+ All Categories
Home > Documents > Eroi per la pace - mosaicodipace.it · addestramento della polizia afghana. Un esplosione ha fatto...

Eroi per la pace - mosaicodipace.it · addestramento della polizia afghana. Un esplosione ha fatto...

Date post: 18-Feb-2019
Category:
Upload: vonhan
View: 213 times
Download: 0 times
Share this document with a friend
1
Avvenire 08/08/2012 Page : A03 Copyright © Avvenire August 8, 2012 7:29 am / Powered by TECNAVIA / HIT-M Copy Reduced to 48% from original to fit letter page MISSIONI NEL MONDO MERCOLEDÌ 8 AGOSTO 2012 3 il fatto La prima rete ufficiale nasce dai reduci dell’Afghanistan, ma presto saranno coinvolti anche militari e familiari delle altre grandi operazioni di questi ultimi anni: dall’Iraq alla Somalia, dal Libano al Kosovo DI LAURA SILVIA BATTAGLIA la prima in Italia. Privata e pro- mossa da coloro che, involonta- riamente, sono diventati prota- gonisti della Storia, subendola. Nei giorni scorsi è nata a Ostia l’associa- zione ufficiale "Caduti di guerra in tempo di pace", in piena collabora- zione con lo Stato maggiore della Di- fesa: riunisce i familiari e gli amici dei militari italiani caduti in Afghanistan. Presto saranno coinvolti anche mili- tari e familiari delle altre missioni di questi ultimi anni: dall’Iraq alla So- malia, dal Libano al Kosovo. L’obietti- vo è «non dimenticare» ma anche spiegare alla popolazione cosa vuol dire affrontare un dolore così improv- viso per chi non conosce i vari aspet- ti della missione in Afghanistan. Ma non c’è solo un intento comunicativo. I familiari dei militari caduti vogliono fare rete «soprattutto per non sentirci soli di fronte a questo vuoto». Un vuoto che stanno sperimentando diverse famiglie italiane, pur nella con- sapevolezza che partecipare a una missione di pace significa anche mo- rire. Gli italiani caduti solo in Afgha- nistan, ottemperando agli obblighi della missione Isaf, sono 51 dall’inizio della missione stessa, costituita dalla Nato nel 2001. L’ultimo, il carabiniere scelto Manuele Braj, è deceduto il 25 giugno scorso ad Adraskan, nell’Af- ghanistan occidentale, nel campo di addestramento della polizia afghana. Un’esplosione ha fatto saltare una ga- ritta di osservazione installata vicino la linea di tiro del poli- gono. Braj, originario della provincia di Lecce, ha lasciato la moglie 28enne, e il figlio di 8 mesi. Insieme a lui sono rimasti feriti alle gambe altri tre carabinieri, poi ricoverati nell’ospedale militare di Shindand. Un destino che si ripe- te e che Annarita Lo Mastro e Rosa Papagna, madri rispettivamente del caporal maggiore David Tobini, caduto nel 2011 a Bala Murghab, e del caporal maggiore scelto France- sco Saverio Positano, deceduto a Shindand nel 2010, hanno deciso di condividere. «Crediamo nell’unità – dice Annarita Lo Mastro – ma allo stesso modo nel coinvolgimento e, in questo percorso, abbiamo incontrato tante persone che la pensano come noi: l’Afghanistan non può essere solo un problema per 51 famiglie». Rosa Papagna, in que- st’associazione, «ci crede» e per que- sto ha deciso di aderire da subito. «C’è bisogno di continuare ad andare a- vanti e lo devo fare per me, ma so- prattutto per mio figlio». Per fare chiarezza, "Caduti di guerra in tempo di pace" non è un’associa- zione "pro" o "contro". «Ci poniamo come organo di parte- È cipazione e collaborazione nei con- fronti dei familiari e non come as- sociazione di protesta contro qual- cuno». Tanto più che è formata non solo dai familiari dei caduti ma da professio- nisti, giornalisti, avvocati, psicologi, commercialisti «che hanno deciso di darci una mano in questa missione, che abbiamo deciso di portare avan- ti, proprio perché i nostri cari ne han- no lasciata in sospeso un’altra». Da u- na parte, si tratta di far venir fuori l’u- manità dei singoli, di far conoscere ef- fettivamente cosa questi italiani han- no fatto in un altro angolo di mondo: da qui il progetto di realizzare