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ESTEBAN AYALA HIDALGO - Montañas y rios sin fin · 2. IL TRAUMA Ci sono eventi capaci di mutare...

Date post: 11-Feb-2019
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ESTEBAN AYALA HIDALGO RELATORE: PROF. MAURIZIO GIUFFREDI ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI BOLOGNA, VIA BELLE ARTI 54, 40126. TEL. 051/4226411 BOLOGNA ITALIA
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ESTEBAN AYALA HIDALGO RELATORE: PROF. MAURIZIO GIUFFREDI

ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI BOLOGNA, VIA BELLE ARTI 54, 40126. TEL. 051/4226411 – BOLOGNA ITALIA

INDICE

PAGINA

INTRODUZIONE 1

IL TRAUMA 3

IL SENSO DELL’ESILIO 4

LA BILDUNG 6

NUOVE DIMENSIONI 9

IL SACRO E IL RITO 20

LA SANTERA E LO SCIAMANO 26

FETICCI 33

BIBLIOGRAFIA 39

1. INTRODUZIONE

Il percorso artistico di Joseph Beuys (1921-1986) suscita ancora accesi dibat-

titi fra chi riconosce in lui un artista geniale e chi lo ritiene un ciarlatano i cui

gesti rispecchiano soltanto la crisi dei suoi tempi. La vita e l’arte di Ana Mendie-

ta (1948-1985) continuano a essere guardate con sospetto a causa delle numero-

se speculazioni create intorno alla sua prematura scomparsa, in circostanze mai

chiarite1. Mendieta è una figura quasi sconosciuta al pubblico italiano; due anno

prima della sua morte, l’artista vive e lavora in Italia grazie al Grand Prix di

Roma, che vince nel 1983. Sempre a Roma, nel 1985, alla galleria A.A.M. (Archi-

tettura arte moderna), Mendieta tiene l’ultima mostra prima della sua scom-

parsa: una serie di litografie (Duetto pietre foglie) elaborate insieme al marito,

lo scultore minimalista americano Carl Andre.

Le opere di Beuys e Mendieta, fortemente contestate e rifiutate dagli ambien-

ti intellettuali dominanti del loro tempo, sono tuttora oggetto di approfondi-

menti, poiché una loro immediata e semplice assimilazione è impedita dall’assai

complesso coinvolgimento con l’ideologia, la psicologia e la vita personale degli

stessi autori.

Il pensiero di Beuys e Mendieta si scontra con un sistema culturale che razio-

nalizza, classifica e codifica l’arte, e conseguentemente con un pubblico privo

d’immaginazione, abituato a una cultura manualistica. Lo stereotipo culturale

del secolo XX ha creato una ricezione “museale”: quella di un visitatore che frui-

sce dell’arte attraverso il riconoscimento e la ripetizione d’idee e concetti letti

nei libri. Chi pensa in questo modo, si ritiene colto e si compiace di questa cultu-

ra: soddisfa il suo ego nell’illusione di capire e di essere intelligente. Quando

questo pubblico incontra gli eventi culturali d’avanguardia, rifiuta di riconoscer-

li come artistici, perché li ritiene vuoti di significato; il vuoto è invece quello la-

sciato dall’immaginazione soppiantata dalla ragione.

Lo scopo di questo lavoro è intrecciare le vite e le opere di due figure artisti-

che del Novecento che sembrano aver percorso strade comuni, tanto nel privato

1Ana Mendieta muore l’8 settembre 1985 a New York, dopo una caduta dalla finestra del suo appartamento sito al 34° piano di un edificio del Greenwich Village. Otto mesi prima si era spo-sata con il famoso scultore minimalista americano Carl Andre, con cui da tempo aveva una rela-zione non senza problemi. In un primo momento Andre viene accusato di omicidio, ma durante il processo è assolto e la morte di Ana è attribuita a un incidente o al suicidio.

quanto nel pubblico. Non si tratta di una scelta casuale. Il mio interesse nei con-

fronti di Beuys e Mendieta nasce dal contenuto antropologico nelle loro originali

proposte. Le loro azioni, che spesso sono state interpretate come pure provoca-

zioni, manifestano una forte critica al materialismo che, con la sua ossessiva

razionalità, soffoca la spiritualità.

Altri aspetti, poi, si sono rivelati per me di notevole interesse nelle personali-

tà di Beuys e Mendieta: da una parte la frequente comparsa nelle loro perfor-

mances di riferimenti alla ritualità e al feticcio; dall’altra alcune costanti del loro

linguaggio formale.

Vorrei, dunque, far luce sulla profondità e insieme sulla semplicità del loro

messaggio, oscurato dagli scandali e, nel caso di Mendieta, da una morte tragica.

2. IL TRAUMA

Ci sono eventi capaci di mutare per sempre il nostro rapporto con la realtà.

Le vite di Ana Mendieta e Joseph Beuys coincidono nell’accadimento di un fatto

traumatico che ha profondamente modificato la percezione di loro stessi.

Ana Mendieta, nata all’Avana (Cuba) nel 1948, nel 1961 − quindi dopo aver

trascorso i primi dodici anni della sua vita nell’isola caraibica e dopo averne as-

sorbito la cultura sincretica − viene sradicata e inserita in un mondo geografi-

camente e culturalmente diverso dal suo, quello del Settentrione degli Stati Uni-

ti. Il padre è legato al potere militare cubano post-rivoluzionario, ma appartiene

a una famiglia di tradizione cattolica e, con il regime castrista, sente minacciata

la sicurezza dei suoi familiari; affida pertanto due delle sue figlie alla cosiddetta

“operazione Peter Pan”, che organizza il trasferimento di bambini cubani delle

classi privilegiate negli USA, per «salvarli dalle minacce del comunismo».

Dal canto suo Joseph Beuys, nato a Krefeld, nella Germania del Nord, nel

1921 e iscritto a soli quindici anni alla Hitler-Jugend, durante la seconda guerra

mondiale si arruola nella Luftwaffe; mentre combatte nei cieli nel nome dei

promettenti ideali di civilizzazione del Terzo Reich, il suo Stuka in perlustrazio-

ne sulla desolata pianura della Crimea viene abbattuto; miracolosamente Beuys

si salva:

«Una tribù di tartari lo trovò sepolto, semi-congelato e gravemente ferito al capo. Lo

salvarono coprendolo di grasso e avvolgendolo nel feltro»2.

In entrambe le esperienze biografiche, un forte shock emotivo cambia l’intera

visione del mondo e la percezione di sé. In tutti e due i casi, un trauma segna

l’inizio della costante ricerca di un’origine, l’inizio della costruzione di una nuo-

va identità.

2 LUCREZIA DE DOMIZIO DURINI, Bolognano. La spiritualità di Joseph Beuys, Cinisello Balsamo, Silvana, 2002, p. 266.

3. IL SENSO DELL’ESILIO

Vivere in esilio, volontariamente o involontariamente, mette in discussione la

propria identità, perché l’individuo si trova in una cultura che non gli appartie-

ne, dove è costretto a un continuo confronto di abitudini, comportamenti e pen-

siero. Inevitabilmente l’esiliato compara la sua cultura con quella di chi lo sta

ospitando.

Mendieta trascorre l’adolescenza lontana dalla sua famiglia, nello Iowa, uno

Stato settentrionale abitato prevalentemente da bianchi di origine europea. In

quegli anni e in quei luoghi è forte l’insofferenza, per non dire il razzismo, nei

confronti di etnie diverse da quella dominante.

Ana, oltre che sradicata dalla sua patria, vive tra mille difficoltà in asili e rifu-

gi per ragazzi senza famiglia ed è in quest’ambiente che si forma la sua coscienza

di emigrata di cultura latina:

«Ciò che più mi ha colpito allora è stato il fatto che mi sono accorta che esistevano del-

le differenze fra le persone; prima vivevo in un mondo personale in cui queste differenze

non c’erano. Quindi per me l’inizio della ricerca di un posto nel mondo e il tentativo di de-

finire il mio essere prendono avvio proprio da quella esperienza»3.

