativo = ROI * (CP + D) = 20% * 5.000 = 1.000. In considerazione degli interessi passivi versati, l’Utile lordo risulta essere pari a 1.000 per Alpha; 600 per Beta; 900 per Gamma. Su tali valori è calcolato l’ammontare di imposte da versare nella misura del 40%. Al fine di identificare la redditività del capitale proprio si può procedere mediante il rapporto Utile lordo e Capitale Proprio (UL/CP) ovvero attraverso la relazione che lega ROE e ROI quale ROE = ROI + (ROI – i) D/CP Si ottiene pertanto che: relativamente all’azienda Alpha ROE = 1.000/5.000 = 20% oppure ROE = 0,2 + (0,2-0,1) * 0/5.000 = 0,2 = 20% Il ROE = ROI in quanto l’azienda Alpha non è indebitata (D=0); relativamente all’azienda Beta ROE = 600/1.000 = 60% oppure ROE = 0,2 + (0,2-0,1) * 4.000/1.000 = 0,6 = 60% Il ROE > ROI per cui l’azienda Beta può indebitarsi ulteriormente in quanto il rendimento del capitale di terzi è superiore agli interessi da corrispondere ai finanziatori; relativamente all’azienda Gamma ROE = 900/4.000 = 22% oppure ROE = 0,2 + (0,2-0,1) * 1.000/4.000 = 0,22 = 22% Il ROE > ROI per cui l’azienda Gamma può indebitarsi ulteriormente in quanto il rendimento del capitale di terzi è superiore agli interessi da corrispondere ai finanziatori.

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I risultati ottenuti evidenziano l’effetto della leva finanziaria sulla redditività del capitale proprio. Infatti, l’analisi dei soli dati economici relativi alle tre imprese indurrebbe a ritenere l’impresa Beta –con un utile netto di 360- meno redditizia delle altre; al contrario quest’ultima, per quanto fortemente indebitata e con un basso livello di capitale proprio investito, presenta un ROE sensibilmente maggiore delle altre. L’effetto leva positiva si evidenzia, seppur in misura minore, anche nel caso dell’azienda Gamma che presenta una redditività del 22%.

Esercizio n. 3

Relativamente all’impresa Alpha si confrontino i livelli di redditività aziendale corrispondenti al differente costo dell’indebitamento (i). A B C Capitale proprio (CP) 150 150 150 Capitale di terzi (D) 50 50 50 Capitale totale (CP+D) 200 200 200 Interessi (iD) 0,07 0,05 0,08 ROI 0,07 0,07 0,07 ROI = i ROI > i ROI < i ROE 0,07 0,076 0,066 ROE = ROI ROE > ROI ROE < ROI In A, B e C si evidenzia il medesimo livello di capitale proprio e di terzi investito. Tuttavia, risalta il differente costo dell’indebitamento (iD) quale tasso da corrispondere sul capitale preso a prestito da terzi finanziatori che si riflette sul livello di redditività del capitale proprio. La relazione tra la redditività del capitale proprio (ROE) e la redditività del capitale totale investito nell’impresa (ROI) si esprime come ROE = ROI + (ROI – i) D/CP pertanto ROE = ROI quando D = 0 oppure ROI = i ROE > ROI quando ROI > i ROE < ROI quando ROI < i Relativamente ad A si verifica che il rendimento del capitale preso a prestito (ROI) è pari agli interessi da corrispondere ai finanziatori (iD); si verifica dunque l’uguaglianza del ROE e del ROI. In B il rendimento del capitale preso a prestito (ROI) risulta essere superiore agli interessi (iD) da corrispondere ai finanziatori; conviene pertanto indebitarsi ulteriormente (leva finanziaria positiva). Infine, in C il rendimento del capitale preso a prestito (ROI) risulta essere addirittura inferiore agli interessi da corrispondere (iD); non risulta perciò conveniente indebitarsi ulteriormente (leva finanziaria negativa).

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Capitolo secondo - L’analisi costi - volumi - profitti 2.1. Capacita’ produttiva e produttivita’: questioni definitorie

Nello svolgimento della propria attività, l’impresa industriale è condizionata -nel breve periodo- dalla struttura esistente. La dotazione di impianti e di immobilizzazioni tecniche costituisce infatti un carattere stabile del complesso operativo in tale estensione temporali. La struttura risulta modificabile, in seguito a variazioni della domanda o della tecnologia, solo con il sostenimento, da parte dell’impresa, di costi elevati di sostituzione o ampliamento degli impianti. La determinazione della struttura e dunque della capacità produttiva rappresenta pertanto una delle decisioni più importanti per l’impresa non solo perchè essa definisce una caratteristica permanente almeno nel breve periodo ma anche per la complessità del processo decisionale sottostante a tale problematica e per l’entita’ del capitale investito; capitale che, in tutto o in parte, resta immobilizzato nel periodo di tempo, sovente lungo, necessario per la realizzazione dell’impianto. La capacità produttiva nel breve periodo è dunque un dato strutturale e corrisponde alla massima quantità teorica di beni o servizi che può essere ottenuta, nelle normali condizioni di progetto e di ambiente, da una macchina, un singolo impianto o da aggregati di impianti (fabbrica) in un intervallo di tempo convenientemente preso a riferimento in funzione del tipo di processo produttivo considerato. I significati assunti dal concetto di capacita’ produttiva sono diversi in relazione alla quantita’ o agli scopi per i quali la grandezza stessa è utilizzata; e’ opportuno pertanto fornire di essa le principali definizioni:7 Capacità teorico-nominale – massimo flusso fisico di beni o servizi ottenibile in un determinato intervallo di tempo (un’ora, un giorno, una settimana, ecc.) dichiarato dal produttore dell’apparecchiatura (Original Equipment Manufacturer, OEM) a fini fiscali, di mercato, ecc.8 Capacità teorico-effettiva (ex-ante) – massimo flusso fisico di beni o servizi ottenibile in un determinato intervallo di tempo (un’ora, un giorno, una settimana, ecc.) in condizioni di utilizzo in cui non si verifichino interruzioni o rallentamenti nello svolgimento del processo produttivo e l’impianto venga spinto al massimo. Tale capacità risulta generalmente inferiore ai livelli “nominali” di capacità produttiva disponibile dichiarata di cui al punto precedente. Capacità ottimale o economica – flusso fisico di beni o servizi ottenibile in un determinato intervallo di tempo (un’ora, un giorno, una settimana, ecc.) al costo unitario piu’ basso possibile (minimo). 9

7 La classificazione proposta si basa, riadattandole, sulle considerazioni di Panati G., Golinelli G.M. (1988, I ed.), Tecnica Economica

Industriale e Commerciale, Roma, La Nuova Italia Scientifica. 8 Costituisce un esempio di capacita’ produttiva nominale la potenza fiscale di un automobile espressa in “cavalli fiscali” che non corrisponde, come e’ noto, alla potenza effettiva dell’autovettura considerata. 9 Ammettiamo che il prodotto dell’automobile si misuri in Km/h (non è così, naturalmente, perché il prodotto del trasporto è una grandezza composta data dal numero di passeggeri trasportati moltiplicato la distanza percorsa; prendendo ad esempio un viaggio Napoli-Roma con una persona in un’automobile e quattro in un’altra, la prima automobile avrà prodotto 200 Km * 1 passeggero, ovvero 200 pass * Km, la seconda invece, 200 Km * 4 passeggeri, ovvero 800 pass per Km); in questo caso la velocità massima indicata dal contachilometri sarebbe pari alla capacità produttiva dell’automobile. Risulta chiaro che se tale capacità produttiva è di 180 Km/h, per una serie di motivi (pioggia, limiti di velocità, ecc.), tale capacità produttiva sarà raggiunta solo in condizioni particolari per brevi periodi. Ciò significa che la capacità produttiva massima espressa dal contachilometri dell’automobile (o dalla “targhetta” di una qualsiasi apparecchiatura industriale) è da intendersi come capacità teorica. Tuttavia, questa capacità teorica non corrisponde al livello di produzione ottimale. È noto, infatti, che le automobili –in determinate condizioni di utilizzo-

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Strettamente legato al concetto di capacita’ produttiva vi e’ quello di produttivita’, gia’ definita come il flusso fisico di beni che si intende raggiungere (ex-ante) o quello effettivamente raggiunto (ex-post) in un determinato intervallo di tempo. Mentre la capacita’ produttiva comunque considerata (teorico-nominale, teorico-effettiva, ecc.) e’ un valore che rende conto della fondamentale caratteristica dell’impianto costituita dalla sua dimensione, la produttivita’ e’ invece un valore variabile tra zero e la capacita’ produttiva teorico-effettiva e dipende dal grado di utilizzo dell’impianto stesso.10 E’ qui opportuno evidenziare che i concetti di breve, medio e lungo periodo non sono legati ad una misura dell’estensione temporale considerata (un anno, tre anni, ecc.) bensi’ alle ipotesi che possono essere formulate sulla possibilita’ dell’impresa di modificare la dimensione dell'impianto. Nel breve periodo, infatti, si assume che essa possa variare la quantità prodotta soltanto modificando le quantità di input dei fattori variabili (risorse umane, materie prime, ecc.); nel lungo periodo, invece, l’impresa può modificare la capacità produttiva effettuando investimenti in nuovi impianti.11 La capacità di breve periodo trova infatti il limite nell’esistenza di fattori di produzione fissi, mentre nel lungo periodo tutti i fattori sono da intendersi variabili. 2.2 Capacita’ produttiva economica e costi della produzione Al fine di esplorare le relazioni intercorrenti tra i diversi concetti di capacità produttiva e di dimostrare l’esistenza di un livello di produttività per il quale i costi unitari di produzione risultano minimi, e’ opportuno svolgere alcune considerazioni sui costi della produzione industriali utilizzando peraltro strumenti ben noti di analisi dei costi.12 Alla capacità produttiva apprestata ai fini dello svolgimento di un determinato processo produttivo e’ generalmente legata, nelle imprese industriali, la parte preponderante dei costi fissi. Infatti, in tali imprese e nel breve periodo, i costi fissi sono costituiti principalmente dalle quote di ammortamento (Qa) di terreni, fabbricati, macchinari, ecc. utilizzati per la produzione e dagli interessi passivi sui mutui (iD) (debiti a medio e lungo termine) contratti per sostenere le ingenti spese di investimento necessarie per la realizzazione degli impianti. 13 I costi variabili sono quelli derivanti dall’utilizzo dei fattori di flusso della produzione (materie prime, semilavorati, lavoro diretto, ecc.) e variano al variare del grado di utilizzo dell’impianto mentre risultano pari a zero in assenza di produzione. I costi totali sono dati dalla somma dei costi fissi e dei costi variabili.

generalmente molto al di sotto della capacità produttiva nominale- registrano il minimo dei consumi (velocità di crociera). Tale capacità produttiva viene denominata capacità produttiva economica. 10 Nell’esposizione di Panati e Golinelli (1988, cit.), la produttivita’ misurata ex-post coincide con la Capacità normale ex-post – ricavabile dalla media e dallo scarto quadratico medio del grado di utilizzo che si è riusciti a raggiungere rispetto alla capacita’ teorico-effettiva ex-ante. Il grado di utilizzo di un impianto e’ espresso dal rapporto quantità di prodotti ottenuti/ quantità di prodotti ottenibili nel periodo di tempo di riferimento. 11 Nella pratica operativa, soprattutto in quella di tipo contabile, il breve periodo si fa generalmente coincidere con l'esercizio, mentre il lungo periodo corrisponde ad un arco temporale di 5-10 anni o piu’ nel caso di immobilizzazioni tecniche di particolare durata, per es. le navi. Marshall A. (1961), Principles of Economics, London, Macmillan; Zanetti G. (1985), Economia dell’impresa, Bologna, Il Mulino. 12 Cfr. il capitolo sull’analisi costi- volumi- profitti di Panati G., Golinelli G.M. (1988, I ed.), Tecnica Economica Industriale e Commerciale, Roma, La Nuova Italia Scientifica. 13 Altri costi fissi sono per es. quelli per le assicurazioni, per il lavoro indiretto (personale amministravo, personale di pulizia e di vigilanza), ecc. E’ opportuno osservare che i costi fissi qui considerati sono quelli derivanti da spese aventi carattere pluriennale sostenute per l’acquisizione di fattori della produzione a fecondita’ ripetuta. Pur esulando dalla presente discussione si sottolinea che, in linea con la dottrina economico-aziendale, ai costi del lavoro diretto e’ pertanto attribuito il carattere di costo variabile.

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Costruendo un grafico riferito all’intervallo di tempo considerato che riporta sull’asse delle ascisse la quantita’ prodotta ed su quello delle ordinate il costo corrispondente, i costi fissi sono rappresentati dalla semiretta CF, i costi variabili dalla semiretta CV, i costi totali dalla semiretta CT. (Fig. 2.1) Fig. n. 2.1 – Andamento dei costi in funzione del grado di utilizzo dell’impianto Fonte: Ns. elaborazione. La semiretta cte avente origine nel punto CTE corrispondente al valore della capacita’ teorico effettiva ex-ante rappresenta, in Fig. 2.1, il limite delle curve di costo. All’aumentare del grado di utilizzo dell’impianto (q/cte) fino a raggiungere il livello della capacita’ produttiva teorico effettiva CTE, il costo di una unita’ di prodotto (costo unitario, cu) segue l’andamento descritto dalla seguente equazione: (1) cu= CF/q + CV/q Risulta evidente nella (1) che il rapporto CF/q –partendo da un ipotetico valore di infinito in corrispondenza di produzione pari a zero- diminuisce, per l’aumentare del denominatore, fino a raggiungere il valore CF/CTE (curva cfu in Fig. 2.2). Risulta anche evidente che cvu (costo variabile unitario, rappresentato in Fig. 2.2 dalla semiretta cvu) e’ il valore costante pari alla tangente dell’angolo alfa sotteso ai costi variabili rappresentato in Fig. 2.1. La somma di valori decrescenti fino al valore di q=CTE e dell’addendo costante CV/q e’ naturalmente anch’essa decrescente e presenta il minimo in corrispondenza della capacita’ produttiva teorico effettiva CTE.

CT

CV (CLs, CMP)

CF

CTE Quantità (q)

Costo

α

cte (Qa, iD)

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Fig. n. 2.2 – Andamento dei costi unitari in funzione del grado di utilizzo dell’impianto Fonte: Ns. elaborazione. La precedente discussione sembrerebbe indicare che il minimo costo unitario di produzione si ottiene per un livello produttivo pari a quello corrispondente alla capacita’ teorico-effettiva ex-ante.14 Non sfugge che l’andamento decrescente fino al valore di costo unitario corrispondente a quello relativo a CTE (CUM) e’ dovuto al fatto che cv (costo variabile unitario) e’ stato considerato costante. Considerare un costo unitario costante traduce la circostanza per la quale ciascuna unita’ di prodotto ha lo stesso costo della precedente (se la prima unita’ costa x, la seconda costa 2x, la terza 3x e cosi’ via). Nella realta’ operativa, risultano ben rari i casi in cui il costo variabile unitario risulta costante, essendo generalmente vero il contrario: nei casi reali, infatti, cv risulta dapprima variare in modo piu’ che proporzionale rispetto alla produzione, in un secondo momento in modo meno che proporzionale ed infine nuovamente in modo piu’ che proporzionale (curva cvr nella Fig. 2.3).15

14 Esaminando l’argomento in una diversa prospettiva si puo’ anche dire che la capacita’ teorico-effettiva sarebbe uguale, in questo caso, alla “capacita’ ottimale o economica”: cio’ renderebbe peraltro inutile l’aver distinto le due definizioni precedentemente fornite 15 Per semplicita’ espositiva, la curva dei costi variabili nei casi reali e’ stata rappresentata con una semiretta spezzata in modo che risultino evidenti le tre tendenze esposte. Un esempio dal funzionamento delle automobili può efficacemente illustrare l’andamento descritto. È ben noto che ai bassi regimi (ciclo urbano) di funzionamento dell’autovettura, i costi di un Km percorso sono elevati; parimenti, sono elevati i costi di un Km percorso al massimo della potenza. In ragione di ciò risulta “conveniente” utilizzare l’autovettura alla c.d. “velocità di crociera” che si attesta generalmente tra il 60 e l’80% della potenza dell’autovettura.

cfu

CTE quantità

cvu

CUM

Costo

cu

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Fig. n. 2.3 – Andamento reale dei costi in funzione del grado di utilizzo dell’impianto Fonte: Ns. adattamento da Panati G., Golinelli G.M. (1988). L’andamento dei costi variabili nei casi reali e’ legato essenzialmente all’effetto learning, ovvero allo svilupparsi di economie di apprendimento e di funzionamento dell’impianto. In conseguenza del realizzarsi delle economie descritte, il punto di minimo dei costi unitari di produzione non coincide con quello relativo alla capacita’ produttiva effettiva ma si colloca generalmente ad un valore tra il 60% e l’80% di essa, in corrispondenza di CE, il valore prima definito pari alla capacita’ produttiva economica (Fig. 2.4). Fig. n. 2.4 – Andamento reale dei costi unitari in funzione del grado di utilizzo dell’impianto

Fonte: Ns. adattamento da Panati G., Golinelli G.M. (1988). Al fine di considerare una importante proprietà degli impianti (l’elasticità), si considerino le curve di costi medi unitari di due imprese, A e B, aventi il loro punto di minimo in corrispondenza della quantità

CE CTE quantità

ctu

CT

CV

CF

ctr

CTE quantità

costo

cvr

Cu= CT/q

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Q1 (fig. n. 2.5); per variazioni della quantità prodotta da Q1 a Q2, cioè allontanandosi dalla capacità produttiva ottimale, si registrano variazioni del costo unitario dell’impresa B sensibilmente maggiori rispetto alle variazioni del costo dell'impresa A; in altri termini, l'impresa A risulta più “elastica” dell'impresa B. Il concetto di elasticità consiste nella capacità dell'impresa di modificare il volume di produzione senza incorrere in costi tali da modificare significativamente la posizione competitiva dell’impresa.

Fig. n. 2.5 - Rappresentazione grafica dell’elasticità

Le considerazioni svolte dimostrano anche che l'impresa può reagire ad impreviste oscillazioni della domanda di mercato discostandosi, con aggravi di costo variabili in funzione della sua elasticità, dalle condizioni di normale sfruttamento della capacità produttiva. 2.3. Costi diretti e costi indiretti Sulla base della definizione dei costi fissi e dei costi variabili si possono identificare altre due categorie di costi: diretti e indiretti. Si definiscono diretti i costi che si possono correlare direttamente ad uno specifico prodotto; sono indiretti i costi corrispondenti a vari prodotti, a linee di prodotti e, pertanto, imputabili ad uno specifico prodotto solo mediante un procedimento di ripartizione. Se, ad esempio, per fabbricare un'automobile occorrono 100 ore uomo di un operaio addetto alla verniciatura, il costo di tali ore rappresenta un costo diretto di produzione (di quella automobile). I costi di amministrazione, segreteria, centralino, ecc., invece, sono comuni alla produzione effettuata nel periodo di tempo preso in considerazione, ed è necessario definire un procedimento di ripartizione per attribuire a tali costi una singola unità prodotta. Lo stesso vale per le più rilevanti categorie di costi fissi, segnatamente le quote di ammortamento e gli interessi sui debiti. Alla luce di quanto esposto, si può notare che la distinzione tra costi diretti e indiretti non coincide con la distinzione tra costi fissi e variabili; la loro classificazione infatti non si basa sul legame con la quantità prodotta (variabilità/non variabilità), ma sull'attribuzione ad un “oggetto” predefinito.

cu

A

cuA

Q1 Q2 Q

B

0

cuA = cuB

cuB

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Economia e gestione delle imprese – Prof. Giuseppe Vito 37

2.4. Break-Even-Point 2.4.1. Determinazione grafica

Con riferimento al grafico che rappresenta la struttura dei costi di un'impresa (fig. n. 2.1), si introduca la curva dei ricavi (fig. n. 2.6): Fig. n. 2.6 - Determinazione grafica del Break-Even-Point

Come si può notare, i RT e CT si incontrano in un punto che deve trovarsi, auspicabilmente, a sinistra della capacità produttiva nominale. Infatti, dato che in qualsiasi struttura di costo vi sono alcuni costi indipendenti dal volume di produzione e di vendita (costi fissi) e altri che variano in rapporto alla variazione di tale volume (costi variabili), è sempre necessario raggiungere un volume minimo di produzione per recuperare integralmente costi fissi e variabili. Questo volume, caratterizzato dall’uguaglianza tra i ricavi e i costi, corrisponde al punto di pareggio, Break Even Point, perché in quella condizione l’impresa non conseguirebbe alcun utile. L'impresa, pertanto, operando con livelli di produttività inferiori a Qe, in cui i costi sono maggiori dei ricavi, si trova in un’area delle perdite; viceversa, se opera a destra di Qe, i ricavi sono maggiori dei costi (area degli utili); il coefficiente angolare della retta dei ricavi è data dal prezzo “p”. 2.4.2. Determinazione attraverso il flusso dei fondi

Si osservi che il BEP può essere calcolato analiticamente anche a partire dal flusso dei fondi:

Qe

Qe = quantità di equilibrio CTE = capacità teorico effettiva RT = ricavi totali = RV= ricavi di vendita

CT

CF

CTE Quantità (q)

Costo

p

cte (Qa, iD)

RT

B.E.P

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II BEP è il punto in cui l'impresa non consegue utile (UL = 0) quindi, nella determinazione del BEP attraverso il flusso dei fondi, UL non deve essere considerato. Vale perciò l’uguaglianza: RV = QA + iD + CCP In cui si ha: RV = p . Q QA + iD = CF

CCP = costi correnti della produzione= cv . Q 2.4.3. Determinazione analitica

Se il punto di equilibrio è quel punto in cui i ricavi delle vendite sono uguali a QA + iD + CCP abbiamo: RV = QA + iD + CCP CF CV

RV = p . Q

pQe = CF + cvQe Qe = _CF_ p - cv

La grandezza al denominatore del rapporto (p - cv) viene definita margine di contribuzione unitario (con la terminologia fin qui utilizzata, esso è anche un margine lordo commerciale unitario).

iD

UL

QA

CCP

RV

MCL

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Se invece di calcolare il punto di equilibrio, si vuole individuare la quantità Q* con la quale si ottiene un livello determinato di utile lordo (UL*), bisogna aggiungere UL* alla precedente equazione: pQ* = CF + cvQ* + UL* Q* = CF + UL* p - cv Analiticamente, dunque, il volume di produzione corrispondente al punto di equilibrio è dato dal rapporto tra i costi fissi e Ia differenza tra i ricavi unitari e costi variabili unitari. Dall’equazione, peraltro, si possono valutare le possibili utilizzazioni di questo strumento, cioè quali sono le variabili sulle quali l'impresa può influire direttamente:

I CF sono una grandezza data e, dunque, non modificabili nell’intervallo di tempo preso in considerazione. Anche UL, se l’impresa vuole conseguire un determinato ROE, risulta una grandezza data. Per quanto attiene cv valgono le seguenti considerazioni: l'impresa può influire su di esso o attraverso modifiche del processo produttivo – che richiederebbero comunque l’abbandono dell’ipotesi di base per cui il processo produttivo non è modificabile nell’intervallo di tempo preso in considerazione – o attraverso azioni manageriali, tattiche od operative tese a recuperare efficienza economica (maggiore resa dei fattori della produzione). In questo secondo caso, la variazione di cv appare comunque sempre di entità limitata. Il livello del prezzo p può essere stabilito dall’impresa, entro determinati limiti di mercato; pertanto, uno degli utilizzi più comuni del break-even-point consiste nel determinare il prezzo a cui vendere i prodotti e i servizi dell’impresa. Infine, l’analisi costi-volumi-profitti può essere utilizzata per determinare la quantità Qe o Q* da produrre per ottenere rispettivamente l’equilibrio o un determinato livello di utile. Al riguardo bisogna distinguere tra l’impresa rigida e l'impresa elastica; come si può notare dalla fig. n. 2.8, l’impresa B è sicuramente connotata da un'elevata rigidità rispetto all'impresa A che appare elastica (al variare della quantità prodotta i costi unitari dell’impresa B subiscono variazioni molto più marcate rispetto a quelli relativi all’impresa A). Nel caso di un’impresa rigida, l’analisi costi-volumi-profitti è generalmente utilizzata per determinare il prezzo, che può oscillare entro i limiti di mercato, dei prodotti ottenuti utilizzando l’impianto a un regime prossimo alla capacità produttiva economica; in questo caso, infatti, l'impresa è vincolata alla produzione di elevati volumi, che le consentono di ottenere una riduzione dei costi medi unitari di produzione. Nel caso di un’impresa elastica, invece, è possibile per l’impresa modificare i volumi di produzione cambiando il grado di utilizzo degli impianti incorrendo in variazioni limitate di costo unitario. In questo caso l’analisi costi-volumi-profitti può effettivamente essere utilizzata per determinare la quantità di equilibrio o la quantità necessaria per ottenere un predeterminato livello di utile. Riferendosi alla determinazione grafica del punto di equilibrio (fig. n. 2.6), si osservi che esso si deve trovare a sinistra della capacità produttiva effettiva dell'impianto.

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Fig. n. 2.7 – Relazione tra B.E.P. e la capacità produttiva economica dell’impianto

E’ opportuno osservare la relazione tra il BEP e la capacità produttiva economica dell’impianto; ad esempio, se la capacità produttiva economica è rappresentata dal punto B, che è il punto di minimo dei costi medi unitari di produzione, e l’impresa opera nel punto A al fine di conseguire un predeterminato livello di utile, l’impresa si trova in una condizione non ottimale in termini economici perché il costo medio unitario, in corrispondenza della quantità in cui l’impresa opera, assume un valore più elevato rispetto al suo potenziale valore minimo. Tali circostanze potrebbero consentire all’impresa di abbassare il prezzo del prodotto ottenendo comunque il livello di utile desiderato (curva a) ma utilizzando gli impianti ad un livello prossimo al livello produttivo economico. 2.5 La dimensione tecnico produttiva. Le economie di scala e la dimensione ottima dell’impianto E’ opportuno evidenziare che la possibilità di operare al livello del minimo costo unitario di produzione e’ data, nel breve periodo, esclusivamente dalla possibilità di sfruttare le economie di apprendimento e di funzionamento dell’impianto precedentemente richiamate. È anche opportuno precisare qui che l’andamento della funzione di costo indicata nella Fig. 2.4 non deriva dall’insorgenza di economie di scala in quanto in tale diagramma la dimensione dell’impianto è fissa mentre il concetto di economie di scala e’ legato alle economie eventualmente ottenibili al variare della dimensione dell’impianto, possibile nel lungo periodo. In tale estensione temporale, l’impresa puo’ infatti modificare la struttura dei costi fissi aumentando le dimensioni dei propri impianti mediante nuovi investimenti.

