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fare musica nov 2006 · 2017. 10. 4. · 5 PAOLO TEODORI, Fare musica dell’uomo che ci si trovano...

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PAOLO TEODORI, Fare musica PAOLO TEODORI __________________ Fare Musica _________________ Roma, 2006
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PAOLO TEODORI, Fare musica

PAOLO TEODORI

__________________

Fare Musica

_________________

Roma, 2006     

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Prima parte                  

       

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Premessa 

Questo non è un libro sulla teoria della musica; né è un libro di teoria musicale, né una teoria sull’analisi musicale.

Guardando intorno alla realtà della nostra cultura musicale, si cercherà di rispondere a una domanda: come si fa la musica?

Si risponderà non elaborando teorie, né proponendo modelli sperimentali, ma guardando direttamente alla musica, e cercando in ogni momento di mettersi nei panni di chi la musica la fa, non a parole, ma con matita e carta pentagrammata, o suonandola su uno strumento, o semplicemente ascoltandola.

Si cercherà di rispondere in termini non banali, ed evitando quindi di ripetere stancamente moduli convenzionalmente – e solo per comodo – accettati nelle nostre scuole di musica.

Si cercherà di dare risposte pratiche, utilizzabili.

Si cercherà, infine, di evitare la banalità di linguaggi sofisticati o addirittura ermetici, che quasi sempre nascondono la pochezza di ciò che si ha da dire.

Trattare tutte o anche solo le maggiori forme musicali sarebbe del tutto impossibile: richiederebbe spazi e conoscenze enormi.

Così, ho preferito descrivere alcuni aspetti costanti del fare musica, indicando alcuni elementi che hanno trovato e trovano applicazione, trasversalmente, il tutte le nostre forme musicali.

Nella seconda parte di questo libro, infine, ho avvicinato due delle maggiori forme del genere strumentale, la fuga e la sonata; sono forme complesse, che hanno rappresentato e sintetizzato tendenze stilistiche e strutturali comuni a moltissima musica sia di genere strumentale, che di genere vocale.

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Introduzione

1. Sapere come è fatta la musica per farla meglio Si analizza la forma musicale per rispondere alla domanda: che senso ha una determinata musica? Per rispondere a tale domanda, si ritiene utile rispondere preliminarmente a un’altra domanda: come è fatta questa determinata musica? Alla apparente semplicità della domanda iniziale corrisponde una molteplicità di risposte, tale da generare una certa confusione: per evitarla si deve avere chiaro quale sia l’interesse iniziale, e si deve avere chiaro il percorso seguito per rispondere alla domanda. Le cose, infatti, cambiano radicalmente già a seconda di chi, per esempio, sia ad interrogarsi circa il senso di una musica; sicché, per esempio, è ben diverso che la domanda venga da uno storico piuttosto che da un esecutore o, ancora di più, da uno studioso del linguaggio musicale.

Lo storico si occupa ricostruire o interpretare il senso e l’evoluzione di una cultura; se lo storico è uno storico musicale, lo farà avendo come punto di riferimento la musica, guardando ad essa come punto iniziale della ricerca o punto di arrivo (si parte dalla conoscenza della musica per farsi un’idea per esempio di come fossero e cosa significassero le feste fiorentine del Rinascimento); oppure si parte dal decadentismo post-romantico per cercare di capire le basi dell’esperienza creativa di Wagner. La comparazione è lo strumento essenziale dello storico: si compara la musica di un autore con quella di un altro; si comparano le musiche di diverso genere e stile di uno stesso autore, o le musiche di uno stesso tipo composte in epoche diverse della vita di un autore (per esempio le sonate di Beethoven); si mette a riscontro l’aspetto della esperienza musicale di un periodo della storia con gli altri aspetti della cultura di quello stesso periodo, o di altri periodi, precedenti o successivi rispetto a quello che si sta studiando.

Altra cosa è occuparsi della musica per cercarne i fondamenti stessi del linguaggio musicale: sicché le domande possono andare dallo sfondo degli “universali linguistici” (quali sono, se ci sono, le strutture essenziali ad ogni linguaggio musicale, quelle strutture, cioè, che non possono mancare in nessun tipo di linguaggio, e che si ritrovano quindi nella musica occidentale del periodo paleocristiano, come in quella di Beethoven e in quella dei Pigmei dell’Africa?), a domande più specifiche sui principi strutturali che sono alla radice di forme determinate del linguaggio musicale, come per esempio quello della musica tonale. E si vede che, mentre per lo storico il motivo estetico (cioè sul senso e sul significato della musica nel contesto della cultura allargata) è dominante, per lo studioso del linguaggio musicale è centrale il modo di essere, anche al di là e prima del suo significato specifico.

Diverso ancora è l’approccio di un esecutore, per il quale è primario l’interesse nei confronti della specificità espressiva di una determinata composizione: per lui, l’analisi dovrà agire da supporto razionale delle proprie scelte esecutive; l’analisi deve saper rendere ragione di un determinato approccio esecutivo e, nello stesso tempo, lo può sostenere e rafforzare. Un esecutore dovrebbe essere sempre capace di rendere ragione delle proprie scelte, anche se questo, si deve riconoscere, non è affatto essenziale per eseguire una musica. E questa è faccenda assai spinosa, nella quale cercherò di fare chiarezza dall’inizio, per non generare equivoci nei quali è facilissimo cadere.

Il presupposto essenziale è che la musica non è, come si sente dire spesso in giro, un’arte: la musica è un linguaggio, col quale, eventualmente, si può fare arte, così come avviene con tutte le forme di espressione attraverso cui l’uomo comunica col mondo e con sé stesso. C’è un livello artistico del far musica che dipende dallo spessore di quel che si vuol dire, dai valori messi in gioco e dalla capacità di esprimere tutto questo. Certo, non si dirà che stia facendo arte chi fischietta la mattina mentre si rade la barba; né che sia arte tanta musica commerciale (tanta, non tutta!) che si ascolta da mattina a sera alla radio o alla tv. Ed è altrettanto certo che da chi fischietta, così come da chi fa certa musica commerciale, non ci si attenda competenze musicali di chissà quale livello, benché capiti che, sia chi fischietta come chi fa musica commerciale, abbia competenze musicali assai profonde. Insomma, parlare si parla tutti: ma altra cosa è fare quel che ha fatto Dante con la lingua italiana. Ciò che fa grande la Divina Commedia è la quantità di valori essenziali dello spirito

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dell’uomo che ci si trovano rappresentati, valori tanto profondi, da essere riconosciuti dagli uomini del suo tempo, come da quelli di oggi. Ma c’è anche la capacità straordinaria di dire e esprimere quei valori. E c’è un reciproco completamento tra i valori che Dante esprime e il modo stesso di esprimerli: tutti abbiamo una percezione del bene e del male, tutti sappiamo cosa sia l’amore nei confronti delle cose e delle persone, tutti abbiamo conosciuto la gioia e il dolore, così come tutti abbiamo sentito e riconosciuto la nostalgia; e la grandezza di Dante non può essere quindi solo nell’aver sentito vissuto con forza e coerenza questi valori, queste passioni, queste emozioni: la sua grandezza sta nell’aver dato loro voce in modo alto e inequivocabile, nell’aver saputo esprimere la chiarezza di tutto questo nei termini evocativi e sfumati e anche perentori della poesia. Da una parte ci sono dei contenuti, dunque, dall’altra c’è il modo di esprimerli; ma il modo di esprimerli incide decisivamente sullo spessore e sulla qualità dei contenuti; sicché, appunto, pur ammettendo di condividere con Dante certe passioni, non avrò mai la sua capacità di rappresentarle.

La comprensione di un’opera d’arte, che non è solo comprensione razionale ma prima ancora godimento estetico, è possibile perché il mondo nel quale l’artista si muove è sostanzialmente lo stesso in cui noi viviamo. Il presupposto essenziale della comunicazione e della comprensione è la condivisione del patrimonio culturale e del linguaggio; al di fuori di tale condivisione, che naturalmente potrà essere più o meno ampia, non si può parlare di comprensione, bensì, al limite, di interesse nei confronti di qualcosa che non si capisce: se non conosco il russo, potrò mai apprezzare il mondo dei valori, dei sentimenti o delle emozioni espressi poeticamente in quella lingua?

Per apprezzare un oggetto artistico non è naturalmente indispensabile essere letterati, scultori, poeti, o chissà quante altre cose; la comprensione di fondo è assicurata a tutti quelli che hanno più o meno le stesse basi culturali di chi ha confezionato quell’oggetto; sicché, per continuare l’esempio di Dante, tutti quelli che conoscono la lingua italiana possono realmente leggere la Divina Commedia; ma c’è da immaginare che Alessandro Manzoni l’abbia capita meglio e più a fondo di chi l’italiano lo conosce solo per usarlo nella comunicazione quotidiana.

La comprensione e il godimento di una qualsiasi cosa, anche di un’opera d’arte, sarà tanto migliore per quanto maggiori saranno le mie competenze. Per capire la Divina Commedia è indispensabile conoscere il mondo dei valori di Dante, le premesse teologiche e filosofiche da cui parte; si deve anche conoscere l’italiano, naturalmente, e tanto meglio padroneggerò la lingua, tanto più sarò in grado di cogliere e apprezzare le infinite sfumature, le asprezze, le metafore che si trovano nel poema.

La conoscenza della cultura, della sua storia, dei suoi linguaggi e delle forme attraverso cui essi prendono forma sono elementi essenziali, indispensabili per la comprensione di qualsiasi cosa, anche dell’arte. Lo studio della grammatica e delle forme musicali, dunque, si dispone in questa prospettiva di migliore comprensione della musica.

Studiare la forma di una musica vuol dire, in sostanza, capire come è fatta; ma capire come è fatta una musica vuol dire anche capire cosa voglia dire? Esiste, in altre parole, una corrispondenza assoluta tra la forma, il modo di essere fatta di una musica, e quel che la musica vuol dire? Esiste una identità tra segno e significato?

No, non esiste. E che non esista una corrispondenza tra la forma e il significato è sotto gli occhi di tutti, altrimenti non sarebbe vero che una stessa sonata di Beethoven possa essere eseguita da duecento anni in modo sempre diverso, anche dallo stesso esecutore (ed è certo anche dal punto di vista scientifico: non sarà mai possibile ripetere un’esecuzione nello stesso modo; e anche quando questa venisse registrata su disco, in realtà cambierebbe sempre il secondo termine, essenziale, della comunicazione, ovvero l’ascoltatore). Il problema non è solo quello della mancanza di perfetta aderenza tra forma e contenuto, ma, ancora prima, della mancanza di identità nel contenuto stesso: il patrimonio di idee, di sensazioni e di emozioni che lo stesso compositore riversa in una sua musica è diverso di giorno in giorno, da istante a istante e, per quanto ci si voglia sforzare, non sarà mai possibile ripercorrere più che approssimativamente l’insieme dei processi mentali che un musicista ha compiuto nell’immaginare una certa musica, nel comporla, nel suonarla: non è che è difficile per noi, sarebbe impossibile per lui stesso.

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Per tutte le forme di linguaggio vale la stessa premessa: non c’è né può esserci un contenuto ultimo e assoluto identico a sé stesso in qualsiasi cosa che si dica o si esprima; e tuttavia, che non esista un significato ultimo, non vuol dire che ogni significato sia lecito. Vale l’esempio del segmento ritagliato su una linea retta: i limiti del segmento sono determinati, ma resta il fatto che all’interno stesso del segmento ci sia un numero illimitato di punti.

Per capire meglio una musica, dunque, è necessario determinare con una certa sicurezza i limiti dentro cui essa ritaglia i propri possibili significati, e quante più cose saprò intorno ad essa, tanto meglio la potrò apprezzare. Così, pur mancando una corrispondenza tra forma e contenuto, sapere come è fatta una musica aiuta, eccome, nella sua comprensione; perché studiare come è fatta una musica nient’altro vuol dire, se non cercare di ricostruire il percorso seguito dal compositore quando la ha creata, cercare di ripartire dalle sue premesse, e seguire il corso dei suoi possibili pensieri (anche sapendo che quei pensieri non hanno avuto un corso unico, e che anche il compositore può averne avuti tanti e anche contrastanti tra loro).

La competenza è quindi un requisito fondamentale per utilizzare un linguaggio: quanto più saprò di un linguaggio e della cultura cui esso si lega, tanto più sarò in grado di comunicare ad altri e comprendere ciò che altri comunicano.

Mettiamoci nei panni di che debba fare una musica. Ovviamente, non tutto si dovrà inventare da capo; anzi, buona parte del prodotto finale è già disponibile in partenza, sotto forma delle premesse ineludibili del patrimonio culturale del musicista. Un musicista, come un uomo qualsiasi, fa parte di una cultura, e ciò comporta la condivisione dei valori di quella cultura e delle forme attraverso cui essi si esprimono, ovvero dei linguaggi. Non esiste una tabula rasa: il mito romantico della perfetta spontaneità non è niente più che un mito, appunto. Per chiunque è indispensabile una premessa culturale, senza la quale qualsiasi forma di espressione diventa semplicemente impossibile. Oppure ci si dovrà convincere che esista un poeta che non parla alcuna lingua.

Un compositore quindi avrà dalla sua i valori della sua cultura (valori che potranno essere mutevoli, che potranno essere contrapposti gli uni agli altri, ma che restano lì a indirizzare la nostra vita quotidiana personale e sociale); e avrà dalla sua il linguaggio musicale, attraverso cui esprimere il proprio pensiero.

Ciò che vale per il musicista di professione, vale anche per l’uomo comune. Nel processo di acculturazione la condivisione del linguaggio è garantita per tutti coloro che appartengano a una cultura sostanzialmente omogenea: tutti apprendiamo di fatto un lessico e una grammatica, e ciò avviene nel linguaggio verbale come in quello musicale e in tutti i linguaggi dell’uomo. Tutti sappiamo fischiettare sotto al doccia melodie mai sentite, dotate tuttavia di senso; così come tutti siamo in grado di parlare la lingua italiana anche senza aver mai saputo cosa sia un complemento oggetto o un sintagma nominale. Potenzialmente tutti siamo ingegneri: tutti sappiamo come fare per fissare un quadro al muro, e tutti nella fantasia sappiamo gettare un ponte tra Reggio Calabria e Messina: ma l’ingegnere è quello che, oltre a saper fissare un quadro al muro, sa far diventare realtà il ponte tra la Calabria e la Sicilia. Tutti siamo musicisti, ma il musicista di professione si distingue perché possiede il segreto della tecnica, e sa spingere l’uso del linguaggio musicale oltre il limite che è imposto a tutti quelli che la musica la conoscono normalmente, verso espressioni di livello estetico elevato.

Nella prassi musicale dei nostri tempi le funzioni sono distinte e separate molto più di quanto non lo fossero in passato. Chi compone la musica, raramente la esegue; chi la esegue ancor più raramente la saprebbe comporre; chi la ascolta in genere non sa fare né la prima, né la seconda cosa. Questo non è bene, naturalmente, anche se è il risultato inevitabile di un processo di specializzazione sempre più accelerato che si è avviato nell’era moderna all’interno della nostra cultura occidentale. Ma non è comune a tutta l’esperienza musicale; infatti nella musica commerciale (dove comunque i traguardi estetici sono spesso notevoli) non esiste questa separazione di ruoli: chi compone in genere esegue e viceversa; e anche a chi non ha una cultura musicale professionale non è difficile riuscire a cantare e suonare accompagnandosi con una chitarra o con un pianoforte. E’ uno dei tanti casi in cui converrebbe che si imparasse da ambienti ritenuti – spesso a torto – di livello culturale meno nobile.

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Già, perché la separazione delle funzioni genera problemi vistosi e assolutamente dannosi per il godimento pieno della musica stessa. E il maggiore di questi problemi è nella sensazione di estraneità che l’ascoltatore comune e – ciò che è peggio – molto spesso lo stesso esecutore hanno nei confronti di ciò che ascoltano o eseguono; nella sensazione fastidiosa che rimanga comunque impossibile accedere alla comprensione delle ragioni che hanno spinto il compositore a dar forma alla musica in un certo modo. Sicché si cade in alcuni fastidiosi errori, legati alla considerazione spropositata della facoltà intuitiva: il primo è di guardare alla partitura come a qualcosa di perfetto e inalterabile, che resta fedele al suo contenuto originario solo se viene lasciata inalterata rispetto alla forma nella quale è stata fermata dal compositore; guardare alla partitura, cioè, come fosse un frutto unico e miracoloso di quel particolare stato di grazia che va sotto il nome di ispirazione del genio; l’”Urtext”, che detto e scritto in tedesco incute ancora più timore, non esiste se non come mito: basta mettere un dito sul pianoforte e una sonata di Mozart non è più Urtext1. Il secondo, grave errore prosegue dal primo: così come la musica sarebbe frutto di un’intuizione primigenia perfetta, altrettanto spetterebbe all’intuito dell’esecutore il compito di recuperare il senso originale della musica, onde poterlo rendere accessibile ai più. Sembra poco, ma è un errore di prospettiva pernicioso, non foss’altro per la quantità di “geni” che girano nell’ambiente della musica e che si sentono depositari del modo “autentico” di eseguire una certa musica o un certo autore o una parte ancora più grande del repertorio: e quanti “veri” conoscitori degli abbellimenti della musica barocca girano nei nostri ambienti?

Sono sciocchezze che capita di pensare quando si perde di vista il funzionamento dei linguaggi in genere o si ha poca dimestichezza col linguaggio stesso della musica. Certo che l’intuito è necessario e insostituibile; ma la conoscenza delle ragioni delle cose non nega l’intuito, lo appoggia e lo rafforza, al contrario. La conoscenza della musica arricchisce la fantasia, e restituisce vita alla pagina, permettendo di esaltarne i lati i ombra e meno definiti. Così come il testo originale è necessario che sia conosciuto, ed è altrettanto necessario che sia integrato di tutti quei segni che lo rendano avvicinabile a tutti, anche quelli (ovviamente i più) che non hanno effettuato studi storici e musicologici approfonditi.

Altra questione è se la sola conoscenza formale della musica possa consentire di arrivare a comprenderne il significato. Immaginiamo una situazione abbastanza estrema, di chi voglia cercare di capire il senso di una certa musica senza averne mai sentito il suono, senza neanche riuscire a immaginarlo. E’ una situazione estrema, ma niente affatto rara; si pensi a tanti studenti universitari con poca o nessuna conoscenza addirittura del solfeggio alle prese con qualche “affascinante” inedito del passato; o immaginiamo chi dovesse studiare la musica di qualche popolazione primitiva attraverso le trascrizioni della sua musica disponibile in un saggio etnomusicologico. Allora: saranno mai in grado costoro di comprendere il senso della musica che stanno studiando?

No, semplicemente. Il senso della musica non si esaurisce nella forma che essa assume una volta trascritta su carta pentagrammata; anzi, ciò che la carta pentagrammata può darci è niente rispetto a ciò che è la musica davvero. Al più, per l’etnomusicologo sarà possibile svolgere alcune considerazioni su degli aspetti generali del linguaggio musicale; ma sarebbe lecito dubitare anche sulla efficacia di tali considerazioni. Perché la musica è suono ed è, soprattutto, l’uso che di essa si fa; solo reinserita nel flusso culturale cui appartiene la musica può assumere un significato. Facendo attenzione, naturalmente, a non intendere il flusso culturale originario in senso stretto, e cioè che per capire una musica barocca si debba per forza ascoltarla in una chiesa barocca, magari nella chiesa dove lavorava il compositore, … con le orecchie dei suoi concittadini, e, sarebbe ancora meglio, proprio con quelle del compositore…. Perché siamo d’accordo che la comprensione di qualcosa sia tanto migliore per quanto di più ci si avvicini al contesto in cui questa cosa fu generata; ma, svolgendo nei termini estremi questa pretesa, sarebbe inutile proprio

1 Le edizioni dovrebbero sempre consentire di rintracciare il testo nella sua forma originaria; ma gli interventi interpretativi dei revisori sono necessari, a meno che non si abbia la cognizione di causa che consenta di intervenire sulla partitura personalmente; una cosa, infatti, è certa: non intervenire, o eseguire facendo solo quel che è scritto è assolutamente impossibile.

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avvicinarsi alla Commedia di Dante (che ne so io del mondo di 700 anni fa?), così come sarebbe inutile avvicinarsi a Manzoni (che è più vicino, ma che viveva in tutt’altro contesto); e, a pensarci bene, sarebbe inutile avvicinarsi anche solo a quel che è stato scritto ieri, perché oggi le cose sono cambiate.

Per contesto culturale originario si dovrà pensare a qualcosa di più complesso, e cioè all’uso di un patrimonio di conoscenze e di valori del presente e del passato che una società fa nel quotidiano. I linguaggi sono fatti per comunicare: al di fuori di questo non sono niente. Se una linea melodica su un pentagramma non è in grado di suggerirmi la benché minima ripercussione emotiva (perché non sono in grado di immaginare che suono abbia), quel che vedo non vale più di un mucchio, magari ordinato e carino, di pallette su carta rigata: buona per fare i pacchi. I linguaggi sono sistemi complessi, nei quali si custodisce la ricchezza incommensurabile di una cultura e dove si imprimono le tracce infinite di quanti quella cultura hanno condiviso o di quanti con quella cultura hanno interagito.

L’uso dell’analisi musicale sarà tanto più proficuo, dunque, per quanto di più si conosca del linguaggio musicale, per quanto più si sia padroni dei suoi meccanismi, per quanto più si sia in grado di governarne l’uso; per questo sarebbe bene che, come succedeva fino a poco tempo fa e come succede anche oggi nell’ambiente della musica commerciale, si restituisca a tutti i musicisti la capacità di usare i meccanismi di base della composizione.

Si apprezza di più il senso di una musica, quando le sue strutture e le sue forme, di là da essere semplici codici di tipo matematico o, peggio, contenitori vuoti, sono sentite e usate come il mezzo attraverso cui si dà vita al mondo dei valori, delle idee, delle conoscenze, delle emozioni e delle suggestioni che la determinano; quando si è in grado di sentire e comprendere come quella sua struttura, quella sua forma particolare rappresentino una scelta dell’autore, significativa proprio perché “quella” rispetto a tante altre che avrebbe potuto scegliere per esprimersi.

La grammatica, intesa in senso moderno, è il modello attraverso cui si descrive il funzionamento di un linguaggio nella sua interezza. Essa, quindi, ha il compito di dire come si formano le parole, come si formano le parti del discorso e come si forma il discorso intero. Con riferimento al linguaggio della musica occidentale, una grammatica musicale ci dice in breve quali siano le consonanze e quali le dissonanze, per esempio, o come siano fate le scale, o, anche, come si formano gli accordi, come si formano le frasi musicali e come queste frasi si connettono per formare un discorso musicale.

La grammatica è una sintesi indispensabile, per esempio, per dire quando è corretto l’uso del congiuntivo e quando no, così come è indispensabile, in musica, per fare un giro armonico che stia in piedi. Tuttavia, essendo una sintesi, la grammatica non avrà mai la possibilità di esaurire la complessità multiforme e mutevole della realtà.

Lo studio della grammatica della nostra musica viene articolato in parti distinte, per facilitare lo sguardo sintetico ma non troppo generalizzante su di esse. La teoria della musica (quella che si apprende con lo studio del solfeggio) e l’armonia si occupano degli aspetti essenziali del linguaggio, mentre lo studio delle forme musicali si rivolge all’aspetto della formazione delle frasi e dei discorsi. Entrambi questi aspetti del linguaggio musicale (così come i linguaggi di ogni tempo e luogo) hanno una dimensione storica, variando incessantemente nel corso del tempo. Alcuni mutamenti, tuttavia, sono più rapidi e investono aspetti di superficie del linguaggio, altri sono assai lenti, e riguardano aspetti più profondi. Tra questi ultimi si può includere, per fare un esempio, la funzione della sensibile, tenuta a salire sulla nota finale nella risoluzione cadenzale; una funzione antichissima, le cui origini si perdono letteralmente nella notte dei tempi; i mutamenti più veloci si possono riscontrare nel trascorrere rapido delle mode e dei costumi: sicché, una canzone di Madonna di una ventina di anni fa suona per noi in modo radicalmente diverso rispetto a una canzone di oggi.

La consuetudine a impiegare determinati modelli per certe funzioni (come la sensibile in cadenza) fa si che molto di quel si fa quando si crea un pezzo di musica, sia già fatto. Lo studio della teoria della musica e delle forme musicali tende quindi a individuare dei modelli, che riguardano gli

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aspetti essenziali del linguaggio (come si forma una scala, per esempio) e quelli più complessi (come si forma una canzone, sempre per fare un esempio).

È uno studio di sintesi, perché generalizza su oggetti, che tutti, più o meno, presentano varianti rispetto al modello ideale di riferimento.

Ci si potrebbe contentare di elaborare dei modelli; lo studio delle strutture del linguaggio, dalle parti più semplici a quelle più complesse, è un obbiettivo in sé, che a sua volta potrebbe avere come obbiettivo quello di vedere come il pensiero degli uomini si strutturi ed esprima attraverso i linguaggi, e dunque anche attraverso la musica. Per altro, proprio uno studio di questo tipo è stato centrale nella ricerca filosofica del XX secolo.

Ma elaborare modelli e strutture non può essere il fine ultimo di chi la musica la fa, componendola o eseguendola: in questo caso, lo studio delle strutture è il mezzo attraverso cui avvicinare l’obbiettivo primario, che resta quello del senso della musica, del suo significato. Solo per fare un esempio: dire che la Dominante risolve sulla Tonica o dire che una certa forma è tripartita è importante, perché ci aiuta a individuare l’articolazione di un certa musica, ma il senso di una musica non si esaurisce, ovviamente, nella Dominante che va a Tonica o nel fatto che è tripartita; se no, avremo una miriade di musiche tutte uguali e per questo fondamentalmente inutili.

La musica, come ogni linguaggio, esprime i valori della cultura cui appartiene, esprime sensazioni, emozioni, idee, passioni; per condividere tutto ciò è necessario conoscere al meglio il linguaggio, la sua grammatica, il suo uso, la sua destinazione. La ricostruzione dello sfondo culturale e del contesto nei quali una musica è stata generata è fondamentale per la comprensione del suo significato; in caso contrario, è inevitabile prendere fischi per fiaschi e usare per il matrimonio la musica che fu composta per il funerale2. O almeno, si può fare, così come sentendo una parola detta in una determinata lingua che non intendo, posso darle un significato mio e continuare a usare quella parola anche con altri con questo significato; fino a far entrare questa parola “sbagliata” nell’uso comune e a renderla parte del linguaggio stesso; fino cioè a sentire giusta per un matrimonio la musica che fu composta per un funerale; deve essere successo più o meno così riguardo alla parola “footing”, che in inglese non significa affatto quel che noi tutti in Italia intendiamo. Si può fare, certo, ma magari può essere interessante sapere invece cosa volesse dire una cosa in origine: è un modo per recuperare il valore della cultura passata e arricchire quello della cultura presente.

Per questo, mentre un compito dello studio della teoria della musica si rivolge alla sintesi, dall’altra, è altrettanto importante il percorso inverso, che cerca di individuare i motivi specifici di una singola composizione, ciò che la fa unica nel complesso delle musiche circostanti.

2. Alcuni termini di uso comune 2.1. Stile

La parola stile indica il modo di essere di una certa musica o il suo appartenere a una corrente. In questo senso generale, la parola stile può essere usata nelle forme più diverse, e tutte lecite. Per esempio, si può parlare di uno stile antico e di uno stile moderno, di uno stile pop o di uno classico, di uno stile barocco e così via.

La parola stile si può usare per esempio per attribuire una musica a qualche periodo della nostra storia culturale; sicché si può dire che una musica è di stile barocco, o galante, o classico-romantico, ecc. Naturalmente, dire che una composizione sia di stile romantico non implica determinare il periodo effettivo in cui sia stata composta; anche oggi si può comporre in stile romantico. 2 Molta parte del significato di una musica sta nel contesto cui essa si lega: non c’è da andare troppo lontano a cercare il senso, almeno in termini generali, di un kyrie cantato in chiesa durante la messa, così come non c’è da andare lontano ascoltando una marcia suonata in corsa dai bersaglieri. Ma non tutti i casi sono così evidenti, né il contesto in cui una certa musica viene eseguita esaurisce il suo significato: altrimenti tutta la musica ascoltata in concerto avrebbe lo stesso senso, ed esisterebbe un’unica marcia dei bersaglieri. Il contesto è un versante dell’esperienza, sull’altro versante c’è il modo più o meno personale di interpretare quel contesto; quanto più si conosce dei due versanti, tanto meglio è.

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Ma si può dire anche “stile vocale” o “stile strumentale”, per intendere un determinato modo di essere della musica o di una parte di essa. È chiaro che lo stile vocale sia una caratteristica prevalente della musica vocale, e che lo stile strumentale lo sia di quella strumentale; ma nulla impedisce che una musica destinata a un organico vocale abbia uno stile decisamente strumentale: come si dirà, per esempio, dei mottetti di Bach (per l’estensione richiesta alle voci, per la velocità delle note, per la difficoltà di effettuare respirazioni fisiologiche adeguate e per altro ancora). Nello stesso modo, una musica strumentale può avere un chiaro stile vocale: ad esempio la parte di un adagio di una sonata a 3 di Corelli:

La parola stile può essere impiegata anche per definire velocemente il modo di essere di una determinata musica; così si può parlare di uno stile pianistico o di uno stile violinistico; nello stesso modo si potrà parlare di uno stile jazz o dire che una canzone è scritta nello stile di Sanremo. In ogni caso si intenderà definire sinteticamente una musica, assegnandola a una tipologia conosciuta.

La definizione di stile è generica e sintetica; non ha alcuna portata analitica e può anche essere in larga parte soggettiva. Non per questo è inutile; anzi, è necessaria, dal momento che la generalizzazione è normale in qualsiasi processo conoscitivo, e permette di ricondurre il nuovo a qualcosa che già si conosce.

E’ frequente anche sentire parlare, a proposito delle cose dell’arte e di quelle musicali, di “stile classico”. La definizione di stile classico è impossibile in termini assoluti. È classico lo stile di quella musica che, in un certo modo, rappresenta meglio di altre i canoni estetici di una determinata epoca; in questo senso sono classici Palestrina quanto Corelli, Mozart, Chopin e altri ancora. Uno stile classico, usando la parola con ulteriori implicazioni estetiche, può essere anche quello che si erge sugli altri per la capacità di dire e rappresentare valori profondi e duraturi dello spirito dell’uomo (in questo senso sicuramente classico è lo stile ancora una volta di Palestrina).

C’è poi un modo diverso e più stretto con cui la parola stile viene impiegata quando si parla della musica; per esempio si dice “stile omofonico”, o “stile polifonico”. Su questa accezione diversa della parola stile si torna più avanti, quando si parlerà della “scrittura” musicale.

2.2. Genere

Con la parola genere si intende assegnare una certa musica a un suo determinato uso, o al modo di essere eseguita. Così, per esempio, si parlerà di genere vocale o di genere strumentale, a seconda che la musica abbia una esecuzione vocale o strumentale; si parlerà di genere sinfonico o cameristico per dire che una certa musica è eseguita dall’orchestra, oppure da un numero ridotto di strumenti in una sala da concerto; si dirà genere teatrale di quelle opere destinate alla rappresentazione teatrale; genere sacro spirituale e profano distinguono le musiche destinate alla celebrazione liturgica da quelle il cui argomento è religioso senza però essere composte per il servizio liturgico (per servizio liturgico, nel rito della chiesa cristiana, si intende la messa e l’ufficio delle ore), mentre le musiche profane sono quelle che hanno tutti gli altri contenuti che non si riferiscono, o non si riferiscono direttamente, a contenuti religiosi.

Il termine “genere” può combinarsi a quello “stile” per descrivere un certo modo di essere di una musica. Così si può avere una musica di genere strumentale la cui scrittura riecheggia lo stile vocale (si pensi a certi adagi delle sonate da camera di Corelli, per fare un esempio tra mille possibili), e, al contrario, sarà possibile avere una musica di genere vocale la cui scrittura si riferisce con chiarezza allo stile strumentale (la più parte delle composizioni per coro e orchestra o anche i mottetti di Bach, anche qui per fare solo un esempio). Nello stesso modo, si può parlare correttamente di una musica di genere sacro e di stile profano, o viceversa.

2.3. Struttura

Quando si parla di struttura di una musica, ci si riferisce sinteticamente al suo aspetto formale generale. Quando si dice che una musica ha una forma A – B - A ci si riferisce in realtà alla struttura, più che alla forma, che, come è detto dopo, è l’insieme dei contenuti generali e particolari

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che fanno di una composizione qualcosa di unico. La struttura, quindi, è una visione schematica e d’insieme sulla costruzione di una musica.

I termini che riguardano l’analisi della musica non vengono impiegati con un confine lessicale netto, per cui spesso si sovrappongono o vengono impiegati l’uno invece dell’altro. Il più delle volte capita che al termine struttura venga preferito quello di forma; sicché in qualsiasi libro sulle forme musicali è normale leggere “forma musicale”, o “forma bipartita” e ancora “forma A-B A”. Tale uso della parla forma è corretto, dal momento che è stato da sempre usato e fa parte della tradizione degli studi musicologici anche con il significato che ora si è accennato. Ciò non toglie che in senso stretto, quando ci si riferisce ad argomenti o definizioni come quelle ora date, è anche corretto impiegare la parola struttura.

2.4. Scrittura Il termine struttura si impiega anche per indicare in senso tecnico l’aspetto dello stile di una musica; così è normale leggere “struttura imitativa” o “struttura fugata”; al posto del termine struttura, in questo senso, si può trovare usato il termine “scrittura” (“scrittura polifonica” ecc.). Quando si parla della scrittura musicale, non ci si riferisce in genere all’aspetto generale della struttura di una musica, ma alla tecnica compositiva usata; così è senz’altro più corretto parlare di una “scrittura polifonica” o di una “scrittura omofonica”, piuttosto che di una “struttura omofonica o polifonica”.

Si tratta di sottigliezze, e spesso le definizioni possono essere usate una in luogo di un’altra, senza che nessuno se ne debba avere a male, dal momento che i termini non hanno mai un confine lessicale determinato. Ma distinguere tra questi stessi termini aiuta a distinguere tra i vari aspetti della pratica della composizione.

2.5. Forma Benché il termine “forma” sia spesso usato riduttivamente al posto del termine “struttura”, esso indica in modo determinato il complesso dei fattori che fanno essere una musica proprio in quel modo e non in un altro. La forma di una certa musica coincide con quella musica stessa; per questo, la forma comprende la collocazione storica, le condizioni estetiche, il linguaggio, lo stile, il genere, la struttura e la scrittura, il sistema complesso all’infinito dei riferimenti in cui è stata concepita una composizione; fare l’analisi musicale di una certa composizione, conseguentemente, vuol dire ricostruire la trama complicata di tutto ciò che fa essere una musica proprio quella e nessun’altra.

È necessario ribadire quanto già detto. Per quanto si possa scendere nel particolare di come una musica sia stata concepita, per quanto si possa studiare il sistema complesso dei riferimenti che un certo compositore potesse avere nel momento in cui era impegnato nella scrittura di una certa musica, per quanto ci si possa sforzare di rendere con obbiettività la costruzione di quella stessa musica in termini di struttura e di scrittura, non sarà mai possibile arrivare a determinare la forma autentica e vera di una musica. L’analisi non ha come fine quello di raggiungere il mito dell’assoluto, semplicemente perché autentica e vera e originaria una musica non è mai, nemmeno nella testa del compositore quando la scrive (dal momento che la composizione comunque avviene in un certo lasso di tempo e non sarà mai possibile, nemmeno con le macchine più sofisticate, ricostruire l’intreccio complicato dei pensieri e dei processi mentali del compositore in quel lasso di tempo; figuriamoci poi se il lasso di tempo è di anni, come nel caso di alcune opere o sinfonie o anche cose molto più semplici).

Per questo, inevitabilmente l’analisi avrà sempre una componente soggettiva, e non ci sarà niente di male se una stessa musica sarà descritta in termini anche molto diversi tra loro.

Ciò non vuol dire, ovviamente, che qualsiasi analisi è corretta. I dati obbiettivi non possono essere disconosciuti, sia quelli storici che quelli riguardanti la struttura della musica. Non si può dire che una musica sia in Do maggiore se è in Re, così come non è possibile scambiare uno stile fugato con uno di corale, e non è possibile dire che una musica di Corelli sia stata composta nel 1822.

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Alcuni consigli preliminari

1. L’uso delle lettere nella analisi della musica Nell’analisi musicale è d’uso impiegare le lettere dell’alfabeto per aiutarsi nella definizione sintetica della struttura. È una consuetudine: non c’è alcuna regola che indichi in senso categorico come si debbano usare queste lettere, l’importante è che si usino con chiarezza.

Ecco come le lettere possono essere usate per schematizzare la disposizione delle parti del discorso:

W.A.Mozart, Andante grazioso, dalla Sonata in La maggiore K.V.331 (parte)

Le lettere dell’alfabeto greco sono state usate per segnare gli incisi (vedi oltre nel secondo capitolo: “L’articolazione regolare del periodo nella musica a ritmo regolare”); le lettere minuscole dell’alfabeto latino segnano le semifrasi, quelle maiuscole le frasi. Come si vede, la musica è ottenuta giocando con pochissimi elementi di base, appena tre incisi (α, β, γ), che Mozart amministra in vario modo per ottenere tre diverse semifrasi (a, b, c); le semifrasi danno luogo a due tipi di frase (A, B). Fino al primo ritornello abbiamo quindi un periodo di 8 battute ottenuto con l’addizione di due frasi A; nella seconda parte, fino al secondo ritornello, abbiamo un secondo periodo, questa volta formato dalla frase B cui segue la ripresa della frase A¹, costituita di tre semifrasi anziché di due.

Servendoci dell’esempio ora mostrato si possono dare alcuni riferimenti essenziali per l’uso pratico delle lettere nell’analisi della struttura della musica:

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a. le lettere di un certo tipo (per esempio quelle dell’alfabeto greco) devono servire per segnare parti coerenti della musica (in questo caso le lettere greche segnano gli incisi; sarebbe stato errato usare le lettere greche una volta per segnare gli incisi, un’altra per segnare le frasi);

b. vengono segnate con la stessa lettera parti uguali o ragionevolmente simili della musica; da questo punto di vista fa testo il ritmo melodico (ritmo della parte tematica); così, guardando l’esempio, l’inciso della seconda battuta è ancora segnato con α, perché il ritmo della parte melodica è identico a quello dell’inciso della prima battuta; non si tiene conto della variazione di altezza.

c. Si segnano con numeri in apice (per esempio come in A¹, sempre nell’esempio sopra) parti che sono abbastanza simili, ma che contengono delle differenze rispetto al modello originario (si guardi sopra la differenza ritmica tra β e β¹).

d. Per convenzione, fatta salva la libertà di fare altrimenti in casi particolari, con le lettere maiuscole si indica la struttura complessiva di una musica; così, per fare un esempio, la forma-sonata si sintetizza nella formula A B A¹, dove A sta per l’esposizione, B per lo sviluppo e A¹ per la ripresa.

Quanto detto a proposito della musica di Mozart appena vista, può essere applicato senza difficoltà anche all’analisi di musica di tipo affatto diverso. Qui sotto, le lettere dell’alfabeto latino (a, b, c) segnano i tre soggetti delle sinfonia a tre voci in Fa minore di Bach, mentre le lettere dell’alfabeto greco (α, β, γ) segnano le tre cellule di cui si costituisce il soggetto a.; naturalmente si sarebbe potuto proseguire usando altre lettere dell’alfabeto greco per segnare le cellule costitutive anche degli altri due soggetti:

J.S.Bach, Sinfonia in Fa minore (parte)

Sarà bene notare che l’uso delle lettere nell’analisi di una musica è del tutto soggettivo; con lettere diverse si può decidere di segnalare due soggetti diversi; ma si può anche decidere di usare lettere diverse per segnare lo stesso soggetto che si ripresenta su diversi gradi della scala. Si possono usare accanto alle lettere simboli di altro tipo, per segnare funzioni particolari che secondo noi sono rilevanti al fine di chiarire taluni aspetti della struttura di una musica (per esempio con mT o mD si può segnalare uno stesso motivo “m” che viene ripreso sulla Tonica e sulla Dominante).

Insomma, l’uso delle lettere dell’alfabeto o di altri simboli è strumentale. Si ha un’idea della musica e si cerca di sintetizzarla o renderla visibile tramite l’analisi: la schematizzazione della struttura attraverso l’uso delle lettere fa parte di questo percorso interpretativo. Va da sé che, proprio per questo, non è affatto necessario segnare tutto: si può decidere di mettere a confronto solo le frasi di una certa musica, o solo gli incisi, o solamente porzioni più ampie. Non che si debba tralasciare il resto, ma magari, ai fini di quel che ci interessa di mettere in rilievo, è utile solo parlare di un livello della struttura (l’inciso, per esempio, o le frasi, o le sezioni di una canzone, un soggetto, ecc.) e non di altro.

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2. Come riconoscere accordi e tonalità Vale la pena di ricordare, molto rapidamente, che si può parlare pienamente di accordi e tonalità solo per la musica posteriore al XVII secolo; infatti, nella evoluzione della modalità, il sistema tonale si impose lentamente e gradualmente tra la fine del XVI secolo e l’intero secolo successivo. Per una prima teorizzazione della formazione degli accordi, simile a quelle che noi oggi conosciamo (ovvero dell’accordo che si forma per sovrapposizione di intervalli di terza con la conseguente individuazione dei rivolti), si dovrà attendere il quarto decennio del XVIII secolo; prima di allora, nella teoria le armonie si formano sovrapponendo intervalli consonanti e/o dissonanti rispetto a un suono grave. Per capirci: quello segnato con la freccia nell’esempio che segue, per noi è un accordo di Do minore, costruito sul II grado della scala di Si bemolle maggiore e allo stato di primo rivolto (quindi al basso si trova il IV grado della stessa scala):

Per Giovanni Pierluigi da Palestrina, la stesso accordo è una armonia di terza e sesta formata su Mi bemolle, IV grado della scala di Sol3:

G.Pierluigi da Palestrina, Osculetur me, mottetto (parte)

Nella grammatica tonale, l’armonia svolge una funzione fondamentale: è su di essa che si incardina la struttura e la forma di una musica. Per questo è fondamentale saper individuare tonalità e accordi all’interno di ogni musica: perché, per chi non lo sapesse fare, il rischio è quello di perdere i nessi fondamentali della forma; di perdere il come e il perché di un certo percorso formale e dinamico. Insomma, di capire poco e approssimativamente

Per definire un accordo si deve:

1. riconoscere e dire il nome delle note di cui si costituisce, cominciando dalla fondamentale e sovrapponendo gli altri suoni per intervalli di terza;

2. classificare l’accordo come triade (maggiore/minore/diminuita/aumentata) o settima (di prima-quinta specie);

3. dire il grado della scala su cui l’accordo si trova costruito (per fare questo si deve sapere in quale tonalità è inserito l’accordo che si sta individuando);

4. indicare la funzione dell’accordo; le funzioni dell’armonia tonale sono tre, quella di Tonica, di Dominante e di Sottodominante (T, D, S, sono sigle internazionalmente conosciute e impiegate per indicare, in campo musicologico, appunto le funzioni degli accordi di una

3 La musica è composta in un primo modo trasportato, ovvero nel modo dorico.

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musica tonale). Ecco come si assegnano le funzioni agli accordi costruiti sui vari gradi della scala:

I grado: Tonica V e VII grado, Dominante VI , IV e II grado, Sottodominante (alcuni mettono tra gli accordi con funzione di sottodominante anche il III grado, che tuttavia, nell’armonia classica, non viene normalmente impiegato).

N.B. Gli accodi indicati qui sopra accanto alle loro funzioni sono considerati allo stato fondamentale; sicché, per esempio, VII grado indica in Do maggiore l’accordo costruito allo stato fondamentale sul Si (Si / Re / Fa, o Si / Re / Fa / La).

Si deve considerare che gli accordi assolvono una determinata funzione nella tonalità (ovvero, si dispongono in un certo ordine gli uni rispetto agli altri) proprio a seconda del grado della scala su cui poggia la loro fondamentale.

La funzione di un accordo non cambia se esso viene costruito come triade o come accordo dissonante; neppure la funzione cambia se sono impiegati suoni alterati cromaticamente.

In alcuni casi riconoscere un accordo in una certa musica non è difficile, perché è scritto con chiarezza, in un contesto tonale non ambiguo; vediamo un esempio:

R.Schumann, Un Corale, dall’Album per la gioventù (parte)

secondo quanto detto sopra, l’accordo segnato deve essere individuato così:

1. nome delle note: La / Do / Mi / Sol;

2. settima di seconda specie;

3. costruita sul II grado della scala di Sol maggiore;

4. Sottodominante

Il più delle volte, tuttavia, sorgono problemi nella individuazione degli accordi, problemi derivati dalla ambiguità del contesto tonale (potrebbe essere difficile determinare con sicurezza la tonalità in cui ci si trova in un certo momento di una musica) o dallo stesso modo in cui sono scritti gli accordi. Nel caso che segue, tratto dallo stesso Corale di Schumann, pur in un contesto armonicamente semplice e chiaramente visibile, potrebbe crearsi qualche imbarazzo nel determinare la tonalità cui riferire l’accordo che ho segnato;

Ibidem,

A quale tonalità appartiene l’accordo segnato nel cerchio: alla tonalità di impianto Sol maggiore o a quella verso cui si sta proiettando la cadenza alla fine della frase sul punto coronato in Re maggiore? Attribuendo un valore strutturante alla modulazione verso la Dominante, confermata

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dalla cadenza finale alla fine della frase, sul punto coronato, conviene considerare l’accordo segnato appunto nella tonalità di Re maggiore

Sempre secondo quanto detto, l’accordo segnato nel cerchio si definisce in questo modo:

1. nome delle note: La / Do diesis / Mi / Sol;

2. settima di prima specie;

3. costruita sul V grado della scala di Re maggiore;

4. Dominante

Dall’esempio appena fatto emerge con chiarezza che, per identificare correttamente un accordo o un certo passaggio armonico, sono necessarie due cose: la prima, di identificare l’accordo in sé, indipendentemente dalla tonalità in cui è inserito; la seconda, di identificare la tonalità, onde poter individuare la funzione che quell’accordo svolge all’interno di essa. Vediamo qui di seguito, in breve, entrambi le cose.

