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FabioPusterlaOK

Date post: 11-Mar-2016
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«Andrea Cortellessa, da Parola Plurale, Luca Sossella Editore, Roma, 2004» Fabio Pusterla 483 485 484 Parola plurale Fabio Pusterla 487 486 [a.c.] Parola plurale Fabio Pusterla Nominatio Lettera da Tinizong Val Trodo 489 488 da Concessione all’inverno Le parentesi Il dronte Parola plurale Fabio Pusterla * * * *
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Fabio Pusterla “Egli osserva il mondo che lo circonda, quel paese alpino e quello a pie’ dei monti dove ci sono rocce e ghiacciai, delle valli incassate; e, allo stesso modo, i greti dei laghi o dei terreni abbandonati, invasi poco a poco da detriti, destinati alla rovina […] Egli sa, per così dire, cos’è la guerra, le guerre senza tregua; ne ha visto le tracce; ha confi- denza con questa notte profonda che tormenta la sua infanzia. La minaccia è ovunque, si nasconde sotto ogni sembianza. Ma da tutta questa oscurità, da questi frequenti soffocamenti, egli non trae delle elegie (non è più il tempo); ancor meno dei discorsi: egli non si schiera mai dalla parte ‘dei porta bandiera’. Ogni cosa, attraverso la sua voce ferma, sobria, mirabilmente dotta, è sempre insieme quoti- diana, vicina, vera e vasta, reale e nondimeno misteriosa”. Così Philip- pe Jaccottet ritrae un suo più giovane fratello, Fabio Pusterla. Il segno della guerra – faglia traumatica che attraversa la terra e il tempo – è sin dall’inizio profondamente impresso su questo poeta che vive nel paese ‘pacifico’ per definizione, sì, ma essendovi giunto sulle orme di un padre operaio, partito “volontario per la fulgida guerra, con la fanfara in stazione” e tornato – dopo ritirata di Russia, deportazione in Germania, fuga rocambolesca – “senza orchestrina” e senza racconti (un’impossibilità raccontata nella dolorosa prosa Il testimone, in Pietra sangue). Questo trauma, questa nevrosi di guerra in tempo di pace (per dirla con Sergio Finzi), affiora per tracce: a fram- menti e improvvisi soprassalti. Solo che, a differenza di altri della sua generazione – che ferite simili le hanno lasciate sedimentare a grande profondità –, sin dall’i- nizio il giovane ticinese si mostra deciso ad affrontare questo nodo traumatico. Nella raccolta d’esordio, come ha sottolineato Mengaldo, “la prima parola […] è erosione, cui seguono all’astratto e al concreto le conseguenze, vuoti e crollo”: segni di una “minaccia che viene dal fondo” e di un “naufragio della storia” (Galaverni). Ma oltre a indica- re una frattura nel passato più o meno recente, il componimento si colloca nella prospettiva, fortiniana, del futuro anteriore : di un “Mondo Nuovo” (con maiuscole appena ironiche) destinato – forse – a ricostruire. A esserne “schiacciato” è allora “il presente”, prosegue Mengaldo, che “acquista i connotati del non vivibile, addirittura del non esistente”; se non, potremmo postillare, proprio nella forma della parentesi, dell’“inciso” e dell’“interiezione”: del provvisorio e del vicario, insomma, che trova il suo emblema nelle “palafitte”. Se si vuole davvero edificare il futuro – che splende, assente, nella sua irraggiungibile perentorietà – occorre scavare, invece, fondamen- ta profonde. Ma ecco che tornano, allora, le tracce di un passato che condiziona e paralizza: in Lettera da Tinizong sono non meglio specifi- cate “tracce forse / di un mondo altro, sottostante, / che irrompe a 483
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Fabio Pusterla

“Egli osserva il mondo che lo circonda, quel paese alpino e quelloa pie’ dei monti dove ci sono rocce e ghiacciai, delle valli incassate; e,allo stesso modo, i greti dei laghi o dei terreni abbandonati, invasipoco a poco da detriti, destinati alla rovina […] Egli sa, per così dire,cos’è la guerra, le guerre senza tregua; ne ha visto le tracce; ha confi-denza con questa notte profonda che tormenta la sua infanzia. Laminaccia è ovunque, si nasconde sotto ogni sembianza. Ma da tuttaquesta oscurità, da questi frequenti soffocamenti, egli non trae delleelegie (non è più il tempo); ancor meno dei discorsi: egli non sischiera mai dalla parte ‘dei porta bandiera’. Ogni cosa, attraverso lasua voce ferma, sobria, mirabilmente dotta, è sempre insieme quoti-diana, vicina, vera e vasta, reale e nondimeno misteriosa”. Così Philip-pe Jaccottet ritrae un suo più giovane fratello, Fabio Pusterla.

Il segno della guerra – faglia traumatica che attraversa la terra e iltempo – è sin dall’inizio profondamente impresso su questo poetache vive nel paese ‘pacifico’ per definizione, sì, ma essendovi giuntosulle orme di un padre operaio, partito “volontario per la fulgidaguerra, con la fanfara in stazione” e tornato – dopo ritirata di Russia,deportazione in Germania, fuga rocambolesca – “senza orchestrina”e senza racconti (un’impossibilità raccontata nella dolorosa prosa Iltestimone, in Pietra sangue). Questo trauma, questa nevrosi di guerra intempo di pace (per dirla con Sergio Finzi), affiora per tracce: a fram-menti e improvvisi soprassalti.