La realizzazione di nuovi impianti ed il correlato aumento della capacita’ produttiva può essere rappresentata graficamente (Fig. 2.8); in particolare, si supponga che un'impresa raddoppi le dimensioni dei propri impianti sostituendo l'impianto A con l'impianto B avente capacita’ produttiva (teorico-effettiva) doppia rispetto ad A (CTEB = 2 CTEA).

Come si evince dal grafico in esame, i costi fissi assumono un andamento a scalino (Fig. 2.8a). Nel passaggio dall’ A all’impianto B di dimensioni doppie, tali costi risulteranno naturalmente piu’ alti ma,

A B

C

Q

a (RT)

CT

CTE

p

RT

Qe Qe 0

CT

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per l’insorgere delle economie di scala, essi non saranno, nella generalità dei casi, pari al doppio di quelli corrispondenti all’impianto A; lo stesso dicasi per impianti di dimensioni triple, ecc.

Le determinanti della circostanza per cui all’aumentare della dimensione dell’impianto non si verifica un corrispondente aumento nei costi di realizzazione dello stesso bensì un aumento minore sono molteplici; le più importanti appaiono tuttavia quelle di natura geometrica e quelle legate alle dotazioni tecnologiche (di governo, guida, controllo, ecc.) dell’impianto.

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Fig. n. 2.8 – Andamento dei costi nel lungo periodo Fonte: Ns. adattamento da Rispoli M. (1989). Le economie di scala di natura geometrica, sebbene siano di particolare importanza nelle produzioni

continue e di massa, che vengono condotte in impianti a ciclo tecnologico obbligato caratterizzati una struttura unitaria (per esempio nel settore chimico, petrolifero, ecc.), si manifestano in ogni tipo di produzione in quanto attengono alle economie di costruzione dell’impianto e come tali incidono solo sul livello dei costi fissi.

Le economie di scala geometriche hanno la loro origine nel fatto che la capacita’ produttiva dei singoli componenti costruttivi degli impianti varia secondo una legge cubica (in quanto e’ rappresentata dal volume, si pensi semplicemente ad un tubo ed alla sua portata), mentre il costo di costruzione varia in funzione quadratica (in quanto e’ la superficie necessaria per contenere il volume di cui sopra a determinare il costo del materiale).

DOM DEM

CEA CEB

CEC

CED

q

D C B

A

CTEA CTEB CTEC CTED q

A

B

C

D

c Fig.2.8a

Fig. 2.8b c

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Pertanto, il costo di realizzazione dell’impianto decresce all’aumentare della dimensione (per esempio, grandi raffinerie di petrolio, oleodotti, navi petroliere).16

Le economie legate alle dotazioni tecnologiche (di governo, guida, controllo, ecc.) dell’impianto risultano intuitive: per es., nel governo di un FMS (Flexible manufacturing System) e’ necessario un unico computer indipendentemente dal numero di macchine da controllare. Ancora, nel caso dell’equipaggiamento di due diverse navi, l’una di stazza doppia dell’altra, unica e’ la cabina di pilotaggio con le relative apparecchiature, unico il sistema di posizionamento geografico, ecc. Queste economie derivano dunque dall’indivisibilità dei fattori produttivi per la quale alcuni di essi non possono essere introdotti nel processo produttivo in quantità inferiori ad una loro specifica dimensione minima (per es.: computer, radar, ecc.)

Nel caso di processi produttivi svolti da impianti costituiti da diversi tipi di macchine, aventi ciascuna una propria capacità produttiva, insorgono importanti economie di scala nel perseguimento del pieno sfruttamento di tutte le macchine. La condizione per produrre al costo medio minimo può essere realizzata infatti con una scala di produzione pari al minimo comune multiplo delle capacità delle singole macchine. 17

All’aumentare delle dimensioni dell’impianto, accanto alle economie che si realizzano nella costruzione e dunque nel livello dei costi fissi, si verificano anche significativi effetti sui costi variabili unitari. Tali effetti sono generalmente di riduzione e sono dovuti ad una serie di fattori: gli sconti ottenibili presso i fornitori per l’acquisto di quantità maggiori di materie prime, semilavorati, componenti; una divisione del lavoro più spinta, che consente tempi di apprendimento più rapidi; minori costi di coordinamento per lo sfruttamento più razionale della capacità di supervisione dei manager, ecc.

Le economie di scala possono dunque essere definite come una riduzione del costo medio unitario del prodotto o servizio derivante dall’aumento della dimensione dell'impianto (unità tecnica di produzione).

Lo stesso concetto può essere espresso dicendo che il manifestarsi delle economie di scala comporta un aumento più che proporzionale della produzione rispetto all'incremento dei costi determinato da siffatto ampliamento (al raddoppiare della dimensione dell’impianto il costo aumenta, ma non raggiunge il doppio).

L’ottenimento di economie di scala dunque deriva da un risparmio di risorse che si realizza per effetto dell’aumento della capacità produttiva.

Nella Fig. 2.8a sono rappresentati i costi fissi relativi ad impianti di diversa scala dimensionale e la loro rispettiva capacità tecnica effettiva (CTE); nel passaggio da un impianto di capacità tecnica effettiva CTEA ad un impianto di capacità tecnica effettiva maggiore CTEB e così via, si determina si determina uno spostamento delle singole curve di costo medio unitario (Fig. 2.8b) verso destra nonché verso il basso per il dispiegarsi delle descritte economie di scala.

La curva teorica che unisce i punti di minimo dei costi medi unitari di ciascuna dimensione d’impianto in Fig. 2.8b, definita dalle rispettive curve di breve periodo, rappresenta la tendenza di lungo periodo dell’impresa a variare le combinazioni produttive verso quelle a maggiore dimensione, cioè verso strutture di costo più efficienti. Tale curva, che geometricamente e’ di inviluppo dei punti di

16 Un esempio delle economie di scala geometriche puo’ essere fatto con riferimento ad un serbatoio cilindrico (si pensi per semplicita’ ad una lattina di coca-cola). La superficie dell’alluminio necessario per la realizzazione di una lattina di capacita’ pari a V1 (per es. 0,33 cl.) e’ pari a: S1 = 2Πr2+2Πrh; Il Volume V1 e’ pari a V1 = Πr2h. Per raddoppiare il volume si puo’ raddoppiare l’altezza (rendendola pari a 2h), sicche’ V2 = 2V1 = 2Πr2h. In questo caso la superficie complessiva necessaria per realizzare tale lattina di dimensioni doppie rispetto alla precedente diventa S2 = 2Πr2+4Πrh, che non e’ evidentemente il doppio di S1 bensi’ e’ pari a (r+2h)/(r+h). 17 Si consideri, per esempio, un sistema formato da macchine collegate in serie aventi capacita’ produttive economiche rispettivamente pari a 9, 6 e 12 lavorazioni all’ora. In questo esempio, il flusso minimo di pieno impiego è pari a 36 pezzi all’ora e ci si dovrà dotare di 4 macchine del primo tipo, 6 macchine del secondo tipo e 3 macchine del terzo tipo affinché tutte possano lavorare al 100%.

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minimo delle curve di costo medio unitario di breve periodo, prende il nome di curva dei costi unitari di lungo periodo.

Esaminando tale curva si può talvolta notare la presenza di un tratto parallelo all’asse delle ascisse; si puo’ riscontrare cioè l’esistenza di impianti di dimensioni diverse che tuttavia presentano uguali valori minimi dei costi unitari. Tali punti vengono definiti rispettivamente Dimensione Ottima Minima (DOM) e Dimensione Efficiente Massima (DEM). Nella maggior parte dei casi, in cui si ha un unico punto di minimo del costo medio unitario di lungo periodo, la Dimensione Ottima Minima coincide con la Dimensione Efficiente Massima (DOM = DEM). La DOM costituisce la capacità produttiva “ottima” dell’impianto industriale, in quanto questa dimensione permette di produrre, in una prospettiva di lungo periodo, al minimo costo unitario. La DEM rappresenta il livello di produzione oltre il quale la curva dei costi di lungo periodo tende ad aumentare per l’insorgere di fenomeni di diseconomie di scala.

Graficamente, si può osservare che la DOM individuata nella Fig. 2.8b e’ quella corrispondente alla capacità produttiva economica dell’impianto B (CEB) e che il costo si mantiene costante nell’intervallo tra CEB e CEC per poi iniziare a risalire, andamento che riflette l’insorgenza delle citate diseconomie di scala. Esse consistono in un aumento del costo medio unitario all’aumentare della scala produttiva oltre la DEM. Le cause di tali diseconomie di scala sono molteplici: i maggiori costi per la realizzazione di impianti con componenti non rinvenibili sul mercato nelle dimensioni desiderate ma da far realizzare “su misura” da imprese terze; i maggiori costi di coordinamento derivanti dall’aumentata complessità organizzativa; i maggiori costi di gestione dei magazzini; quelli legati all’incremento del rischio, ecc..

2.6. Le condizioni ambientali e tecnologiche come determinanti della dimensione degli impianti La tendenza delle imprese a raggiungere una dimensione tecnico-produttiva ottima minima e’ riscontrabile generalmente in condizioni di mercato connotate da un tipo di domanda stabile ed omogenea, in grado cioè di assorbire quantità elevate e costanti di prodotti poco differenziati quali quelli provenienti da produzioni continue, di massa o di grande serie. L'obiettivo della minimizzazione dei costi attraverso il conseguimento delle economie di scala e l'esistenza di una dimensione ottima degli impianti si riscontra, dunque, generalmente nei casi dei mercati guidati dall’offerta (mercati del venditore), ovvero di mercati in grado di assorbire l'intera produzione. 18

Risulta tuttavia importante sottolineare che l’impresa, anche in condizioni di mercato favorevoli, può incontrare ostacoli di natura tecnologica che scoraggiano un’eccessiva crescita dimensionale. Ad esempio, un’impresa di navigazione marittima che svolge la propria attività di trasporto internazionale di merci in condizioni di mercato favorevoli, non può tuttavia aumentare le dimensioni dei propri fattori produttivi (le navi) oltre determinate dimensioni per il vincolo tecnico imposto dal pescaggio dei terminali portuali toccati o da quello portato dall’attraversamento dei canali (Suez, Panama). Ancora, componenti e semilavorati necessari per la costruzione di impianti industriali o di parti di essi sono generalmente disponibili sul mercato in dimensioni standardizzate: se tale condizione non si

18 E’ il caso dell’industria automobilistica negli anni ’60 in cui le imprese appartenenti a questo settore potevano ragionevolmente contare su un mercato guidato dall’offerta. In quel periodo, l'obiettivo prioritario delle imprese era quello di produrre a costi medi unitari minimi, tali da rendere più elevati i margini commerciali; cosi’ alla fine degli anni 60 le principali case automobilistiche mondiali tendevano ad ampliare i propri impianti alla ricerca di economie di scala sempre più elevate. Com’è noto, successivamente tali tendenze sono cambiate per la loro scarsa congruenza con la complessità della realtà economica attuale. Il mercato delle automobili è diventato, nel tempo, molto più vario e variabile rispetto a quello degli anni ’60.

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riscontra e l’impresa deve commissionarne la realizzazione ad un’altra impresa, si possono determinare significativi incrementi di costo. Infine, esistono limitazioni oggettive alla dimensione di alcuni processi industriali. E’ stato osservato, per es., che gli altoforni per la produzione del ferro diventano altamente instabili oltre determinate dimensioni. I suddetti elementi di diseconomia sono rispecchiati in Fig. 2.8b dal tratto crescente della curva dei costi di lungo periodo che segna l’interruzione, netta o graduale, dell’effetto scala. La tendenza dell'impresa a non oltrepassare una determinata dimensione deriva dunque da due cause fondamentali: il vincolo imposto dal mercato: l’impresa deve valutare il tasso di crescita della domanda; il vincolo tecnico-economico che impone di non superare una determinata soglia dimensionale. Nell’attuale contesto ambientale, le imprese non abbracciano in modo indiscriminato il modello di crescita dimensionale descritto: infatti, sebbene vi siano settori e tipologie di impresa il cui sviluppo è necessariamente subordinato all'aumento dimensionale, si puo’ affermare, in linea generale, che sta aumentando il peso percentuale di settori e di imprese che tendono ad una crescita esterna, basata sostanzialmente sulla realizzazione di accordi con altre imprese oppure su rapporti contrattuali di sub-fornitura. In tal modo, le imprese abbandonano i tradizionali criteri di gestione basati sull'orientamento alla produzione (abbassamento dei costi medi unitari) e tendono a soddisfare le esigenze di mercato attraverso un’organizzazione elastica e flessibile della funzione di produzione. Le considerazioni fin qui svolte sui costi unitari medi di produzione quali determinanti della dimensione tecnico-produttiva sembrano scarsamente applicabili al settore dei servizi, per le caratteristiche delle attività terziarie, precedentemente delineate. L’impresa di servizi è infatti costretta ad operare scelte di dimensionamento della capacità produttiva essenzialmente in relazione al vincolo costituito dalla natura dell’output prodotto (simultaneità tra erogazione e consumo) ovvero deve dotarsi di impianti in grado di rispondere ai livelli “di punta”, ovvero i livelli massimi della domanda quando essi si manifestano. Per esempio, un’azienda di trasporto pubblico che fornisca il servizio di trasporto pubblico urbano su gomma e/o su rotaia (tram, autobus, metropolitane leggere), nel perseguire l’obiettivo di produrre al minimo livello dei costi medi unitari, si scontra con il vincolo di dover comunque garantire il servizio nelle ore di punta. Ciò significa che l'impresa deve dotarsi di un numero di autoveicoli sufficiente a coprire la domanda in tali ore, numero che risulterà inevitabilmente eccedente nelle restanti ore della giornata. Il riferimento alla domanda di punta, necessario in tutte le attività il cui output non puo’ essere immagazzinato, come quella di trasporto, impone dunque un dimensionamento della capacità produttiva che comporta elevati costi di inutilizzo temporaneo della capacità stessa. Risulta dunque evidente che l’obiettivo delle imprese di ottenere vantaggi di costo mediante le economie di scala è pressoché generalmente circoscritto all’ambito delle produzioni industriali e, in quest’ambito, assume particolare rilevanza nelle produzioni continue e di grande serie.

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Capitolo terzo – Analisi dell’ambiente e definizione di settore

3.1 L’analisi dell’ambiente esterno Una visione dell’impresa quale sistema relazionale aperto enfatizza il ruolo dell’ambiente esterno nell’ambito della gestione strategica aziendale. L’impresa, infatti, costituisce una componente essenziale dell’ambiente in cui è inserita e vive utilizzando sistematicamente le risorse e le potenzialità in esso presenti; attraverso il suo agire, però, essa influenza, a sua volta, l’evoluzione e le dinamiche dell’ambiente che la circonda. In altri termini, l’ambiente condiziona le scelte dell’impresa, sanzionando con il successo o l’insuccesso la strategia da essa perseguita; allo stesso tempo, esso è destinato ad evolvere diversamente a seconda di come gli attori aziendali individuano, selezionano e utilizzano le potenzialità e possibilità in esso presenti – anche allo stato latente. L’ambiente esterno costituisce, in questa accezione, uno dei fattori di condizionamento dello sviluppo delle imprese assumendo un ruolo fondamentale nella comprensione del problema strategico delle stesse. Nell’ambiente esterno si originano, infatti, forze, eventi, trend, fenomeni, i quali vanno opportunamente monitorati ed analizzati al fine di identificare opportunità19, da cogliere e sfruttare al meglio, e minacce, che occorre, invece, fronteggiare e cercare di superare. L’analisi dell’ambiente esterno può, in tal senso, essere intesa come un’attività volta a raccogliere, selezionare ed elaborare informazioni che consentono ai decisori aziendali di disporre di un quadro attuale e prospettico dell’ambiente esterno rilevante per l’impresa, utile al fine di valutare i risultati delle strategie in atto e impostare quelle future. Tali analisi rientrano a pieno titolo nel filone dell’Industrial Organization (Bain, 1959), centrato sulla relazione struttura – condotta – performance. Secondo tale impostazione teorica, la struttura del settore determina la condotta strategica e organizzativa delle imprese in esso presenti, da cui derivano le performance che le imprese possono realizzare. In questo caso, a determinate condizioni strutturali dell’ambiente corrisponde una sola condotta strategica che permette di massimizzare le performance delle imprese. L’ambiente esterno costituisce, pertanto, il fulcro di tutto il percorso strategico. L’ambiente esterno assurge ad insieme di elementi/forze, eventi, trend, discontinuità in cui il sistema impresa si colloca e con il quale interagisce. In quest’ottica Grant (1999) definisce l’ambiente di un’impresa come l’insieme di tutte le variabili esterne che influenzano, o potrebbero influenzare, i risultati dell’organizzazione. La letteratura più accreditata di economia e management distingue, in particolare, due livelli successivi (strati ambientali) in cui possono essere raggruppate le forze e le tendenze ambientali che influenzano l’impresa e i suoi risultati: il macro-ambiente e il micro-ambiente. Il macro-ambiente (o ambiente generale) è definito dall’insieme delle forze, dei fenomeni e dei trend di carattere generale che condizionano ed orientano le scelte ed i comportamenti dell’impresa e di tutti gli attori del sistema competitivo dove opera l’impresa. Le variabili che costituiscono il macro-ambiente non sono direttamente controllabili dall’impresa, anche se, attraverso le proprie azioni, quest’ultima può, in alcuni casi, influenzare l’intensità e la direzione con cui si manifestano. Il micro-ambiente (o ambiente competitivo) appare, invece, costituito da tutte quelle forze, fenomeni ed attori presenti nello specifico campo di attività in cui l’impresa opera e che hanno implicazioni più

19 Per l’impresa nascono opportunità quando una tendenza dell’ambiente crea il potenziale per costruire e/o rafforzare il suo vantaggio competitivo. Si parla di minacce, invece, quando le tendenze dell’ambiente esterno mettono in pericolo la redditività dell’impresa (Pellicelli, 2002).

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dirette sia sulle sue scelte strategiche, sia sulle sue performance. Le forze del micro-ambiente determinano, infatti, l’intensità della concorrenza e influenzano le prospettive di redditività dell’area competitiva dove è presente l’impresa. 3.1.1 Le forze del macro-ambiente L’analisi dell’ambiente esterno all’impresa parte necessariamente dallo strato ambientale più ampio ed esterno rispetto all’impresa: il macro-ambiente (o ambiente generale). Tale ambiente rappresenta il contesto culturale ed economico della specifica area geografica dove è collocata l’impresa e viene definito dall’insieme delle forze, dei fenomeni e delle tendenze di carattere generale che hanno una rilevante importanza per le scelte ed i comportamenti dell’impresa e di tutti gli attori del sistema competitivo. Queste forze sono costituite, in particolare, da una serie di macrovariabili: economia, politica, socio-cultura, tecnologia, demografia, ecc., da cui possono essere tratti utili indicatori sui possibili cambiamenti futuri dell’ambiente più esteso (Valdani, 1995). E’ utile evidenziare come gli eventi e i fenomeni appartenenti al macro-ambiente influenzino non solo la singola impresa, ma tutti i soggetti e le imprese che appartengono ad una stessa area competitiva. Tali tendenze condizionano, infatti, tutte le forze appartenenti al microambiente. In analogia allo studio di altre entità sistemiche, l’analisi del macro-ambiente deve quindi prevedere sia una valutazione delle componenti sistemiche, distinte in base alla loro natura, sia uno studio delle relazioni intercorrenti tra i macro-aggregati ambiente e impresa e tra sub-sistemi e singoli elementi. Quanto affermato discende dalla considerazione della forte interdipendenza esistente tra le variabili che compongono il macro-ambiente: una innovazione tecnologica può ad esempio, impattare significativamente su alcune variabili di tipo socio-culturale, quale lo stile di vita (ad esempio la telefonia mobile). In questo senso, le principali forze del macro-ambiente possono essere raggruppate in cinque distinti sub-sistemi: - ambiente economico; - ambiente politico–istituzionale; - ambiente socio–culturale; - ambiente demografico; - ambiente tecnologico. Considerata la vastità delle informazioni reperibili in ciascun sub-sistema, le imprese devono necessariamente sviluppare una capacità di selezione delle variabili strategicamente più rilevanti, cercando di ordinarle in base al potenziale di influenza sulla propria condotta strategica. Questo processo di selezione, orientato ad individuare le forze che meritino un effettivo approfondimento, costituisce indubbiamente una delle difficoltà principali dell’analisi di tale ambiente, anche a motivo della crescente turbolenza, complessità e discontinuità che caratterizza gli scenari entro i quali le imprese si trovano attualmente ad operare. L’analisi del macro-ambiente appare, quindi, complessa e articolata, e la letteratura in materia non sembra aver ancora prodotto una facile ed univoca metodologia di analisi dei cambiamenti ambientali fondamentali per la vita dell’impresa. Ciò su cui si concorda sono, invece, i compiti di tale analisi; questa si deve, infatti, occupare di: - monitorare le forze e le tendenze presenti in ciascun sub-sistema; - selezionare le variabili strategicamente più rilevanti per la condotta dell’impresa; - individuare i probabili scenari futuri relativi a tali fenomeni;

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- prevedere il loro impatto sia sulla condotta strategica dell’impresa, che sulla sua posizione competitiva. In questa analisi l’impresa può avvalersi di statistiche ufficiali, analisi redatte da enti di ricerca, quali previsioni di tipo economico o tecnologiche, proiezioni demografiche, stime relative alle materie prime, sondaggi e focus group condotti in proprio o attraverso società di consulenza; nella formulazione di congetture sui probabili scenari futuri, risultano, invece, molto utili la metodologie quantitative rese disponibili dalle nuove tecnologie, quali le simulazioni dinamiche e i sistemi esperti.

L’ambiente economico

L’analisi dell’ambiente economico si prefigge di individuare e osservare la posizione attuale e i futuri cambiamenti delle principali variabili che caratterizzano gli scenari macroeconomici nazionali ed internazionali. In particolare, l’analisi è volta ad evidenziare le relazioni che esistono tra tali variabili, la condotta strategica dell’impresa e la sua performance. Le forze presenti in tale ambiente sono identificabili attraverso numerosi e complessi indicatori che riguardano ad esempio la composizione e l’andamento delle diverse tipologie di produzione (agricola, industriale, terziaria); il reddito disponibile delle famiglie, gli investimenti, il costo del lavoro o del denaro, i consumi, la bilancia dei pagamenti, l’andamento di tassi di cambio, i tassi di inflazione nazionali ed internazionali, l’andamento dei prezzi interni rispetto all’import e il risparmio. I fattori in esame, essendo legati ai consumi nazionali ed internazionali, ai prezzi dei fattori della produzione, agli investimenti, alla disponibilità di beni e servizi, ecc., sono in grado di influenzare il posizionamento competitivo dell’impresa cui si richiede, di conseguenza, un’attenta analisi del loro andamento attuale e prospettico, al fine di definire e scegliere i comportamenti strategici più consoni ai probabili scenari futuri. Elementi quali crescita economica (PIL, PNL), tassi di interesse, tassi di cambio e d’inflazione, influenzando il potere d’acquisto dei potenziali consumatori ed il costo del capitale dell’impresa, possono, influire sulle scelte delle organizzazioni relativamente alle principali direttici di sviluppo. L’analisi dell’ambiente economico dovrebbe, quindi, rispondere a domande, quali ad esempio: − quali sono le prospettive del sistema economico nazionale ed internazionale? Siamo in una fase di recessione o di espansione? - quale è l’evoluzione degli investimenti e del risparmio delle famiglie? Come si distribuisce il reddito per area geografica, età e tipologia di nucleo familiare? − quale è l’andamento della produzione industriale nazionale e internazionale? L’ambiente politico-istituzionale

L’analisi dell’ambiente politico istituzionale si propone di individuare l’insieme delle politiche adottate dai governi in materia di attività economica, che possono influenzare l’assetto competitivo di alcuni settori. In particolare, i fattori politico-istituzionali riguardano regolamentazioni governative, settoriali e legali, formali ed informali, alle quali l’impresa dovrebbe attenersi entrando in uno specifico contesto: ad esempio la regulation/deregulation20 di alcuni settori, le leggi ambientali, la politica fiscale, la normativa dell’impiego, la tutela della concorrenza, il diritto societario (corporate governance), il diritto dei consumatori così come le restrizioni al commercio e tariffe e gli accordi internazionali di cooperazione economica.

20 La deregulation è la politica mediante la quale lo Stato interviene nell’economia abolendo vincoli e misure protezionistiche. Essa è, pertanto, all’origine di forti cambiamenti negli assetti della competizione. Basti pensare alla deregulation delle telecomunicazioni in Europa che ha dato origine ad uno dei mercati più competitivi del mondo (Pellicelli, 2002).