Solo rivalutando la sua cultura in contrasto con quella nordamericana, Ana si

scuote di dosso il senso di straniamento e riesce a rendere più confortevole il

suo esilio:

«Io lavoro con la terra, faccio sculture nel paesaggio; visto che non ho una madrepa-

tria, sento il bisogno di avvicinare la terra e tornare al suo grembo»4.

L’esilio di Beuys invece è di un altro tipo. Quando, dopo l’incidente da cui “re-

suscita” miracolosamente, torna nella città dove ha vissuto per tanti anni prima

della guerra, ritrova un mondo che gli è completamente estraneo. Diventa un

emigrato nella sua terra:

«Quando ritorna a Kleve, trova la propria casa distrutta dai bombardamenti, e la torre

della sua cittadina che portava un cigno − forte emblema dei suoi sogni infantili − deva-

3 Citato da LAURA ROULET, Ana Mendieta: a Life in Context, in Ana Mendieta. Earth Body. Sculpture and Performance, 1972-1985, a cura di Olga M. Viso, Ostfildern, Hatje Cantz, 2004, p. 227 (trad. nostra). 4 Citato da JANE BLOCKER, Where Is Ana Mendieta? Identity, Performativity and Exile, Dur-ham, Duke University Press, 2004, p. 77 (trad. nostra).

stata. Ecco che il bisogno di ricostruirsi interiormente, di generare forze nuove, anche di

speranza, lo avvicina fortemente all’arte ma […] presto si rende ben conto che l’arte – non

solo la scienza − è ridotta a brandelli, impoverita; in nome della specializzazione è essa

stessa estremamente riduttiva»5.

5 LUCREZIA OMODEO SALÈ, Joseph Beuys. L’arte come vita, in http://www.liberaconoscenza.it/ zpdf-doc/articoli/omodeo-joseph%20beuys.pdf

4. LA BILDUNG

Nel 1966, dopo il liceo a Sioux-City, Ana Mendieta s’iscrive alla University of

Iowa di Iowa-City. I motivi che la spingono verso gli studi artistici non sono

chiari. Parafrasando un noto passo di Minima Moralia di Theodor Adorno («o-

gni opera d’arte è un crimine non commesso»), Ana dice di se stessa che, se non

fosse diventata un’artista, sicuramente sarebbe stata una criminale6. Questa ra-

dicale affermazione sembra svelare un’occulta avversione per la società, da cui

Mendieta si sente estraniata, e il suo sfogo catartico attraverso l’arte.

Nei primi anni, il bisogno di costruirsi un’identità la indirizza verso lo studio

dell’arte primitiva delle culture africane e mesoamericane. S’interessa ai saggi di

antropologia (Frazer, Eliade, Levi-Strauss) e alla letteratura mistica di Octavio

Paz e Carlos Castaneda, letture che sono destinate a segnare profondamente la

sua arte.

Nell’estate del 1971, per approfondire gli studi di archeologia, compie un vi-

aggio in Messico, a Teotihuacán; è la prima volta che lascia gli Stati Uniti dopo il

suo arrivo nel 1961:

«Viaggiare in Messico è stato come ritornare alla matrice, mi sentivo capace di fare

qualche magia soltanto essendo lì»7.

Nello stesso periodo, inizia a frequentare il Graduate Intermedia Program,

diretto da Hans Breder, un artista tedesco portavoce del movimento artistico

internazionale Fluxus.

Il movimento Fluxus è espressione del fermento neo-dadaista che investe gli

scenari artistici europei e americani dei primi anni Sessanta. Gli artisti Fluxus

mescolano modi performativi e coreografici, vocali e acustici, visuali e musicali,

abbinandoli in spontanei eventi multimediali, con l’intenzione di abbattere i

confini fra le arti, annullare le loro istituzioni e reindirizzare tutta l’energia verso

nuove forme di creatività8. Hans Breder alla University of Iowa promuove nuo-

6 Cfr. OLGA M. VISO, The Memory of History, in Ana Mendieta. Earth Body. Sculpture and Per-formance, 1972-1985, cit., p. 40. 7 Citato da LAURA ROULET, Ana Mendieta: a Life in Context, cit., p. 230 (trad. mia). 8 CECILIA LIVERIERO LAVELLI, Joseph Beuys e le radici romantiche della sua opera, Bologna, Clueb, 1995, p. 195: «Gli artisti che operano in questo clima [gli artisti Fluxus] subiscono il fa-scino del concetto di arte concreta oppure di nichilismo artistico. Gli artisti concreti preferiscono al mondo illusionistico e astratto delle arti visive, che sottopongono i loro oggetti a falsificazioni estetiche, la concretezza degli oggetti quotidiani presi così come sono».

ve forme di espressione, come le performance e gli happening, rigorosamente

documentati con mezzi fotografici e video; suggerisce ai suoi studenti un meto-

do che può riassumersi in tre parole: Propose, Execution e Documentation.

Lo stretto rapporto personale e didattico con Breder allontana Mendieta dai

tradizionali metodi di espressione artistica: Ana comincia a sperimentare con

materiali nuovi e nel 1972 consegue il Master Degree on Fine Arts presentando

come lavoro finale una serie di fotografie in cui si ritrae deformando il proprio

volto contro una lastra di plexiglass.

Joseph Beuys sceglie di studiare arte dopo la guerra e nel 1946 s’iscrive alla

Kunstakademie di Düsseldorf, dove segue le lezioni dello scultore Joseph Ense-

ling, un allievo di Auguste Rodin, e poi quelle di Edwald Matarè, un esponente

della cosiddetta entartete Kunst, l’«arte degenerata», che, secondo il Nazismo,

esprimeva valori ed estetiche in contrasto con le concezioni del regime.

Contemporaneamente Beuys studia da autodidatta le scienze naturali, che lo

attirano fin dall’infanzia. Lucrezia Omodeo Salè ricorda a questo proposito:

«Da piccolo Beuys vive un contatto molto intimo con la natura, osserva, raccoglie e

colleziona tutti gli oggetti del mondo naturale che lo affascinano; il raccogliere e il conser-

vare non è semplicemente un percorso “estetico” ma un percorso di conoscenza e di devo-

zione. Così, nei primi anni, fin da giovanissimo Beuys acquisisce una cultura notevole e

una grande sensibilità in campo naturalistico; in alcune interviste lui stesso ricorderà le

sue esposizioni di semi, foglie, sassi, allestite con dedizione e verso cui provava una sorta

di misteriosa venerazione»9.

I primi anni Cinquanta sono fervidi di letture e di attività. Dopo aver termina-

to gli studi alla Kunstakademie nel 1951, Beuys legge Novalis, Nietzsche, Hegel,

Kierkegaard, Goethe, Joyce e la letteratura mistica dei Rosacroce; studia le ope-

re e gli scritti di Leonardo da Vinci e l’antroposofia di Rudolph Steiner; realizza

sotto commissione varie opere di carattere religioso e allestisce, presso la fatto-

ria di due amici, i fratelli Van der Grinten, la sua prima mostra personale. Ma, a

metà degli anni Cinquanta, sprofonda in una crisi esistenziale, dovuta sia a gravi

difficoltà economiche, sia alle conseguenze morali della sua partecipazione alla

guerra. Il momento di difficoltà è superato grazie al matrimonio con Eva Wir-

mbach e all’appoggio che gli offrono i Van der Grinten.

9 LUCREZIA OMODEO SALÈ, Joseph Beuys. L’arte come vita, cit.

Nei primi anni Sessanta, un’epoca in cui Düsseldorf è al centro di una vivace

attività culturale ed è il luogo ideale per accogliere le nuove tendenze artistiche,

Beuys diventa insegnante di scultura alla Kunstakademie dove ha studiato. È

proprio a Düsseldorf che entra in contatto con gli intellettuali Fluxus; aderisce al

movimento nel 1962 e prende parte ad alcune famose performance, ma la con-

divisione di intenti e di idee ha poca durata e un paio di anni dopo tra Beuys e

gli artisti Fluxus si verifica una frattura.