mostre fotografiche, concorsi di giornalismo aperti ai giovani, convegni e incontri sull’attualità, con momenti di rifles- sione indirizzati alla stampa e ai cit- tadini. Per affrontare la complessità delle cosiddette missioni di pace sen- za banalizzazioni. L’obiettivo è con- centrarsi sulla diffusio- ne delle notizie da e per l’Afghanistan perché «è il secondo conflitto in cui l’Italia ha versato più sangue» ma i familiari già soci non hanno pre- clusione alcuna e stan- no già inglobando i fa- miliari di vittime di altre missioni o di militi che hanno vissuto l’esposi- zione a uranio impove- rito, rimanendone colpi- ti in vario modo. Dall’altra parte, l’as- sociazione cerca un supporto per af- frontare il dolore. Annarita Lo Mastro lo dice con sem- plicità, senza polemiche nei confron- ti né dello Stato né dei ministri, né del comparto delle Forze Armate: «Dopo i funerali di Stato, siamo lasciati o- gnuno al proprio dramma. Nel senso che la burocrazia italiana è complica- tissima, qualche volta nemmeno im- peccabile, e spesso non riusciamo a raccapezzarci, ci ritroviamo soli an- che ad affrontare percorsi di riabilita- zione psicologiche che ci aiutino a metabolizzare e trasformare questo shock in qualcosa di attivo, di positi- vo». Non a caso, l’associazione cerca anche psicologi volontari che si im- pegnino a stare a fianco dei familiari nell’elaborazione di questo lutto spe- ciale. Annarita Lo Mastro non si vergogna a dire ad Avvenire che lei è ancora den- tro a questo dolore, fino al collo: «Mio figlio David: sono con lui in quella tomba. Passo le giornate nel "giardino di marmo" – così mio figlio chiamava il cimitero –. Mi siedo davanti a quel pezzo di marmo e non ho lacrime. Guardo quella foto e penso che è que- sto ciò che rimane di un figlio, di mio figlio, di quell’Afghanistan. Un figlio la cui sola certezza era una partenza: par- te sano, libero, pieno di vita, e te lo ri- portano in una scatola di legno, in u- na busta di plastica nera, ridotto in 100 pezzi da un’autopsia...». Il dolore di Annarita è lo stesso di mol- ti familiari vittime di guerra, da una parte e dall’altra: militari o civili, non ci sono molte parole di fronte a una "body bag", a un destino che arriva in pezzi a spezzarti la speranza in gola. «Non c’è vita, non c’è sole nelle nostre giornate, in famiglia, da quando David non c’è più. Per questo adoro la piog- gia perché riflette i miei stati d’animo e non mi fa sentire amputata dentro. Non credo che potremo più sorridere, in futuro, se non a sedici denti». Il luogo della verità, per le 51 famiglie che iniziano a parlarsi per conoscersi meglio e trovare la forza di trasforma- re il dolore in azione, è l’aeroporto di Ciampino. Al Pontile di Ostia, dove l’associazione ha fatto il suo primo in- contro pubblico, c’è memoria soprat- tutto di quel momento. «Il pensiero – continua la Lo Mastro – va a quell’ae- reo C130 che, dopo l’atterraggio, fa un mezzo giro su stesso. Si apre il portel- lone e quel suono di tuono diventa im- menso dolore. Poi, scendono loro, i no- stri ragazzi. Li chiamano eroi». © RIPRODUZIONE RISERVATA nche l’ordinario militare può respi- rare «lo sgomento, il vuoto del cuo- re, un’angoscia soffocante dovuta al- la ricerca del senso di un dolore disumano». Così l’arcivescovo Vincenzo Pelvi, ordinario militare dal 14 ottobre 2006, si trova spesso a porgere parole di conforto spirituale da par- te della Chiesa ai familiari dei caduti di guer- ra. E non nasconde che non sia facile. «Vivo attimi intensi di preghiera, invocando la pre- senza del Signore, perché metta sulle mie labbra le parole della sua consolazione». Lei è sempre presente in uno dei momenti più tragici per un genitore, quando a Ciam- pino si apre il portellone di un C130 e arri- vano le salme dei mariti, dei padri, dei figli, dei fratelli. "Speriamo – mi sussurrava una mamma u- na volta – che il sacrificio di mio figlio non sia vano e che il Signore aiuti