2.1. Identificazione dell’accordo indipendentemente dal contesto tonale. Identificare l’accordo in sé, indipendentemente dal contesto tonale significa:

a. dire il nome delle note di cui l’accordo si costituisce, iniziando dalla fondamentale e sovrapponendo gli altri suoni per intervalli di terza;

b. classificare l’accordo come triade (maggiore/minore/diminuita/aumentata), o come settima (di prima – quinta specie)

2.1.1. Accordi scritti in verticale o sciolti in arpeggio Molto spesso le sovrapposizioni di note sono immediatamente riconducibili ad accordi; un esempio evidente è quello proposto proprio all’inizio di questo capitolo, il Corale di Schumann. Anche se non proprio con la stessa evidenza, molte volte gli accordi sono scritti per intero e la loro classificazione non presenta alcun problema:

L.van Beethoven, Sonata op. 2, n. 2, Largo appassionato (parte)

Anche nel caso che segue la scrittura è esplicitamente armonica, benché gli accordi siano scritti non in verticale, ma sciolti in arpeggio:

R.Schumann, Piccolo studio, dall’Album per la gioventù (parte)

Nella prima battuta c’è una triade di Sol maggiore, nella seconda una triade di Do maggiore. Riconoscerle è facile: basta sovrapporre i suoni; quelli della prima battuta danno appunto la triade di Sol maggiore, quelli della seconda battuta danno la triade di Do maggiore.

Un’altra scrittura che manifesta immediatamente la forma degli accordi è quella del cosiddetto basso albertino:

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F.J.Haydn, Sonata in mi minore, Finale, Molto vivace (parte)

Si vede con chiarezza che l’accordo della prima battuta è quello di Mi minore, così come quello della seconda battuta, la settima di prima specie costruita sulla nota Si. Ancora una volta basta sovrapporre i suoni disposti in orizzontale, immaginare che si trovino invece disposti uno sull’altro, e l’identificazione dell’accordo è immediata.

Anche nell’esempio qui sotto le armonie, una per battuta, si leggono immediatamente: basta sovrapporre sulla nota del basso l’accordo che lo segue sempre alla mano sinistra, e l’accordo è disponibile (nella seconda battuta la terza dell’accodo di settima sul fa diesis, il La diesis, si trova nella mano destra):

F.Chpin, Valzer op. 69, n. 2 (parte)

2.1.2. Accordi deducibili da figure contenenti note estranee Spesso la scrittura non è armonicamente così chiara e trasparente; il più delle volte intervengono note estranee all’accordo (note di fioritura, ritardi, appoggiature, pedali) che ne complicano la identificazione.

Riguardo a ciò, si deve ricordare che le note estranee possono essere:

a. note estranee all’accordo che non cadono sul tempo possono essere:

1. note di passaggio o volta: raggiunte e lasciate per grado congiunto;

2. note sfuggite o con elisione: raggiunte per grado congiunto e lasciate per salto o viceversa;

b. note estranee all’accordo che cadono sul tempo (o sulla suddivisione maggiore) possono essere:

1. ritardi: note legate all’unisono dall’accordo precedente e risolte per grado congiunto discendente

2. appoggiature; note raggiunte per salto e risolte per grado congiunto Discendente / ascendente.

c. pedale

Da quanto appena esposto, si capisce che le note che fanno parte dell’accordo (note reali) possono essere raggiunte e lasciate tranquillamente per salto superiore alla seconda; sicché, se vediamo una nota raggiunta e lasciata per salto, siamo quasi sicuri che quella nota fa parte dell’accordo.

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Per riconoscere un accordo si deve partire dal basso, ovvero, dalla nota più grave e si devono sovrapporre su di esso quelle note che possono formare un accordo con esso, note disposte in verticale, ma anche in orizzontale, escludendo quelle che non possono far parte dell’accordo perché non sovrapponibili per terze; mi rendo conto che è un’indicazione un po’ generica, ma non si può dire nulla di più preciso: stiamo infatti invadendo il campo dell’invenzione melodica, e in tale campo davvero non si pone un limite alla fantasia creatrice. Anche le indicazioni di uso delle note di fioritura, che sono state riportate sopra, sono interpretate dai compositori spesso con larghezza.

Tuttavia, si deve sempre ricordare che l’armonia e le sue funzioni svolgono un ruolo fondamentale nella nostra musica e che da ciò consegue l’interesse primario, proprio da parte del compositore, di rendere chiara la costruzione degli accordi e il percorso delle armonie; se difficoltà possono esserci, saranno presto superate con un po’ di esperienza e con l’aiuto dell’orecchio.

Tra tutte le note di fioritura, forse le più facilmente riconoscibili sono le appoggiature. Sono note estranee la loro risoluzione è quasi sempre per grado congiunto discendente (appoggiatura superiore), o ascendente (appoggiatura inferiore); in ogni caso sono note che cadono sul tempo, o, al limite, sulla principale suddivisione; nell’esempio che segue il fa sull’ultimo tempo della battuta è una appoggiatura della quinta dell’accordo di La minore; si noti il segno di legatura, tipico, tra il Fa stesso e il Mi, nota di risoluzione della appoggiatura:

L.van Beethoven, Sonata op. 2, n. 2, Rondò, Grazioso (parte)

sul battere della seconda battuta dell’esempio qui sotto il La appoggia la terza dell’accordo di Mi maggiore, Sol diesis; ancora una volta il segno di legatura tra le due note rende esplicita la funzione di appoggiatura della prima delle due note:

R.Schumann, Album per la gioventù, Sheherazade, (parte)

Del tutto frequente è l’appoggiatura dell’accodo finale di una musica, che realizza il tempo piano conclusivo:

Le appoggiature si riconoscono facilmente: sono note estranee che cadono sul tempo o comunque sulla maggiore suddivisione; risolvono per grado congiunto discendente (appoggiature superiori) o per grado congiunto ascendente (appoggiatura inferiore). Può capitare, così, di incontrare sovrapposizioni di note che non siano riconducibili ad alcuna forma di accordo, semplicemente perché le note non si sovrappongono per terze. Da questo punto di vista è bene chiarire un equivoco nel quale alcuni trattati scolastici di armonia possono far cadere con una certa facilità. Nella nostra grammatica musicale, almeno fino alla fine del XIX secolo è assolutamente improprio

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parlare di accordi di undicesima e tredicesima; gli stessi accordi di nona sono estranei alla musica fino all’inizio di quello stesso secolo. Per questo, eventuali sovrapposizioni di note che non siano riconducibili nella forma ad accordi di settima o al più di nona (sempre facendo attenzione al periodo in cui la musica è stata scritta) si deve considerare che sono state ottenute usando una o più note estranee. Ecco un esempio efficace:

R.Schumann, Album per la gioventù, Tempo allegro

L’accordo, come si vede, è quello di settima di prima specie costruito sul Si; il Mi diesis e il Do doppio diesis in battere sono rispettivamente appoggiatura del Fa diesis e del Re diesis.

Le note di passaggio, volta e sfuggite non cadono sul tempo, hanno quindi una funzione esclusivamente melodica; si riconoscono perché sono comunque almeno raggiunte o lasciate per grado congiunto:

Le note segnate con la x sono note di passaggio, mentre con la y è segnata l’appoggiatura; si vede bene quindi la differenza tra i due tipi di nota di fioritura: le note di passaggio sono sulla suddivisione, raggiunte e lasciate per grado congiunto, l’appoggiatura cade sul tempo, ed è perciò molto più in rilievo sul piano armonico; in altre parole, si sente che è un suono estraneo, mentre le note di passaggio scivolano senza risaltare come dissonanze. Si notino infine le note raggiunte per salto: sono, così come avviene di solito, note di arpeggio, ovvero note che fanno parte dell’accordo.

A volte anche al basso possono essere usate note di fioritura; saranno le note superiori a chiarire la natura dell’accordo:

L.van Beethoven, Sonata op. 10, n. 3, Largo e mesto (parte)

Nella seconda battuta dell’esempio qui sopra il basso si muove on una nota di volta prima, poi con una nota sfuggita intorno al Si bemolle, fondamentale dell’accordo; che si tratti proprio dell’accordo di Si bemolle maggiore lo dice inequivocabilmente l’arpeggio della mano destra.

Il pedale è una nota persistente, che viene tenuta o ripetuta su una stessa altezza; si parla di pedale inferiore quando tale nota è tenuta nella parte grave, di pedale superiore quando essa è

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tenuta nella parte acuta e di pedale mediano quando si trova in una parte intermedia. Mentre la nota pedale viene tenuta, le armonie si svolgono su di essa in modo regolare, rispettando le funzioni normali dell’armonia tonale; la nota pedale può far parte degli accordi che si seguono, ma può anche non farne parte; per regola, deve essere contenuta nel primo e nell’ultimo accordo di quelli che si trovano costruiti su di essa. Vediamo un esempio eloquente e semplice, sempre tratto dal Piccolo studio di Schumann:

R.Schumann, Piccolo studio, dall’Album per la gioventù (parte)

L’accordo segnato con la freccia è un accodo di Fa diesis / La / Do / Mi, settima di sensibile della tonalità di Sol maggiore; il Sol che si trova all’inizio della battuta è estraneo quindi all’accodo e si tratta appunto di un pedale inferiore. Che si tratti di una nota estranea è evidente: L’unico modo per poterla considerare come parte dell’accodo, sarebbe quello di immaginare un accordo di nona Fa diesis / La / Do / Mi / Sol; ma un accordo di nona costruito sulla sensibile anzitutto è estraneo del tutto allo stile della musica dell’Ottocento; in ogni caso, poi, La nona dell’accordo, in un accordo di nona, deve sempre trovarsi sopra la fondamentale.

2.1.3. Come riconoscere gli accordi in una scrittura con un limitato numero di voci Gli accordi, come noto, sono costituiti dalla sovrapposizione di almeno tre suoni disposti a intervalli di terza; si dice nei manuali di teoria che la sovrapposizione di due suoni non produce un accordo, ma un bicordo. Non è del tutto vero; nel senso che in una scrittura a due voci, o addirittura a una sola voce, è il contesto tonale (vedi sotto) che consente di integrare facilmente le note che mancano per formare un accordo: in un contesto tonale le note mancanti sono implicite.

Non sono necessarie regole, basta il buon senso a determinare le seguenti indicazioni:

a. un intervallo di terza determina un accordo di triade allo stato fondamentale;

b. un intervallo di quinta determina un accordo di triade allo stato fondamentale;

c. un intervallo di sesta determina un accordo di triade allo stato di primo rivolto;

d. un intervallo di settima determina un accordo di settima allo stato fondamentale, o un ritardo della fondamentale in un accordo di triade allo stato di primo rivolto;

e. un intervallo di seconda determina un accordo di settima allo stato di terzo rivolto (settima al basso), o un ritardo della fondamentale in una triade.

Nell’esempio qui sotto, basta un contrappunto a due voci, una nota alla mano sinistra e lo scorrere della linea melodia alla destra, per chiarire quali siano gli accodi impiegati e la successione degli accordi stessi:

R.Schumann, ibidem (parte)

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Osserviamo la parte chiusa nel circolo: sul battere della quinta battuta dell’esempio si trovano un Si in chiave di basso e un Re diesis in chiave di violino (per riconoscere gli accordi si deve leggere sempre prima la chiave di basso); in mancanza di altre note e per il modo in cui si formano gli accodi, questo è un accordo di Si maggiore. Nella battuta successiva, in battere si trova un Do diesis al basso, sopra di esso c’è un Fa diesis che scende per grado congiunto sul Mi, esattamente come fa una appoggiatura; lo stesso Mi risolve per salto superiore alla seconda; questo sul primo ottavo della sesta battuta si deve quindi considerare un accordo di Do diesis minore: infatti, il Fa diesis va per grado congiunto e perciò può essere considerato nota estranea, il Mi salta e può dunque essere considerata una nota di arpeggio; in più l’intervallo tra Do diesis e Fa diesis è un intervallo di quarta, mentre quello tra Do diesis e Mi è di terza, e gli accordi si formano per terze, non per quarte. Sicuramente un accordo di La maggiore è quello che segue, sul secondo ottavo della sesta battuta di quest’esempio; il Si diesis non può formare un accordo con il La, dal momento che forma con esso un intervallo di seconda; in più, sempre il Si diesis risolve ancora una volta per grado congiunto, configurandosi come appoggiatura del Do diesis. La seconda parte della sesta battuta presenta con maggiore chiarezza un accordo di Si maggiore: si trovano tutte le note di cui quest’accordo si compone, infatti, e ad esse si aggiunge solo il Do diesis, che, come nota di passaggio, è raggiunto e lasciato per grado congiunto. Nell’ultima battuta del rigo, infine, c’è l’accordo di risoluzione, Mi maggiore, con doppia appoggiatura (ascendente e discendente, della fondamentale e della terza (del Mi e del Sol diesis quindi). La successione degli accordi conferma che l’interpretazione è giusta; Si maggiore, Do diesis minore, La maggiore, Si maggiore e Mi maggiore, tradotti in gradi della scala di Mi maggiore diventano: V – VI – IV – V – I: una perfetta successione di armonie in campo tonale.

Ancora un paio di esempi. Il seguente è simile a quello precedente; si tratta di un contrappunto a due voci, sostanzialmente, ma la determinazione degli accordi di riferimento è tutt’altro che difficile:

L.van Beethoven: Sonata op. 7, Allegro molto e con brio (parte)

Come al solito guardiamo quel che accade nella parte chiusa nel circolo, la quinta e la sesta battuta dell’esempio. Sulla prima metà della quinta battuta c’è un accordo determinato esplicitamente dalle note in chiave di basso e di violino; sono note tutte raggiunte e lasciate per salto, dunque note di arpeggio: basta metterle idealmente assieme, perché si manifesti immediatamente l’accordo di settima di prima specie costruito sul Fa (Fa / La / Do / Mi bemolle); nella metà successiva della battuta si trovano un Re al basso e un Si bemolle in chiave di violino; si muovono entrambi le parti su un intervallo di terza, per moto contrario; il Re con cui si chiude la battuta della parte in chiave di violino salta subito dopo per grado disgiunto, e quindi fa sicuramente parte dell’accordo; i due Do, sia in chiave di Basso che in chiave di violino sul penultimo ottavo della battuta, possono essere considerati entrambi note di passaggio, dal momento che sono raggiunti e lasciati per grado congiunto. Tutto ciò ci conferma che siamo in presenza dell’accordo di Si bemolle maggiore. Nella prima metà della battuta successiva abbiamo ancora una volta note di arpeggio, che identificano senza possibilità di errore l’accordo di triade diminuita Fa diesis / La / Do. Nella seconda parte della battuta, trasportato una terza sotto, ancora lo stesso movimento contrario della parte in chiave di basso e di quella in chiave di violino: l’accordo è chiaramente quello di risoluzione della triade diminuita precedente, ovvero Sol minore. Ecco dunque l’esempio:

Osserviamo un ultimo esempio:

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L.van Beethoven, ibidem, Largo con gran espressione (parte)

Qui, nella battuta dentro il circolo, non ci sono nemmeno due voci; eppure, l’identificazione delle armonie è ancora una volta estremamente facile. Nella terza battuta dell’esempio, in battere, siamo chiaramente su un accordo di Do maggiore: l’accordo è dato completo di tutte le sue note e le stesse note sono disposte in verticale, accordalmente, appunto. Il terzo tempo della stessa battuta cambia bruscamente armonia e tonalità: tutte le note della quartina di sedicesimi, ad esclusione dello stesso Do, infatti, non fanno parte della tonalità di Do maggiore nella quale ci si trovava appena fino al tempo precedente. Ma basta vedere l’inizio della battuta successiva, l’accordo di La bemolle maggiore, per chiarire che quel Mi bemolle sul terzo tempo della terza battuta, scendendo di quinta e cadendo sul La Bemolle, altro non può essere, se non la Dominante della tonalità di La bemolle maggiore.

2.1.4. Durata dell’accordo Si diceva dunque che per individuare una accordo si deve partire dal basso e sovrapporre su di esso quelle note che possono formare un accordo; non c’è un limite al numero di note che in orizzontale si possono poggiare su una determinata armonia; in altre parole, non c’è un limite determinato per la durata di un accordo: un accordo può durare lo spazio di una suddivisione di tempo, come, al contrario, più battute. Torniamo un attimo all’esempio precedente:

confrontiamo con

è chiaro che, nel primo caso, l’accordo di Sol maggiore occupa l’intero spazio della prima battuta: le note scritte in chiave di violino, infatti, corrispondono perfettamente con le note di questo accordo. Altrettanto evidente è come nel secondo esempio all’interno della battuta vi siano due accordi, ognuno della durata di 3/8, il primo di Sol maggiore, il secondo di Re maggiore.

Guardiamo ancora il seguente esempio:

L.van Beethoven, ibidem, Allegro (parte)

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In questo esempio, l’accordo di settima diminuita Mi/Sol/Si bemolle/Re bemolle dura lo spazio di otto battute; soltanto nella nona battuta, proprio l’ultima dell’esempio, esso trova risoluzione sull’accordo di Fa minore (il Mi bequadro in battere è una appoggiatura inferiore del Fa, così come mostra il tipico segno di legatura che lega le due note).

Ancora un esempio:

R.Schumann, Album per la gioventù, Sheherazade (parte)

In questo esempio gli accordi seguono un ritmo incostante, che coincide tuttavia con quello del basso; basta sovrapporre le note che si trovano inserite all’interno della durata della nota del basso, per ricostruire con facilità gli accordi:

Si noti, nell’esempio appena visto, come le note in chiave di violino siano raggiunte tutte per salto superiore alla seconda: è il tipico movimento con cui sono raggiunte le note di arpeggio, che fanno parte dell’accordo. Si noti ancora l’appoggiatura della terza alla seconda battuta (il La della melodia che appoggia il Sol diesis).

2.2. Identificazione del contesto tonale Un accordo, a volte, si manifesta con chiarezza solo se inserito in un contesto tonale determinato. Per l’individuazione della tonalità, si deve vedere la serie iniziale di accordi, e, soprattutto, l’accordo conclusivo o, meglio ancora, la cadenza con cui chiude una certa frase o un certo periodo.

L’individuazione di una tonalità è semplice. Si danno sostanzialmente due casi: il primo, quello di una frase (o periodo) che si svolge tutta in una tonalità; il secondo, che la frase (o il periodo) sia modulante, che inizi in una tonalità e finisca in un’altra, magari attraversando transitoriamente ulteriori diverse tonalità.

Tra gli esempi prodotti sopra, proprio i due iniziali, quelli tratti dal Corale di Schumann, delineano bene i due casi ora richiamati; il primo, di una frase interamente svolta nella tonalità di Sol maggiore, il secondo di una frase che iniziando sempre in Sol maggiore, finisce invece in Re maggiore.

Per avere una modulazione è necessario che siano sentite le funzioni fondamentali della tonalità verso cui si modula (la funzione di Tonica, Sottodominante, Dominante); è necessaria anche una cadenza (perfetta, imperfetta, evitata, o alla Dominante), che delimiti i confini della tonalità almeno alla sua conclusione. Non esiste un numero minimo e un numero massimo di accordi di cui debba costituirsi una tonalità; come già detto, il minimo è comunque che si sentano le funzioni fondamentali di una tonalità.

In ogni caso, l’identificazione di un solo accordo non è sufficiente alla identificazione della tonalità: la tonalità si identifica con i suoni della scala di cui si costituisce, e un accordo non può contenerli tutti.

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I Capitolo: come si dà forma alla musica 1. Formare la musica La musica prende forma in base al un principio elementare dato dalla successione premessa/conseguenza: si inizia con un’idea di qualsiasi tipo, e questa idea è la premessa da cui trarre un qualche tipo di conseguenza.

Sono tre i principi essenziali secondo cui prende forma un qualsiasi pensiero musicale:

1.1. Ripetere Dato un qualsiasi punto di partenza (si può immaginare come punto di partenza un incipit musicale, cioè appena le prime note di un motivo, ma anche una frase intera, o un’intera parte di discorso, come per esempio la strofa di una canzone), questo elemento iniziale viene ripetuto.

La ripetizione testuale in assoluto è impossibile, perché, anche immaginando di riprodurre una qualsiasi elemento musicale in modo fedele, per esempio attraverso un lettore CD che ripeta la stessa traccia, cambierà la condizione di chi ascolta.

Il senso della ripetizione può essere molto vario e produrre effetti altrettanto vari; spesso si lascia all’esecutore il compito di interpretare il senso della ripetizione (si pensi a quella dei ritornelli, così frequenti nella musica di ogni tempo).

1.2. Diversificare Dato un elemento iniziale (ancora una volta può essere un elemento iniziale di qualsiasi dimensione) si prosegue proponendo un nuovo elemento, diverso dal primo. Il senso della musica si arricchisce attraverso la addizione di elementi diversi l’uno dall’altro, raggiungendo una unità data dal complesso degli elementi posti sul campo. Ovviamente, non si può esagerare, allineando elementi diversi in numero eccessivo; si perderebbe, infatti, qualsiasi possibilità di sentire come unitario un insieme di elementi che, nella memoria di chi ascolta, risulterebbe confuso e privo di ordine: senza capo e senza coda.

1.3. Variare E’ la via intermedia tra quelle sopra descritte; un elemento iniziale viene ripetuto mantenendo sostanzialmente alcune sue parti, mentre altre parti vengono cambiate. In linea generale, si può dire che essendo quattro i parametri essenziali del linguaggio musicale (ritmo, melodia, armonia, timbro) il procedimento della variazione consiste nel cambiare uno o più elementi ripetendo quelli che restano in modo conforme al modello iniziale. È chiaro che il procedimento della variazione regge se non si cambia troppo, perdendo la possibilità di percepire almeno una certa somiglianza col modello originario.

N.B. Qui non si parla della forma delle Variazioni, intesa in senso stretto; ma è chiaro che le Variazioni (così come le altre forme che si basano sul principio della variazione, come la ciaccona, per esempio) impiegano essenzialmente il principio formativo della variazione per formare il discorso musicale.

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2. Forma e valore di senso Si analizza la struttura di una musica, dunque, facendo attenzione a ciò che torna, ciò che torna variato e ciò che cambia. Naturalmente, rendersi conto di come un pezzo di musica sia costruito a partire dalle sue idee iniziali non servirebbe a nulla, se non si attribuisse senso al modo stesso in cui viene costruito. In altre parole: il senso della musica non sta solo nei motivo o temi così come vengono esposti la prima volta dal compositore, ma anche nel modo in cui il compositore gioca con quei motivi o temi nell’insieme della struttura per arrivare alla definizione della forma. L’interprete ha il compito di dare senso ai ritorni delle idee, alle trasformazioni cui le idee vengono sottoposte, ai cambiamenti di situazione, quando vengono presentate nuove idee.

A un’idea che torna, solo per fare un esempio banalissimo, si può attribuire il senso di un immagine che torna alla memoria carica di nostalgia; ma si può ripetere anche per perorare qualcosa, per ridire cioè con maggior convinzione e forza. Non c’è una legge, né un limite al numero di significati che si possono dare agli elementi musicali che tornano, che tornano variati, che vengono presentati nuovi accanto ad altri già ascoltati. Non c’è legge né limite, certo, ma sempre è necessario attribuire un senso alla composizione degli elementi; per questo è necessario saper guardare con chiarezza e intelligenza alla costruzione di una musica: perché non accorgersi che un motivo musicale è derivato da un altro, solo per fare un esempio, vuol dire perdere un’occasione per cogliere il significato o arricchire di senso quello stesso motivo.

La musica è un linguaggio che si serve di ritmi e suoni; è inevitabile che ritmi e suoni si presentino a noi in una qualsivoglia forma. Ora, è proprio la riconoscibilità delle forme che ci permette di attribuire significato ai ritmi e ai suoni: noi riconosciamo i ritmi e i suoni e gli diamo un senso grazie alla predisposizione della natura e alla capacità di organizzare le nostre percezioni attraverso il complesso della cultura, così come essa si determina storicamente nel tempo e nello spazio.

L’invenzione musicale si lega ai contenuti in diversi modi; ciò dipende dal modo stesso di alludere al significato da parte della musica:

a. la musica può richiamare immagini o situazioni attraverso i suoni corrispondenti (onomatopea);

b. c’è poi la possibilità di richiamare determinate immagini di senso per allusione o corrispondenza, in definitiva per la naturale disposizione dell’uomo a percepire i suoni (il suono chiaro e quello scuro, rarefatto o spesso, alto o basso, forte o piano, liquefatto o duro, naturale o innaturale, ecc);

c. producono senso in quanto sollecitano reazioni psico-motorie i flussi dinamici del suono (tensione/distensione, slanci/ripiegamenti), sia a livello della struttura generale, come a livello del gesto melodico-ritmico.

d. Nella nostra cultura musicale, le stesse armonie, prese di per sé e nella loro giustapposizione, richiamano immagini di senso (tristezza, allegria, nostalgia, ecc.):

e. c’è poi il complesso sistema dei riferimenti al contesto all’interno del quale è stata concepita la musica; la musica può essere un gioco di quel contesto, può farsi portatrice di valori, idee, sentimenti, emozioni.

f. Altrettanto fondamentale è il contesto nel quale la musica viene usata; il contesto allargato (ovvero la situazione in cui la musica si sta usando, l’ambiente, il gruppo di persone) e il contesto personale (la particolare situazione psicologica nella quale si fa o ascolta musica).

In questo complesso così complicato e stratificato di fattori che contribuiscono a creare il suo senso, la musica si configura con un oggetto che avvia una reazione a catena, nella quale si producono infinite e non totalmente definibili significazioni.

La impossibilità di definire completamente il senso di una musica non ha nulla a che vedere con la indefinitezza del senso musicale. Il significato di una musica è come un segmento all’interno di una linea retta: il segmento ha in comune con la retta il fatto di essere costituito di un numero infinito di punti; ma non tutti i punti: restano esclusi quelli che sono al di fuori del segmento. Il senso di una

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musica si configura come una nebulosa di senso, maggiormente concentrata verso il centro e via via più rarefatta verso l’esterno.

3. La musica come un discorso Quando si fa una musica, si mettono in atto le strategie possibili e si utilizzano le competenze che si hanno per sviluppare un certo ambito di senso. La consapevolezza e la acquisizione di competenze ulteriori a quelle di cui ognuno dispone attraverso la normale acculturazione permettono di indirizzare con più incisività e profondità i vettori di senso.

Comporre un pezzo di musica è come comporre un discorso; si immaginano le frasi, si affiancano le une alle altre, si modellano, si plasmano, si aggiustano, si cancellano e si rifanno affinché ciò che si vuol dire sia centrato nella massima evidenza, secondo le proprie capacità. Può venire bene, altre meno; a volte viene benissimo o malissimo. In ogni caso la pagina scritta, alla fine, non è il vangelo. Una composizione è un meccanismo delicato e forte nello stesso tempo; è una struttura nella quale le parti sono fatte in modo tale da reggersi l’una con l’altra, da giustificarsi l’una per via dell’altra e da acquisire senso una tramite il confronto o contrasto con l’altra.

All’interno di questa struttura vi sono delle parti che solo a toccarle viene giù tutto, altre che invece potrebbero essere alterate producendo solo una variazione più o meno ampia di senso. Anche quando si interpreta una musica si interviene su quel che è scritto in modo da metterne in rilievo possibili traiettorie di senso; a volte ci si illude che possano essere le traiettorie di senso originali.

Per rendersi conto di quanto una composizione sia simile a un meccanismo fatto di un certo numero di parti con una determinata funzione le une rispetto alle altre, basta fare un lavoro di analisi attiva: analizzare la composizione di una musica scomponendola e ricomponendola: è l’unico modo di rendersi conto della necessità che lega le parti della composizione che stiamo studiando.

Guardiamo l’inizio di questa semplice musica di Karl Czerny

Ora un altro esempio, simile:

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Sono due musiche molto simili; la seconda è stata fatta ad imitazione della prima, ricalcandone quasi completamente il movimento ritmico della melodia. Ma il senso di proiezione delle frasi nel periodo è esattamente l’opposto.

Frase/Periodo verso la Tonica o verso la Dominante. Coincide l’inizio nelle due musiche, ma l’approdo alla fine della prima frase, come della seconda è esattamente l’opposto: nella musica di Czerny sia il finale della prima frase (batt. 4) e della seconda (batt. 8) è sulla Dominante; la seconda frase, per dire la verità, produce una vera e pro0pria modulazione alla Dominante. Nel secondo esempio i due finali sono entrambi sulla Tonica. Il risultato è percettivamente diverso: la musica di Czerny è aperta e si arriva alla fine delle 8 batt. con una forte sensazione di proiezione in avanti e di sospensione; la musica non potrebbe mai finire lì. Nel secondo esempio l’impressione è quella di chiusura: questo periodo potrebbe essere quello conclusivo di una musica.

Le cadenze, quindi, si incaricano di supportare la struttura di questo periodo. Si confronti la prima frase del primo esempio con la prima frase del secondo. Sinteticamente, nel primo esempio le armonie delle prime due batt. sono sulla Tonica, per produrre m eglio lo spostamento verso la Dominante nelle due batt. successive; nel secondo esempio, la struttura armonica delle prime 4 batt. è: I / V / V / I.

Vale la pena di notare come nella musica di Czerny il ritmo partecipi attivamente alla definizione della proiezione delle frasi, producendo un senso di accelerazione attraverso l’uso dei valori più stretti di semicroma.

Effetto aperto-chiuso della melodia In entrambi gli esempi è calibrato l’effetto di apertura della prima frase rispetto alla seconda; nel primo esempio la melodia nella cadenza sulla dominante a batt. 4 si appoggia sulla quinta dell’accordo, una nota assai poco indicata per chiudere una frase, mentre a batt. 8 finisce sulla fondamentale dell’accordo di Sol: c’e stata la modulazione alla Dominante ed è come se la melodia finisse sulla Tonica della nuova tonalità. La Tonica è la nota che garantisce alla melodia l’effetto di maggiore conclusione, proprio perché viene percepita come I grado della scala (naturalmente, si deve tener presente che la sensazione che si ha, arrivando alla batt. 8, è quella di una parziale chiusura, proprio a causa della modulazione sulla Dominante della tonalità d’impianto, che è quella di Do mag.). Nel secondo esempio, la prima frase finisce sulla Tonica, ma la nota usata nella melodia è il III della tonalità (il Mi); la seconda frase, producendo un chiaro effetto aperto-chiuso, termina sul I della tonalità di impianto, sul Do, conferendo al periodo un carattere conclusivo.

Basta pochissimo per alterare profondamente il senso di una musica.

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II capitolo: l’articolazione del discorso musicale

1. Elementi di ritmica

Nella storia della musica occidentale c’è stata un’evoluzione fondamentale che ha portato la concezione ritmica libera dell’epoca classica verso quella moderna misurata. Ritmo libero e ritmo misurato si distinguono per essere il primo basato sul criterio dell’addizione, il secondo su quello della divisione e suddivisione. Anche se nella storia della musica occidentale vi è stato un lento slittamento evolutivo dal ritmo libero verso quello misurato, in assoluto i due criteri, come gli studi etnomusicologici hanno dimostrato, non hanno una successione cronologica determinata.

1.1. Ritmo libero Nel ritmo libero c’è un’unità di tempo semplice e indivisibile, il tempo primo, la cui semplice addizione dà luogo al tempo composto (naturalmente divisibile in due parti di uguale valore). Il tempo semplice si rappresenta fin dall’antichità con il simbolo grafico dell’accento acuto ∪; ha una durata breve per convenzione fissata nel valore di una croma e. Il tempo composto, ottenuto per

addizione di due tempi semplici, si indica col simbolo grafico dell’accento grave - ; ha una durata doppia del tempo semplice e per convenzione si indica con la figura moderna della semiminima q.

La metrica della poesia classica4, cui veniva sempre correlata la musica nello studio del ritmo, si basava sulle combinazioni di tempi semplici e composti; le diverse formule così ottenute, davano luogo ai piedi ritmici, all’interno dei quelli veniva distinta una parte in levare (arsi) e una parte in battere o di appoggio (tesi); ecco qui di seguito i piedi ritmici più noti e ricorrenti: di 2 tempi: pirrichio ∪ ∪ ee

di 3 tempi: trocheo - ∪ q e

giambo ∪ - eq

tribraco ∪ ∪ ∪ eee

di 4 tempi: dattilo - ∪ ∪ q ee

anapesto ∪ ∪ - ee q

spondeo - - q q

di 5 tempi: bacchio ∪ - - e qq

di 6 tempi: molosso - - - q q q

4 Nella poesia dell’età classica – prima in Grecia, poi anche a Roma - la metrica era quantitativa mentre quella moderna è accentuativa. La metrica è accentuativa quando, come succede nella lingua che parliamo, gli accenti distinguono all’interno della parola le vocali accentate dalle altre ( nella parola “musica” è accentata la “u”, che funge quindi da vocale di appoggio; non sono accentate la “i” e la “a”). Nella metrica quantitativa è la durata maggiore che distingue le sillabe di appoggio dalle altre (secondo la metrica quantitativa, dunque, nella parola “musica” la vocale “u” avrebbe una durata doppia rispetto alle altre due).

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Nel ritmo libero i tempi semplici e quelli composti possono essere allineati gli uni dopo gli altri in libere figurazioni e raggruppamenti, senza far riferimento a formule determinate come i piedi. Capita nel repertorio musicale liturgico della Chiesa cattolica5. Il canto gregoriano, secondo l’interpretazione tuttora più accreditata, che è quella dei benedettini di Solesmes, avrebbe

tramandato all’epoca medievale e a quella moderna l’uso della metrica quantitativa propria del mondo classico greco e latino. Una melodia gregoriana si trascrive in notazione moderna usando

note nere senza valore, segnando con un accento grave, - , le note che devono avere una maggiore durata (proprio come si faceva nell’epoca classica con le vocali di appoggio)6:

1.2. Ritmo misurato Il ritmo misurato è soggetto a battuta e la sua definizione avviene per divisione dell’unità. Il passaggio dall’uno all’altro nella storia della musica occidentale avvenne probabilmente per tramite dei modi ritmici, adottati nel periodo dell’ars antiqua, per dare ordine al ritmo di alcune delle prime forme di polifonia del periodo. I modi si appoggiavano ancora alle formule della metrica classica (per la traduzione in valori musicali corrispondenti vedi il paragrafo precedente): primo modo trocheo - ∪

secondo modo giambo ∪ -

terzo modo dattilo _ ∪ ∪

quarto modo anapesto ∪ ∪ -

quinto modo spondeo - -

sesto modo tribraco ∪ ∪ ∪

I modi ritmici venivano organizzati in unità metriche che prendevano il nome di ordines (ordini); gli “ordini” altro non sono, se non l’allineamento, uno accanto all’altro, di piedi dello stesso modo, così che, per esempio, il primo ordine del primo modo è costituito di due piedi trocaici, mente il secondo ordine allineerà tre piedi trocaici, e così via. Nell’ultimo piede di ogni ordine l’ultima nota viene sostituita da una pausa, per rendere chiaro il passaggio da un ordine a quello successivo. Ecco la tabella dei modi ritmici:

5 Secondo l’interpretazione dei benedettini di Solesmes i piedi ritmici della metrica classica sarebbero avrebbero ispirato l’uso dei neumi nella musica gregoriana; ma rimane questione aperta e non da tutti gli studiosi condivisa. Altra ipotesi, che per altro è all’origine della precedente, è che i piedi della ritmica classica servissero per organizzare il ritmo degli stessi canti gregoriani: anche in questo caso si tratta di una teoria, che non risolve la questione di fondo, destinata a rimanere irrisolta: quella della interpretazione ritmica del canto gregoriano. 6 Naturalmente non si può ridurre la ricchezza e la complessità dell’interpretazione del canto gregoriano alla semplice distinzione tra sillabe lunghe e brevi. Anche la questione del ritmo nel repertorio gregoriano rimane del tutto aperta, e molte e plausibili soluzioni sono state proposte e potranno essere ancora trovate.

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Nell’esempio che segue, una cauda tratta dal conductus “Magnificat … qui judicat”, la voce inferiore usa il primo modo ritmico, alternando liberamente il primo e il terzo ordine; il segno ^ posto sopra una nota, indica che quella stessa nota è stata liberamente aggiunta dal musicista, suddividendo la nota lunga, propria del modo, in due note brevi (sicché nel primo modo, dove appare il segno indicato, al posto dei valori ritmici - ∪, troveremo tre brevi, ovvero ∪ ∪ ∪, corrispondenti a un gruppo di tre crome):

Anonimo, cauda, dal conductus “Magnificat … qui judicat”

Il sistema dei modi ritmici risolveva il problema di mandare insieme le parti in una composizione polifonica riallacciandosi alla tradizione della metrica classica, sempre tenuta in grande considerazione durante tutta l’epoca medievale. Certo, presentava dei problemi pratici non indifferenti; uno di essi l’abbiamo ora visto nell’esempio dato, laddove il musicista si prende la libertà di correggere la fissità della scansione del piede ritmico aggiungendo liberamente delle note (quelle segnate, come si è visto, con ^ nell’esempio). Questa ed altre libertà erano opportunamente segnate sulla parte con l’uso di diversi simboli grafici, che, tuttavia, complicavano nei fatti la lettura della musica. Resta l’importanza storica dei modi ritmici: nella storia della nostra musica rappresentano il primo caso in cui il ritmo viene determinato per divisione anziché per addizione (gli ordini sono le unità, divise in un certo numero di parti, ovvero i piedi, a seconda

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dell’ordine stesso, come si vede nel penultimo esempio proposto; un “ordine”, in altre parole, può essere inteso come una battuta, divisa in figure ritmiche uguali).

La svolta definitiva avviene nell’epoca dell’Ars nova, quando si passa alla scrittura mensurale col sistema delle prolazioni. In tale sistema, viene fissato il rapporto tra un valore ritmico e quello immediatamente inferiore, in modo tale che un valore (per esempio la lunga) è perfetto quando si divide in tre (la lunga quindi si suddividerà in tre brevi) e imperfetto quando si divide in due (la lunga è imperfetta se si suddivide in due brevi)7. Ecco come si chiarì all’inizio del ‘300 il rapporto tra i diversi valori ritmici utilizzati nella musica di allora:

perfetto imperfetto

Come si vede, il sistema ora esposto in sintesi equivale a quello adottato da noi oggi, con la sola differenza che nella nostra scrittura musicale la divisione binaria dei valori è sistematica ed esclusiva (in nessun caso una nota si divide per tre; perché una nota valga tre suddivisioni di essa è necessario aggiungere un punto di addizione).

Il ritmo misurato, che nella notazione attuale utilizza valori ben più numerosi rispetto a quelli del ‘300 (dalla semiminima alla croma, semicroma e via dicendo), consente la più ampia libertà di movimento all’interno della battuta, dato che, oltre le suddivisioni regolari, si possono impiegare gruppi irregolari di un qualsiasi numero di note. Alla base del ritmo misurato c’è la battuta che si articola al suo interno in tempi deboli e forti, a loro volta responsabili della alternanza tra arsi (levare) e tesi (battere).

1.2.1. Ritmi iniziali e ritmi finali Nel ritmo misurato perde interesse la nozione di piede ritmico, appunto per la possibilità di organizzare i ritmi internamente alla battuta in modo del tutto libero e slegato da qualsiasi schematicità; in compenso, spesso acquisiscono valore lo spunto ritmico iniziale, che si incarica di imprimere lo slancio alla intera frase musicale, e il ritmo finale della stessa frase. Ecco dunque un rapido riassunto dei ritmi iniziali e finali di una musica in ritmo misurato:

a. tetico, ritmo che inizia in battere;

R.Schumann, Clavierstücke für die Jugend, Rundgesang (parte)

7 Nel Medioevo il 3 è numero perfetto perché rappresenta simbolicamente la trinità divina; il fatto che in questo periodo dell’Ars antiqua fosse ritenuta perfetta la divisione ternaria e imperfetta quella binaria, non deve far credere che nella musica il ritmo binario avesse un impiego eccezionale: era frequente almeno quanto l’altro.

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b. anacrusico, ritmo in levare:

ibidem, Erster Verlust (parte)

c. acefalo, ritmo che inizia in battere, ma il battere stesso è occupato da una pausa;

R.Schumann, Faschingsschwank aus Wien, IV, Intermezzo (parte)

Il ritmo tetico e quello anacrusico sono usuali; del tutto raro è l’uso del ritmo acefalo. L’individuazione del ritmo iniziale non è necessaria solo per l’inizio di una musica, ma anche di ogni frase o periodo musicale al suo interno. Va detto, per altro, che una volta impostato il ritmo iniziale di una musica in un certo modo, tale impulso resta in genere invariato per il resto della musica; se una musica inizia in anacrusi, anche quel che segue sarà in anacrusi; si vede bene dal seguente esempio, sempre tratto dai pezzi dell’Album per la gioventù di Schumann (si noti l’inizio del secondo periodo, segnato con una doppia stanghetta proprio a metà della battuta per indicare anche visivamente la il mantenimento del ritmo in levare; nell’esempio sono stati indicati i punti di attacco in anacrusi di ogni semifrase con le frecce):

R.Schumann, Clavierstücke für die Jugend,Stücken (parte)

I ritmi finali sono:

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a. tronco (maschile), il ritmo finisce in battere, sul tempo forte:

R.Schumann, Clavierstücke für die Jugend,Ländlihes Lied (parte)

b. piano (femminile), il ritmo finisce in levare, sul tempo debole:

R.Schumann, Clavierstücke für die Jugend, Rundgesang (parte)

2. L’articolazione del discorso musicale 2.1. L’articolazione del discorso nella musica a ritmo libero N.B. ricordo che per ritmo libero si intende quello fuori della battuta, ottenuto non per divisione di questa, ma per addizione di tempi primi.

Il discorso musicale si costruisce come un divenire dinamico che alterna momenti di tensione a momenti di distensione attraverso la connessione delle sue parti. Queste parti, da quella di grandezza minore a quella di grandezza maggiore, si chiamano inciso, semifrase, frase, periodo. Ecco un esempio di articolazione di una parte di una melodia gregoriana:

Per la verità, a riguardo della struttura della musica gregoriana si preferisce usare il termine membro in luogo di semifrase, certamente più appropriato per la musica dal periodo classico-romantico in poi. Infatti, mentre la struttura musicale di questo periodo tende a regolarizzarsi in base a un principio di corrispondenza binaria che autorizza pienamente l’uso del termine semifrase (in una struttura binaria del periodo, due semifrasi costituiscono una frase), non altrettanto può dirsi della struttura della musica gregoriana, assai più ricca e diversificata.

Non in tutti i casi è possibile schematizzare la struttura di una melodia gregoriana con la facilità dell’esempio appena visto; vi sono dei casi in cui il pensiero musicale sembra avere un respiro più lungo ed evitare una articolazione interna fatta di incisi; si veda l’esempio seguente:

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Certo, tutto è possibile; è possibile per esempio dire che in questa melodia l’articolazione della musica non corrisponde a quella del testo verbale intonato, e che gli incisi ci sono, ma all’interno dell’evoluzione melismatica sulla singola sillaba. Sicché, sempre nella melodia ora riportata in esempio, un primo inciso potrebbe arrivare fino a quel salto di 4ª discendente (Re-La), dal momento che la nota acuta del salto è anche differenziata da un segno di appoggio. Tutto è possibile; ma in questo caso e anche altrove, voler applicare uno schema unico alla lettura dei fatti sembra forzato: è meglio accettare la varietà secondo cui la musica si può strutturare in un discorso.

Osserviamo un’altra melodia sempre con musica a ritmo libero, ma questa volta tratta dal repertorio delle melodie trobadoriche; è una parte di una chanson di Bernart de Ventadorn trascritta da Hendrik va der Werf:

B. de Ventadorn, Cant l’erba, chanson

Come si vede, anche qui l’articolazione del pensiero musicale, che è parallela a quella del testo poetico, procede propriamente per frasi, e, certo, non per frazioni più brevi come l’inciso.

Quanto ora mostrato, invita a non fissare criteri univoci di interpretazione della struttura in superficie del discorso musicale. Per quanti esempi si possano portare in cui l’articolazione sembra corrispondere a un criterio elementare di progressione geometrica che va dall’inciso al periodo, molti altri si possono trovare che non si piegano a un simile inquadramento; a meno che non si provi gusto nel dimostrare una propria convinzione aprioristica.

Rimaniamo alla musica di Ventadorn che si è vista ora e soffermiamoci sulla sua articolazione complessiva. È evidente la divisione in frasi della musica, corrispondente a quella del testo poetico; ma anche è evidente come tale divisione acquisti senso dinamico appoggiandosi su ambiti e note diverse della scala; c’è lo spostamento dall’ambito grave a quello acuto della scala tra 1° e 2° verso, con finale sul V grado del modo (il La) alla fine di quest’ultimo; e poi il ripiegamento sul registro grave nel 3° e 4° verso, dove si fa rilevare la differenza della fermata: sul Mi alla fine del 3° verso e sul Re (la finalis infatti del primo modo dorico nel quale è scritta la musica) alla fine del successivo, secondo uno schema ricorrente nella musica di ogni tempo ed esprimibile nella formula aperto/chiuso (ouvert e clos si dovrebbe dire riferendosi alla musica trobadorica, per assecondare il modo di esprimersi dei teorici francesi del XIV sec).

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È proprio questa formula aperto/chiuso che mette in luce l’importanza, nel discorso musicale, dei suoi punti di articolazione; le formule finali delle frasi e le note della scala su cui poggiano di volta in volta le note finali di queste formule, creano un gioco manifesto di relazioni e corrispondenze tra le parti, attribuendo ad esse un ruolo appropriato e relativo nella struttura dinamica del discorso.

I punti di articolazione del discorso - ovvero i punti di passaggio da una parte di una frase a un’altra, il passaggio da una frase all’altra, da un periodo all’altro, o da una parte del discorso alla parte successiva - questi punti di articolazione, presenti e necessari in ogni tipo di musica, relativamente al nostro linguaggio si chiamano CADENZE.