Solo che, a differenza di altri della sua generazione – che feritesimili le hanno lasciate sedimentare a grande profondità –, sin dall’i-nizio il giovane ticinese si mostra deciso ad affrontare questo nodotraumatico. Nella raccolta d’esordio, come ha sottolineato Mengaldo,“la prima parola […] è erosione, cui seguono all’astratto e al concretole conseguenze, vuoti e crollo”: segni di una “minaccia che viene dalfondo” e di un “naufragio della storia” (Galaverni). Ma oltre a indica-re una frattura nel passato più o meno recente, il componimento sicolloca nella prospettiva, fortiniana, del futuro anteriore: di un“Mondo Nuovo” (con maiuscole appena ironiche) destinato – forse –a ricostruire. A esserne “schiacciato” è allora “il presente”, prosegueMengaldo, che “acquista i connotati del non vivibile, addirittura delnon esistente”; se non, potremmo postillare, proprio nella formadella parentesi, dell’“inciso” e dell’“interiezione”: del provvisorio e delvicario, insomma, che trova il suo emblema nelle “palafitte”.

Se si vuole davvero edificare il futuro – che splende, assente, nellasua irraggiungibile perentorietà – occorre scavare, invece, fondamen-ta profonde. Ma ecco che tornano, allora, le tracce di un passato checondiziona e paralizza: in Lettera da Tinizong sono non meglio specifi-cate “tracce forse / di un mondo altro, sottostante, / che irrompe a

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«Andrea Cortellessa, da Parola Plurale, Luca Sossella Editore, Roma, 2004»
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forma capovolta: con L’anguilla del Reno, che “non potrebbe esserepiù esatta e cruda parodia del modello. Perché non ribadisce un attodi superstizione, né invoca miracoli per sé, ma scommette semmai suuna speranza di reciprocità” (Raffaeli): “per strappare / un attimoall’asfissia, un’idea di vita / all’evidenza dei fatti, l’ultima sfida all’an-sia / un’utopia / alla paura di tutti”.

A posteriori Pusterla ha parlato della scoperta di una “distanza rispet-to alle cose che si percepiscono”, dell’“intuizione di un oscuro legametra bellezza e orrore”. La nuova levigatezza del verso si accompagna aquesto mood più sospeso, assorto, ovattato: quello soprattutto dellaterza raccolta, Le cose senza storia. È anche il libro che reca più visibilel’impronta dell’incontro con Jaccottet; esplicitamente metalinguisticovi è Nevicare (o scrivere d’inverno): “posarsi, sfarsi, diluirsi / senza rumoreo vento, / scendere bianca inattesa, / senza peso / ricoprire / la stra-da, la panca, la casa”; e l’emblema è preso proprio da un passo dellaSemaison (“una poesia più modesta […] che illumina per istanti la vitacome una nevicata”) citato da Pusterla introducendo la sua versionedel Barbagianni e dell’Ignorante. La lezione di Jaccottet, esistenzialeprima che scrittoria, è quella di una radicale messa fra parentesi del-l’Io, l’effacement (“L’opacità sia il mio modo di risplendere”: La fine ciillumini, nell’Ignorante). In questo senso, spiega Cavadini, le “cose”sono “senza storia”: in quanto a esse viene ora sottratta l’aura simboliz-zante (sia pure in forma allegorica) della tradizione montaliana del-l’oggetto, per restituirle al loro “essere cose: cose usurpate, perdute,negate”. In effetti appare tonalmente diversissima, da quella urgente eaggressiva di Concessione all’inverno, l’enumerazione di Paesaggio che dàil titolo al libro: “E poi il pollaio. Le cose senza storia. / O fuori. Unacarriola / che non ha ruote. Un pozzo. Un secchio marcio / privo difondo. Il nome di uno scemo: / Luigino. Piume dentro la rete, di galli-na. / Buchi dentro la rete. Trame rotte. / Quello che non chiamatecrudeltà” (anche se poi Cavadini insiste un po’ troppo sul “realismoiniziatico” e sull’“emersione del sacro dall’intima porosità del reale”,facendo così rientrare dalla finestra il sovrasenso cacciato dalla porta;similmente Anedda fa il nome di Simone Weil: riferimento certo perJaccottet e Fortini, meno perspicuo per il loro allievo, dal robusto edifficilmente erodibile, mi pare, laicismo ‘lombardo’).