l’umanità". Ecco, l’aeroporto di Ciampino si trasforma in una scuola di fede, che non ha bisogno di belle espressioni o di tecniche di accoglienza ma di una speranza che è figlia dell’amore divi- no e delle lacrime umane. Quando si è in guerra la grande Storia ir- rompe nella quotidianità. In quanti riesco- no ad accettare il destino che ha colpito le A loro famiglie? I militari italiani non considerano le mis- sioni internazionali di sicurezza come e- sperienza di guerra, perché sono desidero- si di sostenere la democrazia a costruire la pace in luoghi martoriati. In questi sei anni di ministero episcopale tra i militari solo u- na mamma ha reagito con rabbia all’ucci- sione del figlio. Negli altri casi ho potuto con- statare come le mamme, i papà e le spose, persone più esposte al dolore, hanno mani- festato maturità di fede e capacità di amo- re. Le famiglie dei nostri ragazzi sono pro- tagoniste di quella tenerezza introvabile lon- tano da Dio. La rassegnazione per la per- dita di un familiare lascia quindi spazio alla speran- za? La rassegnazione è un sen- timento che non trovo nel- l’animo di coloro che nelle case sono stati educati alla fede e nelle parrocchie o nei gruppi ecclesiali hanno ri- cevuto quel seme di speran- za evangelica, che li ha por- tati a scegliere una profes- sione aperta al bene comune e allo svilup- po della famiglia umana. Cosa è possibile fare concretamente affin- ché nelle famiglie colpite dal lutto non pre- valga la rabbia? Ai genitori interessa dare continuità al be- ne avviato dai loro figli. "Se mio figlio si è donato per aiutare bambini e persone in dif- ficoltà – mi diceva qualche tempo fa un ge- nitore – posso continuare il suo impegno sostenendo la costruzione in Afghanistan di scuole o adottando bambini a distanza". A riguardo, la Chiesa sostiene significativi per- corsi di riconciliazione. L’ultimo è il caso dei due marinai trattenuti in India e delle fami- glie dei pescatori trovati uccisi durante una notte di lavoro. Tramite la mediazione di don Giuseppe Faraci, cappellano che da mesi se- gue questa delicata vicenda, il cuore dei ma- rinai si è aperto alla preghiera di interces- sione e le famiglie dei pescatori hanno de- posto ogni desiderio di vendetta. È servita a creare un clima di misericordia anche l’ini- ziativa della commissione Caritas dell’ordi- nariato che ha attribuito due borse di stu- dio a giovani familiari dei pescatori. Quali sono le principali esigenze spirituali a cui i cappellani militari fanno fronte nei teatri di guerra? I cappellani militari sono parroci senza fron- tiere, impegnati in una pastorale specifica sul fronte della pace. A loro tocca accom- pagnare e sostenere con la preghiera e l’af- fetto, con la misericordia e l’intuizione spi- rituale la lettura dei grovigli del cuore uma- no. Ci sono ferite che si vedono, altre che non si vedono. Quanto è difficile la condizione di chi rintorna e rimane intrappolato a vi- ta in una disabilità o di chi, per altri versi, quasi si colpevolizza per essere sopravvis- suto e si chiede perché sia un reduce o de- sidera, proprio per questo motivo, di morire? Può sembrare irreale, ma chi avvicina i nostri feriti avver- te la serenità dovuta alla con- sapevolezza di aver semina- to giustizia dove la dignità u- mana è assente, contri- buendo a rendere il mondo più libero e umano. Nello scorso maggio ho vissuto l’annuale pellegrinaggio mi- litare a Lourdes con i ragaz- zi feriti in Libano e in Afgha- nistan. Persone sofferenti, ma motivate e fiere del loro servizio allo Stato, disponibili a qualsiasi sacrificio per il bene della fami- glia umana. I militari feriti, infatti, soffrono più per i loro amici caduti che per le diffi- coltà fisiche. A Lourdes, uno dei feriti del- l’Afghanistan ha voluto donarmi la piccola medaglia raffigurante san Michele che por- tava nella mimetica nel giorno dell’attenta- to. Come è possibile rimanere saldi nella cer- tezza che esiste