Le CADENZE, così nella musica a ritmo libero come in quella a ritmo misurato, dividono il discorso musicale nelle parti di cui si costituisce e si basano sul valore dinamico che hanno i vari gradi di una scala, gli uni nei confronti degli altri. Non è un’astrazione: ognuno di noi, ascoltando una musica percepisce con chiarezza quale sia la nota della scala su cui quella musica finirà; e con la stessa chiarezza percepisce quando la fermata avviene su un grado della scala che non è idoneo a finire. Nella chanson di Ventadorn sopra riportata in esempio, percepiamo con chiarezza il valore conclusivo del Re alla fine del 4° verso, così come percepiamo il senso di sospensione e di apertura alla fine del verso precedente sul Mi; la chanson, infatti, è scritta nel modo di Re, e il Re è nota finale. Per avere una riprova dell’efficacia delle cadenze nella articolazione del discorso musicale, si provi a ottenere il risultato aperto/chiuso invertendo le frasi, trovandosi quindi con il Re alla fine del 3° verso e col Mi alla fine del 4°; si provi ora a convincersi che la musica sia finita così…

2.2.1 L’articolazione regolare del periodo nella musica a ritmo misurato Quanto si è detto per la musica a ritmo libero (quella scritta fuori di battuta, con addizione di tempi primi), vale per quella a ritmo misurato. Nella musica dal periodo classico-romantico a oggi è del tutto prevalente una ARTICOLAZIONE BINARA del discorso; sicché a inciso risponde inciso per formare la semifrase, a semifrase risponde semifrase per formare la frase, a frase risponde frase per formare il periodo, ed eventualmente a periodo risponde periodo per formare il doppio periodo.

Dal momento che l’inciso corrisponde più o meno a una battuta, la semifrase in genere risulta formata da due battute, la frase da quattro, il periodo da otto e il doppio periodo da sedici battute8.

Ovviamente, in questo modello costruttivo giocano un ruolo ancora fondamentale le cadenze, per altro del tutto simili a quelle della musica più antica. Ecco un esempio tratto dall’Album per la gioventù di Schumann, il Cavaliere Selvaggio:

R.Schumann, Clavierstücke für die Jugend, Wilder Reiter (parte)

8 Lo schema generativo della struttura del discorso musicale basato sulla progressione geometrica: inciso (una

battuta, più o meno), semifrase (2/3 incisi), frase (2/3 semifrasi), periodo (2/3 frasi), bene tale rappresentazione del procedimento della composizione musicale non è sempre efficace, come si vedrà negli esempi tra poco proposti nel testo; spesso, magari relativamente alla musica di certi periodi o stili, non funziona affatto. In più, c’è il pericolo di fare un errore piuttosto grave, che è quello di pensare che all’origine di un’idea musicale vi sia l’inciso, lo spunto iniziale. Nella pratica le idee musicali partono e si formano e si formano in modi differenti: non si possono mettere sullo stesso piano il modo di far musica di Prokofiev e quello di un trovatore o di Giullaume Dufay. Porre l’inciso all’origine dell’invenzione musicale (inciso o “gesto”, come spesso si ama dire nei salotti dove la musica si fa a parole) ha senso in quei casi in cui davvero un’intuizione iniziale di tale grandezza forgia il divenire della composizione; da una parte perché in essa si concentra parte del senso caratterizzante di quella musica, dall’altra perché l’autore è rispetto a quella stessa intuizione che deve prendere posizione per proseguire e dar forma al discorso; infatti l’inciso si pone come premessa, cui deve seguire un altro inciso per formare la semifrase, e così via, fino al periodo. Ma non sempre è così, e in molti casi la musica non si fa a gesti, né iniziali né di altro tipo. Al solito: caso per caso e tenendo conto della storia, ci si potrà avvicinare alla comprensione dei procedimenti creativi adottati di volta in volta.

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Nell’esempio è segnata l’articolazione in incisi e semifrasi solo relativamente alle prime 2 battute; quel che segue è strutturato nella stessa identica maniera. Il segno di ritornello, al termine del periodo di 8 battute, completa il doppio periodo di sedici battute. Come si nota, il conteggio delle battute si effettua sempre e solo sulle battute intere, senza tenere conto dello spazio occupato dalla prima anacrusi; l’inciso, così come si vede nell’esempio segnato, arriva fino all’anacrusi dell’inciso che segue (lo stesso vale per la semifrase e per la frase, che inizia con l’anacrusi e termina prima dell’anacrusi della semifrase o frase successiva).

In un sistema perfettamente binario, come quello dell’esempio appena visto, si è soliti vedere la costruzione come un sistema fatto di PROPOSTA E RISPOSTA; vale a dire che a un’unità di una certa grandezza – per esempio l’inciso - risponde una seconda unità della stessa grandezza (così, per esempio, a un inciso risponde un altro inciso per formare una semifrase; passando all’unità maggiore, la semifrase sarà la proposta cui seguirà una seconda semifrase, per formare una frase, e così via). In un sistema come questo, si danno tre possibilità:

a. Affermativa: la risposta è uguale alla proposta (conta il ritmo melodico, ovvero il ritmo della melodia);

b. Negativa: la risposta è diversa dalla proposta. c. Mista: la risposta è parzialmente uguale alla proposta. Questo schema interpretativo ha una sua rispondenza sul piano della percezione del discorso musicale. È chiaro infatti, che, man mano che si procede nella creazione di una musica, quel che si è fatto funge da premessa per quel che si farà dopo; e quel che vale per chi compone una musica, vale nello stesso modo per chi la musica la ascolta. Alcuni non apprezzano l’espressione “proposta/risposta”, perché implicitamente si potrebbe immaginare una costruzione nella quale quel che viene prima finisca sempre in forma di domanda (con una cadenza sospesa, per esempio) rispetto a quel che segue, come cioè se si dovesse proiettare cadendo su quel che viene dopo; il che, ovviamente, non è sempre vero. Da questo punto di vista le espressioni “antecedente/conseguente” o “premessa/conseguenza” sono più efficaci, lasciando ai due termini una maggiore libertà di configurazione di senso l’uno nei confronti dell’altro.

Naturalmente, è possibile che il principio di costruzione binaria della musica subisca qualche eccezione e che un periodo, per esempio, duri 9 battute anziché 8. Tali irregolarità, tutt’altro che infrequenti, possono dipendere tra vari motivi, il primo dei quali è che il principio binario viene sostituito da quello ternario. Lo si vede nel prossimo esempio, ancora di Schumann, sempre tratto dall’Album per la gioventù (è la seconda parte della Siciliana): il periodo si costituisce non di due frasi, ma di 3, finendo per durare 12 battute, anziché 8 (ogni frase è costituita come di consueto di 4 battute ognuna):

R.Schumann, Clavierstücke für die Jugend, Sicilianische (parte)

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Quel che l’esempio appena portato dimostra riguardo alla formazione del periodo - che qui è ternario - si può applicare alla formazione della frase e della semifrase; una semifrase ternaria sarà costituita quindi di 3 battute, mentre una frase ternaria sarà composta di 6 batt. (sempre che le tre semifrasi di cui si costituisce siano ognuna di 2 battute). Il periodo che segue, di 12 battute, è tratto dalla sonata op.2 n.3 di Beethoven. Nel confronto con l’esempio proposto appena qui sopra, si vede bene come lo steso numero di 12 battute sia ottenuto attraverso una struttura diversa del periodo; lì, infatti, era chiara la costituzione di tre frasi ognuna di 4 battute, qui altrettanto chiaramente si vede come le frasi siano 2, ognuna di 6 battute, articolate al loro interno ciascuna in tre semifrasi di 2 battute:

L.van Beethoven, Sonata op. 2, n. 3, primo movimento, Allegro con brio (parte)

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L’esempio che segue è tratto dalle Romanze senza parole di Mendelssohnn

F.Mendelsshonn B., Lied ohne Worte, op 19, n. 1

Se contiamo tra un segno di ritornello e il successivo, troviamo che le battute sono 13 (le due battute iniziali di introduzione strumentale non devono essere conteggiate). È un periodo irregolare, dunque, costituito di tre frasi, le prime due di 4 battute ognuna, l’ultima di 5 battute; guardando bene in questo ultimo gruppo di 5 battute, si vede bene che la battuta in più è la terza del gruppo (la seconda battuta dell’ultimo rigo, subito dopo l’indicazione dinamica dim.), che prosegue in progressione melodica la seconda di questa frase; è un fatto ricorrente, che l’uso della progressione porti delle irregolarità nelle formazione della frase.

Ancora un esempio: è il primo periodo dell’Adagio della Sonata K. 475 di Mozart:

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W.A.Mozart, Sonata K.475, Adagio (parte)

Le battute questa volta sono 7, troppe per essere una frase, poche per essere un periodo. In realtà del periodo c’è, intera, la seconda frase di 4 battute; è la prima frase che difetta di una battuta. Allora: si tratta di una frase irregolare ternaria di 7 battute, ottenuta per addizione di 3 semifrasi (la prima di 3 battute, la seconda e la terza di 2 battute ognuna)l, o si tratta di un periodo irregolare, formato da una frase contratta di 3 battute e da una seconda frase regolare di 4 battute?

Proviamo a rispondere con una domanda: fu un problema questo per Mozart? Ovvero: si può pensare con un minimo di buon senso che Mozart si sia chiesto se stava costruendo una frase o un periodo? O semplicemente fu assolutamente consapevole del fatto che, irregolarmente rispetto a quel che in genere succedeva, la prima parte di questo adagio era giusta di 7 battute, 3 più 4?

Inciso, semifrase, frase, periodo, doppio periodo, così come “risposta affermativa/negativa/mista" sono termini che si usano per consuetudine nell’analisi della musica, ma che non usavano Mozart Bach o Palestrina; sono termini che aiutano a definire quel che si vede, e in questo senso sono utili per orientarsi con una certa sicurezza nell’osservazione di una musica; se usati con elasticità, sono certamente in grado di rappresentare il modo di procedere di Mozart, Bach e Palestrina nella costruzione della musica.

Sono uno strumento per osservare e sintetizzare: ma il punto di partenza è la musica, con tutta la varietà che può presentare rispetto a qualsiasi schema interpretativo. Se, per esempio, si dovesse affermare che un grappolo d’uva in genere ha 15/25 acini, e poi ne dovessimo trovasse uno con 26 acini, cosa dovremmo dire, che non è un grappolo d’uva?

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2.2.2. L’articolazione libera del periodo nella musica a ritmo misurato

C’è musica a ritmo misurato che non ha una quadratura interna, fatta di rispondenze interne, di antecedenti e conseguenti tra incisi, semifrasi, frasi e periodi. Certo, la quadratura del discorso esiste, ma su altre basi, diverse da quelle che abbiamo visto nel paragrafo precedente. Guardiamo il prossimo esempio, è del 1595:

G.Gabrieli, Ricercare dell’VIII tono (parte):

Il pensiero del compositore in questa musica procede per incastri dei soggetti usati (nell’esempio sono segnate solo le prime entrate dei soggetti a, b, c; è facile riconoscere le entrate successive degli stessi nelle altre voci). Non c’è frase che risponda a frase: entra il tenore alla battuta 1, ad esso segue il basso alla battuta 2, poi entra il contralto alla battuta 4, infine entra il soprano alla battuta 6. Già guardando il punto di entrata delle varie voci si nota la mancanza delle simmetrie che prima era facilissimo trovare nel tema della sonata di Mozart; e non c’è simmetria pure nella scelta del soggetto su cui entrano le singole voci (tenore e basso entrano sul soggetto a; il contralto entra sul soggetto b, il soprano su quello c). Il discorso procede dunque per invenzione contrappuntistica, ovvero incastrando in modi sempre nuovi i soggetti tra loro.

Nel flusso continuo dell’invenzione restano comunque ad articolare il discorso le cadenze: la prima, sul La, si trova a cavallo tra la 4ª e la 5ª battuta; la seconda, sempre su La, è poco più avanti all’interno della battuta 8. Sono le cadenze, scelte appropriatamente tra quelle sospese e quelle finali, che danno respiro e ritmo alla struttura della musica, assieme al gioco delle entrate e delle uscite delle voci sui vari soggetti. Non è casuale quindi che delle due cadenze segnalate, la prima sia sospesa, la seconda sia finale, col salto di 4ª ascendente del basso dal Mi sul La, alla battuta 8.

Nell’esempio che segue il principio costruttivo sembra essere ancora diverso:

A.Corelli, Sonata IV a 3, op. 1, Presto (parte)

Sono 7 battute in cui inutilmente si cercherebbero rispondenze tra incisi, semifrasi e frasi; è un pensiero unico invece, un’unica frase costituita al suo interno di tre elementi, segnati nell’esempio

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con a, b, c. Il primo è un rapido motivo in arpeggio discendente su cui entrano in altrettanto rapida successione il 1° violino il 2° violino e il basso; questo primo elemento slancia la frase verso la seconda parte di essa, la progressione discendente segnata con b che chiude alla penultima batt. facendo cadenza sul La; il terzo elemento, una cadenza frigia al V grado, chiude la frase stessa.

In questa musica, come in quella precedente, sono ancora le cadenze e i motivi melodici impiegati che articolano il discorso e lo rendono chiaro nel suo evolversi. La quadratura non viene raggiunta tramite simmetrie della struttura ritmica del periodo, ma attraverso l’equilibrio del dinamismo interno, che alterna sapientemente punti di slancio e di ripiegamento, di tensione e distensione.

Certo, a voler forzare le cose, anche negli ultimi due esempi proposti (solo due, in un mare di musica che accanto ad essi potrebbe essere ancora portata ad esempio!) si possono andare a cercare e trovare incisi, semifrasi, frasi e periodi: basta arrampicarsi un po’ sugli specchi delle irregolarità, delle imprevedibilità della fantasia creatrice. Ma a cosa servirebbe?

Il punto di riferimento nostro è quello del fare musica, non teoria della musica. La nostra analisi musicale è quella che fa un musicista pratico, esecutore o compositore che sia; non ha come suo fine quello di dimostrare l’esistenza degli incisi delle semifrasi e quant’altro: non devono essere per forza queste, e al di là dei quel che concretamente si vede, le strutture elementari e sempre omogenee del linguaggio musicale (ammesso che vi siano). L’analisi musicale deve ricostruire il modo di procedere dell’invenzione caso per caso, a seconda delle epoche e degli stili: in una parola, a seconda delle variabili che fanno parte e sono il sale dell’esperienza e della storia.

3. Due prototipi formali: forma chiusa, forma aperta Passando dalla costruzione della frase o di una parte del discorso alla struttura dell’intero discorso, troviamo che essa può avere due tipi di organizzazione, dando luogo a quelle che nella musicologia sono indicate come “forma chiusa” e “forma aperta”. Si possono avere forme chiuse o aperte sia nella musica a ritmo libero che in quella a ritmo misurato.

3.1. Forma aperta Si ha una forma aperta quando nella struttura generale non vi sono sezioni che vengano riprese, e si procede quindi svolgendo il discorso in un’unica parte, articolata al suo interno tramite le cadenze, o addizionando parte a parte, senza che alcuna di esse venga ripresa. Si parla dunque di forma aperta nel caso della fuga (non quella di scuola, il cui modello riconduce implicitamente verso una forma ternaria chiusa a-b-a) come nel caso del mottetto o del madrigale.

L’antifona Nolite me considerare, ha una struttura chiaramente aperta, articolata internamente con cadenze che si poggiano su gradi diversi della scala (siamo nel primo modo dorico, scala di Re).

Antifona, Nolite me considerare (parte)

Non è possibile sintetizzare i tipi delle strutture musicali originati dal modello della forma aperta: per definizione, una forma aperta si struttura in modo sempre nuovo, dipendente dal materiale musicale ed eventualmente extramusicale con cui si ha a che fare. Pur non essendo sintetizzabili le tipologie formali, rimangono tuttavia di numero chiuso i criteri seguiti lungo il corso della storia per dare compattezza e unità alla struttura complessiva dei discorsi musicali in forma aperta; ma questo fa parte, appunto, di uno studio storico delle forme musicali.

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Nella varietà di realizzazioni e di strutture che nel corso del tempo la nostra cultura musicale ha organizzato, si rilevano due elementi fondamentali che sono usati per dare coerenza alla forma:

a. l’unità di tono

b. l’utilizzazione di uno o più soggetti/temi ricorrenti (il numero resta in ogni caso limitato a poche unità nel corso di una musica, proprio per evitare la frammentazione della forma). È una tecnica che si ritrova nella messa ciclica quattrocentesca, come nelle opere wagneriane sotto forma di Leit-motiv, oltre che in molte altre forme e periodi della storia musicale9.

3.2. Forma chiusa Si parla di forma chiusa quando il discorso, nella sua interezza, ha una struttura strofica, ovvero quando è costituito da una sezione (o strofa, facendo riferimento al termine usato nella poesia) che ritorna una o più volte uguale o variata, mantenendo tuttavia inalterata la dimensione complessiva e la struttura di fondo, con la sua eventuale articolazione in frasi e periodi; eventuali prolungamenti o code, si configurano comunque con chiarezza come parti aggiunte rispetto alla ripresa della strofa. È possibile che alla strofa si alternino una o più sezioni diverse strutturalmente da essa.

Il seguente esempio presenta le prime quattro terzine (terzina = gruppo di tre versi) della sequenza Stabat Mater: la struttura musicale è organizzata simmetricamente a coppie di terzine, così che per la seconda terzina si ripete l’intonazione della prima, mentre la quarta terzina ripete l’intonazione della terza (lo schema potrà essere espresso nella formula AA BB CC ecc., che indica appunto la ripetizione di una stessa melodia in una coppia di strofe; nell’esempio qui sotto sono riportate solo le coppie AA BB):

Sequenza, Stabat Mater: (parte)

Come si immagina, non è casuale che forma aperta e forma chiusa si leghino, nei due esempi appena visti, rispettivamente a un testo in prosa (quindi libero sul piano della disposizione delle parole all’interno della frase) e a un testo poetico articolato in terzine di versi misurati al loro interno per numero di sillabe. Di qui il fatto che, oltre la struttura generale del discorso musicale, anche la disposizione interna delle frasi sia articolata diversamente: si vede infatti come sia molto varia la durata delle frasi musicali dell’antifona, e come siano invece organiche e sempre uguali le durate delle frasi della sequenza, che seguono la struttura sempre uguale per numero di sillabe in ogni verso delle terzine.

Sempre riguardo ai due esempi appena visti, va notato come, pur in strutture diverse, entrambi le musiche impieghino nei punti di articolazione cadenze del tutto simili.

9 Naturalmente, va considerata la possibilità che una musica sia costruita senza far caso alla questione della coerenza della forma; così come capita di ascoltare discorsi senza capo né coda. Ma non si sta parlando di un livello artistico dell’espressione artistica, né di tutti quei casi in cui la musica conserva una funzione di un certo rilievo in un qualsiasi contesto di uso (si pensi a una cerimonia religiosa, come a una musica per un telefilm). Se la musica focalizza su di sé, o almeno anche su di se, l’attenzione di un gruppo di persone (si pensi alla musica da concerto), è normale che vi sia un riguardo maggiore nei confronti della saldezza ed efficacia della sua struttura.

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3.2.1. Alcune tipologie di forme chiuse Per quel che riguarda le forme chiuse vi sono, al contrario di quel che accade per necessità nelle forme aperte, alcuni archetipi di struttura del discorso musicale, efficaci per osservare in rapida sintesi musiche anche molto distanti fra loro nel tempo. Tutte queste forme, che hanno in comune la struttura strofica del discorso, rientrano nel vasto campo di quelle che spesso, in termini generali, vengono chiamate forme-Lied10, o, usando la parola italiana che traduce Lied tedesco, forme-canzone. 3.2.1.1. Struttura binaria. Si ha una forma musicale binaria (o bipartita) quando la struttura generale del discorso si costituisce di due parti di cui la seconda può essere la ripetizione anche variata della prima (secondo lo schema A A1), oppure può essere contrastante rispetto ad essa, originando uno schema A B con eventuale ripetizione di entrambi le sezioni. In questo secondo caso, la seconda parte può avere una durata uguale alla prima, o, come accade nel maggiore dei casi, maggiore rispetto ad essa; alla fine della seconda parte, sia nello schema A A1 che in quello A B, è frequente l’aggiunta di una parte che fa da coda all’intera composizione. Hanno forma bipartita, per esempio, moltissime arie d’opera, molte sonate monotematiche e i movimenti delle suites barocche.

3.2.1.2. Struttura ternaria La forma è ternaria quando si articola in tre parti, secondo schemi esprimibili sinteticamente nelle formule A A1 A2 (la prima sezione viene ripetuta due volte ogni volta con alcune variazioni) A A1 B (dopo la ripresa variata della prima sezione, ne viene proposta una diversa)11, A B B1(alla prima sezione ne segue una seconda diversa da essa, che viene a sua volta ripresa con alcuni cambiamenti), A B A (alla prima sezione segue una sezione contrastante, quindi il ritorno eventualmente variato della prima). Fra tutti, quest’ultimo schema formale è largamente il più frequente; lo si trova in alcune delle danze della suite barocca (il minuetto, la gavotta, in cui la ripresa di A viene scritta per esteso quando si effettuano delle variazioni rispetto alla prima sezione, oppure, ed è il caso più frequente, alla fine della seconda sezione, si pone la scritta “da capo”, che obbliga, appunto, alla ripresa della prima sezione), nell’aria col “da capo”, nello scherzo, nel Lied, nella forma-sonata, nel rondò sonata, nella romanza strumentale, nello studio e in molti altri casi. La frequenza con cui questo schema formale è stato impiegato, sta proprio nella forza con cui esso, più di qualsiasi altro, garantisce l’unità e la chiusura della forma: finisce come inizia.

3.2.1.3. Rondò Il rondò si compone di un ritornello e uno o più episodi secondari (anche chiamati strofe). Lo schema più elementare dà luogo a una forma ternaria, quella A B A1 che già si è vista sopra, e che in genere, per la sua brevità, non viene definita forma di rondò; un altro schema frequente è A B A B1 A. c’è poi lo schema A B A C A D A ecc., che propone un ritornello sempre uguale e un episodio intermedio tra le varie ripetizioni sempre diverso12.

4. La forma della musica in presenza di altri linguaggi Tutto quanto finora si è detto riguardo la forma musicale, non prende in considerazione, o semplicemente dà per scontato, il fatto che la musica spesso non si presenti come linguaggio 10 Con l’espressione “forma Lied” (Lied-Form, usando l’espressione tedesca di Adolph Marx, che la coniò nel 1839) ci si riferisce in particolare alle canzoni (Lied, appunto, in tedesco) del Cinque e Seicento. Si roconosce una forma binaria AA BB, e una forma ternaria A B A1. 11 La forma A A1 B si definisce anche forma Bar (Bar-Form in tedesco) nella sua struttura di base, dove A e A1 hanno una medesima struttura e lunghezza, cui si contrappone B, di lunghezza in genere inferiore. Altri schemi sempre riconosciuti dalla musicologia nel tipo della forma Bar sono quello A A B A, A A B A B A. 12 Lo schema di rondò adottato nella forma sonata è A B A – C - A B1 A; su di esso si tornerà nella seconda parte di questo libro quando si parlerà appunto della forma sonata. Non si deve confondere il tipo generico di rondò, descritto sopra, con il rondeau, forma vocale già in voga nel periodo dell’ars antiqua: nel rondeau la parte poetica aveva una struttura complessa, avvicinabile al modello generico di forma a ritornello alternato a episodi, mentre la parte musicale aveva una struttura più semplice, in genere basata sull’alternanza varia di due sezioni A e B.

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autonomo, ma concorre insieme ad altri linguaggi alla creazione di opere d’arte. Tutta la musica fino all’inizio del ‘600 non è mai musica e basta, se non in casi rarissimi prima del ‘500 e ancora rari nel corso di quello stesso secolo: è tutta musica che intona un testo liturgico o poetico, o che serve ad accompagnare le danze di corte.

La stessa musica strumentale, che cominciò ad essere composta e pubblicata in quantità sempre crescente dall’inizio del XVII secolo, non dimenticò le proprie origini, e le forme che adottò furono assai vicine a quelle che aveva quando era a contatto con altri linguaggi. La musica si è sempre giovata del contatto con la poesia e più in generale con il linguaggio verbale: attraverso di esso ha infatti acquistato sicurezza sul piano delle strutture del discorso e su quello del senso. Fu tra Quattro, Cinque e Seicento che essa consolidò razionalmente la costruzione formale nel contatto costante col testo verbale, sia in prosa (la messa e altre parti della liturgia) sia in versi. E, mentre imparava definitivamente a disporre le parti del discorso appoggiandosi alla base solida e millenaria della retorica13, nel confronto con la singola parola acquisiva consapevolezza definitiva delle proprie capacità di rendere il significato della parola ed essere quindi capace di esprimere le stesse cose, per lo meno sul piano dell’emozione, dell’affetto, della sensazione. La stessa “teoria degli affetti”, elaborata tra la fine del ‘500 e il secolo successivo, ma applicata ancora per buona parte del ‘700, fu possibile proprio per questo: perché si reputò possibile tradurre ogni immagine di senso, ogni piega del sentimento in figure musicali adeguate e determinate, sebbene ancora con ampio margine di libertà, per potersi adattare ai contesti. Sarebbe sbagliato, prima di tutto sul piano storico, pensare che la teoria degli affetti avesse una applicazione meccanica, e che, data una parola, fosse già pronta una figura musicale per realizzarla. La teoria degli affetti, più che altro, dà delle indicazioni generiche; ma è il segno della fiducia nella capacità rappresentativa della musica, rappresentativa degli affetti, delle emozioni, degli stati d’animo.

Non è il caso di ripetere qui la storia della questione sull’autonomia del linguaggio musicale da quello verbale; una questione che ha tenuto banco tra musicisti, filosofi, studiosi della musica e dell’estetica musicale fin dalle origini della storia classica. Non esiste un giudizio a proposito, né c’è chi abbia ragione o torto. La sussidiarietà della musica rispetto al linguaggio verbale, la necessità di legarla ad altro per darle concretezza di senso e sostegno nella rappresentazione dei contenuti morali; o, esattamente al contrario, la sua superiorità rispetto alle altre arti, proprio per l’immaterialità del mezzo di cui si serve (il suono, che appena emesso si disperde per sempre) e la sua capacità di attingere a contenuti formali puri (musica e matematica sono avvicinate spesso nella riflessione dei filosofie dei filosofi-musicisti), svincolati dai lacciuoli della materia e della significazione concreta: ecco, queste sono questioni che hanno animato il dibattito intorno alla musica da sempre, e che probabilmente, sotto diverse forme, con motivazioni diverse e diversi approdi, continueranno a essere discusse anche in futuro, ora con più, ora con meno fervore14.

La questione della relazione tra la musica e gli altri linguaggi dell’arte si dovrebbe porre su due piani distinti; il primo, quello del linguaggio, il secondo quello del gusto estetico, ovvero dell’arte e delle scelte che ogni società, attraverso l’evoluzione della propria cultura, compie nel tempo.

13 La retorica è l’arte e la scienza che fin dall’antichità si occupa della forma del discorso verbale. 14 In fondo, se la musica ha potuto continuare nel corso del ‘900 una ricerca sperimentale intorno a possibili forme di linguaggio - mentre altrove nel campo dell’arte da tempo e prudentemente si erano abbandonate simili pretese - è stato proprio per la sensazione di avere a che fare con una materia labile e sfuggente, per questo liberamente plasmabile: una materia, quella del suono, che si direbbe “asemantica” (priva di significato), per questo disponibile più di altre ad organizzarsi in forme nuove di espressione linguistica, in grammatiche valide magari per una volta soltanto. L’immaterialità del suono ha fatto pensare alla musica come a un linguaggio aperto, passibile di qualsiasi trasformazione, invenzione, distruzione, e ricostruzione: di volta in volta a proprio piacimento.

In realtà la musica è un linguaggio come gli altri, e la grammatica non si inventa dall’oggi al domani: anzi, non si inventa affatto, se non nell’evoluzione costante giorno per giorno della cultura. Soprattutto la grammatica non è un limite del linguaggio, ma l’unico mezzo attraverso cui esso funziona nell’esperienza comune della gente: è ciò che rende riconoscibile e condivisa una lingua. Di fatto, l’assenza della musica sperimentale dalla cultura di oggi (di fatto, che si riconosca o meno, la musica sperimentale esiste solo nei circoli di quelli che la fanno) si giudica da sé, e conferma ancora una vota che l’unica via attraverso cui la musica vive è quella del contatto con le condizioni dell’esperienza e i suoi limiti: nella consapevolezza che, entro quei limiti, ci sia un margine enorme di libertà e innovatività; per chi, naturalmente, abbia fantasia, energia creativa e, soprattutto, conosca la grammatica e si sappia muovere tra i meccanismi del nostro linguaggio musicale, come un artigiano tra gli strumenti del proprio mestiere.

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Sul piano del linguaggio, è ovvio che la musica non è sussidiaria né superiore ad altri linguaggi; la musica ha una specificità di comunicazione che la pone sullo stesso livello di qualsiasi altra forma di comunicazione. È dunque necessaria e non sufficiente: necessaria in quanto parte integrante da sempre della trama complessa delle relazioni simboliche che legano l’uomo come individuo e come gruppo al mondo che lo circonda; non sufficiente, dacché la musica per sé non basta a integrare l’uomo nel suo ambiente, e comunque necessita della collaborazione con altre forme di linguaggio (che sia linguaggio verbale, o delle immagini o altro ancora) specifiche ognuna per il proprio campo di comunicazione.

C’è poi il campo dell’arte e delle scelte estetiche che la cultura di una società compie nel tempo: è su questo campo – come si vede indipendente dal primo – che la musica si pone in un confronto flessibile e cangiante rispetto alle altre arti. Il XIX secolo è stato il secolo della musica; l’Illuminismo fu l’epoca privilegiata del linguaggio verbale; oggi siamo nell’epoca dell’immagine, e chissà dove andremo.

Ogni epoca sceglie la via privilegiata rispetto ad altre per esprimersi, e lo fa per ragioni che hanno a che vedere con la storia e con l’evoluzione del pensiero dell’uomo rispetto al senso della propria vita e al proprio essere nel mondo. Su queste scelte si ha poco da sindacare: sono un dato di fatto. D’altra parte, che nel mondo di oggi sia prevalente l’interesse per la comunicazione visiva, non implica il decadimento delle altre forme di comunicazione; di musica sono piene le nostre giornate, è piena la strada, la radio e anche quei mezzi che hanno nell’impatto visivo il loro punto di forza, come la TV o il cinema. Parlare oggi di “musica assoluta” non ha senso, perché la musica è sempre legata ad altro nella nostra esperienza quotidiana; ma questo non è un limite del pensiero di oggi, né è un limite per la musica. Vederlo come tale non ha senso, significa semplicemente mettersi al di fuori del mondo.

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III Capitolo: immaginare e costruire la musica

Ripetere, variare, diversificare si fa a partire da un’idea, e molto di come si ripete, si varia o si diversifica dipende proprio dal tipo di idea da cui si parte. Nella cultura musicale attuale, l’invenzione musicale si concentra sulla individuazione di un’idea particolarmente efficace e capace di rappresentare il contenuto dell’intera musica che attorno ad essa viene costruita: quest’idea si chiama “tema”.

Non sempre, nella storia della nostra musica, il tema è stato il punto di riferimento originario del fare musica. Né la concezione tematica esaurisce la totalità dell’esperienza musicale anche dei nostri giorni; in moltissimi casi non c’è alcun interesse a proporre l’impatto forte di un tema nel far musica: basti pensare a tantissima musica di commento alle immagini (film, televisione).

La musica non tematica non è fatta meno bene di quella tematica, né è più facile da fare; nemmeno si deve essere così banali da affermare che, se una musica non ha tema, è perché il compositore non ha idee.

1. Inventare a partire da… 1.1. Inventare a partire da un elemento melodico ritmico Un elemento melodico ritmico è diverso dal tema. Rispetto a quest’ultimo, un elemento melodico ritmico resta entro i confini di uno spunto iniziale o di un’idea musicale non ancora compiuta al suo interno, qualcosa comunque di meno fortemente caratterizzato e definitivo rispetto al tema.

Anche se possono esservi dei casi in cui tema ed elemento melodico possono confondersi (la distanza tra elemento melodico ritmico e tema è evidente quando si considerano esempi tipici dell’uno e dell’altro; ma in alcuni casi le idee musicali si collocano in una zona di confine tra tema ed elemento melodico ritmico), ma la distinzione è utile, soprattutto perché col termine elemento melodico è possibile indicare brevi frammenti di melodia che certo non possono essere ancora temi. Molta musica del periodo barocco è costruita elaborando semplici elementi melodico ritmici, spesso assolutamente anonimi dal punto di vista musicale, ma sufficientemente riconoscibili da poter essere usati come cellula germinale di intere composizioni. Un esempio efficace, la Corrente della Suite inglese in Sol min. di Bach:

J.S.Bach, Suite inglese in Sol min., Corrente (parte)

Quando l’invenzione musicale si fonda su cellule melodiche di questo tipo, l’elaborazione, all’interno della struttura del discorso, procede con riprese testuali dell’elemento, sulla stessa o su altre tonalità, o con riprese anche solo di parti di esso (per esempio, del motivo ora preso ad esempio si può prendere solo l’arpeggio ascendente iniziale, o solamente la scaletta discendente che segue a questo); e ogni volta che si riprende qualcosa, la si trasforma per adattarla al senso di proiezione musicale della pagina e per il gusto anche più semplice dell’invenzione.

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1.2. Inventare a partire da un soggetto Un elemento melodico ritmico diventa soggetto quando viene fissato dal compositore e trattato come qualcosa di invariabile, o di alterabile solo in base a procedimenti razionali. È tipico della scrittura contrappuntistica di ogni tempo e ne è esempio il soggetto di fuga.

Il soggetto, anche quando sottoposto alle più diverse forme di elaborazione canonica (vedi sotto “Tecniche di composizione contrappuntistica”), funge da elemento caratterizzante unificante e ordinante della composizione; è una condizione a priori, all’interno della quale il compositore si impegna a trovare tutto il necessario per dare compiutezza alla musica.

J.S.Bach, Arte della Fuga, Contrappunto n. 1 (parte)

In forme come la fuga o il ricercare o altre forme affini il principio della composizione razionale si basa sulle tecniche del contrappunto canonico; in queste forme ci si deve aspettare il rigore nella applicazione di tali tecniche.

Vi sono forme in cui il contrappunto e le sue forme di elaborazione sono impiegate senza rigore; in questi casi l’applicazione sistematica cede il passo all’invenzione di fantasia, che asseconda il gusto del compositore.

È qui che si determina la diversità tra soggetto e elemento melodico ritmico: nella rigorosità con cui viene trattato il primo e nel rilassamento che consente il secondo. Nell’esempio che segue ho segnato con a. un elemento melodico ritmico; si identifica come tale perché solamente una volta, nella seconda battuta, viene ripreso nella sua interezza e mantenendo la sua forma originale; più sotto lo stesso elemento torna, ma variato rispetto alla forma iniziale:

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J.S.Bach, Suite inglese in Sol min., Allemanda (parte)

1.3. Inventare a partire da un tema Il tema si distingue dall’elemento melodico ritmico e dal soggetto per la sua compiutezza e la sua forte caratterizzazione musicale. Il tema si pone nella musica come l’idea che ne sintetizza il senso, che lo racchiude in una frase o in un periodo chiaro. Nella nostra cultura la concezione tematica della musica è divenuta prevalente nel periodo classico-romantico e lo è restata fino ai giorni nostri (da Haydn … a Battisti):

F.J.Haydn, Sonata n. 1 in Do magg., Hob. XVI: 35, primo movimento (parte)

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T.Manlio, S.D’Esposito, Anema e core (ritornello, parte)

Anche se possono sembrare simili, elemento melodico e tema sono distanti per l’approccio alla costruzione del discorso musicale, per la sua intuizione e la sua percezione. L’elemento melodico ritmico, più neutro dal punto di vista espressivo, funziona come un materiale duttile, disposto ad assumere senso a seconda del modo in cui viene elaborato; è la costruzione del discorso che dà senso all’elemento stesso. Il tema, invece, è quella parte del discorso in cui si concentra il suo senso; la costruzione del discorso è finalizzata in questo caso a mettere in luce tutte le peculiarità espressive già contenute nel tema. Nell’invenzione basata su un elemento melodico ritmico, in altre parole, il senso si costruisce strada facendo; nell’invenzione tematica il senso si racchiude nel tema e si lascia alla costruzione il compito di esprimere con maggiore chiarezza il suo contenuto, eventualmente anche opponendo a un tema un altro o più temi.

Naturalmente, la concezione tematica della musica non è un’invenzione dell’epoca romantica; essa affonda le radici nella tendenza naturale a identificare determinate immagini di senso o situazioni in melodie che siano in grado di rappresentarle. Per questo e per la possibilità di reperire temi in lungo e in largo nel tempo e nello spazio, anche all’interno delle culture popolari, è lecito dire che la concezione tematica della musica ha una dimensione antropologica. Ecco un motivo infantile popolare, noto a tutti:

Questo motivetto caratteristico ha la capacità di rappresentare con immediatezza una situazione di gioco infantile; si potrebbe chiamare anche “aria”, se non fosse che nell’italiano di oggi il termine, con questo significato, è caduto in disuso. Nel passato, in senso musicale, si intendeva con “aria” proprio un motivo popolare largamente conosciuto ed era normale parlare di un’aria famosa a proposito di una certa canzone o di un brano d’opera.

Proprio per la capacità del tema di rappresentare determinate immagini di senso è frequente il suo uso come citazione, all’interno di musiche diverse da quella per cui esso fu originariamente inventato. Esempi di questa pratica si trovano spessissimo e in ogni genere musicale, dal popolare, al colto, alla musica commerciale di oggi. La melodia infantile sopra riportata fu impiegata da Respighi nei suoi Pini di Villa Borghese.

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1.4. Invenzione libera La tecnica d’invenzione libera è meno rappresentata nel nostro repertorio musicale; essa consiste nel comporre un discorso musicale come improvvisando, rapsodicamente, seguendo il proprio istinto di esecutore e fondando le invenzioni sulle formule idiomatiche dello strumento, su quelle formule, ovvero, che fanno parte della tecnica di base della tecnica dello strumento per cui la musica è composta. È nel periodo barocco che si produsse la maggior quantità di musica di questo tipo e i nomi di “toccata, preludio” o, solo nella prima metà del XVIII secolo, quello di “fantasia” sono frequentemente usati per indicarla.

In genere, sempre nel periodo barocco, toccate, preludi e fantasie di questo tipo servivano per introdurre musiche di più solido impianto formale, come le fughe.

J.S.Bach, Fantasia cromatica e Fuga, BWV 903 (parte)

2. Scrittura omofonica/polifonica, verticale/orizzontale 2.1. Scrittura omofonica, scrittura polifonica Si intende per scrittura omofonica quella in cui il discorso musicale concentra la sua espressione in una melodia; la scrittura polifonica (o contrappuntistica) è quella in cui più melodie sono sovrapposte una sull’altra, e di ognuna (ovviamente nei dovuti limiti) è possibile seguire il percorso autonomo rispetto alle altre. Ecco un esempio di scrittura omofonica, tratta da un duetto della Lucia di Lammermoor di Donizetti:

Getano Donizetti, Lucia di Lammermoor, Se tradirmi tu potrai (parte)

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Ecco ora un esempio di scrittura polifonica, l’inizio di un bicinium di Orlando di Lasso

O. di Lasso, Bicinium (parte)

Scrittura omofonica e scrittura polifonica in realtà non sono se non due astrazioni, di fatto impossibili da mettere in atto ognuna allo stato puro. L’omofonia avrebbe una sua rappresentazione pura nel canto a voce sola, senza alcun tipo di accompagnamento; ma anche in questo caso, alcuni studiosi non sono certi che si possa parlare di pura omofonia. In ogni modo, al di là delle eccezioni, l’omofonia viene realizzata nella forma di melodia sorretta da un accompagnamento più o meno denso (quello dell’aria di Enrico portata come esempio sopra è un accompagnamento ridotto all’osso); in questa forma non si può evidentemente parlare di omofonia pura, dacché anche la scrittura accordale più essenziale si realizza come movimento di un’altra parte rispetto alla melodia. L’omofonia, in genere, non può non esprimersi in una forma di polifonia, per quanto semplificata.

Nello stesso modo, anche all’interno della scrittura più puramente polifonica, l’orecchio percepirà una voce prevalente sulle altre, e la polifonia potrà essere interpretata come una forma complessa di omofonia (una voce accompagnata da altre voci).

Pur essendo due limiti ideali, mai perfettamente realizzabili, la scrittura omofonica e quella polifonica rimandano a due modi diversi di fare musica; nella scrittura omofonica l’idea tende a imprimersi nella forma di una melodia libera di modellarsi assecondando l’istinto, l’emotività; nella scrittura polifonica, la linea melodica viene progettata in previsione dei possibili sviluppi legati alla tecnica del contrappunto, e la sua validità non sarà tanto nella sua intrinseca capacità espressiva, quanto piuttosto nella sua disponibilità costruttiva. Diciamo, per comodo di sintesi, che la scrittura omofonica è più spontanea, mentre quella polifonica è più cerebrale; ma lasciamoci le porte aperte a tutta la elasticità che si possono immaginare: le eccezioni nella nostra musica sono tanto frequenti, da non potersi nemmeno definire eccezioni.

Facciamo due casi. Nel primo, una scrittura omofonica nell’approccio (ovvero di una immaginazione musicale che parte dall’intuizione di una melodia) viene arricchita aggiungendo altre parti, conferendo alla musica un aspetto polifonico; molta musica di Brahms e tardo-romantica è così:

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J.Brahms. Intermezzo, op. 118, n 2 (parte)

Ora facciamo invece il caso di una scrittura polifonica in cui, tuttavia, le voci si sovrappongono una sull’altra coincidendo ritmicamente:

A.Gabrieli, Dionorea, Giustiniana a tre voci (parte)

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E’ chiaro che qui il risultato finale non possa che essere omofonico, data la prevalenza della voce superiore in fase di ascolto. Anche in questo caso, benché la scrittura sia contrappuntistica, è certo che la composizione musicale sia scaturita dall’immaginazione della linea melodica, e che il movimento delle voci inferiori sia stato concepito come supporto melodico e armonico di quella superiore; trattandosi di parti vocali, è evidente che l’Autore abbia voluto comunque rendere cantabili anche quelle inferiori.

2.2. Scrittura orizzontale, scrittura verticale La scrittura omofonica e quella polifonica suggeriscono per sé due differenti approcci dell’invenzione musica: nella prima si immagina una melodia, e il resto fa da sostegno e amplificazione di quella melodia; nella seconda si sovrappongono linee melodiche il più possibile indipendenti.

Scorrendo rapidamente la storia della nostra cultura musicale, vediamo che l’avvento della tonalità ha comportato un significativo mutamento di atteggiamento nei confronti della scrittura e, prima ancora, nell’invenzione musicale. Così, per un musicista del ‘400 è normale comporre sovrapponendo linee melodiche: si compone la prima e ad essa via via si aggiungono le altre in successione. In un contesto del genere, il risultato armonico non è nulla più che un risultato armonico, derivante, appunto, dalla sovrapposizione delle linee melodiche. È così, sia in una scrittura polifonica che in una scrittura omoritmia:

G.Dufay, Missa supra “L’Homme armé”, Kyrie (parte)

La casualità delle successioni armoniche è palese man mano che si procede e che esse finiscono col susseguirsi a ritmo uguale quasi a quello delle note delle melodie sovrapposte in contrappunto. Tuttavia, anche in questo esempio è ben evidente che la casualità delle successioni delle armonie si sospende in cadenza; le cadenze, infatti, vengono costruite in base a modelli prestabiliti, e in questo caso i movimenti melodici delle varie voci sono tenuti a coincidere con quelli che i modelli stessi impongono.

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Questo ultimo modo di fare contrappunto, ovvero quello di sovrapporre le melodie facendole coincidere con i movimenti richiesti da una determinata successione, coincide con la interpretazione del contrappunto in campo tonale. La tonalità, infatti, si fonda su una successione ordinata di accordi che si succedono assecondando la funzione che ognuno di essi ricopre a seconda del grado della scala su cui è costruito allo stato fondamentale.

Esempi di musica polifonica in cui i movimenti delle parti sono progettati in modo da coincidere con una base armonica già sostanzialmente posta a priori sono reperibili con facilità dal periodo di Corelli in poi: si pensi alle fughe, quelle strumentali come quelle vocali; si guardino, solo per fare un esempio, i mottetti di Johann Sebastian Bach.

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IV Capitolo: tecniche di costruzione contrappuntistica

Per contrappunto si intende la costruzione della musica o di una parte di essa attraverso la sovrapposizione di linee melodiche indipendenti. L’indipendenza consiste nel fatto che le melodie sovrapposte una sull’altra non sono coincidenti; la coincidenza produrrebbe infatti un semplice raddoppio della melodia principale (se la sovrapposizione dovesse avvenire facendo procedere una all’8ª o all’unisono con l’altra) o una sua intensificazione (se la sovrapposizione avvenisse a distanza di 3ª o 6ª. Naturalmente sono anche possibili sovrapposizioni su altri intervalli, che tuttavia, non essendo grammaticalmente accettabili nella nostra musica, sono impiegate solo eccezionalmente).

I due modi di intendere il contrappunto, come reale sovrapposizione di linee indipendenti o come intensificazione di una voce da parte dell’altra, furono individuati e distinti fin dalle origini della storia del contrappunto stesso; ne sono testimonianza le forme dell’organum e del conductus.

1. Contrappunto libero

Per contrappunto libero si intende la sovrapposizione di due o più parti differenti riguardo il disegno melodico e ritmico.

Nella nostra musica il contrappunto libero è stato largamente impiegato fino agli ultimi decenni del XV secolo; da allora, e in particolare dall’opera di Joquin Des Prez in poi, al contrappunto libero è stato largamente preferito quello imitato; anzi, la tecnica imitativa, in modi diversi, deve essere ritenuta parte integrante e quasi ineludibile della composizione musicale dal XVI secolo in poi.

Nell’organum e poi nel mottetto dell’Ars Antiqua, venne applicato un concetto di indipendenza radicale delle linee melodiche, tale per cui il movimento di una non richiamava, se non casualmente e non volutamente, quello dell’altra; fino al periodo dell’Ars Nova, le eccezioni - per esempio quella famosa della caccia del Trecento italiano - restano tali. Ciò, in omaggio al criterio formativo, prevalente in epoca medievale, che si identificava nel principio della varietas. Delle due voci sovrapposte in un organum, dunque, quella inferiore è una melodia tratta dal repertorio gregoriano, la seconda è contrappuntata su di essa, assecondando la distinzione tra consonanze e dissonanze. Naturalmente, la melodia composta in contrappunto è scritta nello stesso modo della melodia gregoriana, e, insieme a questa, rispetta tramite le cadenze l’articolazione del discorso imposta dal testo intonato.

