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Estratto dalle "pagine": trascrizione diplomatica del racconto della battaglia del Volturno

Date post: 01-Dec-2014
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Trascrizione diplomatica di un estratto del diario di Giuliano Iannotta, garibaldino della Legione del Matese
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Trascrizione diplomatica di un estratto dal diario di Giuliano Iannotta, riferito alla battaglia del Volturno La Legione del Matese il giorno 1° e 2 Ottobre 1860 La mattina del 1° Ottobre ci alzammo prestissimo ed il combattimento già era incominciato: ci schierammo in mezzo al mercato. Il nostro maggiore de Blasiis, fin dal giorno precedente se n’era partito per Napoli e non era più ritornato. Campagnano ed io eravamo alla te- sta delle nostre compagnie, attendendo ordine per pren- dere azione. Io avrei desiderato di gettarci da noi in un luogo qualunque per fare il nostro dovere: Campagna- no al contrario, mi faceva osservare essere necessario attendere un comando, perché non si poteva conosce- re lo scopo dello Stato Maggiore Generale, o che pren- dendo azione a nostra volontà, avremmo potuto trovar- ci in un punto, ove l’opera nostra non sarebbe sta- ta utile. Attendemmo ancora. Finalmente verso le 7½, vedemmo spuntare un uffiziale a cavallo per la strada del teatro, che a tutto galoppo, veniva verso di noi. Giunse; Lui e il cavallo erano bagnati di sudore; era il maggiore Guadagni di Firenze, pallido, affranto dalla lunga corsa,…era venuto di carriera da S. Maria mandato da Garibaldi. Campagnano ed io ci avanzam- mo verso di lui, ma egli non potea parlare: prese alquanta lena, mezzo distratto e come assorto in gravi pen- sieri, ci disse, che corpo è questo? – Legione del Matese, ri- spondemmo – e chi n'è il comandante? – non ci è, per ora la comandiamo noi – Ebbene, riprese, io ho ordine dal Dittatore di prendere qualunque forza trovo per adem- piere a un importante servizio; voi permettete che io prenda il comando della vostra Legione per questa giornata? – volentieri – dunque seguitemi.
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Page 1: Estratto dalle "pagine": trascrizione diplomatica del racconto della battaglia del Volturno

Trascrizione diplomatica di un estratto dal diario di Giuliano Iannotta, riferito alla battaglia del Volturno

La Legione del Matese

il giorno 1° e 2 Ottobre 1860

La mattina del 1° Ottobre ci alzammo prestissimo ed

il combattimento già era incominciato: ci schierammo

in mezzo al mercato. Il nostro maggiore de Blasiis, fin

dal giorno precedente se n’era partito per Napoli e non

era più ritornato. Campagnano ed io eravamo alla te-

sta delle nostre compagnie, attendendo ordine per pren-

dere azione. Io avrei desiderato di gettarci da noi in un

luogo qualunque per fare il nostro dovere: Campagna-

no al contrario, mi faceva osservare essere necessario

attendere un comando, perché non si poteva conosce-

re lo scopo dello Stato Maggiore Generale, o che pren-

dendo azione a nostra volontà, avremmo potuto trovar-

ci in un punto, ove l’opera nostra non sarebbe sta-

ta utile. Attendemmo ancora. Finalmente verso le

7½, vedemmo spuntare un uffiziale a cavallo per la

strada del teatro, che a tutto galoppo, veniva verso di

noi. Giunse; Lui e il cavallo erano bagnati di sudore;

era il maggiore Guadagni di Firenze, pallido, affranto

dalla lunga corsa,…era venuto di carriera da S. Maria

mandato da Garibaldi. Campagnano ed io ci avanzam-

mo verso di lui, ma egli non potea parlare: prese

alquanta lena, mezzo distratto e come assorto in gravi pen-

sieri, ci disse, che corpo è questo? – Legione del Matese, ri-

spondemmo – e chi n'è il comandante? – non ci è, per

ora la comandiamo noi – Ebbene, riprese, io ho ordine

dal Dittatore di prendere qualunque forza trovo per adem-

piere a un importante servizio; voi permettete che

io prenda il comando della vostra Legione per questa

giornata? – volentieri – dunque seguitemi.

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Ci mettemmo in marcia. Usciti da Caserta prendem-

mo la direzione dei monti. Attraversammo quei paesetti

dietro Caserta, Tuoro, Casolla ed altri. Eravamo alla fine

di uno di quei paeselli, che giungeva quasi fin sotto la fal-

da della montagna ed il maggiore ordinò un po di riposo.