Ma è la traduzione, in sé, a recare a Pusterla (che proprio neglianni Novanta vi si dedica con grande intensità) un insegnamentodecisivo: “quando traduco un altro poeta, sono anche obbligato adimenticare, o almeno a relativizzare, quella voce che credevo cosìmia, a farla per quanto possibile tacere, considerandola talvolta quasinemica. Non io, il mio io lirico, che poco prima consideravo signoree sovrano delle mie parole, ma l’altro deve parlare, quell’altro che hauna pronuncia e uno sguardo a me estranei”. Il mondo, sottratto allaprogettualità (o alla nostalgia della progettualità) dell’Io, non è tanto“dimenticato dalla storia, ma abbandonato alla storia” (Donzelli):per questa via, oltre gli interdetti del moderno, se ne recupera una –

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tratti, violento”; nell’inquietante suite Der blaue Bunker (ipotesi sul nemi-co) esse vengono identificate in diroccate strutture militari sulle quali(si noti di nuovo il tempo futuro) “si faranno ipotesi, indebite illazio-ni” (simili a quelle avanzate negli anni Sessanta dal giovane Paul Viri-lio di Bunker archéologie…). La prima raccolta è quella in cui questepresenze perturbanti vengono affrontate, per così dire, frontalmente:ne consegue l’adozione di un registro espressionista, una “scrittura /della rabbia inespressa, covata in sentina”, da “scolpire su pietre dure,/ irosamente”, come “un’iscrizione / pompeiana” (una volta di più,dunque, rinviata a un lettore postumo). L’uso continuo delle paren-tesi, segno di “una percezione frantumata, alineare” (Cavadini), nonè che lo stilema più esibito di questa partitura “tesa e amelodica”(Mengaldo); non manca, per esempio, l’enumeración caótica: “I vetrirotti, la ferraglia in un angolo / (biciclette, carcasse di macine, bisun-ti porno). / Le scritte col gesso (‘Dio abita qui’ / e altre, incompren-sibili), i fiori. Le svastiche”.

Nella Nota dell’autore aggiunta alla seconda edizione, Pusterla parladi Concessione all’inverno come di una raccolta “chiusa nella sua nevraste-nia individuale”. Una svolta è conseguita dal libro secondo, Bocksten,tutto imperniato sul magnifico poemetto tripartito (e, all’interno delletre sezioni, ulteriormente ramificato in suites di momenti quasi epi-grammatici: modalità destinata a tornare in tutti i libri successivi) chegli dà il titolo e che è stato ispirato, racconta l’autore, dal ritrovamentoin una torbiera, nella zona del Bocksten-Moor in Svezia, del cadaveremummificato di un uomo assassinato (con tre pioli piantati in petto)nel XIV secolo. Il libro è dedicato da Pusterla “alla memoria di miopadre”, ed è evidente come il Bockstenmannen figuri quale allegoria del-l’uomo novecentesco inseguito dalla violenza della storia. Un’allegoriasimile a quella utilizzata da Seamus Heaney nei Bog Poems della raccoltaNorth, del 1975 (come segnalò subito Franco Buffoni, il quale stavalavorando all’antologia Scavando, pubblicata nel 1991 dalla FondazionePiazzolla), e che in Pusterla tornerà ancora (nel grande componimen-to che dà il titolo all’ultimo libro, Folla sommersa) con “Paul Hooghe,l’ultimo lanciere caduto su nessuna spiaggia, il superstite / delle trin-cee dimenticate o scomparse, su cui sorgono oggi / grandi complessicommerciali o lussuosi villaggi satellite”. Quest’ultimo reduce dellaGrande Guerra fa rilampeggiare lo spettro del “primo caduto bocconisulla spiaggia normanna” di un poeta ‘padre’ come Sereni, ma soprat-tutto quello del “padre” effettivo “e tutti i suoi amici e nemici, / unagrande folla sommersa che ci guarda in silenzio e ci attende”.

La novità di quest’allegoria così compatta è accompagnata da unconsistente assestamento stilistico. Le punte espressionistiche di Con-cessione all’inverno sono in Bocksten per lo più bandite, sostituite daandature “più rotonde, piene e limate”: “in tutti i sensi cresce laregolarità formale” (Mengaldo, che segnala come di qui parta ancheun sempre meno cursorio recupero di versi della tradizione). Lospesso, travato montalismo del primo libro torna, in Bocksten, ma in

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Fabio Pusterla è nato nel 1957 a Mendrisio, nel Canton Ticino. Come haspiegato in un intervento recente (L’inferno è non essere gli altri. Scrittura poeti-ca, traduzione e metamorfosi dell’io, in Varcar frontiere. La frontiera da realtà ametafora nella poesia di area lombarda del secondo Novecento, a cura di J.-J. Mar-chand, Roma, Carocci, 2001, pp. 307-20), malgrado ciò la sua cittadinanza èitaliana perché italiano è il padre (poi naturalizzato svizzero; da non molto ilpoeta ha doppia cittadinanza). Dopo esperienze teatrali milanesi, segue studidialettologici a Pavia, dove si laurea sulla varietà comasca della Valle Intelvi.Dal sodalizio con Maria Corti nasce l’attività di critico e filologo (rimarchevo-le, fra il 1992 e il 1994, l’edizione in tre volumi delle opere narrative di Vitto-rio Imbriani; pubblica saggi anche su Montale, Sbarbaro ecc.). Oggi insegnaitaliano a Lugano e vive tra Lugano e Albogasio: a cavallo della frontieracome già, prima di lui, suo padre. A Maria Corti si deve l’introduzione allaprima raccolta poetica, Concessione all’inverno, che esce nel 1985 presso Casa-grande a Bellinzona (seconda edizione, con varianti e aggiunte, nel 2000);seguono – tutte presso Marcos y Marcos – Bocksten (1989, 20032), Le cose senzastoria (1994), Pietra sangue (1999) e Folla sommersa (2004). Gli anni Novantavedono anche un’intensa attività di traduttore; del 1992 è l’edizione, pressoEinaudi, del Barbagianni e dell’Ignorante di Philippe Jaccottet; del 2000 è Nelpieno giorno dell’oscurità: una sua corposa antologia, di nuovo da Marcos y Mar-cos, della poesia francese contemporanea.