5. NUOVE DIMENSIONI

I periodici soggiorni in Messico di Ana Mendieta si ripetono fino ai primi an-

ni Ottanta, con la visita dei siti archeologici più interessanti; gli scenari descritti

nella letteratura di Castaneda e Paz − Palenque, Monte Alban, Mitla, Dainzù −

diventano realtà per i sensi di Ana. I monumenti antichi splendono nella loro

vacuità e le rovine sembrano il linguaggio Braille della storia; tutti gli interessi

di Mendieta coincidono in un Messico che le restituisce la sua essenza culturale

perduta. Proprio in questi luoghi la sua sensibilità coglie la chiave segreta di

quello che diventerà il suo linguaggio artistico.

Per il pensiero classico occidentale l’arte è un’operazione, condotta

dall’artista, di mìmesis della natura; Mendieta, invece, intende essere lei stessa

mimetica, per fondersi con la natura. Nella serie di fotografie Tree of Life (1976)

il corpo di Ana è ritratto coperto di fango, disteso su tronchi di alberi secolari: è

evidente in queste opere un bisogno inconscio di protezione e di sicurezza, ma-

nifestato nell’atto di mimetizzarsi.

Senza titolo (Serie dell’albero della vita), 1976, fotografia analogica a colori (20.3 x 25.4 cm)

D’accordo con le pratiche artistiche di quegli anni, Mendieta usa spesso il

proprio corpo come protagonista della sua opera, soprattutto nei primi anni di

produzione, mentre in seguito lavora soltanto con la sua silhouette; in questa

nuova direzione, crea un interessante corpus che lei stessa definisce col nome di

earth body sculptures «sculture di corpo e terra»: istallazioni “iscritte” nella

natura, elaborate grazie all’uso di materiali poveri trovati in situ.

Senza titolo (Silueta Series, Mexico), 1976, fotografia analogica a colori (33.7 x 50.8 cm)

In questo modo propone un dialogo diretto fra l’uomo e la natura, contempo-

raneamente rifiutando la tendenza di imporsi sulla terra, tendenza rappresenta-

ta, secondo il pensiero di Mendieta, dalla cosiddetta land art. L’artista cubana

contesta infatti a uno dei suoi più significativi esponenti, Robert Smithson, di

«usare» la natura e, cementificandola e asfaltandola, di «brutalizzarla in modo

maschile»10. Nel 1984, in un concorso per un progetto per il Bard College di

New York, Mendieta dichiara:

«È mio interesse immettere un significato simbolico nella terra. Il mio lavoro è total-

mente diverso da quello degli artisti della Land Art: si riferisce allo spirito paleolitico, non

a quello industriale»11.

10 OLGA. M. VISO, The Memory of History, cit., p. 68 (trad. nostra). 11 Ibidem.

Silueta de Cenizas (Silouette di cenere), 1975, fotografia analogica a colori (20.3 x 25.4 cm)

Il nome Silueta series (1973-1980) descrive una serie di fotografie e filmati

che illustrano il percorso e la varietà delle earth body sculptures in cui Mendieta

usa terra, pietre, acqua, piante e fiori, per creare spontanei rituali in cui scava e

modella il paesaggio, procedendo talvolta a brevi combustioni e ad altre muta-

zioni, in dialogo stretto con lo spiritus loci dei posti che visita.

Senza titolo (Serie dell’albero della vita), 1977, fotografia analogica a colori (20.3 x 25.4 cm)

La fotografia e la silhouette generano una doppia incognita in cui risiede il fa-

scino di Silueta series. Nella sua apparente semplicità, è un lavoro che evoca

molti simboli culturali e metafisici, talmente carico di significati che quasi sfug-

ge a una chiara concettualizzazione: l’artista scopre, interpreta e racconta auda-

cemente con mezzi tecnologici – fotografia e video − le radici spirituali ancora

vive delle antiche culture precolombiane, aprendo nuove dimensioni in cui pre-

sente e passato possono incontrarsi e coniugarsi. L’opera appare allo spettatore

come un interrogativo pressante sulla sua identità, risveglia profondi ricordi che

dormono nell’inconscio collettivo e mostra, infine, con disinvoltura e naturalez-

za, l’unico destino veramente certo per l’uomo: la morte. Silueta series diventa

la ricerca personale più importante di Mendieta, nell’arco di tutto il suo percor-

so artistico.

Senza titolo (particolare) (Silueta Series, Mexico), 1976, diapositiva a colori (35 mm)

Oltre alla produzione di manufatti artistici, l’arte di Joseph Beuys si manife-

sta prolifica anche nella concettualizzazione e nell’elaborazione teorica, come

nel caso della creazione dell’erweiterter Kunstbegriff (“il concetto ampliato

d’arte”): l’espansione delle frontiere di un’arte che si adegua ai nuovi bisogni

della società contemporanea e mira alla rivalutazione integrale dell’azione uma-

na.

Il profondo desiderio di creare una nuova coscienza negli uomini nasce dalla

necessità, provata da un individuo che ha partecipato attivamente alla guerra, di

una catarsi. A questo proposito Carmen Bernardez Sanchis afferma:

«Il dolore diventa esperienza essenziale per Beuys, che appartiene alla generazione di

tedeschi che visse la seconda guerra mondiale; ma non passivamente, anzi attivamente

come soldato al servizio del Terzo Reich. L’eredità di quella lotta si manifesta come ferita,

come visione […] e colpa. Riconobbe e visse lo strappo fra coscienza e memoria, fra

l’entelechia e l’orrore e tutto ciò s’intreccia nella sua opera in modo più o meno eviden-

te»12.

Nel periodo in cui è professore alla Kunstakademie di Düsseldorf, Beuys

formula originali concetti sul ruolo e la funzione dell’arte in ambito culturale,

sociale e politico. Per rendere pratiche le sue teorie egli trova una nuova

dimensione su cui agire, quella sociale; concepisce così la soziale Plastik

(“scultura sociale”), una delle proposte più innovatrici dell’arte del Novecento.

In un’intervista è Beuys stesso che indica che cosa intende per soziale Plastik:

«I miei oggetti devono essere considerati come uno stimolo per la trasformazione

dell’idea di scultura o di arte in genere. Dovrebbero far pensare a che cosa la scultura può

essere e a come il concetto di scolpire può essere esteso a materiali invisibili usati da tutti:

forme pensanti (come plasmiamo i nostri pensieri) o forme parlanti (come diamo forma

ai nostri pensieri con le parole) oppure scultura sociale (come plasmiamo e diamo forma

al mondo in cui viviamo): la scultura è un processo evolutivo; ogni uomo è un artista.

Questo è il motivo per cui la natura delle mie sculture non è fissa né finita. Nella maggior

parte di esse i processi continuano: reazioni chimiche, fermentazioni, mutazioni di colore,

scomposizione, asciugatura: tutto è in stato di trasformazione»13.

La scultura sociale è ispirata sia agli scritti di Novalis − che considerava la

creatività come una forza in grado di rivoluzionare tutti gli aspetti della vita de-

gli uomini − sia alle idee contenute nell’antroposofia di Rudolf Steiner. Il risul-

tato è la concezione della società come “materia prima” su cui modellare le uto-

12 CARMEN BERNARDEZ SANCHIS, Joseph Beuys, Madrid, Nerea, 1999, p. 9 (trad. nostra). 13 JOSEPH BEUYS-VOLKER HARLAN, What is art? Conversation with Joseph Beuys, Stuttgart, Clairview Books, 2004, p.9 (trad. nostra).

pie umane e al conseguente processo di trasformazione può contribuire creati-

vamente ogni singolo individuo.