In quel mentre due o tre dei nostri militi, che erano

rimasti un po indietro nella marcia, corsero avanti, dal

maggiore e gli dissero che passando per sotto ad una

finestra, ove vi era affacciato un prete, che parlan-

do con altro individuo dirimpetto aveva detto: ora sareb-

be buono schioppettiare tutti quanti questi f…. Il maggiore

Guadagni, abbattuto com’era, trasse il suo revolver;

indicatemi, disse, l’abitazione di quel cane prete!...

e si avviò di buon passo, unito a quei militi. Mi

passarono per vicino; chiesi e seppi di che si trat-

tasse. Maggiore, dissi, volete che vi accompagni?

grazie, Capitano, voglio andarvi solo. Chiamai

allora una decina dei miei e seguimmo il mag-

giore fin sotto il portone. Il maggiore salì, tro-

vò il prete, gli puntò al petto il revolver e gli

disse delle parole che meritava. Il prete, spaventa-

to, si gittò ai piedi del maggiore chiedendo miseri-

cordia,…il maggiore così lo lasciò. Smontata la scali-

nata gli chiesi che cosa avesse detto il prete; si è av-

vilito il carognone, rispose il maggiore. Ritor-

nammo uniti alla Legione, proseguimmo il nostro

camino salendo la montagna. Giungemmo ad una

certa altezza che vi era un piccolo piano quasi orizzon-

tale; il maggiore ordinò alto…Da quel punto eleva-

to si udiva un fuoco continuo in tutti i quarti

e massime dalla parte di Capua vedeva alzarsi

un fumo biancastro, prodotto dalle tante bocche

da fuoco che mano mano si diradava nell’aere. Mentre

ognuno aguzzava l’udito per sentire le scariche e si

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pasceva la vista di quello spettacolo, il maggiore Gua-

dagni, commosso fino alle lagrime, chiamò intorno

a se gli uffiziali della Legione ed imprese a dire:

Fratelli!... La battaglia di questa giornata è decisi-

va per la causa d’Italia. Se oggi vinceremo l’Italia

è fatta; ma se perderemo, quanto finora si è fatto

è nulla. Il nemico, col favor della notte, è riuscito

attaccare improvisamente tutte le nostre posizioni

con forze molto maggiori alle nostre; e fra le tante

forze nemiche, il Dittatore è a conoscenza di una co-

lonna di riserva forte di 6000 uomini che si na-

sconde su queste montagne, ed ha per divisamento

di portar soccorso alle armate nemiche, che operano

ai Ponti della Valle ed a S. Angelo [in Formis], attaccando alle

spalle i nostri. Il Dittatore mi ha pure manife-

stato, che se quella numerosa colonna di riserva

potrà mettere in esecuzione il suo piano, qualun-

que sforzo potranno fare i nostri in quelle due

posizioni sarà sempre vano: il Dittatore perciò

mi ha ordinato di attaccare quella colonna di

riserva, fosse anche con un sol milite, per tenta-

re di mantenerla impegnata e neutralizzarla.

Allora il maggiore ci chiese quanti eravamo di numero.

Noi fin dalla mattina avevamo chiamato l’appello ed era-

vamo in tutto 191: quindi gli dicemmo esser presenti

191 individui. Vedete, riprese il maggiore, con si picco-

lo numero dobbiamo andar di fronte a 6000 uomini;

ma coraggio!... alla scarsezza del numero supplirà il no-

stro valore!...facciamo ognuno il proprio dovere. Io ho

presagio che oggi di noi nessuno perirà; combattere-

mo in modo da stancare il nemico, e tenerlo impegna-

to per tutta la giornata e così otterremo lo scopo. S’im-

magini il lettore quale impressione dovettero fare sul-

l’animo nostro quelle poche parole dette dal maggiore.

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Noi fino a quel momento eravamo ignari del perico-

lo che ne sovrastava; quindi al solo pensiero che per-

dendosi la giornata noi avremmo potuto ricadere sotto gli artigli

dei Borboni, noi, che quasi tutti eravamo compromes-

si politici ci sentimmo rabrividire, ed un grido qua-

si unanime scoppiò dai nostri petti, avanti!.. Si vin-

ca o si muoia!...

Riprendemmo la marcia giungemmo sulle vette

della montagna, guardammo per quei luoghi ma

niuna forza nemica ci apparve. Incominciammo

a inoltrarci verso Nord=Est; caminammo qualche

pajo di chilometri attraverso quelle campagne,

che si componevano di balze, piccoli colli e pog-

gi. I contadini, che stavano lavorando per quei

dintorno, appena scorgevano la nostra Legione,

si davano in fuga cacciandosi innanzi a noi.