una Grazia divina, quando nella guerra prevale la bestialità umana? Essere cristiani ed essere militari non sono dimensioni divergenti, ma convergenti per- ché la condizione militare trova il suo fon- damento morale nella logica della carità. La guerra, purtroppo, non è estirpata dalla con- dizione umana e gli uomini, in quanto pec- catori, saranno minacciati da conflitti sino alla venuta di Cristo. I nostri militari, se fan- no prevalere le virtù sui vizi, gli ideali sulle ideologie, gli interessi comuni su quelli in- dividuali, possono diffondere alternative di giustizia e pace, come ministri della sicu- rezza e della libertà dei popoli. Laura Silvia Battaglia © RIPRODUZIONE RISERVATA L’arcivescovo Pelvi Pelvi L’ordinario militare: i cappellani sono impegnati accanto ai militari feriti e alle famiglie colpite dal lutto, in percorsi virtuosi di riconciliazione «Don Gnocchi», riabilitazione fisica e psicologica per curare le tante ferite al termine delle missioni on ci sono solo i caduti. La missione Isaf conta al- meno una cinquantina di feriti. Persone che ven- gono sottoposte a programmi di riabilitazione, ini- ziando dagli ospedali della coalizione in Afghanistan, per poi avere supporto e assistenza al Celio di Roma. L’espe- rienza degli Stati Uniti e della Gran Bretagna in merito è or- mai molto sviluppata: al centro di riabilitazione britannico, l’Hedley Court, la capacità di accoglienza per i reduci grave- mente feriti – soprattutto con perdita degli arti – è passata dal 2007 dai 30 a 66 posti letto. Ma ci sono ferite che non si vedono, quelle psicologiche e psichiche. Le più difficili da essere accettate da parte del malato, le più complesse da diagnosticare da parte dei medici, e soprattutto, una volta completato questo iter traumatico, le meno "assicurate" dai governi. Come il disturbo post-traumatico da stress (Dpts) detto anche Post-Traumatic Stress Disorder (Ptsd) che può portare anche al suicidio. Il Dpts non si manifesta solo ri- tornando a casa. L’ultimo rapporto del Pentagono, diffuso dall’Associated Press, al 15 giugno 2012, ascrive il 20% del- le morti tra i militari in missione ad atti suicidi. Nei primi 155 N giorni del 2012, infatti, ben 154 militari in servizio in Afgha- nistan si sono uccisi. Il 18% in più rispetto allo stesso perio- do dello scorso anno, in cui si calcolavano 130 decessi. In Italia, la Fondazione Don Gnocchi vuole dare vita al pri- mo programma di riabilitazione per tutti i reduci, non solo militari. La dottoressa Amelia Alborghetti è determinata in questo: «Tutti coloro che conoscono esperienze così forti ne rimangono toccati in qualche modo. Il problema è ricono- scere la patologia e darle dignità pari alla disabilità perma- nente come quando c’è la perdita degli arti». La dottoressa ha iniziato a seguire un paio di pazienti, reduci da missioni recenti. «Non esiste ancora una letteratura scientifica uffi- ciale in proposito: il mio vuole essere un primo passo in I- talia». Ma bisogna sdoganare anche un altro tabù. «Si pen- sa che solo i militari possano essere toccati da questi pro- blemi: in realtà giornalisti e cooperanti che si trovino a vi- vere forti esperienze in seno ai conflitti dovrebbero prende- re in considerazione questi possibili, tragici effetti». (L.S.B.) © RIPRODUZIONE RISERVATA La psicologa Alborghetti: «C’è poca letteratura scientifica sulle patologie legate ai conflitti recenti» «Chi avvicina i reduci avverte la serenità di chi ha seminato giustizia: i feriti soffrono di più per gli amici caduti che per loro stessi» «Noi genitori di figli caduti non vogliamo sentirci soli di fronte al grande vuoto che ci ha colpiti. E aiutare i familiari dei tanti feriti» I DATI Eroi per la pace Nasce un’associazione per i reduci e per le famiglie 145 I CADUTI ITALIANI NELLE MISSIONI INTERNAZIONALI DAL 1962 A OGGI OLTRE 6MILA I FERITI «Soldati e cristiani, realtà convergenti È sempre la carità la radice morale»
Transcript