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Come forze del macro-ambiente tali elementi possono influenzare in misura più o meno accentuata le prospettive di profitto e possono configurarsi come minacce o opportunità per tutte le imprese indipendentemente dal loro ambito settoriale (Grant, 1999)21. In un’ottica di internazionalizzazione delle imprese, che interagiscono con un contesto ambientale più esteso e che travalica i confini geografici nazionali, può essere considerato, inoltre, il peso che le differenze politico-istituzionali esistenti tra il contesto d’origine e il contesto obiettivo esercitano sull’attività delle imprese (Xu e Shenkar, 2002). L’analisi dell’ambiente politico-istituzionale dovrebbe, in sintesi, rispondere a domande, quali ad esempio: − quali sono i prevedibili cambiamenti nella politica economica nazionale ed internazionale? Quale sarà il loro impatto sui diversi settori industriali? − quali sono i paesi che stanno incentivando l’ingresso di imprese straniere attraverso abbassamenti tariffari, incentivi fiscali o misure di tutela per il capitale estero investito? − in che misura i diversi provvedimenti fiscali possono influenzare il comportamento delle imprese? L’ambiente socio-culturale

Scopo prevalente dell’analisi dell’ambiente socio-culturale è quello di identificare i modelli culturali prevalenti e i loro futuri cambiamenti nei diversi contesti-paesi paese dove l’impresa è presente o ha intenzione di entrare. Ciò nella considerazione del fatto che credi e valori fortemente radicati sul territorio sono in grado di influenzare le motivazioni, i processi decisionali ed i comportamenti di acquisto dei consumatori, i comportamenti delle imprese, nonché la propensione alla collaborazione di queste ultime (Calvelli, 1998). Fanno parte dell’ambiente socio-culturale l’insieme dei valori, credi, tradizioni, linguaggi, stili di vita22, tipici delle diverse culture, nonché le modalità organizzative proprie della società civile (sindacati, organizzazioni politiche, etc.). Tali fattori risultano strettamente interconnessi (Valdani, 1995): la cultura, la sub-cultura, la stratificazione delle classi sociali, i gruppi sociali determinano, infatti, i valori, le personalità e gli stili di vita degli individui. In particolare, la cultura fornisce norme di comportamento che costituiscono il patrimonio ereditario di una collettività, che giocoforza influenzano anche i modelli di comportamento di acquisto e di consumo. L’analisi dell’ambiente socio-culturale dovrebbe, in sintesi, rispondere a domande, quali ad esempio: - quali sono i trend attuali ed emergenti negli stili di vita, nelle mode e nella cultura del paese? Perché si stanno verificando? - quali implicazioni presentano per la condotta attuale e futura delle imprese? L’ambiente demografico

L’analisi dell’ambiente demografico si prefigge l’obiettivo di individuare le principali tendenze relative alla struttura demografica della popolazione appartenente al contesto paese in cui l’impresa opera o intende operare in futuro.

21 In riferimento al diverso impatto che i fattori macro ambientali possono esercitare sui settori industriali e sulle imprese in essi operanti, Grant (1999) evidenzia come alcune problematiche generalmente tralasciate perché non considerate prioritarie dalla maggioranza delle imprese, quali, ad esempio, il riscaldamento del pianeta, assumano una elevata importanza per specifici produttori, come quelli operanti nel settore automobilistico, petrolifero ed energetico: eventuali provvedimenti governativi per la riduzione della produzione di biossido di carbonio e di gas –responsabili dell’effetto serra- hanno, infatti, un’incidenza diretta sulla domanda dei loro prodotti e sui loro costi di produzione. 22 “Gli stili di vita possono essere definiti come modelli secondo i quali gli individui vivono e impiegano il loro tempo e le loro disponibilità economiche” (Valdani, 1995).

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L’aggregato in esame include tutti i fenomeni che incidono sulla dinamica e sulla struttura della popolazione, in termini di classi di età, sesso e gruppi etnici. Variabili significative dell’ambiente demografico sono, pertanto: il tasso di crescita della popolazione, la sua stratificazione per età, il numero medio dei componenti per famiglia, il tasso di natalità e di mortalità, il grado di urbanizzazione, la struttura e l’andamento dell’occupazione, nonché la direzione e l’intensità dei flussi migratori interni, da e per l’estero. Le variabili indicate presentano effetti socio-culturali facilmente prevedibili che si ripercuotono sulla dinamica dei consumi e, quindi, sulle politiche di marketing delle imprese (Valdani, 1995). Esse, infatti, influenzando i bisogni del consumatore, i comportamenti d’acquisto e la dimensione dei potenziali mercati, determinano il grado di elasticità e di dinamicità della domanda di mercato e possono variamente alterare i margini di profitto realizzabili dalle imprese. L’analisi dell’ambiente demografico dovrebbe, quindi, rispondere a domande, quali ad esempio: − quali trend demografici influenzeranno le dimensioni e la composizione della domanda del settore? Con quali modalità? − quali cambiamenti demografici rappresentano opportunità e quali minacce? L’ambiente tecnologico

La tecnologia rappresenta una delle variabili ambientali che ha maggiormente stimolato lo sviluppo delle imprese, e, più in generale, i principali mutamenti nella vita degli uomini. L’innovazione tecnologica23 costituisce, infatti, uno dei fattori che più di altri contribuisce alla crescita economica, attraverso l’incremento dell’efficienza con la quale il sistema economico soddisfa i bisogni dei consumatori (Valdani, 1995). L’ambiente tecnologico viene analizzato, in questo ambito, soprattutto per la sua potenziale incidenza sulle fonti del vantaggio competitivo e sulle relazioni concorrenziali fra imprese. Le sue variabili costituenti (in particolare, attività di R&S, processi di automazione, incentivi tecnologici, tasso di cambiamento tecnologico) possono, infatti, abbassare le barriere strutturali all’entrata in un settore industriale, aumentare i livelli di efficienza della produzione ed influenzare le decisioni di outsourcing. Si consideri, ad esempio, l’impatto attuale e potenziale delle innovazioni connesse alle biotecnologie che vengono impiegate nell’industria alimentare o per la produzione di prodotti di qualità superiore; ai nuovi materiali che comportano nuove opportunità per le imprese o alle tecnologie dell’informazione ed alle loro applicazioni. Lo sviluppo tecnologico ha permesso un progressivo miglioramento della produttività degli impianti che ha innalzato i livelli minimi di produzione necessari per poter sfruttare economie di scala e raggiungere, quindi, l’efficienza produttiva. Per tale ragione le imprese sono state nello stesso tempo incentivate ad aumentare la produzione e costrette a ricercare nuovi mercati di sbocco per collocare l’eccedenza. D’altro canto la rapida saturazione dei mercati di sbocco ha spinto le imprese alla ricerca di una continua innovazione e/o specializzazione ed ha elevato i tassi di dinamicità industriale (Petersen e Pedersen, 1999)24. Quando l’innovazione si è poi progressivamente spostata verso le tecnologie dell’informazione (attraverso l’utilizzo dell’elettronica nella programmazione, nel controllo e nella gestione degli impianti e dei macchinari) per le imprese si è aperta la possibilità di conseguire nuovi vantaggi competitivi,

23 “L’innovazione tecnologica viene comunemente intesa come lo sviluppo, per fini commerciali, di nuovi prodotti o di nuovi processi, o come il miglioramento di prodotti o processi esistenti”. (Gambardella, 1995) 24 A sostegno di quanto su affermato, Petersen e Pedersen (1999) hanno ricordato che durante gli anni ’60 e ’70 i produttori giapponesi operanti nel settore dell’elettronica di consumo, furono i primi a raggiungere nuovi livelli di efficienza che permisero loro di entrare (esportazione) nel mercato statunitense e dell’Europa occidentale con prezzi sensibilmente minori rispetto ai concorrenti locali. Tutto ciò permise alle imprese giapponesi di cambiare la situazione competitiva nei settori industriali dei suddetti paesi (Petersen e Pedersen, 1999).

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legati alla capacità di variare velocemente la produzione in funzione delle variazioni della domanda (economie di scopo). La tecnologia può essere definita in prima istanza come lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche patrimonio dell’umanità in un determinato momento. Nell’insieme delle conoscenze scientifiche e tecniche patrimonio dell’umanità, possono essere riconosciute due tipi di tecnologie: generiche e specifiche. La tecnologia elettrica e quella informatica, per esempio, sono di tipo generico in quanto si prestano a molteplici applicazioni; al contrario, la tecnologia specifica si caratterizza per l’uso specifico al quale è rivolta (si pensi alla tecnologia aerospaziale od alla produzione della gomma sintetica). Se una tecnologia generica è caratterizzata anche da elevata pervasività (per esempio l'elettricità e l'informatica), essa è destinata ad influenzare notevolmente la vita economica e sociale (i punti della diffusione del computer e delle comunicazioni cellulari). La pervasività di una tecnologia attiene al modo di ridursi del costo delle prestazioni della tecnologia stessa nel tempo, riduzione di costo che si riflette sul prezzo e quindi sulla possibilità che la tecnologia si diffonda (pervada) molteplici aspetti della vita economica e sociale in generale. In una seconda eccezione del termine, riferita all’impresa, la tecnologia è il patrimonio di conoscenza scientifica e tecnica e di processi produttivi che un'impresa detiene in un determinato momento. Nell’individuare le caratteristiche salienti dei diversi modelli di un processo produttivo è possibile dare una classificazione di essi che fa perno su due variabili fondamentali: la varietà e la produttività25 L’analisi dell’ambiente tecnologico dovrebbe, in sintesi, rispondere a domande, quali ad esempio: - in quale fase del ciclo di vita si collocano le tecnologie tradizionali che dominano attualmente il mercato? - quali nuove tecnologie stanno emergendo? Quale sarà il loro impatto sulle scelte strategiche delle imprese? - come sfruttare le nuove tecnologie dell’informazione (es. internet)? Emerge dalle considerazioni fino ad ora proposte una concezione del macro-ambiente come sistema con il quale le imprese stabiliscono stretti rapporti di interdipendenza. 3.1.2. L’analisi del microambiente

Il micro-ambiente (o ambiente competitivo) è costituito da tutte quelle forze, fenomeni ed attori che, operando nello specifico campo di attività dell’impresa, ne influenzano scelte strategiche e performance. Tali forze e soggetti determinano, infatti, l’intensità della concorrenza e influenzano le prospettive di redditività dell’impresa e dei suoi concorrenti.

L’analisi dell’ambiente competitivo mira all’individuazione del campo di attività nel quale l’impresa intende competere e, quindi, dei soggetti con cui l’impresa deve interagire al fine di ottenere un efficace posizionamento competitivo (Genco, Ferrara, 1995). Essa risponde a una duplice finalità: da un lato, consente di individuare il luogo in cui avviene il confronto competitivo tra le imprese e gli specifici business nei quali l’impresa intende operare; dall’altro, aiuta a comprendere le forze che, nei singoli business, impattano sulla competitività delle imprese.

Sotto il profilo metodologico, lo studio delle specificità del micro-ambiente prevede quattro momenti fondamentali (Buratti, 1995):

25 La produttività –come è già stato visto- puo’ essere definita come “il flusso fisico di beni che si intende raggiungere (produttivita’ ex-ante) o quello effettivamente raggiunto (ex-post) in un determinato intervallo di tempo” mentre la varieta’ (effettiva o potenziale) della produzione puo’ essere a sua volta definita come il numero di famiglie di prodotti diversi che l’impresa è in grado di realizzare nello stesso intervallo di tempo. Per approfondimenti si veda Vito G., Innovazione tecnologica e governo d’impresa. La funzione tecnico produttiva, Giappichelli, 2000.

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Economia e gestione delle imprese – Prof. Giuseppe Vito 52

1) definizione dei confini del campo d’indagine, attraverso la definizione del settore e delle aree

strategiche d’affari (ASA) in cui l’impresa opera; 2) analisi delle caratteristiche strutturali della o delle aree strategiche d’affari individuate e studio

delle dinamiche competitive che la o le caratterizzano, attraverso lo studio delle forze dell’ambito competitivo;

3) ricostruzione, all’interno dell’ambito competitivo, dei principali raggruppamenti strategici; 4) individuazione, all’interno dei raggruppamenti strategici più importanti, dei principali

concorrenti e selezione degli indicatori sintetici da adottare nel processo di sorveglianza. Il successo di un’impresa non si basa, infatti, solo sulla capacità di individuare le opportunità e le minacce che si generano nell’ambiente esterno, ma anche sull’abilità di valutare il comportamento attuale e potenziale dei concorrenti e di scegliere, nell’ambito delle possibili alternative, quelle più rispondenti al patrimonio di competenze e risorse consolidate al suo interno.

In realtà, l’analisi del micro-ambiente sottolinea, in un’ottica dinamica, la necessità da parte degli

operatori, di passare da una valutazione “subita” dal mercato ad una valutazione metabolizzata dall’impresa.

In tal senso, i concetti di settore e ASA26, rispondono all’esigenza delle imprese di individuare le opportunità di business che emergono dalla struttura e dall’evoluzione del mercato. Tale finalità è perseguita attraverso l’utilizzo di meccanismi oggettivi di analisi del mercato quali la dotazione tecnologica, merceologica o legata alla natura dei bisogni espressi dai consumatori.

Non tutte le imprese pervengono, tuttavia, agli stessi risultati. Le imprese guardano, infatti, al risultato di tali analisi con capacità interpretative ed analitiche diverse, in quanto differenti sono le risorse e le competenze che esse possono sfruttare in vista del raggiungimento di un dato obiettivo strategico.

L’analisi a questo punto si sposta verso l’angolo visuale dell’impresa che, con la propria dotazione di risorse e competenze, guarda al settore o all’ASA attraverso le lenti del pianificatore aziendale. Da questo angolo visuale, ogni impresa identifica un proprio mercato di riferimento, caratterizzato da specifiche forze che, più di altre, agiscono sulla competitività dell’impresa. A tale finalità risponde lo strumento di pianificazione ideato da Porter (1980), che consente di standardizzare gli strumenti di verifica del mercato di riferimento delle imprese, definito ambito competitivo.

3.2. Le forze dell’ambito competitivo: il modello della concorrenza allargata di Porter

È utile analizzare le caratteristiche strutturali e le dinamiche competitive che caratterizzano l’ambiente in cui opera l’impresa.

In questo senso, l’analisi può essere condotta sulla base del modello della concorrenza allargata di

Porter (1980), che propone una pluralità di soggetti che esprimono specifiche forze competitive in grado di influenzare la redditività e l’attrattività di un business.

La redditività di un ambito competitivo (data dal rapporto fra rendimento e costo del capitale) dipende, infatti, dall’intensità della concorrenza all’interno dello stesso e, quindi, dall’interazione di cinque forze: i concorrenti diretti, i concorrenti indiretti, i concorrenti potenziali, i fornitori e i clienti (Porter, 1980). L’effetto congiunto di queste forze determina il profitto potenziale finale ossia la possibile remunerazione a lungo termine del capitale investito.

26 I concetti di settore ed ASA verranno spiegati nei paragrafi successivi del capitolo.

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L’influenza esercitata dalle singole forze non è la stessa in tutti i settori, al contrario il tipo di attività svolta dalle imprese, la loro dimensione media dell’azienda, la numerosità dei clienti e/o dei fornitori e la loro forza contrattuale determinano la maggiore o minore rilevanza di una forza rispetto alle altre.

Schematicamente, l’influenza esercitata dalle cinque forze e le variabili da cui dipende il loro impatto possono essere rappresentate come nella figura seguente.

Figura 3.1 Le forze dell’ambito competitivo

Fonte: ns. elaborazione da Porter (1980) La concorrenza effettiva: rivalità tra i concorrenti esistenti

Con il termine concorrenza effettiva ci si riferisce ai concorrenti diretti dell’impresa, cioè all’insieme delle imprese che producono la stessa tipologia di beni o servizi e che, quindi, sono in competizione diretta tra loro per acquisire posizioni di mercato più favorevoli rispetto a quelle dei concorrenti.

L’intensità della competizione, espressa dal grado di rivalità tra i concorrenti, costituisce uno dei principali fattori strutturali capaci di influenzare lo stato della concorrenza e, conseguentemente, il grado di redditività e attrattività del business. Quanto maggiore è la rivalità tra le imprese che operano nello stesso ambito competitivo, tanto minori saranno infatti le prospettive di redditività nel lungo periodo, che riducono, di conseguenza, l’attrattività del business stesso. L’intensità della concorrenza diretta è funzione di numerosi fattori, tra i quali troviamo, in particolare:

Rivalità tra concorrenti esistenti

Concentrazione. Differenziazione del prodotto. Capacità in eccesso e barriere all’uscita. Condizioni di costo.

Potere dei fornitori I fattori che determinano il potere dei fornitori rispetto ai produttori sono analoghi a quelli che determinano il potere dei produttori rispetto agli acquirenti (vd. potere dei clienti)

Minaccia di nuove entrate Economie di scala, vantaggi assoluti di costo, fabbisogno di capitale, differenziazione del prodotto, accesso ai canali di distribuzione, barriere istituzionali e legali, reazioni da parte delle imprese esistenti.

Minaccia di prodotti

sostitutivi Propensione degli

acquirenti alla sostituzione.

Prezzi dei prodotti sostitutivi

Potere dei clienti Sensibilità di prezzo: costo del prodotto rispetto al costo del totale. Differenziazione del prodotto. Concorrenza tra gli acquirenti. Potere contrattuale: dimensione e concentrazione degli acquirenti rispetto ai fornitori, costi di sostituzione per gli acquirenti, informazione degli acquirenti, capacità di integrazione a monte degli acquirenti.

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a. Il grado di concentrazione del business Ci si riferisce, in particolare, al numero e alla distribuzione per dimensione delle imprese concorrenti ed all’indice di concentrazione del settore27 (indice rappresentativo della distribuzione delle quote di mercato delle imprese)28.

b. La diversità dei concorrenti. L’intensità della concorrenza diretta dipende, anche, dalla somiglianza che le imprese presentano in termini di origini, obiettivi perseguiti, costi e orientamenti strategici. Se le imprese presentano similitudini nei comportamenti e nelle strutture competitive è, infatti, probabile che la rivalità tra le stesse sia maggiore, con conseguente diminuzione della redditività di lungo periodo. Al contrario, nei business dove le imprese mostrano caratteri strutturali diversi, la competizione appare meno accentuata.

c. La differenziazione del prodotto o servizio Il grado di concorrenza all’interno di un’area competitiva risulta correlato in senso inverso al livello di differenziazione dei prodotti o servizi offerti. Più i prodotti appaiono sostanzialmente omogenei, più i clienti saranno indotti a sostituirli tra loro in base al prezzo. I prodotti o servizi poco differenziati o indifferenziati (commodity) risultano, infatti, perfettamente sostituibili e il prezzo costituisce l’unica variabile competitiva su cui le imprese si confrontano. La differenziazione dei prodotti o servizi mette, invece, le imprese dell’area competitiva al riparo da possibili guerre di prezzo, riducendo l’importanza del fattore prezzo come base per la competizione. La competizione si gioca in questo caso più sulle caratteristiche tangibili e intangibili dei prodotti, sull’immagine, sulla marca, con conseguenti miglioramenti per le prospettive di redditività delle imprese, sempre che le spese riconducibili a tali comportamenti non siano troppo elevate.

d. La capacità produttiva in eccesso e le barriere all’uscita L’intensità della competizione diretta tra imprese è funzione anche del rapporto che esiste tra dimensione della domanda e dimensione dell’offerta in un determinato business e, in particolare, del fatto che esista o meno capacità produttiva in eccesso (la dimensione dell’offerta supera quella della domanda). Tale eccedenza di offerta può essere la risultante sia di una contrazione nella domanda da parte dei clienti, sia di un eccesso di investimenti da parte delle imprese. Se all’interno di un ambito competitivo è presente capacità produttiva inutilizzata, le imprese saranno indotte a competere sui prezzi per evitare di perdere i propri volumi di vendita. Una loro riduzione comporterebbe, infatti, costi medi unitari sempre più elevati che nel medio-lungo termine potrebbero compromettere l’economicità, se non addirittura la sopravvivenza stessa delle imprese. La competizione, in questi casi, è tanto più aspra, quanto più le imprese detengono strutture produttive rigide, con elevate percentuali di costi fissi che occorre distribuire su ampi volumi di vendita. L’effetto negativo che tali politiche di prezzo hanno sulla redditività di tutta l’area competitiva può durare a lungo se esistono barriere all’uscita. Tali barriere all’uscita sono costi, ovvero ostacoli di natura economica o sociale, che un’impresa deve sostenere quando intende uscire da un determinato ambito competitivo. Le barriere all’uscita risultano essere particolarmente elevate quando: - l’impresa utilizza

27 L’indice di concentrazione più comune è quello di concentrazione industriale, dato dall’insieme delle quote di mercato dei produttori principali (in genere i primi quattro). Le quote di mercato possono essere calcolate utilizzando diversi parametri: numero degli addetti, volume della produzione, risorse tecnologiche, fatturato. Un indice di concentrazione relativo alle prime quattro imprese che operano in un business pari al 75% indica una situazione di elevata concentrazione, dove quattro imprese detengono il 75% del fatturato complessivo del mercato e dominano di fatto l’area competitiva. Al contrario, indici di concentrazione molto bassi sono rappresentativi di situazioni concorrenziali frammentate, dove nessuna impresa è in grado di condizionare le dinamiche competitive. Tale dato sulla concentrazione assoluta non appare però sufficiente; esso dovrebbe essere integrato dal dato sulla concentrazione relativa che considera come si distribuiscono le quote di mercato rispetto al valore medio. 28 Se nel business A sono presenti 100 imprese e nel business B 10 imprese non è affatto detto che il business B sia quello più concentrato. Nel business A, infatti, l’impresa leader potrebbe detenere una quota di mercato pari al 60%, mentre nel business B il mercato potrebbe essere equi ripartito e, conseguentemente, ciascuna impresa detenere quote di mercato pari al 10%.

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impianti altamente specializzati, difficili da convertire per altre produzioni; - sono alti i costi fissi di uscita, cioè quei costi relativi all’interruzione dei contratti di lavoro o alla ricostituzione dell’attività produttiva; - sono elevate le interdipendenze strategiche tra il business che l’impresa intende abbandonare e le altre attività dell’impresa. In particolare, l’uscita da un business è difficile quando la presenza in esso è funzionale alla posizione competitiva che l’impresa detiene in altre attività; - esistono ostacoli da parte di attori istituzionali (ad esempio il Governo che intende salvaguardare i livelli occupazionali o la situazione economica di una data area geografica).

e. Il tasso di crescita della domanda è utile considerare anche i tassi di crescita della domanda e dell’offerta. Un basso tasso di crescita della domanda, a parità di offerta, comporta una maggiore rivalità tra i concorrenti esistenti e, pertanto, minori prospettive di redditività nel lungo periodo. In caso di rallentamenti nei tassi di crescita della domanda, frequenti nei settori maturi, l’unico modo che hanno le imprese per incrementare le proprie vendite è, infatti, quello di conquistare le quote di mercato detenute dagli altri concorrenti attraverso strategie aggressive.

f. La struttura dei costi Se le imprese appartenenti ad un determinato ambito competitivo detengono una struttura produttiva caratterizzata da un’elevata percentuale di costi fissi, la volontà di sfruttare al massimo la capacità produttiva favorirà una competizione basata sul prezzo. Le imprese cercheranno, in definitiva, di attrarre il maggior numero di clienti possibile, in modo da massimizzare i volumi di vendita e ottimizzare lo sfruttamento della capacità produttiva. Se, inoltre, esiste un eccesso di offerta rispetto alla domanda, le imprese potrebbero essere indotte a spingere il livello dei prezzi fino a quando non si annulli il margine di contribuzione e cioè fino a quando il prezzo di vendita riesca a coprire almeno i costi variabili. Tali comportamenti presentano però conseguenze a volte anche disastrose per la redditività di tutte le imprese che operano nel business29. Al contrario, quando la struttura dei costi delle imprese risulta più flessibile, composta cioè in gran parte da costi variabili, la competizione appare poco centrata sul prezzo.

La concorrenza verticale : i clienti ed i fornitori

Per lo svolgimento della propria attività, le imprese devono approvvigionarsi degli input di cui hanno bisogno (input produttivi, quali materie prime e semilavorati, risorse finanziarie, forza lavoro, servizi logistici, ecc.) e devono individuare un mercato per il proprio output. Per ogni tipologia di scambio, è, quindi, possibile individuare uno specifico mercato (di approvvigionamento o di sbocco) nel quale l’impresa si relaziona con due tipologie differenti di soggetti: i clienti e i fornitori.

Tali soggetti costituiscono importanti forze dell’ambito competitivo: i clienti, ricercando migliori rapporti prezzo/qualità, intensificano infatti la concorrenza tra le imprese, mentre i fornitori influenzano in modo rilevante i livelli dei costi delle imprese.

Essi esercitano, quindi, una pressione competitiva “verticale” sulle imprese che operano nel business, influenzandone le prospettive di redditività di lungo periodo e, conseguentemente, l’attrattività del business stesso.

L’intensità della pressione competitiva dei clienti e fornitori dipende, in particolare, dal potere economico espresso dalle parti, dalla tipologia di fattori oggetto dello scambio e dal livello di concorrenza orizzontale (concorrenti diretti, indiretti e potenziali) con cui le imprese del business si confrontano.

29 Tale comportamento delle imprese ha avuto impatti devastanti per settori quali il trasporto aereo, l’acciaio, i pneumatici e la

petrolchimica, tutti caratterizzati da un elevato livello di costi fissi.

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Partendo dall’analisi dei clienti, appare chiaro che quanto più i clienti detengono potere contrattuale nelle transazioni con l’impresa, tanto più tali soggetti saranno portati a richiedere condizioni negoziali a loro favorevoli quali riduzioni nei prezzi di vendita, tempi di pagamento più lunghi, miglioramenti nei servizi di assistenza, riduzioni nei lotti minimi di ordinazione, consegne più frequenti, elevata qualità dei prodotti o servizi, ecc. Tali condizioni tenderanno, però, ad incrementare i costi delle imprese del settore (che si trovano nella posizione di fornitori), diminuendone la redditività30.

Le stesse considerazioni possono essere effettuate in maniera speculare considerando i fornitori dell’impresa, la quale si trova in questo caso nella posizione di cliente.