Passammo un paesello, Casola, mi sembra; doman-

dammo ma nessuno seppe o volle darci contezza

del luogo ove si nascondeva il nemico. Ci avan-

zammo al di là di quel paesello per meno di

un altro chilometro. La nostra piccola avan-

guardia ci precedeva. Avevamo di fronte una specie

di collinetta che si estendeva verso settentrione; alla

falda dell’estremità di essa, a meno di un chilometro di

distanza da noi, incominciò ad apparire un gruppo di

persone con degli abiti bianchi: ci arrestammo e tutti

gli sguardi erano rivolti a quella parte. Il maggiore

smontò da cavallo, prese il cannocchiale, lo poggiò ad un

muretto vecchio a forma di antico epitaffio, che ivi era,

e si pose ad osservare. Io ad occhio nudo vedeva che

quel gruppo erano dei soldati con dei cappotti bianchi. Mi

avvicinai al maggiore e gli chiesi cosa scorgesse e

se era convinto che quelle genti erano soldati: no, Ca-

pitano, rispose, mi sembrano donne che lavorano: guar-

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date meglio, soggiunsi, son tuttaltro che donne. In quel

momento la nostra avanguardia diete l’allarme! E ci

avvertì che dietro quella collinetta stava schiera-

ta la colonna nemica. Contemporaneamente quel

gruppo di soldati, che era a nostra vista, si ve-

deva aumentare rapidamente di numero, si schie-

rava in battaglia e apriva il fuoco. Ci stendem-

mo anche noi in cordone e ci dividemmo in tre

sezioni. Una cinquantina di noi, che restammo pro-

prio di fronte al nemico, prendemmo una piccola al-

tura e rispondemmo pei primi al fuoco dei ne-

mici; le altre due sezioni, che si erano distese alla no-

stra sinistra aprirono pure il fuoco. Mentre il combat-

timento incominciava tutta la colonna dei borbonici

appariva sulla cima della collinetta e così ci trovam-

mo di fronte ad una forza imponente di numero e

tutta in azione: eravamo a circa cinque o seicento metri

di distanza: le palle nemiche poco giungevano a noi,

i nostri tiri andavano meglio; una parte di noi era-

vamo cacciatori e diversi portavamo delle cartucce ag-

giustate e fatte di proprie mani, con certa scaglia

inglese potentissima che ci avevamo procurata prima

della spedizione. Il fuoco durò circa mezzora a quella di-

stanza ma ognuno ritenne la propria posizione. Era-

no circa le dieci e mezzo ed il nemico incominciò le sue

evoluzioni; distese le sue ali a forma di una gran curva,

come ad un arco di cerchio. La sua destra si avanzava

di più prendendo la direzione di mezzogiorno; quel movimen-

to ci fece sospettare che il nemico tentava di metterci

in mezzo. Noi allungammo ancora il nostro cordone

cercando di contendergli il passo; ma eravamo troppo

pochi e non potevamo tenergli fronte a campo aperto.

Allora incominciammo un fuoco di ritirata piegan-

do verso il paesello, che era rimasto dietro di noi. Gli

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abitanti vedento l’attacco vicino e temendo forse qualche

oltraggio per le loro donne dovettero farle nascondere in

un vallone boscoso, che partiva dal paese e si diriggeva

verso Sud=Est; difatti, io con diversi militi della

mia compagnia, nella ritirata, attraversando quel

vallone, mi trovai innanzi due avvenenti giovinet-

te, che si erano rifugiate in quella boscaglia. Nel ve-

derci, le poverine incominciarono a piangere, supplican-

do in nome della madonna, che non le avessimo toc-

cate: non temete di noi, dissi loro, noi non vi faccia-

mo niun male, ma badate, appresso a noi verranno

i soldati Borbonici;…quindi nascondetevi meglio,

acciò non possano vedervi; così le feci appiattare

sotto una macchia foltissima, ov’era difficile po-

terle scoprire. Passammo quel burrone, e con gli altri

che retrocedevano dall’altra parte del paese, ci riunimmo

tutti dietro la chiesa, che restava un po’ fuori dell’abita-

to alla parte di mezzogiorno.

A quella nostra ritirata i borbonici presero coraggio;

si restrinsero alquanto sul loro centro, e si avanzavano

verso il paese per assalirci; un pugno di bavaresi li pre-

cedeva di molto ed era giunto quasi a mezzo tiro da noi:

uscimmo allora da dietro le mura dall’una e dall’altra

parte ed il primo nostro scarico lo ricevettero quei gradas-

si dei cappotti bianchi che scapparono in dietro disor-

dinati e si confusero fra le fila della colonna. Alla

nostra ripresa azione di fronte la colonna nemi-

ca si arrestò, ed un combattimento regolare conti-

nuò per pochi altri minuti: poscia la colonna in-

cominciò novellamente ad allungare le sue ali

e formare la solita curva per prenderci ai fian-

chi: noi volteggiando in diverse guise la tenevamo

frenata; ma siccome era nostro scopo di allontana-

re quella riserva dal luogo, ov’era stata destinata,

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tirarla verso di noi e mantenerla impegnata, così

il Maggiore Guadagni ordinò retrocedere nuovamen-

te, battendoci sempre in ritirata. Al primo nostro

movimento, piegammo un po sulla nostra sinistra

verso Caserta Vecchia, che restava al nostro occidente.