Nel 1982, l’artista è invitato a Kassel, in Germania, per partecipare alla mo-

stra d’arte contemporanea Dokumenta. La mostra diventa l’opportunità per

sperimentare la sua teoria, con l’opera 7000 Eichen (“7000 querce”). L’azione

inizia nella piazza davanti al Museo Fridericianum, dove sono ammucchiati

7000 monoliti di basalto, lunghi circa 1 m, ognuno dei quali può essere acqui-

stato da chiunque sia interessato a collaborare all’opera; a sua volta, il ricavato

della vendita serve per piantare una quercia in una determinata zona della città,

accanto al monolito acquistato. Lo sviluppo della grande scultura sociale si svol-

ge fino al 1987, anno in cui si vende l’ultimo monolito, ma continua a svilupparsi

ancora oggi, se si considera che la quercia abbisogna di più di duecento anni per

raggiungere la maturità. Beuys lega simbolicamente il monolito a un albero così

longevo per garantire nel tempo la perpetuità del suo messaggio ecologico, pro-

prio come la marmorea scultura classica ha eternato il messaggio antropocentri-

co. Inoltre l’opera 7000 querce ricollega gli uomini alla terra, svegliando la loro

coscienza come attori nel processo di interscambio.

7000 Eichen (7000 querce), 2003, fotografia digitale scattata, da autore anonimo,

alla Wegmannstrasse, Kassel, Germania.

Come nelle opere di Mendieta, anche negli elaborati artistici di Beuys risalta

l’aspetto effimero e mutevole conferito dall’uso di materiali deperibili; questa

caratteristica rende evidente l’importanza attribuita al rispetto per la vita intrin-

seca del materiale e all’intervento di un agente esterno nell’opera. Per Beuys

ogni singola materia è in possesso d’energia che, in combinazione con l’azione

dell’artista, dona ai manufatti vita propria:

«Gli oggetti non sono quindi semplicemente il risultato di un processo, di un farsi ma-

teriale, visibile e intimamente coerente [come gli artisti della minimal art intendono]; so-

no relitti di un processo plastico che risale all’idea, al pensiero, al Verbo»14.

Se il Messico è lo scenario che ispira e ospita gran parte della produzione arti-

stica di Mendieta, il luogo d’elezione per Beuys è l’Italia, dove le sue idee artisti-

che, politiche, sociali e didattiche trovano un territorio molto fertile.

Già nel 1969 realizza a Milano il multiplo Ja ja ja ja ja nee nee nee nee nee.

Nel 1971 a Napoli alla Modern Art Agency tiene la sua prima mostra personale,

La rivoluzione siamo noi. È la prima volta che questa galleria ospita una per-

formance ed è l’occasione in cui Beuys espone il suo “concetto ampliato d’arte”:

«Beuys sovverte […] ogni concezione dell’arte. “Arte” non è più un concetto museale,

bensì umano e in quanto tale si rivolge a ogni sfera in cui opera l’uomo: dalla politica alla

religione, dalla scienza alla più spicciola quotidianità. È un concetto dell’arte che respon-

sabilizza l’uomo nei confronti di ogni suo atto, in un invito costante a “essere” nel mondo,

partecipando, lottando, agendo creativamente e non a disdegnare il mondo. Questo è

quanto Beuys esprime con l’aforisma «la rivoluzione siamo noi». Questa la sua rivoluzio-

ne politica, fatta di criticità costruttiva, responsabilità, autonomia decisionale, partecipa-

zione, uguaglianza e democrazia, libertà di pensiero. Capiamo così perché Beuys sia sem-

pre rifuggito da ogni forma di ingabbiamento ideologico, da ogni incasellamento sociale

che potesse in qualche modo frenare la libera creatività. Ha lottato contro l’accademismo

in seno alla Kunstakademie di Düsseldorf, con non pochi disagi personali. Lotta contro i

partiti politici tradizionali che si mostrano incapaci di garantire la libertà creativa del sin-

golo imbrigliandolo in ricatti ideologici. Abbiamo già detto che la possibilità di ogni uomo

di essere artista, unico, e con ciò creatore è il fondamento su cui si basa l’impegno di

Beuys in favore di una radicale uguaglianza. Lotta dunque contro le discriminazioni, con-

14 CECILIA LIVERIERO LAVELLI, Joseph Beuys e le radici romantiche, cit., pp. 73 s.

tro la selezione ed il numero chiuso in accademia e nel mondo dell’istruzione, la sua

“Freie Internationale Universität” (FIU) si ispira proprio a questi criteri»15.

La rivoluzione siamo noi, 1971, serigrafia firmata da Joseph Beuys, (191 x 102 cm)

Approfittando degli impegni artistici Beuys viaggia in continuazione in terri-

torio italiano. Da Napoli va a Foggia e là rivede, nel Vallo Malvaso, i luoghi in

cui aveva condotto le esercitazioni militari nella guerra del ‘43. Visita anche le

regioni meridionali. Nel 1974 si tiene a Pescara, presso lo “Studio L.D.” di Lu-

crezia de Domizio Durini, un Incontro con Beuys che segna l’inizio di una stret-

ta collaborazione e amicizia con la celebre mecenate e il marito Buby Durini,

amicizia che rende possibile l’inaugurazione della famosa scultura sociale Difesa

della natura (1984) a Bolognano.

Questo progetto di soziale Plastik, risultato di quattro anni di continua piani-

ficazione in collaborazione con Lucrezia De Domizio Durini, è uno dei più ambi-

15 LUCREZIA OMODEO SALÈ, Joseph Beuys, L’arte come vita, cit.

ziosi e complessi concepiti da Beuys; è composto da una serie di azioni riguar-

danti lo sviluppo agricolo, sociale ed ecologico a Bolognano, nelle tenute dei Du-

rini. Il destino porta Beuys a rendere concreta la sua utopia proprio in una zona

vicina al luogo in cui egli ha combattuto durante la guerra.

Il modello delle 7000 querce di Kassel è replicato a Bolognano quasi come

emblema dell’intero progetto Difesa della natura:

«Il progetto che mi ha portato qui porta il titolo “Difesa della natura”, e queste parole

rappresentano molto di più d’un semplice slogan: si tratta di un progetto concreto che ci

porterà a piantare 7000 alberi, ognuno di specie diversa, qui a Bolognano. A Kassel ho la-

vorato con delle querce, mentre qui, a Bolognano, svilupperemo una specie di “PARADI-

SO” dove avremo 7000 alberi diversi»16.

Difesa della Natura, 1984, locandina pubblicitaria del progetto di scultura sociale, firmata da Joseph Beuys

La soziale Plastik, che ha come suo primo obiettivo la riattivazione agricola

della fattoria dei Durini, vuole essere un modello per l’intera comunità, afflitta

dalla tipica crisi economica post-industriale. Nella proprietà si ripristinano viti-

gni e frantoi, si riprende la produzione di vino e di olio, prodotti che l’artista

stesso, nella consapevolezza della sua notorietà, autografa per promuoverne le 16 LUCREZIA DE DOMIZIO DURINI, Bolognano. La spiritualità di Joseph Beuys, cit., p. 32.

vendite e autofinanziare così il progetto; la mercificazione dell’opera d’arte ha

uno scopo funzionale e in certa misura altruista. Il dialogo con la comunità (ar-

tisti, intellettuali, contadini e politici) è costante; si tengono molte conferenze e

incontri nei quali Beuys insiste sulla necessità di creare strade alternative per lo

sviluppo umano, partendo dall’autodeterminazione individuale.

Difesa della Natura, 1984, incontro con Joseph Beuys

L’idea artistica degli anni Settanta, che vuole ripristinare la funzione sociale e

spirituale dell’arte e la libera circolazione delle opere nella sfera della vita quoti-

diana, ecco che in Joseph Beuys si rende concreta, dimostrando che le utopie

possono avverarsi, proprio come l’idea è scolpita nel materiale dall’azione ma-

nuale dello scultore.

Difesa della Natura, 1984, olio di oliva imbottigliato, etichettato e firmato da Joseph Beuys

Gli anni Ottanta vedono uno Joseph Beuys maturo artisticamente e impegna-

to a tutti i livelli. Consapevole della sua fama internazionale, alla pari di Andy

Warhol, la usa per far decollare i suoi progetti nell’ultima fase della sua vita. La

prima volta che Beuys incontra Warhol è nel 1979 a Düsseldorf, due personalità

assai diverse che coincidono però negli slogans: le frasi «ogni uomo è una star»

di Warhol e «ogni uomo è un artista» di Beuys riassumono la possibilità per o-

gni individuo di creare se stesso e il suo mondo.