Avvenire 08/08/2012 Page : A03

Copyright © Avvenire August 8, 2012 7:29 am / Powered by TECNAVIA / HIT-MP

Copy Reduced to 48% from original to fit letter page

MISSIONINEL MONDO

MERCOLEDÌ8 AGOSTO 2012 3

il fatto La prima rete ufficiale nasce dai reduci dell’Afghanistan, ma presto saranno coinvolti anche militari efamiliari delle altre grandi operazioni di questi ultimi anni: dall’Iraq alla Somalia, dal Libano al Kosovo

DI LAURA SILVIA BATTAGLIA

la prima in Italia. Privata e pro-mossa da coloro che, involonta-riamente, sono diventati prota-

gonisti della Storia, subendola. Neigiorni scorsi è nata a Ostia l’associa-zione ufficiale "Caduti di guerra intempo di pace", in piena collabora-zione con lo Stato maggiore della Di-fesa: riunisce i familiari e gli amici deimilitari italiani caduti in Afghanistan.Presto saranno coinvolti anche mili-tari e familiari delle altre missioni diquesti ultimi anni: dall’Iraq alla So-malia, dal Libano al Kosovo. L’obietti-vo è «non dimenticare» ma anchespiegare alla popolazione cosa vuoldire affrontare un dolore così improv-viso per chi non conosce i vari aspet-ti della missione in Afghanistan. Manon c’è solo un intento comunicativo.I familiari dei militari caduti voglionofare rete «soprattutto per non sentircisoli di fronte a questo vuoto».Un vuoto che stanno sperimentandodiverse famiglie italiane, pur nella con-sapevolezza che partecipare a unamissione di pace significa anche mo-rire. Gli italiani caduti solo in Afgha-nistan, ottemperando agli obblighidella missione Isaf, sono 51 dall’iniziodella missione stessa, costituita dallaNato nel 2001. L’ultimo, il carabinierescelto Manuele Braj, è deceduto il 25giugno scorso ad Adraskan, nell’Af-ghanistan occidentale, nel campo diaddestramento della polizia afghana.Un’esplosione ha fatto saltare una ga-ritta di osservazione installata vicinola linea di tiro del poli-gono. Braj, originariodella provincia di Lecce,ha lasciato la moglie28enne, e il figlio di 8mesi. Insieme a lui sonorimasti feriti alle gambealtri tre carabinieri, poiricoverati nell’ospedalemilitare di Shindand. Un destino che si ripe-te e che Annarita LoMastro e Rosa Papagna,madri rispettivamentedel caporal maggiore David Tobini,caduto nel 2011 a Bala Murghab, edel caporal maggiore scelto France-sco Saverio Positano, deceduto aShindand nel 2010, hanno deciso dicondividere.«Crediamo nell’unità – dice AnnaritaLo Mastro – ma allo stesso modo nelcoinvolgimento e, in questo percorso,abbiamo incontrato tante persone chela pensano come noi: l’Afghanistannon può essere solo un problema per51 famiglie». Rosa Papagna, in que-st’associazione, «ci crede» e per que-sto ha deciso di aderire da subito. «C’èbisogno di continuare ad andare a-vanti e lo devo fare per me, ma so-prattutto per mio figlio». Per fare chiarezza, "Caduti di guerrain tempo di pace" non è un’associa-zione "pro" o "contro". «Ci poniamo come organo di parte-

È

cipazione e collaborazione nei con-fronti dei familiari e non come as-sociazione di protesta contro qual-cuno». Tanto più che è formata non solo daifamiliari dei caduti ma da professio-nisti, giornalisti, avvocati, psicologi,commercialisti «che hanno deciso didarci una mano in questa missione,che abbiamo deciso di portare avan-ti, proprio perché i nostri cari ne han-no lasciata in sospeso un’altra». Da u-na parte, si tratta di far venir fuori l’u-manità dei singoli, di far conoscere ef-fettivamente cosa questi italiani han-no fatto in un altro angolo di mondo:da qui il progetto di realizzare mostrefotografiche, concorsi di giornalismoaperti ai giovani, convegni e incontrisull’attualità, con momenti di rifles-sione indirizzati alla stampa e ai cit-tadini. Per affrontare la complessitàdelle cosiddette missioni di pace sen-za banalizzazioni. L’obiettivo è con-