Il nemico dovette credere che noi pieghevamo verso quella par-

te per andare ad occupare quel paese, e siccome vi si tro-

vava più vicino di noi, vi si spinse a passo sforzato,

occupando quella posizione con buona parte della co-

lonna. Noi vedemmo con piacere l’occupazione di

Caserta Vecchia, da parte del nemico, (che certo non

avrebbe mai abbandonata per timore l’avessimo

rioccupata noi), mentre con quella occupazione, si

era ottenuto lo smembramento in due parti di quella

forte colonna di riserva. Il maggiore Guadagni, assalito

da febbre, percorreva a cavallo le nostre file e con voce

rauca regolava la nostra ritirata, che veniva eseguita

in pien’ordine, mentre l’altra parte della colonna,

rimasta ad operare contro di noi, si avanzava a pas-

so lentissimo. Era circa mezzogiorno quando ritornam-

mo sulla vetta della montagna di Caserta. Quel luo-

go sarebbe stato per noi una ottima posizione, per-

ché da dietro dei sassi avremmo potuto tener a ba-

da il nemico, e senza probabilità di essere circondati.

Ma noi volevamo tirare i regi fino alla disce-

sa della montagna, dalla parte di mezzogiorno,

per non renderlo reperibile in caso fosse stato richie-

sto per una riscossa a Maddaloni, o a S. Angelo,

secondo il piano, che i regi avevano formato: quindi

incominciammo a discendere, e quando fummo verso

la metà della montagna, ci riordinammo, stendendo-

ci in cordone lungo una specie di vecchio sentiero,

che ivi era, costeggiato da una piccola ripa fornita

di molte piante di querce ed altro. Il nemico giunse

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sulla cima della montagna, ma non volle discende-

re; si fortificò dietro i macigni e riprese il fuoco:

da parte nostra si fece lo stesso; ma combattendo

entrambi a petto coverto era difficile poterci ferire.

Da quel punto, ov’eravamo, sentivamo il combattimen-

to su tutta la linea; il cannone tuonava verso S. Maria,

S. Angelo e Maddaloni, misto a prolungate scariche

di fucileria. [Inserito a margine: Dalle vicinanze / di Caserta Vecchia /un

pezzo di artiglie- / ria nemica spesso / tirava verso di noi, / ma i projettili

pas- / savano ad una certa altez- / za senza portarci / danno.]

Il maggiore Guadagni non si vidde più,

o che la febbre gli si aumentò, o forse credette che

lo scopo era stato ottenuto dovette ritirarsi. Il Ca-

pitano Campagnano, un po’ stanco, si pose a riposare

sotto un albero e m’incaricò di sorvegliare e diriggere l’a-

zione.

Erano circa le due p.m. ed un venticello di ponente tra-

mandava al mio orecchio un tumulto di voci indistin-

te, che venivano dalla parte di occidente; da prima

mi sembrò che quelle voci fossero venute da Caserta,

ne avvertii il collega Campagnano, manifestandogli

il mio sospetto, cioè: che Caserta si fosse ribellata:

Ci troveremmo in una brutta condizione, ei rispose.

Si alzò, ma nulla egli potette udire. Io allora disce-

si la montagna di altri pochi passi ed incominciai

a scorgere le prime abitazioni di quei villaggi di

Caserta, sotto le falde della montagna. Vidi dalle

logge e dalle finestre di quelle abitazioni, sventolar

lenzuola e bandiere bianche, e grida continue si udi-

vano di... viva il re!... Da quel medesimo punto

scorsi pure la falda della montagna sottostante a

Caserta Vecchia, ed una massa di popolo, che senza

[interruzione usc]iva dai paesi sottoposti e saliva

la montagna per unirsi alla truppa borbonica,

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che aveva occupata Caserta Vecchia. Assicuratomi