Nutrita la bibliografia critica. Si segnalano: Luzzi 1989, 279-81; FrancoBuffoni, recensione a Bocksten, “Poesia”, 27, marzo 1990; Pietro De Marchi, F.P.e Le cose senza storia [1994], in Id., Uno specchio di parole scritte. Da Parini aPusterla, da Gozzi a Meneghello, Firenze, Cesati, 2003, pp. 125-27; AntonellaAnedda, Le acque notturne del respiro bambino, “il manifesto”, 20 aprile 1994; Pie-tro De Marchi, Nell’Isla Persa di Pusterla [1998], in Id., Uno specchio di parolescritte cit., pp. 129-32; Massimo Raffaeli, “Autografo”, 31, 1995; Galaverni 1996,193-98; Paolo Zublena, Una lucidità assoluta e inutile: la poesia di F.P., “Resine”,68, 1996; Pier Vincenzo Mengaldo, in Cento anni di poesia nella Svizzera italiana,Locarno, Dadò, 1997; Massimo Raffaeli, P., poeta etico in grigio, “Alias” supple-mento de “il manifesto”, 11 dicembre 1999; Maria Antonietta Grignani, “Auto-grafo”, 40, 2000; Galaverni 2002, 235-40; Philippe Jaccottet, prefazione a F.P.,Une voix pour le noir. Poésies 1985-1999, a cura di M. Vischer, Lausanne, Editionsd’En Bas, 2001; Massimo Raffaeli, Allegoria e storia, postfazione a F.P., SolangeZeit Bleibt. Dum vacat, a cura di H. Helbling, Zürich, Limmat Verlag, 2002; ElisaDonzelli, Ai margini dell’inverno: la poesia di F.P., tesi di laurea A.A. 2003-04 Uni-versità di Roma “La Sapienza”, relatori Biancamaria Frabotta e Andrea Cortel-lessa; Andrea Cortellessa, Trasalimenti geologici dal Canton Ticino, “Alias” supple-mento de “il manifesto”, 15 maggio 2004; Mattia Cavadini, Il poeta ammutolito.Letteratura senza io: un aspetto della postmodernità poetica. Philippe Jaccottet e F.P.,Milano, Marcos y Marcos, 2004; Villalta 2005, 148-54.

[a.c.]

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Parola plurale

forse paradossale – dicibilità. Afferma ora Pusterla: “Mi interessa unapoesia che si sforza ancora di lavorare sui doni del reale […], che siarrischia a percorrere i sentieri più grigi e più quotidiani dell’espe-rienza individuale. E che aspira, con tutta l’ingenuità e l’incoscienzadell’azzardo, a divenire voce comune”. È questa la prospettiva di Pie-tra sangue: gli artigiani della Valle Intelvi usavano sette tipi di pietreper rifinire gli intonaci, e l’ultima era appunto la “pietra sangue”(ematite), che “fa uscir fuori la luce ma anche i difetti. La mia mate-ria, sono le parole nelle quali sono incrostate delle storie”.

Una poesia che si vuole sempre più scabra e disadorna, dunque;che si apre – molto più frequentemente che in passato – alla dimensio-ne del racconto (la storia prima bandita, cioè; certe volte persino, enon le più felici, l’aneddoto); e che tuttavia conosce sempre, amara, ladimensione dello scacco (nel quale significativamente si rovescia unacelebre immagine di Sartre): “[…] non c’è tregua, o domani. Soltanto/ le sbarre, la gabbia di un io. / L’inferno è non essere gli altri, / guar-darli passare e sparire nel niente: / un posteggio che piano si svuota, /il cantiere del vento” (Breve omaggio a Plutone, II). Ma il pregnanteautocommento a Pietra sangue prosegue così: “Quest’idea del sublime,è proprio quest’idea che può far raggiungere le vette dell’arte ma par-tendo dal basso […] Talvolta si riesce a far risplendere la luce”.

La dialettica fra opacità e luminosità era già tutta jaccottiana, natural-mente; ma nell’ultimo Pusterla (come nell’ultimo Sereni…) è appuntopresente una tensione al sublime che fa toccare spesso, a Folla sommersa,trasalimenti memorabili. L’ultima raccolta mette a giorno una dinami-ca presente già in precedenza, una figura celata e ricorrente, insomma– per dirla con Deleuze – un diagramma. Alla lettera, proprio il trasalire:l’improvvisa e perturbante emersione, cioè, di quanto era sommerso. Checonsegna questa poesia, appunto, a una dimensione verticale.