centrarsi sulla diffusio-ne delle notizie da e perl’Afghanistan perché «èil secondo conflitto incui l’Italia ha versato piùsangue» ma i familiarigià soci non hanno pre-clusione alcuna e stan-no già inglobando i fa-miliari di vittime di altremissioni o di militi chehanno vissuto l’esposi-zione a uranio impove-rito, rimanendone colpi-

ti in vario modo. Dall’altra parte, l’as-sociazione cerca un supporto per af-frontare il dolore.Annarita Lo Mastro lo dice con sem-plicità, senza polemiche nei confron-ti né dello Stato né dei ministri, né delcomparto delle Forze Armate: «Dopoi funerali di Stato, siamo lasciati o-gnuno al proprio dramma. Nel sensoche la burocrazia italiana è complica-tissima, qualche volta nemmeno im-peccabile, e spesso non riusciamo araccapezzarci, ci ritroviamo soli an-che ad affrontare percorsi di riabilita-zione psicologiche che ci aiutino ametabolizzare e trasformare questoshock in qualcosa di attivo, di positi-vo». Non a caso, l’associazione cercaanche psicologi volontari che si im-pegnino a stare a fianco dei familiarinell’elaborazione di questo lutto spe-ciale.

Annarita Lo Mastro non si vergogna adire ad Avvenire che lei è ancora den-tro a questo dolore, fino al collo: «Miofiglio David: sono con lui in quellatomba. Passo le giornate nel "giardinodi marmo" – così mio figlio chiamavail cimitero –. Mi siedo davanti a quelpezzo di marmo e non ho lacrime.Guardo quella foto e penso che è que-sto ciò che rimane di un figlio, di miofiglio, di quell’Afghanistan. Un figlio lacui sola certezza era una partenza: par-te sano, libero, pieno di vita, e te lo ri-portano in una scatola di legno, in u-na busta di plastica nera, ridotto in 100pezzi da un’autopsia...».Il dolore di Annarita è lo stesso di mol-ti familiari vittime di guerra, da unaparte e dall’altra: militari o civili, nonci sono molte parole di fronte a una"body bag", a un destino che arriva inpezzi a spezzarti la speranza in gola.

«Non c’è vita, non c’è sole nelle nostregiornate, in famiglia, da quando Davidnon c’è più. Per questo adoro la piog-gia perché riflette i miei stati d’animoe non mi fa sentire amputata dentro.Non credo che potremo più sorridere,in futuro, se non a sedici denti».Il luogo della verità, per le 51 famiglieche iniziano a parlarsi per conoscersimeglio e trovare la forza di trasforma-re il dolore in azione, è l’aeroporto diCiampino. Al Pontile di Ostia, dovel’associazione ha fatto il suo primo in-contro pubblico, c’è memoria soprat-tutto di quel momento. «Il pensiero –continua la Lo Mastro – va a quell’ae-reo C130 che, dopo l’atterraggio, fa unmezzo giro su stesso. Si apre il portel-lone e quel suono di tuono diventa im-menso dolore. Poi, scendono loro, i no-stri ragazzi. Li chiamano eroi».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

nche l’ordinario militare può respi-rare «lo sgomento, il vuoto del cuo-re, un’angoscia soffocante dovuta al-

la ricerca del senso di un dolore disumano».Così l’arcivescovo Vincenzo Pelvi, ordinariomilitare dal 14 ottobre 2006, si trova spessoa porgere parole di conforto spirituale da par-te della Chiesa ai familiari dei caduti di guer-ra. E non nasconde che non sia facile. «Vivoattimi intensi di preghiera, invocando la pre-senza del Signore, perché metta sulle mielabbra le parole della sua consolazione».Lei è sempre presente in uno dei momentipiù tragici per un genitore, quando a Ciam-pino si apre il portellone di un C130 e arri-vano le salme dei mariti, dei padri, dei figli,dei fratelli."Speriamo – mi sussurrava una mamma u-na volta – che il sacrificio di mio figlio non siavano e che il Signore aiuti l’umanità". Ecco,l’aeroporto di Ciampino si trasforma in unascuola di fede, che non ha bisogno di belleespressioni o di tecniche di accoglienza madi una speranza che è figlia dell’amore divi-no e delle lacrime umane.Quando si è in guerra la grande Storia ir-rompe nella quotidianità. In quanti riesco-no ad accettare il destino che ha colpito le