Il potere contrattuale dei fornitori risulta in questo caso maggiore quando il mercato della fornitura è più concentrato di quello degli acquirenti imprese, aumenta al crescere della specificità e dell’importanza degli input per il processo produttivo dei clienti e dei costi di riconversione, diminuisce al crescere delle informazioni che le imprese clienti hanno sulla domanda, sui prezzi di mercato e sui costi di produzione dei fornitori e nel caso i clienti siano in grado di integrarsi a monte. La concorrenza potenziale: minaccia di nuove entrate e di prodotti sostitutivi

L’espressione concorrenza potenziale si riferisce alla minaccia che nuovi competitor, attratti da elevati livelli della redditività potenziale, entrino nel settore (o meglio nello specifico business) e ne alterino gli equilibri. Per fronteggiare tale rischio, le imprese devono cercare di ridurre l’attrattività del settore e ciò è possibile innalzando le c.d. barriere all’entrata, cioè ostacoli all’ingresso31.

Le imprese che producono beni o servizi sostitutivi costituiscono un’ulteriore forza riconducibile

alla concorrenza indiretta. I prodotti o i servizi sostitutivi, pur avendo caratteristiche merceologiche differenti ed appartenendo quindi ad altri ambiti competitivi, assolvono di fatto la stessa funzione d’uso dei prodotti o servizi delle imprese che operano in diretta concorrenza nel settore. In particolare, due beni o servizi possono essere considerati sostitutivi quando presentano un’elevata elasticità incrociata tra di loro.

La presenza di tale forza competitiva può incidere a volte anche notevolmente sulla redditività del business, in quanto il prezzo che i consumatori sono disposti a pagare per un dato prodotto risulta influenzato proprio dalla possibilità di scegliere altri beni che siano sostitutivi rispetto al prodotto considerato. Ogni qualvolta il prezzo dei prodotti o servizi del settore supera quello che i consumatori sono disposti a pagare, essi sposteranno infatti la domanda verso i sostituti.

Si dice, quindi, che la presenza di prodotti sostitutivi rende elastica la domanda, determina cioè una maggiore sensibilità di questa rispetto al prezzo.

La presenza di prodotti o servizi sostitutivi dipende in particolare dalla complessità dei bisogni che occorre soddisfare: più complessi sono i bisogni che i consumatori intendono soddisfare con un dato prodotto o servizio, maggiori saranno le differenze nella percezione delle prestazioni dei diversi prodotti e quindi minore la probabilità di esistenza di sostituti.

Le imprese che operano nel settore possono, inoltre, adottare alcune misure al fine di limitare la pressione competitiva di tale forza concorrenziale. Esse potrebbero, infatti: � differenziare il prodotto/servizio per cercare di ridurre la sostituibilità da parte della domanda; � rafforzare i legami con i clienti attraverso la comunicazione, forti politiche di marca o

miglioramento del sistema distributivo;

30 Un alto potere contrattuale del cliente attiene alla possibilità del cliente di estorcere condizioni a lui favorevoli (Es. alto numero di imprese che offrono lo stesso prodotto o prodotti tra loro sostituibili; elevata quantità di informazioni a disposizione del cliente consente di effettuare un confronto tra i diversi fornitori e negoziare le condizioni migliori). Viceversa, un basso potere contrattuale del cliente implica il rispetto delle condizioni imposte dall’impresa (ciò può esser legato, ad esempio, ad i costi di conversione, ossia ai costi che il cliente dovrebbe sostenere nel caso in cui decidesse di cambiare impresa da cui approvvigionarsi). 31 Le barriere all’entrata verranno specificate nel prossimo paragrafo.

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� migliorare il rapporto qualità/prezzo.

3.3 Le barriere all’entrata

La struttura dell'offerta di un determinato settore economico presenta una caratteristica molto importante: la maggiore o minore facilità di entrata da parte di nuove imprese. Si definiscono barriere all'entrata gli ostacoli (di carattere economico, finanziario, tecnologico, giuridico) che possono frapporsi a potenziali ingressi di nuovi produttori-venditori nel settore considerato. Esse trovano espressione nei costi addizionali che i potenziali nuovi entranti dovrebbero sostenere rispetto ai costi delle imprese già operanti nel settore. Pertanto, si possono distinguere:

• settori bloccati: sono caratterizzati da alte barriere all’entrata (ad esempio, i settori del trasporto ferroviario e del trasporto marittimo);

• settori aperti: sono caratterizzati da basse barriere all’entrata.

E' importante precisare che non esiste un unico livello delle barriere all’entrata, ma una pluralità di barriere per ciascun potenziale entrante, in funzione delle risorse che questi è in grado di mobilitare e a seconda degli obiettivi competitivi. Le barriere all'entrata costituiscono una parte importante della struttura di un settore; a seconda del livello delle barriere si determina la facilità con la quale i potenziali concorrenti possono stabilirsi con profitto in un settore. Tra le diverse tipologie di barriere all'entrata si riconoscono le seguenti:

� Barriere di tipo regolamentare: si riferiscono ai vincoli di natura legislativa per l'esercizio di determinate attività; ad esempio, per esercitare la professione di commercialista occorre la laurea in economia o scienze politiche, avere svolto tre anni di praticantato presso uno studio professionale e aver superato l’esame di stato;

� Barriere di tipo finanziario: si riferiscono ai vincoli di natura finanziaria per svolgere un'attività di impresa legato quindi ai capitali necessari per operare in un determinato settore;

� Barriere di tipo tecnologico: si riferiscono ai vincoli di natura tecnologica. Le barriere all’entrata si traducono, in via generale, in costi addizionali che le imprese nuove entranti devono sostenere per entrare in competizione con le altre che già operano sul mercato. Più è elevato il livello dei costi che l’impresa deve sostenere, sia in termini di costi variabili, che in termini di costi fissi (nuovi investimenti, le quote di ammortamento e gli interessi su debiti più elevati), tanto maggiore sarà il prezzo di mercato da applicare per raggiungere il punto di pareggio (Break-Even-Point). Una diversa classificazione delle barriere all’entrata è la seguente:

• barriere di costo assoluto (o di livello assoluto dei costi); • barriere di scala; • barriere di differenziazione.

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Da una prima osservazione delle suddette classi di barriere all’entrata, si può notare che le prime due (barriere di costo assoluto e barriere di scala) derivano da questioni economico-finanziarie, non hanno origini regolamentari o giuridiche e tecnologiche; le barriere di differenziazione, invece, che hanno un’origine “mista”, attengono alla capacità dell’impresa di sfruttare al meglio le proprie tecnologie, le proprie competenze per differenziare il proprio prodotto da quelli di altre imprese. 3.3.1. Barriere di costo assoluto Sorgono quando le imprese che già operano da tempo nel settore, per effetto di rapporti privilegiati con i loro fornitori, possono accedere a fattori produttivi di qualità migliore a parità di prezzo o di prezzo inferiore a parità di qualità; quindi, per qualsiasi livello di scala, possono produrre a costi minori di quelli dei potenziali nuovi entranti. Esse insorgono in presenza di:

• offerta di risorse e fattori di produzione scarsi; • accesso esclusivo a determinate tecniche produttive, mediante brevetti, licenze, vantaggi di

Ricerca e Sviluppo (R&S), ecc. Risulta evidente che le imprese "anziane" possono accedere a fattori produttivi quali, ad esempio, il lavoro, le materie prime, i semilavorati, a condizioni migliori rispetto alle nuove entranti. Per quanto attiene il lavoro, l’impresa che nasce deve svolgere l’attività di indottrinamento delle risorse umane. Inoltre, l'impresa che opera da tempo in un settore può avvantaggiarsi di un rapporto preferenziale con il sistema creditizio ai fini dell’acquisizione del capitale di credito; ciò si esplicita in condizioni di acquisizione del capitale più vantaggiose rispetto a quelle di un’impresa nuova. Queste considerazioni sono molto importanti quando si va ad esaminare la produttività di un’impresa nuova entrante, che intende investire in un determinato settore industriale; ciò vale sia per le imprese che nascono, ma anche per le imprese che già operano in un settore e che intendono avviare un processo di diversificazione (cioè intendono produrre altri prodotti o prodotti migliori). Le barriere di costo assoluto, dunque, insorgono in quanto l’offerta dei mercati dei fattori di produzione è scarsa; tali fattori sono per loro natura scarsi; i sistemi economici, dunque, operano sempre con il vincolo delle risorse. Inoltre, tali barriere traggono origine anche dalla possibilità di accesso esclusivo a certe tecniche produttive come brevetti, licenze, ecc. 3.3.2. Barriere di scala Il fattore che contribuisce maggiormente alla formazione delle barriere all’entrata è rappresentato dalle economie di scala: quanto maggiori sono le economia di scala, tanto più alta è la barriera all’entrata. Le economie di scala32 rappresentano una “diminuzione del costo medio unitario del prodotto o servizio venduto, attribuibile all’aumento del volume cumulato di produzione”. Il raggiungimento di economie di scala deriva dal fatto che all’aumentare della produzione si riduce l’incidenza dei costi fissi sui costi totali e ciò determina una riduzione dei costi unitari del prodotto. Queste costituiscono una barriera importante in quanto i nuovi competitor, per competere sul prezzo, sono obbligati a produrre sulla stessa scala, ma ciò li espone al rischio di una sottoutilizzazione degli impianti; non è detto infatti che i nuovi entranti riescano a realizzare subito grossi volumi di vendita. In alternativa, essi 32 Bisogna distinguere il concetto di economia di scala dal concetto di economia di scopo (o di raggio d’azione). Quest’ultima è legata alla riduzione del costo unitario dell’output prodotto in conseguenza alla produzione congiunta di due o più beni. Economie legate, dunque, alla presenza di capacità produttive non completamente utilizzate o a fattori di produzione con capacità produttiva illimitata (es. marchi, know how).

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possono decidere di entrare su una scala inferiore, in tal caso sosterranno però costi unitari superiori e dovranno decidere di competere su variabili diverse dal prezzo. Qualora le imprese già presenti nel settore operino in corrispondenza di una DOM quantitativamente elevata (dimensione ottima minima indicante il volume di produzione in corrispondenza del quale l’impresa produce a costo medio unitario minimo), qualsiasi nuovo entrante deve assumere una decisione difficile quale quella di entrare un settore seppur con un livello di produzione al di sotto della DOM (volumi di produzione più bassi e costi medi più alti) valutando attentamente l’aumento dei suoi costi medi di produzione oppure attuando un livello di produzione pari alla domanda. La scelta che deve affrontare il nuovo entrante è collegata alla teoria dell'entrata che fa dipendere la decisione di entrare nel settore dalla situazione di redditività che, presumibilmente, si verificherà dopo l’entrata, situazione a sua volta dipendente dalla reazione delle imprese in esso operanti. Nelle considerazioni relative alla crescita dimensionale delle imprese, si è fatto riferimento alle condizioni tecnologiche ed ambientali che favoriscono la crescita dimensionale degli impianti, fino a raggiungere una dimensione ottima minima o una dimensione efficiente massima; in particolare, si tratta di processi produttivi caratterizzati da un'elevata produttività e di ambienti sufficientemente stabili. Se all'interno di un settore ci sono imprese che già hanno raggiunto la dimensione ottima minima, cioè producono a costi medi unitari minimi, allora un’impresa che intende entrare nel settore dovrebbe acquisire una dimensione potenzialmente competitiva (la DOM), ma lavorare comunque a costi unitari più alti per effetto della inutilizzazione di parte della capacità produttiva (un'impresa nuova entrante, almeno in una fase iniziale, non potrà accaparrarsi una consistente quota di domanda). In tale caso, le imprese del settore che sono in condizioni di farlo, applicano il prezzo di deterrenza all’entrata: si tratta di regolare il prezzo ad un livello inferiore a quello che assicura alle imprese nuove entranti il tasso minimo di rendimento atteso; in questo modo si impedisce a tali imprese di operare con profitto nel settore, perchè dovrebbero applicare un prezzo maggiore. D’altra parte la situazione descritta è rappresentativa di settori in cui la riduzione dei costi unitari è particolarmente accentuata, dove le imprese devono fronteggiare una situazione di particolare difficoltà, legata alla presenza di forti economie di scala, cioè con la DOM molto elevata. Si tenga presente che difficilmente le imprese nuove entranti scelgono una dimensione pari alla DOM; spesso, le imprese assumono inizialmente una dimensione aziendale in linea con la quota di domanda effettivamente conquistabile all'inizio, cioè al di sotto della DOM; ciò significa minori volumi di produzione con prezzi più alti. Secondo quanto stabilito dalla teoria dell’entrata, pertanto, la decisione di un'impresa di entrare in un settore, sarebbe subordinata alla conoscenza precisa del livello di ricavi conseguibile, che a sua volta dipende da quello che faranno le imprese operanti. 3.3.3. Barriere di differenziazione La capacità delle imprese del settore di differenziare i propri prodotti rispetto a quelli dei concorrenti e, quindi, di renderli migliori nelle percezioni del consumatore e più rispondenti alle sue esigenze, costituisce un’importante barriera all’entrata in quanto costringe i nuovi entranti ad effettuare ingenti investimenti in pubblicità per cercare di affermare il nuovo marchio.

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3.4. Introduzione allo studio dei settori industriali Quando parliamo di settore studiamo la dinamica di aggregati di imprese che consente di capire i funzionamenti reali dei mercati. All’interno di ciascun settore, i sotto-insiemi si definiscono comparti: ad esempio, il settore dei trasporti include il comparto del trasporto ferroviario. Una delle principali problematiche posta dall’analisi di settore riguarda l’individuazione delle imprese che operano in uno stesso settore utile a definire quali sono le imprese concorrenti ed a comprendere i meccanismi di funzionamento degli ambienti competitivi. Fondamentalmente l’individuazione di un settore industriale (cioè quali imprese siano comprese in un determinato settore) non può prescindere dall’analisi degli scopi per i quali l’indagine è condotta. Infatti, a seconda del motivo per cui svolgiamo l’analisi di settore possiamo comprendere o meno in esso una determinata impresa in esame. Si può affermare che le analisi di settore possono essere finalizzate:

� ad interventi di politica economica nazionale da parte del decisore pubblico: � agli obiettivi di enti finanziatori (concessioni di crediti alle imprese); � agli obiettivi del decisore di impresa per interventi di espansione esterna (incorporazioni o

fusioni) e di espansione interna, orizzontale o verticale per la penetrazione in nuovi settori (diversificazione);

� alla costruzione di modelli del comportamento delle imprese date le condizioni strutturali o congiunturali del settore.

Le analisi di settore possono essere finalizzate ad interventi di politica economica: il decisore pubblico è interessato all’analisi settoriale, ad esempio, per concedere facilitazioni ad un determinato settore industriale. L’intervento di politica economica nazionale va sempre nella direzione di favorire alcuni settori ritenuti strategici per lo sviluppo dell’economia del paese. A queste decisioni di facilitazione e/o di finanziamenti che vengono attribuiti ai settori industriali sottostanno analisi di settore che hanno come scopo principale quello di determinare le potenzialità di sviluppo dei settori finanziati. Gli enti finanziatori (ad esempio le banche) effettuano analisi settoriali per analizzare la solvibilità delle imprese da finanziare, solvibilità legata alla congiuntura positiva o negativa interessante il settore di appartenenza delle imprese finanziate. Le imprese effettuano analisi settoriali per conoscere le imprese concorrenti, per capire i loro punti di forza e di debolezza, la dinamica dei prezzi e le tecnologie adoperate. Le imprese hanno così a disposizione uno strumento che consente loro di fronteggiare le imprese concorrenti; di valutare eventualmente una strategia di crescita esterna (incorporazione o fusione) o di espansione interna verticale od orizzontale (integrazione a monte con i fornitori od a valle con i clienti, diversificazione). L’ultima finalità dell’analisi di settore è quella di ricercare un modello interpretativo del comportamento delle imprese date alcune circostanze strutturali e congiunturali. Tale modello può rivelarsi utile all’imprenditore per interpretare le modalità di formazione del prezzo praticato dalle imprese concorrenti. Tre ordini di problemi sottostanno alla identificazione di un settore (cioè delle imprese da escludere o da includere):

� scelta di denominatore comune delle attività per raggruppare le imprese o le unità produttive;

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� individuazione delle informazioni da elaborare in funzione degli scopi dell’analisi che si vuole svolgere;

� scelta della variabile economica da esaminare. Il denominatore comune generalmente adottato per delimitare un settore è rappresentato dal prodotto. Si definiscono così, il settore automobilistico comprendente tutte le imprese che producono automobili, il settore della cantieristica navale comprendente tutte le imprese che producono navi etc. Il denominatore comune più frequentemente adottato è quello del prodotto perchè consente all’impresa di comprendere quali sono le imprese concorrenti, quante sono, e quali le loro caratteristiche distintive. Un altro denominatore comune frequentemente adoperato è il mercato. Anche la scelta delle variabili da esaminare viene fatta in funzione dello scopo per il quale l’analisi settoriale viene svolta; per esempio, una banca che deve concedere un prestito ad un’impresa che produce tappi per bottiglia esaminerà il ROI, il ROE, il rapporto di indebitamento, per essere sicura che l’impresa sia solvibile, ma baderà anche all’andamento della produzione di vino pensando che se si produce poco vino, si venderanno pochi tappi. 3.4.1 La delimitazione del settore La delimitazione di un settore industriale richiede la precisazione di una frontiera di settore tra unità (produttive o decisionali) da includere nell’insieme e quelle da escludere. La definizione dei confini settoriali (cioè della frontiera di settore) può avvenire considerando l’intersezione di quattro sotto-insiemi omogenei quanto a:

� bisogno soddisfatto; � tecnologia; � materiali; � caratteristiche commerciali.

Questo modo rigoroso di affrontare la tematica dei confini settoriali ci porta ad analizzare l’intersezione delle quattro aree che rappresenta l’area in cui ci sono imprese concorrenti effettivamente; cioè le imprese che hanno omogeneità nel prodotto, nelle tecnologie, nei materiali e fanno riferimento allo stesso mercato sono concorrenti effettivi.

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omogeneità nel bisogno soddisfatto omogeneità omogeneità tecnologiche commerciali omogeneità

nei materiali → concorrenti perfetti → concorrenti potenziali Fig. n. 3.2 – Criterio delle omogeneità per la delimitazione dei settori (Volpato,1989)

Il sistema teorico descritto consente di selezionare le imprese che effettivamente si fanno concorrenza; dove, invece, c’è intersezione solo di alcune delle aree ci troviamo di fronte a concorrenti potenziali. Un altro criterio utile per definire i confini settoriali che si riferisce solo al prodotto, è il criterio dell’elasticità incrociata della domanda. L’elasticità incrociata della domanda descrive come varia la domanda del bene A al variare del prezzo del bene B. Se una piccola variazione percentuale del prezzo del bene B influenza sensibilmente la variazione percentuale della domanda del bene A le due imprese sono concorrenti. Questo criterio è applicabile solo se parliamo di concorrenza monopolistica, che è appunto il modello di mercato in grado di descrivere l’attuale assetto concorrenziale reale. Se ci riferiamo alla concorrenza

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perfetta33, vediamo che l’aspetto principale di tale modello di mercato è che i prodotti delle varie imprese appartenenti allo stesso settore sono tutti uguali. In questo caso non vi è alcun problema per individuare le imprese appartenenti al settore, che sono tutte quelle che producono lo stesso prodotto; lo stesso tipo di ragionamento vale per il monopolio e l’oligopolio34. Il problema si pone nel modello teorico di mercato rappresentativo della situazione attuale, cioè la concorrenza monopolistica35 (o oligopolio differenziato), in cui la caratteristica fondamentale è che i prodotti sono tra loro differenziati. Se il prodotto è differenziato e se si rivolge ad un determinato segmento di mercato, allora l’impresa che lo produce opera in una sorta di regime di monopolio perchè è l’unica a produrre quel bene con quelle determinate caratteristiche di differenziazione; è questo il caso in cui si usa il criterio dell’elasticità incrociata. 3.4.2 Tipologie settoriali Il concetto di settore è stato precedentemente definito come l’insieme delle imprese che concorrono tra di loro per la produzione dello stesso prodotto o si contendono un determinato mercato o una soluzione tecnologica; quindi il settore è un aggregato omogeneo di imprese fra loro in concorrenza. Il concetto di settore può essere anche inteso come settore manifatturiero-merceologico, identificato mediante un’omogeneità tra le imprese di natura merceologica e manifatturiera che richiama alla similarità di prodotto, di processi produttivi, di materie prime. Nel settore delle pelli, ad esempio, vale la prospettiva merceologica più di quella competitiva; ciò significa includere nell'analisi di settore tutte le imprese appartenenti al settore manifatturiero-merceologico, anche se due tra queste imprese non sono in concorrenza tra di loro (una produce borse e l’altra scarpe). Nell'ambito del settore manifatturiero-merceologico si definisce un altro concetto, quello di processo terminale di settore, con il quale si individua l'insieme di lavorazioni, che secondo tecniche note, devono essere eseguite nell'ambito della stessa unità di produzione. In particolare, le imprese possono avere incorporato tutte le fasi di un processo terminale o solo alcune: in tal caso o esistono mercati di fase intermedi o esistono dei fattori di integrazione con altre imprese (ad esempio, il ciclo dei prodotti ceramici per l’edilizia); nelle situazioni reali, infatti, molte imprese possono trovarsi ad avere incorporato solo alcune fasi del processo terminale di settore e, dunque, per ottenere il prodotto finito, esse interagiscono con altre imprese (ad esempio, la produzione automobilistica).Il processo terminale di settore, dunque, è determinato dall’ampiezza delle fasi della lavorazione. Uno studioso francese ha coniato il concetto di filiera produttiva che è una ricostruzione integrale delle fasi che portano alla produzione del prodotto. La filiera è un nuovo approccio al settore, è una invenzione concettuale che può essere definita come la successione di operazioni di trasformazione che conducono alla produzione di beni o linee e gamme di prodotti. Un settore, quindi, può essere anche definito in base all’ampiezza delle fasi di lavorazione che in esso vengono svolte, cioè mediante il processo terminale di settore. Si consideri, ad esempio, la produzione

33 In questo modello è presente un gran numero di venditori ed acquirenti, nessuno dei quali è in grado di influenzare il livello dei prezzi. I prodotti o servizi risultano perfettamente sostituibili, essendo privi di caratteristiche distintive. 34 Monopolio: mercato dominato da un solo produttore a fronte di numerosi acquirenti. Oligopolio: il mercato è dominato da pochi grandi concorrenti. 35 Tale modello si situa tra la concorrenza perfetta ed il monopolio: i concorrenti appaiono numerosi, ma i prodotti o servizi risultano differenziati e, quindi, difficilmente sostituibili.

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delle piastrelle di ceramica; una volta disegnata la filiera ci si ferma a guardare le imprese che lavorano le piastrelle di ceramica che arrivano ad un prodotto monocotto, aventi un limitato processo terminale settoriale; esse hanno un’ampiezza delle fasi di lavorazione ridotta rispetto alle imprese che realizzano le piastrelle con la tecnica della bicottura. Tale configurazione di processo terminale di settore, secondo cui la produzione può essere distribuita tra più imprese in senso verticale (dalla materia prima fino al prodotto finito) costituisce un punto di riferimento per delineare i concetti di integrazione verticale e di decentramento produttivo. La configurazione di settore risultante dall’applicazione del criterio della elasticità incrociata prende, invece, il nome di settore economico manifatturiero. L’equivalenza “Settore manifatturiero=Processo terminale settoriale” è inadeguata quando si considerano imprese (settore) ampiamente dipendenti, nel loro processo terminale, da altre imprese in termini, per esempio, di fornitura, di know-how, tecnologia, ecc. In questo caso non appare corretto riferirsi al processo terminale settoriale per delimitare il settore, in quanto i fattori strategici che condizionano e supportano lo sviluppo del settore possono trovarsi al di fuori dello stesso. Per delimitare il settore, dunque, conviene riferirsi al sistema settoriale, inteso come aggregazione in base ai legami funzionali che legano il settore in esame con l’insieme di attività che ad esso forniscono input operativi strategici. La base di partenza è il processo terminale di settore, che viene allargato alle attività che ne costituiscono input. Il criterio dell’elasticità incrociata della domanda è un parametro utile per determinare il grado di sostituibilità dei beni, mediante il rapporto fra la variazione percentuale della domanda di un prodotto A per effetto di una certa variazione percentuale prodottasi nel prezzo del bene B; tale criterio evidenzia le correlazioni, sia positive che negative, tra A e B e consente, dunque, di delimitare i confini di settore. Con altre parole, il criterio dell’elasticità incrociata della domanda evidenzia il rapporto di competitività tra imprese e, dunque, nega l'identità tra settore manifatturiero, sia in termini economici che merceologici, e processo terminale settoriale. 3.5. Schema per l’analisi settoriale L’analisi settoriale si può identificare con lo studio della struttura e del comportamento di vasti aggregati di unità produttive e/o decisionali; quindi, consiste nell'esame delle modalità ricorrenti con le quali le imprese entrano tra loro in contatto reciproco come produttori (settori) o come acquirenti/venditori (mercato). La metodologia adottata nell'analisi empirica dei settori si fonda sulla griglia concettuale di Bain:

STRUTTURA COMPORTAMENTO RISULTATI del settore delle imprese economici Fig. n. 3.3 – Paradigma di Bain

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Tale schema fonda sul presupposto che esiste una relazione di causa-effetto tra la struttura, il comportamento e i risultati, ovvero la struttura influenza il comportamento ed i risultati, ma questi a loro volta, producono un nuovo assetto della struttura. In quest'ottica risulta estremamente importante circoscrivere l'analisi settoriale ad un aggregato ben definito di imprese e scegliere quali variabili osservare. La struttura del settore è data dall’insieme di variabili che costituiscono oggetto di osservazione nel lungo periodo ed è rappresentata dalla particolare conformazione del settore (grado di concentrazione, di differenziazione, di diversificazione, ecc.). Se la struttura36 di un settore è caratterizzata dalla presenza di poche imprese grandi e di una miriade di imprese piccole, allora ciascuna di queste imprese, sia le grandi che le piccole, assumerà un comportamento, in relazione alla particolare struttura del settore, dal quale si determinano i risultati. Il comportamento assunto dalle imprese nella loro ricerca del profitto, si può definire come il processo di scelta tra le variabili decisionali, e la realizzazione (implementazione) di tali scelte. Gli aspetti fondamentali del comportamento riguardano le politiche di prezzo e le politiche promozionali; la collaborazione aperta o tacita tra le imprese; la differenziazione del prodotto e la diversificazione del portafoglio di attività. Le prestazioni (risultati) si identificano nel grado di soddisfazione dei criteri di efficienza tecnica ed economica, di redditività; dei tassi di vendita raggiunti; del livello qualitativo del prodotto . Il comportamento delle imprese deve essere riguardato a diversi livelli; in particolare ci si riferisce dapprima ad un livello strategico delle scelte, poi ad un livello tattico ed ad uno operativo. Le scelte devono essere coerenti tra di loro, quella operativa con quella tattica e questa a sua volta con quella strategica. Le caratteristiche dei tre livelli decisionali che definiscono il comportamento delle imprese sono riassunte nella fig. n. 3.4. Fig. n.3.4 – Livelli decisionali e comportamentali delle imprese

Scelte Periodo Num.

variabili Variabilità Metodi Documenti Terminologia

Strategiche Lungo periodo

Alto Alta Euristici Piani Strategia

Operative Medio-breve periodo

Medio Media Misti Programmi Politica

tattiche Breve periodo

basso bassa algoritmici esecutivi Programmazione dell’azione

36 Per definire la struttura di un settore si analizzano: grado di concentrazione del settore (numero di imprese presenti); numero e caratteristiche degli acquirenti; differenziazione/omogeneità dei prodotti; presenza o assenza di barriere all’entrata; grado di integrazione verticale; esistenza di economie di scala; politiche governative; tassi di crescita delle aziende.