Non è un caso che, tra le figurazioni allegoriche, tornino quiquelle di certi volatili già apparsi in precedenza (come Il dronte diConcessione all’inverno e l’“ultimo piccione” di Sabato a Sintra, nelleCose senza storia). Il loro, baudelairianamente, è un volo quasi sem-pre stentato, sofferente (in quanto quella al sublime è appunto, e for-tunatamente, solo una tensione): “scie magnetiche […], solchi, forsestelle / non visibili, vibranti / piccoli pipistrelli”, Due aironi (che, nelrimettere in scena un emblema già ambivalente nel Porta del Giardi-niere contro il becchino, danno forma a metallici voli apportatori di“maschere e paradossi, altre macerie / e trappole di fuoco, petrolife-re / giustizie micidiali”), infine Due alianti su Lione. Perfettamenteindifferenti a noi che rimaniamo a terra, ci riconsegnano “al filoteso dei giorni, alla caligine”; eppure “pensarli in volo, questo aiuta”:saperci confitti in basso, sommersi in un presente senza risarcimenti,ci può ricondurre di nuovo, forse – dopo troppo lungo letargo –,alla tinta nativa della risoluzione: “qualcosa si sveglia, / non unaforza eppure già energia. Qualcosa pulsa / da un folto di radici.Inverno, vieni, / noi siamo quasi pronti. Umili e pronti. Disarmati”.

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si aprono inconsuete visuali, angoli acutidi realtà (e intanto sfugge il resto del cerchio).La disfunzione è altra, è nei vaporiche velano le cose, confondono le casele chiese le chiuse; e chi sa più se l’inauditotumefarsi dei volti, e l’appiattirsie l’inarcarsi dei monti, e il beccheggiaredei ponti siano segnali veri, tracce forsedi un mondo altro, sottostante,che irrompe a tratti violento,o fantasmi neppure ipotizzabili?L’esilio comunque è in questo non essereintero mai, non esistente del tuttonell’istante, e sempre distantedal vero.

*

Nominatio

E portare con sé: la durezzadelle montagne, le sterminatepietraie, la solitudine dell’acqua.Gelidamente distante, aliena.Sapere questo, intendo, della sua esistenza.La neve, quella che resta comunquenegli anfratti a nord, in formadi luminosa lingua o guizzo.La stratificazione dello scisto, l’impastodel granito; la corrucciata dolomia.Il lontano, il freddo, l’assenza.Volare il falco altamente.

*

Il dronte

E se le sprofondanti immensità temevisopra o sotto, i marosi o il vento,riparo le rocce ancora erano, alla novità ventosa,allo spruzzo, all’orrore del fondo.Era un regno di basalto, a precipiziosu raggrumate colate di lava, su smangiati coralli.Ma poi: un luccichio di sestanti, cannocchiali.Abbattute le foreste piantarono canne da zucchero.E tu inerte zampettante

Fabio Pusterla

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Parola plurale

da Concessione all’inverno

Le parentesi

L’erosionecancellerà le Alpi, prima scavando valli,poi ripidi burroni, vuoti insanabiliche preludono al crollo, gorghi. Lo scricchioliosarà il segnale di fuga: questo il verdetto.Rimarranno le pozze, i montaruzzi casuali,le pause di riposo, i sassi rotolanti,le caverne e le piane paludose.Nel Mondo Nuovo rimarranno, caduteprincipali e alberi sintattici, spersecertezze e affermazioni,le parentesi, gli incisi e le interiezioni:le palafitte del domani.

*

Val Trodo

Scende aguzza e incassata dal TamaroVal Trodo, con scossoni di pietra ferrigna,rossastra (scoscesa ripa prima, poi boscofitto, deserto), solcata,di scure righe laterali, quasi a picco,senz’acqua. Nascosti in agguato:i bunker, le sagome automatiche,gli obici pesanti.Qui si insegna la guerra.

*

Lettera da Tinizong

Niente d’eroico in questo esiliocasuale. Il marinaio ricordalo stacco della nave dal pontile,le musiche d’addio, gli ultimi sparidel cannone da terra? Io no,io non so dove, quando la partenza(se partenza c’è stata); da qualche partes’intuisce ci dev’essere un errore – mio o d’altri non importa – un’imprevistasmagliatura, un sasso fuori posto.Né basta dire che adesso (quando?) qui (dove?)

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Eccole qui le ossa, biancheggianti,e il senso ischeletritodella vita: e della storiae tutta la sua cortedi omicidi e cateteri, stampelle.

[…]

II

[…]

Se il senso è questo allora tutto ha un senso,lo dice l’acqua che scivola tranquillae i rami rotti che trascina il fiumee il fango in cui si macerano i detriti.Se il senso è questo ogni dolore è vano,lo strazio vuoto ritorna alla terra.

Se il senso è questo la vita è accettabile.

[…]

Per anni frugammo le pietre, raccogliendo indizi.E i sentieri dei boschi? L’abbandono delle case diroccate?Argini, casse d’orologi, fotografie stinte,tutto un bisogno di parola, insoddisfatto.La terra dei padri, la sfuggentemano callosa del mondo. Una promessadi senso polveroso fra i rottami.

Ma i padri sono morti, non ha voce il passato,o ha voce incomprensibile al presente.