donde partivano quelle voci che prima aveva udite,

ritornai alla Legione; ne feci consapevole il colle-

ga Campagnano e risolvemmo restar fermi in

quella posizione, perché dicevamo fra noi, quantun-

que il primo di quei paesi si estendesse qua-

si fino alle nostre spalle, e che una sortita di

forza di là avrebbe potuto tagliarci la ritirata,

pure dalla nostra posizione favorevole, calando in

colonna serrata, avremmo sempre potuto attaccarla

alla bajonetta e aprirci il varco. Passammo in

quello stato altre due ore circa; su tutti i punti

il combattimento parea che andasse diminuendo. Era-

no circa le quattro p.m. e nell’atto che io percorreva

il cordone mi accorsi che un milite si era allonta-

nato dal suo posto, calato un po’ giù per la monta-

gna e che poi ritornava di tutta fretta volgendosi

spesso di capo a dietro. Immaginai qualche altra novi-

tà quindi mossi ad incontrarlo. Cosa è? gli dissi a bas-

sa voce. Sig. Capitano ci attaccheranno alle spalle –

Abbassate la voce, di che si tratti? Io, disse il mi-

lite, sono andato in quel pagliaio – e si vedeva –

per trovare una bevuta d’acqua, e da quel punto

ho intesa una voce in quella boscaglia – e ne indica-

va la direzione – che ha detto, avanti avanti!... Se

dunque sono nemici, pensai, devono essere vicinissimi tan-

to che se n’è intesa e distinta la voce. In ogni mo-

do, dissi al milite, ritornate al vostro posto, e fate

il vostro dovere e guardatevi di parlarne a chi che sia..

continuai intanto a percorrere il cordone. Giunto all’e-

stremità ov’erano gli ultimi militi, chiamai tre va-

lorosi giovini, i due fratelli De Pertis e Paolo Campa-

gnano, giovinetto trilustre e pieno di coraggio – che non

a guari abbiamo dovuto piangere trafitto da palle di as-

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sassini in agguato – seguitemi, dissi loro, ma sempre a

dieci passi di distanza. M’inoltrai intanto verso quella

parte, ove si voleva essere partita la voce, avanti avanti.

Era uno dei luoghi più folti di piante di quei dintor-

ni; e come piano inclinato del monte, non vi mancava-

no delle piccole balze, fossati, e specie di sentieri incassa-

ti. Mi era avanzato di circa un centinajo di passi, e ficcan-

do sempre lo sguardo fra quelle ombre fitte ed altipiani,

scorsi da 5 o 6 militari dalle divise borboniche, i quali da pri-

ma si movevano confusi e poscia si appiattarono: solo uno di

essi rimase fermo, come fosse stato una vedetta. Senza per-

der tempo gli tirai una fucilata; dal movimento che esso

fece la palla dovette rasentarlo di poco, e si nascose dietro un

albero. Quel piccolo drappello di militari, per essere ad

una buona distanza e fra le ombre di quella boscaglia non

potetti scernere se avevano armi. Rimasi quindi sem-

pre nel dubbio se poteva essere una forza ostile per cir-

condarci nella nostra posizione, o che fossero stati dei

disertori Borbonici, che si aggiravano per quei luoghi.

I compagni, che mi scortavano, i quali nulla avevano ve-

duto, mi chiesero di che si trattasse; di nulla loro dissi

ritorniamo.

Intanto a quell’ora la battaglia di quella giornata sem-

brava esser finita, ma ne ignoravamo l’esito, solo qual-

che colpo di cannone a rare volte si faceva sentire ver-

so i Ponti delle Valli; noi eravamo ancora in azione, e

nel dubbio di esser rimasti accerchiati dai nemici. Per

dare un’idea della nostra posizione, s’immagini un

triangolo isoscile, ad un angolo erano i regi, che tene-

vamo di fronte; ad un altro angolo stavano i paesi

rivoltati, da cui partivano sempre le voci di... viva

il re!... e si vedevano ancora issate le bandiere bian-

che; al terzo angolo si trovavano quei militari da me os-

servati, ed in mezzo eravamo noi. Allora credemmo op-

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portuno abbandonare quella posizione e ritirarci sulla

montagna di Centurano, che era dietro di noi, a fianco

del convento di S. Lucia. Da quel punto avremmo potuto

aver comunicazione con Caserta, sapere qualche cosa dell’esito

della giornata. Quindi radunammo pian piano i nostri militi tutti

ad un punto, e così serrati ci mettemmo in marcia scendendo il re-

sto della montagna. Presa che avemmo la pianura sottoposta i

regi si accorsero della nostra ritirata, si schierarono lungo

la cima della montagna, ed impresero un fuoco generale, ma noi era-

vamo già fuori del tiro. Continuammo il camino attraverso

la campagna, costeggiammo quei paeselli che erano ancora

in sommossa e proseguimmo verso la montagna di Centu-

rano. In quel mentre scorgemmo un’altra piccola colonna

di Garibaldini, che dalla parte di Caserta veniva in nostro

soccorso, alla cui testa andava un colonnello; questi, giun-

to alla nostra direzione, e veduto che noi ci ritiravamo,

si fermò coi suoi sulla strada. Arrivati vicino, il colonnel-

lo ci chiese, cosa si era fatto; gli dicemmo aver tenuta impe-

gnata la colonna borbonica per tutta la giornata, e

l’avevamo trasportata fino al punto, ove si vedeva, e che

la sua ala destra si stendeva fino a Caserta Vecchia,

che era stata occupata prima del mezzogiorno. Chiedem-

mo anche noi a Lui cosa si era fatto negli altri punti:

vittoria su tutta la linea, ci disse, questo è stato il te-

legramma di Garibaldi.