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3.6. Il concetto di ASA (Area strategica d’affari)

Il settore identificato mediante i criteri di omogeneità descritti costituisce un contesto oggettivo che l’impresa subisce in maniera passiva e non un elemento frutto di una scelta soggettiva e variabile nel tempo. L’identificazione dell’ambito competitivo per essere funzionale alla definizione della strategia, deve essere il risultato di un processo di natura soggettiva che consenta di identificare i concorrenti che possano influenzare le scelte dell’impresa.

Pur se il concetto di settore ha consentito di evidenziare quali elementi debbano essere considerati al fine di identificare le condizioni di concorrenza tra le imprese, nella sua visione oggettiva presenta ancora dei limiti. Tale visione, infatti, risulta limitata perché include nell’analisi solo le caratteristiche delle imprese che offrono un dato prodotto trascurando gli elementi che contraddistinguono il mercato servito e, quindi, il rapporto prodotto/mercato (Ansoff , 1965).

La definizione dell’ambito competitivo in termini di prodotto/mercato, infatti, consente di integrare la prospettiva dell’offerta con quella della domanda considerando le diverse modalità di soddisfazione di bisogni specifici di un dato segmento. Partendo da tale principio, può essere identificato un particolare ambito competitivo rappresentato dall’ Area Strategica d’Affari (Abell, Hammond, 1986).

L’Area Strategica d’Affari (ASA) viene identificata da un modello tridimensionale basato sulle seguenti dimensioni: 1. i gruppi di clienti, che identificano chi viene servito dall’impresa, sono identificati in base a differenti criteri quali le aree geografiche, le caratteristiche demografiche, gli stili di vita, i comportamento d’acquisto, ecc.; 2. le funzioni svolte per i clienti identificano le categorie di bisogni che possono essere soddisfatti da un dato bene; 3. le tecnologie che esprimono le modalità per la soddisfazione di determinati bisogni di segmenti di clienti.

Per ciascuna dimensione occorre, quindi, individuare e descrivere gli elementi che consentono di derivare l’ambito competitivo dell’impresa e dei concorrenti. Tale procedimento consente di individuare tutti i diversi possibili business (ASA), correlati ai bisogni, ai tipi di clientela e alle tecnologie nell’ambito dei quali l’impresa può operare.

L’identificazione dell’ambito competitivo, pertanto, acquisisce una dimensione soggettiva perché diviene il risultato di un processo strategico che può mutare nel corso del tempo. La selezione delle variabili che descrivono le tre dimensioni, infatti, non sono stabilite dal modello ma sono il risultato di una scelta del soggetto decisore. L’ASA viene identificata mediante la selezione di una funzione d’uso, di un gruppo di clienti e di una tecnologia, ma si deve notare che non necessariamente a tutti gli incroci delle categorie corrisponde un business.

Nel caso di imprese multibusiness possono essere identificate più ASA e, di conseguenza, più contesti competitivi.

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Fig 3.5 Modello di Abell per la definizione dell’area strategica di affari (ASA)

3.7. Caratteristiche degli ambienti competitivi L’ambiente, nella sua più ampia definizione, può essere analizzato con riferimento a due dimensioni: Ia varietà e Ia variabilità.

La variabilità è un concetto relativo al tempo; si pensi alla variabilità dei gusti dei consumatori, dei comportamenti dei concorrenti, di quelle dei fornitori, ecc.; quanto più rapidamente variano nel tempo tali comportamenti, tanto più è variabile l’ambiente e tanto più ampie sono le conseguenze in termini di comportamenti aziendali. La varietà è rappresentata dal numero di situazioni differenti con le quali l’impresa si rapporta in un determinato momento (in un limitato periodo di tempo) e dal grado di differenza tra le situazioni stesse; si pensi ad un’impresa multinazionale operante in più paesi come: Francia, Svizzera e Italia, ed alle difficoltà dovute alla necessità di rapportarsi con i tre diversi ambienti. Naturalmente, una multinazionale che operasse in Italia, Taiwan e Nuova Zelanda, a parità di numero di situazioni differenti, dovrebbe affrontare una varietà maggiore dovuta al maggior grado di diversità degli ambienti. Per classificare l’ambiente in cui un’impresa opera in base alla varietà e alla variabilità, si può utilizzare uno schema sinottico rappresentato da una matrice a 4 quadranti (fig. n. 3.6).

Funzioni d’uso

Gruppi di clienti

Tecnologie adoperate

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Fig. 3.6 - Matrice di complessità ambientale

Omogeneo instabile

complesso

semplice

Disomogeneo stabile

Come si evince dalla figura, in ascissa viene riportata Ia varietà e in ordinata Ia variabilità; per semplificare lo schema, prendiamo in considerazione solo Ia misura “basso” e “alto” delle variabili senza valutare le situazioni intermedie riscontrabili in relazione ai valori medi assumibili delle variabili. In tal modo, nello schema si possono distinguere quattro tipologie di ambiente: 1. il primo, caratterizzato da bassa varietà e bassa variabilità, è definito ambiente semplice; 2. il secondo, caratterizzato da alta varietà e alta variabilità, è definito ambiente complesso (o

turbolento); 3. il terzo, caratterizzato da bassa varietà e alta variabilità, è definito ambiente omogeneo instabile; 4. il quarto, caratterizzato da bassa variabilità e alta varietà, è definito ambiente disomogeneo stabile

(o agglomerato a grappoli). In ambienti semplici, poco vari e poco variabili, le imprese sono spinte, evidentemente, a mantenere in modo stabile nel tempo i propri prodotti e la propria struttura organizzativa insieme alle strategie e alle politiche aziendali. Al contrario, le imprese operanti in un ambiente complesso devono continuamente cambiare le loro strategie e politiche, adeguando di conseguenza anche le strutture organizzative in risposta all’evoluzione dell’ambiente stesso.

varietà

variabilità

alta

alta

bassa

bassa

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Capitolo quarto – L’organizzazione aziendale ∗∗∗∗

4.1. Divisione del lavoro e coordinamento

L’insieme di attività che l’impresa deve svolgere (la produzione, la programmazione, il controllo, la misurazione dell’efficacia, la misurazione dell’efficienza e della redditività, ecc.) non può essere svolto da una sola persona in quanto attività complesse e non artigianali. Lo studio dell’organizzazione aziendale riguarda, essenzialmente, le modalità con le quali il lavoro viene suddiviso tra le “parti” componenti l’organizzazione e le modalità con le quali il lavoro stesso viene “ricomposto” in ordine al conseguimento degli obiettivi dell’impresa. Questa definizione implica, ad un primo livello di approfondimento, l’individuazione di “parti” dell’organizzazione e di “meccanismi di coordinamento”; ad un secondo livello di approfondimento vengono identificate le caratteristiche delle risorse umane, quelle della macrostruttura organizzativa, i collegamenti laterali e il decentramento decisionale. 4.1.1. Le parti dell’organizzazione

Secondo Mintzberg (1986), la totalità dei componenti di un’organizzazione (un’impresa)37 può essere classificata in cinque tipologie (parti), rappresentate nella fig. n. 4.1:

Fig. n. 4.1 - Le cinque parti dell’organizzazione

∗ La maggior parte di questo capitolo è tratto da Mintzberg H. (1986), La Progettazione dell’organizzazione aziendale, Bologna, Il Mulino, testo cui si rimanda per gli eventuali approfondimenti. 37 Il termine “organizzazione” viene frequentemente utilizzato, anche nel linguaggio corrente specializzato, come sinonimo di “impresa”.

VERTICE

STRATEGICO

LINEA INTERMEDIA

NUCLEO OPERATIVO (N.O.)

TECNOSTRUTTURA STAFF DI

SUPPORTO

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• Nucleo Operativo (N.O.): tutti gli operatori dell’impresa coinvolti nel processo di

trasformazione (persone o gruppi di persone che materialmente effettuano il processo di trasformazione) e la cui attività fondamentale è direttamente legata all’ottenimento dei prodotti e dei servizi. Le funzioni svolte dagli operatori componenti il Nucleo Operativo possono raggrupparsi in quattro categorie: 1. approvvigionamento degli input necessari alla produzione; 2. trasformazione degli input in output; 3. distribuzione degli output; 4. fornitura di un supporto diretto alle funzioni di input (manutenzione delle macchine e gestione dei magazzini di materie prime). Si tratta di attività caratterizzate da un elevato livello di standardizzazione. Esempi: operai (saldatori, verniciatori, ecc.) o, in altri tipi di organizzazione, i docenti che erogano lezioni a diretto contatto con i discenti.

• Vertice strategico: la parte dell’organizzazione che stabilisce le strategie da seguire per il

raggiungimento degli obiettivi dell’impresa (es.: un Consiglio di Facoltà che stabilisce gli insegnamenti da impartire ai fini del conseguimento di una laurea in una determinata “Classe”, le propedeuticità degli esami, ecc.). Il vertice strategico deve assicurare che l’azienda assolva alla missione in modo efficace e che risponda ai bisogni di coloro che controllano o che comunque hanno un potere sull’azienda stessa (proprietari, enti governativi, gruppi di pressione). Ne deriva che il vertice strategico svolge tre funzioni: 1. supervisione diretta; 2. gestione delle relazioni dell’organizzazione con il suo ambiente; 3. sviluppo della strategia dell’azienda (strategia intesa come forma di mediazione tra l’azienda ed il suo ambiente e che presuppone, pertanto, dapprima la comprensione e l’interpretazione dell’ambiente, successivamente l’elaborazione di modelli coerenti nei flussi delle decisioni organizzative). A questo livello l’attività è generalmente caratterizzata da un minimo di ripetitività e di standardizzazione, da una considerevole discrezionalità e da cicli decisionali decisamente lunghi.

• Linea intermedia: parte dell’organizzazione cui è demandato il compito di trasmettere le

decisioni, prese dal vertice strategico, al nucleo operativo in ordine al raggiungimento degli obiettivi aziendali. Ampio è il ventaglio di compiti del manager della linea intermedia: raccoglie informazioni di feedback sulla performance della propria unità e le trasmette ai manager di livello superiore spesso operandone un’aggregazione; interviene nel flusso decisionale sia allocando le risorse all’interno della sua unità, elaborando regole, piani e progetti, sia prevenendo le varianze dell’unità e le proposte di cambiamento; mantiene contatti con altri manager, analisti, staff di supporto e soggetti esterni la cui attività è interdipendente con quella della propria unità; formula la strategia della propria unità che naturalmente è influenzata in modo significativo dalla strategia complessiva .Esempi sono i “capi intermedi” o manager di diverso livello individuabili in un’organizzazione (dal responsabile della produzione al capo-reparto in un’impresa industriale o, nel caso dell’Arma Aeronautica, dal colonnello all’aviere scelto).

• Staff di supporto: parte dell’organizzazione che, attraverso la sua attività, consente alle parti

dell’organizzazione direttamente coinvolte nel processo di trasformazione (vertice strategico, linea intermedia, nucleo operativo) di effettuare il processo stesso (per esempio la segreteria di un'Università o la mensa di uno stabilimento manifatturiero). Si tratta di unità specializzate che forniscono all’azienda un supporto esterno al suo flusso operativo.

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• Tecnostruttura: parte dell’organizzazione che si occupa del governo del processo produttivo attraverso la definizione di standard, l'analisi del processo produttivo, il controllo del rispetto di tali standard. Gli analisti componenti la tecnostruttura, non sono direttamente coinvolti nel flusso di lavoro operativo: essi possono progettarlo, pianificarlo, modificarlo o addestrare le persone che lo svolgono ma non eseguirlo in prima persona. Possiamo distinguere tre tipi di analisti: 1. gli analisti del lavoro che standardizzano i processi di lavoro; gli analisti di pianificazione e controllo che standardizzano gli output; gli analisti dei problemi del personale che standardizzano le capacità. Esempi sono rappresentati dalle persone o dai gruppi di persone che si occupano di programmazione della produzione.

Le parti dell’organizzazione sono costituite, naturalmente, da persone (risorse umane o posizioni individuali) singolarmente considerati oppure raggruppati; in entrambi i casi, il termine che viene utilizzato per riferirsi a tali sottoinsiemi delle parti dell’organizzazione è “unità organizzativa” (U.O.). Per esempio, se il nucleo operativo di una università è composto da 50 docenti, si è in presenza di 50 unità organizzative di primo livello (composte da una sola persona). Analogamente, la linea intermedia è costituita da insiemi di unità organizzative di più alto livello rispetto alle unità organizzative elementari; pertanto, le parti dell’organizzazione sono composte da insiemi di unità organizzative. Non tutte le parti dell’organizzazione hanno le stesse caratteristiche. In particolare, le prime tre (vertice strategico, nucleo operativo e linea intermedia), che si occupano delle attività caratteristiche dell’impresa -ovvero sono direttamente impegnate nell’attività di trasformazione- non essendo da sole sufficienti (seppure siano necessarie) per il pieno e regolare funzionamento dell'impresa stessa, devono essere affiancate dalle seconde due (staff di supporto e tecnostruttura) che sono interessate al processo di trasformazione in modo indiretto. Il funzionamento dell’organizzazione è garantito dallo svolgersi coordinato delle attività delle cinque parti esaminate: in sintesi, il vertice strategico prende decisioni sulla base delle analisi svolte dalla tecnostruttura e la linea intermedia trasmette le istruzioni al nucleo operativo che materialmente esegue le attività; tutto ciò è consentito dall'attività di supporto dello staff di supporto. La particolarità dello schema raffigurante le cinque parti dell’organizzazione è che esso è di tipo generale ed onnicomprensivo: per esempio, nelle organizzazioni semplici, la divisione del lavoro può essere tale da non prevedere esplicitamente una tecnostruttura; in questi casi, le funzioni di analisi e controllo vengono generalmente svolte dal vertice strategico. Ciò vuol dire che in qualunque organizzazione si possono riconoscere al massimo cinque parti, cioè si può collocare qualunque delle UU.OO. realmente osservate in una delle cinque parti dell’organizzazione. La differenza tra lo staff di supporto e l’organo di staff come definito dalla letteratura tradizionale dell’organizzazione consiste nel fatto che tali parti dell’organizzazione vengono definite nell’ambito di due prospettive di analisi diverse. Lo staff di supporto definito nell’ambito della prospettiva analitica relativa allo studio delle cinque parti dell’organizzazione è isolato dalla parte centrale del diagramma perchè è costituito dalle unità organizzative che consentono l’attività caratteristica dell’impresa ma non partecipano direttamente al processo produttivo. Nell’Università la segreteria studenti svolge le attività di staff di supporto, in quanto con il suo operato permette all’organizzazione di funzionare pur non entrando direttamente nel processo produttivo (consistente nell’erogazione delle lezioni). Al contrario, l’organo di staff viene definito dalla letteratura tradizionale come l’organo che non ha potere decisionale ma che svolge mera attività di consulenza. Esso si distingue da quegli organi definiti

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di line che si trovano in un rapporto di dipendenza gerarchica e sono collocati lungo le “vie” verticali dell’organigramma. Nella prospettiva adottata nello studio delle cinque parti dell’organizzazione viene focalizzata l’attenzione sull’attività caratteristica dell’impresa. Pertanto viene accolta la prima definizione di staff, nel senso che gli organi di staff vengono definiti come quelli che non partecipano direttamente al processo produttivo ma, con la loro attività, rendono possibile il processo produttivo stesso. In questa prospettiva si ha una maggiore quantità di organi che fanno da staff di supporto rispetto a quelli identificabili nella prospettiva tradizionale. Le cinque parti dell’organizzazione così identificate rendono conto del principio di divisione del lavoro (specializzazione) alla base del concetto stesso di organizzazione aziendale. Il principio di ricomposizione del lavoro (coordinamento), parimenti legato al concetto di organizzazione viene rispettato per effetto dell'insorgere di meccanismi di coordinamento tra le parti dell’organizzazione stessa o, a livello più dettagliato, tra le unità organizzative. 4.1.2. I meccanismi di coordinamento Il lavoro diviso tra le cinque parti dell’organizzazione, identificate al paragrafo precedente, viene “ricomposto” per l’esplicarsi di cinque meccanismi di coordinamento:

• adattamento reciproco: insorge quando le diverse unità organizzative (UU.OO.) si adattano reciprocamente allo svolgimento delle rispettive attività attraverso il semplice processo della comunicazione informale (es.: una squadra di calcio funziona in modo coordinato soprattutto per “l’affiatamento” tra i calciatori);

• supervisione diretta: insorge quando la ricomposizione delle attività svolte dalle UU.OO.

avviene per la supervisione di un "capo"; una persona assume la responsabilità del lavoro di altri, dando loro ordini e controllando le loro azioni. (es. un caporeparto);

• standardizzazione38 dei processi: insorge quando le attività da svolgere sono ben definite e

non variano nel tempo (per es. le fasi sequenziali di una catena di montaggio); in questo caso il coordinamento è garantito dal fatto che un errore in un punto della catena si ripercuoterebbe sull'intero processo. Da ciò discende che la presenza dell’errore può essere facilmente rilevata ed il coordinamento è assicurato anche in assenza di supervisione diretta o di adattamento reciproco;

• standardizzazione dei prodotti: si riferisce al caso di prodotti standard, le cui caratteristiche

sono ben definite e non variano nel tempo; in tal caso i difetti (o scostamenti dagli standard) testimoniano la necessità di correttivi al processo. Questo meccanismo di coordinamento ricade, sostanzialmente, nel caso precedente in quanto generalmente a prodotti standard si associano processi standard; valgono, pertanto, le considerazioni di cui al punto precedente;

38 Attraverso i tre tipi di standardizzazione (processo, prodotto, capacità) il lavoro viene coordinato senza ricorrere all’adattamento reciproco ed alla supervisione diretta. Il coordinamento è raggiunto, per così dire, sul tavolo da disegno prima di iniziare l’attività. Gli addetti alla catena di montaggio dell’automobile e i chirurghi nella sala operatoria dell’ospedale, in circostanze normali, non debbono preoccuparsi di coordinarsi con i loro colleghi. Essi infatti sanno esattamente cosa ci si aspetta da loro e procedono in conformità a tali aspettative. Saranno gli analisti della tecnostruttura a preoccuparsi della definizione delle modalità attraverso le quali standardizzare processi, prodotti, capacità.

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• standardizzazione delle capacità: insorge quando il coordinamento finalizzato alla

ricomposizione del lavoro si basa su capacità standard delle unità organizzative. Ad esempio, nel caso di un corso di laurea universitario, le capacità standard di ciascun docente nella propria materia (matematica, diritto, organizzazione) garantiscono che lo studente che abbia superato tutti gli esami del corso di laurea consegue il profilo professionale, ad esempio, del dottore in Economia.

Va osservato che al concetto di unità organizzativa si associa indissolubilmente quello di supervisione diretta, nel senso che ad ogni unità organizzativa diversa dalla posizione individuale (ad ogni gruppo di persone nell’ambito dell’organizzazione) viene preposto un capo (supervisore diretto). Tuttavia, in teoria un manager può dirigere tutti gli operatori; in pratica la supervisione diretta richiede uno stretto contatto personale fra manager ed operatore con il risultato che esiste un limite al numero di operatori che un manager può dirigere (c.d. ampiezza del controllo). I cinque meccanismi di coordinamento garantiscono il funzionamento coordinato delle cinque parti dell’organizzazione.39 Risulta evidente, da quanto precedentemente esposto, che i meccanismi di coordinamento non si escludono reciprocamente e, in funzione del tipo di attività di trasformazione svolta, in una organizzazione potrà essere rilevata la contemporanea presenza (in diverse quantità relative) di tutti i meccanismi di coordinamento studiati. In particolare, i meccanismi di coordinamento basati sulla standardizzazione e sull’adattamento reciproco possono sostituire -in parte- la supervisione diretta, consentendo al "capo" di supervisionare un maggior numero di persone. Questo aspetto appare di particolare importanza in relazione al fatto che la dimensione dell’unità organizzativa (numero di componenti l’U.O. stessa) può essere tanto più elevata quanto più intensi risultano i meccanismi di coordinamento complementari alla supervisione diretta. 4.2. I parametri di progettazione organizzativa Ad un livello dettagliato di analisi, per la piena comprensione dell’organizzazione di un’impresa (o per la progettazione della stessa), vanno studiati quattro “gruppi di parametri di progettazione organizzativa”:

1. le risorse umane (posizioni individuali); 2. la macrostruttura organizzativa; 3. i collegamenti laterali; 4. il decentramento decisionale.

4.3. Le risorse umane (posizioni individuali) Le risorse umane, ovvero i soggetti che operano all’interno di un’impresa, vanno analizzate relativamente a tre caratteristiche specifiche: 39 Generalmente, la standardizzazione è il meccanismo di coordinamento adottato all’interno del nucleo operativo; il reciproco adattamento è quello utilizzato dai managers del vertice strategico e dagli analisti della tecnostruttura (i quali ricorrono, talvolta, anche alla standardizzazione delle capacità). A causa delle ampie diversità che incorrono fra le unità di supporto, non è possibile indicare in modo generale e definitivo quale sia il meccanismo di coordinamento da esse più utilizzato. Ogni unità di staff utilizza quel meccanismo che è più appropriato considerate le sue caratteristiche e l’attività svolta.

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1) la formazione e l’indottrinamento; 2) la formalizzazione del comportamento; 3) la specializzazione delle mansioni. La formazione attiene il livello di formazione conseguito dalla posizione individuale considerata all’esterno dell’organizzazione cui appartiene. Essa può intendersi, relativamente alla realtà italiana, rappresentata dal titolo di studio posseduto dai soggetti; dal livello di formazione si fa dipendere, generalmente, il ruolo all’interno della struttura organizzativa. La formazione “interna”, ovvero quella impartita alla posizione individuale all’interno dell’azienda in cui opera, viene identificata con il termine “indottrinamento”. Valgono come esempi, al riguardo, i corsi tenuti presso le Accademie Militari, finalizzati –oltre che alla formazione- ad impartire gli elementi di base della vita militare. Un concetto legato all’indottrinamento è quello di formalizzazione del comportamento, che attiene soprattutto all’esperienza acquisita dal lavoratore nell’azienda; questo, superati i momenti di impaccio iniziale del periodo di neoassunzione, e migliorato il livello di formazione in seguito all’indottrinamento, acquista consapevolezza delle “routine” e delle modalità con cui si sviluppa il lavoro. La specializzazione è un concetto riferito alla mansione della risorsa umana considerata (unità organizzativa elementare, posizione individuale) e si lega, in primo luogo, al numero dei compiti contenuti dalla mansione stessa. E’ opportuno, a questo riguardo, svolgere alcune considerazioni definitorie legate alle attività delle unità organizzative di diverso livello: è infatti necessario identificare univocamente le attività stesse allo scopo di non incorrere in equivoci terminologici se non in veri e propri errori. Nella tabella seguente vengono identificati, pertanto, i termini con i quali si indicano le attività svolte dalle unità organizzative di diverso livello: Posizione individuale Mansione (La mansione si compone di un

insieme di compiti elementari) Posizioni individuali raggruppate in un ufficio/ reparto

Ruolo

Raggruppamenti di uffici – reparti Funzione Raggruppamenti di funzioni Divisione La mansione si compone di compiti elementari e, in funzione del numero di compiti che contiene, si dice orizzontalmente allargata o specializzata. In particolare, se una mansione contiene un numero di compiti elementari basso si dice orizzontalmente specializzata; se invece la mansione contiene un numero di compiti elevato si dice orizzontalmente allargata. Un operaio addetto ad una singola macchina monoscopo avrà una mansione specializzata, quindi limitata orizzontalmente. Questo concetto di mansione si lega a qualunque attività svolta da una unità organizzativa elementare. La dimensione orizzontale non basta a definire completamente la mansione, perché essa può essere definita una dimensione verticale -che esprime il grado di controllo che il lavoratore esercita sulla mansione stessa- composta da tre fasi del sistema di attività: 1) informazione;

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2) scelta; 3) esecuzione. In qualunque sistema di attività, infatti, si possono distinguere le tre fasi precedenti. L’informazione rappresenta la fase del sistema di attività in cui l’unità organizzativa elementare si informa sulle diverse modalità eventualmente disponibili per svolgere l’attività stessa. La scelta è la fase del sistema di attività in cui l’unità organizzativa elementare espleta il processo decisionale e sceglie tra le alternative possibili. L’esecuzione rappresenta la fase del sistema di attività in cui i compiti elementari componenti la mansione vengono materialmente eseguiti. Tra le fasi descritte precedentemente si possono riconoscere ulteriori fasi intermedie, non sempre presenti: consiglio (tra l’informazione e la scelta) ed autorizzazione (tra la scelta e l’esecuzione). Il complesso degli aspetti relativi alle mansioni svolte dalle posizioni individuali è rappresentato nella fig. n. 4.2.