[…]

III

[…]

Sale su, aggalla in un risucchio lento,il gorgo abbagliante che preme, si espande,strascina un ricordo di caverna,odore di muschio profondo,dolore sordo, rimbombodi tempi immutabili, eco di piombi,catene, ferraglie,

Fabio Pusterla

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Parola plurale

prigioniero dell’isola, schiacciatofra due azzurri diversi, di inesausta durezza.E muri ciechi, di vele spiegate su caracche, e bandiere,fiocchi, pappafichi, tonfi d’ancora. E ghignidi topi, pipistrelli, camaleonti e gechi.

da Bocksten

Da Bocksten

I

E c’era solo acqua, e riquadri di terra:acqua piatta, solo a tratti increspatada lontanissimi miti, avventure,e terra scura, crostaprofonda, dura,con sotto qualcosa, pulsante,forse maleodorante, forse no.Alcuni hanno scelto il mare, il suo rollio.Altri coltivano segale, radici,e danzano la notte attorno ai fuochi.Io scavo, scavo, non so perché.

Eccola qui, franosa nel suo estremo,volta al mare, la terra.

[…]

Le formiche salgono ordinate dai tubidell’acqua dei condotti; l’enigma è là sottobrulicante di zampe, di vermi, di bave.

Il luogo: una torbiera,una palude boscosa, e poco lontano il mare.Qui ritornafra nuovi alberi uguali, le ossa biancheintatte, e il suo messaggiosulla tunica scura:il rosso dei capelli, guizzo di scoiattolo,e tre pioli nel petto.

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*

Al castello

Dentro le cose, al nòcciolo dei giorni,tira un vento impetuoso. Sulle pietrelise della cucina scorre l’acqua, nella casascricchiola il legno, l’ora;fuori, la notte, un uomo che non vedistrascina il proprio sacco di fatica:foglie secche. Ci osservanole cose, il loro immobileresistere a quel vento. Alari, mensole.Una scintilla pazzaimbocca la sua gola di caminoe poi scompare.

*

Rileggendo Fortini nei primi mesi del 1991

“Dunque era vero era questo”, e cosa dunque?Quale sperato vero o atteso ossameci giustifica? Chi ci dirà verso quali reamidi piombo o di sterco salpano le navi?Denti, sai bene, azzannano altre prede,ma sempre qui le radici, e più profonde.Uguali le cerimonie, i canti. Altissime le sorti.Sempre intonate le voci.Servi i servi, padroni i vincitori. Morti i morti.

*

Pensiero per Giampiero Neri

Di nuovo qui. Una stanza,un vuoto d’aria che pulsa, confuso.I colori sono quelli di un autunno piovosoe un male vago corrode le parole,come una pietra nera nella testa, un’occlusionedi vasi. E le parole in frantumivengono su per altre vie, commossebollicine dell’acqua, forse pesciche aggallano in un istante e poi scompaionosenza farsi vedere. Ma ci sono:ne intuisci il movimentodiscreto, nervi e chele

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Parola plurale

è il mostro della stiva che sale sulla plancia,l’urlo che nasce in pancia e vuole uscire.

[…]

E adesso vorresti un nome, definirmi,riseppellirmi nella tua realtà.Ma le ossa sono ossa, io sono io,ieri non c’ero,adesso eccomi qua.

da Le cose senza storia

Da Sotto il giardino

1

Dove porta questa strada che nessuno più imbocca,strada appena intuibile, sentierod’erbacce?Qui gente rotolava sulla pancia, sghignazzando,e c’erano molte grida, anche di dolore.

(Esiste, esiste anche senza di noi,la possibilità di un cammino.Bisognerà appiattirsi nell’erba, scordare qualcosa,e tu, maledetta paura,dovremo proprio sconfiggerti).

[…]

8

Gli odori forti, la menta e il limoncino,sembrano darti fastidio. I sassi, i rapanelli,gli oggetti dimenticati nel giardinoti attirano allo scavo, alla scoperta: gocce d’acquasui tubi, zappe rotte,il buio del sottoscala, ragnatele. Una monetasalta fuori dall’orto, un re coi baffida centesimi cinque, e vuoi mangiarlo.Chi l’ha perso vangava nel primo novecento:patate, forse (era tempo di guerra);e così sulla terra dei morti crescono i fagiolini rampicanti.

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Freddo che fende i tronchi, apre le vene dei campi e li uccide e li guarda moriree li cancella?

Ma il toporagno, due metri più in là:cosa fa il toporagno? Saltella,incide con le sue deboli unghiette la neve,si ferma brusco e annusa. Cosa annusa?Poi arriva il sole e va via: chiazze di luce,gocce di luce ovunque. Particelledi luce inumidita: il toporagnosi nutre di simili sostanze, sopravvivenell’ombra del suo buco.

E sono qui ambedue: fibra sventratae luce chiara e tersa. Due avversariche non si parlano mai. Dove guardare, ti chiedi,di quale occhio fidarsi, a chi concedersi.Se la nebbia si apre, per un attimo,se il vento delle altezze alza il sipario in un turbine,proprio là dove il caso indirizza lo sguardo,appare, chiaro, un lembo di montagna, ma staccatada terra, quasi in volo: aquila immensadi roccia nera e neve, artiglio e ala.

*

Da Bois de la folie

[…]

III

“Abbiate cura degli argini,se ancora lo potete. Custoditei muri, i confini fragili.Oltre è paura, è furia.”