Quello che segue è un buon esempio di contrappunto libero; si tratta di un organum del maestro Leonin, costruito su un Alleluja gregoriano. Ecco qui intanto il gregoriano:

Ed ecco l’organum di Leonin; è giusto l’inizio del contrappunto, costruito sulle prime cinque note dell’alleluja gregoriano (nella musica di Leonin sono trasportate una quinta sotto); il cantus firmus è posto al basso:

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Leonin, Organum duplum (parte)

Scrivere in contrappunto libero vuol dire, come sopra già detto, che le parti non cantano gli stessi disegni melodici; non vuol dire, tuttavia, che si proceda casualmente. Un qualche progetto per dare ordine e coerenza alla costruzione c’è sempre stato; la composizione su un canto dato ne è un esempio, altri modi per strutturare la composizione in contrappunto sono stati sperimentati e impiegati nel tempo. Il mottetto isoritmico e la messa ciclica si legano alla tradizione del canto dato, ma ne sviluppano le potenzialità strutturanti in progetti architettonici ordinati razionalmente. La Missa supra “L’homme armé” di Guillaume Dufay di cui sopra è riportato l’inizio del Kyrie ne è un esempio.

Tra l’altro, vale la pena di considerare come la sopravvalutazione dell’elemento raziocinante riguardo alle forme accennate del mottetto isoritmico e della messa ciclica abbia portato a uno dei fraintendimenti più vistosi della storia della musica: quello della presunta freddezza intellettuale e calcolatrice dell’arte musicale fiamminga. La composizione di un mottetto isoritmico si basa su una parte di canto dato posta al tenor; questa parte viene ordinata, nel senso che si stabilisce a priori un certo numero di valori ritmici e un certo numero di altezze (talea e color; il numero dei valori ritmici e quello delle altezze non sono coincidenti); costruita in questo modo, la parte di tenor certamente non brilla per efficacia espressiva; ma è un errore banalissimo quello di pensare che la efficacia espressiva del mottetto si leghi o dipenda da quella del tenor. Tale parte di tenor, infatti, non serve più che a dare ordine e equilibrio alla forma, sia per quel che riguarda la durata delle parti, che per quel che riguarda l’articolazione interna della musica, dal momento che impone la successione delle cadenze al movimento delle altre parti. Ma la composizione in contrappunto delle parti superiori, nella gran parte dei casi (e per gran parte si deve intendere che casi contrari sono davvero eccezioni piuttosto rare), procede del tutto liberamente.

Dire che un mottetto isoritmico o una messa ciclica siano “freddi e raziocinanti” perché le parti di tenor sono ordinate architettonicamente vuol dire non rendersi conto che la stessa cosa avviene quando si stabilisce per esempio che un certo tema deve avere durata di 16 battute e che magari, dopo quelle 16 battute si deve modulare al relativo: una autentica sciocchezza. Nessuna musica, come quella franco fiamminga del Tre-Quattrocento, mostra tanta libertà di invenzione e mancanza di vincoli costruttivi che impegnino la scrittura delle parti in contrappunto.

Le tecniche costruttive canoniche, nell’arte dei musicisti franco fiamminghi, sono applicate solo per eccezione: de fondare i giudizi estetici sulle eccezioni non è bene.

L’uso di costruire il contrappunto a partire da una melodia data (canto dato, o anche cantus firmus; nel tempo, accanto alle melodie gregoriane saranno ammesse anche quelle dei più noti canti profani) si conserverà per un lungo periodo.

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2. Contrappunto imitato Col tempo, si impose un diverso criterio di costruzione contrappuntistica del discorso musicale, in cui il movimento delle varie voci sovrapposte viene riferito a modelli melodici comuni. È nell’età di Josquin Des Prez, ed è attraverso la sua arte che si impone definitivamente questo nuovo modo di intendere e praticare la composizione in contrappunto. Si chiama “stile imitato”: è una tecnica fondamentale della composizione nella nostra cultura musicale, efficace e insostituibile anche nelle diversissime forme che ha assunto la musica nello sviluppo della cultura occidentale fino ai nostri giorni, dal mottetto palestriniano alla musica di Mozart alle canzoni di Sanremo.

Il contrappunto imitato consiste dunque in quella scrittura polifonica in cui il movimento di ogni voce si riferisce a modelli melodici comuni; il risultato, anche percettivamente, è appunto quello di un’imitazione continua di essi nel rincorrersi delle voci. Il bicinium di Orlando di Lasso che si è visto poco fa è un ottimo esempio di contrappunto imitato a due voci.

Se la musica è di stile polifonico (nel caso del mottetto, quindi, o della fuga, o di altre forme di questo tipo), la melodia impiegata si chiama soggetto o tema; tuttavia, considerato il vasto margine lessicale con cui viene usato il secondo dei due termini, è largamente preferibile usare il primo.

Non è fissato per regola il limite minimo per poter parlare di stile imitato; non è fissato cioè il limite minimo di note che la seconda voce deve ripetere di quelle già cantate dalla prima, per poter parlare di imitazione. Ma è chiaro però, che nascendo l’imitazione da un fenomeno percettivo, il limite è dato dal buon senso: per poter dire che una voce imita l’altra è necessario che sia percepita l’imitazione. Nel massimo di elasticità consentita dall’imitazione, resta in genere come punto fermo la testa del soggetto, le sue 2/3 note iniziali, con le quali il soggetto stesso si impone all’attenzione di chi ascolta; man mano che ci si allontana dalla testa del soggetto, la forma delle due melodie può variare anche considerevolmente. Tuttavia, sempre che la musica sia di genere polifonico, in genere il riferimento al modello investe l’interezza della melodia; le variazioni, che possono riguardare sia l’aspetto melodico che quello ritmico, non mettono in predicato la riconoscibilità del soggetto.

2.1. Il canone e le tecniche di costruzione canonica Se non è fissato il limite minimo del procedimento imitativo, resta chiaro quello massimo, in cui la seconda voce (comes, ovvero “che segue”) non fa che ripetere testualmente quel che ha intonato la prima voce (dux, ovvero “che conduce”). Tale procedimento prende il nome di canone; il termine canone etimologicamente significa regola, ma in musica viene impiegato con questo significato più stretto.

Il canone più semplice è quello all’unisono; si dice all’unisono in quanto la seconda voce ripete il movimento della prima alla stessa altezza. A seconda della distanza a cui la seconda voce ripete la prima, si avrà canone alla 2ª, alla 3ª, e così via, fino all’8ª e oltre. Le forme di canone più frequenti sono quelle all’unisono, alla 5ª e all’8ª; infatti, a tali distanze, considerata la forma della nostre scale (sia quelle modali che quelle maggiori e minori), la ripetizione del modello può essere rispettata integralmente, senza ricorrere all’uso eccessivo dell’alterazione o, addirittura, della modulazione.

Le forme di elaborazione contrappuntistica sono state esplorate a fondo nella storia della cultura musicale occidentale, giungendo ad autentici virtuosismi ingegneristici, non sempre rispettosi della gradevolezza di ascolto. Certo è che l’aspetto cerebrale, contraria all’espressione musicale istintiva e spontaneamente emotiva, è una caratteristica frequente della musica polifonica, soprattutto in quegli autori che si sono lasciati prendere la mano dal fascino della costruzione geometrizzante e oggettiva della musica: ci si dà una regola e la si segue fino in fondo, costi quel che costa; ma a volte costa la musica stessa. Sarebbe superficiale però affermare che ogni composizione polifonica sia cerebrale; errato del tutto dire che la costruzione canonica della musica impedisca di raggiungere i vertici più alti dell’arte: si pensi solo a Bach.

Tra le forme di contrappunto in canone devono essere ricordate:

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PAOLO TEODORI, Fare musica 58

a. Canone (o imitazione) per aumentazione/diminuzione (nel primo caso il soggetto viene ripreso con valori raddoppiati rispetto all’originale, nel secondo caso esso viene ripreso con valori dimezzati); dato un soggetto come questo:

si avranno dunque per aumentazione e per diminuzione le seguenti varianti:

aumentazione diminuzione

b. Canone (o imitazione) per moto contrario, in cui gli intervalli sono replicati in senso inverso (il moto melodico ascendente diventa discendente e viceversa); lo stesso soggetto appena visto, per moto contrario diventa quindi:

Il canone (o imitazione) per moto contrario viene anche detto “a specchio”, proprio perché*, mettendo uno specchio davanti a una partitura aperta sul un tavolo, gli intervalli vengono rovesciati.

Anche l’imitazione per moto contrario può a sua volta essere ulteriormente variata attraverso l’aumentazione o la diminuzione.

c. Canone (o imitazione) cancrizzante, in cui le note vengono ripetute dall’ultima verso la prima

L’imitazione cancrizzante può essere a sua volta variata attraverso l’aumentazione, la diminuzione, il moto contrario.

d. Si dice doppio canone quello in cui un contrappunto a quattro voci è costruito a coppie di canoni: due voci procedono in canone fra loro, le altre due procedono anche esse in canone fra loro, ma utilizzando un modello melodico diverso (c’è quindi un modello melodico diverso per ciascuna coppia di voci); ne è esempio sommo la Missa ad fugam di Palestrina.

e. Per contrappunto doppio/triplo/quadruplo (ipoteticamente si potrebbe proseguire quanto si vuole, ma di fatto non si va oltre il contrappunto quadruplo) si intende quella particolare forma di costruzione contrappuntistica che consente la rovesciabilità (si dice appunto “contrappunto rovesciabile”) nella disposizione delle voci, sicché esse possono essere poste indifferentemente una sopra l’altra; in ogni caso non si producono errori di costruzione armonica o di movimento delle parti. Ecco un esempio di contrappunto triplo:

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PAOLO TEODORI, Fare musica 59

Queste sono solo le più frequenti forme di elaborazione contrappuntistica; altre se ne possono dare, che dipendono dallo stile, dall’immaginazione del compositore, dalle peculiarità del soggetto. Il canone è una regola: qualsiasi regola ci si può dare e si può cercare di seguire nella costruzione della musica.

Regole di qualsiasi tipo sono state il pane quotidiano di molta musica del ‘900. Ovviamente si dovrà fare una differenza tra le regole che si assumono all’interno della grammatica del nostro linguaggio musicale – tenute quindi a soddisfare principi che rimandano al giudizio di gusto, dettati dall’orecchio e dalla esperienza del linguaggio musicale – e le stesse regole assunte all’interno di una qualsiasi altro sistema in cui tutto, per principio, si ammette a priori, mettendosi a riparo di qualsiasi giudizio di gusto possibile.

Riguardo alle tecniche del contrappunto è bene ricordare che esse possono essere usate come modo di elaborazione anche formale all’interno di musiche concepite originariamente in modo polifonico (per esempio una fuga), come anche per arricchire e amplificare lo sfondo di un discorso immaginato in modo non contrappuntistico, ma omofonico (cfr. infra, Terzo capitolo).

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Seconda parte                       

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PAOLO TEODORI, Fare musica 61

I Capitolo: la fuga 1. Alcune forme vocali del Cinquecento: il mottetto e il madrigale Il mottetto, dopo un’evoluzione formale durata tre secoli, acquisisce all’inizio del ‘500 una forma che rimarrà punto di riferimento nella composizione di musiche analoghe anche per molti decenni successivi. Tale forma, individuata con una certa chiarezza nell’opera di Josquin des Prez, si stabilizza nei compositori della generazione successiva alla sua e acquista valore di modello formale classico attraverso la produzione di Giovanni Pierluigi da Palestrina.

Il mottetto, nel ‘500, è musica liturgica, fatta eccezione di pochi casi in cui sopravvive l’uso celebrativo di esso; il testo, conseguentemente, è tratto dai libri liturgici. I caratteri formali, in sintesi, si possono individuare nei seguenti:

a) La forma è aperta e nelle dimensioni, così come nella articolazione della struttura in sezioni, segue il testo intonato.

b) La scrittura è polifonica e lo stile estesamente imitativo; episodi omoritmici sono possibili e per lo più dedicati alle sezioni in cui si intonano parole di senso festoso o gioioso (alleluja, per esempio).

c) Il centro dell’invenzione musicale, oltre che nella elaborazione dei contrappunti imitati, è nella individuazione di motivi soggetto, con cui la melodia intona le frasi del testo.

d) Nella esposizione del soggetto si individua con chiarezza il principio della alternanza “soggetto/risposta”: il soggetto si poggia sul I grado della scala, la risposta sul V; ciò, sia per assecondare la normale disposizione dell’estensione delle voci (il Tenore, per esempio, ha un’estensione che gravita più o meno una 5ª sopra quella del Basso), sia per consentire la ripetizione testuale degli intervalli melodici del soggetto, senza dover ricorrere all’uso delle alterazioni, stilisticamente inappropriato nella musica di questo tempo, e comunque dannoso per l’effetto di unità modale della musica stessa.

Come si fa un mottetto nel XVI secolo?

Nella composizione del mottetto, quindi, si partiva dal testo liturgico che si sarebbe dovuto mettere in musica. Il testo aveva una dimensione relativamente breve e conteneva un numero di proposizioni variabile, ma in genere non superiore a cinque o sei; le frasi di cui esso si costituiva venivano isolate: ognuna di esse avrebbe dato luogo a una sezione del mottetto. Presa dunque la prima frase del testo, essa veniva intonata musicalmente; tale intonazione sarebbe stata il soggetto di quella parte del testo e sulla base di esso, attraverso la tecnica del contrappunto imitato, si sarebbe costruita la prima sezione del mottetto.

Ecco il testo di un mottetto del Canticum Canticorum di Giovanni Pierluigi da Palestrina:

Trahe me: post te curemus in odorem unguentorum tuorum. Introduxit me rex in

cellaria sua; exsultabimus et laetabimur in te memores uberum tuorum super vinum.

Recti diligunt te.

Il primo soggetto Palestrina lo ha fissato per intonare le parole « trahe me : post te »; eccolo:

Ed ecco ora riportata per intero la prima sezione dello stesso mottetto, costruita in contrappunto imitato su questo stesso soggetto:

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PAOLO TEODORI, Fare musica 62

G.Pierluigi da Palstrina, Trahe me, mottetto (parte)

Una delle componenti essenziali di questo stile musicale, comune peraltro a buona parte dei musicisti europei del ‘500, è la libertà con cui vengono impiegate le tecniche del contrappunto; contrariamente a quel che si crede, infatti, nella musica di questo periodo – anche quella fiamminga – così come nella musica europea del secolo precedente, non è comune un’interpretazione rigida e matematizzante delle tecniche imitative: canoni di ogni tipo, virtuosismi della mente tanto affascinanti quanto spesso inefficaci sul piano musicale, pur essendo conosciuti, restano episodi isolati assolutamente non rappresentativi del gusto musicale di quest’epoca: al contrario, essa fa della libertà e della fantasia, interpretate in un contesto di ordine formale, le proprie qualità fondamentali.

A sezioni in stile polifonico, come questa appena esemplificata del mottetto di Palestrina, se ne potevano affiancare di tanto in tanto altre scritte omoritmicamente, con un effetto conseguentemente omofonico. Come già accennato, il più delle volte tali episodi intonano quelle parti del testo che esprimono esultanza e gioia; ne troviamo un accenno nello stesso mottetto di Palestrina, poco più avanti, sulle parole exsultabimus et laetabimur; eccolo:

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PAOLO TEODORI, Fare musica 63

ibidem,

Nel madrigale - che rappresenta il versante profano aulico della musica cinquecentesca, così come il mottetto rappresenta quello sacro - si possono riscontrare più o meno le stesse peculiarità formali; ma, soprattutto nei madrigali degli ultimi decenni del ‘500, prevalse la tendenza a diversificare nettamente le sezioni tra loro, e la struttura fonda la sua efficacia sul contrasto delle parti. Questa caratteristica formale fu originata dalla volontà di assecondare con la musica il significato del testo; in seguito, divenne un principio costruttivo eminentemente musicale, tanto da sollecitare i poeti a scrivere testi adeguati a tale progetto (si possono prendere ad esempio i madrigali di Gesualdo da Venosa, benché la loro importanza, del tutto secondaria sul piano della evoluzione del linguaggio musicale tra la fine del XVI secolo e l’inizio di quello successivo, sia stata enfatizzata oltre misura dalla storia della musica).

C’è un elemento tecnico del madrigale romano della fine del ‘500 che vale la pena di mettere in rilievo, per il seguito che avrà nella evoluzione della scrittura polifonica (si deve tener presente che la scuola romana del tempo di Palestrina e dei suoi successori ebbe un rilievo si assoluta importanza allora e che lo stesso rilievo, forse accresciuto, ha mantenuto nelle epoche successive, fino a tutto l’Ottocento); ne vediamo subito un esempio tratto da un madrigale a 4 voci di Luca Marenzio (musicista non romano di nascita, ma attivo a Roma per una buona parte della sua vita):

L.Marenzio, Sul carro della mente, madrigale (parte)

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Come si vede, qui entrano insieme due voci, e, quel che più conta, non cantano la stesso soggetto melodico; ne propongono quindi due, l’uno assolutamente diverso dall’altro. Vediamo un altro esempio, questa volta preso da un madrigale di Ruggero Giovannelli, altro musicista romano attivo a cavallo tra Cinque e Seicento (nel sistema dell’esempio che segue le voci, dal basso verso l’alto sono quelle di Basso, Tenore, Alto, Soprano secondo, Soprano primo):

R.Giovannelli, Ridono l’erbe e i fiori, madrigale (parte)

Anche in questo caso le voci entrano due a due (si guardi la prima entrata in coppia del soprano e dell’alto), su soggetti melodici diversi e sovrapposti l’uno sull’altro. Due casi simili, quindi, in cui è del tutto lecito parlare di anticipazione della esposizione con soggetto e controsoggetto, frequente, benché non necessaria, nella fuga. Nel primo caso, quello di Marenzio, è ben presente il principio di complementarietà, ossia di completamento a vicenda dei due soggetti, che si integrano, infatti, sul piano ritmico-melodico. Nel madrigale di Anerio soggetto e controsoggetto presentano un’altra caratteristica che si ritroverà nella fuga, ovvero la loro composizione in contrappunto doppio: soggetto e controsoggetto possono presentarsi invariabilmente sia come voce superiore che come voce inferiore, senza che da ciò derivi alcun tipo di errore sul piano armonico o contrappuntistico.

Il gusto per l’artificio e per il gioco sottile dell’intelletto era conosciuto e apprezzato in epoca rinascimentale; il più delle volte, esso, tuttavia, non si applica direttamente sulle strutture della musica, bensì, nella ricerca di una connessione di senso con la parola, una connessione spesso simbolica, che non traduce direttamente il senso affettivo di essa. Col termine madrigalismo si indica, appunto, questo modo di rappresentare in musica il contenuto di senso e simbolico del testo poetico.

2. Il ricercare e altre forme strumentali affini Benché durante il Rinascimento la scrittura polifonica costituisse la normalità nel comporre musica, come si è detto, non è in quest’epoca che il pensiero ami spingersi nella applicazione delle più ardite tecniche del contrappunto canonico. Tale attitudine e gusto si incontrerà più facilmente nell’epoca immediatamente successiva, e in una forma musicale strumentale che deriva chiaramente dal mottetto e dalla chanson francese, ovvero il ricercare. Va subito aggiunto che quanto si dirà riguardo il ricercare si può estendere in buona sostanza anche alla canzone strumentale dello stesso periodo; la differenza tra ricercare e canzone strumentale sta nel carattere, che nella seconda è più vivace e marcato ritmicamente; ecco i due incipit di una canzone e di un ricercare, entrambi tratti dai Fiori Musicali di Girolamo Frescobaldi:

canzone:

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ricercare:

Il ricercare si origina spontaneamente, nella prima metà del ‘500, seguendo la prassi assai comune all’epoca - ma sarà comune anche nelle epoche successive e nella nostra stessa - di suonare una composizione vocale su uno strumento polifonico, in grado di mantenere i movimenti delle singole voci: uno strumento a tastiera faceva ottimamente al caso, allora come oggi.

Il ricercare mantiene i caratteri strutturali già evidenziati nel mottetto cinquecentesco (lettere a-d); tuttavia, quando si passò dalla semplice trasposizione di una musica vocale polifonica su uno strumento alla fase successiva, ovvero quando si cominciò a scrivere musica originale per uno strumento polifonico, rifacendosi alla struttura delle forme vocali più comuni, si rese necessario un adattamento del procedimento compositivo.

Proviamo a metterci nei panni di un musicista di allora: cosa teneva in piedi la forma del mottetto?, cosa consentiva ad essa di mantenere la sua unità, pur essendo ottenuta per addizione di sezioni, ognuna col proprio soggetto, l’una diversa dall’altra? La risposta si ottiene provando a togliere le parole e lasciando da sola la musica che era stata originariamente composta su quelle parole; ne viene una forma incerta, non necessaria: per quale motivo le sezioni devono essere quattro (per fare un esempio) e non cinque o sei o molte di più? Nel mottetto, così come nel madrigale, la necessità proviene dal testo: sono le parole che condizionano il numero delle sezioni e dei relativi soggetti e la durata della musica, e così, quando sentiamo i cantori intonare un Ave Maria, non potranno esistere dubbi su quando la musica sarà finita: basterà aspettare l’amen finale.

Il problema del ricercare, quindi, è che non può essere un mottetto: non ci sono le parole, e la struttura, così fatta, non sarebbe potuta stare in piedi. I musicisti risolsero il problema col buon senso, come sempre. Bastarono fondamentalmente tre, semplici accorgimenti:

a.) Il primo passo fu quello di ridurre il numero delle sezioni, radicalmente. I ricercari non si compongono di più di due o tre sezioni (ogni sezione ovviamente con un soggetto nuovo, così come era nel mottetto), e fin dall’inizio, accanto al ricercare costruito tramite l’elaborazione contrappuntistica di più soggetti (ricercare politematico) in altrettante sezioni successive, se ne affianca un altro, in cui si sviluppa un unico soggetto (ricercare monotematico).

b.) Geniale fu l’intuizione che permise di prolungare la storia del ricercare politematico; infatti, si risolse il problema dell’unità della forma attraverso la sovrapposizione dei soggetti; il primo soggetto diventa così il soggetto principale della composizione, e ad esso, man mano che si prosegue, si aggiungono i successivi soggetti delle successive sezioni. È un accorgimento semplice, che nella musica vocale non c’era bisogno (l’unità della forma viene infatti garantita dal testo, come già detto) né possibilità di applicare: la sovrapposizione di soggetti diversi avrebbe prodotto la sovrapposizione di parti di testo diverse, e ciò avrebbe compromesso seriamente la comprensibilità delle parole. In più, dal momento che il soggetto si incarica di interpretare il senso delle parole, ogni sezione di una composizione polifonica vocale si può dire che abbia una sua specificità interna di espressione: la sovrapposizione dei soggetti avrebbe comportato di conseguenza la sovrapposizione di diverse unità espressive, con conseguente perdita di coerenza e chiarezza della forma. Come esempio di ciò che ora s’è detto riguardo al ricercare politematico si può vedere l’Altro Recercar (post il Credo), sempre preso dai Fiori Musicali di Frescobaldi. La prima sezione della musica è costruita elaborando polifonicamente il seguente soggetto:

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PAOLO TEODORI, Fare musica 66

G.Frescobaldi, Altro recercar (post il Credo), dai Fiori Musicali (parte)

1° soggetto, prima sezione:

ecc.

La musica prosegue con un secondo soggetto e poi con un terzo, ognuno dei quali sviluppato in una propria breve sezione; eccoli:

ibidem,

2° soggetto, seconda sezione:

ecc.

ibidem,

3° soggetto, terza sezione:

ecc:

A questo punto, terminata l’elaborazione contrappuntistica anche della terza sezione,

Frescobaldi, chiude con la quarta, che sintetizza le precedenti sovrapponendo in contrappunto tutti e tre i soggetti (nell’esempio che segue sono indicati con le lettere a., b., c.):

ibidem,

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La sovrapposizione dei soggetti, che col ricercare politematico viene praticata normalmente, avvia verso la considerazione di un’unità espressiva dei soggetti musicali, che permette di affiancarne diversi.

c.) La riduzione del numero delle sezioni e la necessità di trovare coerenza nella forma unicamente sulla base di elementi musicali, indusse i musicisti alla intensificazione dello sviluppo in contrappunto della musica. Non è nella musica dei cosiddetti “fiamminghi” che si devono andare a cercare arditezze intellettualistiche e virtuosismi nell’arte del contrappunto; semplicemente perché non faceva parte del gusto del tempo, né la musica vocale aveva alcun bisogno di ricorrere ad essi. È nei compositori soprattutto italiani (valgano per tutti i nomi di un Giovanni Gabrieli e di Girolamo Frescobaldi) attivi a cavallo tra XVI e XVII secolo che troveremo tutto ciò, giustificato dalla necessità di potenziare strutturalmente una forma musicale strumentale che non poteva fondare la propria coerenza strutturale sul testo verbale (varrà la pena di ricordare che la musica strumentale, come forma di espressione musicale autonoma, cominciò a svilupparsi pienamente proprio in questo periodo). È dunque nei ricercari e nelle forme musicali strumentali affini ad essi (la canzone strumentale o la fantasia) che si troveranno applicate per la prima volta costantemente nella storia della musica quelle forme elaborazione contrappuntistica, come l’aumentazione, la diminuzione e le altre tecniche che si sono descritte più sopra.

3. La fuga N.B. Per necessità di sintesi qui ci si occuperà solo della fuga come essa fu coltivata tra la fine del XVII secolo e la metà del secolo successivo.

Al culmine del percorso di sviluppo delle tecniche del contrappunto - di cui qui si è seguito fin qui solo un aspetto - si trova la fuga, così come essa venne praticata e interpretata tra gli ultimi decenni del ‘600 e la prima metà del secolo successivo. Proprio per essere luogo di sintesi e compimento di un percorso di tale importanza, la teoria musicale del XIX secolo e in parte anche del XX, ha caricato la fuga di valori formali che non la rappresentano, fissandola entro schemi strutturali assolutamente inadeguati, fuorvianti per una sua corretta e credibile interpretazione. La fuga fu largamente coltivata dagli autori attivi tra gli ultimi decenni del XVII secolo e la metà del secolo successivo; chi più chi meno, i musicisti di allora, tutti, coltivarono la forma della fuga.

Il compito di una teoria, che voglia applicarsi allo studio di fenomeni storici, non è quello di elaborare teorie astratte della forma entro cui calare i diversi oggetti che nel tempo si producono, ma quello di ricostruire le ragioni degli oggetti stessi, partendo dalle condizioni e dalla esperienze di chi li impiegò.

Ogni sintesi implica il fatto che gli oggetti concreti cui ci si riferisce siano in qualche misura eccedenti rispetto alla sintesi stessa. Ma il problema del modello formale di fuga proposto in epoca romantica sta nel fatto che la sintesi è stata effettuata a partire da un concetto di forma assolutamente estraneo alla fuga del periodo barocco. È vero, in altre parole, che quando si tenta di sintetizzare gli elementi spesso contrastanti dell’esperienza è necessario stabilire un punto di convergenza che taglia fuori le caratteristiche singolari di ogni oggetto, ma è pur vero che, nel caso della fuga, la sintesi è stata operata sulla base di elementi e concetti aprioristici che non fecero mai parte di alcuna musica chiamata fuga nel periodo conclusivo del Barocco musicale. E’ come voler descrivere il modello ideale di una carrozza a cavalli partendo dal modello del cucchiaio: non è solo la forma che è diversa, è proprio che serve a un’altra cosa.

La teoria della musica, proprio per questo, ha considerato la fuga sotto due aspetti, mettendo da una parte quella cosiddetta “d’arte”, e dall’altra la fuga “di scuola”. L’importante è sapere che la seconda non ha nulla a che fare con la prima. Qui, naturalmente, non si prenderà in considerazione se non in un secondo tempo e marginalmente la fuga di scuola: se non altro perché essa tradisce, come vedremo, il senso stesso della composizione contrappuntistica della fuga d’arte.

Se si vuol capire come è fatta e come si fa una fuga, non si deve partire dal modello della fuga di scuola, ma dal ricercare. Facciamo così, pensiamo che la fuga sia un ricercare, e che del ricercare

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rispecchi la fase evolutiva avanzata. Partiamo, dunque, da alcune considerazioni di carattere storico:

a. Il termine “fuga” si presenta assai presto nella storia della musica, e, fin dalla prima metà del XIV secolo, esso fu impiegato dai teorici della musica (Jacopo di Liegi il primo, poi Tinctoris e via via moltissimi altri) come sinonimo di imitazione; sicché, fino al ‘600 dire che una musica è “piena di fughe”, vale dire che essa è piena di imitazioni, ovvero, che essa è scritta in stile imitato.

b. I termini con cui si indicano le musiche all’inizio del ‘600 sono derivati dall’uso che di esse si faceva o dal loro stile, da ciò che, in altre parole, le distingueva di fatto dalle altre musiche: una musica “sonata” è una musica che si suona, e non si canta; una musica concertata è una musica in cui si concertano solisti e gruppi di strumenti o voci; un ricercare è una musica in cui si ricerca, si cerca di estrarre tutto quel che si può dal soggetto o dai soggetti tramite le tecniche del contrappunto, e la cosa deve esser fatta con arte e fantasia (di qui l’uso del termine “fantasia” in luogo di “ricercare” in molte composizioni di questo periodo, ma i due termini hanno sostanzialmente uno stesso significato); una fuga è una musica piena di fughe, di imitazioni, una musica elaborata con fantasia, con ingegno: è fondamentale possedere le tecniche, artigianalmente15.

c. Per questo, i termini “ricercare” e “fuga” possono essere usati l’uno in luogo dell’altro all’inizio Seicento (tant’è, che il termine fuga viene usato per intitolare alcune composizioni polifoniche che hanno tutto l’aspetto di ricercari proprio all’inizio del XVII secolo da Giovanni Gabrieli); il secondo dei due termini prevale man mano che passa il tempo e che lo stile della musica asseconda i cambiamenti che avvengono nella grammatica della musica stessa. Alla fine, si userà quasi solamente il termine fuga, quando nel linguaggio della musica occidentale sarà accolta ovunque l’interpretazione tonale della modalità.

Ecco dunque le caratteristiche della fuga:

a. Musica di genere vocale, strumentale o misto;

b. Stile polifonico

c. Scrittura in contrappunto imitato.

d. Forma aperta

Ed ecco qui di seguito le parti di cui si compone.

3.1. L’esposizione Nella esposizione viene appunto esposto tutto il materiale che il compositore si mette a disposizione per la successiva elaborazione contrappuntistica della fuga; è qui, nella esposizione, che si dovranno cercare quindi tutte le parti fisse, ovvero quelle parti tematiche che costituiscono il materiale di base (come dire gli ingredienti di base) della fuga.

3.1.1. Le parti fisse necessarie L’unica parte fissa che non può mai mancare in ogni fuga è il soggetto. Il soggetto viene esposto alternatamente, o in diverse combinazioni man mano che entrano le voci, come soggetto e come risposta; la risposta è la trasposizione del soggetto stesso sulla Dominante, V grado della scala. Come ripeto, la presenza del soggetto e della risposta è uno dei pochissimi elementi ricorrenti necessariamente in ogni fuga.

15 Mettersi a comporre fughe “in stile bachiano”, come si fa certe volte nei nostri conservatori, senza conoscere davvero il contrappunto o applicandone una versione, per così dire, “montessori”, non ha senso: i risultati non sono fughe né scolastiche né di altro tipo.

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Le voci entrano in successione, l’una dopo l’altra; la risposta, quindi, entra solo quando è terminato il soggetto; all’interno dell’esposizione soggetto e risposta non si sovrappongono; al massimo, può essere sovrapposta l’ultima nota del soggetto con la prima nota della risposta.

A seconda di come si presenta, si può avere una

a. risposta reale, quando la risposta è identica al soggetto stesso, trasportato sul V grado, e senza che nessuno degli intervalli melodici sia alterato;

b. risposta tonale è quella in cui alcuni intervalli melodici vengono alterati rispetto al soggetto. Le alterazioni degli intervalli, le mutazioni, più propriamente, dipendono dalla inversione dei rapporti tra Tonica e Dominante, e rimanda alla centralità, nella fuga, delle funzioni tonali dell’armonia. La regola può essere così esposta: quando nella testa del tema c’è una immediata successione di gradi che rappresentano la Tonica e la Dominante, tali gradi nella risposta vengono invertiti (tutto ciò che nel soggetto si presenta come successione di Tonica/Dominante, nella risposta diventerà quindi Dominante/Tonica). Non è un meccanismo difficile; basta considerare che i gradi che rappresentano la Tonica sono il I e il III, mentre quelli che rappresentano la Dominante sono il V e il VII:

Tonica Dominante I - III V - VII

Nella risposta alla Tonica corrisponde la Dominante in questo modo:

I / V e reciprocamente: V / I

III / VII e reciprocamente VII / III

Soggetto Risposta Soggetto Risposta

I V III V I VII I VII I V V III V I

Oltre la centralità delle funzioni opposte della Tonica e della Dominante, c’è un altro fatto che spinge a mutare gli intervalli della risposta, ovvero la necessità di mantenere la tonalità quanto più vicina a quella iniziale, senza allontanarsi con modulazioni verso quelli che noi chiameremmo i “toni lontani” (sono vicine le tonalità che presentano al massimo un diesis o un bemolle in più rispetto alla tonalità di partenza; rispetto a Do magg. Le uniche tonalità vicine sono La min., Sol magg. con Mi min. e Fa magg. con Re min.); tale esigenza di aderenza alla tonalità di impianto, con la limitazione delle modulazioni alle sole tonalità vicine, viene confermata lungo tutto lo sviluppo della fuga ed è una caratteristica dello stile musicale barocco in generale. Ora, facciamo il caso che la testa del soggetto di una fuga in Do magg. moduli per un attimo alla Dominante: ecco quel che succederebbe a rispondere trasportando fedelmente tutto sul tono della Dominante e quel che effettivamente si fa nella normalità dei casi mutando gli intervalli come sopra descritto: Soggetto Risposta senza mutazioni Risposta con mutazioni

Si vede bene che la risposta senza mutazioni produce una modulazione al tono di Re magg. che è incompatibile con il criterio di aderenza alla tonalità di impianto.

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In realtà questa delle mutazioni non è una regola con valore assoluto (ma ce n’è una che abbia valore assoluto nella musica come in qualsiasi altro linguaggio?); così, a volte il compositore sceglie una soluzione diversa da quella più normale perché dà una resa musicale migliore.

3.1.2. Parti fisse non necessarie In alcuni casi, il materiale tematico della fuga viene arricchito da un contrappunto del soggetto, che viene assunto come elemento ulteriore da elaborare nel corso della fuga: è il controsoggetto, e si tratta quindi di una parte fissa, come il soggetto. Il controsoggetto non è necessario nella costruzione di una fuga, e, nelle stesse fughe di Bach, compare in un numero ridotto di casi. È scritto in contrappunto doppio rispetto al soggetto stesso; in modo da poter disporre liberamente l’uno sopra o sotto l’altro:

Controsoggetto Soggetto

Soggetto Controsoggetto

Del tutto ininfluenti sono i casi in cui nell’esposizione si presenta un numero maggiore di controsoggetti (in questi casi rarissimi si dirà che la fuga è a due/tre/ecc. controsoggetti) Alcuni teorici introducono a volte un’altra parte fissa, che servirebbe da collegamento tra la fine del soggetto e l’inizio del controsoggetto in una stessa parte; tale ulteriore parte fissa sarebbe la coda. Viene per solito portato ad esempio quello della Fuga in Do minore del primo volume del Clavicembalo Ben temperato di Bach:

J.S.Bach, Fuga in Do minore, dal Clavicembalo ben temperato, primo volume (parte)

Come ben si vede, è accettabile parlare di coda per quel frammento discendente alla terza battuta, subito dopo il soggetto e prima del controsoggetto nella parte grave; ma lo stesso frammento si presenta subito più sotto, a battuta 7, e qui davvero non si capisce perché dovrebbe essere una

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“coda del soggetto” dal momento che nella stessa parte, prima di quel frammento, non c’è alcun soggetto.

Il fatto è che la teoria, a volte, vuol capire ancora più di quelli che le cose le fanno. Se i termini devono aiutare a rappresentare sinteticamente le strutture e il pensiero del compositore, non c’è dubbio che, a parlare di coda, con riferimento alla fuga d’arte, si faccia più confusione che altro: la coda è una parte integrante del controsoggetto, e come tale, ovvero come controsoggetto, deve essere considerata. In ogni caso l’analisi rappresenta una interpretazione della musica: non vale la pena di irrigidirsi su termini che rappresentano comunque punti di vista più o meno validi.

3.1.3. Le parti libere Nell’analisi dell’esposizione della fuga è quindi necessario distinguere le parti fisse (soggetto, controsoggetto, se si vuole la coda) dalle parti libere; queste seconde si distinguono dalle prime perché non tornano mai uguali all’interno dell’esposizione. Esse, in ogni caso, sono derivate sia melodicamente che ritmicamente dalle parti fisse.

L’esposizione di una fuga termina quando tutte le voci in organico sono entrate sul soggetto o sulla risposta.; quindi, con l’ultima nota dell’ultima voce entrata sul soggetto o sulla risposta.

Non è superfluo ripetere che l’esposizione è l’unica parte sempre presente in ogni fuga, e nell’esposizione gli unici elementi necessari sono il soggetto e la risposta.

3.2. Lo sviluppo della fuga Lo sviluppo della fuga inizia appena terminata l’esposizione e viene realizzato nel modo più vario che si possa immaginare, facendo riferimento comunque solo al materiale sentito nell’esposizione. Due sono i modelli di riferimento secondo cui si sviluppa la fuga:

3.2.1. Ripercussioni del soggetto alternate a divertimenti. n questo caso, terminata l’esposizione, si proseguirà riprendendo il soggetto, col suo eventuale controsoggetto, un certo numero di volte (il numero non è determinato in alcun modo) in tonalità vicine a quella di impianto o nella stessa tonalità di impianto (neanche è fissata in alcun modo la successione delle tonalità in cui viene riesposto il soggetto; come unico fatto ricorrente c’è la ripercussione del soggetto sul tono relativo minore o maggiore a seconda che la tonalità di impianto sia reciprocamente maggiore o minore). Il passaggio da una rispercussione a quella successiva avviene tramite il divertimento, che ha quindi la duplice funzione di modulare da una tonalità all’altra, introducendo dinamicamente la nuova ripercussione del soggetto, e di interrompere la serie di ripetizioni del soggetto stesso16. Il divertimento è costruito utilizzando frammenti di parti fisse sentite nell’esposizione ed è in progressione ascendete discendente o entrambi le cose a seguire, per rispondere con efficacia alla sua funzione di lanciare la nuova ripercussione del soggetto. Dopo ogni ripercussione il soggetto viene ripreso integralmente; eventuali trasformazioni saranno sempre ottenute sulla base di una regola di tipo matematico (così come le aumentazioni, i rovesciamenti, ecc.); a seconda dei casi, gli autori si consentono una certa elasticità nella applicazione delle regole matematiche di trasformazione del soggetto.

3.2.2. Sviluppo secondo le tecniche del contrappunto imitato canonico In quest’altro caso, finita l’esposizione, il compositore può proseguire riprendendo il soggetto e le altre parti fisse sentite nell’esposizione (ma raramente nelle fughe di questo tipo si presenta un controsoggetto accanto al soggetto), ora nella loro forma originale, ora trasformate per

16 La parola divertimento non è efficacissima in italiano; sarebbe meglio usare la parola diversivo, la cui etimologia, che rimanda al latino de-vertere, ovvero “fare altro” o “allontanarsi da”.

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aumentazione o diminuzione, per moto contrario, ecc. Le ripercussioni del soggetto sono spesso presentate in forma di stretto, ovvero sovrapponendo in canone il soggetto con la risposta:

J.S.Bach, Fuga in Do maggiore, dal primo volume del Clavicembalo Ben temperato (parte):

Quando lo sviluppo della fuga è realizzato in questo modo i divertimenti in genere non compaiono; ma la varietà sarà assicurata alla musica dalle trasformazioni anche ritmiche del soggetto e dagli attraversamenti tonali, anche qui concessi solo verso le tonalità vicine.

3.3. Il pedale

Il pedale non è un elemento caratteristico della fuga; in tutta la musica del periodo barocco, come in quella delle epoche successive è una delle tecniche più comuni in ogni stile e genere musicale. Nella fuga il pedale si può presentare come pedale di Dominante o come pedale di Tonica; il pedale di Dominante è impiegato per ricondurre il piano armonico verso la tonalità di impianto al termine di uno sviluppo che abbia spostato il discorso musicale verso tonalità diverse; il pedale di Tonica ha la funzione di confermare definitivamente la tonalità alla fine della musica. A seconda del tipo di sviluppo con cui è stata costruita la fuga, sul pedale il compositore potrà ripercuotere ancora un volta il Soggetto, così come potrà costruire un divertimento.

Sia il pedale di Dominante che quello di Tonica non sono necessari alla forma della fuga, né si devono considerare eccezioni quelle fughe in cui non compare alcuno dei due. (N.B. Alcuni esempi di pedale all’interno della fuga sono riportati sotto; cfr. paragrafo “Individuazione di eventuali pedali di Dominante o Tonica”).

3.4. Alcune considerazioni finali sulla “forma” della fuga La fuga è una forma del tutto libera, tanto libera da non adattarsi neanche al concetto classico di forma musicale. iù se ne osservano, più ci si convincerà dell’impossibilità di trovare un qualsiasi schema formale che sia in grado di rappresentarle, pur con le dovute eccezioni. Scrivere una fuga non è come scrivere una canzone di Sanremo o come scrivere un’”aria col da capo”, rimanendo all’epoca in cui la fuga d’arte fu coltivata; non è nemmeno come scrivere una sonata. Una sonata, così come la canzone di Sanremo, o l’aria col da capo, sin riferiscono a uno schema formale che inquadra il lavoro del compositore e lo dispone già dall’inizio, quale che sia il contenuto espressivo della musica che si vuole realizzare, ad articolare il discorso in parti che hanno a priori una funzione l’una rispetto all’altra (si pensi alla strofa e al ritornello della canzone di Sanremo, appunto).

La forma della fuga sfugge a questo concetto di schema formale: la fuga d’arte (poi si dirà di quella di scuola) non ha uno schema, mai; per questo, a ben vedere, la fuga non deve né può essere considerata una forma, ma un procedimento compositivo. E questo semplicemente perché ciò che caratterizza la fuga nel fondo è un elemento che si contrappone con decisione a qualsiasi schematizzazione: ovvero la fantasia. Imporre uno schema alla fuga vuol dire quindi non fare una fuga, ma qualcosa di molto diverso.

Non per questo il lavoro del compositore procede casualmente o inventando faticosamente passo dopo passo, nota dopo nota. Diciamo che, al posto dello schema formale, sono noti gli ingredienti del composto e i modi in cui questi possono essere combinati: sono note le parti fisse e le tecniche del contrappunto con cui elaborarle secondo la prassi imitativa; sono noti inoltre i modi con cui ottenere momenti di tensione e di distensione, e come, attraverso il gioco delle modulazioni,

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ottenere la varietà nel procedere della musica. Ma certo, tutte queste cose non dicono nulla della forma finale che avrà la fuga.

C’è una ragione per cui ogni fuga è diversa dall’altra: e sta nel fatto che, se il musicista conosce l’arte di comporre una fuga, ogni fuga dipende, nel suo possibile sviluppo, dalla natura del soggetto e da quel che l’autore decide di fare di quel soggetto. Se Bach costruisce la prima Fuga in Do magg. del Clavicembalo Bentemperato solo sovrapponendo le continue ripercussioni del Soggetto in ogni forma di stretto che esso consente; se Bach costruisce la seconda fuga dello stesso libro, la Fuga in Do minore, esattamente al contrario, senza alcuno stretto e solo con poche ripercussioni alternate a divertimenti efficacissimi sul piano musicale, se Bach, dunque, compone queste due fughe in modo tanto diverso da non poter nemmeno pensare di sintetizzarle in un unico schema, è perché i due soggetti hanno peculiarità assolutamente diverse sul piano contrappuntistico. Il primo, quello della fuga in Do magg. fu scritto sicuramente apposta per realizzare gli stretti; il secondo, quello della fuga in Do min. non si presta in alcun modo a realizzare stretti di alcun tipo.

La fuga rappresenta mirabilmente un certo gusto barocco di far musica e arte in genere: partire da nulla (il soggetto più inerte musicalmente è un buon punto di partenza) per edificare il discorso musicale nel modo più stupefacente e inaspettato, facendo leva sulle armi che la retorica, come arte della costruzione del discorso, mette a disposizione del compositore.

Il tema di una sonata romantica chiude in sé, sinteticamente il senso della sonata intera; un soggetto non chiude in sé nulla, è argilla, materia grezza, in grado di assumere qualsiasi senso il musicista sia in grado di immaginare per essa. Giudicare una fuga dal suo soggetto è improprio; un giudizio su una fuga si può dare solo quando si è arrivati alla battuta finale e anche l’ultima ripercussione o trasformazione del soggetto sia stata ascoltata.

3.4.1. La fuga di scuola C’è poi la questione della fuga di scuola, ed è questione dolorosa. Chiusa l’epopea del barocco musicale, che proprio nella fuga aveva trovato una delle forme di espressione più appropriate e importanti, si continuò a impiegare questa forma come palestra per lo studio del contrappunto. Dalla fine del XVIII secolo a buona parte del XX sono proliferati così i trattati di fuga e contrappunto che, sotto l’influsso del formalismo e per raggiungere fini pratici comprensibilissimi, hanno chiuso la fuga stessa in uno schema formale più o meno fisso: ciò contraddice senza possibilità di recupero la natura stessa della forma, basata, come s’è visto, sull’invenzione di fantasia.

Perché proprio il compito essenziale e preliminare che il musicista ha nel comporre una fuga è quello di inventare una forma adeguata alle possibilità di sviluppo contrappuntistico di quel soggetto; e scrivere un libro per fissare uno schema di fuga non ha senso, da questo punto di vista, perché è chiaro che alla fine sfuggirà della fuga, inevitabilmente, il suo tratto caratterizzante. Sarebbe come voler parlare delle esplorazioni del Nuovo Mondo descrivendo come s’ha da fare un viaggio con la carrozza a cavalli.