Fig. n. 4.2 - La specializzazione delle mansioni

La mansione dell’operaio, generalmente, è specializzata (cioè è specializzata sia orizzontalmente che verticalmente); in questo caso, la mansione ha dei contenuti ovviamente limitati (mansione povera) in quanto prevede sia un basso numero di compiti che un modesto controllo sul sistema di attività. La mansione del docente, al contrario, si caratterizza per un elevato grado di controllo sul sistema di attività (egli, infatti, si informa sui migliori riferimenti esistenti per svolgere una lezione, sceglie alcuni di questi ed una metodologia didattica ed infine svolge personalmente la lezione stessa); essa, quindi, è verticalmente allargata.

INFORMAZIONE

CONSIGLIO

SCELTA

AUTORIZZAZIONE

ESECUZIONE

Basso Numero di compiti

Dimensione verticale

Dimensione orizzontale

Alto

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Incrociando gli aspetti relativi alla dimensione orizzontale e a quella verticale della mansione si ottiene una matrice a quattro quadranti ad ognuno dei quali si possono far risalire –in funzione della specifica impresa della quale si sta studiando l’organizzazione- le posizioni individuali appartenenti alle cinque parti dell’organizzazione. Le mansioni delle unità organizzative elementari componenti le diverse parti dell’organizzazione così identificate avranno diversi profili di specializzazione: per esempio, il vertice strategico avrà sicuramente una mansione allargata in quanto svolge un numero elevato di compiti di varia natura ed inoltre si informa sulle migliori pratiche, sceglie le strategie di perseguimento degli obiettivi e trasmette le proprie istruzioni; pertanto, la mansione del vertice strategico è allargata sia sotto il profilo orizzontale che verticale. 4.4. La macrostruttura organizzativa

Il secondo gruppo di parametri di progettazione organizzativa riguarda la macrostruttura organizzativa, ovvero il modo in cui le persone vengono messe insieme (raggruppate) in un’unità organizzative di più elevato livello. In particolare, il tema da esaminare in questo ambito riguarda le modalità con cui le unità organizzative “posizione individuale” vengono raggruppate in ruoli, come i ruoli vengono raggruppati a loro volta in funzioni, e come le funzioni vengono raggruppate in divisioni. I problemi in questo ambito sono:

• definire la tipologia delle unità organizzative (quali unità organizzative sono necessarie per svolgere le attività caratteristiche dell’impresa);

• definire la dimensione delle unità organizzative; • definire i rapporti che devono formalmente esistere tra le unità organizzative.

Nell’ambito dell’identificazione delle unità organizzative necessarie (quali unità organizzative), innanzitutto si deve avere un’idea chiara del tipo di trasformazione svolto dall’impresa e del relativo processo produttivo, perchè in mancanza di ciò, non si può procedere ad organizzare, cioè a dividere il lavoro e ad individuare i meccanismi di coordinamento necessari per ricomporre il lavoro diviso. Si tratta, in particolare, di individuare i reparti, gli uffici, le funzioni (marketing, produzione, logistica, ecc.) più idonei allo svolgimento dell’attività dell’impresa considerata. Per quanto attiene la determinazione della dimensione delle unità organizzative, di cui al punto precedente, va osservato che essa è data dal numero di posizioni individuali da raggruppare nell’ambito di un ruolo e, progressivamente ampliando l’oggetto di studio, del numero di uffici-reparti da raggruppare nell’ambito di una funzione e, ancora, del numero e della tipologia di funzioni da raggruppare in divisioni. Per procedere nell’analisi della macrostruttura organizzativa è necessario disporre dello strumento fondamentale costituito dall’organigramma che rappresenta sinteticamente tutte le componenti (unità organizzative) esplicitamente e formalmente definite che rientrano nei confini dell’organizzazione.40

40 Costa G., Nacamulli C.D., Manuale di organizzazione aziendale, UTET, 1996.

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4.4.1. L'organigramma L’organigramma fornisce una rappresentazione grafica formale della struttura organizzativa (o macrostruttura organizzativa). Esso raffigura in modo statico le parti che compongono l’organizzazione e le relazioni che intercorrono tra esse. Le informazioni contenute variano a secondo dell’impiego cui è destinato. Di solito possono venire incluse: la denominazione gerarchica dell’unità (direzione generale, divisione etc); l’indicazione della funzione svolta (amministrazione, personale etc); il nome del responsabile dell’unità o del titolare della posizione; l’organico dell’unità o il numero di persone.41 L’organigramma è un grafico, formato di caselle e di linee, in cui le prime rappresentano le unità organizzative e le seconde le relazioni gerarchiche e formali tra esse esistenti. All’organigramma sfuggono, perciò, le relazioni non gerarchiche ed informali42 tra le unità organizzative. Nella fig. n. 4.3 viene presentato un generico organigramma.

Fig. n. 4.3 – Organigramma generico

Guardando l’organigramma della fig. n. 4.3 in senso discendente, le caselle rappresentano, rispettivamente, le unità organizzative appartenenti alla parte dell’organizzazione “Vertice Strategico”, quelle appartenenti alla “Linea Intermedia” e quelle appartenenti al “Nucleo Operativo”. L’organigramma specifica la rappresentazione delle cinque parti dell’organizzazione fornita nei paragrafi precedenti. Perchè l’organigramma abbia una valenza analitica, è necessario che all’interno delle singole caselle vengano identificate le divisioni, funzioni, ruoli e, ad un grado di massimo dettaglio, le mansioni che le caselle stesse rappresentano.

41 Costa G., Nacamulli C.D., Manuale di organizzazione aziendale, UTET, 1996. 42 Un diagramma comprendente le molteplici relazioni reali, gerarchiche e non, esistenti tra le unità organizzative, viene definito “sociogramma”.

V.S.

L.I.

N.O.

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Fig. n. 4.4 – Organigramma rappresentativo di una struttura organizzativa gerarchico-funzionale Se la parte più bassa dell’organigramma rappresenta le mansioni, al primo livello in senso ascendente si trovano i ruoli; al secondo livello le funzioni; ad esempio (fig. n. 4.4) il reparto officina e il reparto assemblaggio compongono una funzione di produzione consistente, rispettivamente, nella lavorazione di parti meccaniche (costruzione delle scatole di differenziali, delle scatole di cambio e, in generale, tutto quello che riguarda la costruzione nell’industria automobilistica) e nell’assemblaggio (assemblaggio) delle parti stesse (saldatura, chiodatura, verniciatura, ecc.). Analoghe considerazioni possono essere svolte per la funzione di marketing, composta di un ufficio vendite e di un ufficio acquisti. Questi, naturalmente, sono solo degli esempi, perchè vi sono casi in cui la logistica è subordinata al marketing e viceversa. A questo punto l’organigramma, diverso per ogni azienda, fornisce una rappresentazione completa della struttura organizzativa. Gli organi di staff si collocano nell’organigramma utilizzando delle linee orizzontali e non verticali; ciò questo per indicare che non c’è un rapporto di dipendenza gerarchica.

4.5. Le macrostrutture organizzative di base Le tipologie fondamentali di macrostrutture organizzative, alle quali possono essere ricondotte quelle esistenti, nella realtà sono: � struttura organizzativa semplice;

Presidente

Amministratore delegato

Funzione amministrazione

Funzione produzione

Funzione marketing

officina assemblaggio personale acquisti contabilità vendite

Vertice strategico

consulenza

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� struttura organizzativa gerarchico-funzionale (Staff & Line); � struttura organizzativa divisionale; � struttura organizzativa a matrice; � struttura organizzativa per progetti. 4.5.1. La struttura organizzativa semplice La struttura organizzativa semplice è una struttura che si sviluppa linearmente con un supervisore diretto a capo di tutto; esempi di questo tipo di strutture organizzative vengono forniti nella fig. n. 4.5.

Fig. n. 4.5 - Strutture organizzative semplici

Nella fig. n. 4.5 vengono considerate, non a caso, un’attività artigianale (quella del sarto) e un’attività complessa quale quella di uno studio di progettazione-ingegneria. Infatti le strutture semplici sono rappresentative di molteplici realtà aziendali, generalmente accomunate dalla ridotta dimensione, aventi ad oggetto attività di trasformazione dalle più semplici alle più complesse. Nella struttura semplice prevalgono i meccanismi di coordinamento costituiti dalla supervisione diretta e dall’adattamento reciproco. Ciò in quanto l’attività di imprese caratterizzate da una struttura organizzativa semplice non è divisa in modo spinto e l’attività delle singole unità organizzative è generalmente integrata con un allargamento delle mansioni sia orizzontale che verticale. 4.5.2. La struttura organizzativa gerarchico-funzionale La struttura organizzativa gerarchico-funzionale (fig. n. 4.4) si distingue da quella semplice per la maggiore estensione orizzontale e verticale in termini di caselle e di linee e per il fatto che essa è rappresentativa di imprese di dimensioni maggiori rispetto a quelle rappresentate dalla struttura semplice. In particolare, le strutture organizzative gerarchico-funzionali possono rappresentare anche imprese di grandi e grandissime dimensioni. I meccanismi di coordinamento prevalenti, in relazione ad una divisione del lavoro molto spinta, sono rappresentati dalla standardizzazione (dei prodotti, dei processi e delle capacità) e dalla supervisione diretta. Questa si esplica in unità organizzative di dimensioni anche molto elevate per effetto della

Sarto

Studio Ingegneria e progettazione

Cuciture

Disegno

Misure

Architettura

Taglio

Progettazione

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standardizzazione (grazie alla standardizzazione è maggiore il numero di persone controllabili da un solo manager). La struttura organizzativa gerarchico-funzionale tende a dividere il lavoro in modo tale che le singole funzioni siano più specializzate possibili; infatti la specializzazione e l’apprendimento sono una condizione per il raggiungimento delle economie di scala e dei punti di minimo dei costi unitari di produzione. Una importante caratteristica delle strutture organizzative gerarchico-funzionali è rappresentata dai conflitti interfunzionali cioè dai conflitti che insorgono tra le diverse funzioni aziendali. Tali conflitti sono dovuti ai diversi obiettivi ed interessi delle singole funzioni: ad esempio, uno dei principali obiettivi del marketing è sempre quello di massimizzare le vendite, risultato più facilmente raggiungibile disponendo di prodotti di buona qualità e a basso prezzo; ciò produce una pressione sulla funzione di produzione che si trova a dover perseguire gli stessi risultati. Per distinguere un organigramma rappresentativo di una struttura semplice da uno relativo ad una struttura gerarchico funzionale è necessario disporre di un organigramma analitico con la specificazione di cosa le varie caselle rappresentano (fino al massimo dettaglio possibile). 4.5.3. La struttura organizzativa divisionale La struttura organizzativa divisionale insorge quando l’attività dell’impresa diviene molto complessa in relazione: alle aree geografiche in cui essa si esplica; ai diversi segmenti di clientela serviti; ai diversi prodotti; alle diverse tecnologie utilizzate. In tali casi l’impresa non può continuare a svolgere la propria attività utilizzando una struttura organizzativa gerarchico-funzionale per l’impossibilità di conservare il coordinamento di strutture estremamente grandi, complesse e ramificate. Pertanto, essa si divide al livello più elevato (immediatamente al di sotto del vertice strategico) assumendo la struttura divisionale. La condizione fondamentale per l’adozione di strutture organizzative divisionali è data dalla possibilità di riconoscere, nell’ambito delle attività dell’impresa, di aree strategiche di affari caratterizzate da valenza autonoma in termini di costi e di ricavi. Un insieme rilevante di attività dell’impresa (tanto rilevante da costituire un centro autonomo di costi e di ricavi e come tale oggetto di amministrazione e di contabilità specifica) caratterizzabile in termini del trinomio prodotto/mercato(clienti)/tecnologia viene definito Area Strategica di Affari (ASA).43 L’ASA può anche essere considerata come un sottoinsieme rispetto ad un settore di attività economica. Se quest’ultimo viene definito come l’insieme delle imprese impegnate nella produzione degli stessi beni/servizi (o di beni/servizi tra loro sostitutivi), le imprese operanti in tale settore con una specifica tecnologia (ovvero che producono uno specifico bene/servizio o servono una specifica area geografica o uno specifico segmento di clientela) operano nella specifica ASA. Per cambiare l’area strategica di affari, basta che cambi uno solo dei suoi tre componenti. Le considerazioni esposte non devono tuttavia indurre a pensare che un’impresa multi-prodotto (la cui attività consiste nella produzione di più prodotti diversi) operi sempre in più aree strategiche di affari; infatti, anche in presenza di più prodotti diversi, per avere diverse aree strategiche di affari bisogna siano rispettate le condizioni che ogni area strategica di affari sia centro autonomo di costi e ricavi e che la stessa sia governata da una SBU (Strategic Business Unit) cioè una unità strategica d’affari responsabile dell’attività dell’area strategica di affari.

43 Si rimanda al paragrafo 3.6 in cui è stato definito il concetto di ASA.

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Nel settore del trasporto marittimo, un’ASA può essere rappresentata dalla produzione del servizio di collegamento marittimo con le isole del Golfo di Napoli mediante la tecnologia degli aliscafi; un’altra ASA può essere rappresentata dalla produzione dello stesso servizio attraverso traghetti. Nel settore informatico, un’ASA può essere rappresentata dal mercato costituito dai clienti pubblici mentre un’altra ASA può essere rappresentata dal mercato costituito dai clienti privati; diverse sono, infatti, le logiche di acquisto di tali gruppi di clienti. Nei casi in cui nell’impresa possano riconoscersi tali ASA –ovvero quando esse sono di dimensioni tali da richiedere che una parte della struttura organizzativa sia ad esse specificatamente dedicata- insorge la conseguenza organizzativa della “divisionalizzazione” con la divisione delle attività tra “rami”, di natura gerarchico–funzionale, come rappresentati nella fig. n. 4.6.

Fig. n. 4.6 – Struttura organizzativa divisionale Nei casi di divisionalizzazione, le funzioni sono raggruppate in divisioni e ciascuna divisione si occupa del complesso di attività che riguardano un tipo di prodotto/servizio; una determinata tecnologia; un determinato segmento di clientela; una determinata area geografica. Nell’esempio della fig. n. 4.6, si considera la divisionalizzazione per prodotti realizzata da un’impresa che produce veicoli industriali, veicoli civili, macchine agricole. Si noti che se l’organigramma non riporta, all’interno delle caselle, l’identificazione dell’attività svolta dall’unità organizzativa individuata con la casella stessa, la forma “anonima” di una struttura organizzativa gerarchico-funzionale non è distinguibile da quella di una struttura organizzativa divisionale.

Presidente

Amministratore delegato

Divisione A Veicoli industriali

Divisione B Veicoli civili

Divisione C Macchine agricole

Produzione Marketing Produzione Produzione Marketing Marketing

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La struttura organizzativa semplice, la struttura organizzativa gerarchico-funzionale e la struttura organizzativa per divisioni hanno la stessa forma se l’organigramma è anonimo (cioè se non vengono identificate le attività svolte dalle unità organizzative indicate dalle singole caselle). Al di là del fatto che le tipologie di unità organizzative sono definite dal tipo di processo produttivo, si comincia a notare una forte influenza della dimensione dell’impresa sulla struttura organizzativa. Infatti, una struttura organizzativa semplice si riferisce ad un’impresa piccola, una struttura organizzativa gerarchico-funzionale si riferisce ad un’impresa non piccola, ma non necessariamente grande, mentre la struttura organizzativa per divisioni si riferirà ad un’impresa grande e soprattutto diversificata e/o internazionalizzata. I motivi per cui si adotta una struttura organizzativa per divisioni sono fondamentalmente riconducibili a tre cause:

1. la crescita dimensionale; 2. l’internazionalizzazione dell’impresa; 3. la diversificazione (dei prodotti ad esempio).

L’adozione del raggruppamento in divisioni emerge quando la dimensione dell’impresa diventa elevata. Le imprese che crescono dimensionalmente alla ricerca di vantaggi di costo unitario, fondamentalmente cercano di posizionarsi in corrispondenza del punto di minimo del costo unitario medio di produzione (cu). Questa crescita dimensionale si ripercuote sulla struttura organizzativa dell’impresa (ovvero sulle modalità con le quali il lavoro è stato ripartito tra le parti componenti l’organizzazione e sulla scelta della modalità di coordinamento delle unità operative costituitesi). Gli impianti diventano sempre più grandi -anche se ad un determinato punto la crescita della dimensione degli impianti si fermerà per non incorrere in diseconomie di scala. La struttura organizzativa gerarchico-funzionale cresce manifestando, tuttavia, l’incapacità di rappresentare una situazione così complessa. Così, come nel caso degli impianti una volta raggiunta la dimensione ottima minima conviene costruire un altro impianto per incrementare la produzione, così in una struttura organizzativa gerarchico-funzionale si procede ad una suddivisione in divisioni che accompagni la crescita dimensionale dell’impresa. Per illustrare il progressivo passaggio dalla struttura organizzativa gerarchico-funzionale a quella divisionale è opportuno ripercorrere, in un semplice esempio, il percorso di crescita dimensionale di un’ipotetica impresa. Se in un’impresa avente struttura organizzativa gerarchico-funzionale venissero assunti -per motivi legati allo sviluppo dimensionale dell’impresa- ulteriori 20 dipendenti oltre quelli già presenti, questi venti dipendenti andranno a rafforzare i diversi reparti a seconda dei ruoli e delle mansioni che svolgono. In questa prima fase la struttura organizzativa subisce modificazioni. Questa modalità di inserimento automatico dei nuovi assunti nei singoli reparti/funzioni non può continuare indefinitamente. Infatti, al crescere progressivo della dimensione della singola unità organizzativa per effetto dell’inserimento di nuovi dipendenti si arriva ad un punto in cui il supervisore dell’unità organizzativa in questione non sarà più in grado di controllare il lavoro di tutti i dipendenti (verrà saturata la capacità di supervisione del capo esistendo, come precedentemente detto, un limite all’ampiezza del controllo). A questo punto è necessario “allungare” verticalmente la struttura organizzativa nominando dei “sottocapi”(a loro volta assoggettati al controllo di un capo) responsabili di un numero più basso di dipendenti. La crescita in verticale pone ovviamente dei problemi relativi alla trasmissione degli ordini

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e delle informazioni; appesantisce la struttura perchè aumentano i passaggi burocratici e quindi determina l’impossibilità dell’allungamento verticale indefinito. A tale circostanza l’impresa risponde allargandosi orizzontalmente mediante lo sdoppiamento delle unità organizzative dei diversi livelli. L’ultimo passaggio consiste nella divisionalizzazione, che corrisponde agli sdoppiamenti di cui al punto precedente ma relativi alla parte alta della struttura organizzativa, immediatamente al di sotto del vertice strategico: con la divisionalizzazione a tale livello tutto il processo viene delegato alle singole unità che divengono unità produttive e decisionali ciascuna coordinata da un responsabile. Un’altra causa di divisionalizzazione è rappresentata dall’internazionalizzazione, che si ha nel caso in cui un’impresa diventa molto grande ed ha una forte attività con diversi Paesi. In tale caso, la divisionalizzazione avviene per area geografica (esempio: divisione A. Francia, divisione B. Italia, divisione C. Spagna). Altro motivo di divisionalizzazione è la diversificazione dell’azienda, cioè l’azienda aumenta il suo portafoglio prodotti; ad esempio un’impresa che fa televisori, videoregistratori e amplificatori audio, decide di produrre anche autoradio, e poiché l’impresa è già abbastanza grande decide di divisionalizzarsi44 (divisione A. televisori, divisioni B. videoregistratori, divisione C. amplificatori radio, divisione D.autoradio). E’ opportuno osservare che i processi di diversificazione possono essere di diversa natura in funzione della maggiore o minore similitudine dei prodotti e dei mercati nuovi che l’impresa va a produrre e/o a servire. L’obiettivo che si intende raggiungere attraverso la strategia di diversificazione è quello di sfruttare le interrelazioni esistenti tra le diverse aree d’affari, quindi sfruttare il bagaglio di conoscenze, esperienze, know how accumulati nel tempo per conquistare nuovi mercati; per produrre nuovi prodotti; per produrre nuovi prodotti da offrire su nuovi mercati. Gli stereotipi di diversificazione possono essere riassunti nelle quattro tipologie identificabili nella matrice riportata nella fig. n. 4.7:

44 La diversificazione non va confusa con la differenziazione; quest’ultimo, infatti, è un concetto che riguarda il prodotto, mentre la diversificazione non riguarda il prodotto, ma il portafoglio prodotti, cioè l’insieme dei prodotti che in un certo momento nel tempo l’impresa produce.

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es. Palle da tennis e racchette da tennis

Es Snam che opera nel settore energetico ed in quello immobiliare

Es. automobili della stessa impresa vendute in colori differenti in Italia ed in Francia.

Es pneumatici (Pirelli) e palle da tennis (Dunlop)

Fig. n. 4.7 – Matrice di diversificazione

Il concetto di “vicinanza” dei mercati attiene non solo il significato geografico del termine ma anche e soprattutto le caratteristiche dei consumatori (gusti, cultura, livello di reddito pro-capite, ecc.). Ad esempio il mercato francese è per molti aspetti “vicino” al mercato italiano per una certa serie di prodotti mentre quello giapponese è “lontano”. Il concetto di similitudine dei prodotti, parimenti, non attiene solo ad una forma fisica od al materiale costruttivo (ad esempio gli pneumatici e le palle da tennis della Pirelli, entrambi in gomma) ma anche e soprattutto l’esperienza ed il “saper fare” dell’impresa. Molte sono le motivazioni che spingono ad una diversificazione e quelle relative al passaggio a mercati vicini o a prodotti vicini. Queste attengono prevalentemente alla riutilizzabilità dell’esperienza specifica maturata nella produzione di un certo prodotto oppure della conoscenza di determinati mercati. Più radicali sono i casi di diversificazione “conglomerale”, ovvero di prodotti e mercati lontani. In questi casi i processi di diversificazione sono più complessi, maggiormente a rischio per l’impresa ed hanno motivazioni generalmente strategiche coinvolgenti il lungo periodo. La motivazione sottostante la decisione di una diversificazione conglomerale risiede spesso nella volontà dell’impresa di superare una crisi del settore/ambiente in cui essa opera ovvero una crisi che ha colpito direttamente la stessa impresa. Una possibilità di superare tale impasse è rappresentata proprio dall’esplorazione di nuovi mercati (non necessariamente geograficamente distanti) su cui offrire nuovi prodotti. Riportiamo di seguito alcuni esempi di diversificazione. Caso prodotti diversi – mercati vicini

È il caso delle palle da tennis e delle racchette da tennis; il mercato è sostanzialmente lo stesso, ma i prodotti sono diversi; infatti le racchette da tennis si producono con una tecnologia del tutto diversa da quella delle palle da tennis, ma il mercato (i consumatori come precedentemente identificati) rimane lo stesso. In questo caso la spinta a diversificare consegue la profonda conoscenza del mercato.

PRODOTT I

Diversificazione conglomerale

vicini lontani

MERCATI

diversi

simili

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Caso prodotti simili – mercati vicini

Ovviamente i processi di diversificazione che più comunemente avvengono sono quelli che riguardano prodotti simili in mercati vicini. Anche in questi casi, tuttavia, non è infrequente riscontrare la necessità di adattamento dei prodotti. Nel corso degli anni ’80, ad esempio, le automobili SIMCA erano distribuite con gamme di colori differenti in Italia e in Francia. Caso prodotti simili – mercati lontani

E’ il caso, già citato, degli pneumatici e delle palle da tennis (Dunlop, Pirelli). La profonda conoscenza del prodotto e del processo di produzione della gomma consentono elevate economie di scopo nella produzione simultanea di tali prodotti. Caso prodotti diversi-mercati lontani

E’ il caso della Snam (originariamente operante nel settore energetico e attività di ingegneria) che ha diversificato nel settore immobiliare. Le proprietà del Gruppo Snam comprendono immobili strumentali (laboratori, centrali, centri di manutenzione, palazzi uffici a Metanopoli, Roma, Torino e in altre località), immobili d'uso sociale (centro sportivo e poliambulatorio di Metanopoli, centro turistico di Borca di Cadore), immobili non strumentali (villaggio residenziale in San Donato Milanese, villaggi turistici in Sardegna e a Pugnochiuso), proprietà agricole e terreni. La Società Immobiliare Metanopoli è incaricata dell'amministrazione, valorizzazione e commercializzazione dei beni del Gruppo nonché di ogni iniziativa di sviluppo. Le imprese possono essere divisionalizzate su diverse basi (aree geografiche, prodotti, mercati, ecc.). È opportuno osservare, in tali casi, che le basi di divisionalizzazione eventualmente coesistenti hanno tra loro una sorta di gerarchia: ad esempio, nel caso di una doppia base di divisionalizzazione (per area geografica e per prodotto) è generalmente la divisione relativa all’area geografica che “contiene” la successiva divisione per prodotto. In tali casi si avranno dei responsabili dell’area strategica di affari divisionalizzata per area geografica che sovrintendono ai responsabili dell’area strategica di affari divisionalizzata per prodotti. Nella maggior parte delle imprese divisionalizzate esistono, al primo livello, immediatamente al di sotto del vertice strategico ed a questo direttamente subordinate, funzioni accentrate quali:

� la funzione finanziaria, che sovrintende alle decisioni sui finanziamenti; sui budget iniziali per le diverse aree strategiche di affari; sugli investimenti; ecc. I motivi per l’accentramento al primo livello di tale funzione consistono nella valenza strategica dell’accentramento stesso -che consente appunto la direzione finanziaria strategica- e motivi di convenienza legati alle possibili migliori condizioni di approvvigionamento di capitale e di impiego dello stesso;

� la funzione di ricerca e sviluppo. In questo caso i motivi dell’accentramento al primo livello consistono nell’evitare duplicazioni di spesa e di sforzi e nel conseguire una massa critica di lavoro che possa fornire risultati significativi.