A loro famiglie? I militari italiani non considerano le mis-sioni internazionali di sicurezza come e-sperienza di guerra, perché sono desidero-si di sostenere la democrazia a costruire lapace in luoghi martoriati. In questi sei annidi ministero episcopale tra i militari solo u-na mamma ha reagito con rabbia all’ucci-sione del figlio. Negli altri casi ho potuto con-statare come le mamme, i papà e le spose,persone più esposte al dolore, hanno mani-festato maturità di fede e capacità di amo-re. Le famiglie dei nostri ragazzi sono pro-tagoniste di quella tenerezza introvabile lon-tano da Dio.La rassegnazione per la per-dita di un familiare lasciaquindi spazio alla speran-za? La rassegnazione è un sen-timento che non trovo nel-l’animo di coloro che nellecase sono stati educati allafede e nelle parrocchie o neigruppi ecclesiali hanno ri-cevuto quel seme di speran-za evangelica, che li ha por-tati a scegliere una profes-sione aperta al bene comune e allo svilup-po della famiglia umana.Cosa è possibile fare concretamente affin-ché nelle famiglie colpite dal lutto non pre-valga la rabbia?Ai genitori interessa dare continuità al be-ne avviato dai loro figli. "Se mio figlio si èdonato per aiutare bambini e persone in dif-ficoltà – mi diceva qualche tempo fa un ge-nitore – posso continuare il suo impegnosostenendo la costruzione in Afghanistan discuole o adottando bambini a distanza". Ariguardo, la Chiesa sostiene significativi per-corsi di riconciliazione. L’ultimo è il caso deidue marinai trattenuti in India e delle fami-glie dei pescatori trovati uccisi durante unanotte di lavoro. Tramite la mediazione di donGiuseppe Faraci, cappellano che da mesi se-gue questa delicata vicenda, il cuore dei ma-rinai si è aperto alla preghiera di interces-sione e le famiglie dei pescatori hanno de-posto ogni desiderio di vendetta. È servita acreare un clima di misericordia anche l’ini-ziativa della commissione Caritas dell’ordi-nariato che ha attribuito due borse di stu-dio a giovani familiari dei pescatori.Quali sono le principali esigenze spiritualia cui i cappellani militari fanno fronte nei

teatri di guerra? I cappellani militari sono parroci senza fron-tiere, impegnati in una pastorale specificasul fronte della pace. A loro tocca accom-pagnare e sostenere con la preghiera e l’af-fetto, con la misericordia e l’intuizione spi-rituale la lettura dei grovigli del cuore uma-no.Ci sono ferite che si vedono, altre che nonsi vedono. Quanto è difficile la condizionedi chi rintorna e rimane intrappolato a vi-ta in una disabilità o di chi, per altri versi,quasi si colpevolizza per essere sopravvis-suto e si chiede perché sia un reduce o de-

sidera, proprio per questomotivo, di morire?Può sembrare irreale, ma chiavvicina i nostri feriti avver-te la serenità dovuta alla con-sapevolezza di aver semina-to giustizia dove la dignità u-mana è assente, contri-buendo a rendere il mondopiù libero e umano. Nelloscorso maggio ho vissutol’annuale pellegrinaggio mi-litare a Lourdes con i ragaz-zi feriti in Libano e in Afgha-

nistan. Persone sofferenti, ma motivate efiere del loro servizio allo Stato, disponibilia qualsiasi sacrificio per il bene della fami-glia umana. I militari feriti, infatti, soffronopiù per i loro amici caduti che per le diffi-coltà fisiche. A Lourdes, uno dei feriti del-l’Afghanistan ha voluto donarmi la piccolamedaglia raffigurante san Michele che por-tava nella mimetica nel giorno dell’attenta-to.Come è possibile rimanere saldi nella cer-tezza che esiste una Grazia divina, quandonella guerra prevale la bestialità umana? Essere cristiani ed essere militari non sonodimensioni divergenti, ma convergenti per-ché la condizione militare trova il suo fon-damento morale nella logica della carità. Laguerra, purtroppo, non è estirpata dalla con-dizione umana e gli uomini, in quanto pec-catori, saranno minacciati da conflitti sinoalla venuta di Cristo. I nostri militari, se fan-no prevalere le virtù sui vizi, gli ideali sulleideologie, gli interessi comuni su quelli in-dividuali, possono diffondere alternative digiustizia e pace, come ministri della sicu-rezza e della libertà dei popoli.