Erano circa le cinque passate. Il colonnello disse, non es-

ser convenienza riattaccare il nemico, perché questi ave-

va artiglieria e cavalleria, e noi ne mancavamo; ma ri-

tornare in Caserta, ove dal Dittatore si sarebbe dispo-

sto il da fare. Mentre ci disponevamo per partire,

niuno aveva fatto caso di un piccolo gruppo di soldati

nemici, che si vedeva in una vallata della montagna

di Caserta, che restava un po al di sotto della sua

cresta. Ci mettemmo in marcia. Non avevamo fat-

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to che pochi passi, ed uno sbocco di fumo, seguito dal fi-

schio del projettile, contemporaneo al tuono del cannone, par-

tì da quel gruppo di soldati; la palla passò sopra le no-

stre teste ed urtò contro i macigni della montagna opposta.

Il colonnello smontò da cavallo e diede ordine che tutti, avan-

zando il passo, avessimo guardato verso quella parte, da dove

il colpo era partito; ed appena scorto il fumo ci fossimo but-

tati a terra. L’ordine venne eseguito per pochi altri colpi,

in modo che al quarto o quinto non si badò al fumo ed il

projetto colpì in mezzo alla colonna: un giovine rimase qua-

si spezzato per mezzo. Noi che formevamo la sinistra del-

la nostra colonna, lo vedemmo giacer boccone, immerso in un

lago di sangue, colla testa un po’ alzata, e guardava ai com-

pagni che gli passavamo per vicino, come avesse voluto

darci l’ultimo addio. Non piangeva, non gridava, solo due

lacrime gli solcavano le gote impolverate ma il suo aspet-

to era calmo e mostrava morir contento per la patria. Era

un giovane imberbe dell’alta Italia, dei Cacciatori delle

Alpi. Continuammo il passo, schivando sempre le palle

che a piccoli intervalli, ci mandava quel pezzo nemico

fino a che non passammo una curva della strada, che ci

pose al coverto di quei tiri. Oltrepassammo il villaggio

di Centurano e c’incaminammo verso Caserta. Lungo

quel tratto di strada da Centurano a Caserta, il nemico ci

rivide e riprese il fuoco [aggiunto a margine: con quel medesimo pezzo] ma i

projettili

lanciati da quel pezzo non più arrivavano a noi. Arrivammo vi-

cino alla città – ove molto popolo era uscito, quasi sbigot-

tito ad osservare la truppa borbonica che si vedeva

schierata sulla cima della montagna – ed ivi trovam-

mo l’ordine, che la nostra Legione si fosse piazzata

all’estremità del corpo, ove si tocca il campo di Falcia-

no, per tener guardato quel punto. Il sole era tramon-

tato. Intanto forze di volontarii giunsero da ogni do-

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ve, per incordonare Caserta, temendosi forse di qual-

che sorpresa da parte del nemico, nel corso della notte.

Verso le dieci di sera giunse il nostro maggiore de Blasiis da

Napoli: si congratulò con noi, pel servigio che avevamo

reso nel giorno e perché nessun di noi era perito; mostrando-

si dolente solo perché non si era trovato anche lui

nell’azione. Poco dopo diversi militi della Legione chiesero

al maggiore se fosse stato possibile ritirarsi, perché sen-

tivano del freddo, pel sudore che gli si era prosciugato ad-

dosso, e che non avendo mangiato il giorno avevano fame.

Il Maggiore ne parlò ad un Generale, che era lì vici-

no, il quale, in vista delle operazioni eseguite dalla Legio-

ne nella giornata innanzi, permise che ci fossimo ritirati, e

fece occupare quel posto da tre compagnie di calabresi, che

erano venute fresche da Napoli. Caserta, a quell’ora, era

tutta chiusa e quindi fu inutile prendere qualche ristoro. A

circa mezza notte giungemmo al nostro quartiere un po stan-

chi ed armati com’eravamo, ci gettammo sulla paglia, ma

poco o nulla potemmo prender sonno.