In alcune imprese è possibile osservare che anche la funzione di marketing, almeno per gli aspetti relativi all’attività pubblicitaria, è accentrata al primo livello per l’omogeneità del prodotto, dei mercati di riferimento e del messaggio che si vuole comunicare. Valga per tutti l’esempio degli spot “globali” della Coca Cola. Tali funzioni vengono meglio gestite e sono più efficaci ed efficienti se accentrate al primo livello. Oltre a queste tre funzioni -che si ritrovano accentrate nella maggior parte delle imprese con struttura

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organizzativa divisionale- anche tutte le altre funzioni si possono collocare a questo livello della struttura organizzativa. Non sono rari i casi di accentramento della funzione di produzione in aree con basso costo di acquisizione dei principali fattori produttivi necessari all’attività di trasformazione. Un esempio di struttura organizzativa divisionale avente funzioni accentrate al primo livello e divisioni in aree geografiche diverse che svolgono attività dissimili è rappresentata nella fig. n. 4.8. Le divisioni A (Italia) e B (Francia) rappresentano due distinte aree strategiche d’affari (ASA), quindi due centri autonomi di imputazione di costi e ricavi governati da due Strategic Business Unit (SBU).

Fig. n. 4.8 – Struttura organizzativa divisionale con funzioni accentrate al primo livello

Presidente

Amministratore delegato

Divisione A Italia

Divisione B Francia

Prodotto A

ProdottoB

Prodotto B Prodotto C

Vertice strategico

Funzione

finanziaria

Funzione ricerca e sviluppo

Staff

Prodotto C Prodotto A

marketing produzione finanza

logistica vendita

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Economia e gestione delle imprese – Prof. Giuseppe Vito 87

4.5.4. La struttura organizzativa a matrice e per progetti Le strutture organizzative finora esaminate non sono adatte ad ambienti caratterizzati da alta varietà ed alta variabilità ed ad ambienti caratterizzati da bassa varietà ma alta variabilità. Ciò in quanto esse sono finalizzate alla specializzazione ed alle economie di scala perseguibili in condizioni di stabilità. La struttura organizzativa che si associa agli ambienti turbolenti ed a tecnologie potenzialmente varie è la struttura organizzativa a matrice (o per progetti). Essa è la quarta macrostruttura organizzativa di base il cui organigramma presenta il reticolo rappresentato nella fig. n. 4.9.

Fig. n. 4.9 - Struttura organizzativa a matrice

Anche le imprese che adottano la struttura organizzativa a matrice (o per progetti) sono, dunque, diversificate in quanto realizzano tre diversi prodotti: il prodotto A, il prodotto B ed il prodotto C. Tuttavia, a differenza della struttura organizzativa divisionale le singole funzioni non rispondono solo al responsabile della divisione (in questo caso del responsabile del prodotto) ma anche al responsabile della funzione centralizzata al primo livello che svolge il ruolo fondamentale di integratore (collegamento laterale) tra le funzioni distribuite nella realizzazione dei singoli prodotti. Non sarebbe corretto affermare che si tratta di divisioni perchè il concetto di divisione è legato appunto alla struttura organizzativa divisionale.

V.S.

PRODOTTO A

PRODOTTO B

PRODOTTO C

PRODUZIONE FINANZA MARKETING ……….

B3

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Economia e gestione delle imprese – Prof. Giuseppe Vito 88

Un’unità organizzativa che si occupa di svolgere una funzione (ad esempio produzione del prodotto B nel punto “B3”) è sottoposta ad una duplice autorità gerarchica; essa, infatti, da un lato dipende dal responsabile del prodotto B e da un altro dal responsabile della produzione centralizzata, che si occupa in generale di tutte le attività produttive dell’impresa (quindi del prodotto A, B, C). La doppia autorità gerarchica sulle unità organizzative che si trovano nell’organizzazione matriciale (o per progetti) aumenta la visibilità, da parte del responsabile della funzione accentrata, su tutto ciò che accade, relativamente a tale funzione, in tutta l’impresa. Infatti nella struttura organizzativa per divisioni il responsabile della divisione Italia ed il responsabile della divisione Francia non hanno nessun tipo di contatto ma sono coordinati, essenzialmente attraverso la supervisione diretta, dal vertice strategico. Al contrario, nella struttura a matrice le attività svolte relativamente ai diversi prodotti (nell’ambito di quelle che sarebbero “divisioni per prodotto” se si parlasse di struttura divisionale) sono anche coordinate –e comunque note- ai responsabili delle funzioni centralizzate. Ciò rende “trasparenti” le attività svolte relativamente ai diversi prodotti consentendo l’accumulazione del “know-how” delle singole funzioni (produzione, finanza, marketing) al livello centrale delle rispettive funzioni dell’impresa. La struttura organizzativa a matrice (o per progetti) prevede una duplice base di raggruppamento: − una base di raggruppamento in base alle funzioni che per estensione riguardano i processi di lavoro; − una base di raggruppamento in base prodotti. Analizziamo al proposito, le differenze esistenti con le basi di raggruppamento delle altre macrostrutture precedentemente analizzate. Nella struttura organizzativa gerarchico-funzionale il raggruppamento avviene in base ai flussi di lavoro che vengono articolati in funzioni. Nella struttura organizzativa divisionale il raggruppamento avviene in base all’area geografica, alla tecnologia, alla clientela, al prodotto e, subordinatamente a questi, in base alle funzioni e ai processi di lavoro. La struttura organizzativa a matrice (o per progetti) non privilegia né l’una (funzioni) né l’altra base di raggruppamento (prodotti), che hanno entrambe la stessa valenza. Si è precedentemente affermato che la struttura organizzativa divisionale meglio si adatta ad ambienti instabili. Analizziamo la principale motivazione sottostante tale affermazione. La conoscenza reciproca delle attività svolte dalle diverse unità organizzative componenti la matrice consente lo spostamento di risorse umane, ad esempio, dalla produzione di A alla produzione B. Pertanto, se si dovesse verificare un aumento della domanda del prodotto B, lo spostamento di risorse umane dalla produzione di A a quella di B consentirebbe di far fronte alla fluttuazione dei livelli di produzione. Tale circostanza è conseguenza del fatto che le risorse umane non sono strettamente specializzate nelle attività che svolgono (ad esempio la produzione del prodotto A) ma conoscono anche le attività relative agli altri prodotti. Nella struttura organizzativa divisionale, data la forte divisione del lavoro e la spinta specializzazione delle risorse umane, tali spostamenti non risultano possibili. E’ dunque comprensibile la capacità delle imprese organizzate su base matriciale di reagire prontamente alle variazioni ambientali (del mercato, del comportamento dei concorrenti, dei fornitori, ecc.). Ciò vale anche in seguito a crisi profonde che investano un’intera divisione. Infatti, al contrario di ciò che avverrebbe nella struttura divisionale in conseguenza di forti crisi di mercato e conseguente ristrutturazione dell’impresa, se nella struttura organizzativa a matrice (o per progetti) dovesse “cadere” il ramo del prodotto C, le conseguenze potrebbero essere minime, perchè le risorse umane impiegate in quel ramo potrebbero essere assegnate alle attività relative agli altri prodotti (le mansioni di tali risorse umane sono “allargate”).

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Poiché lo spostamento dalle attività relative alla produzione di A a quelle relative alla produzione di B può avvenire attraverso il passaggio e la permanenza –per un periodo di tempo più o meno lungo- della risorsa considerata attraverso la funzione centralizzata, si spiega anche la caratteristica rivestita da tali funzioni centralizzate quali serbatoio di accumulo delle conoscenze dell’impresa. Finora si è parlato indistintamente di struttura organizzativa a matrice e per progetti. Appare opportuno, tuttavia, precisarne gli elementi di distinzione. Le differenze esistenti tra struttura organizzativa a matrice e struttura organizzativa per progetti derivano dalla natura delle attività produttive e non tanto da differenze riscontrabili attraverso gli organigrammi, le cui rispettive forme sono sostanzialmente coincidenti. Le differenze derivano cioè dalla natura di A, B e C: “prodotti” nel caso della matrice e “progetti” nel caso della struttura organizzativa per progetti. Ai fini dello studio dell’organizzazione aziendale, la più rilevante differenza tra un prodotto ed un progetto -atteso che il progetto, in definitiva, può portare alla realizzazione di un prodotto anche complesso- consiste nel fatto che il progetto ha una data di inizio ed una di fine, generalmente predeterminate. Ciò determina il carattere temporaneo dell’attività di progetto (un’impresa vincitrice di un appalto internazionale per costruire un’autostrada, prevede una data d’inizio ed una di fine dei lavori. Conosce pure le penali da pagare nel caso in cui non vengano rispettati tali vincoli temporali). Dal carattere temporaneo dei progetti deriva il necessario e connesso carattere temporaneo della struttura organizzativa per progetti (l’organigramma della stessa impresa, esaminato in momenti diversi, può risultare completamente diverso per il semplice fatto che il portafoglio progetti è cambiato). Per converso, la struttura organizzativa a matrice potrebbe cambiare significativamente ma potrebbe anche permanere per lunghi o lunghissimi periodi. Un’altra differenza attiene la funzione svolta dalle funzioni accentrate al primo livello. Queste, pur conservando in parte la funzione di punti di accumulo delle conoscenze (know-how) dell’impresa, svolgono, nel caso della struttura organizzativa per progetti, principalmente la funzione di serbatoi di risorse. Ciò è facilmente comprensibile se si pensa che il know-how accumulato relativamente ad un progetto (ad esempio la costruzione di un ponte) può non essere rilevante per un successivo progetto relativamente alla costruzione, ad esempio, di una raffineria di petrolio. Inoltre, è necessario, per questo tipo di organizzazioni, disporre di una sorta di “parcheggi” per le risorse umane stabilmente in forza all’impresa ma temporaneamente non utilizzate (tra la data di fine di un progetto e quella di inizio di un altro). Un esempio appropriato di imprese che adottano la struttura organizzativa per progetti è dato dal caso delle imprese di ingegneria. In tali imprese è la natura stessa delle attività (grandi progetti, appunto) che determina l’adozione di una struttura organizzativa per progetti. Le imprese d’ingegneria si collocano, nel diagramma di classificazione dei processi produttivi, in prossimità delle produzioni su commessa (elevata varietà e bassa produttività); esse, pertanto, sono potenzialmente in grado di rispondere a qualunque tipo di commessa nel loro tipo di settore che venga ad essa affidata. Tali imprese operano in virtù del know-how cumulato per esperienza e non tanto sulla base di impianti e/o attrezzature di notevoli dimensioni né di un’elevata dimensione in termini di personale. Le attività su commessa vengono svolte, tipicamente, attraverso il reclutamento temporaneo di maestranze locali (operai, capimastri, ecc.) il cui rapporto di lavoro ha termine una volta completato il progetto. La necessità di collocare presso le funzioni centralizzate il personale temporaneamente non impegnato in alcun progetto è quindi limitata ai soli dipendenti dell’impresa aventi un contratto di lavoro a tempo indeterminato.

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4.6. I collegamenti laterali Nella progettazione della struttura organizzativa, oltre alle posizioni individuali ed alla macrostruttura, è necessario definire i collegamenti laterali. Due sono le tipologie di collegamenti laterali: 1.i sistemi di pianificazione e controllo che standardizzano gli output; 2. i collegamenti laterali basati sull’adattamento reciproco. I collegamenti laterali sono necessari per garantire la coerenza delle attività di unità organizzative distinte e favorire i rapporti tra le persone. Dunque,coordinamento non sempre raggiungibile attraverso la gerarchia. Ad esempio, con riferimento alla fig. n. 4.10, che riprende un organigramma di tipo gerarchico-funzionale, possibili collegamenti laterali sono indicati mediante i collegamenti tra unità organizzative anche tra loro distanti (nello specifico, il link tra il reparto Acquisti e l’Officina).

Fig. n. 4.10 - Collegamenti laterali in una struttura organizzativa gerarchico-funzionale

4.6.1. I sistemi di pianificazione e controllo La pianificazione45 è tutto quello che normalmente precede l’avvio di un’attività. Il “controllo” non è altro che l’altra faccia del sistema di pianificazione perchè attraverso esso si verifica che tutto stia accadendo secondo quello che era stato programmato.

45 Per gli argomenti correlati alla pianificazione delle decisioni d’impresa, consultare il paragrafo 1.6 del testo: PANATI G., GOLINELLI G.M., Tecnica economica ed industriale, Roma, La Nuova Italia Scientifica.

Presidente

Amministratore delegato

Funzione amministrazione

Funzione produzione

Funzione marketing

officina assemblaggio personale acquisti contabilità vendite

Vertice strategico

consulenza

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Economia e gestione delle imprese – Prof. Giuseppe Vito 91

Con riferimento alla produzione la pianificazione si traduce nei sistemi di programmazione e controllo alla produzione ma ovviamente esistono altri sistemi di programmazione e controllo. I vari sistemi di programmazione e controllo della produzione, per quanto complessi (ad esempio la programmazione a diversi orizzonti temporali di un sistema flessibile di produzione), obbediscono tutti allo stesso principio di programmare prima dell’avvio delle attività ai fini del controllo durante l’attività stessa. Nel caso dell’amministrazione e della contabilità i documenti di programmazione e controllo maggiormente noti e significativi sono rappresentati dai budget. Questi sono, sostanzialmente, una sorta di bilancio preventivo che l’impresa redige in relazione ai movimenti finanziari ed economici che avverranno nei periodi successivi (periodi di pianificazione). Tali budget, al contrario di quanto accade per i bilanci, non hanno fini di comunicazione all’esterno delle situazioni dell’impresa ma sono motivati da esigenze interne di analisi e di contabilità dei costi; vengono quindi redatti preventivamente per verificare in un secondo momento –attraverso il controllo- se tutto si sia svolto secondo le previsioni. Il budget, quindi, è uno strumento tipico di programmazione e controllo. I sistemi di pianificazione e controllo esplicano la loro valenza fondamentalmente in ambienti stabili (anche se vari), per i quali abbia cioè un senso, in termini di attendibilità, formulare previsioni ai diversi orizzonti temporali di pianificazione. In funzione della complessità dell’attività da pianificare e da controllare, i sistemi di pianificazione e controllo hanno diversi livelli di formalizzazione. In taluni casi sono documenti redatti ad un elevato grado di dettaglio, in altri sono appena abbozzati (ad esempio nel caso di strutture e di attività semplici). La pianificazione si effettua, dunque, con riferimento a diversi orizzonti temporali.

1. Il primo livello è un livello generale (strategico) in cui si fissano le modalità per il conseguimento degli obiettivi di fondo dell’impresa considerando orizzonte temporale lungo (per esempio crescita del 100% del fatturato in cinque anni). Questo primo livello di pianificazione dà luogo a documenti denominati “piani”.

2. Il secondo livello è generalmente il livello denominato “tattico” e riguarda la fissazione delle modalità per il conseguimento degli obiettivi specifici dell’impresa coerenti con gli obiettivi strategici ad un orizzonte di pianificazione più breve (ad esempio crescita del fatturato del 20% annuo per conseguire l’obiettivo strategico di cui al punto precedente).

3. Il terzo livello, avente orizzonte di breve e brevissimo periodo (anche giornaliero), fissa le singole azioni da intraprendere per il raggiungimento degli obiettivi tattici e strategici.

I livelli di pianificazione possono essere meglio compresi se si fa riferimento all’iter progettuale di una grande opera (ad esempio la costruzione di un ponte). Questa attività, infatti, viene generalmente pianificata ad un livello strategico con lo studio di fattibilità, ad un livello tattico attraverso il progetto

esecutivo e ad un livello operativo attraverso il cosiddetto progetto esecutivo di cantiere. Lo studio di fattibilità contiene gli elementi relativi alla fattibilità tecnica ed economica delle alternative progettuali; in tale fase vengono studiate le compatibilità tecniche (per esempio, nel caso della costruzione di un ponte, le tipologie dei piloni con la geo-morfologia e consistenza del terreno) ed economiche (se i ricavi o i benefici previsti siano, di massima, superiori ai costi di costruzione e di esercizio). Il progetto esecutivo esamina nel dettaglio l’alternativa progettuale prescelta attraverso lo studio di fattibilità riportando nel dettaglio soluzioni tecniche, temporizzazioni delle attività, costi e

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ricavi prospettici. Infine, l’esecutivo di cantiere identifica nel dettaglio le attività da svolgere in fase costruttiva (“sul cantiere”) in ordine alla realizzazione progettata. 4.6.2. Collegamenti laterali basati sull’adattamento reciproco In ambienti caratterizzati da elevata variabilità i collegamenti laterali che meglio rispondono all’esigenza di rendere congruenti le attività di unità operative diverse sono dati dai collegamenti laterali basati sull’adattamento reciproco. Tale tipo di collegamenti, pur riconoscendo la validità dei sistemi di pianificazione e controllo, per la loro immediatezza di risposta sono in grado di conferire all’impresa –che si relaziona con un ambiente caratterizzato da elevata variabilità- la possibilità di fronteggiare variazioni rispetto al programma. Ad esempio, in sala operatoria, l’equipe chirurgica, pur disponendo di un programma di massima, deve comunque attendersi l’insorgere di situazioni diverse ed essere in grado di affrontare tali situazioni. I principali tipi di collegamenti laterali basati sull’adattamento reciproco sono costituiti dai manager integratori; dai gruppi di lavoro temporanei (task force, gruppo costituito per svolgere un particolare compito e che viene successivamente sciolto); dai comitati (gruppo interdipartimentale meno temporaneo che si riunisce regolarmente per discutere problemi comuni) e dai circoli di qualità. Il manager integratore è posizionato nei gangli di collegamento tra le unità organizzative il cui operato deve essere reso congruente come nella fig. n. 4.11. Esso si trova in posizione di collegamento e può avere o meno un’autorità gerarchica sulle singole unità organizzative da integrare.

Fig. n. 4.11 - Posizione di un manager integratore in una struttura organizzativa gerarchico- funzionale

Presidente

Amministratore delegato

Funzione amministrazione

Funzione produzione

Funzione marketing

officina assemblaggio personale acquisti contabilità vendite

Vertice strategico

consulenza

Manager integratore

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Economia e gestione delle imprese – Prof. Giuseppe Vito 93

4.7. Il decentramento decisionale Quando il potere decisionale risiede in un unico punto dell’organizzazione (fino a concentrarsi in un’unica persona), parliamo di struttura accentrata; quando il potere è diffuso fra molte persone parliamo di struttura decentrata. Il decentramento, dunque, esprime la diffusione del potere formale. Secondo la rappresentazione della struttura organizzativa fornita attraverso l’organigramma,l’autorità si sviluppa, ad esempio in una struttura gerarchico-funzionale, dall’alto verso il basso. Si suppone, pertanto, che tutto funzioni secondo la logica top-down e che soprattutto ci sia un accordo complessivo tra i membri dell’organizzazione. Nella realtà molteplici sono i problemi di comunicazione che insorgono all’interno di un’impresa: quando il vertice strategico impartisce un comando, cosa assicura che l’unità organizzativa destinataria percepisca il comando stesso nel modo giusto? Inoltre, nelle organizzazioni reali insorge sempre il fenomeno del decentramento decisionale per effetto del quale le responsabilità si possono spostare ai livelli più bassi dell’organizzazione. Possiamo riconoscere tre tipi di decentramento decisionale:

1. decentramento orizzontale; 2. decentramento verticale; 3. decentramento selettivo.

Tali definizioni si riferiscono alle parti dell’organizzazione e non tanto all’organigramma. Il decentramento verticale si ha quando la responsabilità viene delegata “verticalmente” ai diversi successivi livelli della linea intermedia (dal vertice strategico alla linea intermedia): quanto più in basso tale decentramento si spinge, tanto più la struttura organizzativa è caratterizzata da decentramento verticale. Il decentramento orizzontale si ha quando la responsabilità viene delegata “orizzontalmente” dai managers della linea intermedia alle unità organizzative componenti la tecnostruttura o (in rari casi) lo staff di supporto. Il decentramento selettivo si ha quando il potere decisionale si posiziona in più parti –sia a livello orizzontale che verticale- della configurazione organizzativa (per esempio, le decisioni finanziarie possono essere assunte dal vertice strategico; le decisioni di marketing dalle unità di supporto etc). La capacità di molte imprese giapponesi di ottenere prodotti di successo rapidamente e senza sprechi si basa anche sul fatto che parte della responsabilità decisionale è stata delegata ai livelli più bassi dell’organizzazione (fino all’officina). In tali casi, gli operai, i capi-reparto, ecc., perfettamente consapevoli delle motivazioni dell’eventuale spreco (di tempo o di risorse), hanno trasmesso verso l’alto le loro considerazioni correggendo i processi.

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Capitolo quinto - Il prodotto 5.1. Generalità sui prodotti e servizi Per prodotto si intende un "bene fisico" avente specifiche caratteristiche (qualità, design, formato, imballaggio, ecc.) ottenuto mediante un processo di trasformazione (fisica di materie prime e semilavorati oppure trasformazione spaziale o temporale). Esso è tutto ciò che può essere offerto all’attenzione del mercato (consumatore, domanda) ai fini dell’acquisizione e del consumo. Come precedentemente visto il prodotto (output) offerto da un’impresa può essere rappresentato da un bene o da un servizio. Si ribadisce che per servizio si intende una prestazione immateriale ancorché anch’essa proveniente dalla trasformazione in senso fisico di materie prime o semilavorati (esempi: i servizi assicurativi, bancari, turistici). Ogni prodotto assolve molteplici funzioni (funzioni primarie e funzioni secondarie) e, dunque, ogni consumatore può utilizzare lo stesso prodotto per usi diversi: per esempio il frigorifero conserva gli alimenti e, secondariamente, produce cubetti di ghiaccio. Le funzioni primarie, consistenti nel soddisfare un bisogno del consumatore, sono alla base del valore d’uso che il cliente attribuisce al prodotto che si traduce nell’acquisto del prodotto stesso. Infatti, il rapporto di scambio di valore tra l’impresa ed il consumatore, cioè tra la domanda e l’offerta, è in realtà uno scambio tra la soddisfazione di un fabbisogno del cliente ed il pagamento di un prezzo all’impresa. Il grado di soddisfazione che ciascun consumatore trae dall’utilizzo di un prodotto è diverso per ognuno in quanto legato alle proprie aspettative personali: per alcuni è uno status symbol, per altri oggetto di lavoro etc. Dal lato della domanda bisogna rilevare che i consumatori nutrono delle aspettative in merito alle caratteristiche che il prodotto deve possedere ed è proprio a queste caratteristiche che il cliente attribuisce un valore. Dal lato dell’offerta, le imprese cercano di interpretare questi segnali e le tendenze del mercato e, a tal fine, si concentrano sulle c.d. quattro leve del marketing (prezzo, prodotto, posto, promozione). L’auspicabile congruenza tra le caratteristiche di domanda e di offerta viene garantita o, almeno, facilitata, dalle attività di comunicazione di impresa. Negli anni recenti si sono diffuse sia associazioni di consumatori (a tutela degli stessi) finalizzate al monitoraggio di determinati prodotti o gruppi di prodotti delle imprese; sia associazioni di imprese o consorzi per la tutela del proprio prodotto (esempio il Consorzio del Parmigiano Reggiano) ai fini di rispondenza a determinati requisiti (standard). 5.2. Classificazioni dei prodotti Esistono due fondamentali classificazioni dei prodotti in funzione di:

1. destinazione d’uso; 2. grado di novità.

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1. In base alla destinazione d’uso si distinguono:

a) beni di consumo; b) beni industriali o strumentali.

a) I beni di consumo possono essere a loro volta suddivisi in due sottoclassi: a1) beni di consumo immediato (ad esempio, i gelati); a2) beni di consumo durevole (ad esempio, il martello). Le due menzionate categorie di consumo possono essere entrambe di largo consumo o di consumo ristretto. Nell’ambito di queste sottocategorie si distinguono tre tipologie di beni: � convenience goods (beni acquistati ad impulso senza alcuna valutazione); � shopping goods (beni il cui prezzo elevato richiede una maggiore ponderazione per l’acquisto da

parte del consumatore); � speciality goods (beni di prestigio che rappresentano uno status symbol. Rientrano in questa

categoria i beni di lusso). b) I beni industriali o strumentali sono beni acquistati dall’impresa e dalla stessa utilizzati per produrre altri beni; sono suddivisi in due grandi categorie: b1) beni a fecondità semplice, (ffs): come derrate alimentari, petrolio greggio, materiali, semilavorati, componenti, ecc.; b2) beni a fecondità ripetuta, (ffr): come impianti, macchinari, ecc.. Si noti che l’entità della domanda di beni industriali è determinata indirettamente dalla domanda di beni e servizi di consumo essendo la prima una domanda di tipo “derivato”. 2. In relazione alla novità si riconoscono:

a) prodotti innovativi [nuovi] (nuovi per l’impresa e per il mercato); b) migliorati [innovati] (prodotti aventi alcune caratteristiche di novità sia per l’impresa che per il

mercato; ad esempio, l’automobile con quattro ruote motrici). a) Un prodotto si definisce innovativo quando: − è intrinsecamente nuovo (un bene che prima non c’era); − viene utilizzato in modo nuovo rispetto a quello tradizionale. Cinque importanti caratteristiche consentono al consumatore di confrontare diversi prodotti (nuovi od innovati) presenti sul mercato stabilendo, di conseguenza, quale è il migliore. Queste caratteristiche sono:

I. superiorità del prodotto (superiorità oggettiva) il prodotto è oggettivamente superiore rispetto agli altri prodotti;

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II. compatibilità del prodotto (compatibilità con determinati usi) il prodotto è compatibile con gli usi cui è destinato;

III. semplicità di utilizzazione (un esempio la “Apple” che ha fatto da sempre leva sulle facilità d’uso del suo software rispetto all’”IBM” che giocava soprattutto sul prezzo e la compatibilità del suo prodotto) il prodotto è semplice da utilizzare;

IV. osservabilità delle caratteristiche sono osservabili le caratteristiche possedute dal prodotto; V. provabilità (la superiorità deve essere tangibile prima dell’acquisto), è possibile testare i prodotti per

valutarne la superiorità . 5.3. Il portafoglio prodotti L’impresa può essere presente sul mercato con più tipi di prodotti, il cui complesso costituisce il portafoglio prodotti dell’impresa. Nell’ambito del portafoglio prodotti si parla genericamente di catalogo oppure di assortimento nel caso di imprese commerciali o di distribuzione:

L’ampiezza dell’assortimento o del catalogo è definita come il numero di linee di prodotto di un’impresa. La linea di prodotto è l’insieme dei prodotti percepiti come omogenei dal consumatore, in quanto destinati a soddisfare sostanzialmente gli stessi bisogni. La profondità attiene il numero di articoli/modelli componenti una linea di prodotto (una linea di prodotto è tanto più profonda quanti più articoli/modelli contiene).