Laura Silvia Battaglia© RIPRODUZIONE RISERVATA

L’arcivescovo Pelvi

PelviL’ordinario militare:i cappellani sonoimpegnati accantoai militari feritie alle famigliecolpite dal lutto,in percorsi virtuosidi riconciliazione

«Don Gnocchi», riabilitazione fisica e psicologicaper curare le tante ferite al termine delle missioni

on ci sono solo i caduti. La missione Isaf conta al-meno una cinquantina di feriti. Persone che ven-gono sottoposte a programmi di riabilitazione, ini-

ziando dagli ospedali della coalizione in Afghanistan, perpoi avere supporto e assistenza al Celio di Roma. L’espe-rienza degli Stati Uniti e della Gran Bretagna in merito è or-mai molto sviluppata: al centro di riabilitazione britannico,l’Hedley Court, la capacità di accoglienza per i reduci grave-mente feriti – soprattutto con perdita degli arti – è passatadal 2007 dai 30 a 66 posti letto. Ma ci sono ferite che non sivedono, quelle psicologiche e psichiche. Le più difficili daessere accettate da parte del malato, le più complesse dadiagnosticare da parte dei medici, e soprattutto, una voltacompletato questo iter traumatico, le meno "assicurate" daigoverni. Come il disturbo post-traumatico da stress (Dpts)detto anche Post-Traumatic Stress Disorder (Ptsd) che puòportare anche al suicidio. Il Dpts non si manifesta solo ri-tornando a casa. L’ultimo rapporto del Pentagono, diffusodall’Associated Press, al 15 giugno 2012, ascrive il 20% del-le morti tra i militari in missione ad atti suicidi. Nei primi 155

N giorni del 2012, infatti, ben 154 militari in servizio in Afgha-nistan si sono uccisi. Il 18% in più rispetto allo stesso perio-do dello scorso anno, in cui si calcolavano 130 decessi.In Italia, la Fondazione Don Gnocchi vuole dare vita al pri-mo programma di riabilitazione per tutti i reduci, non solomilitari. La dottoressa Amelia Alborghetti è determinata inquesto: «Tutti coloro che conoscono esperienze così forti nerimangono toccati in qualche modo. Il problema è ricono-scere la patologia e darle dignità pari alla disabilità perma-nente come quando c’è la perdita degli arti». La dottoressaha iniziato a seguire un paio di pazienti, reduci da missionirecenti. «Non esiste ancora una letteratura scientifica uffi-ciale in proposito: il mio vuole essere un primo passo in I-talia». Ma bisogna sdoganare anche un altro tabù. «Si pen-sa che solo i militari possano essere toccati da questi pro-blemi: in realtà giornalisti e cooperanti che si trovino a vi-vere forti esperienze in seno ai conflitti dovrebbero prende-re in considerazione questi possibili, tragici effetti».

(L.S.B.)© RIPRODUZIONE RISERVATA

La psicologa Alborghetti:«C’è poca letteraturascientifica sulle patologielegate ai conflitti recenti»

«Chi avvicinai reduci avvertela serenità di chiha seminatogiustizia: i feritisoffrono di piùper gli amici cadutiche per loro stessi»

«Noi genitori difigli caduti nonvogliamo sentircisoli di fronte algrande vuoto checi ha colpiti. Eaiutare i familiaridei tanti feriti»

I DATI

Eroi per la paceNasce un’associazioneper i reduci e per le famiglie

145 I CADUTI ITALIANI NELLE MISSIONI INTERNAZIONALI

DAL 1962 A OGGI

OLTRE 6MILA I FERITI

«Soldati e cristiani, realtà convergentiÈ sempre la carità la radice morale»

Recommended