6. IL SACRO E IL RITO

Gli universi religiosi di Beuys e di Mendieta devono la loro impronta origina-

ria al cattolicesimo. Beuys da bambino frequenta la scuola elementare alla Ka-

tholische Volksschule di Kleve; Mendieta studia alla scuola cattolica del Sagrado

Corazòn de Jesùs all’Avana. Entrambi gli artisti, però, nell’arco del loro percor-

so di formazione sono influenzati da particolari forme di espressione spirituale

che orientano fortemente il loro linguaggio artistico.

Beuys s’interessa ai miti celtici, attraverso lo studio delle opere di James Jo-

yce, ma soprattutto assimila l’antroposofia di Rudolph Steiner come un modo di

vita, quasi come una religione. Il fondamento dell’antroposofia steineriana −

che riprende idee dei filosofi idealisti tedeschi e di Goethe − è il riconoscimento

che tutta l’esistenza, nella sua visibilità e invisibilità, e quindi anche il mondo

spirituale, sia analizzabile attraverso processi analogici e con un metodo scienti-

fico.

L’interesse spiccato per la religione e la spiritualità conduce necessariamente

Beuys alla creazione di opere d’arte che assumono la funzione di veri e propri

riti. È questo il caso della prima performance eseguita da Beuys in un contesto

Fluxus, durante il Festum Fluxorum Fluxus organizzato alla Kunstakademie di

Düsseldorf il 2 febbraio del 1963. In quella storica serata viene “eseguita” la

Sinfonia Siberiana, I movimento, azione caratterizzata da molteplici significati

e sintetizzata così nel libro di Cecilia Liveriero Lavelli:

«[Beuys] inizia con l’esecuzione di un brano in cui si alternano, alle melodie inventate,

alcune frasi musicali ispirate a La messe des pauvres e a Sonnerie de la Rose + Croix di

Eric Satie. Poi prepara il piano introducendovi montagnette di argilla dalle quali spunta

un ramo, e appende alla lavagna una lepre morta collegata al ramo – e quindi al pianofor-

te – con del filo metallico. Beuys interrompe di tanto in tanto l’esecuzione per scrivere

delle frasi sulla lavagna e per estrarre il cuore alla lepre)»17.

La lepre, un animale tipico dell’universo artistico beuysiano, rappresenta

l’azione e il movimento, la pace e la libertà. In questa performance è l’elemento

scioccante che attiva le dinamiche fra l’artista e il pubblico:

17 CECILIA LIVERIERO LAVELLI, Joseph Beuys e le radici romantiche, cit., p. 201.

«È intenzione di Beuys rendere percepibili le forze e le tensioni che entrano in gioco

nel corso di questo processo evolutivo, che egli considera plastico, laddove Plastik include

e supera il concetto di Kunst (arte), di Anti-Kunst (antiarte), coincidendo, invece, esatta-

mente con quello di Leben (vita)»18.

L’azione accentua subito uno scopo rituale che contrasta con l’intenzione del

gruppo Fluxus di rifiutare, nelle sue manifestazioni, qualsiasi simbolismo o si-

gnificato. La Sinfonia Siberiana, I movimento è un autentico gesto rituale che,

attraverso il filo teso, attua un collegamento, fisico e concettuale, tra l’uomo che

suona il pianoforte e l’animale morto appeso nella bacheca e comunica

l’intenzione di risuscitare l’arte che è ritenuta morta, a causa della decadenza

delle ideologie e dell’avvento della tecnologia, non solo da Beuys, ma anche dalle

avanguardie precedenti.

Sibirische Symphonie 1. Satz (Sinfonia siberiana. I movimento), 1963, performance nel

contesto del Festum Fluxorum Fluxus, organizzato alla Kunstakademie di Düsseldorf.

A questo proposito Beuys rimprovera a Marcel Duchamp di essere rimasto

scaltramente in silenzio19:

«Se l’intenzione [di Duchamp] era, (direbbe Beuys) di provocare, i suoi oggetti si sono

già svuotati di senso provocatorio diventando oggetti da museo, culto e collezione. Se il

suo scopo era di rifondare l’opera d’arte come un processo di scelta concettuale

18 Ibidem, p. 202. 19 Azione di Joseph Beuys Il silenzio di Marcel Duchamp viene sopravvalutato, creata come contributo a una trasmissione dal vivo per la televisione tedesca (ZDF) nel 1964: cfr. CECILIA LIVERIERO LAVELLI, Joseph Beuys e le radici romantiche, cit., pp. 210 s.

dell’artista, gli rimprovera di essersi fermato alla pura provocazione. “Le teorie che Du-

champ avrebbe potuto sviluppare le sto io portando avanti ora”»20.

Il rituale sembra efficace, almeno per quel che riguarda la notorietà pubblica

dell’artista, e Beuys ne approfitta per mettere in discussione in ogni occasione la

situazione dell’arte, riempiendo il silenzio lasciato dal cinico nichilismo dadaista

e degli artisti Fluxus, che non hanno fatto nulla per superare la morte artistica

di cui pure hanno consapevolezza.

Nel 1966 Beuys crea altre due azioni, ispirate alla Sinfonia Siberiana, I mo-

vimento, dal titolo Eurasia, di cui rimane la scultura feticcio omonima al MO-

MA di New York.

Sinfonia Siberiana (Eurasia), 1963-66, lavagna con disegni in gesso, grasso e feltro,

lepre e aste di legno (182.9 x 230.5 x 51 cm)

Gli insegnamenti steineriani permettono a Beuys di concepire il mondo ani-

male in una prospettiva più ampia rispetto a quella della scienza. Ad esempio, a

proposito della lepre egli dichiara:

«Per la lepre è il simbolo dell’incarnazione, basta osservare come essa scavi la sua ta-

na: si seppellisce, si incorpora completamente nella terra, cosa che all’uomo riesce in mo-

20 CARMEN BERNARDEZ SANCHIS, Joseph Beuys, cit., p. 17 (trad. nostra).

do radicale solo pensando: si rotola nella materia (terra), vi penetra, vi si seppellisce; e in-

fine ne fa proprie le leggi»21.

Questa concezione del mondo animale e del legame con la terra non è estra-

nea a Ana Mendieta, che la ritrova nella letteratura del messicano Carlos Casta-

neda. È proprio la lettura delle opere di Castaneda che le apre la possibilità di

un ampio e appassionante mondo spirituale, sul quale l’artista cubana proietta

la sua identità:

«La mia arte è fondata su una fede in un’energia universale che scorre attraverso ogni

cosa, dall’insetto all’uomo, dall’uomo allo spettro, dallo spettro alle piante, dalle piante

alla galassia. Le mie opere sono vene in cui scorre il flusso universale, attraverso esse sale

la linfa ancestrale, le credenze originali, gli accumuli primordiali, i pensieri inconsci che

muovono il mondo»22.

La fusione con la natura cui Mendieta aspira, si contrappone alla credenza

cristiano-cattolica di una vita eterna dopo la morte in cielo accanto a Dio. È

piuttosto continuamente evocato l’ancestrale mito mesoamericano in cui la terra

accoglie l’uomo morente in un abbraccio rassicurante. La morte è un ritorno alla

terra e agli antenati, non una celestiale vita eterna insieme a Dio. La fotografia

intitolata Imagen de Yagul (1973) riflette chiaramente la dinamica della morte

come generatrice di vita.

21 Joseph Beuys citato in CECILIA LIVERIERO LAVELLI, Joseph Beuys e le radici romantiche, cit., p. 88. 22 Arte e femminismo, a cura di Helena Reckitt, London, Phaidon, 2005, p. 98.