La mattina seguente – 2 Ottobre – uscimmo prestissi-

mo; solo tre militi della mia compagnia rimasero in

quartiere, perché, dissero, essere ammalati [nella minuta: Solo tre militi della

mia compagnia non vollero sortire scusandosi di sentirsi ammalati per le

fatiche sostenute il giorno prima]. Per le strade di

Caserta si avvertiva un movimento delle forze, che

si diriggevano verso la Reggia; fummo anche noi av-

vertiti di portarci a quella volta. L’ordine era che tut-

ti i corpi Garibaldini si fossero radunati nel gran

largo semicircolare innanzi al palazzo; quindi non pas-

sò un’ora, e quello spazio si vidde colmo di armati:

forze venute da S. Maria, da Maddaloni, da Napoli –

tutte piombarono allora in quel sito; ordine che

[niuno si fosse] portato senza superiore comando.

Intanto fin dai primi albori del giorno, scariche

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continuate di fucileria si udivano verso le mon-

tagne di Caserta Vecchia, segno che i borbonici già

erano stati attaccati – poche compagnie di volontarii

vi erano state spedite per provocarli ed attirarli verso

Caserta – a misura che la giornata si avanzava, sentiva-

mo avvicinarsi il combattimento; erano circa le undici ed

il fuoco già ferveva entro la città. All’estremità della stra-

da del Teatro presso l’angolo del mercato i nostri eressero

una barricata – il mercato era occupato dai Borbonici.

I miei tre militi rimasti ammalati nel quartiere,

udito vicino il fuoco, sbalzarono fuori e si trovarono

fra la barricata e i nemici; necessità quindi di batter-

si a petto scoverto e si difesero bravamente – fu per lo-

ro una buona medicina, ché all’istante gli spezzò la feb-

bre. Il palazzo del Governo venne chiuso a tempo dal

Guardaporta Nicola Aieti... Lo stemma sul portone si

vidde forato da diverse palle nemiche. Durando l’azione

si raccoglievano i feriti e si trasportavano verso la stazi-

one, passando per mezzo a tutti quei volontarii accalcati avan-

ti palazzo che impazienti attendevano un comando per accor-

rere al combattimento; ma quando poi si vidde condurre

ferito il valoroso Capitano Sgarallini [alias Sgarallino, nella minuta è

aggiunto: ferito ad una coscia], da tutti noi cono-

sciuto, sopra una sedia versando sangue, e che agitando in

alto il [chepì] andava gridando nel massimo entusiasmo, viva

Garibaldi!... viva l’Italia!... vi fu un movimento

generale.... Tutti i corpi di volontarii, raccolti sotto i

rispettivi comandanti, si spinsero verso la strada che

passa per innanzi alla reggia, onde accorrere al conflit-

to; [nella minuta: Alla vista dei feriti ci fu una mezzora di perfetta confusione;

tutti i corpi si affollavano per accorrere al conflitto, ma diversi Generali ed

uffiziali superiori schierati sul marciapiede che rasenta la strada innanzi

palazzo, colle sciabole in alto, gridavano a squarciagola di tenerci fermi

perché non vi era un ordine; comandi non se ne sentivano più; colle mani ci

Page 15: Estratto dalle "pagine": trascrizione diplomatica del racconto della battaglia del Volturno

spingevano indietro: grida, bestemmie, urti fra noi...non si badava più a quel

che diavolo si faceva... durava quel bispiglio, quando ecco dalla Reggia

sortono cinque o sei pezzi di artiglieria, che slanciati a tutto galoppo

accorrono al combattimento; gli artiglieri fanno allargare i compagni,

puntano contro la barricata e la fanno saltare in aria: attaccano a mitragliare

i regi, che subito voltano le spalle e si danno alla fuga.] ma diversi generali

ed altri uffiziali superiori

che si tenevano lungo il marciapiede di quella stra-

da, si sforzavano per contenere l’ardore di quelle schie-

re irrompenti, facendo loro comprendere non esservi an-

cora ordine di entrare in azione. In quel mentre ve-

demmo schiudere le porte della Regia e sortire l’arti-

glieria con cinque o sei pezzi da campagna, che a tutto galoppo

accorse al mercato, ove si sbarazzò della barricata ed imprese

a mitragliare i regi per tutta la piazza che tenevano occupata; i

borbonici senza far troppa insistenza voltarono le spalle e sgombra-

rono Caserta.

Allora tutte le forze Garibaldine che erano state concentra-

te avanti alla Regia ebbero ordine di inseguire il nemico,

quindi attraversammo la città; ci stendemmo in lungo cordone,

ed incalzammo i regi che si ritiravano disordinati verso le mon-

tagne; ma quelle montagne erano state già occupate dai gene-

rali Bixio e Medici, che si erano avanzati da Maddaloni

e da S. Angelo ed avevano congiunte le loro colonne e dall’alto

di quei monti i Garibaldini intimarono la resa alle prime

colonne Borboniche, che si erano loro avvicinate.