[…]

*

Fabio Pusterla

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Parola plurale

al lavoro, infaticabili,lo sfiorarsi subacqueo delle code.Non andartene, dunque, non riporrela lenza. Non ancora.Attendi senza speranze, con serenità.

*

Sabato a Sintra

L’ultimo piccione,quello che insiste quando il resto dello stormoè già disperso sui tetti,rintanato fra i muri,il solitario che vola sulle piazze in discesaaccecato dal sole,forse solo più stupido degli altri, refrattarioa quel chiocciare sordo, orizzontale– e intanto perde, goffo,chicco su chicco il cibo che gli è offerto –,che si lancia nel vuotodi un’impresa immaginaria, una minaccia,la paura di un fischio,e ne ricava volo, muta il rischioin un gioco di looping e planate,la fuga in gara assurda contro l’ombrarapida del gabbiano,ombra che vola davvero e che scompare;l’uccello che cerca il vento delle stradee dei camini, che si schiantanel traffico e rimanemucchio di piume grigie, ripugnanti,sul bordo dei tombini,non guardarlo.

da Pietra sangue

I due avversari

Betulla impietrita dal gelo, catasta neradi legna gravata di neve e dentro il cielocome una strozzatura, vento o ghiaccio. C’è un silenziototale, dunque, un cicloche nessuna pietà può rompere o descrivere, un invernocieco, che non ammette primavera?

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di qualche fiore o uccello, il bianco della neve.La forza delle pietre: sette pietre senza nome,ma l’ultima si chiama pietra sangue.

Da Bandiere di carta

[…]

VI

Sulla fiancata gialla della chiattasi legge SNL 2. Nient’altro;più al largo, verde, lenta, va una draga.

Non c’è luce anche qui? La linea nerache oscilla appena contro l’acqua, il ponteche taglia l’orizzonte, e quel silenzioche fa la vita quando non si ascolta. Annotatutto, ogni cosa, ogni momento, o taci.

[…]

da Folla sommersa

Da Sette frammenti dalla terra di nessuno

[…]

VI

Certe con forme di uccello, o di pesce, frastagliate,altre che sembrano pinne o badili. Il movimentoimpercettibile delle faglie, le pietre che cadonoquasi senza rumore: non sono loro a franare,loro che cambiano soltanto posizione preparandositranquille alla prossima era, e fanno i bagaglicon cura, piegando ghiaccio e torrenti, boschi di conifere,corrugano molasse antemurali, sedimenti di arenaria,e si umettano di cascate e pozze sotterranee,estraggono ammoniti e altri molluschi mesozoicida strati profondi e terribili, ricordi marinie geodi di cristallo trasparente.La vita che chiami vita qui si conservasolo come memoria disseccata, muto sguardo di fossile o carbone, minerale.No, non sono loro a franare, è la storia

Fabio Pusterla

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Parola plurale

Da Bozzetti per scagliola

[…]

II

Melassa. A voltesembra melassa questo tempoche riduce ogni cosa a fanghigliaprivata. Come ogni cosa ricadee si sfa, come ogni fogliapiange sul suo destino, e poi si smorzae si perde in gioiosaapatia. Ma quante stories’intrecciano e vanapare ogni nostalgia d’un’altra luce.Speranza? Forse, se resta tempo e forza; soprattuttola pazienza di ascoltare ogni voce.

[…]

*

Pietra sangue

Scaglia di gesso, polvereimpastata con l’acqua e con la colla,il fondo nero lucentedei colori. Anni di pietrae silenzio, giorni persisolo per pochi istanti luminosi. Nelle sered’inverno, dietro i vetrisplendono figli e animali mansueti, pane e vinoe letame da spostare, odori densidi paglia, di fatica sprofondate nel tempo.I boschi, i boschi! Quale voce senza vocene proviene, smemorata,che radice di epoche, o sorgente ricoperta di foglie, che sentierosmangiato? Eccolo, il nerodi seppia della notte, il fondo cupoche devi lucidare con pazienza, percorrendonei pori e le vene più invisibili. Volto per volto,amico per amico: qualcosa da custodire,da proteggere. Concentrare la luce in pochi trattiche svettano sul nero: il rosso, il giallo

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Paul Hooghe, l’ultimo lanciere caduto su nessuna spiaggia,[il superstite

delle trincee dimenticate e scomparse, su cui sorgono oggigrandi complessi commerciali o lussuosi villaggi satelliteimmersi nel verde dei pitosfori, di platani le cui radici vaganoper antichi camminamenti sotterranei, il granatiere fantasmaultracentenario spentosi a Bruxelles pochi mesi or sono,come una piccola candela su cui passa il vento, che era statocoscritto sedicenne di un secolo sedicenne (1916) eppure giàmolto cattivo, molto crudele, ma si era ancoraal principio di tutta la storia,alle vaghe promesse di stragi, alle belle bandiere: sapevadi essere una curiosità, aspirava a un Guinness dei primati,

[a una targa?E aveva memoria lui, almeno lui, dei corpi nella notte e nel fangostraziati, mutilati, dei traccianti, sobbalzava, incompreso,ripensando una mina saltare, una nube nervina?Quei morti gridavano ancora grazie a lui,dalla Marna o sul Carso?O il nastro era già scorso, la pellicolariavvolta e ormai illeggibile, tradottanel passato remoto dell’euro, o in un alzheimer? Ottant’anni,secondo gli storici perdura la memoriaviva che il mondo ha di sé: poi è deportatain un posto dove adesso c’è Paul Hooghe, coi suoi compagni,i ricordi che forse aveva mio padre e quelli della sua età,tra un po’ ci sarà anche mio padre e tutti i suoi amici e nemici,un grande folla sommersa che ci guarda in silenzio e ci attende.