Imagen de Yagul (Immagine di Yagul), 1973, fotografia analogica a colori

(50.8 x 33.7 cm)

Nella visione cosmica delle antiche culture dell’America centrale e meridiona-

le, il sacrificio umano era parte di un complesso sistema religioso e politico che

governava allora la vita degli uomini, in cui le persone non erano coattamente

sacrificate − come molto spesso si tende a pensare − ma si offrivano volentieri

alla morte in coerenza con le loro credenze. Ci si sacrificava e si moriva per unir-

si alla terra. Forse in fondo la logica di questi complessi rituali era

l’autoregolazione della popolazione nel rispetto del sostentamento offerto dal

territorio. Ci si sacrificava e si moriva per consentire alla comunità di sopravvi-

vere. La religione occidentale da molto tempo ha superato la logica del sacrificio

umano. Gesù è stato l’ultimo uomo a essere sacrificato per la vita degli altri e ha

ritualizzato poi quel gesto con l’eucaristia nell’ultima cena.

Tanto Beuys quanto Mendieta cercano insistentemente di creare lavori per-

meati di vita. Allo stesso modo in cui l’invenzione del cinema ha dato vita

all’immagine fotografica, l’uso della performance, suggerito già dai Dadaisti e

praticato diffusamente negli anni Settanta, conferisce dinamismo e vitalità

all’arte della seconda metà del Novecento. La performance diventa un modo di

ritualizzare i bisogni spirituali e intellettuali di questi due artisti, come risposta

alla loro comune visione di un mondo anonimo, svuotato e meccanizzato. Un

profondo pensiero antropologico e spirituale si materializza nel loro bisogno di

creare vita.

L’arte di Mendieta è tutta caratterizzata da un forte bisogno di sacro come

«uno stato mentale che regge le pressioni del mondo secolare»23. Lo stesso uso

del corpo è in fondo una sua riconsacrazione per «ripristinarne il senso di mira-

coloso che è andato perduto nella sua riduzione a solo meccanismo»24. Questa

consapevolezza di voler ristabilire le qualità di cui godeva l’uomo in tempi pre-

cedenti all’industrializzazione e alla tecnica, è ricorrente anche nel messaggio

beuysiano, come nota Cecilia Liveriero Lavelli:

«Beuys sa di dover recuperare un rapporto equilibrato con la natura, che passi anche

attraverso la nobilitazione dei sensi per riattivarli riportandoli al grado di vivacità di cui

avevano goduto in epoche pre-moderne, e rigenerarli nel fruitore fornendogli a tale scopo

degli stimoli validi»25.

23 DONALD KUSPIT, Redeeming Art: Critical Reveries, New York, Allworth, 2000, p. 214. 24 Ibidem. 25 CECILIA LIVERIERO LAVELLI, Joseph Beuys e le radici romantiche, cit., pp. 172 s.

7. LA SANTERA E LO SCIAMANO

Nel 1978, poco dopo aver conseguito il suo secondo Master in Fine Arts in

Mixed Media, sempre alla University of Iowa, Mendieta si trasferisce a New

York, dove ha inizio la sua collaborazione con il collettivo femminista A.I.R., con

cui ha contatti già da due anni. Al gruppo interessa l’emancipazione delle donne

in ambito artistico, al di fuori delle aree di dominio culturale maschile. In con-

sonanza con gli interessi del collettivo, Ana si concentra sulla forte presenza di

figure femminili nella spiritualità del mondo antico e le evoca attraverso l’arte.

Nello stesso tempo prende i primi contatti con le comunità di emigrati cubani a

Miami e nel 1980, per la prima volta dopo il suo lungo esilio, torna a Cuba.

La cultura cubana è caratterizzata, oltre che dal cattolicesimo, da una religio-

sità sincretica che è il prodotto della combinazione delle credenze dei nativi e

degli africani portati in schiavitù dagli Spagnoli. Mendieta, pur essendo stata

educata al cattolicesimo in una famiglia alto borghese, dimostra uno spiccato

interesse per la cultura afrocubana. Nell’arco della sua formazione artistica gli

echi della religione afrocubana risuonano in modo evidente. Già nel 1973, presso

uno dei workshop della Intermedia Graduate Class di Hans Breder, Mendieta è

performer di un’azione in cui afferra per le zampe un gallo appena decapitato e

fa sgorgare il sangue dell’animale per terra fino al suo esaurimento. Il sacrificio

del gallo è un rito propiziatorio, per ingraziare le divinità, tipico della religione

afrocubana in genere. Breder ritiene quest’azione interessante da documentare

anche per la sua somiglianza formale con le sanguinose e provocatorie perfor-

mance degli azionisti viennesi, molto note in quel periodo.

Quando, come si è detto, nel 1980 Mendieta ritorna a Cuba, cerca di ricreare i

legami con la sua famiglia e la sua terra; entra in contatto con alcuni artisti loca-

li che, come lei, traggono ispirazione dalle culture primitive e insieme a loro ri-

scopre il territorio, perlustrando siti d’importanza archeologica e naturale, ma

soprattutto visitando numerose comunità afrocubane per essere testimone dei

loro riti.

Nel 1981, le viene concesso il permesso di eseguire il progetto Esculturas ru-

pestres, presso il parco naturale di Jaruco, nelle vicinanze dell’Avana. Si tratta

di una grande riserva forestale che presenta delle formazioni rocciose di mode-

sta altitudine, che a loro volta accolgono delle grotte; dentro queste grotte Men-

dieta realizza ancora Siluetas, incidendo nelle pareti delle sculture, evocando

così le potenti divinità femminili preispaniche che popolano la terra. Le Escul-

turas rupestres – riprese in un filmato in super8 e documentate in fotografie

dall’artista stessa26 − attivano il senso sacro di questi luoghi; come vere e pro-

prie casse di risonanza, le grotte propagano l’antica mitologia dell’isola, scom-

parsa con l’arrivo dei conquistatori e della modernità, a una società che in fondo

non ha rinunciato alle sue origini.

Esculturas Rupestres (Sculture rupestri), 1981, fotografia analogica b/n (25.4 x 33.7 cm)

Quando Mendieta dichiara che le sue Esculturas rupestres rappresentano «il

ritorno di Siluetas alla sua matrice originale», sta parlando anche di se stessa: le

sculture di Jaruco segnano la fine di un periodo e l’inizio di uno nuovo, caratte-

rizzato dalla elaborazione di opere più stabili e durature.

26 Il libro fotografico che Mendieta intende pubblicare non vede però mai la luce.

Esculturas Rupestres (Sculture rupestri), 1981, fotografia analogica b/n (20.3 x 25.4 cm)

Sempre nel 1981 Mendieta realizza anche un importante lavoro presso il Cu-

ban Memorial Park, un parco sito in un popoloso quartiere di emigrati cubani a

Miami conosciuto come Little Havana. L’artista interviene sulle radici di un

enorme ceibo (un albero tropicale), fissandovi una piccola silueta di capelli u-

mani raccolti presso i barbieri locali, cui aggiunge un ciuffo dei suoi. Subito lo

Ceiba fetish è accettato come un oggetto sacro, un vero e proprio feticcio, dai

santeros (i praticanti della santeria) locali, che gli recano offerte di acqua, cibo e

fiori.

Nelle religioni di origine africana ai capelli e alle unghie umani è connessa

l’idea della crescita e della forza vitale. Con la sua Ceiba fetish Mendieta intende

stabilire un legame tra l’intera comunità e le sue credenze.

È nell’esilio americano che Mendieta inizia a esperire in modo empirico la re-

ligione attraverso l’arte; non è mai stata una praticante di santeria, ma ricono-

sce e rispetta il sistema ideologico di questa religione e di altre somiglianti. Se-

condo alcune testimonianze, i praticanti di santeria riconoscono nelle sue opere

un vero e proprio talento innato per le pratiche rituali, ma affermano anche che

l’artista ha corso un grande pericolo evocando forze che non poteva né com-

prendere né governare27.