In questi trattati (uno vale l’altro, e quasi tutti si copiano a vicenda) la fuga diventa una forma tripartita, rispondendo quindi non casualmente allo schema preferito dal gusto musicale romantico. Una forma tripartita chiusa, per giunta, che si apre con l’esposizione (chiameremo questa prima parte A), per proseguire con lo sviluppo effettuato con ripercussioni e divertimenti (B, è la seconda parte), e concludere con la ripresa (A¹) in cui il soggetto e la risposta sono riesposti in forma di stretto17. Ulteriori sclerotizzazioni della forma hanno indotto a determinare addirittura la successione delle tonalità nella parte B e a fissare la presenza di un pedale di dominante prima degli stretti e del pedale di Tonica alla fine della fuga. Non c’è da scherzare: provate a fare un esame di composizione in Conservatorio proponendo una fuga che non sia inquadrata in questo modo e state a vedere come va a finire. Per altro, ma siamo al delirio, alcuni si sono presi cura di

17 I formalisti dell’inizio del XIX secolo e più in generale i musicisti stessi di quel periodo ebbero cara in modo particolare la forma chiusa A – B – A; essa, infatti, realizzava l’ideale di perfezione, di unità ed equilibrio formali richiesti alla forma della musica e dell’arte in genere.

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indicare quali siano i frammenti del soggetto e del controsoggetto (a proposito, una fuga di scuola deve avere il controsoggetto per obbligo!) adatti per costruire i diversi divertimenti.

La scuola ha le sue necessità; su questo siamo d’accordo. Ma perché anche nelle enciclopedie più accreditate, nei libri e libretti di storia della musica e nei libri e libretti di analisi musicale si continua a proporre il modello della fuga scolastica come modello sintetico per descrivere la forma della fuga d’arte? Facendo questo, il risultato è certo: andando a guardare tra le fughe di Haendel, di Scarlatti, di Bach e degli altri non si può che nutrire il sospetto fondato che i musicisti non sapessero far altro che eccezioni. Schema sintetico della forma di fuga scolastica

A. Esposizione:

(il soggetto è segnato ________; la coda: ^^^^ ; il controsoggetto: - - - - - -; la parte libera: . . . . . . )

Soprano: Soggetto (coda) controsoggetto parte libera

___________ ^^^^^ - - - - - - - - - - - - - - - . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Contralto: Risposta (coda) controsoggetto parte libera

_____________ ^^^^^ - - - - - - - - - - - - . . . . . . .

Tenore: soggetto (coda) controsoggetto

______________ ^^^^^ - - - - - - -

Basso: Risposta

_____________

B. Sviluppo; costituito di divertimenti alternati a ripercussioni del Soggetto e della risposta (le ripercussioni che non dovrebbero mai mancare sono quelle al relativo minore e alla Sottodominante; lo sviluppo della fuga dovrebbe terminare sul pedale di Dominante della tonalità di impianto;

C. (o anche A1) Stretti, conclusi dal pedale di Tonica

L’ingresso delle voci qui è stato a scalare, dalla voce più acuta a quella più grave; si possono immaginare e trovare con altrettanta frequenza anche altri tipi di esposizione, in cui le voci entrano secondo un diverso ordine; in ogni caso, le prime due voci devono essere contigue per estensione (non può entrare il Basso dopo il Soprano, per intenderci).

4. Come si analizza una fuga 4.1. Individuazione dell’organico e della tonalità Inizialmente si deve individuare la tonalità di impianto e il numero delle voci in organico (la prima indicazione potrà essere dunque: questa è una fuga in Do maggiore a 4 voci). Si faccia attenzione al caso assai frequente in cui una musica composta in una tonalità minore finisca con la terza dell’accordo di Tonica maggiore: resta che la tonalità di impianto è di modo minore, come nel caso che segue, della Fuga in Do diesis minore del secondo volume del Clavicembalo Bentemperato:

J.S.Bach, Fuga in Do diesis minore, dal secondo volume del Clavicembalo ben temperato (parte)

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Per quel che riguarda il numero delle voci, il più delle volte è indicato dall’autore stesso. Quando ciò non accade, si devono contare le entrate e il numero di voci sovrapposte una sull’altra nella esposizione della fuga.

Non è raro che si aumenti il numero delle voci per conferire una maggiore pienezza di suono all’accordo di Tonica finale; né è raro il raddoppio all’8ª di una parte, soprattutto nelle fughe del periodo romantico o in talune revisioni di quelle barocche in momenti particolarmente significativi e intensi della composizione. Può inoltre verificarsi il caso che nell’intera parte conclusiva di una fuga, il musicista voglia aggiungere una parte, oltre quelle impiegate in tutto lo sviluppo precedente della composizione, per raggiungere un effetto di maggiore ricchezza di suono; ecco il caso della Fuga in La bemolle maggiore sempre del secondo volume del Clavicembalo Bentemperato di Bach, che per le ultime due battute diventa fuga a 5 voci:

J.S.Bach, Fuga in La bemolle maggiore, dal secondo volume del Clavicembalo ben temperato (parte)

4.2. Individuazione del soggetto Si può creare qualche problema per la individuazione dell’ultima nota del soggetto. In ogni caso, come confine massimo, c’è l’inizio della risposta: un soggetto non può mai andare oltre l’inizio della risposta18; al massimo l’ultima nota del soggetto e la prima nota della risposta possono coincidere e sovrapporsi una sull’altra. È quel che avviene in questa fuga di Bach, di cui qui, per comodità, si riprende per intero l’esposizione:

J.S.Bach, Fuga in Sol minore, dal primo libro del Clavicembalo ben temperato (parte)

18 Questo è un elemento che distingue decisamente la fuga nel suo periodo aureo, a cavallo tra XVII e XVIII secolo dal ricercare, nel quale, come si è visto, il Soggetto e la risposta, analogamente a quanto avveniva nel mottetto, possono essere tranquillamente sovrapposti; anzi, nella maggior parte dei casi lo sono.

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Per maggiore comodità di lettura ecco qui di seguito il soggetto e la risposta riportati isolatamente:

E’ così chiaramente visibile che alla battuta 5 Bach sovrappone la fine del soggetto con l’inizio della risposta; lo stesso fa più avanti a battuta 9, dove si sovrappongono l’ultima nota della risposta con la prima del nuovo soggetto e ancora oltre, a battuta 13, con questo soggetto e l’ultima risposta.

Quando l’entrata della risposta non si sovrappone all’uscita del soggetto si può determinare con esattezza l’estensione di quest’ultimo facendo bene attenzione alle diverse ripercussioni di esso, già all’interno dell’esposizione, e, se dovessero ancora permanere dei dubbi, anche nelle successive riprese del soggetto lungo lo sviluppo della fuga.

Due regole sono sufficienti a chiarire ogni cosa:

a. il soggetto termina necessariamente sui gradi fondamentali della scala, quelli che rappresentano la Tonica, ovvero il I/III, o quelli che rappresentano la Dominante, il V/VII19 (se una fuga è nella tonalità di Do maggiore, per conseguenza, il soggetto potrà terminare solo su queste note: Do / Mi / Sol / Si);

b. la seconda regola fa riferimento al fatto che il soggetto è una parte fissa della fuga: ogni sua ripresa è in genere completa e andranno quindi scartate tutte quelle note che nelle ripercussioni si presentano diversamente nei diversi casi.

Facciamo un esempio aiutandoci con l’esposizione della di Bach:

J.S.Bach, Fuga in Fa # min., dal secondo libro del Clavicembalo ben temperato (parte)

Ecco qui riprese le entrate successive 3 voci sul soggetto, sulla risposta e sul nuovo soggetto:

19 Anche nella prassi del basso continuo dell’epoca il I rappresenta la fondamentale dell’accordo di Tonica, il III è la 3ª dello stesso accordo, mentre il V e il VII sono rispettivamente la fondamentale e la 3ª dell’accordo di Dominante.

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PAOLO TEODORI, Fare musica 77

I

V

I

Tra parentesi, come si vede, sono messi i prolungamenti del soggetto e della risposta, che, essendo diversi l’uno dall’altro, non fanno parte del soggetto né della risposta.

4.3. Risposta tonale/risposta reale Determinare se la risposta sia tonale o reale è molto semplice: la risposta è reale solo quando assolutamente identica al soggetto, quando cioè tutti gli intervalli melodici sono esattamente corrispondenti. Nelle due esposizioni che sono qui sopra riportate delle fughe in Sol minore e Fa diesis minore del secondo volume del Clavicembalo ben temperato la risposta è sempre tonale; nella Fuga in Mi maggiore della stessa raccolta la risposta è reale:

J.S.Bach, Fuga in Mi maggiore, dal secondo libro del Clavicembalo ben temperato (parte)

4.4. Individuazione dell’eventuale controsoggetto Nella maggior parte delle fughe del periodo aureo della fuga stessa – quindi anche nelle fughe dello stesso J.S.Bach - il controsoggetto non c’è. Nelle fughe in cui esso è presente si individua facilmente, proprio per il fatto di essere una parte fissa, sempre uguale ogni volta che si ripresenta assieme al soggetto o alla risposta.

C’è un controsoggetto nella Fuga in Sol minore, di cui sopra è stata riportata per intero l’esposizione; eccolo qui ripreso con maggior chiarezza visiva, disposto sotto al soggetto:

J.S.Bach, Fuga in Sol minore, dal primo volume del Clavicembalo ben temperato

Ecco lo stesso controsoggetto sotto la risposta (si chiama controsoggetto anche il contrappunto della risposta). Naturalmente, alle variazioni di intervalli presenti nella risposta (risposta tonale), corrispondono le necessarie variazioni di intervalli nello stesso controsoggetto, che infatti inizia con

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un salto di 3ª anziché di 2ª; come si vede, il controsoggetto è scritto in contrappunto doppio, e può essere disposto con uguale efficacia e correttezza contrappuntistica sia sopra che sotto il soggetto:

La Fuga in Fa diesis minore a 3 voci, di cui si è riportata l’intera esposizione, non presenta controsoggetto; è facile costatare infatti che le parti contrappuntistiche disposte sopra o sotto il soggetto e la risposta sono sempre diverse. Come si è detto, la coda sarebbe, secondo alcuni teorici, il frammento che collega la fine del soggetto con l’inizio del controsoggetto nella stessa voce.

4.5. Individuazione della fine dell’esposizione La fine dell’esposizione della fuga coincide con la fine dell’ultimo soggetto o dell’ultima risposta; ciò dipende ovviamente dal numero delle voci in organico. Molti manuali di fuga e contrappunto (naturalmente manuali che descrivono la fuga di scuola) propongono il modello di successione soggetto/risposta – soggetto/risposta (analogo a quello che si è visto per la Fuga in Sol minore del secondo libro del Cavicembalo ben temperato di Bach sopra riportato come esempio) come il modello tipo, cui si farebbe riferimento anche nel caso di organici inferiori: non è vero per quel che riguarda la fuga d’arte. Quando la fuga è a 3 voci, l’esposizione non ha più che le 3 entrate sul soggetto e sulla risposta delle tre voci in organico, esattamente come avviene nella Fuga in Fa diesis minore della stessa raccolta di Bach, riportata proprio qui sopra come esempio.

Avviene frequentemente che subito dopo le prime due entrate sul soggetto e sulla risposta, il compositore introduca un divertimento, prima di tornare a riproporre il nuovo soggetto e la nuova risposta; così avviene per esempio nell’esposizione della Fuga in fa diesis minore sopra portata come esempio alle battuta 7-8 (si vede bene che sul battere della battuta 7 termina la risposta nella voce superiore, e si deve aspettare l’ultima croma della battuta successiva per l’entrata del soggetto nella voce grave, con cui termina l’esposizione).

4.6. Ripercussioni del soggetto e divertimenti nello sviluppo della fuga Lo sviluppo della fuga non segue, come già detto, uno schema rigoroso. Il compositore prosegue utilizzando tutto il materiale che ha introdotto nell’esposizione, disegnando il lungo arco dinamico che porterà alla conclusione della composizione. Contribuisce alla delineazione dell’arco dinamico l’attraversamento delle tonalità vicine a quella di impianto, su cui il compositore riprenderà di volta in volta il soggetto (ripercussioni del soggetto) col suo eventuale controsoggetto: ma non esiste un giro di tonalità prestabilito, né è prescritto il numero di queste tonalità; è possibile anche solo che il soggetto sia ripercosso sulla tonalità relativa (magg. o min. a seconda di come è quella d’impianto), sulla stessa tonalità di impianto o sulla Dominante: nessuno avrà nulla da ridire.

Lo sviluppo della fuga non segue, come già detto, uno schema rigoroso. Il compositore prosegue utilizzando tutto il materiale che ha introdotto nell’esposizione, disegnando il lungo arco dinamico che porterà alla conclusione della composizione. Contribuisce alla delineazione dell’arco dinamico l’attraversamento delle tonalità vicine a quella di impianto, su cui il compositore riprenderà di volta in volta il soggetto (ripercussioni del soggetto) col suo eventuale controsoggetto: ma non esiste un giro di tonalità prestabilito, né è prescritto il numero di queste tonalità; è possibile anche solo che il soggetto sia ripercosso sulla tonalità relativa (magg. o min. a seconda di come è quella d’impianto), sulla stessa tonalità di impianto o sulla Dominante: nessuno avrà nulla da ridire.

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Tecnicamente, e solo dal punto di vista della struttura generale della musica, l’analisi dello sviluppo di una fuga si può sintetizzare nelle fasi che saranno descritte qui di seguito.

4.6.1. Individuazione di ogni ripercussione del soggetto

Si deve individuare ogni ritorno del Soggetto, dunque, e la tonalità in cui avviene la ripercussione (n.b.: il soggetto, per essere tale, deve essere ripreso nella sua interezza, pur con piccole variazioni); l’esperienza aiuta nell’intuire quali siano quelle fughe nelle quali il musicista non fa uso di meccanismi contrappuntistici complicati e quali invece le fughe in cui tali meccanismi siano il fulcro dell’elaborazione del contrappunto; inizialmente, per aiutarsi, non è male appuntare su carta quali siano le possibili trasformazioni cui si può sottoporre il soggetto: il soggetto per aumentazione e diminuzione, il soggetto per moto contrario, lo stesso soggetto per moto contrario aumentato e diminuito, il cancrizzante: sarà più facile individuare le ripercussione del soggetto così trasformato nel corso dello sviluppo della fuga. Ecco un esempio eloquente, quello della Fuga in Re diesis minore a 3 voci del primo libro del Clavicembalo ben temperato di Bach, di cui qui di seguito riporto il soggetto, la risposta e lo stesso soggetto per moto contrario e aumentato:

J.S.Bach, Fuga in Re # minore, dal primo libro del Clavicembalo ben temperato (parti) Soggetto:

Risposta (Tonale, si noti la mutazione del salto di 5ª iniziale nel salto di 4ª):

Soggetto per moto contrario:

Soggetto per aumentazione (riporto solo l’inizio):

Su queste trasformazioni del soggetto Bach costruisce la fuga, infarcita degli stretti più ingegnosi e fantasiosi, sovrapponendo in continuazione soggetti con risposte, in tutte le forme, sia per moto retto che contrario, sia con i valori originari che aumentati; ecco per esempio uno stretto a 3 voci realizzato sul modello della risposta, come si evince dal salto di 4ª iniziale:

ibidem,

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Ecco ancora uno stretto, realizzato col soggetto per aumentazione e lo stesso soggetto per moto contrario (il soggetto per moto contrario è ripreso solo nella parte iniziale, ma è sufficiente per capire):

ibidem:

La trasformazione seguente, è insolita e consiste nel riprendere il soggetto con ritmo puntato (qui sotto è ripreso il modello così come Bach lo utilizza a battuta 77 della fuga, ma una trasformazione analoga si incontra già a battuta 24):

Ecco come Bach gioca con il soggetto rovesciato sottoposto a questa stessa trasformazione con ritmo puntato, e sovrapposto in stretto allo stesso soggetto per moto contrario (il soggetto per moto contrario e ritmo puntato è al soprano a battuta 47 e segg., mentre il soggetto per moto contrario con ritmo normale è nella stessa battuta, sul 3° tempo della battuta):

ibidem,

In questa fuga, lo stretto è la tecnica su cui si fonda l’elaborazione in contrappunto della musica ed è utilizzata estesamente durante tutto lo sviluppo. Non è raro che accada qualcosa del genere nella musica di Bach e nelle fughe degli altri autori in genere: quando il soggetto si presta, la tecnica dello stretto viene subito impiegata, senza aspettare ulteriori sviluppi della fuga; non si aspetta, dunque, la conclusione della fuga così come prescrive il modello di scuola; per altro, conviene ripetere ancora una volta che gli stretti non sono affatto necessari nella costruzione di una fuga: se un soggetto non si presta – e molto spesso non si presta – gli stretti non si fanno.

Proprio perché il suo soggetto è particolarmente adatto, la prima Fuga in Do maggiore del primo volume del Clavicembalo ben temperato è costruita solo attraverso gli stretti; mancano del tutto i divertimenti:

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PAOLO TEODORI, Fare musica 81

J.S.Bach, Fuga in Do maggiore, dal primo libro del Clavicembalo ben temperato (parte)

4.6.2. Divertimenti L’identificazione dei divertimenti è facile, dacché il divertimento corrisponde a quelle parti della fuga in cui non avviene la ripercussione del soggetto. Naturalmente, non basta una semplice cadenza per avere un divertimento; ecco ancora alcune battute della stessa fuga in Do maggiore di Bach, siamo giusto in prossimità della fine, altre due battuta e la fuga è conclusa; prima dell’ultimo stretto (nell’ultima battuta dell’esempio qui sotto sono indicate con le frecce le entrate) l’Autore imprime afferma definitivamente la tonalità d’impianto, attraverso una cadenza che ha la durata di un’intera battuta; non si tratta ovviamente di un divertimento:

ibidem,

Il divertimento di una fuga ha in genere una durata maggiore, benché il numero delle battute non sia fissato in alcun modo; soprattutto è costruito in progressione e largamente preferito su tutti è il modello di progressione in cui una voce imita se stessa. Guardiamo la Fuga in Do maggiore del secondo volume del Clavicembalo Bentemperato di Bach, di cui questo è il Soggetto:

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PAOLO TEODORI, Fare musica 82

J.S.Bach, Fuga in Do maggiore, dal secondo volume del Clavicembalo ben temperato (parti)

In questa fuga di Bach, dunque, subito dopo l’esposizione si trova un divertimento in progressione ascendente di grado, nella quale il Basso imita se stesso, mentre le due voci superiori si imitano tra loro, in un duetto che ricorda il modo di fare tipico della sonata a 3 sempre del periodo Barocco; si noti che, mentre il motivo del duetto è ripreso dalla testa del soggetto (il motivo è segnato con A nell’esempio che segue), il Basso si muove sulla seconda parte, in semicrome, dello stesso soggetto (la parte è segnata con B); come quasi sempre, la progressione termina con una cadenza, che imbriglia le armonie verso la tonalità in cui avviene la nuova percussione del soggetto (l’entrata è segnata con la freccia nell’esempio, mentre la cadenza è indicata dalla parentesi graffa sotto la battuta; si noterà come Bach, per evitare schematismi troppo prevedibili, concluda la cadenza entrando col Soggetto già all’interno di essa, ovvero sul Re, V grado della scala di Sol):

J.S.Bach, Fuga in Do maggiore, dal secondo volume del Clavicembalo ben temperato (parte)

I divertimenti possono avere anche una durata inferiore a questa; si veda l’esempio qui ripreso dalla Fuga in Do minore a 4 voci dal secondo libro del Clavicembalo ben temperato di Bach (prima del divertimento riporto il soggetto); il divertimento è costruito sulla base di una progressione di quinte discendenti, ben evidente guardando la parte del Basso, mentre il Soprano imita se stesso riprendendo il motivo della seconda metà del soggetto:

Ecco il soggetto della fuga:

Ed ecco il divertimento; segnato con la freccia è l’inizio della ripercussione del soggetto che avviene subito dopo questo stesso divertimento:

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PAOLO TEODORI, Fare musica 83

J.S.Bach, Fuga in Do minore, dal secondo libro del Clavicembalo ben temperato (parte)

4.7. Individuazione di eventuali pedali di Dominante o Tonica

I pedali di Dominante e/o di Tonica possono comparire nello sviluppo della fuga; il pedale di Dominante viene impiegato in genere a ridosso della fine della musica, per ricondurre con decisione e definitivamente le armonie verso la tonalità d’impianto. Il pedale di Tonica precede immediatamente la battuta finale in genere e serve a ribadire conclusivamente la stessa tonalità d’impianto.

Ovviamente, sarà appena il caso di dire che, contrariamente a quanto viene prescritto in molti trattati sulla fuga e altrettanti manuali divulgativi di storia della musica, il pedale di Dominante non precede gli stretti, né sul pedale di Dominante è costruito l’ultimo divertimento: è una cosa che può capitare (peraltro capita raramente), ma ne possono capitare tante altre e sicuramente i musicisti che composero fughe non conoscevano questa regola. In ogni caso, come al solito, non ha alcun senso fare regole sulla base delle eccezioni.

Prendiamo un esempio di pedale di Dominante dalla Fuga in Do minore per organo BWV 537 di Bach; si noterà che sul pedale viene ripreso, come avviene nella stragrande maggioranza dei casi, il soggetto della fuga stessa, che qui, per maggiore comodità di lettura, riporto intanto separatamente:

J.S.Bach, Fuga in Do minore per organo BWV 537 (parte)

Ecco ora il pedale di Dominante, preceduto da un divertimento; sul pedale di Dominante avviene dunque l’ultima ripercussione del soggetto, segnalata nell’esempio con una freccia:

ibidem:

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PAOLO TEODORI, Fare musica 84

Ecco ora un pedale di Tonica; è un pedale complesso e articolato, il Do è prima tenuto nella parte interna, quindi in quella superiore, e infine passa alla parte grave, ma non come nota tenuta, bensì come nota ribattuta per intensificare il ritmo della musica; sul pedale è costruito un lungo divertimento, così come articolati e di proporzioni rilevanti sono tutti i divertimenti di questa fuga; non viene ripreso il soggetto (il pedale è segnato dalla freccia):

J.S.Bach, Fuga in Do maggiore, dal primo libro del Clavicembalo ben temperato (parte)

5. La fuga a più soggetti Tutt’altro che rara è la fuga a più soggetti, che rappresenta l’evoluzione del ricercare politematico. Ve ne sono di due tipi:

a. la fuga inizia con una regolare esposizione del primo soggetto, cui segue uno sviluppo abbastanza articolato, che può presentare diverse ripercussioni del soggetto stesso e alcuni divertimenti. Allo sviluppo del primo soggetto segue l’esposizione del secondo soggetto; tale esposizione manca della rigorosità dell’esposizione del primo soggetto, e le voci possono presentare questo secondo soggetto anche seguendo modelli diversi da quello della opposizione soggetto/risposta, caratteristico della prima esposizione: non c’è una regola fissa, molto dipende dal carattere della fuga stessa. Naturalmente, quanto detto riguardo il secondo soggetto vale anche per un eventuale terzo soggetto. L’unità della forma, così come nel ricercare politematico di cui la fuga a più soggetti è una chiara derivazione, è garantita dalla persistenza del primo soggetto; esso si sovrappone alla esposizione e allo sviluppo contrappuntistico dei successivi soggetti. Può aiutare l’esempio della Fuga in Fa diesis minore del secondo volume del Clavicembalo ben temperato. Riporto qui di seguito i tre soggetti:

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PAOLO TEODORI, Fare musica 85

Ecco ora come i soggetti si sovrappongono nel finale della fuga in un’efficace successione a caduta, dalla voce acuta verso quella grave passando per la media, mentre, nello stesso tempo, si ascoltano in successione i tre soggetti (le entrate di tutti e tre sono indicate dalle frecce):

J.S. Bach, Fuga in Fa diesis minore, dal secondo volume del Clavicembalo ben temperato (parte):

Nella Fuga in Do diesis minore a 5 voci del primo libro del Clavicembalo ben temperato, Bach, dopo aver esposto e sviluppato il primo soggetto, propone in brevissimo spazio gli altri due soggetti su cui proseguirà lo sviluppo della musica; ecco i tre soggetti in ordine:

J.S.Bach, Fuga in Do diesis minore, dal primo libro del Clavicembalo ben temperato (parte)

E’ degno di nota il fatto seguente: la fuga ha una lunghezza complessiva di 115 battute; alla battuta 36 Bach aveva esposto per la prima volta il secondo soggetto nella parte del Soprano, mentre alla battuta 49, e dunque ben prima della metà della musica, si sente per la prima volta il terzo soggetto in una parte interna; ecco come ora, alla battuta 51 e segg., si trovano sovrapposti i tre soggetti:

Ibidem,

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b. C’è anche un’altra possibilità, altrettanto frequente, per dar forma a una fuga a più soggetti, ed è quella di esporli subito assieme dall’inizio, lasciando giusto poche battute o poche note tra l’entrata del primo soggetto e quella del secondo. Ecco i due soggetti della Fuga n. 3 in Si bemolle magg. dalle Sei Grandi Fughe che G.F. Haendel pubblicò nel 1735; di seguito riporto le prime battute della fuga:

G.F.Haendel, Fuga in Si bemolle maggiore, dalle Sei grandi fughe (parte):

Si potrebbe obiettare che il secondo soggetto altro non è in questa veste, se non un controsoggetto del primo. La differenza sta nel fatto che qui il secondo soggetto compare subito, assieme al primo e che non si segue la prassi consueta delle fughe con controsoggetto, dove quest’ultimo viene intonato dalla stessa voce che ha intonato per prima il soggetto, mentre la seconda voce entra sulla risposta. Ma, certo, si deve ammettere che la differenza è più a parole che nei fatti; il secondo soggetto - in una fuga a due soggetti di questo secondo tipo - e il controsoggetto hanno una medesima funzione, che è quella di arricchire il materiale di base per la costruzione della fuga. Dire che questa di Haendel è una fuga a due soggetti o affermare che è una fuga con un soggetto dotato di controsoggetto, la cui entrata è anticipata, è la stessa cosa; e probabilmente Bach ed Haendel si metterebbero a ridere sentendo le nostre dotte disquisizioni su termini che non cambiano la natura delle cose.

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PAOLO TEODORI, Fare musica 87

6. Lo stile fugato Per stile fugato si intende quello che accenna al meccanismo delle entrate a soggetto/risposta delle voci e che sembra far uso della scrittura imitata. Ma, appunto, non si va oltre questo: le entrate successive delle voci su uno stesso soggetto, e l’avvio di una scrittura polifonica; ben presto, tuttavia, il contrappunto lascia il posto a ampi episodi omofonici o accordali. È uno stile musicale che ha incontrato favori grandissimi nella letteratura musicale della prima metà del ‘900; qui di seguito è l’esempio di un coro tratto dal Messia di G.F.Haendel (riporto solo la parte corale e senza parole, per rendere più facile la lettura della musica; si tratta del coro di apertura della seconda parte dell’Oratorio):

G.F.Haendel, Messia, oratorio (parte)

Lo stile fugato è frequente anche, nello stesso periodo di massima fortuna della fuga, in musiche che rispetto a essa hanno una attitudine maggiormente omofonica; qui sotto è riportato, come esempio, l’ultimo tempo della Sonata XII dalle Sonate da chiesa a tre dell’op. 1 di Arcangelo Corelli; l’entrata delle voci sembra annunciare una fuga vera e propria, di cui, tuttavia, non resta che l’esposizione del soggetto nel 1° violino, la risposta alla Dominante nel 2° e il nuovo soggetto nel violoncello; la prosecuzione è tutta omofonica, con la scrittura che lascia emergere di volta in volta uno strumento sugli altri due che fanno da accompagnamento:

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PAOLO TEODORI, Fare musica 88

A.Corelli, Sonata a tre da chiesa, op. 1, n. 12 (parte)

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PAOLO TEODORI, Fare musica 89

II capitolo: la sonata Premessa Diversamente dalla fuga, la sonata non si configura, dall’inizio, con caratteristiche stilistiche e strutturali certe. Da sempre, dalla prima volta che nel medioevo e in lingua provenzale fu usato, il termine “sonata” indica genericamente una musica destinata genericamente a una esecuzione strumentale; nel XVI secolo, tale significato della parola viene confermato, e usato più volte solo per distinguere la musica di genere strumentale da quella vocale20.

Il fatto è che, anche all’inizio e per tutta la prima metà del XVII secolo, la sonata stenta a caratterizzarsi autonomamente, e confluiscono sotto il titolo di sonata musiche con caratteristiche di stile e scrittura assai diverse; se una maggiore individuazione si può trovare, è solo in negativo, nel senso che sono sonate tutte quelle musiche strumentali che non hanno un impianto decisamente polifonico e che non sviluppano strutture libere di stile improvvisato, su figurazioni melodiche tipiche della tecnica dello strumento cui sono indirizzate: la sonata non è una fuga o una composizione che faccia uso di tecniche contrappuntistiche canoniche, ma non è neppure una toccata.

La tendenza a identificare scolasticamente la sonata per quella che si cristallizzò nell’epoca classico-romantica induce a considerare tutte le sonate precedenti a quell’epoca come una preistoria della sonata, o, peggio, come modelli in fieri, imperfetti e immaturi di quel che sarà la “vera e propria” sonata.

La verità è che la sonata, contrariamente alle forme di stile prettamente contrappuntistico, ebbe una vita complessa e multiforme; solo prendendo atto di tale complessità e varietà di forme è peraltro possibile capire più a fondo le ragioni del modello classico e la sua stessa complessità e contraddittorietà.

Fa parte della complessità anche il fatto che nella “sonata” intesa come struttura formale confluiscano musiche che, in epoche successive, hanno preso il nome di canzone, suite, partita, ouverture, concerto, divertimento, cassazione, quartetto, trio, sinfonia, sinfonia concertante…

Tali musiche si individuano spesso con difficoltà le une rispetto alle altre e capita, non raramente, che in edizioni successive le stesse musiche potessero essere chiamate diversamente. La contraddittorietà dell’oggetto sta da una parte in una certa omogeneità delle musiche relativamente ad alcuni aspetti di fondo, dall’altra nella diversità a volte assai rilevante della destinazione e dei contesti storici e pratici in cui videro la luce; tali diversità si riflettono in superficie in aspetti formali e strutturali che riallontanano le musiche tra loro in modo a volte rilevante.

Volendo tentare una definizione di sonata, che comprenda seppure in modo generale i suoi molteplici e complessi aspetti, si può dire che essa indica una forma di musica strumentale praticata dall’inizio del Seicento a tutto l’Ottocento e parte del secolo successivo; componenti stilistiche essenziali, ancorché interpretabili in modi assolutamente diversi a seconda del tempo e delle funzioni svolte dalla musica stessa, sono:

a. la struttura generale articolata in più movimenti; b. la tendenza della scrittura alla omofonia.

Per quanto possa sembrare poco, pare non si possano dare altre indicazioni che siano in grado di comprendere il fenomeno multiforme della sonata; ovviamente, man mano che si affrontano gli aspetti particolari che essa ha presentato nel corso del tempo, sarà possibile individuare altre

20 Vale la pena notare come una distinzione dei due generi, strumentale e vocale, solo nel XVI secolo comincia a delinearsi, per divenire effettiva solo all’inizio del secolo successivo. Fino ad allora, la prassi esecutiva non ammette alcuna rigidità interpretativa: la musica si fa con quel che c’è, voci e/o strumenti. Tuttavia, già nel ‘500, si distingue con sempre maggiore chiarezza un uso di raddoppio o sostituzione delle voci da parte degli strumenti nelle musiche dotate di testo, e un uso originariamente strumentale per quelle musiche nate con la funzione di accompagnare i balli di corte.

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caratteristiche particolari della sonata. Ma, appunto, andiamo con ordine, cominciando a vedere la sonata del periodo barocco.

1. La sonata della prima metà del XVII secolo Considerata l’estensione dei confini di tempo, la storiografia musicale conviene di articolare il Barocco musicale in tre fasi; esse, calibrate sulla evoluzione che la sonata ha avuto nel corso di questo periodo, si possono far andare dall’inizio del XVII secolo alla metà inoltrata dello stesso secolo, di qui fino al primo decennio del 1700 e dal secondo decennio del 1700 alla metà del XVIII secolo21 .

È solo all’inizio del XVII secolo che la musica strumentale si viene configurando come genere musicale autonomo, dopo un lungo periodo di decantazione durato su per giù l’intero secolo precedente. Fu proprio il distacco dalla parola a determinare la necessità di nuovi parametri costruttivi; nello stesso tempo, fu proprio la consuetudine al contatto con la parola a consentirne il distacco progressivo. Infatti, poteva darsi per scontata all’inizio del ‘600 la capacità della musica di esprimere affetti e immagini attraverso figure adeguate: figure del ritmo, della melodia, ma anche dell’armonia, da una parte con l’ormai scontata differenza tra armonie maggiori e minori, dall’altra con l’apprezzamento sempre crescente della dissonanza22; figure, infine, del colore, cui aveva abituato la prassi del tutto normale in questo periodo della policoralità – praticata non solo a Venezia, ma in primo luogo a Roma e ovunque in Italia e fuori.

Tra la fine del ‘500 e l’inizio del ‘600, i termini sonata, canzone, concerto e sinfonia sono impiegati per intitolare pubblicazioni di musica strumentale sempre più numerose; spesso i termini sono usati l’uno al posto dell’altro, senza che alcuno di essi indichi caratteristiche di scrittura, struttura e forma diverse le une dalle altre.

Così come possono essere usati termini diversi per indicare una stessa musica, è vero per contro che lo stesso termine di sonata si usa nelle pubblicazioni di musiche anche molto diverse sul piano della struttura formale.

Un contesto tanto complesso e multiforme è difficile da riassumere in modelli sintetici adeguati; sembra che il concetto stesso di forma musicale, così come viene praticamente usato riguardo alla musica d’altro genere o di altri periodi, sia inadatto a descrivere quel che è una sonata della prima metà del XVII secolo, o, meglio ancora, non sia in grado di descrivere adeguatamente quel che doveva esserci nella testa di un compositore che si fosse messo a comporre, allora, una sonata. In quelle sonate non c’erano schemi da seguire; piuttosto, la sonata era il procedimento compositivo attraverso il quale si conduceva il discorso musicale senza modelli da ricalcare, aggiungendo sezione a sezione man mano che si andava avanti.

Anche per questo nella descrizione della sonata della prima metà del ‘600 conviene distinguere il piano della scrittura, sicuramente più rilevante, da quello della struttura formale.

1.1. La scrittura nella sonata della prima metà del ‘600

1.1.1. Organico e numero di esecutori; alcune note sulle edizioni moderne La sonata è una musica con un numero ridotto di parti. L’organico più frequente è quello della sonata a 3, con due parti acute (in genere violini, ma era possibile anche usare al loro posto strumenti a fiato più o meno della stessa estensione) e una grave (viola da gamba prima, poi 21 Relativamente alla storia della musica generale il barocco musicale si articola in tre periodi equidistanti cronologicamente, la prima metà e la seconda metà del XVII secolo, la prima metà del XVIII secolo. 22 Sull’uso della dissonanza all’inizio del ‘600 si tende in genere a enfatizzare le eccezioni (l’uso della dissonanza non preparata da parte di alcuni compositori, Monteverdi in testa) piuttosto che la normalità (l’uso della dissonanza trattata secondo norma, e dunque preparata all’unisono, percossa sul tempo e risolta per grado congiunto discendente sul tempo debole successivo; Monteverdi impiegò solo eccezionalmente la dissonanza non preparata e molto frequentemente, come tutti i compositori della sua epoca, quella preparata). Peraltro, fu proprio l’uso normalizzato della dissonanza a contribuire in modo decisivo alla affermazione della tonalità, molto più di quanto non lo sia stato l’uso emancipato della dissonanza stessa.

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PAOLO TEODORI, Fare musica 91

violoncello); ci sono poi le sonate a 2, con uno strumento acuto e uno grave, e le sonate a 4, con tre strumenti acuti e uno grave; rara è la sonata a solo23. Qui di seguito sono esemplificate le prime battute di alcune sonate a due e a tre in partitura moderna;

a) Giovan Battista Fontana, Sonata a 2 (parte)

b) Giovan Battista Riccio, Capriccio a 2 (parte)

c) Giovan Battista Riccio, Canzone a 2 (parte)

23 La parte grave delle sonate era dotata dei numeri per la realizzazione estemporanea del continuo. Poteva anche essere raddoppiata da uno strumento non polifonico, sia a fiato che a corda.

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d) Salomone Rossi, Sonata a 3 (parte)

Gli esempi appena riportati ci danno alcune indicazioni sulle consuetudini seguite nella pubblicazione di edizioni moderne di musica di questo periodo. Negli ultimi due esempi i revisori riportano all’inizio gli incipit delle parti originali, sulla base delle quali è stata realizzata la partitura moderna delle musiche. E’ un accorgimento utile per rendere riconoscibile l’intervento stesso del revisore. Come si vede, in nessuno dei due casi la parte del basso continuo viene realizzata dall’autore, il quale si limita a fornire la sola linea melodica del basso. Nel secondo esempio il revisore realizza le armonie del basso continuo, ma le scrive in carattere più piccolo per distinguerle dalle parti originali del Capriccio di Riccio; anche in questo caso l’edizione moderna permette all’esecutore di distinguere le parti originali da quelle aggiunte nell’intervento del revisore. Nel primo esempio, quello della Sonata a 2 di Fontana, la partitura, senza segni grafici distinguibili, riporta le parti originali (quella del canto e quella della parte più grave, ovvero del basso, della realizzazione del continuo alla tastiera) insieme a quelle aggiunte per la realizzazione del continuo. Siamo d’accordo che molto spesso chi esegue la parte del continuo non è in grado di realizzarla estemporaneamente, così come si dovrebbe seguendo lo stile dell’epoca; ciò nonostante, resta grandemente preferibile quella edizione nella quale restino ben distinte le parti originali dalle parti aggiunte dal revisore, sulle quali l’intervento dell’esecutore è non solo lecito, ma auspicabile, ove sia in grado di effettuarlo.

Gli esempi valgono anche a farci un’idea della varietà di modi in cui si poteva eseguire una sonata di questo periodo; dire che fosse a 2 o a 3 non significa limitare il numero degli esecutori realmente entro tali numeri; la parte di basso, infatti, poteva essere realizzata da un unico esecutore su uno strumento polifonico (come mostra il primo esempio), ma poteva anche essere eseguita da due esecutori, uno con uno strumento melodico (per esempio la viola da gamba, il violoncello o il fagotto) e l’altro con lo strumento polifonico per realizzare la parte armonica; se poi lo strumento polifonico non c’era, si poteva farne a meno, suonando a due con due strumenti melodici (il violino, per esempio e la viola da gamba). Infine, non è da dimenticare che c’era la possibilità di raddoppiare le parti, suonando quelle melodiche acute non con uno, ma con più strumenti all’unisono. Non esiste un modo migliore per eseguire questa musica: si dovrebbe fare oggi con quel che c’è e meglio che si può, così come si faceva allora.

1.1.2. Tra contrappunto e omofonia Le sonate si distinguono con decisione crescente, già nei primissimi decenni del ‘600, dalla musica di impianto polifonico per un uso più moderato del contrappunto. Qui conviene spiegarsi, perché in genere si parla delle sonate del primo ‘600 come di musiche fondamentalmente omofoniche, mentre nella realtà ciò è solo parzialmente vero. Nelle sonate c’è contrappunto e ci sono imitazioni; ma intanto manca l’intento razionalizzante che è tipico delle musiche prettamente polifoniche, con la ricerca sulle applicazioni possibili del contrappunto canonico; in secondo luogo, ed è ciò che conta di più, l’organico ridotto di queste musiche (la sonata è a 2/3/4, e una delle parti è sempre quella di basso continuo) fa apprezzare diversamente lo stesso procedere imitativo delle voci; in questa situazione, infatti, le imitazioni conferiscono al discorso musicale l’aspetto di un dialogo snello tra le voci, ben distinte l’una dell’altra.

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PAOLO TEODORI, Fare musica 93

Che non vi fosse un modello di scrittura diverso, ma che la differenza si legasse al valore strutturante del numero delle voci, si può vedere con chiarezza definitiva in questi tre esempi successivi. Sono stati tratti da tre canzoni diverse di Frescobaldi; la prima, a 4 voci, rispecchia il modello classico della canzone polifonica, e le voci, senza distinzione di funzione tra di esse, dopo una introduzione breve in tempo lento di stile omofonico, svolgono il discorso nel dipanarsi serrato delle imitazioni; il contrappunto è rigoroso:

Girolamo Frescobaldi, Canzon dopo l’Epistola, dai Fiori Musicali (parte)

L’esempio che segue è tratto dal primo libro delle canzoni e si tratta di una Canzone a 2 voci (la parte in chiave di violino dello strumento a tastiera è realizzata dal revisore; le uniche parti originali sono quella acuta e quella di basso); l’impianto è ancora imitativo e l’alternanza delle entrate delle due voci conferisce alla musica l’aspetto caratteristico di dialogo a due:

Girolamo Frescobaldi, dal Primo libro delle canzoni a una, due, tre, e quattro voci (parte)

Dalla stessa raccolta di Canzoni vediamo quest’altro esempio, in cui le parti si dispongono in una scrittura chiaramente armonica, dove il Basso svolge una funzione di puro supporto:

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PAOLO TEODORI, Fare musica 94

Girolamo Frescobaldi, dal Primo libro delle canzoni a una, due, tre, e quattro voci (parte)

Vediamo ancora tre esempi di sonata a 2 scritte in contrappunto imitato:

Dario Castello, dalla Duodecima Sonata a 3 (parte)

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Tarquinio Merula, dalla Canzone, ovvero Sonata Concertata “L’Arisia”(parte)

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Tarquinio Merula, dalla Canzone, ovvero Sonata Concertata “Chiacona”(parte)

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I tre esempi proposti qui sopra mostrano tre atteggiamenti di scrittura differenti praticati nelle sonate dell’inizio del ‘600. Sebbene il ritmo sia veloce e scattante, la sonata di Castello è decisamente contrappuntistica e imitata, assai vicina, come concezione, alla scrittura polifonica.

Delle due sonate di Merula, la prima, a 2, propone ancora una scrittura imitata; tuttavia, le imitazioni affidate alle entrate degli strumenti sono svolte a tale distanza, da assumere l’aspetto di dialogo a distanza delle voci stesse. La seconda sonata, a 3, è interessante per la disposizione delle voci: quelle superiori svolgono un contrappunto imitato a breve distanza, mentre il basso si limita a sostenere le armonie; questo tipo di scrittura sarà prediletto dai musicisti con l’avanzare del secolo e rappresenta il senso dell’evoluzione decisiva del linguaggio musicale. Infatti, in tale disposizione delle voci, si favorisce una interpretazione nettamente armonica del contrappunto, con la polarizzazione della funzione melodica (svolta dalle voci superiori) e armonica (sostenuta da quella inferiore).

Il confronto con una musica vocale del secondo decennio del ‘600, mostra inequivocabilmente come tutti questi procedimenti di scrittura fossero ben conosciuti già in ambito vocale, e come, dunque, la musica strumentale avesse in questa tradizione il suo punto di riferimento più solido.

Ruggiero Giovannelli, Voce Mea, mottetto (parte)

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PAOLO TEODORI, Fare musica 98

Gli esempi fin qui fatti servono a chiarire il confine del significato del termine “omofonico” applicato allo stile della sonata secentesca: si tratta di un risultato di maggiore trasparenza del tessuto contrappuntistico, rispetto a quello realizzato nella musica polifonica; tale risultato dipende dalla leggerezza dell’organico e dalla non applicazione delle tecniche del contrappunto canonico; il contrappunto viene mantenuto per imprimere al discorso un aspetto di elegante dialogo tra le parti. Le imitazioni sono parte integrante e costitutiva della tecnica della composizione e dello stesso linguaggio musicale di questo periodo.

Accanto alla scrittura dialogata in contrappunto imitato, era apprezzata quella omoritmica, col suo risultato ancora più evidentemente omofonico; di questo scrittura possono valere come esempi la Canzone a 2 e il Capriccio a 2 di Giovan Battista Riccio, o ancora la Sonata a 3 di Salomone Rossi e quella a 2 di Fontana di cui sopra sono state riportate le prime battute.

Ci si potrebbe chiedere perché l’omoritmia pura (il procedere delle voci nota contro nota) non fosse utilizzata in modo prevalente nella scrittura delle sonate seicentesche, visto che l’indirizzo del gusto puntava con una certa decisione verso l’omofonia, e perché, al contrario, continuasse a essere largamente preferita la scrittura imitativa o quella in qui le voci in ogni caso conservano una larga autonomia di movimento ritmico l’una rispetto all’altra.

La risposta è in un paio di considerazioni facilmente intuibili da chi abbia un minimo di pratica musicale. Sul piano della composizione, anzitutto, c’era la consuetudine generata da decenni di prassi a considerare il contrappunto, quello imitato in particolar modo, come la tecnica migliore per la costruzione del discorso musicale24. Inoltre, lo stesso modo di svolgere il discorso attraverso la condotta degli elementi melodico ritmici (vedi sotto il paragrafo “elaborazione del modello melodico–ritmico”), trovava nel contrappunto il modo migliore di realizzarsi. Sul piano dell’esecuzione c’è un’ulteriore considerazione da fare: avete mai provato a suonare insieme a un gruppo di amici della musica omoritmica? Ne converrete: è di una noia mortale, non tanto per chi ascolta, che può gradire comunque il risultato finale, se la melodia dello strumento soprano si regge bene in piedi; è noiosa per chi la suona. Fatto salvo lo strumento cui è affidata la melodia, gli altri stanno lì a far le belle statuine, sacrificati in linee per lo più elementari, di puro riempimento armonico, senza la soddisfazione di una melodia che finisca sul grado giusto.

Non è da sottovalutare, a questo proposito, come verso la versione dialogata del contrappunto, tipica delle sonate secentesche, avesse spinto la prassi del dilettantismo musicale, che, proprio in quei decenni, si stava orientando con maggior favore verso la musica strumentale; nella musica di genere vocale, infatti, il gusto e la produzione corrente avevano abituato l’orecchio ai funambolici virtuosismi dei nuovi cantanti: erano traguardi assolutamente irraggiungibili per chi non avesse un’educazione musicale professionistica.