Portafoglio prodotti (catalogo o assortimento)

Linea di prodotto 1

Linea di prodotto 2

Linea di prodotto 3

Ampiezza del portafoglio

Modello A1

Modello B1

Modello A2

Modello B2

Modello A3

Modello B3

Profondità della linea di prodotto

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5.4. Tipologie di mercati Per comprendere il funzionamento di un determinato mercato è importante considerare il rapporto che in esso esiste tra l’impresa ed il consumatore, ovvero tra la domanda e l’offerta. Per definire il funzionamento del mercato è importante individuare i rapporti tra domanda e offerta mediante la distinzione tra mercato del venditore e mercato del consumatore. Mercato del venditore

E’ un mercato per il quale si verifica che la domanda è maggiore dell’offerta: la domanda dei consumatori nei confronti di un certo prodotto è superiore alla capacità di produzione (e quindi alla quantità di prodotto disponibile sul mercato). Ciò conferisce alle imprese in esso operanti una posizione di forza, con un potere contrattuale rispetto ai consumatori, che si traduce nell’imposizione di condizioni a loro più favorevoli. Mercato del compratore

E’ un mercato per il quale si verifica che l'offerta è maggiore della domanda: la quantità di prodotto immessa sul mercato è superiore alla capacità di assorbimento del mercato. Pertanto, il consumatore possiede un potere contrattuale nei confronti del venditore. Le imprese possono cercare di indirizzare la domanda attraverso idonee politiche di marketing finalizzate alla conquista e/o mantenimento di quote di mercato. Agiscono, dunque, sulle quattro variabili del marketing mix: 1. prezzo, 2. prodotto (qualità del prodotto); 3. pubblicità; 4. posto (politiche di distribuzione del prodotto).

5.5. Il prodotto ed il mercato: standard, differenziazione, segmentazione. Il prodotto è costituito da un insieme di attributi che si sostanziano in alcuni elementi concreti riconducibili alla qualità. La qualità è un concetto complesso in quanto pluridimensionale ed è diverso in funzione della natura del prodotto e delle esigenze dei consumatori 46. In modo più specifico, per definire la qualità di un prodotto si utilizzano gli standards, frequentemente oggetto di specifiche regolamentazioni, che rappresentano dei parametri rispetto ai quali si misura la qualità stessa. Ad esempio gli standards di qualità dell’automobile si riferiscono alla conformità rispetto a determinati limiti di sicurezza, di velocità, stabilità, ecc. a livello nazionale (es. Italia) o internazionale (es. Europa). Inoltre, gli standards servono da verifica e da difesa del prodotto contro le contraffazioni. Per esempio il marchio DOC (Denominazione di Origine Controllata) e DOCG (Denominazione di Origine Controllata e Garantita) nel settore vinicolo rappresentano identificativi delle zone di origine della materia prima che servono a caratterizzare la provenienza di alcuni vini ai fini della differenziazione. Gli standards di qualità hanno grande importanza per quanto riguarda gli aspetti produttivi nel campo della sub-fornitura di componenti e beni industriali. Ciò per il fatto che tali beni, dovendo essere riutilizzati in altri processi, devono rispettare strettamente alcune caratteristiche (standard), la mancanza dei quali comprometterebbe il funzionamento anche delle altre parti del processo.

46 La qualità come concetto pluridimensionale è trattata nel par. 1.3. (Priorità competitive e soluzioni produttive innovative) del libro di testo G. Vito, Innovazione tecnologica e governo d’impresa, Torino, Giappichelli, 2000.

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Esistono enti certificatori che emanano norme, protocolli cui le imprese devono uniformarsi, ad esempio l’International Standard Organization (ISO). I soggetti decisionali riguardo gli standards dei prodotti sono in generale: autorità di governo, organi di legiferazione, gruppi di pressione dei consumatori e dei produttori, ecc. Gli aspetti ai quali vengono applicati gli standards sono: � il prodotto (design standards) che si riferiscono alle caratteristiche progettuali del prodotto; � il risultato (performances standards) che si riferiscono al conseguimento, da parte del prodotto,

durante il suo utilizzo, di determinate performances. Differenziazione del prodotto Tutti questi elementi caratterizzano il prodotto, ma le imprese in molti casi, hanno interesse a differenziare il prodotto. Infatti, mentre in passato i prodotti offerti erano omogenei (uguali) di guisa che appariva impossibile distinguerli a seconda del produttore, della zona o dell’epoca di produzione e l’unico elemento di scelta a disposizione del consumatore era rappresentato dal prezzo; oggi, attraverso la differenziazione, le imprese riescono a ritagliarsi dei sub-mercati ovvero a scavarsi una nicchia nel mercato in cui si muovono in posizione quasi monopolistica. Attraverso la differenziazione del prodotto si offrono prodotti aventi diverse caratteristiche (reali o fittizie) a gruppi di consumatori con criteri soggettivi di apprezzamento dei prodotti stessi. Si possono delimitare due categorie di differenziazione: � reale (differenziazione verticale): si ottiene intervenendo sulle caratteristiche reali di un prodotto

(qualità); � fittizia (differenziazione orizzontale): si consegue quando si riesce ad ingenerare nel consumatore la

convinzione che un prodotto sia diverso (migliore) rispetto ad un altro operando sull’aspetto esteriore del prodotto od implementando appropriate campagne pubblicitarie, ecc.

Molteplici sono i vantaggi che le imprese possono ottenere attraverso l’adozione di una strategia di differenziazione:

1. riduzione della competizione tra i produttori (ciascuno opera nella propria nicchia di mercato in cui offre un prodotto specifico a determinati segmenti di clientela);

2. abbassamento del livello ottimale di produzione (difatti, le imprese operano in posizione quasi monopolistica nella propria nicchia di mercato ed esercitano, pertanto, un maggior controllo sul prezzo);

3. eliminazione delle eccedenze di capacità produttiva. La differenziazione, concetto legato al prodotto, non va confusa con la diversificazione che è un concetto riguardante il portafoglio prodotti. Processo di segmentazione del mercato Le considerazioni svolte sulla differenziazione conducono alla definizione dell’importante concetto della segmentazione. Un esempio aiuterà a comprendere meglio i due concetti. Nel caso del caffè decaffeinato si può osservare che, per attuare la differenziazione, è stato realizzato un prodotto diverso sebbene similare. Alla base di tale scelta vi è stata la constatazione da parte dell’impresa che all’interno del mercato caffé vi fosse un significativo gruppo di consumatori (un segmento ovvero una parte di mercato) interessato al caffé privo di caffeina. Ed è su quel segmento che l’impresa ha deciso di focalizzare la propria attenzione adottando, di conseguenza, adeguate politiche produttive e di marketing .

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L’impresa, pertanto, è in grado di formulare le più adeguate politiche di prezzo, di prodotto, di promozione, di qualità, di distribuzione, ecc. allorquando ha definito il target di consumatori cui rivolgersi. La segmentazione consiste appunto nella suddivisione del mercato in sottoinsiemi omogenei e distinti di consumatori-clienti. Ciascuno di questi può costituire l’obiettivo di mercato della nostra impresa. Il segmento di mercato corrisponde ad un “sub-mercato” individuato all’interno del mercato generale. I consumatori di quel sub- mercato presentano un atteggiamento di consumo e di acquisto simile rispetto ad un certo prodotto. Il processo di segmentazione si articola in tre fasi principali: � scelta di uno o più parametri di segmentazione; � individuazione e descrizione dei segmenti; � scelta di uno o più segmenti su cui operare. Per effettuare correttamente il processo di segmentazione è indispensabile conoscere le differenze economiche, sociali e psicologiche che caratterizzano un determinato insieme di consumatori allo scopo di dedurne le caratteristiche da assegnare ai prodotti in termini di prezzo, prestazioni, design, pubblicità ed altre. I parametri47 utilizzati più frequentemente per effettuare la segmentazione sono: parametri demografici (età, sesso, ampiezza della famiglia ecc); parametri socio-economici (reddito, professione esercitata, livello di istruzione etc.); parametri ubicazionali (residenza in centri di differente dimensione, in zone a diverso sviluppo economico, ecc); parametri psicografici (personalità, autonomia decisionale, preferenza per l’innovazione, ecc); parametri riferiti al prodotto (caratteristiche del prodotto/servizio e benefici attesi dall’acquisto). Solitamente uno di questi parametri assume un ruolo chiave, anche se più di frequente la segmentazione è attuata mediante due o più parametri. Una volta scelto il/i parametro/i, si procede alla segmentazione del mercato generale; all’individuazione dei segmenti; alla descrizione delle caratteristiche di ciascuno dei segmenti precedentemente individuati; alla scelta dei segmenti su cui operare. Evidentemente l’imprenditore prende in considerazione soltanto i segmenti più significativi, cioè rispondenti ai seguenti requisiti: � identificabilità (nel segmento si identificano specifici comportamenti di consumo); � misurabilità (il segmento è misurato da un totale di persone, può crescere o decrescere sotto

l’effetto della moda); � significatività economica (se il segmento è significativo in termini economici per l’impresa); � il segmento va riconosciuto in termine di consistenze e convenienze; � accessibilità del segmento (esistenza di barriere all’entrata ovvero possibilità di accedere più o

meno agevolmente in quel segmento). Posizionamento dell’impresa Ogni segmento appare ulteriormente frazionabile in sub-segmenti.48 In relazione ai subsegmenti da servire, le imprese possono posizionarsi diversamente ovvero possono scegliere di indirizzare i propri prodotti verso uno specifico target scelto all’interno degli strati di domanda serviti. Il posizionamento

47 Sciarelli S., Economia e gestione dell’impresa, 1999, CEDAM, Padova. 48 Sciarelli S., Economia e gestione dell’impresa, 1999, CEDAM, Padova.

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consente all’impresa di posizionarsi in quelle nicchie di mercato in cui dispone di un vantaggio competitivo conservabile nei confronti della concorrenza. Ad esempio, supponiamo che all’interno del mercato automobilistico esista un segmento costituito dagli acquirenti di autoveicoli di piccola cilindrata. Questi ultimi possono dividersi in più subsegmenti a seconda del peso attribuito al prezzo d’acquisto, al costo d’esercizio, alla qualità, all’estetica. Di conseguenza i costruttori decideranno di caratterizzare i loro modelli secondo una certa combinazione di questi attributi in modo da posizionare il proprio prodotto nel particolare mercato.49 Una possibile e tipica combinazione è quella tra il prezzo e la qualità: prezzo basso e qualità bassa; prezzo basso e qualità alta; prezzo alto e qualità bassa; prezzo alto e qualità alta. 5.6. Ciclo di vita del prodotto

Il ciclo di vita del prodotto descrive, quantitativamente, la dinamica delle vendite di un prodotto (o di una specifica categoria di prodotti) rispetto al tempo. Tale dinamica è rappresentabile graficamente mediante l'utilizzo di un diagramma cartesiano che riporta in ascisse il tempo e sull’asse delle ordinate l’andamento delle vendite (fig. n. 5.1): 0 Fig. n. 5.1 - Ciclo di vita "generico" del prodotto

Nella gestione d'impresa il ciclo di vita del prodotto è uno strumento ampiamente utilizzato per stabilire, nell'arco di tempo che interessa, i comportamenti più appropriati da assumere in ciascuna fase del ciclo di vita stesso, sia rispetto al mercato sia nell'ambito delle diverse funzioni d’impresa. Con riferimento ad un prodotto nuovo, il ciclo di vita è descritto da una funzione che in geometria analitica prende il nome di logistica in grado di comprendere, analiticamente, tutte le altre curve tracciabili nel piano che potrebbero descrivere il ciclo di vita di determinati prodotti. Ad esempio, il ciclo di vita può essere rappresentato da una retta quando le vendite crescono proporzionalmente rispetto al tempo con una legge costante (fig. n. 5.2):

49 Sciarelli S., Economia e gestione dell’impresa, 1999, CEDAM, Padova.

I NTRODUZ I ONE

PR I

MO

SV I LUP P

O

P I ENO

SV I LUP P

O

MATUR I T A’

rivitalizzazione

pietrificazione

declino

A

B

C D

Qv

t

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t Fig. n. 5.2 - Ciclo di vita del prodotto nel caso di vendite crescenti proporzionalmente nel tempo

La curva logistica, inoltre, è in grado di rappresentare anche il ciclo di vita di un prodotto avente un andamento “irregolare” (fig. n. 5.3):

t Fig. n. 5.3 - Ciclo di vita del prodotto nel caso di vendite prima crescenti e poi costanti rispetto al tempo

t

Fig. n. 5.4 - Ciclo di vita di un prodotto "di moda"

0

0

Qv

Qv

Qv

0

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Più in generale, come illustrato nella fig. n. 5.1, ogni prodotto, dal momento in cui è immesso sul mercato, attraversa quattro distinte fasi, caratterizzate da diversi tassi di variazione della domanda effettiva (ovvero dalle vendite): � introduzione, in cui le vendite crescono in modo piuttosto lento in quanto il prodotto è nuovo, le

sue funzioni d’uso non sono ben conosciute e non si è avuto il tempo di accumulare la pubblicità nella mente dei consumatori;

� primo sviluppo (tra A e B), in cui le vendite aumentano ad un ritmo più rapido (il prodotto entra a colmare una parte della preesistente domanda latente del mercato);

� pieno sviluppo (tra B e C), in cui le vendite continuano a crescere a ritmo rapido (anche se con variazioni negative dei tassi di crescita), a seguito dell’affermazione del prodotto sul mercato;

� maturità (tra C e D), in cui le vendite, attestate su livelli elevati, continuano a svilupparsi, con tassi di crescita ridotti.

A valle della fase di maturità si possono poi riscontrare le seguenti fasi: � declino, in cui le vendite subiscono una riduzione fino ad azzerarsi (per es. i giradischi); � pietrificazione, in cui le vendite restano costanti nel tempo; � rivitalizzazione, in cui le vendite riprendono ad aumentare per effetto di una modificazione della

funzione d'uso o per significative modifiche che siano state apportate al prodotto. L’evoluzione del ciclo di vita del prodotto a valle della fase di maturità dipende dalla natura del prodotto nonché dalle politiche che l’impresa persegue in ordine alla sua rivitalizzazione o abbandono50. Da quanto detto risulta evidente che le diverse situazioni di mercato che si configurano durante il ciclo di vita del prodotto si riflettono all’interno dell’impresa. Questo significa che nelle singole fasi muta il grado di attenzione che l’impresa deve prestare alle diverse funzioni interne. Nella fase di introduzione l’impresa immette sul mercato un prodotto “primitivo”; in questo periodo, gli ambiti funzionali sui quali l’impresa si focalizza sono ancora la ricerca e sviluppo e la progettazione –sia del prodotto che del processo- in modo tale da aumentare la funzionalità del prodotto in ordine a raggiungere più ampie quote di mercato. L’impresa registra profitti negativi, difatti alle vendite scarse vanno ad aggiungersi gli elevati costi di produzione. La fase di sviluppo è suddivisa in due parti: primo sviluppo e pieno sviluppo, caratterizzate dalla diversa inclinazione della retta tangente alla curva; questa è prima crescente51, ad indicare variazioni positive dei tassi di crescita, e poi decrescente, ad indicare variazioni dei tassi di crescita negative. 50 Per politica del prodotto si intende l’insieme delle decisioni relative ai beni o servizi offerti dall’impresa e riguarda il tipo di produzione che l’impresa vuole ottenere e i mercati sui quali intende operare. Tali caratteristiche sono governate mediante gli elementi del marketing mix ovvero prezzo, prodotto (qualità del prodotto), pubblicità e posto (distribuzione). 51 La fase di primo sviluppo è rappresentativa di un mercato avente le seguenti caratteristiche dimensionali: D1995 = 100 D1996 = 120 D1997 = 160 La crescita delle vendite, in questo caso, avviene in modo più che proporzionale, cioè la variazione dei tassi di crescita è positiva:

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Nella fase di primo sviluppo, potendo contare su mercati aventi una dinamica di crescita accelerata, l’impresa dovrà cercare di crescere insieme al mercato adeguando gli impianti e i processi produttivi; in questa fase la focalizzazione dell’impresa è sull’ottimizzazione del prodotto e del processo in modo che il primo soddisfi sempre meglio le esigenze del mercato e il secondo garantisca condizioni di efficienza tecnica ed economica nella produzione. Grazie ai tassi di crescita positivi, si registrano profitti crescenti. Nella fase di pieno sviluppo, l’attenzione è focalizzata sulla funzione di produzione per ottenere maggiori volumi di produzione e le relative economie di scopo e di scala, nonché sulla funzione di marketing. Nella fase del pieno sviluppo la variazione dei tassi di crescita è negativa; questo significa che, al contrario di quanto accade nella situazione di primo sviluppo -in cui il mercato cresce con ritmi accelerati e all’impresa può bastare restare agganciata alla sua quota di mercato senza adottare strategie di aggressione del mercato finalizzate a guadagnare quote alla concorrenza- l’impresa dovrà erodere quote di mercato alla concorrenza. Infatti, anche se le vendite continuano ad aumentare ad un certo punto si stabilizzano e si giunge alla fase di maturità, importante in quanto le vendite, pur non crescendo ai ritmi delle precedenti fasi, sono comunque attestate su livelli elevati. Questa fase è caratterizzata da un più contenuto saggio d’incremento delle vendite; da costi contenuti, quindi anche da prezzi bassi; da profitti elevati (perché il margine di contribuzione unitario deve essere moltiplicato per la quantità venduta) ma stabili. Pertanto, nella fase di maturità l’impresa si focalizza sull’abbattimento dei costi di produzione al fine di ridurre il prezzo di vendita e sfruttare le ultime possibilità di guadagno.

(D1996 - D1995) / D1995 = TC96/ 95 = (120 – 100) / 100 = 20% (D1997 - D1996) / D1996 = TC97/ 96 = (160-120) / 120 = 33,3% (TC97/ 96 - TC96/ 95) / TC96/ 95 = (33,3% - 20%) / 20% = 13,3% / 20 % > 0 ∆ (TC97/ 96) = 33 - 20 ≅ 70% TC96/ 95 20 E’ dunque una situazione in cui oltre alle vendite aumentano anche i tassi di crescita, la cui variazione risulta dunque positiva.

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Capitolo sesto - Il valore della produzione 6.1. Il valore della produzione Il valore della produzione è funzione del valore d’uso del prodotto e, soprattutto è funzione della quantità di domanda effettiva dei prodotti e servizi ottenuti da tale produzione. La produzione ha un valore soltanto se ci sono degli atti effettivi di acquisto da parte dei consumatori. Il valore della produzione si può esprimere attraverso tre configurazioni di valore:

1. valore costo; 2. valore di scambio; 3. valore d’uso.

Il valore costo è riferito al valore dei fattori della produzione impiegati, incluso il contributo degli ammortamenti, dell’eventuale capitale di debito e del capitale proprio, quindi è determinato dai costi. Il valore di scambio si realizza in relazione agli atti effettivi di vendita; tale valore deve essere superiore al valore costo, deve remunerare l’impresa e l’imprenditore, è dunque determinato dai prezzi. Il valore d’uso è quel valore che il consumatore soggettivamente attribuisce al prodotto, determinando, in questo modo, la sua propensione a spendere per entrare in possesso di quel bene. Per quanto riguarda la domanda che si rivolge ad un determinato bene, possono essere distinte tre diverse tipologie:

• domanda effettiva ovvero che si traduce in reali atti di acquisto; • domanda potenziale ovvero quella che potrebbe essere tecnicamente soddisfatta dal prodotto e

potrebbe diventare effettiva se si manifestassero certe condizioni (capacità di acquisto, vendita a rate, ecc.);

• domanda latente ovvero quella che non trova corrispondenza nell’offerta. La domanda potenziale potrebbe diventare effettiva se si manifestassero determinate condizioni di mercato. La domanda latente diventa effettiva al realizzarsi di alcune condizioni nell’offerta. La domanda incipiente è quella che diventa effettiva al verificarsi di condizioni estreme. 6.2. Il principio di equivalenza In tutte le considerazioni fin qui svolte sono sottintese alcune importanti ipotesi semplificative; una prima ipotesi consiste nel supporre che nel periodo di tempo considerato (un esercizio, un anno o altro) la quantità prodotta Qp sia coincidente con la quantità venduta Qv: Hp. Qp = Qv. Per conseguenza, i ricavi delle vendite RV, dati da p * Qv (ove p indica il prezzo) risultano uguali al valore costo VC dato da vc * Qp ove vc è il “valore costo unitario” formato da tutti i costi relativi a quella determinata unità di prodotto incluse le remunerazioni per l’imprenditore.

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Rimuovendo l’ipotesi semplificativa di coincidenza tra quantità prodotta e quantità venduta (Qv = Qp) e supponendo realisticamente che nell’arco di tempo preso a riferimento la quantità prodotta è superiore alla quantità venduta, si genereranno le rimanenze finali RF, determinabili algebricamente –nel caso in cui siano presenti delle rimanenze iniziali RI- nel modo seguente: RF = Qp + RI - Qv Ovvero: le rimanenze finali (RF) sono date dalla somma tra la quantità prodotta (Qp) nel periodo di tempo preso come riferimento e le rimanenze iniziali (RI, rimanenze provenienti da precedenti esercizi), da cui si sottrae la quantità di output venduta (Qv). Le rimanenze iniziali RI hanno un valore VRI, quelle finali RF hanno un valore finale VRF; si può pertanto scrivere: VRF = vc Qp + VRI - p Qv vc Qp + VRI = p Qv + VRF vc Qp = p Qv + VRF - VRI (1) Se si considerano le produzioni interne (PI) e i ricavi da attività varie dell’impresa (RV), l’equazione (1) si trasforma nella seguente: vc Qp = p Qv + VRF - VRI + VPI + VRV (2) Dal flusso dei fondi sappiamo che: p Qv = CMP + CLS + QA + iD + UL (3) Parimenti, ricavando p Qv dalla (2) si ha: p Qv = - VRF + VRI - VPI - VRV + vc Qp Uguagliando le equazioni si ottiene: vc Qp = CMP + CLS + QA + iD + UL + VRF - VRI + VPI + VRV (4) L’equazione (4) è denominata “equazione di bilancio”. L’equazione di bilancio rappresenta in modo completo l’uguaglianza tra i ricavi e i costi già considerata nel flusso dei fondi. Va osservato che l’uguaglianza espressa dall’equazione di bilancio è valida nel periodo di tempo considerato (un esercizio, un anno, ecc.). Se si rimuove l’ipotesi che i ricavi e i costi relativi a determinati atti produttivi (rimozione peraltro già effettuata considerando l’esistenza di rimanenze iniziali e/o finali) avvengano nel periodo di tempo considerato si deve considerare, ai fini di conservare il principio di equivalenza, la capitalizzazione dei

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costi sostenuti fino al momento di ottenimento dei ricavi o la corrispondente attualizzazione52 dei ricavi. La capitalizzazione dei costi rende conto del diverso valore che il denaro assume nel tempo. Ciò significa che i ricavi delle vendite sono uguali ai costi capitalizzati come descritto dall’equazione n.5. RV = C0 (1 + i)n (5) Od, ancora, che i costi sono uguali ai ricavi attualizzati, ossia: Co = RV / (1 + i)n (6) Il principio di equivalenza, dunque, comprende il criterio di capitalizzazione dei costi (equazione n.5) e/o attualizzazione dei ricavi (equazione n.6). Dette operazioni di attualizzatone e/o capitalizzazione hanno luogo sulla base di un prezzo di trasporto del valore del denaro nel tempo, chiamato interesse e simbolizzato con “i”. E’ evidente che l’interesse è rappresentativo non solo degli interessi bancari o del tasso di inflazione ma anche dell’utile lordo. Infatti, se in C0 non viene considerato l’utile lordo, per modificare i ricavi di vendita si può modificare “i”. Il tasso “i” utilizzato nelle operazioni di capitalizzazione e/o attualizzazione, detto “tasso minimo di rendimento atteso”, deve essere composto, per remunerare adeguatamente l’attività d’impresa, da: � un tasso di rendimento garantito dai titoli “di tutto riposo” (BOT, CCT e altro), ossia assicurare

all’imprenditore una remunerazione almeno pari a quella garantita dai titoli di stato, titoli privi di rischio;

� una percentuale di incremento relativa al rischio di impresa (assicurabile e non), ovvero bisogna assicurare una remunerazione tale da premiare il rischio assunto dall’imprenditore ed associato all’attività d’impresa;

� una percentuale di incremento relativa alla remunerazione dell’idea e del lavoro imprenditoriale.

52 L’operazione finanziaria di attualizzazione dei ricavi consente di conoscere il valore attuale di ricavi disponibili al tempo t (al momento in cui tali ricavi saranno conseguiti). Viceversa attraverso l’operazione di capitalizzazione il capitale C si trasforma nel montante M (dato dalla somma tra il capitale e gli interessi maturati su di esso). Pertanto, si può affermare che: i ricavi (Rv) rappresentano la capitalizzazione dei costi (costi sostenuti più tasso d’interesse) oppure i costi rappresentano l’attualizzazione dei ricavi. Di Lorenzo A., Lezioni di matematica finanziaria, Liguori Ed.

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