27 OLGA M. VISO, The Memory of History, in Ana Mendieta. Earth Body, cit., p. 66.

Ceiba Fetish (Feticcio del ceibo), 2007, fotografia digitale b/n, foto: Peter Dooling

Il prolungato e serio interesse di Mendieta per lo studio delle culture primiti-

ve, che è senza dubbio un vero Leitmotiv della sua vita e della sua opera, impe-

disce di etichettare la sua arte come una semplice rappresentazione dei rituali

della santeria o, ancor peggio, come il mero soddisfacimento del desiderio di

“esoticizzare” se stessa.

L’uso dei capelli e delle unghie si rintraccia anche in una performance di

Beuys che risale al 1964. A Berlino, presso lo spazio offerto dalla Galleria René

Block, egli crea un’azione chiamata Der chef (“Il capo”). È allestito uno spazio

dalle dimensioni regolari, quasi cubico, sulle cui pareti e nei cui angoli è spalma-

to del grasso. Gli elementi di arredo sono semplici: un’asta di rame avvolta nel

feltro poggia sul muro e per terra; un amplificatore è collocato sul lato opposto;

un ciuffo di capelli e un mucchietto di unghie sono appesi a una parete; per terra

giacciono due lepri morte.

Das Chef (Il capo), 1964, performance, Galleria René Block, Berlino - Germania.

L’azione dura otto ore; all’inizio l’artista – che per la prima volta usa il suo

corpo in una performance – è disteso sul pavimento, completamente avvolto in

una coperta di feltro; le due lepri morte sono disposte ai due estremi del rotolo.

Beuys all’interno del tunnel di feltro è munito di un microfono e per l’intera du-

rata dell’azione, a intervalli regolari, produce monotoni suoni, delle ö; talvolta

tossisce, si lamenta e fischia e tutto ciò viene amplificato, riempiendo lo spazio.

Gli spettatori possono vedere l’accurata scenografia e sentire i rumori prodotti

da Beuys solo da lontano.

Poiché i materiali organici nelle culture primitive simboleggiano la forza vita-

le, Cecilia Liveriero Lavelli ritiene che l’uso beuysiano di capelli, unghie e grasso

sia la testimonianza di «un possibile attaccamento feticistico»28. Mark Rosen-

thal pensa, invece, che l’intera azione Der chef prenda spunto dall’Ulisse di Ja-

mes Joyce, libro a Beuys molto caro:

«Joyce ha cominciato una poesia [nell’Ulisse] con “O, O the boys of Kilkenny” e Beuys

ha ripetuto ö, ö […]. Descrivendo la morte, Joyce la rappresenta un poco perversamente

“che taglia le unghie e rasa i capelli a un cadavere” […] La particolare atmosfera irlandese

di Joyce ha un’aura intensa, spesso pungente, sempre tetra. Allo stesso modo Beuys crea

28 CECILIA LIVERIERO LAVELLI, Joseph Beuys e le radici romantiche, cit., p. 208.

un ambiente tedesco, per lui significativo, descritto con dettagli umili e ingenui, ma anche

disturbanti, rappresentando il tutto con un realismo fisico intensamente agito»29.

È impressionante − e soprattutto evidente nelle azioni Fluxus − il modo in cui

Beuys riesce a far emergere il suo inconscio. Nella performance Der chef, oltre

ai riferimenti agli opposti antroposofici, come vita/morte, silenzio/rumore, e-

lementi mutevoli (materiali organici)/elementi statici (metalli), risulta chiara

l’immagine dell’artista stesso ferito e sepolto sotto la neve. La sconcertante a-

zione, quindi, rievoca certamente il momento in cui Beuys è stato curato e guari-

to dai Tartari dopo il suo incidente aereo e ricrea quell’esperienza vissuta in uno

spettacolo polisensoriale.

Nella costruzione dell’identità artistica di Beuys come “sciamano”, l’incidente

nella desolata pianura di Crimea ha una fondamentale centralità. La famosa sto-

ria dell’incontro con i Tartari è così descritta dallo stesso Beuys:

«Se non fosse stato per i Tartari io non sarei vivo oggi. Sono dei nomadi della pianura

di Crimea, un gruppo umano neutrale fra Russi e Tedeschi. Ho stretto un bel rapporto con

loro, vagavo a lungo per raggiungerli, “Du nix njemcky [tu non sei nemico]”, mi dicevano,

“Du Tartar [tu sei tartaro]”. Volevano che io mi unissi al loro clan. Certo la vita nomade

mi attirava, ma in quei tempi la loro possibilità di muoversi era stata molto limitata. Fu-

rono loro che mi trovarono nella neve dopo l’incidente con l’aereo, proprio quando il

gruppo di perlustrazione tedesco si era ritirato. Ero in stato d’incoscienza e mi ripresi solo

dopo dodici giorni; da loro fui portato in un ospedale presso un accampamento tedesco.

Così i ricordi che ho di quel tempo sono immagini che hanno penetrato la mia coscienza.

L’ultima cosa che ricordo è che era troppo tardi per saltare, troppo tardi per aprire il pa-

racadute. Dev’essere stato un paio di secondi prima di toccare il suolo. Fortunatamente

non mi ero allacciato le cinture di sicurezza… alle cinture ho sempre preferito i movimenti

liberi… il mio compagno aveva le cinture allacciate ed è stato polverizzato dall’impatto:

non è stato trovato quasi nulla di lui dopo. Devo essere stato espulso dal finestrino nel

contraccolpo […] e questo mi ha salvato, benché avessi gravi ferite al cranio e alla mandi-

bola. […] Sono stato completamente sepolto nella neve. È così che mi hanno trovato i Tar-

tari giorni dopo. Ricordo voci che dicevano “Voda” (acqua), il feltro delle loro tende,

l’odore pungente del formaggio, del grasso e del latte. Mi hanno unto il corpo di grasso

per aiutarlo a generare calore e mi hanno avvolto di feltro come isolante per conservare la

temperatura»30.

29 MARK ROSENTHAL, Joseph Beuys, Houston, Menil Foundation, 2004, p. 57 (trad. nostra). 30 CAROLINE TISDALL, Joseph Beuys, New York, Guggenheim Museum, 1979, pp. 16 s. (trad. mia).

Nel 1964 Beuys pubblica il suo Lebenslauf/Werkklauf (“curriculum vitae”):

con questa specie di autobiografia in forma poetica vuole fare della sua vita pri-

vata un’opera d’arte, ma il suo costante atteggiamento autocelebrativo gli aliena

le simpatie di vari intellettuali che cominciano addirittura a dubitare

dell’autenticità di alcuni episodi della sua vita.

8. FETICCI

Quando si pensa al feticismo, il riferimento immediato è alle teorie psicoana-

litiche freudiane, secondo cui esso indica lo spostamento della meta sessuale

dalla persona a un suo sostituto, che può essere rappresentato o da una parte

del corpo della persona stessa o da qualsiasi altro oggetto.

In antropologia, il feticismo è invece una credenza che attribuisce

caratteristiche soprannaturali a un oggetto inanimato, il cosiddetto feticcio: un

manufatto in terracotta, pietra, legno, vetro o altri materiali, talvolta zoomorfo o

antropomorfo.

Furono i marinai portoghesi del XVI secolo che diffusero l’uso del termine

“feticcio” per descrivere gli strani oggetti che recavano con sé di ritorno dalle

loro avventurose esplorazioni di terre fino allora sconosciute. La parola porto-

ghese feitiço significa “incantesimo” e si suppone che sia stata adottata per de-

scrivere l’importanza che alcune popolazioni africane attribuivano ai curiosi og-

getti protagonisti dei loro rituali; ma anche l’etimologia concorda con il pregiu-

dizio di quei tempi: «dal portoghese feitiçio, continuazione del latino factì-

ciu(m), idolo falso»31.

Per i teologi e gli eruditi europei dei secoli XVI e XVII simili pratiche religiose

erano pressoché inconcepibili. Solo gli illuministi nel Settecento individuarono

con precisione il fenomeno, ma pensarono che la sua diffusione fosse limitata

alle popolazioni primitive dell’Africa e delle Americhe. Voltaire fu l’unico ad

ammettere, attraverso l’artificio retorico dell’ironia, che il feticismo esisteva an-

che nelle civilizzate società europee, ma celato dietro le apparenze della norma-

lità e della ragione32.