24 Nella prassi didattica della composizione del ‘600 lo studio del contrappunto era elemento primario e sostanziale, dalle fasi iniziali a quelle più complesse dell’apprendistato del musicista; il contrappunto, prima della pubblicazione del Gradus ad Parassum di Johannes Fux, avvenuta nel 1725, non veniva studiato per specie, bensì a due voci, e mettendo in gioco dall’inizio il principio dell’imitazione.

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PAOLO TEODORI, Fare musica 99

1.1.3. Effetti di contrasto dinamico Occasionalmente, nelle sonate della prima metà del ‘600 si trovano delle indicazione di colore, piano / forte, che indicano l’interesse crescente del gusto verso questo aspetto della dinamica del discorso musicale. Naturalmente, è assai probabile che, durante l’esecuzione, si ripetesse lo stesso meccanismo di alternanza anche dove non scritto; l’occasionalità stessa con cui indicazioni dinamiche di questo tipo si trovano nelle partiture del tempo lascia supporre che si trattasse di suggerimenti per l’esecutore, da ripetere anche oltre l’indicazione stessa. Nell’esempio che segue, parrebbe strano (e sarebbe antimusicale sicuramente) differenziare i piani sonori tra piano e forte solo nel luogo indicato in partitura; d’altra parte, come si vede, l’indicazione non viene ripetuta nella partitura stessa, pur in presenza di passaggi analoghi a breve distanza:

Salomone Rossi, Sonata sopra l’aria di Ruggiero (parte)

1.1.4. Progressioni L’assenza di un testo scritto, s’è detto, toglie alla costruzione della frase musicale la coerenza “a priori” che esso era in grado di garantirle. La progressione, ovvero la ripetizione a diversa altezza di uno stesso disegno melodico e/o armonico, è un elemento di scrittura musicale efficacissimo nella proiezione dinamica della frase musicale. Nei primi decenni del ‘600 tale potenza formativa della progressione non è stata ancora del tutto messa a fuoco, come dimostrano casi non infrequenti in cui alla progressione melodica non fa seguito la progressione armonica di supporto; succede così nelle due progressioni contenute nel seguente esempio:

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PAOLO TEODORI, Fare musica 100

Girolamo Frescobaldi, Canzone a 2 (parte)

Poco più su, nella stessa Canzone, Frescobaldi mette in progressione, questa volta sia melodica che armonica, una piccola frase musicale, e la progressione agisce con tutta la potenza strutturante di cui è capace:

ibidem,

Non sono rare, sebbene ancora non sistematicamente impiegate, le progressioni vere e proprie, basate su un modello armonico di due accordi ripetuto a diversa altezza:

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PAOLO TEODORI, Fare musica 101

Dario Castello, Duodecima Sonata (parte)

1.1.5. Elaborazione del modello melodico ritmico Sul piano della scrittura è necessario appuntare un’ultima cosa cui proprio ora si faceva cenno, e che riguarda il modo di condurre gli elementi melodici via via proposti nelle sezioni o nei movimenti della sonata della prima metà del ‘600 e barocca più in generale. Questo modo viene definito da alcuni musicologi come “condotta tematica”; ma francamente non trovo un gran che la definizione.

Il termine “tema” non è assolutamente adatto a definire l’invenzione musicale di questo periodo, a meno che non si gli si dia un significato talmente vasto da non rispondere all’uso che si fa correntemente della parola stessa e da non corrispondere, soprattutto, con quel che un musicista pratico intende per tema. La parola tema, infatti, indica un’idea – non solo musicale – in sé già compiuta, e assume la forma di un pensiero chiuso, determinato nelle sue caratteristiche essenziali di senso; musicalmente va bene, per esempio, per descrivere la costruzione del discorso musicale dell’epoca classico romantica. Questo di Beethoven è un tema:

Ludwig van Beethoven, Sonata op. 2 n. 3 (parte)

La costruzione della musica a partire da un tema ci è del tutto familiare; anche le canzoni dei nostri tempi sono concepite tematicamente. Si concentra il senso dell’intera canzone nella melodia della strofa e si prosegue con la stessa melodia, ripetendola nelle strofe successive del testo; a volte, più spesso, al tema della strofa se ne aggiunge un altro per il ritornello. La canzone, proprio come la sonata di Beethoven, tende a identificarsi nei temi di cui si costituisce: basta sentirne uno per richiamare l’intero senso della canzone.

I motivi melodici delle sonate della prima metà del ‘600 non sono temi: mancano di chiusura, per esempio, e mancano di compiutezza di senso. La maggior parte delle melodie di questo

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PAOLO TEODORI, Fare musica 102

periodo è piuttosto povera di carattere, neutra riguardo al significato. Nella nostra esperienza c’è qualcosa di simile: si pensi a certa musica da film, che scorre sotto le immagini priva di faccia, mentre la melodia si snoda quasi senza soluzione di continuità (attenzione: sarebbe un errore banale quello di pensare che questa musica non sia fatta bene: ci sono casi in cui la musica deve restare in secondo piano, e la sua efficacia si misura in relazione alla capacità di realizzare un determinato effetto; la stessa considerazione va fatta riguardo a molte delle sonate un po’ anonime del primo periodo del barocco).

La musica del periodo barocco non si identifica nel tema e il senso stesso della musica si definisce strada facendo, a seconda di come gli elementi melodici o i soggetti vengano elaborati. Non conta il materiale di base, insomma, ma la capacità del musicista di innalzare l’edificio sonoro a partire quasi da nulla; il materiale melodico di base è come materia grezza, suscettibile di diventare tutto e nulla a seconda di come la si tratti o si sia capaci di trattarla. La distanza dalla concezione tematica della musica è enorme.

L’inizio di questa Sonata a 3 di Francesco Turini (ma come esempio può essere preso un qualsiasi passo della musica di questo stesso periodo) non ha nulla a che vedere con l’invenzione di tipo tematico:

Francesco Turini, Sonata a 3, Secondo Tuono (parte)

Non c’è dubbio che vi sia una distanza enorme tra la musica di Turini e quella di Beethoven vista appena sopra, e non c’è dubbio che la distanza sia proprio nel modo diametralmente opposto di concepire l’invenzione della musica stessa. Come già detto, si deve fare attenzione, tuttavia, a confrontarle nel giudizio. Siamo abituati, oggi, a giudicare le musiche sulla base della maggiore o minore bellezza o efficacia del tema: per noi l’equazione è inevitabile e per lo più inconsapevole: una musica è il suo tema, e vale per quanto esso vale; sicché, dove manca il tema non c’è interesse, non c’è musica. Voglio dire che la musica di questo periodo del Barocco – ma anche

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PAOLO TEODORI, Fare musica 103

delle successive fasi del barocco – rischia di essere considerata in base a parametri estetici che non le sono propri, rendendo problematica la sua comprensione e il suo apprezzamento.

A volte si sente dire “… i musicisti di oggi non sanno più scrivere temi!”. È una sciocchezza: se non si scrivono temi è semplicemente perché non interessa scrivere temi. Sul fatto che non tutti siano in grado di inventare temi della stessa bellezza non c’è da discutere; ma che tutti i musicisti di un’intera epoca della storia non riescano a farlo, è semplicemente puerile pensarlo.

In più: la musica barocca ci insegna una cosa fondamentale, e cioè che la musica può prescindere dai temi e non rinunciare a raggiungere i livelli più alti dell’arte: il nome di Bach è sufficiente?

1.2. La struttura formale delle sonate della prima metà del ‘600 La sonata della prima metà del XVII secolo si risolve per la gran parte nel procedimento di scrittura. La struttura formale è elementare e prevale l’impianto a più sezioni, distinte le une dalle altre tramite le cadenze e l’ingresso di nuovi elementi melodici; anche frequente è la distinzione delle sezioni attraverso il cambiamento di tempo, da binario a ternario, e di andamento, con la comparsa non più occasionale, benché ancora non sistematica, di indicazioni quali adagio, grave, allegro.

Non c’è un limite al numero delle sezioni, né a quello degli elementi melodici proposti; i prototipi formali sono in buona sostanza due:

a. sonata in più sezioni/movimenti e più modelli melodici;

b. sonata su basso ostinato (generalmente si parla di variazioni su basso ostinato)

1.2.1. La sonata in più sezioni/movimenti e più modelli melodici Cominciamo col modello della sonata a più sezioni, ognuna delle quali su diverso materiale melodico; qui sotto riporto, di una sonata di Banchieri, il soggetto su cui è costruita la prima sezione e il passaggio dalla prima alla seconda sezione che avviene una decina di battute più sotto. Si noti la cadenza perfetta con cui chiude in modo inequivocabile la prima sezione sull’accordo costruito sul I grado della scala (siamo in un periodo in cui il sistema delle scale tonali non è ancora stato centrato, sicché, pur essendo in Sol, non c’è il fa # in chiave: è del tutto normale che sia così:

Adriano Banchieri, Sonata sopra l’aria musicale del Gran Duca (parte)

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ibidem, batt. 11-15

ibidem, batt.21-31

In molti casi, il cambiamento di sezione viene posto in maggior evidenza tramite un cambiamento di movimento; frequente è che si passi da un tempo binario a uno ternario e viceversa; nell’esempio che segue, il revisore ha aggiunto arbitrariamente una indicazione di andamento all’inizio della sezione in tempo ternario (l’arbitrarietà in questa musica non è solo lecita, ma addirittura inevitabile; in questo caso, correttamente, il revisore ha segnato il proprio intervento ponendolo come si fa secondo le norme editoriali più comuni, tra parentesi quadre, così da poterlo rendere riconoscibile):

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PAOLO TEODORI, Fare musica 105

G.B.Fontana, Sonata prima (parte)

L’indicazione del cambiamento di tempo può essere dell’autore stesso già in questo periodo;

Dario Castello, Duodecima Sonata (parte)

In questa sonata di Castello di cui adesso si è ripreso l’incipit, ci sono ben dieci cambiamenti di tempo da Allegro ad Adagio e viceversa; ognuno dei movimenti presenta e sviluppa un elemento melodico diverso. La chiusura della musica è garantita dalla ripresa nell’ultimo movimento del soggetto iniziale.

Non c’è un numero di sezioni determinato; né si può fare una sintesi riguardo questa cosa per le sonate di questo periodo. Si possono generalizzare solo alcuni aspetti della forma; eccoli di seguito:

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PAOLO TEODORI, Fare musica 106

a. ogni sezione/movimento presenta un soggetto/elemento melodico diverso;

b. occasionalmente, i movimenti possono essere ritornellati;

c. ogni movimento termina con una cadenza nel tono di impianto; nelle sonate in cui manca una partizione in movimenti, le cadenze intermedie più importanti, che segnano il passaggio da una sezione alla successiva, sono tutte nel tono d’impianto. Nella articolazione del discorso in sezioni e nel passaggio da una sezione all’altra, dunque, è assente l’alternanza di cadenze su diversi gradi fondamentali del tono (del tipo di quella che si avrà successivamente alternando le cadenze sulla Dominante e sulla Tonica);

d. in una minoranza di casi l’ultimo movimento ripete il primo, o è costruito sullo stesso soggetto del primo, senza ripeterne l’elaborazione contrappuntistica.

e. All’interno delle sezioni il discorso si articola in frasi di lunghezza variabile, non misurata metricamente; sono solo occasionali i casi in cui l’articolazione sia misurata, dando luogo a un discorso fatto per addizione di frasi di lunghezza simile. Una qualsiasi delle musiche sopra portate come esempio possono rappresentare il tipo di organizzazione non misurata delle frasi; qui sotto si può vedere un caso di costruzione del discorso a frasi misurate di 4 battute ognuna:

Salomone Rossi, Sonata X, sopra l’aria di romanesca (parte)

Si noti come alla articolazione del pensiero musicale in gruppi omogenei di battute non corrisponda una rispondenza delle frasi tra loro (le tre frasi sono una diversa dall’altra); non c’è, in altre parole, quel caratteristico raggruppamento di frasi e risposte che sarà tipico di epoche più avanzate della storia della musica. Nello stesso tempo, si nota l’effetto di apertura/chiusura ottenuto nella scansione del periodo attraverso l’alternanza della cadenza sulla Dominante (batt. 4) e sulla Tonica (batt. 8).

Simile modo di costruire il discorso musicale era allora ben conosciuto e praticato comunemente nella musica vocale, dove la struttura metricamente organizzata del testo orienta e induce quella della musica; come nell’esempio che segue:

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Antonio Francesco Tenaglia, Quando sarà quel dì

La sonata sopra l’aria di romanesca di Salomone Rossi ci avvicina al secondo prototipo di sonata secentesca, quella in forma di variazione. Tuttavia, prima di fermarci a vedere in quale modo nella prima metà del ‘600 si interpretasse il modello formativo della variazione, vediamo in breve e in termini assolutamente generali in cosa consista proprio la forma delle variazioni.

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PAOLO TEODORI, Fare musica 108

Digressione: la forma di variazione

La variazione, come forma, si basa sul principio di ripetere un modello variando alcuni suoi elementi e lasciando più o meno inalterati gli altri. La condizione necessaria è che il modello sia conciso e incisivo, in modo da avere un alto grado di riconoscibilità; le variazioni introdotte nel modello non devono mettere in predicato tale riconoscibilità del modello, perché, se ciò accadesse, semplicemente non si avrebbe più a che fare con una forma di variazione.

In genere, rispettando un’indicazione di semplice buon senso, si inizia proponendo delle variazioni vicine al modello e ci si allontana da esso man mano che si va avanti. Nel periodo classico-romantico il principio di circolarità della forma sarà preferito a qualsiasi altro principio per strutturare al discorso musicale; la forma delle variazioni rispecchierà tale tendenza formale, riprendendo, proprio alla fine del ciclo delle variazioni, il tema nella sua versione originale o in una versione molto vicina ad essa.

Ecco dunque i principali tipi di variazione:

a. Variazione melodica: in questo tipo di variazione si agisce sulla melodia, mantenendo le note di appoggio del tema, e intervenendo con note di abbellimento, diminuzioni, scale arpeggi o altri elementi che possono essere tipici della tecnica dello strumento per cui le variazioni sono scritte; per tale motivo, questo prototipo di variazione prende il nome di variazione ornamentale melodica. Resta nella sostanza invariato il modello nelle dimensioni, nella articolazione del discorso e sul percorso armonico;

b. Variazione ritmica: si mantengono la struttura formale, quella della melodia e armonica; si interviene sul ritmo, proponendo una figura ritmica nuova rispetto al modello, che caratterizza la variazione rispetto alla precedente e a quella successiva; va detto che la variazione di tipo ritmico è anche la più frequente, proprio per la capacità del ritmo di caratterizzare per contrasto una variazione rispetto all’altra. Una variazione ritmica più consistente è quella che trasforma una tempo binario in ternario, o viceversa; se ne ha un esempio nella suite variazione (vedi sotto il paragrafo sulla suite). Variazione melodica e ritmica in genere si combinano per caratterizzare le variazioni: ritmo e melodia individuano una formula che dà l’impronta alla variazione.

c. Variazione armonica: si mantiene la struttura del modello e almeno qualche parte caratteristica della melodia e del ritmo; si varia l’armonia in modo consistente, per esempio trasformando il modo maggiore in minore o viceversa.

d. Variazione timbrica: per parlare di variazione timbrica in senso stretto, ci si dovrebbe riferire a una musica in cui l’elemento coloristico sia centrale; solo nel XX secolo il timbro è stato eletto come elemento centrale, o almeno centrale quanto altri nella costruzione del discorso musicale. Se non che, proprio nel XX secolo le forme - anche quella di variazione quindi - e il linguaggio stesso della musica classica e romantica sono stati rifiutati, a vantaggio di altri percorsi di organizzazione della musica. Nei periodi precedenti si incontrano applicazioni del principio di variazione timbrica là dove in due variazioni viene riproposto esattamente lo stesso materiale melodico ritmico, ma da strumenti di registro diverso, o su un registro diverso dello stesso strumento.

Ecco, per fare un esempio, il tema della Sonata in La maggiore Di Mozart; ne riprendo solo le prime quattro battute:

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PAOLO TEODORI, Fare musica 109

W.A.Mozart, Sonata in La maggiore, K.V. 331, Andante grazioso (parte)

La prima variazione è una tipica variazione ornamentale melodica: resta invariata la struttura, la successione delle armonie e anche la melodia è composta girando attorno, con note di fioritura (passaggio, volta, appoggiatura), alle stesse note del tema25:

ibidem, Variazione 1 (parte)

La terza variazione è invece una tipica variazione armonica, costruita mantenendo la forma della frase originaria e ancora appoggiandosi in sostanza alle note della melodia del tema; ma il modo maggiore diventa modo minore.

ibidem, Variazione 3 (parte)

Visti in rapida sintesi i vari prototipi di variazione, va detto che nessuna variazione potrà mai sviluppare allo stato puro uno solamente di questi stessi prototipi; non esiste una variazione solo melodica o solo armonica, per esempio, e un qualsiasi tipo di variazione non potrà non coinvolgere, sebbene in diversa misura, tutti gli aspetti del linguaggio musicale. Quand’anche si parli di una variazione di un tipo piuttosto che di un altro, si dovrà tener presente che si tratta di una prevalenza. D’altra parte, in questo stesso modo pensa il compositore: sa benissimo che una variazione ornamentale melodica non può non coinvolgere anche il ritmo della stessa melodia; e tuttavia pensa essenzialmente a una variazione ornamentale melodica.

25 La variazione ornamentale melodica è impiegata assai frequentemente nella musica, anche al di fuori della forma della variazione; in particolare, è quasi sempre presente nelle ripresa della sezione A all’interno della forma A-B-A. L’Aria col da capo, modulo formale tra i più apprezzati nell’opera settecentesca, è appunto un esempio di forma A-B-A: si dà per scontato il contributo dell’esecutore nel variare e fiorire la ripresa della prima sezione.

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1.2.2. La sonata “sopra l’aria di …” della prima metà del ‘600

La forma di variazione, nella prima metà del ‘600, viene impiegata con frequenza nel campo della musica strumentale; alcuni studiosi hanno notato come tale principio compositivo desse la possibilità di risolvere il problema dell’unità della forma in un genere musicale giovane, quello della musica strumentale appunto, ancora a corto di esperienze formali autonome e svincolate dal genere della musica su testo verbale dalla quale si era originata.

L’aspetto esteriore di queste sonate è del tutto simile a quello delle altre sonate dello stesso periodo di cui si è parlato sopra: sembrano sonate fatte nello stesso modo, ovvero addizionando sezione a sezione ognuna delle quali improntata da un elemento melodico diverso dal precedente. Tale considerazione acquisisce un senso ancora più netto quando si aggiunge che le variazioni sono, per la maggior parte dei casi, elaborate su una figura di basso ostinato e non su un motivo melodico o, come noi saremmo istintivamente portati a pensare, su tema. In altre parole, il compositore dispone un certo numero di ripetizioni di uno stessa parte di basso e su di esse monta via via diversi moduli melodico-ritmici, elaborandoli poi tramite la scrittura imitata. E i moduli melodico-ritmici sono realmente diversi l’uno dall’altro, tanto da non poter affatto parlare di uno come della variazione dell’altro. La fantasia si esercita quindi non attorno a un tema, ma intorno al modo di realizzare diversi contrappunti rispetto a un unico modulo di basso originale.

Contrariamente a quanto di solito viene detto, queste musiche, come ripeto nella maggioranza dei casi, non sono affatto in forma di variazione, quindi. Per quel che di solito si intende riguardo alla composizione musicale col termine “variazione”, in queste musiche manca l’elemento essenziale: la riconoscibilità del tema, e il ritorno dello stesso tema di variazione in variazione, ancora riconoscibile al disotto delle trasformazioni procurate dall’applicazione del principio della variazione.

Può sembrare poco, ma in realtà c’è una distanza abissale tra il comporre delle variazioni su tema dato e comporre una musica su una serie di ripetizioni di una stessa parte di basso. Nelle variazioni su tema la fantasia si esercita non relativamente a strutture e forme astratte, ma rispetto a un contenuto di senso che è proprio del tema stesso; la variazione è anzitutto variazione intorno a un contenuto espressivo. Le sonate di cui ora ci stiamo occupando possono indurre in errore per via dei titoli con cui sono chiamate; sicché, leggendo “sopra l’aria di Ruggiero” o “sopra l’aria della Monica” e così via dicendo, si potrebbe credere che siano i temi di quelle arie famose a dare l’impronta non solo formale, ma di contenuto espressivo alla sonata intera. Ma non è così.

In queste sonate, e anche in quelle dove magari viene ripreso un accenno della linea melodica dell’aria citata nel tema, il materiale che dà il titolo alla sonata non è nulla più che una struttura assolutamente priva di qualsiasi connotazione di senso su cui il compositore innesta tutti gli elementi melodici e ritmici e contrappuntistici che la fantasia sa immaginare. In qualche modo, si potrebbe dire, è una regola che il compositore si impone per dare ordine alla propria attività creativa26.

Facciamo un esempio; sarà chiaro, anche vista solo la prima “variazione” che di variazione non si tratta,, ma di elaborazione contrappuntistica su un cantus firmus al basso; l’inizio della seconda “variazione” confermerà l’impressione:

26 Siamo vicinissimi, per questo aspetto del predisporre una parte melodica di basso su cui sviluppare i successivi contrappunti, alla tecnica del mottetto isoritmico.

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S.Rossi, Sonata decima “Sopra l’aria di romanesca” (parte)

Queste sonate non hanno, quindi, nulla a che vedere col principio della variazione così come solo in seguito esso verrà focalizzato. E, d’altra parte, è abbastanza ovvio che i compositori nel fare musica non possano guardare al futuro, ma solo al passato per cercare modelli cui riferirsi (è “abbastanza” ovvio, ma in realtà, molto più spesso di quanto non si creda, la storia della musica viene fatta come se i musicisti del passato dovessero avere gli stessi punti di riferimento che

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abbiano noi che veniamo molto dopo: è impossibile, ma accade). Queste sonate, per il modo in cui sono costruite e per come utilizzano la parte di basso, sono molto più simili alla composizione su cantus firmus, che non alla variazione.

Nella sonata “sopra l’aria di Ruggiero” di Salomone Rossi viene ripresa anche una frase melodica che evidentemente doveva proprio essere quella citata nel titolo. Si tratta di poche note, tuttavia, che lasciano subito il campo alla libera invenzione del compositore, come si intuisce anche solo guardando al frammentarsi della melodia stessa nelle rapide imitazioni delle due parti superiori, in un modo che sicuramente non può essere la prosecuzione della frase melodica ripresa nelle prime 4 battute; per confermare la supposizione, basta poi confrontare questa sonata “sopra l’aria di Ruggiero” con un’altra sonata sopra la stessa aria di Tarquinio Merula: anche qui vengono riprese quelle 4 battute, e anche qui, dopo quella frase musicale, si prosegue con una melodia diversa, slegata da essa. Inutile dire che, così come ci si sarebbe aspettato, la prosecuzione è del tutto differente da quella di Salomone Rossi.

1.2.3. Considerazioni finali sulle sonate della prima metà del ‘600 Per quanto possa urtare il nostro senso estetico, le sonate della prima metà del ‘600 non sembrano prendersi cura in modo particolare della questione dell’unità della forma. Ciò vale anche per le sonate basate su una parte di basso ripetuta un certo numero di volte: come abbiamo visto, queste sonate non sono differenti, nel modo di essere composte, dalle altre, costruite liberamente senza modelli melodici di riferimento. È probabile che queste musiche non avessero una funzione diversa da quella del puro intrattenimento e che, come musiche di sottofondo, conservassero una funzionalità anche senza quella coerenza formale necessaria quando una musica viene impiegata in contesti in cui l’attenzione è maggiormente concentrata su di essa. Si tratta di una considerazione generalissima, ma certamente efficace: la musica si lega alla situazione cui è destinata.

Il problema è che quasi mai siamo in grado di ricostruire anche solo per linee generali le situazioni in cui la musica era usata. Diciamo che in questo caso è la musica stessa a suggerire la circostanza di rilassato disimpegno in cui potrebbe essere stata utilizzata.

La seconda considerazione è più interessante, ed è direttamente riscontrabile nelle partiture: riguarda la natura dei soggetti o degli elementi melodici utilizzati, essi infatti sono privi di caratterizzazione, e risultano, si direbbe, neutri sul piano del significato; sono un materiale ancora che attende di ricevere carattere e senso dalla elaborazione della composizione musicale e - ancora di più, non c’è da scordarlo - dalla fantasia dell’esecutore. Per questo i motivi possono moltiplicarsi senza che la musica diventi in breve un bell’Arlecchino: perché il presentarsi di un nuovo elemento melodico, mentre arricchisce il discorso, non interrompe la sua continuità. Ancora una volta si capisce quanto queste sonate siano lontane da una concezione tematica della musica: proprio perché, laddove la musica viene immaginata attraverso temi caratterizzati anche nel confronto tra loro, sarebbe impossibile addizionare temi su temi senza privare la musica stessa di qualsiasi coerenza di significato e senza mettere in serio pericolo la possibilità stessa di capire quale sia il capo e la coda della musica da parte dell’ascoltatore anche più attento.

Con l’abitudine che ci viene dal romanticismo di spingere in alto il livello del giudizio estetico ovunque si abbia a che fare con cose d’arte, le sonate di questo periodo rischiano di essere considerate come un prodotto secondario, immaturo perfino sul piano della primissima necessità di qualsiasi prodotto d’arte, ovvero la coerenza formale e il senso dell’unità della forma. Di qui a guardare a queste musiche come rozzi prototipi delle “vere e proprie” sonate delle epoche successive il passo è brevissimo.

È assai consigliabile evitare di cadere nell’errore di un giudizio banale come questo.

Anzitutto, coerentemente alla propria natura di linguaggio, la musica si adopera in tantissime e diversissime occasioni; il giudizio, prima di darlo rispetto a valori assoluti, dovrebbe essere formato

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PAOLO TEODORI, Fare musica 113

considerando la capacità di una musica di adeguarsi alla sua funzione, ovvero alla sua capacità di inserirsi nel contesto per il quale è fatta.

Dove sta scritto che la musica debba mettere sempre in gioco e rappresentare i valori assoluti e imperituri dello spirito dell’uomo? Facciamoci pace: queste sonate non sono fatte per questo.

Nella storia del pensiero umano il principio evoluzionistico non funziona, se all’evoluzionismo si vuol dare un senso di miglioramento progressivo: per quanto ci possa dar fastidio, non esiste una filosofia o un’estetica migliore di un’altra. Ogni modo di interpretare la vita e il suo senso, e ogni modo di usare e giudicare i mezzi attraverso cui si esprimono i valori riconosciuti (i mezzi dell’arte, per esempio), ognuno di questi modi vale per sé e nella misura in cui vi si riconoscono gli uomini che li fanno vivere.

C’è la perenne insoddisfazione che gli uomini di tutti i tempi hanno avuto nei confronti dei limiti che sono imposti alla vita stessa, e che fa guardare come a oggetti perfettibili tutte le cose che ci sono attorno - dalla macchina per il caffè all’opera d’arte più apprezzata dai contemporanei. Ma è una dimensione di perfettibilità che non appartiene per carattere a un’epoca più che a un’altra; è il modo stesso di essere dell’uomo: mette ansia, ma spinge a migliorare continuamente la propria condizione. In ogni caso, questo non deve indurre a credere che i musicisti e gli artisti di un determinato periodo possano aver lavorato nella angosciosa e frustrante convinzione di far qualcosa che oggi non funziona per consegnarla migliore agli uomini di domani.

Proviamo a pensare: esistono nei nostri giorni esempi di arte che venga coltivata in questo modo? Eppure, si converrà, forse non esiste un’epoca più critica nei propri confronti della nostra: ma chi oggi fa una musica da film o chi fa una canzone di Sanremo non lo fa per migliorare una forma, o perché conti sul fatto che nel 2045 arriverà il signor Pinco Pallino a fissare finalmente il modello “giusto” della canzone di Sanremo o della musica da film.

È del tutto lecito giudicare fatti e cose della vita di uomini del passato o di culture differenti dalla nostra, ma potrebbe darsi che il nostro giudizio intorno a quelle stesse cose non sia coincidente con il loro. Ed è assolutamente necessario, invece, partire dal giudizio delle cose che avevano gli uomini che quelle stesse cose facevano. Mi spiego facendo un esempio vicino a noi. Proviamo a immaginare un musicologo di domani, che guardando alla musica dei nostri giorni dovesse trovarci in mezzo tantissima musica da discoteca fatta coi piedi d’uno zoppo: cosa dovrebbe pensare? Ecco, quel musicologo dovrebbe partire da quel che noi pensiamo della musica da discoteca: perché noi stessi sappiamo bene che essa non ha nulla a che vedere sul piano estetico anche con la peggiore canzone dei Beatles, ma sappiamo anche che in discoteca funziona bene e meglio anche della musica dei Beatles. Ovvio, che se un musicologo di domani non facesse così, finirebbe col farsi un’idea poco simpatica intorno al nostro modo di intendere l’arte e la musica: poco simpatica e poco centrata.

Cerchiamo di non fare altrettanto guardando alle sonate della prima metà del XVII secolo: queste sonate sono quel che sono e vanno giudicate col metro di allora, tenendo conto del fatto che anche per noi e in ogni tempo il metro ha tante lunghezze; inutile sarebbe in ogni caso starle a guardare con insofferenza perché ancora non sono quel che saranno in seguito o perché si chiamano come le sonate di Mozart ma Mozart ancora non c’è.

Ci si è fermati a lungo su queste sonate della prima metà del XVII secolo per un motivo: per mettere cioè in evidenza la lontananza della musica di questo periodo dalla concezione tematica dell’invenzione musicale, che è poi quella cui siamo maggiormente abituati, e dunque la necessità per noi di immaginare diversi modi di fare musica, forse lontani dalla nostra sensibilità e dal nostro gusto, ma evidentemente altrettanto validi di altri, più vicini a noi.

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2. La sonata del periodo di Corelli

Premessa Nell’epoca successiva a quella di cui si è occupati fin qui avvengono mutazioni molto importanti: per la profondità di tali mutazioni e la loro tenuta nel tempo, è lecito parlare di mutazioni epocali. La più importante di esse è sicuramente il definitivo stabilizzarsi dell’interpretazione tonale della modalità, un’interpretazione su cui lo studio musicologico si è soffermato a lungo attribuendo ad essa, in molti casi con qualche eccesso, un valore quasi paradigmatico della struttura del linguaggio musicale occidentale. Altro elemento che caratterizza questo periodo della nostra storia musicale – e per altro si lega in diversi modi alla struttura tonale del linguaggio – è l’acquisizione del senso della forma della musica strumentale col conseguente sedimentarsi nella prassi di modelli e schemi.

2.1. Scrittura: l’elaborazione degli elementi melodici tra omofonia e polifonia Le mutazioni cui si è fatto cenno ora non riguardano la scrittura, ma l’organizzazione della forma musicale. Sul piano della scrittura non vi sono sostanziali differenze rispetto alla musica del periodo precedente: si procede elaborando l’elemento melodico o gli elementi melodici proposti inizialmente e ancora, nel procedimento di elaborazione, svolge un ruolo fondamentale il contrappunto imitato. Nelle parti omofoniche il contrappunto, mentre consente a tutti gli strumentisti di suonare parti di un certo interesse, ha la funzione di amplificare e sostenere la melodia principale; nelle parti polifoniche il contrappunto imitato, che non è mai utilizzato in modo rigoroso, serve a far dialogare fra loro gli strumenti.

Direi che non è ancora assolutamente il caso di parlare di “temi”, per gli stessi motivi per cui non era il caso parlarne relativamente alla musica dell’epoca precedente; adoperare la definizione di “elemento melodico” è del tutto soddisfacente e non sminuisce nel giudizio una musica che non cerca valore nella perentorietà e individualità dell’invenzione tematica.

Fin qui, dunque, nulla di nuovo. Ma si nota, sempre rimanendo nella scrittura musicale, una evoluzione nel modo di disporre le parti e una tendenza a verticalizzare con maggior decisione la stessa scrittura. Il segno più evidente di questa tendenza e, nello stesso tempo, modo attraverso cui essa si chiarisce e definisce, è la cristallizzazione del modello della sonata a 3; qui si stabilizza definitivamente la separazione delle funzioni tra quella melodica delle due voci superiori e quella di sostegno armonico svolta dal Basso (si ricorderà che nel periodo precedente questa era solo una delle possibilità, e che non raramente il Basso si inseriva nel tessuto delle imitazioni con un ruolo assolutamente identico a quello delle due voci superiori); ecco due esempi tratti dalle Sonate a 3 di Corelli:

A.Corelli, Sonata da Chiesa a 3, op. 1, n. 1, primo movimento (parte)

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ibidem, secondo movimento (parte)

Un altro sintomo della verticalizzazione della scrittura, e ancora una volta nello stesso tempo modo attraverso cui essa si definisce, è la comparsa via via crescente di pubblicazioni di sonate a solo, eventualmente con sostegno di Basso Continuo per gli strumenti non polifonici. In questo caso, la difficoltà di sviluppare una autentica polifonia (in un certo senso anche l’inutilità di svilupparla, in quanto cade uno dei motivi fondamentali per cui essa veniva preferita, ossia la possibilità di assegnare a ogni strumentista una parte interessante ed equivalente a quella degli altri strumentisti coinvolti nell’esecuzione) si traduce per necessità in una visione più verticale della scrittura e in un’interpretazione omofonica della polifonia.

Sarà appena il caso di notare che i concetti di omofonia e polifonia sono interpretati non in senso assoluto e che si tratta solo di tendenze: si fa musica “più” polifonicamente o “più” omofonicamente.

Sul piano della scrittura musicale è necessario notare il vertiginoso aumento di armonie dissonanti nella musica di questo periodo. La dissonanza, nel nostro linguaggio musicale, ha un doppio valore; quello più noto riguarda la sua potenzialità espressiva, ed era conosciuto e ampiamente impiegato anche nel periodo barocco, secondo le indicazioni che si andavano cristallizzando nella “teoria degli affetti”. Ma c’è un altro valore della dissonanza, e riguarda la sua peculiarità strutturante del discorso musicale; tale caratteristica, meno evidente ma non meno apprezzata dai musicisti del periodo barocco, si lega al trattamento contrappuntistico della dissonanza stessa, che prevede l’obbligo della preparazione all’unisono e la risoluzione per grado congiunto discendente; in contesti diversi, tale impiego strutturante della dissonanza è conosciuto anche nella musica di oggi. Un’armonia dissonante è spinta alla risoluzione sull’accordo successivo, e, se l’accordo successivo dissonante a sua volta, la spinta continuerà sull’accordo ancora seguente, e così via. Il fenomeno fu spiegato bene dal Jean Phlippe Rameau, il primo dei grandi studiosi dell’armonia intesa in senso moderno; egli disse che l’accordo di Tonica è quell’accordo consonante posto alla conclusione di una serie di accordi dissonanti. La dissonanza, dunque, ha nella musica barocca la funzione fondamentale di spingere in avanti il discorso, di proiettarlo verso il punto di conclusione sancito dalla cadenza; nell’esempio seguente con il segno X sono segnate le dissonanze:

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A.Corelli, Sonata a tre da chiesa, op. 1, n. 3, Adagio (parte)

L’uso sistematico della dissonanze in sincope ebbe un’importanza decisiva nell’accelerare l’evoluzione della musica verso l’interpretazione tonale della modalità; infatti, al fine di risolvere adeguatamente la dissonanza per grado congiunto discendente, si è portati a far scendere le armonie per terze o per quinte, con quel movimento, cioè, che viene largamente preferito in campo tonale.

2.2. Elementi della composizione strumentale tra la seconda metà del XVII secolo e l’inizio del secolo successivo

Se sul piano della scrittura non si avverte un grande cambiamento rispetto all’epoca precedente, è su quello della forma che avvengono quelle mutazioni epocali, cui prima si faceva cenno, nella prassi del fare musica.

Negli ultimi decenni del XVII secolo si assiste a una progressiva specificazione delle forme musicali: si definiscono occasioni e modi diversi in cui si impiega la musica strumentale e, per conseguenza, si cominciano a identificare moduli formali diversi di essa. La variabilità della struttura formale della sonata della prima metà del XVII secolo lascia così il campo a strutture maggiormente definite, più adatte a rispondere alla funzione che la musica doveva assolvere in quei contesti più determinati.

Nonostante la tendenza a specificare le forme relativamente alla destinazione della musica, resta il riferimento a un prototipo formale unico; resta dunque l’articolazione in più movimenti alternati tra quelli più lenti e più veloci, resta la preferenza per una scrittura tendenzialmente omofonica dove la polifonia serve a far dialogare con fantasia le voci; ma ora questo prototipo si realizza con diverse piccole sfumature, a seconda della destinazione della musica, e, per esempio, dei diversi organici strumentali con i quali essa si realizza.

Insieme a questo percorso di progressiva definizione dei modelli formali, anche i nomi delle forme stesse tendono a essere impiegati con maggiore determinatezza; sicché, sonata, suite, concerto, sinfonia e altri termini ancora, sottintendono strutture per molti aspetti simili l’una all’altra, ma comportano ora anche elementi specifici che le distanziano ora più ora meno tra loro.

Come di solito accade nella storia, le tendenze diffuse di un’epoca si manifestano compiutamente, nell’opera di un artista che, elevandosi sugli altri per capacità di sintesi e chiarezza di idee, si guarda poi come un modello.

La figura di Arcangelo Corelli è di fondamentale importanza per la storia della musica occidentale degli ultimi decenni del XVII secolo e dell’inizio del secolo successivo: la sua musica si impose fin dall’inizio e internazionalmente come modello di assoluto valore; la vastità della diffusione e la lunga durata del periodo nel quale si continuarono a produrre copie della sua musica (solo per fare un esempio, Francesco Geminiani pubblicò musica nello stile di Corelli in Inghilterra fino alla metà del XVIII secolo) fecero guardare da subito ad essa come a un classico, capace di sintetizzare in uno stile definitivo, coerente ed equilibrato le tendenze manifestatesi nella musica strumentale nei decenni precedenti al periodo della sua attività27. Non c’è stato solo uno dei maggiori musicisti del

27 Tra il 1681 e il 1694 Corelli pubblicò quattro raccolte di sonate, due da chiesa, due da camera; nel 1700 pubblicò le sonate per violino e basso continuo, mentre i suoi famosissimi Concerti Grossi uscirono ad Amsterdam, postumi, solo nel 1714.

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suo tempo e della generazione successiva alla sua che non abbia tenuto conto dei suoi modelli; i grandissimi, come Bach ed Haendel, lo copiarono - con l’umiltà che solo i grandi, appunto, sanno dimostrare - per assimilarne i contenuti espressivi e formali. Ancora oggi la musica di Corelli resta tra la più eseguita del periodo barocco.

Corelli fissò le forme della sonata da camera e da chiesa e, nello stesso tempo, quella del concerto grosso. E non fu un’operazione puramente formale: perché, mentre fissava i prototipi di queste forme, indicava, più in generale, la via da seguire affinché anche la musica strumentale potesse esprimersi attraverso discorsi articolati, coerenti e compiuti. Ovviamente Corelli non fu solo in questo percorso di importante evoluzione della musica strumentale; altri ne prepararono la strada e altri ancora lo accompagnarono in quel percorso, facendo più o meno le stesse cose; ma la sua importanza sta, come già detto, nella forza sintetica dello stile e nella capacità, proprio per questa forza di sintesi, di imporsi internazionalmente come modello da seguire.

Per questo, alcuni studiosi convengono di suddividere il barocco musicale, relativamente alla forma della sonata, in un primo periodo che va dall’inizio del ‘600 all’inizio dell’attività di Corelli, un secondo periodo che coincide col periodo della sua attività, e un ultimo periodo, successivo alla morte di Corelli stesso.

Alcuni principi di costruzione della forma musicale, così come si trovano applicati nelle sonate e nei concerti di Corelli, si impongono in quel periodo trasversalmente nella prassi della composizione musicale, invadendo ogni campo dal genere strumentale a quello vocale. Sarà il caso, quindi, di far cenno a questi principi, proprio per l’importanza che essi hanno avuto nella storia della forma musicale di allora e dei decenni successivi.

a. Aumento delle dimensioni di ciascun movimento e diminuzione del loro numero La frammentazione formale, tipica della sonata della prima metà del XVII secolo, lascia spazio ora a un prototipo formale più massiccio, in cui si riduce il numero delle sezioni/movimenti a un numero orientativo di 4 movimenti; contemporaneamente, i movimenti stessi, aumentano di dimensioni e durata, concedendo un maggiore spazio al lavoro di elaborazione degli elementi melodici.

La maggiore ricchezza e articolazione dei movimenti, induce a caratterizzarli con maggiore incisività rispetto a quanto non si facesse prima; così, alla sequela degli elementi melodici fondamentalmente simili della sonata della prima metà del secolo, fa ora riscontro la caratterizzazione dei movimenti, ottenuta, per forza di contrasto, cambiando l’andamento ritmico e alternando movimenti lenti a movimenti veloci.

La maggiore complessità dei movimenti permette di articolarne la forma al loro interno, e di proporre, eventualmente e in fasi successive, diversi elementi melodici da elaborare.

b. La tonalità e la modulazione Proprio la articolazione all’interno di ogni movimento, resa necessaria dal loro aumentare di dimensioni, trova nella tonalità un saldo fondamento strutturale; è infatti in questo periodo che avviene la stabilizzazione dell’interpretazione tonale della modalità28. La tonalità implica due fatti: per primo, la cristallizzazione dei circuiti armonici, per secondo, la centratura delle articolazioni della forma sugli accordi principali della tonalità stessa; in questa seconda prospettiva, acquisisce un nuovo significato la tecnica della modulazione.

Già nella musica pretonale si usava normalmente far cadenza su gradi diversi dalla finalis; ora, non solo le cadenze, ma intere frasi vengono appoggiate su gradi diversi della scala della tonalità iniziale, e non è fuor di luogo affermare che quelle stesse frasi sono costruite su scale diverse da quella iniziale. È ciò che, appunto, viene definito “modulazione”. In altre parole: prima, quando si faceva una musica nel modo di Re (primo modo, dorico) si poteva far cadenza su altri gradi (secondo la prassi del tempo si poteva far cadenza su Fa, Sol, La, Si

28 È largamente preferibile e soprattutto più corretto parlare della tonalità come di una fase del percorso evolutivo della modalità; un percorso che non si interruppe allora, quando la storia della tonalità entrò nel pieno, né successivamente, quando, all’inizio del XX secolo, con troppa facilità e poca lungimiranza alcuni vollero decretare la fine della tonalità stessa avviando lo stillicidio delle sperimentazioni sul linguaggio musicale.

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bemolle, Do); ora questi stessi gradi vengono eletti come toniche temporanee, e intorno ad essi si sviluppa una intera parte del discorso29. Un principio elementare, che tuttavia rende possibile imprimere all’articolazione dinamica della struttura del discorso musicale un impulso formidabile, estendendo sul piano armonico lo stesso dinamismo che i diversi gradi della scala hanno gli uni nei confronti degli altri ed elevando la struttura armonica a fondamento di quella formale: vi è coincidenza, ovvero, tra struttura armonica e forma della musica, e ciò rappresenta sicuramente un dato innovativo del linguaggio musicale di questo periodo.

Riguardo al circuito che gli accordi seguono nell’armonia tonale, ecco uno schema efficacemente rappresentativo:

Nello schema sono indicati i gradi della tonalità; tali gradi indicano l’accordo costruito su di essi allo stato fondamentale. Sicché, per esempio, I, rispetto alla scala di Do maggiore, indica l’accordo di Do/Mi/Sol; IV, sempre rispetto alla scala di Do maggiore indica l’accordo di Fa/La/Do. L’interpretazione dell’accordo non viene alterata se in luogo dello stato fondamentale si usa il primo rivolto o - nel caso però solo degli accordi di settima - il secondo o il terzo rivolto30; nello stesso modo, non cambia l’interpretazione se in luogo degli accordi consonanti si usano quelli dissonanti.

Nella interpretazione tonale degli accordi, la fondamentale prevale sul basso: è un concetto essenziale. Per capire la funzione di un accordo, dunque, si deve indicare la fondamentale dell’accordo e dire a quale grado della scala della tonalità nella quale ci si trova in quel momento esso corrisponde.

Gran parte della musica del periodo barocco e oltre, fino ai nostri stessi giorni, è costruita su una base armonica che, il più delle volte, coincide con una delle opzioni possibili nello schema precedente.

Riguardo ora la centratura della forma sui gradi più importanti della tonalità, va notato innanzitutto come già nell’epoca di Corelli inizi a prendere corpo l’identificazione del V grado (la Dominante, secondo l’interpretazione funzionale dell’armonia tonale) come grado contrapposto strutturalmente al I (la Tonica). Tale interpretazione della Dominante si confermerà e rafforzerà nel giro di poco tempo, e la modulazione con la successiva cadenza sulla Dominante verrà impiegata stabilmente per un secolo e oltre al fine di marcare le più importanti articolazioni all’interno della forma musicale; nell’Allemanda della prima sonata da camera a tre di Corelli dell’op. 2, che qui riporto per intero come esempio, è evidente la polarizzazione strutturale della Dominante - su cui chiude la prima parte del movimento - e della tonica, su cui si chiude la seconda e conclusiva parte dello stesso movimento; tale polarizzazione costituirà

29 Come si vede, i gradi indicati relativamente al modo di Re, sono gli stessi che nella più moderna tonalità di Re minore (derivata effettivamente dal primo modo di Re) fungono da toni vicini. Si dice che una modulazione è ai toni vicini quando si collegano due tonalità che non distano più di una alterazione tra loro. Rispetto a Re minore sono toni vicini, perciò, Fa maggiore (relativa maggiore); andando verso i diesis Do maggiore e La minore; andando verso i bemolle Si b maggiore e Sol minore. Le modulazioni impiegate nella musica del periodo barocco sono nella quasi totalità modulazioni ai toni vicini. 30 L’accordo in quarta e sesta nella teoria moderna dell’armonia viene considerato come secondo rivolto di una triade. Non era così nel periodo barocco, né sarà così successivamente; l’accordo in quarta e sesta viene considerato e trattato come un accordo di fioritura, ottenuto tramite note di ritardo o appoggiatura sul tempo forte di una battuta, o con note di passaggio e volta sul tempo debole.