*

Senza immagini

Avendo da anni deciso felicementedi rinunciare alla televisione non vedremola danza delle bombe su Bagdad su Bassora sui restidi quello che un tempo fu il centro del mondo.Non vedremo le facce gravi dei potentile smorfie eroiche degli inviati specialile scene raccapriccianti di macelli e di fuoco. No, grazie,rinunceremo allo spettacolo. Alla festa.Davanti alla radio, in silenzio,potremo guardare nel vuoto, immaginarequel che si può immaginare, troppo poco.

Fabio Pusterla

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Parola plurale

nostra, e le nostre stradeAere italico MDCCCV Nap. Imp.di speranza e di gloria. Le montagneparlano la lingua del mare e delle stelle,lingua di quelleremote età geològicheche sèmbrano ancora un sogno dell’imaginazione,un’altra lingua in cui ogni cosa è ugualee necessaria, esatta e inessenziale, e tutto variacol variare del tutto.

[…]

*

Da Due aironi

I

Lago del Dosso, e nell’ambra dei pratil’airone osserva immobile i cannetie la nebbia, l’albergo in rovina,l’erba folta, la stagione inoltrata e non mite,le notizie non buone. Distante, cinereo,se ne va a larghi giri nel grigio, con alivaste che battono piano nell’aria,senza emettere voce, pacifico, lugubre, inerme.Più temibili voli s’avvitano ai nostri cieli autunnali,maschere e paradossi, altre maceriee trappole di fuoco, petroliferegiustizie micidiali.

[…]

*

Folla sommersa

La memoria non si oppone affatto all’oblio. I due termini che formanocontrasto sono la cancellazione (l’oblio) e la conservazione; lamemoria è, sempre e necessariamente, un’interazione dei due.

Tzvetan Todorov, Memoria del male, tentazione del bene.

Inchiesta su un secolo tragico

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vastissimi di strade e di rotaie.Tutto si placa in una geometria, una musicariassume il mondo, forse. Eppure qui dal bassonoi lo sappiamo bene: non ci vedono. Ricadela mano che accennava ad un salutoinutile, e si tornaal filo teso dei giorni, alla caligine.

Ma noi, pensarli in volo, questo aiuta.

*

Sulla soglia d’inverno

Sporca pioggia sul fuoco dei boschi,neve in tempesta al di sopra delle nebbie.

Ma oggi qualcosa si sveglia, proprio quandosi presumeva di attendere, rischiando di invecchiare:legni bagnati, fumo, sonnolenze rassegnate. E non c’era orizzonte, né gioia: le cose mestemestamente accadevano, rospicucinati in mille salse. Senza scopo, ora,né rotta, qualcosa si sveglia, si annuncia,che ancora non c’è. E ciascuno esceda molte solitudini, timidamente parlacon gli altri. Un attimo prima della morsa, della stretta: sono ancora lì le tenaglie, schieratigli armigeri. Ma qualcosa si sveglia,non una forza eppure già energia. Qualcosa pulsada un folto di radici. Inverno, vieni,noi siamo quasi pronti. Umili e pronti. Disarmati.

Fabio Pusterla

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Parola plurale

Senza immaginitutto sarà più chiaro, più tremendo.

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Settembre 2003, nuovo anno zero

Un filo, o meno ancora, come un rivosotterraneo, che appare solo a tratti e poi s’imbucae riemerge in un altro ventennio. (Quell’acqua scura,densa, e quelle forme quasi umane che galleggiano:tutti perduti, dunque? Tutti uguali?)L’origine, la sorgente: i martoriati,i dispersi. Una cosa precisa e voluta: proprio questolampeggia allora chiaro sul pelo dell’acqua e del sangue,veniamo da lì. Poi un giornone sale un altro e grida: è stato un gioco,uno scherzetto innocuo. (E le forche,e le fosse, e quell’impurapurezza di tempesta e di rapina?) Più neppurel’ombra di un imbarazzo lo disturba: nuove belvedisse una volta un poeta. Ma era poco.

(O Italia, renovada in di to vacch!)

citazioni da Vittorio Sereni (Nel vero anno zero) e da Delio Tessa (La poesiadell’Olga), sollecitate dalle dichiarazioni pubbliche di Silvio Berlusconi, Presidente delConsiglio, a proposito del fascismo “che non ha mai mandato nessuno a morire”.

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Due alianti su Lione

a Béatrice de Jurquet

Gli alianti, quando ruotanocon linguaggio di ventoe spostano bianchi l’aria attraversandole pianure sospese e i silenzi, gli aliantiguardano verso di noi che stiamo al suolo,pesanti. Ma forse non ci vedono; un disegnoperfetto è ciò che apparea chi osserva dall’alto. Linee e lineedi campi e corsi d’acqua, sfumatureverdognole, e il candoredelle case e quei cerchi

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