Dunque lo avere provocati i regi fin dalla mattina; a-

verli attirati fin dentro Caserta, ed aver loro tagliata

l’unica ritirata che essi avevano per sopra le monta-

gne, fu il piano stupendo di Garibaldi in quella gior-

nata, per averli tutti prigionieri. I regi, quando si

accorsero esser stati chiusi da tutti i lati dalle forze

Garibaldine, come si trovarono divisi in gruppi ed in

piccole colonne, così si arrestarono: ed a misura che

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si raggiungevano dai nostri, venivano condotti prigio-

nieri in Caserta. Ad un luogo, con una quarantina di

uomini della nostra Legione, ne raggiungemmo un

battaglione. Appena veduti, a certa distanza, fra quegli

arbusti, i nostri militi incominciarono a far fuoco;

ma noi li frenammo, vedendo che quelli davano segni di

resa. Arrivammo a loro; erano circa 450, si compone-

vano per lo più del 6° ed 8° reggimento di linea e

pochi altri di cavalleria. Alla testa vi era il maggiore

Nicoletti: protestavano che loro non avevano mai avuta

azione contro i Garibaldini e che niente avevano fatto

di male. Si erano alleggeriti dei loro sacchi a pelo ed il me-

glio che portavano se lo avevano messo nei sacchi a pane.

Il maggiore Nicoletti ci chiese in favore di entrare

in Caserta con tutte le armi, gli venne accordato. Così

egli pose in ordine il battaglione e lui a cavallo alla

testa sfilammo verso Caserta. Parte di noi precedeva

e parte seguiva i prigionieri. Giun-

gemmo nella città per la Rifreda, ed inoltratici nella stra-

da di S. Antonio incontrammo il generale Sirtori se-

guito dal suo Stato maggiore; ci fu un momento d’i-

larità in quell’incontro. Il Generale ridendo ci disse –

son prigionieri? – Sì, rispondemmo – No, Signore, dis-

se il maggiore, noi non siamo prigionieri – ma

se siete in mezzo alla forza, replicò il Generale. Il

maggiore Nicoletti non sapeva con chi parlava: il

Generale non portava distintivi; aveva in testa un

cappello alto un po' acuminato; addossava la camicia

rossa e cingeva la semplice sciabola. Il maggiore con-

tinuava: Signore, io non so Lei chi è, ma chiunque

Ella sia, io protesto che noi non possiamo esser trat-

tati come prigionieri di guerra perché abbiamo

capitolato; ed il Generale sempre con un sorriso e

dolce come una dama, rispose: ma siete sempre

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prigionieri; e se io avessi saputo, riprese il mag-

giore, che dovea esser trattato da prigioniere di

guerra, mi sarei battuto fino all’ultimo sangue,

almeno per l’onor della bandiera. Il Generale sen-

za rispondere ci fe cenno di avanzare. Conducemmo

i prigionieri nella Reggia di Caserta, ove furono disarma-

ti; vennero pure rovistati i loro sacchi a pane e vi si rinven-

nero molti oggetti che erano stati rapinati nel sacco di Cajaz-

zo – Poi quando fu sera tutta quella truppa Borbonica che

volle veder l’alba del due Ottobre dalla cima delle monta-

gne di Caserta, si trovò prigioniera di Garibaldi. ––––

Nella gloriosa giornata del 1° Ottobre 1860, - che resterà

imperitura nella storia perché con essa si completò l’opera

dell’unione all’Italia delle provincie meridionali – tutti

i corpi Garibaldini che vi presero parte gareggiarono in

valore. La Legione del Matese, che si componeva di uomi-

ni, tutti della provincia di Terra di Lavoro, contribuì alla

vittoria di quella giornata per aver trattenuta e tenuta im-

pegnata, per tutto il giorno quella forte colonna nemica

di riserva, sconcertando così il piano di guerra formato

dai generali Borbonici. Il Generale Garibaldi, che tutto

ebbe sottocchio ammirò l’importante servigio reso alla

patria in quella giornata dalla Legione del Matese; e per

darle [aggiunto nella minuta: non avendo come altro] un segno di distin-

zione, volle di motoproprio [aggiunto nella minuta: e senza niuna richiesta]

for-

nirla di cappotti in preferen-

za degli altri corpi; e siccome seppe dalla relazione del

maggiore Guadagni, che la detta Legione, contava presenti

in quel giorno non più di 191 individui, dispose che 191

cappotti le fossero stati dati, come premio a quei soli che ebbero

parte all’azione. ––

Novembre 1879

Giuliano Iannotta


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