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la normalità (ma non la regola assoluta, è bene ricordarlo) nelle sonate tra la fine del XVII secolo e l’intero secolo successivo:

A.Corelli, Sonata da camera, op. 2, n. 1, Allemanda, Largo

Le modulazioni sugli altri gradi della scala sono usate per appoggiare su archi dinamici di maggior respiro l’elaborazione degli elementi melodici. Così, nella Allemanda che abbiamo appena visto, alla battuta 3 della seconda parte l’armonia si sposta verso la tonalità del relativo minore; si tratta appena di pochi accordi, perché alla quarta battuta, arrivati alla cadenza con cui si dovrebbe confermare la tonalità raggiunta, la Tonica, ovvero l’accordo di Si minore, viene trasformato in una Dominante transitoria, avviando una breve progressione circolare di quinte discendenti (Si/Mi/La) che ricondurrà il piano armonico verso la tonalità di impianto (come vedremo, è caratteristica dell’inizio della seconda parte di un movimento di suite questa zona di instabilità tonale, realizzata attraverso rapide modulazioni e dominanti transitorie).

c. Le progressioni Meno complesse della tonalità, ma altrettanto efficaci nella proiezione in avanti del discorso musicale sono le progressioni. Per progressione si intende la ripetizione di uno stesso disegno

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melodico/ritmico/armonico a diversa altezza. La progressione è una tecnica efficace e a buon mercato: non per questo è scontata o banale; funziona, questo è tutto. Certo, non si negherà che a volte, proprio la facilità d’uso e la funzionalità della progressione, hanno indotto qualche musicista a corto di idee a esagerare nel numero delle ripetizioni. In questi casi, quando il numero delle ripetizioni suscita la noia, la progressione non funziona più. Per non arrivare a tanto, in genere ci si fermava a tre o quattro ripetizioni. Nell’esempio che segue si presentano due brevi progressioni, la prima ascendente, la seconda discendente; l’alternanza di progressioni discendenti e ascendenti è un altro dei motivi ricorrenti nella costruzione della sonata barocca:

A.Corelli, Sonata da camera a tre, op. 2, n. 4, Allemanda, presto (parte)

Come si vede, le più grandi innovazioni nel linguaggio musicale di quegli anni - dall’uso della dissonanza in sincope alla tonalità, alla modulazione, alla progressione – si legano a una fattore comune, ovvero la necessità di proiettare con chiarezza in avanti il percorso della struttura armonica e della musica stessa, rendendo in qualche modo prevedibile quello stesso percorso: tale proiezione viene ora sentita come fattore decisivo della proiezione in avanti dello stesso discorso musicale.

In sintesi: la stabilizzazione del sistema tonale, la modulazione, le progressioni e l’uso della dissonanza, tutto contribuisce a dare direzione dinamica al discorso e a irrobustire la forma musicale.

Ora è possibile avvicinarsi a qualcuna delle forme maggiormente rappresentate di questo periodo, tenendo conto del fatto che gli elementi fin qui esposti sono comuni a tutte esse.

2.3. La sonata da chiesa Sono sonate a 3 in genere, per due violini e basso continuo (sono sovrani gli strumenti ad arco, talora sostituibili con strumenti a fiato dotati di estensione simile); la scrittura dispone le parti in modo tale da isolare la parte di basso da quelle superiori: quasi sempre sono queste ultime a condurre l’evoluzione melodica del discorso musicale, mentre la parte del basso sostiene indirizza il percorso delle armonie.

Il numero delle parti non corrisponde necessariamente a quello degli esecutori; una sonata a tre si esegue a seconda dell’occasione se secondo quanti si è: la fantasia e la creatività così come la capacità di adattamento sono condizioni preliminari per entrare nello spirito della musica del periodo barocco.

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In media, la sonata da chiesa si articola in 4/5 movimenti, ma si possono avere sonate anche con un numero maggiore o inferiore di movimenti. I movimenti sono in genere nello stesso tono; a volte sono impostati nella tonalità relativa.

Il principio di alternare movimenti lenti a movimenti veloci resta ben saldo, così come in genere i movimenti lenti si distinguono da quelli veloci per una propensione più netta alla omofonia; i movimenti veloci, al contrario, impiegano una scrittura imitativa e fugata.

Nella varietà di successione dei movimenti, si rileva la somiglianza degli ultimi due movimenti della sonata da chiesa, il largo e il successivo allegro o presto, con gli ultimi due movimenti della sonata da camera/suite, la sarabanda e la giga: ciò conferma una comune origine e un comune progetto formale delle due forme, differenti l’una dall’altra, quindi, solo relativamente alla destinazione.

L’unità dell’insieme è garantito dalla omogeneità della tonalità, anche se, per accentuare la caratterizzazione reciproca dei movimenti, a volte capita che un movimento intermedio sia in una tonalità vicina a quella di impianto (accade per esempio nella sonata VII dell’op. 1 di Corelli: il secondo movimento, Grave, è in LA minore, mentre il la tonalità della sonata è quella di DO maggiore).

L’articolazione interna ai movimenti è realizzata in modo quanto mai vario; spesso si impiega il ritornello per ripetere un movimento intero o una sua singola parte; quando il segno di ritornello marca la divisione del movimento in due parti (ciò avviene più spesso andando avanti nel tempo, data anche la tendenza ad annullare la distanza tra la sonata da chiesa e quella da camera, in cui è usuale la divisione del movimento in due parti) la prima parte in genere chiude sulla Dominante. Ma non c’è uno schema che venga ripetuto; è possibile dividere in due parti il movimento, come anche è possibile lasciarlo in un’unica parte; lo stesso valore strutturante della tonalità, è messo in gioco in diversi modi, pur riconoscendo alle due aree della Tonica e della Dominante quel valore polarizzante che manterranno ancora a lungo nel nostro linguaggio musicale. Un movimento in genere inizia con la Tonica e finisce con la Tonica; ma non è raro che la fine sia sulla Dominante, quando il movimento è un largo usato per introdurre l’allegro successivo; così come è possibile che un movimento diviso in due parti faccia cadenza sia alla fine della prima parte come della seconda sulla Tonica.

Nelle sonate in tonalità minore si conferma la alternanza della Dominante e della Tonica, nettamente prevalente su quella tra Tonica e relativo maggiore che spesso viene presentata come tipologica nei libri scolastici.

Ecco uno schema essenziale dei cardini tonali di un movimento di sonata barocca:

tonalità iniziale tonalità di arrivo

Prima parte Tonica Dominante/Tonica

(è più raro il Relativo maggiore per

musiche in tonalità minore)

Seconda parte tonalità raggiunta alla Tonica/Dominante (solo nel

fine della prima parte caso che il movimento sia un

largo usato come introduzione

di un movimento successivo)

Infine, il fatto stesso che il ritornello sia usato solo come possibile opzione non è di secondaria importanza: privi di ritornello, i movimenti della sonata sono da considerare senza dubbio delle forme aperte; col ritornello si avvicinano almeno di fatto alla concezione della forma chiusa,

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PAOLO TEODORI, Fare musica 122

configurandosi come strutture AABB (ripetizione della prima parte A e della seconda parte B). Va detto tuttavia che anche in questa forma i movimenti della sonata barocca a cavallo tra Sei e Settecento non si presentano diversamente da quelli non ritornellati. Il cambiamento è solo a livello della struttura formale, nella conduzione del discorso sono assolutamente identici: finché non si arriva all’ultima battuta e al conseguente rallentando degli esecutori, nessuno può prevedere la presenza o meno del ritornello.

Il valore formativo della ripetizione non si ferma al ritornello; esso è pienamente riconosciuto anche se non viene applicato con regolarità o prevedibilità. Ma che lo si trovi usato spesso è significativo: ripetere una frase testualmente vuol dire individuarla nel flusso continuo della elaborazione melodico-ritmica.

La composizione procede elaborando i motivi melodico-ritmici proposti; tali elementi sono generalmente due in ogni movimento, a volte più, raramente meno. Quelli dei movimenti lenti hanno un carattere cantabile di impronta chiaramente vocale: è preferita la conduzione per grado congiunto, spezzata da salti che ne rilanciano la spinta dinamica. Gli elementi melodici dei tempi veloci hanno un carattere, viceversa, assolutamente strumentale, con linee spezzate da salti che si appoggiano sulle note degli accordi.

A.Corelli, Sonata da Chiesa op.1, n. 5, Grave (parte)

A.Corelli, Sonata da Chiesa op. 1, n. 3, Allegro (parte)

Annoto come il secondo elemento melodico-ritmico del secondo movimento della III sonata sia esposto sulla Dominante (esempio c. di quelli proposti nella pagia successiva). La complementarietà dei piani della Tonica e della Dominante, derivata dalla tendenza a incardinare le elaborazioni imitative sul I e sul V grado della scala già nella musica pretonale, era già ben chiara nella seconda metà del ‘600, e la possibilità di sfruttare la complementarietà funzionale della Tonica e della Dominante nella elaborazione del discorso, disponendo su questi piani armonici il materiale melodico e ritmico da elaborare successivamente era una delle possibilità conosciute già prima dell’età di Corelli. Se si devono cercare anticipazioni di una

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tendenza come questa, troppo indietro si deve andare; caso mai, può essere interessante confrontare come nel tempo tale principio si traduca in contenuti formali diversi, che assecondano le inclinazioni del gusto nella storia.

Come si diceva, in genere in ogni movimento sono esposti due elementi melodico-ritmici; tali elementi possono essere esposti in successione, affiancati l’uno all’altro, come se il secondo fosse una prosecuzione del primo (qui sotto esempio a.); possono essere anche sovrapposti dall’inizio in contrappunto, in modo che uno sia controsoggetto dell’altro (esempio b.); infine, ma è certamente meno frequente, è possibile che il secondo elemento sia proposto in un secondo momento, dopo che il primo ha già avuto una certa elaborazione (esempio c.). In ogni caso è da ricordare che gli elementi melodico-ritmici non hanno valenza di temi e che dunque non si dispongono su piani espressivi diversi; piuttosto, sembra corretto dire che essi hanno un carattere complementare - a valori più lunghi uno, più mosso l’altro - e che solo mettendoli assieme il compositore abbia a disposizione il materiale sufficiente a una elaborazione ricca e varia del discorso musicale. Ecco gli esempi:

esempio a: A.Corelli, Sonata da Chiesa op. 1, n. 1, Grave (parte)

esempio b: A.Corelli, Sonata da Chiesa op. 1, n. 1, Allegro (parte)

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esempio c: A.Corelli, Sonata da Chiesa op. 1, n. 3, Allegro (parti)

Nella elaborazione degli elementi melodico-ritmici, giocano un ruolo fondamentale le cadenze, le progressioni e le modulazioni; queste ultime sono più numerose e più diversificate nei movimenti lenti, che evidentemente consentono di apprezzare maggiormente la versatilità espressiva dell’armonia in sé e la sua capacità di articolare dinamicamente il discorso musicale; i movimenti veloci, al contrario, sono armonicamente più elementari e si incentrano con decisione sulla contrapposizione delle funzioni della Tonica e della Dominante.

La costruzione del discorso è elementare ed efficace; tuttavia, per realizzare qualcosa di simile è necessario entrare pienamente in questo mondo musicale, dacché l’elementarità della costruzione non risponde alla ripetizione di un semplice cliché. In altre parole, stabilito un principio costruttivo, che è quello della elaborazione in contrappunto di un motivo melodico-ritmico, la stesura pratica della musica e con essa la forma della la musica stessa si reinventa ogni volta, strada facendo e mettendo a frutto le caratteristiche del materiale ritmico-melodico di cui si dispone: la fantasia e la capacità di adattamento sono ancora una volta centrali in questo stile musicale e lo sono nella fase della composizione prima ancora che in quella della esecuzione.

Non c’è dubbio che il valore della fantasia sia ritenuto centrale, a scapito di una interpretazione più razionalizzante della forma e della costruzione della musica. Il caso che segue è esemplare: Corelli, riprendendo per moto contrario il motivo iniziale dell’allegro finale della III sonata da chiesa dell’op. 1, ne ripete meccanicamente solo le due battute iniziali, mentre ne cambia arbitrariamente le due battute successive;

A.Corelli, Sonata da Chiesa op. 1, n. 3, Allegro (parte)

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ibidem,

sembra poco, ma la cosa invece è da mettere in tutto rilievo, oltre per il fatto di non essere affatto casuale, anche per i motivi che seguono:

a. il cambiamento della figura non era affatto necessario, e si sarebbe potuto tranquillamente procedere riprendendo la figurazione del soggetto melodico per le intere quattro battute di cui si costituisce; se Corelli avesse mantenuto la figura iniziale, infatti, avrebbe ottenuto un soggetto dotato delle stesse caratteristiche armoniche e formali di quello che ha ottenuto con i cambiamenti da lui fatti: ciò si vede bene, guardando il seguente esempio (N.B. : L’armonizzazione proposta con le zampette in su è quella della parte di Corelli; quella con le zampette in giù è l’armonizzazione del motivo iniziale di questo movimento della sonata di Corelli, ripreso testualmente e invertito; come si vede, l’armonizzazione è largamente coincidente, e in ogni caso è identica nel suo elemento più importante, ovvero la cadenza finale):

b. la prosecuzione razionale della composizione, che si basa sul principio di darsi una regola

da seguire (questo è il canone inteso in senso lato), è estremamente più facile e rilassante dell’invenzione libera, appunto perché meccanica;

c. la scelta della libertà nell’invenzione musicale comporta, quindi, una scelta più profonda di natura estetica: la prosecuzione libera sottopone ciò che si è ottenuto a un giudizio che risponde alla domanda semplice fino alla brutalità: “è bello o è brutto?”;

d. la possibilità di rispondere alla domanda precedente con sicurezza dipende da una parte dal mestiere del compositore (i risultati non sono omogenei, evidentemente non tutti si chiamano Corelli), dall’altra, e prima ancora, dalla certezza di trovare corrispondenza tra il proprio giudizio di gusto e quello di chi la musica la deve ascoltare; non stiamo parlando di musica privata o riservata, infatti, ma di musica fatta per essere eseguita nelle più diverse occasioni pubbliche, ovvero di musica commerciale (senza bisogno di virgolette per coprire un termine che non a tutti piace)31.

Proprio per la natura dell’invenzione musicale del periodo barocco, riesce difficile indicare modelli validi per sempre della struttura del discorso musicale e la via seguita per comporre una sonata di questo periodo. Un approccio possibile era quello di costruire una frase nella tonalità di inizio e riprendere la stessa frase sul tono della dominante; si proseguiva quindi con una progressione,

31 Per questo aspetto della libertà di invenzione non c’è dubbio che la musica di Corelli si avvicini idealmente a quella di un altro grande compositore di area romana di poco precedente a lui, Giovanni Pierluigi da Palestrina. Anche la musica di quest’ultimo, infatti, al disotto della apparente semplicità di esposizione, nasconde la perizia tecnica magistrale di chi rinuncia alla applicazione di criteri costruttivi razionalistici (che occasionalmente dimostra di conoscere e possedere alla perfezione), per gettarsi nel campo insidioso della costruzione più libera; una scelta coraggiosa, oltre che insidiosa, dacché nel giudizio la risposta definitiva viene dal pubblico cui la musica stessa è destinata.

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che aveva il duplice compito di curvare la direzione dinamica della musica e di avvicinare la nuova tonalità (sempre una tonalità vicina) su cui si sarebbe ripreso il soggetto. Ma è una possibilità, appunto; molto altro si poteva fare combinando nel modo più vario gli ingredienti del soggetto, della modulazione, della progressione, della ripetizione di parti più o meno grandi del discorso musicale.

2.4. La sonata da camera (suite) La sonata da camera deve essere sicuramente identificata con la suite, di cui, nella seconda metà del XVII secolo e in Italia, rappresenta un sinonimo; è dunque nel contesto della storia della forma della suite che si deve correttamente inserire quella della sonata da camera.

Per suite si intende un seguito (in francese suite, appunto) di movimenti di danze contrastanti per carattere e andamento ritmico; inizialmente erano veri e propri movimenti di danza, dal momento che la musica era scritta proprio con la funzione di accompagnare la danza nelle occasioni di festa delle corti rinascimentali; in seguito, abbandonata la funzione pratica, sopravvissero come movimenti di danza stilizzati.

Nel XVI secolo vennero pubblicate diverse raccolte di suite monostrumentali (in genere sono suite per liuto) composte di tre movimenti32, o, via via sempre più costantemente, da una coppia di movimenti (la coppia padovana e gagliarda, o padovana e saltarello) generalmente preceduti da un preludio.

I movimenti, fin da queste fasi iniziali della storia della suite, sono legati attraverso l’unità di tono e la affinità del materiale melodico; tale affinità consente spesso di parlare della seconda danza della coppia come di una variazione ritmica della prima. Anche nel prosieguo della storia della suite si presenteranno numerosi casi in cui sopravvive questo modo di organizzare la forma, relativamente ai primi due movimenti della successione. Ecco un esempio di coppia variata dell’inizio del XVII secolo (per la precisione del 1629), è di Biagio Marini:

B.Marini, Polacca e corrente (parte)

L’esempio che segue, invece, è tratto da una suite in Re minore di Haendel; sono i primi due movimenti, quindi, in un certo senso, la prima coppia di danze; è passato un secolo dall’epoca di Biagio Marini (la suite in Re minore fa parte del secondo libro di suites pubblicato da Haendel nel 1733), ma il principio di comporre il secondo movimento variando il disegno melodico proposto nel primo è applicato in modo analogo:

32 Dalza nel 1508 scrisse che “tutte le pavane hanno el suo saltarello e piva”.

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G.F.Haendel, Suite in Re minore, Allemanda, Corrente (parte)

allemanda:

corrente:

Benché nel tempo si sia preferito comporre ogni movimento della suite sulla base di un materiale melodico ritmico autonomo, il principio della variazione fu applicato con continuità all’interno della suite stessa in altri modi; uno fu quello di comporre, di seguito a un movimento di danza, uno o più double, vere e proprie variazioni ritmico-melodiche di quello stesso movimento di danza; ecco un esempio estratto dalla prima Suite in Mi minore di Couperin (il rigaudon che segue è nel maggiore):

F.Couperin, Suite in Mi minore, Rigaudon, Double (parte)

ecco ora il double, variazione dello stesso rigaudon:

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Il principio della variazione venne applicato all’interno della suite anche in quei movimenti che per tradizione adottavano il principio costruttivo della variazione su basso ostinato, come la ciaccona, ad esempio; non era raro, in più, che i musicisti scegliessero una forma di variazione per chiudere una intera raccolta di sonate o suite; è quel che accade con le sonate da camera dell’op. 2 di Arcangelo Corelli, di cui riporto la prima parte della dodicesima sonata con l’inizio della prima variazione:

A.Corelli, Sonata da camera op. 2 n. 12 (parte)

Nel corso del XVII secolo la suite abbandona gradatamente la sua originaria funzione per diventare musica a sé stante; in questo periodo si lega al flusso evolutivo più generale della musica strumentale e contribuisce alla sua stessa evoluzione.

C’è un problema piuttosto rilevante nel descrivere i caratteri formali della suite, ed è quello di dover fare i conti con il modello scolastico che di essa si è voluto fissare; tale modello individua il nucleo della suite nella successione di quattro danze fisse, l’allemanda, la corrente, la sarabanda e la giga, cui va aggiunto il preludio e altri eventuali movimenti, intercalati tra la sarabanda e la giga, come la gavotta, il minuetto, la bourrrée, il passepied, la loure, la polonaise, il rigaudon, ecc; in queste danze la stilizzazione del ritmo è inferiore rispetto ai quattro movimenti di danza fissi, e dunque resta più visibile la originaria destinazione della musica a sostegno della danza. Questo modello, sempre secondo le indicazioni che la tradizione scolastica dà della suite, si fisserebbe più o meno tra l’ultimo decennio del Seicento e i primi del Settecento, e consentirebbe di parlare della Suite come di una forma autonoma rispetto alla sonata, proprio perché dotata di una struttura formale a sé stante.

C’è del vero in questa descrizione; purché essa non debba essere considerata un modello conosciuto e utilizzato come punto di riferimento da tutti i musicisti allora attivi. Infatti, il confronto con il repertorio di questo stesso periodo e di quello precedente ci dice che il modello costituito dalla successione allemanda, corrente, sarbanda, giga, eventualmente preceduta da un

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preludio ed eventualmente arricchita con altri movimenti inseriti tra sarabanda e giga (col tempo si ammisero nella successione anche movimenti che non avevano nulla a che fare con la danza, come l’aria, o addirittura movimenti di stile polifonico, come la fuga) era solo una applicazione possibile di un principio33 - quello della alternanza di movimenti di danza di diverso andamento - e che i musicisti, nel comporre una suite, si riferivano al principio, più che al modello. Le eccezioni sono talmente numerose e, in un certo senso, talmente regolari, da non poter essere considerate tali. Solo a guardare le Suites Inglesi e Francesi di Bach può sembrare che il modello funzioni davvero.

Contrariamente a quanto si sente dire a volte, non fu J.J. Froberger (1616-1667) a fissare il modello scolastico della suite. Le suite di Froberger, infatti, sono tutte in tre movimenti e la giga, laddove è presente, non compare mai come ultimo movimento; fu solo in un’edizione postuma, del 1693, che lo stesso editore si prese la libertà di riassemblare liberamente le suite di Froberger, riferendosi al modello sopra riportato in quattro movimenti.

Fino alla fine del XVII secolo, dunque, non esiste un modello cui ci si riferisca nella composizione di una suite; resta solo il principio di alternare movimenti, in genere tre, lenti e più mossi, eventualmente preceduti da un preludio puramente strumentale; tale preludio non riflette origini legate alla danza. Sono così, per esempio, le sonate da camera di Arcangelo Corelli o le suites di Henry Purcell. Queste ultime si compongono appunto di tre movimenti preceduti da un preludio; il finale, al contrario di quel che accade in genere e anche nel modello scolastico, può essere lento (a volte la suite termina direttamente con la sarabanda).

Come si diceva su, le sonate da camera di Corelli devono a tutti gli effetti essere considerate delle suite: lo confermano i nomi dei singoli movimenti di cui si compongono. Ovviamente, non c’è corrispondenza tra il modello seguito da Corelli e quello scolastico; e ciò a partire subito dal numero dei movimenti, che nelle sonate da camera di Corelli è in genere di tre, preceduti spesso dal preludio. Anche la disposizione dei movimenti il più delle volte non corrisponde a quella del modello della suite di scuola; restando che la giga, quando è presente, chiude la successione, alquanto varia è la posizione degli altri movimenti: l’allemanda, per esempio, può essere usata all’inizio, come alla fina della successione stessa; in assenza della giga, anche la sarabanda può essere usata per chiudere la musica. In molti casi, infine, i movimenti non sono danze stilizzate e prendono il nome dell’andamento andante, grave, o altro; ciò risponde al disegno di progressiva riduzione della distanza con la sonata da chiesa che ha interessato la storia della forma della suite nei primi decenni del XVIII secolo.

L’unità della forma nella suite è garantita dall’unità del piano tonale: tutti i movimenti sono scritti nella stessa tonalità, anche se spesso capita che vi siano movimenti intermedi nella tonalità omologa maggiore, se la tonalità di impianto è minore. Raro è che i movimenti siano in altri toni, sempre vicini comunque a quello sempre della tonalità iniziale.

Tuttavia, non sembra affatto convincente dire che l’unità tonale garantisca l’unità della forma; se fosse vero, non sarebbero state mai scritte musiche in cui l’unità tonale non c’è affatto34. È vero che su questo piano si determina a un certo punto della storia di questa forma musicale una separazione di percorsi che individuerà due modelli di suite: da una parte si continuerà a pubblicare suite riferendosi a un modello formale in cui i movimenti sono quelli di danze stilizzate e in cui sarà preservata l’unità di impianto tonale, dall’altro si tenderà a riavvicinare, come già detto, la forma della suite a quella più generica della sonata, estendendo l’elasticità dell’impianto formale e consentendo l’inserimento di movimenti non legati alla danza e non unitari sul piano tonale. Mentre il primo percorso sarà abbandonato verso la metà del secolo, il secondo avrà una prosecuzione naturale nella storia della sonata del periodo preclassico e classico; è necessario

33 Sono Suites coerenti al modello descritto scolasticamente quelle di Bach per tastiera, di J. Mattheson e di J.B. Loeillet. 34 Va inoltre considerato che il discorso sull’unità della forma come principio di massima che conferisce valore a un’opera d’arte in genere e quindi anche alla musica, sembra essere un problema più nostro, che di quelli che fecero musica nel periodo barocco; i quali, per esempio, ritenevano del tutto lecito in pieno ‘700, assemblare una suite prendendo movimenti di danza un po’ qui un po’ là e facendo unicamente attenzione al fatto che vi fosse continuità tonale. Per altro, sono certo che, se non fosse stato reso noto che quelle musiche non erano state composte dall’inizio come movimenti successivi di una determinata suite, nessuno oggi si accorgerebbe del fatto.

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tuttavia considerare come suite sia le musiche riferibili al primo come al secondo dei tipi ora accennati, così infatti erano considerate e intitolate dagli stessi musicisti.

La struttura dei singoli movimenti, come accennato, tende a uniformarsi su un modello diviso in due parti, con un ritornello per ciascuna delle due parti. Le due parti, nella forma più generalmente impiegata, disegnano un arco dinamico ampio, che sospende la prima parte sulla dominante per riconfluire nella seconda parte sulla Tonica; la seconda parte non è sul piano tonale la semplice inversione della prima, ma presenta una prima zona di instabilità armonica, con modulazioni veloci, a volte solo accennate (senza conferma della tonalità raggiunta), ai toni vicini.

Se il percorso tonale che articola le due parti della suite è nella grande maggioranza dei casi quello Tonica-Dominante/Dominante-Tonica, è del tutto frequente anche la soluzione che fa terminare anche la prima parte sulla Tonica35; nelle suites in minore, il finale della prima parte sulla Dominante è ancora largamente preferito ed è solo occasionale quello sul relativo maggiore36.

L’organizzazione del discorso in genere è libera; le frasi si connettono le une con le altre senza rispondere a un principio di quadratura determinato. Vediamo alcuni esempi:

A.Corelli, Sonata da camera op. 2, n. 11, Allemanda (parte)

37

35 Valga come esempio il Rigaudon col suo double di J.P.Rameau riportato come esempio poco sopra. 36 Nei manuali di scuola si dice che nella suite in minore la prima parte di ogni movimento chiude sul relativo maggiore; come ripeto, non è esclusa questa soluzione, ma in ogni caso è assai meno frequente di quella che fa terminare la prima parte sulla Dominante, analogamente a quel che accade nella suite in tonalità maggiore. L’aver voluto a tutti i costi (fondamentalmente a costo della realtà oggettiva) indicare come tipico il finale sul relativo maggiore, è il tipico errore i certo modo di fare storia, che osserva le cose non per quel che sono, ma con lo sguardo a quel che diventeranno quando “finalmente” avranno terminato e perfezionato il loro percorso evolutivo. L’articolazione della forma, con la contrapposizione del relativo maggiore alla tonica minore, è tipica in effetti della sonata preclassica e classica; non per questo deve essere per forza ritenuta tipica o migliore la forma della suite che “anticipa” una struttura come questa. 37

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J.S. Bach, Suite inglese in Sol min., Allemanda (parte)

F.M.Veracini, Sonata in mi minore, op. II n. 8

Nei movimenti di danza aggiunti a quelli più ricorrenti, come già accennato, si nota una aderenza maggiore ai modelli di danza originari; qui, la necessità di sostenere le figure misurate e proporzionate dei passi di danza comportava la quadratura esplicita della forma e simmetrie rispondenti al modello costruttivo proposta/risposta che saranno tipici della musica di periodi successivi a quello barocco. La prima parte della gavotta che segue, tratta da una sonata da camera a tre di Corelli, si compone di 16 battute, divise in due periodi di 8 battute l’uno e a loro volta divisi in frasi di 4 battute; le stesse quattro battute sono ottenute per somma di due gruppi di due battute ognuno (le semifrasi). Si nota come i gruppi di battute si rispondano tra loro con rigorosa simmetria, sia nel primo, che nel secondo periodo (annoto a margine che la tonalità di impianto è di Si bemolle maggiore, anche se in chiave Corelli ha posto solo il Si bemolle: siamo evidentemente ancora in un periodo di passaggio, nel quale, sebbene siano stati individuati i fondamenti della composizione tonale, sopravvivono criteri di scrittura arcaici):

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Corelli, Sonata da camera a tre op. 2 n.5, gavotta (parte)

Varrà la pena di notare come dalla costruzione della musica in base a criteri di simmetria tra le parti, scaturisca una invenzione musicale maggiormente tematica, nella quale non si procede elaborando il materiale melodico e ritmico originario, bensì raggruppando le idee a periodi e frasi, così come si farà nella musica di periodi posteriori al barocco.

Nei movimenti in cui la costruzione del discorso procede libera da simmetrie e proporzioni misurate simili a quelle appena viste nella gavotta di Corelli, resta ben visibile la volontà di organizzare con equilibrio la forma; il discorso è sempre costruito attraverso la connessione di frasi che hanno funzioni determinate le une nei confronti delle altre. L’equilibrio della pagina è raggiunto mettendo in gioco con fantasia e calibrando gli elementi della composizione sui quali, più in generale, ci si è soffermati sopra.

Elementi fondamentale della scrittura sono:

a. Le ripercussioni dei disegni melodici (come esempio valgano quelli appena proposti qui sopra dell’allemanda di Bach e della sonata di Veracini; nell’allemanda di Bach, come si vede, le prime due battute sono costruite sullo stesso disegno melodico proposto prima alla mano sinistra, quindi, nella battuta successiva, alla mano destra; nella sonata di Veracini lo stesso disegno viene ripetuto per tre volte nelle prime due battute); le ripercussioni non possono essere considerate in alcun modo delle semplici ripetizioni; la ripetizione immediata di un disegno, in questo stile musicale, ha sempre il valore di una perorazione, e ha l’effetto di intensificare ciò che si è già sentito (lo mostra efficacemente lo stesso esempio della sonata di Veracini; la ripetizione per tre volte consecutive dello stesso disegno viene sostenuto da una linea di basso che ne delinea perfettamente il carattere di perorazione: dopo le prime due ripetizioni testuali, la terza volta il disegno melodico viene appoggiato su una perentoria e conclusiva cadenza finale V-I);

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b. Le progressioni;

c. Gli effetti di apertura e chiusura ottenuti alternando variamente le cadenze sulla Tonica a quelle sulla Dominante; un approccio frequentissimo è quello in cui, ad una prima frase38 costruita con una rapida alternanza della Tonica e della Dominante (o della Dominante e della Tonica), si fa seguire una progressione o più progressioni per raggiungere un luogo cadenzale. Ecco due esempi; nel primo la frase iniziale, di due battute, è costruita alternando la Dominate e la Tonica; ad essa seguono due una progressioni discendenti:

A.Corelli, Sonata a tre da camera n. 2 op. 2, Allemanda (parte)

In questo secondo esempio alla frase iniziale di sette battute, costruita alternando contrariamente al primo esempio la Tonica e la Dominante, segue una progressione ascendente:

A.Corelli, Sonata a tre da camera n.7, op, 2, Corrente (parte)

38 Si intende qui per frase una parte del discorso dotata di una sua unità e compiutezza; è fuori di luogo applicare in questo repertorio musicale le unità di misura che vanno bene per descrivere la musica di latri periodi della storia. In altre parole, la determinazione di frase come unità del discorso musicale formata nella maggioranza dei casi da un gruppo di quattro battute va bene per la musica dal periodo classico romantico in poi (per esempio si applica ancora benissimo nella canzone dei nostri tempi); per la musica barocca si dovrà vedere caso per caso, e nessun caso dovrà essere considerato come eccezione.

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d. L’articolazione della linea melodica, spinta la melodia ora verso l’acuto, ora verso il grave per riequilibrare la spinta ascendente di prima. Tutta la musica del periodo barocco è costruita in questo modo, e tutta potrebbe essere presa come esempio; per altro, sarebbe assai istruttivo seguire il diverso modo di costruire gli archi dinamici di tensione e distensione attraverso la conduzione dell’arco melodico verso il grave o verso l’acuto, e costatare quanto nella costruzione possa intervenire la fantasia per creare effetti e gradazioni ogni volta originali, pur applicando uno stesso principio generale: ma è un percorso specifico e vastissimo che non si può seguire all’interno di questo studio. Come esempio si può prendere quello offerto dalla prima parte della corrente appena proposta di Corelli: partendo dal registro centrale, gradatamente si raggiunge la zona acuta (il Do nella quarta battuta del secondo sistema), per poi ridiscendere più rapidamente verso il grave alla fine della prima parte.

e. La modulazione; essa interviene nella struttura in diversa misura, contribuendo alle articolazioni più importanti; a livello “macrostrutturale” si colloca la modulazione che sospende la prima parte della suite sulla dominante e il ritorno alla Tonica nella seconda parte. A livello microstrutturale si devono considerare invece le numerose Dominanti di passaggio ( o Dominanti transitorie), la cui funzione è quella di marcare con più forza il passaggio da un accordo all’altro del giro armonico della tonalità di impianto e le modulazioni brevi, con una sola, rapida conferma della tonalità raggiunta.

Non c’è bisogno di portare numerosi esempi a riguardo; tutta la musica fin qui proposta ne contiene numerosi. Considerando la struttura generale del movimento della sonata da camera/suite, è importante ricordare che l’uso di Dominanti transitorie e di rapide modulazioni a toni vicini (diciamo che si tratta di dominanti di passaggio con una breve conferma della tonica raggiunta) è tipico della seconda parte del movimento di sonata, mentre nella prima parte in genere ci si mantiene accostati alla tonalità iniziale, modulando solo alla fine sul tono per lo più della Dominante.

È eloquente, e del tutto conforme a un modo di fare comune l’esempio offerto dalla Allemanda della Suite inglese in Sol minore di Bach; nella prima parte, che termina sulla Dominante, c’è un unico spostamento tonale, verso il IV (Do minore); subito dopo si torna alla tonalità di impianto per proseguire con la modulazione conclusiva e pienamente confermata verso il la Dominante:

J.S.Bach, Suite inglese in Sol min., Allemanda (parte)

Nella seconda parte della stessa allemanda le modulazioni rapidamente confermate e subito corrette verso nuove tonalità sono assai più frequenti; siamo in un momento di forte instabilità armonica:

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ibidem:

La scrittura delle sonate da camera/suite, in un contesto basato sulla elaborazione di un elemento melodico/soggetto, ammette la sostanziale omofonia, così come il contrappunto fugato; a mezza via sta il contrappunto imitato, svolto in forma di dialogo tra le voci; la parte dell’Allemanda di Bach riportata proprio qui sopra è un esempio tipico di questo modo di condurre il discorso musicale.

È naturale che la stessa scrittura si differenzi a seconda dell’organico con cui si ha a che fare, e che, mentre, si adegui alle sue possibilità, cerchi di valorizzarne le risorse. Nella sonata a tre da camera39, la necessità di coinvolgere tutti gli strumenti, fa si che anche la scrittura tendente alla omofonia sia svolta portando in primo piano di volta in volta tutti gli strumenti; e, anche se è vero che i due strumenti superiori concentrano su di sé l’attenzione dello sviluppo melodico della musica, anche il basso, la cui funzione primaria resta quella di sostenere e indirizzare le armonie, non di rado partecipa attivamente al gioco del contrappunto imitativo con le due voci superiori. Nella Allemanda che segue, sempre di Corelli, il fugato iniziale lascia presto il posto alla conduzione omoritmica del contrappunto, ottenendo un risultato sostanzialmente omofonico; si può notare come le due voci superiori si scavalchino in continuazione per assumere a turno il ruolo di guida:

A.Corelli, Sonata da camera a tre, op. V, n. 2, Allemanda (parte)

39 Valgono per la sonata a tre da camera le stesse considerazioni fatte a proposito della sonata da chiesa riguarda la variabilità del numero effettivo degli esecutori.

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Nella sonata per strumento a tastiera procedimenti come quello appena visto, in cui i due strumenti superiori si scavalcano tra loro di frase in frase, benché possibili, non danno lo stesso risultato; oltretutto, se nella sonata a tre sono giustificati proprio per dare a tutti gli strumenti la possibilità di partecipare su un piano si sostanziale uguaglianza alla esecuzione della musica, nella sonata monostrumentale, da questo punto di vista, sono in gran parte inutili; naturalmente, non va dimenticata la considerazione che si aveva allora del contrappunto, come del mezzo essenziale della composizione musicale. D’altro canto, la sonata per singolo strumento può accogliere più frequentemente quei tipi di scrittura chiaramente omofonici, che risultano meno opportuni ed efficaci con organici a più strumenti; ecco un esempio:

J.P.Rameau, Suite n.1 in Mi minore, Musette (prima parte)

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3. La sonata di Scarlatti Quello della sonata scarlattina è un argomento affascinante quanto insidioso: si deve tener conto da una parte della musica di Scarlatti - e non ce n’è un’altra tanto ricca e imprevedibile – e ci si deve misurare dall’altra con alcuni luoghi comuni della storia della musica in versione divulgativa; luoghi della musica divulgati tanto bene da essere diventati uno dei punti di forza nella osservazione della musica del ‘700: nella sonata di Domenico Scarlatti si troverebbero i passi decisivi che consentiranno alla sonata barocca di transitare decisamente verso quella classica. Messa in questi termini, l’asserzione è inaccettabile: la sonata di Scarlatti non costituisce storicamente l’anello che congiunge sonata barocca e sonata classica, non tanto per scarsissima divulgazione che le sue sonate ebbero durante il XVIII secolo40, ma soprattutto per la lontananza che esse dimostrano rispetto alla sonata del periodo classico nel modo di essere pensate. Il che non toglie che la originalità della musica di Scarlatti la allontani altrettanto dalla musica più comune del suo tempo e per certi versi la avvicini idealmente a quella del periodo successivo.

Una cosa deve essere affermata con decisione: l’interesse della musica di Scarlatti per il suo contributo alla storia della sonata settecentesca, l’interesse che essa può avere in quanto manifestazione indubbia di originalità creativa non hanno nulla a che vedere con l’apprezzamento che vi può essere sul piano estetico; la musica di Scarlatti non ha bisogno di essere originale né di essere importante nel quadro della storia della sonata settecentesca per essere ritenuta indiscutibilmente bella.

La sonata di Scarlatti si presta difficilmente a essere inquadrata in uno schema formale: una delle qualità peculiari della creazione musicale di Scarlatti sta proprio nella ricchezza dell’invenzione che si manifesta tanto a livello della composizione dei temi, quanto a livello della strutturazione del discorso musicale. Nella grande varietà di approdi di tale energia creativa, si può tentare intanto di richiamare tre schemi generali entro cui si inquadrano la maggior parte delle sue musiche per clavicembalo41:

1. sonata a schema aperto: si tratta di una sonata in cui la seconda parte non riprende la prima, ma si presenta come parte autonoma (nel caso sia una sonata in più di due parti, nessuna delle parti ripete una parte precedente);

2. sonata a schema chiuso simmetrica: in questo tipo di sonata la seconda parte si presenta come ripresa della prima fin dall’inizio, dove viene appunto ripreso, trasportato di tono, il tema iniziale;

3. sonata a schema chiuso asimmetrica: in questa sonata l’inizio della seconda parte non è legato tematicamente all’inizio della prima; viene ripreso solo il tema conclusivo della prima parte, che nella seconda - ovviamente nel tono di impianto - servirà a chiudere la sonata.

Il secondo e il terzo modello sono notevolmente più frequenti del primo e tendono a stabilizzarsi su un principio costruttivo generale abbastanza omogeneo, anche se in superficie si apre a soluzioni estremamente differenti fra loro. Ecco dunque il modello della sonata chiusa simmetrica/asimmetrica42 bipartita di Scarlatti:

40 Domenico Scarlatti si stabilì nella penisola iberica dall’inizio del 1729: non avrebbe fato mai più ritorno in Italia. Si deve considerare la graduale ma decisiva emarginazione sia della Spagna come del Portogallo dal panorama politico e culturale dell’Europa di allora; ciò non poté non influire negativamente nella diffusione della stessa musica di Scarlatti: essa, infatti, rimase per lo più manoscritta per l’uso privato della corte nella quale fu assunto. In Italia, dunque, che pure fu uno dei campi più importanti di evoluzione della sonata settecentesca almeno fino alla metà inoltrata del secolo, la musica di Scarlatti, rimase sostanzialmente sconosciuta; in Francia essa fu conosciuta solo attraverso pochissime pubblicazioni; in Inghilterra ebbe maggior fortuna, ma solo dal 1772 in poi (a quella data la sonata classica aveva già maturato la propria struttura), dopo che lord Fitzwilliam ebbe visitato l’Escorial e ottenne la possibilità di pubblicare ventisette delle sonate di Scarlatti; in Germania Scarlatti fu conosciuto pochissimo e se qualcosa Philip Emanuel Bach, Mozart, Haydn e Beethoven poterono conoscere di lui, fu solo qualche sporadica opera giovanile; la pubblicazione di questi Essercizi giovanili in Germania (1738) esclude in tutti i casi che Scarlatti possa aver avuto alcuna influenza nella musica per clavicembalo di J.S.Bach. 41 Riprendo le indicazioni che seguono dallo studio di Ralph Kirkpatrik, Domenico Scarlatti, Torino, 1984, p. 267 e segg. 42 Si deve considerare che, anche quando la sonata inizia nella seconda parte riprendendo il motivo iniziale trasportato nella tonalità che è stata raggiunta alla fine della prima parte, tale ripresa non può in alcun modo

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PAOLO TEODORI, Fare musica 138

Prima parte:

a. 1° tema nella tonalità iniziale;

b. transizione modulante (l’idea tematica della transizione può essere derivata dal 1° tema o, come il più delle volte accade, propone una seconda idea più fluida e continua rispetto alla prima; non è raro che la transizione si presenti in forma di progressione);

c. tema della tonalità di arrivo della prima parte (la tonalità di arrivo è in genere la Dominante, per le tonalità minori è anche possibile il relativo maggiore; raramente, per le tonalità maggiori, si raggiunge il relativo minore o la dominante del relativo minore);

d. piccola coda finale.

Seconda parte: e. digressione modulante (vengono ripresi elementi tematici sentiti nella prima parte);

c1. ripresa del tema della tonalità raggiunta (in questo caso si torna alla tonalità

di impianto);

d1. ripresa della piccola coda finale.

Vediamo un caso in concreto nella pagina che segue:

essere considerata una ripresa in senso stretto; infatti, dopo un primo accenno del motivo iniziale, Scarlatti prosegue con invenzioni nuove (magari riprendendo altre idee sentite nella prima parte) e modulazioni incisive anche ai toni lontani, in modo, quindi, del tutto autonomo rispetto alla prima parte.

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D. Scarlatti, Sonata in Fa maggiore

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PAOLO TEODORI, Fare musica 140

La prima parte della sonata di Scarlatti non può essere considerata una esposizione, così come l’esposizione viene intesa nella sonata classica; infatti, la seconda parte della sonata non ricapitola alla Tonica quel che viene sentito nella prima parte; la ripresa coinvolge solamente la parte conclusiva, che è uguale sia nella prima parte che nella seconda, fatto salvo il cambiamento di tono. Tale ripresa, inoltre, ha un senso diverso da quello che assume all’interno della sonata classica, ed è un senso che si comprende bene osservando poco più da vicino il procedere del discorso musicale di Scarlatti. Tentiamo di farlo.

A volte sembra che Scarlatti componga le sue musiche come un qualsiasi musicista del suo tempo, trasformando ed elaborando l’idea melodico-ritmica iniziale; ma si tratta di un’apparenza che nasconde la profonda distanza tra il modo di fare di Scarlatti e quello più comune nella cultura musicale del suo tempo: Scarlatti immagina la musica in modo diverso dai suoi contemporanei, ma la immagina diversamente anche rispetto a quelli che sono venuti dopo di lui. Ecco in sintesi i motivi di tale differenza:

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PAOLO TEODORI, Fare musica 141

a. la maggiore tematicità dell’invenzione melodica;

b. il lavoro sulla cellula melodica al fine di crearne di nuove, derivate dalla prima, ma autonome e differenti sul piano espressivo.

c. l’uso della modulazione ai toni lontani;

d. l’armonia, intesa come modo di formare gli accordi e di usarli.

Sul piano dell’invenzione melodica bastano pochi esempi per rendersi conto dell’impatto maggiormente tematico della musica di Scarlatti rispetto a quella dei suoi contemporanei; riporto alcuni temi a caso, senza averli trascelti con cure particolari: ciò garantisce che essi sono assolutamente rappresentativi del modo di inventare musica da parte di Scarlatti:

D.Scarlatti, Sonata in Sol maggiore (parte):

D.Scarlatti, Sonata in Sol maggiore (parte):

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PAOLO TEODORI, Fare musica 142

D.Scarlatti, Sonata in Re minore (parte)

Ovviamente, gli aspetti dell’invenzione sopra richiamati, e in primo luogo proprio il maggiore impatto tematico dell’invenzione di Scarlatti, non possono non influire decisivamente anche sulla organizzazione del discorso e dunque sulla forma della musica. Ciò è evidente anche nei casi in cui la sonata potrebbe essere definita convenzionalmente bipartita e monotematica; quei casi, dunque, in cui la sonata si articola formalmente poggiandosi sulle funzioni convenzionali dell’armonia tonale e si presenta come un complesso omogeneo, sia per quel che riguarda il ritmo che per quel che riguarda la melodia. Questo è il caso della sonata in Do minore pubblicata da Alessandro Longo col numero 155, o anche è il caso della numero 156. Tuttavia, anche in questi casi apparentemente più conformi al gusto corrente, Scarlatti tende a spezzare la continuità dell’invenzione basata sulla elaborazione del materiale melodico ritmico, per individuare le frasi che si connettono le une alle altre e che interpretano le varie parti della struttura, nella prima e nella seconda parte della sonata.

Scarlatti non compone elaborando elementi melodico ritmici, ma connettendo e raggruppando frasi e periodi, in modo analogo a quanto farà un musicista del periodo classico romantico.