I termini “feticcio” e “feticista” hanno sempre avuto una connotazione negati-

va, perché sono stati di volta in volta messi in relazione con un atto idolatra

primitivo o con un meccanismo inconscio (e quindi fuori da ogni controllo), op-

pure con una devianza o una malattia mentale (come nel caso dell’accezione

freudiana). La Chiesa cattolica ha condannato ad esempio il feticismo come un

31 MANLIO CORTELAZZO - PAOLO ZOLLI, DELI. Dizionario etimologico della lingua italiana, s. v. Feticcio, Bologna, Zanichelli, 1999, p. 574. 32 Cfr. ALFONSO M. IACONO, L’ambiguo oggetto sostituto. Il feticismo prima di Marx e Freud, in Figure del feticismo, a cura di Stefano Mistura, Torino, Einaudi, 2001, p. 36.

atto peccaminoso, benché abbia largamente fatto uso di feticci nelle proprie ce-

rimonie.

Se Karl Marx individua nella società capitalista un atteggiamento feticistico

verso i prodotti commerciali e il denaro, rilevando il potere di suggestione in-

trinseco alle merci, William J. Thomas Mitchell, nel suo saggio What Do

Pictures Want?, segnala un complesso e indissolubile rapporto feticista fra

comunicazione visuale e società contemporanea33.

In definitiva il feticismo, rintracciabile in molte sfere della vita quotidiana,

sembra essere un meccanismo mentale che accompagna l’umanità dai suoi pri-

mordi e che aiuta l’uomo nel suo tentativo di sostituzione della realtà.

La teoria del feticismo di Freud si fonda sulla “negazione di una assenza”, un

concetto assai appropriato per designare le motivazioni dell’arte di Ana

Mendieta e di Joseph Beuys. L’assenza è provocata in un caso dall’esilio e

nell’altro dalla guerra; la negazione di quest’assenza è riconoscibile nello stretto

rapporto fra l’artista e il suo elaborato artistico.

Sin dall’infanzia Beuys si mostra un accanito collezionista: raccoglie pietre,

foglie, animali, piccoli oggetti, tutto ciò che attira la sua curiosità. Ogni singola

cosa ha un significato personale per l’artista che, nell’arco della sua vita,

accumula moltissimo materiale, con una metodicità quasi ossessiva. Oltre alla

forma, alla sostanza e al colore, è importante il collegamento che ciascun

oggetto ha con un evento, un concetto o semplicemente un ricordo del passato.

In questo caso l’oggetto-feticcio, ogni volta che è visto o toccato, riempie

l’assenza che il passato lascia dietro di sé, ricreando le sensazioni vissute nella

memoria e coinvolgendo l’animo. In ciò risiede la magia del feticcio. Grazie a

una riflessione simile diventa immediatamente comprensibile l’abitudine di

certe tribù africane di “sostituire” un membro defunto della famiglia con una

scultura-feticcio che, con uno specifico rituale, che da ricetto anche la sua

anima.

33 Cfr. WILLIAM J. THOMAS MITCHELL, What Do Pictures Want? The Lives and Loves of Images, Chicago, University of Chicago Press, 2005.

Senza titolo IV, 1964-78, vetrina contenente semi vari, pezzi di ricambio vari, un barottolo con sangue animale, sciroppi

vari imbottigliati, erba di prato, un contenitore plastico con grasso, una lastra di metallo (201 x 232 x 67 cm)

Tramite la sua diretta esperienza Beuys conosce il potere che gli oggetti

hanno di suggestionare l’animo umano e consapevolmente ne fa un suo

particolare modus operandi:

«Per Beuys impostare rimandi al rituale, al feticcio, alla magia, al totemismo o

all’alchimia è un modo per condannare i processi di rimozione di cui queste realtà sono

parzialmente oggetto nella cultura occidentale moderna di stampo razionalistico post-

positivista; ne è prova quel senso di estraniamento avvertito dallo spettatore di fronte alle

opere dell’artista che a tali strati della coscienza fanno esplicito riferimento»34.

34 CECILIA LIVERIERO LAVELLI, Joseph Beuys e le radici romantiche, cit., p. 70.

Crucifixion (Crocefissione), 1962-63, legno, cavi elettrici, fil di ferro, carta (42.5 x 19 x 15 cm)

Beuys sostiene inoltre che con il suo lavoro, a volte qualificato come “sciama-

nistico” o “primitivista”, non intende ricreare miti originari né rappresentare

un’immagine del passato, ma vuole scoprire «come ora noi siamo legati al passa-

to»35. Le sue famose “vetrine” sono esibizioni talvolta di oggetti-feticcio

autoreferenziali, talvolta di oggetti che hanno uno scopo concettuale ben

preciso.

Si è detto che in Mendieta l’uso del feticcio nasce dal suo intimo bisogno di

negare lo sradicamento geografico, culturale ed emotivo, che l’esilio le ha provo-

cato. Anche lei come Beuys scopre la capacità di evocare e di suggestionare at-

traverso il feticcio, distinguendosi dalla ritualità e calandosi in una dimensione

quasi religiosa.

35 Ibidem, p. 73.

Nel saggio Where is Ana Mendieta?, Jane Blocker propone un’interessante

lettura di uno dei lavori di Fetish series (1976) che Mendieta ha eseguito nelle

campagne di Old’ man’s creek, nello Iowa. Si tratta di un feticcio antropomorfo,

a scala naturale, modellato nella terra e trafitto da rami d’albero.

Senza titolo (Fetish series, Iowa), 1977, fotografia analogica a colori (50.8 x 33.7 cm)

Blocker, nata nello Iowa da una famiglia di origine tedesca, per interpretare il

lavoro di Mendieta si basa sulle riflessioni di Freud a proposito del perturbante

(Unheimlich). Queste riflessioni prendono spunto da un saggio dello psicologo

Ernst Jentsch, in cui si afferma che il perturbante è caratterizzato dall’incertezza

intellettuale, ad esempio dal «dubbio se un essere apparentemente animato sia

vivo davvero o viceversa […] e [d]all’impressione provocata da figure di cera, da

pupazzi e da autonomi»36. Freud approfondisce ancora il concetto ritenendo che

«il perturbante [sia] quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da

lungo tempo, a ciò che ci è familiare»37. Il perturbante è quindi il sentimento

provocato dal ritorno di una situazione familiare rimossa, divenuta inconscia.

Il lavoro di Mendieta per Jane Blocker è unheimlich proprio perché nei mate-

riali (terra, acqua e rami) e nel luogo che le sono familiari fin dall’infanzia, rico-

nosce una figura estranea. Lo straniamento provocato dal feticcio sostituisce il

personale sentimento di appartenenza alla sua terra:

36 Ernest Jentsch, citato da STEFANO FERRARI, Lineamenti di una psicologia dell’arte, Bologna, Clueb, 1999, p. 108. 37 Sigmund Freud, citato ibidem.

«Cerco d’immaginare come sarebbe stato camminare nei dintorni e all’improvviso im-

battersi in questo corpo modellato con la sabbia umida. Ciò m’inquieta. È una presenza a-

liena, che sconvolge l’orizzonte e defamiliarizza il paesaggio»38.

Blocker scrive inoltre che il feticcio giacente di Fetish series provoca un sen-

so di straniamento perché è un doppio, un corpo totemico modellato su scala

umana, e ammette: «Più specificamente, è un “feticcio” dotato di poteri magi-

ci»39.

Tutto è chiaro quando si capisce che quello che ritorna nella coscienza di Blo-

cker come unheimlich non è il ricordo infantile della campagna di Old’ man’s

creek né lo straniamento davanti a un feticcio, ma la condizione di straniera che

le ha evocato un’altra straniera.

-oe§ao-

38 JANE BLOCKER, Where is Ana Mendieta?, cit., p. 71 (trad. nostra). 39 Ibidem, p. 72 (trad. nostra).

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