Attraverso la ripetizione di incisi o semifrasi poggiati su cadenze o formule di cadenza, o anche attraverso l’inserimento di particolari semplici, ma ben percepibili, Scarlatti marca i confini delle frasi, impedendo – si direbbe per principio – lo scivolamento nascosto di una nell’altra; e ciò anche quando la linea melodica conserva la sua fluidità e continuità, come accade nei casi in cui le sonate sono degli autentici Essercizi di tecnica per la tastiera e presentano passaggi consecutivi di quartine. Vediamo un caso:

D.Scarlatti, Sonata in Do minore (parte)

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PAOLO TEODORI, Fare musica 143

Più sotto, siamo alla battuta 21 e seguenti, ecco come si prosegue, sempre girando attorno alle stesse quartine, verso la fine della prima parte:

ibidem:

Come si vede, a parte la prima battuta - che presenta la ripetizione della Tonica nei tre registri acuto, centrale e grave, ma che non ha alcun valore tematico, scomparendo giusto dopo la prima battuta per non ripresentarsi nel corso della sonata – a parte questa prima battuta, quindi, la musica procede addizionando frase di quattro battute a frase di quattro battute43. Per marcare il confine di una frase rispetto all’altra, basta accompagnare la successione omogenea delle quartine ora con movimenti legati di note con valore di minima, ora con movimenti spezzati di note appoggiate sulla suddivisione. La modulazione conferisce poi alle singole frasi la loro funzione nel contesto della struttura generale (nella prima parte della sonata in Do minore ora portata come esempio, c’è solo una modulazione, che sposta la tonalità verso il V grado della tonalità di partenza).

Scarlatti, dunque, costruisce la musica addizionando frasi che si distinguono tra loro a contrasto, ed è un modo di costruire la musica che si manifesta nella generalità dei casi in modo più evidente dell’esempio ora riportato. Infatti, quando la sonata non è uno studio di tecnica e il tema può caratterizzarsi più incisivamente rispetto alla semplice successione di quartine, il procedimento della composizione avviene secondo due vie fondamentali: la prima è quella di aggiungere frase a frase, alcune delle quali tematicamente autonome rispetto a quella iniziale, altre che invece derivano da essa il materiale melodico con cui sono costruite. La seconda via è quella di derivare in ogni caso dal tema iniziale il materiale melodico e ritmico per formare le frasi successive.

Abbiamo ora visto un caso assimilabile a quest’ultimo modello costruttivo; un altro esempio appropriato è senz’altro quello della sonata in Fa maggiore riportata sopra per intero. Vediamo dunque ora un esempio di sonata che propone materiale tematico più vario: in questo caso le frasi

43 Nella prosecuzione dell’esempio si deve immaginare una battuta 20, che precede la 21, e che completerebbe il complesso delle quattro battute da 20 a 23). Solo occasionalmente, nel corso di questa sonata, le battute si legano tra loro a gruppi di sei.

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saranno in parte costruite derivando il materiale melodico dalla frase iniziale, in parte si proporranno come frasi autonome, sul piano tematico, rispetto alle precedenti.

D.Scarlatti, Sonata in Re maggiore (parte)

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Con le lettere da a. a f. ho indicato le diverse sezioni della prima parte della sonata. Ogni sezione è individuata da una frase tematica; in alcuni casi queste frasi sono derivate l’una dall’altra, in altri fanno sentire materiale tematico nuovo. Si può dire, così, che la frase segnata con c. sia derivata da quella segnata con b., di cui riprende il ritmo; e, a guardar bene, anche le frasi segnate con d. ed e. sono derivate sempre dalla stessa figura ritmica presentata in b.; diversa è la figurazione che si sente alla lettera f., il cui ritmo fluido ricorda solo da lontano quello della prima frase alla lettera a., in quanto il disegno melodico proposto è assolutamente diverso; questa prima parte della sonata si chiude con una frase pout pourris, che richiama il ritmo della frase b. (e dunque anche delle frasi che già sopra erano state derivate da b.), la figura melodica della scala, simile alla frase iniziale (lettera a.), e, infine, l’arpeggio della lettera f. È interessante soffermarsi sulla tecnica usata da Scarlatti per derivare da una frase precedente il materiale melodico per costruire le frasi successive (una tecnica che trova riscontro anche nella

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Sonata in Fa maggiore, proposta per intero poco più sopra: in quella sonata, le frasi segnate con la lettera b. e la lettera c. sono chiaramente derivate dalla prima frase alla lettera a., mentre d. si può considerare come derivato dal fine in quartine di semiminime, della stessa frase a.; e., nella seconda parte, è chiaramente ancora derivato da a.).

C’è una differenza fondamentale tra il modo di fare di Scarlatti, nel derivare una frase dal materiale melodico presentato in una frase precedente, e la prassi della elaborazione del materiale melodico/soggetto, comune nel periodo barocco; ed è che la cellula estrapolata dalla frase precedente e più o meno trasformata, si coagula in un nuovo tema, derivato e nello stesso tempo differente dal primo.

Contribuisce sicuramente alla identificazione della frase come una frase dotata di una certa autonomia, il gioco della ripetizione, della ripercussione in eco o in funzione di perorazione della stessa cellula; la cellula, così ripetuta, si fissa e si imprime nella percezione con proprie caratteristiche strutturali ed espressive autonome rispetto al materiale da cui è derivata.

Basta il rapido confronto di queste musiche di Scarlatti con la allemanda della suite inglese in Sol minore di Bach, sopra riportata in parte, per cogliere pienamente la differenza del modo di immaginare e creare la musica nei due musicisti. Nell’allemanda la musica di Bach si muove in assenza di tema, il materiale melodico scorre fluido, suscettibile a tutte le trasformazioni plastiche che la facoltà creativa e il gusto del compositore ritengono opportune; la musica di Scarlatti procede affiancando frasi le une distinte rispetto alle altre. Non è un caso che Scarlatti usi in misura notevolmente ridotta il procedimento della progressione e che esso sia raro perfino nella sezione della transizione: proprio la progressione che, per la sua capacità di fluidificare e indirizzare dinamicamente e senza soluzione di continuità la frase, era uno degli strumenti tecnici preferiti dai musicisti dell’epoca barocca.

Nella musica di Scarlatti svolge un ruolo decisivo l’armonia. È proprio nell’uso dell’armonia, che Scarlatti si comporta in modo indiscutibilmente diverso dai suoi contemporanei, sia sul piano dell’uso dell’armonia come supporto della struttura formale della musica, che sul piano della formazione degli accordi e del movimento melodico sulla base armonica.

Ma, per favore: che si evitino termini assolutamente inadeguati come “innovatore” o “precursore” per definire le qualità di Scarlatti: egli non innova né precorre nulla; semplicemente, partendo dalla base del comune linguaggio del suo tempo e agendo in una zona geografica di confine, poté sviluppare un uso di quel linguaggio personalissimo ed efficacissimo, senza curarsi del giudizio che gli ambienti accademici avrebbero potuto dare della sua musica.

Nella prima parte della sonata in Re maggiore vista proprio ora, se ne può osservare un esempio lampante: dopo la sospensione con punto coronato sulla Dominante della tonalità di impianto, Scarlatti, del tutto inaspettatamente, apre con straordinaria potenza ed indiscutibile efficacia alla tonalità di Do maggiore, effettuando una modulazione per transizione a dir poco inusuale per i suoi tempi. È solo un esempio, ma basta a far immaginare gli esiti possibili in un orizzonte tanto ampio di possibilità esecutive. L’uso di un’armonia come questa si coniuga alla perfezione con una musica come quella di Scarlatti, composta frase per frase, gustando il valore espressivo di ognuna di esse: perché l’armonia le personalizza, le colora, le confina e le caratterizza sul piano espressivo. Una manifestazione evidente di un modo di usare l’armonia come questo è nella frequente inversione di modo, da maggiore a minore o viceversa:

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D. Scarlatti, Sonata in Mi maggiore (parte)

Oltre che nella immediata successione di della stessa frase fatta sentire prima nel maggiore, poi nel minore, il cambiamento di modo si può presentare in due sezioni successive della stessa sonata44:

D.Scarlatti, Sonata in Fa maggiore (parte)

L’armonia di Domenico Scarlatti sa essere personalissima anche quando si tratta di costruire gli accordi; non sempre, ovviamente, perché in ogni caso Scarlatti è figlio del suo tempo e dunque si esprime in larga parte entro i termini della grammatica musicale del suo tempo. Ma vi sono delle deviazioni che non si inquadrano in quella grammatica, e che costituiscono un personale approdo dell’evoluzione del linguaggio musicale (non ci si stancherà di ripetere che tale personale evoluzione fu il frutto del sostanziale isolamento dell’attività produttiva di Scarlatti).

44 La sonata portata come esempio è un Fa maggiore, ma all’interno si presentano numerosi cambiamenti di tonalità; a battuta 19 viene tolto il bemolle in chiave per passare in Do maggio, ma all’interno della sezione in Do maggiore, come si vede nell’esempio riportato, si passa quasi subito a La minore; l’inversione di modo si attua passando proprio da questa tonalità di La minore alla sezione successiva, che esplode in un luminosissimo La maggiore.

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Sono assolutamente originali grappoli di note che somigliano a cluster; non si tratta, naturalmente, di veri e propri cluster, ma di note che si raggruppano attorno a note dell’accordo; tali note aggiunte attorno a quelle dell’accordo vanno interpretate come acciaccature delle note reali; ecco un paio di esempi:

D.Scarlatti, Sonata in La maggiore (parte):

D.Scarlatti, Sonata in La minore (parte):

In altri casi le concrezioni armoniche si manifestano in modo inconsueto per l’uso frequente che Scarlatti fa di note pedale, poste sia al grave, come in una della parti interne; nell’esempio che segue viene tenuto il Mi come pedale mediano:

D.Scarlatti, Sonata il La maggiore (parte):

Certo, resta che, acciaccature, pedali o altro che ciò sia (e senz’altro sono acciaccature e

pedali), una scrittura del genere è del tutto straordinaria non solo nel periodo barocco, ma anche successivamente al barocco. Fin qui abbiamo visto solo la prima parte di alcune sonate di Scarlatti; ciò, perché le peculiarità dello stile di Scarlatti non si concentrano in qualche luogo particolare della sua musica, ma si stendono omogeneamente in ogni sua parte; non è quindi necessario fermarsi a lungo sulla seconda parte della sonata scarlattina; basterà ricordare che essa si articola fondamentalmente in due parti: la prima, nella quale si effettua un’ampia digressione con modulazioni più o meno rapide a tonalità vicine e lontane rispetto a quella di impianto45; la seconda, nella quale viene ripreso il

45 Ricordo che le modulazioni nella musica anche dell’ultima fase del barocco sono solo ai toni vicini.

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tema conclusivo della prima parte, ma naturalmente nel tono di impianto (il tema conclusivo è identico nella prima e nella seconda parte; cambia la tonalità, che nella prima parte sarà quella del tono raggiunto alla fine della parte, mentre nella seconda sarà nella Tonica). Nel corso della digressione modulante, possono essere riprese una o più idee sentite nella prima parte, come anche è possibile che ne siano esposte di nuove, con ulteriore accumulo di materiale tematico.

In tale proliferare di idee musicali, la ripresa della parte conclusiva della prima parte si giustifica pienamente: essa serve a chiudere il cerchio delle invenzioni, a mettere un confine al seguito delle frasi e a far capire all’ascoltatore che la musica sta finendo. Immaginiamo: sarebbe mai stato possibile chiudere in altro modo una musica tanto ricca, varia e imprevedibile? Togliendo prevedibilità alla conclusione della musica, una qualsiasi altra idea o frase musicale sarebbe stata percepita come una delle frasi nel corso della musica; sarebbe stato difficile, in altre parole, conferire ad essa il carisma di “frase conclusiva”. Al contrario,una frase che già è stata sentita come frase conclusiva di una parte precedente della musica, ora per giunta riproposta nel tono d’impianto, svolgerà il compito con precisione millimetrica.

3.1. Scarlatti precursore? Vi sono degli aspetti della musica di Scarlatti che lo allontanano dallo stile musicale del suo tempo; l’uso dell’armonia e della modulazione, certo, ma anche e soprattutto la spiccata tematicità dell’invenzione, che si ripercuote inevitabilmente sulla struttura formale della musica stessa. Sono aspetti, che parrebbero avvicinare la musica di Scarlatti a quella del periodo successivo al barocco, e forse anche oltre.

In realtà, la distanza che separa Scarlatti dai sui contemporanei non è maggiore di quella che c’è tra Scarlatti e i musicisti del periodo classico. Quell’uso particolare dell’armonia e quel modo particolare di costruire gli accordi che abbiamo visto in Scarlatti, per esempio, non avrà prosecuzioni e finirà con Scarlatti stesso. Il personalissimo modo di comporre la musica avvicina Scarlatti ai musicisti del periodo successivo solo apparentemente. Un paio di osservazioni bastano a fugare eventuali dubbi. La prima è proprio in quel modo di comporre temi facendoli derivare da quelli già proposti; la seconda riguarda la struttura formale della musica di Scarlatti.

Anzitutto, quindi, il modo di costruire frasi estrapolando un elemento melodico-ritmico da una frase precedenti, trasformandolo e riforgiandolo in un altro tema, simile al primo ma da esso distinto; bene, questo modo di immaginare un tema musicale è fondamentalmente estraneo alla estetica musicale del periodo classico romantico. Per un musicista classico il tema è ciò in cui si concentra sinteticamente il senso dell’intera musica, eventualmente arricchendosi per contrasto tramite il confronto con altri temi, distinti da esso. La trasformazione del tema è impossibile per un musicista classico: trasformare un tema vorrebbe dire alterarne il significato, e dunque negare quell’unità di senso intuita originariamente e concentrata proprio nel tema iniziale; un tema, per un musicista classico, al più può essere ripreso, può essere sviluppato, ma non si può trasformare. La musica costruita sul tema - noi siamo abituati a questo genere di musica quindi possiamo intuirlo facilmente - ha bisogno di rispondere con certezza alla domanda: quale è il tema di questa musica?

Per Scarlatti il tema non è questo; un tema è dotato di un suo carattere, di una sua espressività, ma non si pretende di concentrare in esso il senso intero della musica; per Scarlatti, in altre parole, il tema è ancora in buona sostanza un materiale di base da cui trarre spunti per la successiva composizione della musica; il tema non è il centro focale della composizione. Semmai, si può dire che per Scarlatti la prima frase è quella in cui si concentrano le formule melodiche e ritmiche per ricavare le frasi e i temi successivi della sonata. Ai fini dell’espressione, per Scarlatti, è molto più importante il vitalismo effervescente dell’invenzione frase per frase; il tema, in sé, può anche essere abbandonato subito dopo essere stato fatto sentire; e capita, infatti, che alcuni dei più bei temi di una sonata siano abbandonati appena sentiti.

Sul piano della forma la sonata di Scarlatti si distanzia da quella classico romantica proprio perché manca l’idea di ricapitolare alla Tonica il contenuto dell’esposizione: la sonata romantica, proprio perché concentra il suo significato nei temi attraverso cui si esprime, ha bisogno del principio della

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ripresa: la ripresa, infatti, è la sintesi conclusiva, entro cui si stabilizza in definitivo equilibrio il contenuto tematico e di senso della sonata. Per Scarlatti la ripresa, intesa in questo senso, non ha senso. I temi di Scarlatti, l’abbiamo visto, non sono temi in cui si concentri il senso di una musica: sono frasi che si connettono a frasi, periodi a periodi. La ripresa della parte conclusiva della prima parte, quando si chiude la seconda, ha uno scopo eminentemente pratico, quello di far capire che la musica è finita, null’altro.

L’evoluzione della sonata da quella del periodo barocco a quella classica passerà per altre tappe, più coerenti alla evoluzione graduale dell’estetica e del gusto musicale di quel tempo. Ai fini dello studio sul fare musica, l’arte di Scarlatti costituisce in ogni caso un termine di confronto stimolante e interessante: è importante costatare come il modo di immaginare la musica, l’approccio iniziale nei confronti dell’invenzione musicale trovi ripercussioni nel modo di organizzare complessivamente il discorso musicale.

Infine, tolto anche questo interesse intellettuale nei confronti della musica di Scarlatti, resta il godimento estetico, che non ha alcun bisogno di giustificazione. La musica di Scarlatti spesso è bella, punto.

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4. Sviluppo della sonata: verso il tematismo Intorno al quarto decennio del XVIII secolo la sonata tende ulteriormente a semplificare il proprio assetto generale, riducendo a tre il numero dei movimenti, seguendo la successione allegro – adagio – allegro; i tre movimenti possono essere preceduti da un’introduzione lenta (largo).

Così come nella musica barocca ebbero un ruolo fondamentale gli strumenti ad arco e la ricerca stessa di una scrittura idiomatica sempre più appropriata per gli archi fu parte integrante dell’evoluzione della musica, per la musica del periodo galante e del periodo classico è centrale la funzione degli strumenti a tastiera, e tra di essi, in particolare, del clavicembalo prima, poi del pianoforte. Vi fu, anzi, uno scambio di funzioni tra gli strumenti ad arco e quelli a tastiera; se questi ultimi nella musica barocca raramente vanno oltre il sostegno armonico e la realizzazione del basso continuo nella musica d’insieme, nella musica del periodo successivo sarà del tutto normale trovare pubblicazioni di “sonate per strumento a tastiera con accompagnamento del violino”46.

La pubblicazione copiosa di sonate con un facile accompagnamento di strumenti ad arco rispose a una crescente domanda di musica da parte del pubblico dilettante; alla stessa domanda risi adeguò anche la semplificazione della scrittura per gli strumenti a tastiera e la individuazione di formule, come quella del basso albertino, che, sciogliendo gli accordi, ne permetteva una facile esecuzione e, nello stesso tempo, consentiva alle armonie di essere mantenute per tutto il tempo necessario:

F.J.Haydn, Adagio della sonata in Do maggiore, Hob. XVI: 35 (parte)

Fu proprio la prassi diffusa del dilettantismo a determinare, in parte, le scelte di gusto decisive per l’individuazione dello stile classico; e prima di tutto proprio la semplificazione del linguaggio musicale, dalla scrittura strumentale fino all’armonia e alla struttura della musica.

Il cambiamento della sonata tra la fine del barocco e il periodo galante e classico fu dovuto a un profondo mutamento del gusto, a sua volta dipendente da un altrettanto profondo cambiamento di atteggiamento nei confronti della vita e del mondo. Ovviamente, non è questo il luogo dove fermarsi a studiare le ragioni e i modi di tale cambiamento; qui ci interessa rilevare l’aspetto specifico che riguarda il fare musica, e che riflette all’interno del linguaggio e dell’arte musicale quel profondo mutamento. Per il musicista barocco comporre è sostanzialmente costruire dal nulla, comporre è forgiare la materia inerte, il materiale melodico e ritmico apparentemente più povero e insignificante attraverso l’artigianato paziente, il lavoro di elaborazione fatto di cesello, la fantasia, e il costante riferimento a principi oggettivi di equilibrio delle parti nel contesto generale. Per il musicista classico sarà prioritaria l’intuizione del tema: e il tema è una frase chiusa o un periodo chiuso e di senso compiuto in cui si concentra sinteticamente il contenuto del discorso musicale. Comporre, ora vuol dire sapere mettere nella giusta evidenza i contenuti di quel tema, eventualmente anche facendolo contrastare con altri temi e completando il senso della musica attraverso l’affiancamento di più temi; sarà centrale, per questo, la tecnica dello sviluppo come luogo nel quale vengono appunto portati in superficie i contenuti fondamentali dei diversi temi.

Insomma, cambiando il gusto, cambia la prospettiva del far musica, e se prima essa si faceva elaborando motivi melodico-ritmici/soggetti, ora il discorso musicale si costruisce

46 Per esempio nel 1765, di Johann Schobert, Trois Sonates pour le clavecin avec accompagnement de violon et basse ad libitum, op.6. L’accompagnamento dello strumento aggiunto alla tastiera era facoltativo e poteva essere realizzato dal violino o dal flauto; si trattava di note lunghe, per lo più, o del raddoppio all’ottava inferiore della melodia; era normale, infine, che la parte del basso fosse raddoppiata da un violoncello.

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raggruppando frasi o periodi e facendone sezioni riconoscibili all’interno delle parti di cui un certo movimento di una sonata si compone.

La musica barocca è un flusso continuo, lungo il quale si esercita la fantasia costruttrice dell’autore, che plasma la materia e la trasforma. La musica classico-romantica si concentra sul tema, su quella parte chiusa del discorso nella quale si stabilisce perentoriamente la materia intorno alla quale sviluppare il discorso; il flusso continuo del pensiero musicale barocco si spezza in frasi e periodi chiusi, riconoscibili gli uni rispetto agli altri.

È necessario a questo punto immaginare una struttura nuova, capace di connettere frasi e periodi chiusi di raggrupparli tra loro per fare sezioni all’interno di parti e movimenti.

Il compositore barocco parte dall’elemento melodico-ritmico e procede verso la fine della prima parte di un movimento elaborando quell’elemento; il compositore classico forgia un tema e lo chiude con una cadenza nella sua tonalità: poi?, come andare avanti escludendo la possibilità della elaborazione e trasformazione?

Naturalmente, questa ora proposta è una sintesi assai generale e la realtà, per definizione, va al di là dei confini di qualsiasi sintesi tentata. Diciamo che anche questa sintesi, quindi, ha il valore di una statistica: nella maggioranza dei casi succede così, ma non c’è da stupirsi se guardando la musica si dovessero trovare dei casi in aperta contraddizione con essa.

4.1. La scrittura della sonata classica Poco prima della metà del XVIII secolo la scrittura della musica strumentale comincia a semplificarsi; ne fa le spese il contrappunto, che da secoli era stato considerato come il mezzo più idoneo a conferire compiutezza alla costruzione della musica. L’invenzione è essenzialmente omofonica, con una linea melodica, caratterizzata da figure varie e contrastanti, appoggiata su un percorso armonico semplice fino alla essenzialità, che procede a ritmo più lento rispetto alla linea melodica. Ciò, essenzialmente perché si vanno escludendo dalla scrittura le armonie derivate dalla sovrapposizione delle linee melodiche sovrapposte in contrappunto.

Nel corso del periodo classico romantico questo stato di cose conosce una evoluzione che porta a un recupero graduale e pieno del valore costruttivo del contrappunto; sarà in ogni caso un modo diverso di usare il contrappunto, tendente a mettere nel massimo rilievo e ad amplificare il valore della melodia tematica. Vediamo alcuni esempi, partendo da una scrittura chiaramente omofonica e proseguendo verso una scrittura più contrappuntistica:

C.P.E.Bach, Allegro molto della Sonata il La maggiore W65/37 (parte)

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PAOLO TEODORI, Fare musica 153

L.van Beethoven, Rondò della Sonata n. 15, op. 28 (parte)

J.Brahams, Allegro della Sonata n. 1, op.1 (parte)

E’ evidente in questo ultimo esempio – ma già si intravede qualcosa di simile nell’esempio precedente - la tendenza a ispessire la scrittura musicale, arricchendo la linea melodica di movimenti contrappuntistici discreti. Naturalmente, si potrebbero portare esempi in cui ancora più evidentemente il contrappunto interferisce con l’essenzialità del tema; ma varrebbe in ogni caso quanto detto: si tratta di un contrappunto di amplificazione, un allargamento dello sfondo entro cui gravita il senso del tema; ma il tema resta il punto di partenza attorno cui e per il quale si costruisce la musica. Proprio le ultime battute dell’esempio tratto dalla sonata di Brahms mostrano un’altra possibilità assai sfruttata nella scrittura per pianoforte, quella cioè di irrobustire la sonorità e di modellarla timbricamente con accordi che seguono il percorso della melodia.

La tendenza alla semplificazione trovò immediata espressione nella più congeniale musica per tastiera, ma si estese a tutti i generi della musica strumentale.

È rappresentativo il caso della sinfonia; l’organico è diviso nelle famiglie dei legni (nel periodo classico sono inclusi nell’orchestra l’ottavino, il flauto, l’oboe, il clarinetto, il fagotto), degli ottoni (fanno parte dell’orchestra classica i corni, le trombe, i tromboni), delle percussioni (in genere sono presenti i timpani; più rari altri strumenti) e degli archi (divisi in violini primi, violini secondi, viole, violoncelli; la parte del contrabbasso coincide quasi sempre con quella del violoncello, e, anzi, nella musica sinfonica del XVIII secolo non viene segnata come parte autonoma rispetto a quella dei violoncelli stessi); tale organico tende a espandersi notevolmente nel corso del XIX

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PAOLO TEODORI, Fare musica 154

secolo, raggiungendo all’inizio del secolo successivo la grandezza e la ricchezza massima possibile, considerata la capienza delle comuni sale da concerto.

Nonostante il numero piuttosto alto degli strumenti coinvolti nell’esecuzione di una musica sinfonica, la scrittura della musica si riduce idealmente a tre parti reali: quella della melodia, del basso e del riempimento armonico; nella maggior parte dei casi, ai primi violini spetta la condotta tematica, ai violoncelli (raddoppiati dai contrabbassi all’ottava inferiore) è affidata la parte di basso, mentre alle viole e ai secondi violini spetta il compito di chiarire e riempire le armonie, oltre che quello di contribuire, attraverso le loro figurazioni, alla propulsione ritmica della musica:

F.J.Haydn, Sinfonia in Re maggiore, n. 93, primo movimento (parte)

Naturalmente, sono possibili altre distribuzioni di compiti sempre all’interno della famiglia degli archi; anzitutto è possibile che ora una, ora l’altra parte partecipino in forma di dialogo alla conduzione del tema assieme a quella dei primi violini:

ibidem:

Sono possibili inoltre, benché poco frequenti, fugati iniziali, in cui ogni parte entra sul soggetto; ma si tratta di accenni più che di vere realizzazioni di scritture contrappuntistica; infatti, proprio come

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PAOLO TEODORI, Fare musica 155

accade nell’esempio che segue, quasi subito il contrappunto viene corretto in un impianto saldamente omofonico; vediamo l’esempio della pagina che segue:

F.J.Haydn, Sinfonia in Re maggiore, n. 9, terzo movimento (parte)

E’ anche possibile giocare sull’elemento timbrico, alternando zone in cui la scrittura è più fitta, ad altre in cui si assottiglia, lasciando tacere alcune delle parti:

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PAOLO TEODORI, Fare musica 156

F.J.Haydn, Sinfonia in Sol maggiore, n. 94, primo movimento (parte)

Infine, si possono operare tutti i raddoppi immaginabili al fine di ottenere potenziamenti e impasti timbrici diversi delle parti, o rafforzamenti di una parte melodica mandandone per terze o seste parallele un’altra; nell’esempio che segue la quartina discendente della prima battuta è realizzata all’unisono da flauti e oboi, mentre il fagotto procede all’ottava inferiore; dalla terza battuta lo stesso frammento viene intonato per terze parallele, prima da primi violini e viole, quindi, alla battuta successiva, da bassi e secondi violini:

F.J.Haydn, Sinfonia in Re maggiore, n. 93, quarto movimento (parte):

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PAOLO TEODORI, Fare musica 157

Almeno nella fase iniziale del romanticismo in musica, quello che coincide col periodo dei classici viennesi, gli strumenti a fiato giocano un ruolo sostanzialmente secondario nella strumentazione orchestrale; la loro funzione resta confinata a quella del potenziamento del suono degli archi, che si ottiene raddoppiando le parti all’unisono o in ottava, o amplificando le armonie, tenendo i suoni degli accordi mentre gli archi si muovono; nella pagina che segue, sempre tratta da una sinfonia di Haydn, il fagotto raddoppia la parte dei bassi, mentre i flauti insieme agli oboi tengono i suoni dell’armonia sul movimento realizzato dagli archi:

F.J.Haydn, Sinfonia in Sol maggiore, n. 94, primo movimento (parte)

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PAOLO TEODORI, Fare musica 158

Ancora solo occasionalmente i fiati suonano da soli:

ibidem:

Certo, siamo lontanissimi da quell’ideale di equilibrio tra le varie sezioni che si realizzerà alla fine dell’Ottocento, sfruttando a pieno le risorse di ognuna di esse: vanno considerati a questo proposito i grandi miglioramenti tecnici che si realizzano nella costruzione degli strumenti a fiato, consentendo figurazioni melodiche e ritmiche prima impensabili; in questo modo è possibile portare in primo piano il parametro timbrico nella composizione del discorso musicale.

La scrittura per gli organici cameristici formati da più strumenti è leggermente più complessa; qui entra in gioco, infatti, la necessità di coinvolgere nel gioco esecutivo tutti gli strumenti su uno stesso piano. Si tratta di musica, infatti, nata in un contesto domestico, cameristico e dilettantistico in cui è centrale il piacere di far musica assieme. La scrittura accoglierà quindi più spesso procedimenti di alternanza dialogica nella distribuzione delle funzioni; ma, rispondendo ancora a un principio di scrittura sostanzialmente omofonico, queste funzioni rimangono sempre le tre già viste parlando della scrittura orchestrale: quella della parte melodica principale, del basso, e del riempimento armonico ritmico:

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PAOLO TEODORI, Fare musica 159

W.A.Mozart, Quartetto in Sol maggiore, op. 10, n. 1, K. 387, primo movimento (parte)

Fatta salva questa maggiore varietà nell’attribuzione delle funzioni ai diversi strumenti coinvolti nell’esecuzione della musica, nella scrittura i punti di riferimento restano gli stessi che si sono accennati riguardo all’organico orchestrale: raddoppi, rafforzamenti, pienezza sonora alternata a momenti di maggiore sottigliezza in cui suonano solo alcuni degli strumenti.

In questo periodo della storia musicale c’è una grande varietà di organizzazione dei gruppi strumentali; un po’ per rispondere alla domanda proveniente dal numero crescente dei dilettanti, un po’ per soddisfare la richiesta più generale di musica che veniva dalla società del tempo, si compongono musiche per formazioni strumentali di tutti i tipi, dalle orchestre sinfoniche alla musica per pianoforte, passando per tutte le formazioni cameristiche che si possano immaginare47, le

47 A parte la musica per pianoforte, che numericamente prevale nell’insieme della musica cameristica, tra le varie formazioni possibili, il quartetto è sicuramente la formazione che meglio risponde alle esigenze di completezza sonora, di raffinatezza e libertà di espressione dei compositori del tempo; ciò, sia per la perfezione raggiunta ormai da tempo nella costruzione degli strumenti, come per il raggiungimento dei vertici della tecnica strumentale e l’esperienza di scrittura accumulata durante tutto il periodo precedente. Molto apprezzata è la musica per pianoforte e un altro strumento: il violino, soprattutto, ma anche altri strumenti, sia ad arco che a fiato. Per la musica di circostanza, per le feste nelle case

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PAOLO TEODORI, Fare musica 160

pubblicazioni di musica proliferano in tutta Europa, contribuendo allo scambio delle idee e all’acquisizione di un linguaggio comune, riconosciuto e adottato in modo del tutto analogo in Italia come in Germania ed Austria, in Inghilterra come in Francia, Spagna e Russia. Si consolida così un modo sostanzialmente unico di immaginare la conduzione del pensiero musicale, che poggia sui tre elementi accennati:

a. la melodia, disegnata con chiarezza e ben emergente, articolata in frasi variamente collegate fra loro, ma sempre rispondenti a un criterio di equilibrio e quadratura (vedi nel paragrafo che segue la costruzione della frase e del periodo nella forma musicale); nell’esempio che segue, preso da una sinfonia di Mozart, la melodia è affidata ai primi violini;

b. il basso, che sostiene e indirizza armonie semplici, ben piantate attorno ai cardini della Tonica e della Dominante della tonalità; la conduzione melodica del basso è fondamentale per chiarire l’articolazione del discorso e porre nel massimo rilievi i punti cadenzali; le cadenze, infatti, sono calibrate e usate con assoluta chiarezza di idee; sono scelte tra quelle finali e quelle sospese per comporre un discorso chiaro e lineare. Nello stesso esempio di Mozart che segue, si vede bene la prima frase di quattro battute costruita sulla semplice alternanza degli accordi di Tonica e Dominante, con chiusura tramite cadenza perfetta V-I sulla Tonica alla quarta battuta e la successiva frase, sempre di quattro battute, costruita con una progressione armonica derivata (gli accordi della progressione allo stato fondamentale sono Mi-La/Re-Sol); la conclusione della progressione con la cadenza imperfetta VII-I (Fa diesis-Sol) non chiude la frase e apre verso la frase successiva che qui sotto non è stata riportata;

c. l’accompagnamento, che nell’esempio qui sotto è realizzato dalle viole divise, dal pizzicato dei secondi violini e dalle note tenute dei fiati; l’accompagnamento è fondamentale per chiarire il senso delle armonie, riempire gli accordi e per dare impulso al ritmo della musica.

W.A.Mozart, Sinfonia in Fa maggiore K.43, Andante (parte):

dell’aristocrazia di fine secolo o qualsiasi altra occasione che richiedesse musica di intrattenimento, si compose musica per formazioni strumentali le più varie che si possano immaginare, affiancando strumenti ad arco a strumenti a fiato in numero variabile; tale numero si ferma in ogni caso sotto la decina.

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PAOLO TEODORI, Fare musica 161

4.2. Elementi della costruzione della sonata classica La composizione per raggruppamento di frasi e periodi implica la assegnazione di funzioni diverse e complementari alle frasi e ai periodi, gli uni nei confronti degli altri. Le funzioni delle parti del discorso si possono sintetizzare nelle seguenti:

a. tema Il tema è un pensiero musicale chiuso e di senso compiuto; in una musica concepita tematicamente, è l’elemento caratterizzante della musica, ciò che raccoglie sinteticamente l’intero significato di essa.

Proprio per essere un concentrato di senso, l’estensione di un tema è abbastanza limitata: può avere durata di un periodo o di un doppio periodo (otto, sedici battute); non ha mai una estensione minore, a volte può essere di durata maggiore. La chiusura del tema è sancita da una cadenza importante e ben evidente sulla Tonica della tonalità del tema stesso (quasi sempre finale perfetta); più raramente la cadenza può essere sospesa sulla Dominante.

A seconda della forma nella quale vengono calati, vanno distinti temi principali e temi secondari. L’importanza di un tema si misura direttamente in base alla forza di impatto di cui è dotato e per il modo con cui emerge sul resto della musica: si percepisce con chiarezza, in altre parole, anche se non sarà mai possibile determinarla con un metro assoluto.

L’importanza dipende dalla posizione del tema e da quel che ne fa il compositore. Riguardo alla posizione, è naturale che il tema con cui una musica inizia abbia una rilevanza maggiore rispetto agli altri; così, anche nel corso della musica, avranno una importanza maggiore quei temi che sono presentati nelle zone strategiche della struttura formale (per esempio il secondo tema della forma sonata, subito dopo il ponte); la composizione musicale sa adottare gli accorgimenti necessari affinché le idee tematiche siano messe nella giusta luce, a seconda del rilievo che ad esse intende assegnare il musicista. L’importanza di un tema, come accennato, dipende anche da ciò che ne fa l’autore: in linea generale si può dire che hanno un’importanza maggiore quei temi che sono posti in maggior rilievo e i cui elementi ricorrono più frequentemente nel corso della musica.

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Il tema è totalmente omogeneo; non ci sono modulazioni, al più dominanti transitorie che non disturbano l’unità tonale. I temi secondari, a volte, possono chiudere in tonalità diverse rispetto a quella di partenza.

F.J.Haydn, Sonata in Re maggiore, Allegro con brio (parte)

F.J.Haydn, Sonata in Mi maggiore, Moderato (parte)

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PAOLO TEODORI, Fare musica 163

W.A.Mozart, Sonata in Do maggiore, KV. 545, Allegro (parte)

M.Clementi, Sonata in Sol maggiore, op. 25, n. 2, Allegro con brio (parte):

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PAOLO TEODORI, Fare musica 164

L.van Beethoven, Sonata in Fa minore, op. 2, n. 1, primo movimento, Allegro (parte)

L.van Beethoven, Sonata in Fa minore, op. 2, n. 1, secondo movimento, Adagio (parte)

b. elementi di transizione Sono elementi di grandezza variabile che servono a collegare elementi tematici; la funzione di collegamento implica la loro indeterminatezza: non sono unitari totalmente e presentano modulazioni anche successive che non arrivano comunque a stabilire alcuna tonalità internamente all’elemento stesso di transizione, tramite cadenze di conferma. La funzione si può limitare a quella di collegare due temi espressi nella stessa tonalità (così come accade, per esempio, nella ripresa della forma-sonata), o due tonalità diverse su cui viene ripreso tuttavia lo stesso tema; in molti casi gli elementi di transizione servono a collegare temi diversi costruiti su tonalità diverse e acquisiscono quindi una duplice funzione di collegamento di temi e tonalità. Tematicamente sono autonomi o utilizzano materiale melodico e ritmico derivato dal tema che li precede. Così, per esempio è come prosegue il tema della sonata in Re maggiore di Haydn di cui prima abbiamo visto il primo tema; come

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si nota, qui l’elemento di transizione (il ponte), non ha alcuna affinità tematica col tema che lo precede; eccone l’esempio:

F.J.Haydn, Sonata in Re maggiore, Allegro con brio (parte)

Il tema della sonata in Fa minore della sonata op. 2, n. 1 di Beethoven che sopra è stato riportato prosegue con questo elemento di transizione (il ponte, come si vedrà oltre si dice nel caso della forma – sonata); l’elemento di transizione inizia dove indicato dalla freccia ed è chiaramente derivato dal tema che lo precede:

L.van Beethoven, Sonata in Fa minore, op. 2, n. 1, primo movimento, Allegro

(parte)

In alcuni casi, l’elemento di transizione è molto breve e serve più che altro collegare due idee tematiche; tali elementi si chiamano tecnicamente “suture” e si riconoscono facilmente,

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PAOLO TEODORI, Fare musica 166

sono elementi melodici privi di tematicità, quasi sempre realizzati con una parte sola, mentre tutto il resto tace o resta comunque sospeso:

L.van Beethoven, Sonata in Do maggiore, op. 2, n. 3, Allegro (parte) (N.B.: l’inizio della sutura, che dura appena due battute, è segnato con la freccia)

In questo altro caso l’elemento di sutura è appoggiato su un accordo di settima diminuita tenuto fermo dalla mano sinistra:

L.van Beethoven, Sonata in La maggiore, op. 2, n. 2, Allegro vivace (parte) (N.B. La freccia indica la fine dell’elemento di sutura)

W.A.Mozart, Sonata in Do maggiore, KV. 545, Allegro, (parte) (N.B.: l’elemento di sutura, della durata di una battuta, è segnato dalla freccia)

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PAOLO TEODORI, Fare musica 167

Spesso gli elementi di transizione terminano in modo da proiettarsi con incisività ed evidenza verso l’inizio della nuova idea tematica; per questo è frequente che un elemento di transizione si chiuda con un pedale costruito sulla Dominante della tonalità su cui verrà esposto il nuovo tema.

c. Coda La coda serve a chiudere una parte del discorso o l’intero discorso musicale.

Si presenta come una serie di cadenze reiterate nella tonalità conclusiva di quella parte della musica o della musica intera; è tipica la coda costruita attraverso una triplice ripetizione di una formula cadenzale, proprio come avviene nell’esempio che segue. La coda può svolgersi su elementi tematici già proposti, ma anche proporne di nuovi.

L.van Beethoven, Sonata in Fa minore, op. 2, n. 1, Allegro (parte) (N.B.: la coda inizia dove indicato dalla freccia)

d. Sviluppo Lo sviluppo è una caratteristica costruttiva del periodo classico e della sonata in particolare. Si rende necessario in una musica costruita intorno a idee tematiche spesso piuttosto distanti tra loro sotto l’aspetto espressivo; il suo compito è quello di riaccostare le diverse idee e di ricondurle entro un unico ambito di senso. Un compito cruciale quindi, fondamentale per conferire unità alla forma musicale. La sua presenza, per altro, consente al compositore un margine espressivo più largo, e di estendere i confini espressivi della musica senza correre il rischio di perdersi nel proliferare sconnesso delle idee musicali.

Nello sviluppo le idee tematiche ascoltate in precedenza sono riprese accostandole tra loro, spesso sovrapponendone gli elementi in contrappunto: ciò che prima era distino e lontano, ora è vicino, fuso in un’unica idea musicale.

Il dinamismo implicito di questa parte della costruzione musicale si esprime, sul piano armonico, attraverso rapide modulazioni a toni vicini e, soprattutto, lontani.

Nel corso dello sviluppo può presentarsi la falsa ripresa: consiste nella ripresa di un tema importante in una tonalità diversa da quella che gli è propria (la ripresa deve avvenire infatti nella tonalità di impianto).

La conclusione tipica dello sviluppo avviene sulla Dominante della tonalità su cui deve essere ripreso il tema.

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4.3. Verso la forma della sonata classica La composizione per addizione e raggruppamento di frasi e periodi, che pone al centro dell’invenzione il tema, induce in breve tempo a una riimpostazione della forma della sonata. È una riimpostazione profonda, che oppone la forma sostanzialmente aperta della sonata barocca alla forma chiusa di quella classico-romantica.

L’invenzione musicale per temi induce a confrontare gli stessi temi tra loro, lontani o vicini che siano, nell’espressione; in particolare implica quasi inevitabilmente il principio della ripresa; segna la strada verso la forma chiusa. L’addizione di frasi chiuse e idee tematiche in successione continua porterebbe inevitabilmente a una forma inconsistente, difficilmente comprensibile: la classica forma senza capo né coda. La composizione per temi, vuole che essi siano di numero limitato, e che la forma prenda corpo attorno a questi pochi temi: la ripresa, come si vede, è assolutamente necessaria, a meno che non si voglia limitare la dimensione della musica a poche battute.

Questo principio del tutto generale di organizzazione della forma della sonata, si incanalò poco a poco nel tempo verso di modelli formali diversi in superficie, ma simili nella struttura di fondo; essa, nella gran parte dei casi, è riconducibile allo schema A – B – A: è una struttura dotata di varietà, di equilibrio, di compattezza, e la sua circolarità (finisce come inizia) sigilla col crisma della perfezione circolare la forma. D’altra parte, si è visto come anche nella sonata effervescente di idee di Domenico Scarlatti, il modo più adatto (se non addirittura necessario) per chiudere la musica fosse quello di riprendere la parte conclusiva della prima parte; riprendere è un po’ riassumere nel segno di un’idea o delle idee più rappresentative, l’intera musica: dà il senso della compiutezza.

La variabilità formale della sonata barocca si indirizza verso moduli più individuati e caratterizzati: tali moduli saranno impiegati per dare forma ai diversi movimenti della sonata classico – romantica e li vedremo tra poco uno a uno. Intanto, conviene iniziare con la sonata del periodo di mezzo, subito seguente l’età di Bach, Haendel e Scarlatti.

5. La sonata del periodo di mezzo Il punto di partenza è quella domanda che i compositori attorno alla metà del XVIII secolo dovettero iniziare a farsi: una sonata inizia con un tema, e il tema viene chiuso con una cadenza nella tonalità di impianto: e poi?, come proseguire?

Dello schema della sonata barocca si salva per ora poco: solamente il punto di approdo alla fine della prima parte, sulla Dominante della tonalità di impianto. Come raggiungere questa dominante, ora che il tema è stato chiuso, e poi, ancora, cosa fare sulla Dominante, una volta arrivati?

Nella qualità della domanda c’è già in parte la risposta. Perché è chiaro, ora, che bisognerà distinguere il tema con cui si è iniziato, dalla parte successiva, che servirà appunto da transizione verso l’area della Dominante. Poi si dovrà decidere cosa fare sulla Dominante e come terminare la prima parte della sonata chiudendola col ritornello. A ogni domanda si risponderà componendo una parte adeguata, e il risultato sarà appunto quel procedere raggruppando frasi e periodi tipico di questo periodo della storia della musica.

Nelle sonate di Carl Philipp Emanuel Bach sono evidenti i segni dell’evoluzione della forma. E sono tanto più evidenti, per quanto in superficie esse appaiono simili ad una sonata barocca.

La sonata è in tre movimenti (cos’ come la sonata dell’ultimo periodo barocco), un allegro iniziale, un adagio, di nuovo un allegro per finire.

La forma interna dei movimenti è simile, quindi si può subito concentrare l’attenzione sul primo i essi. Vediamo qui sotto, come esempio, la Sonata in Re minore W.62/15, pubblicata nel 1756; l’Allegro moderato sembra assolutamente coerente al modello della sonata barocca, con la sua divisione nelle due parti, entrambe ritornellate, con la fermata, alla fine della prima parte, sul relativo maggiore e la ripresa del motivo iniziale proprio all’inizio della seconda parte. Ma è

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PAOLO TEODORI, Fare musica 169

evidente la distanza dallo stile barocco della costruzione interna del discorso musicale; in particolare, si fa notare la chiarezza con cui si distinguono al suo interno le singole parti:

Sonata del periodo di mezzo (intorno alla metà del XVIII secolo):

PRIMA PARTE: a. tema nella tonalità iniziale (Re minore), 4 battute;

b. transizione modulante (da battuta 5 a battuta 11) conclusa con un pedale sulla Dominante della tonalità che deve essere raggiunta (essendo la sonata in Re minore la tonalità raggiunta sarà quella del relativo maggiore, Fa maggiore, e il pedale, dunque sarà sulla sua Dominate Do);

c. c’è poi un secondo tema al relativo maggiore (battute 12 – 20), anche esso chiuso con una cadenza perfetta;

d. la coda conferma la tonalità raggiunta (battute 20 – 23); segno di ritornello.

SECONDA PARTE:

e. zona di instabilità tonale; la seconda parte inizia, così come era consuetudine nella sonata barocca, con la ripresa del motivo iniziale nella tonalità raggiunta alla fine della prima parte; non si tratta di vera e propria ripresa: è invece (ancora una volta come accadeva nella sonata barocca) una zona di instabilità tonale, che raggiunge, a battuta 33, la Dominante della tonalità di impianto (il La, Dominante della tonalità di Re minore);

f. ripresa della transizione modulante (batute 36 – 39)

g. ripresa del secondo tema nella tonalità di impianto, Re minore (battute 40 – 45)

h. ripresa della coda nella tonalità di impianto (battute 45 – 49).

Ecco nella pagina che segue, dunque, le due parti del primo movimento della sonata di Bach:

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PAOLO TEODORI, Fare musica 170

C.P.E.Bach, Sonata in Re minore, W. 62/15, primo movimento (parte)

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PAOLO TEODORI, Fare musica 171

Di questa sonata del figlio di Bach è da notare quindi la frammentazione del discorso in frasi e periodi ben delimitati gli uni rispetto agli altri e la ripercussione, sul piano della struttura generale, di questo modo di pensare il discorso stesso: la individuazione e la separazione delle frasi consegue da una interpretazione tematica dell’invenzione musicale; a sua volta ciò comporta quasi automaticamente il meccanismo della ripresa, necessaria per dare unità e compiutezza alla forma.

La forma della sonata barocca era sostanzialmente una forma aperta, logica conseguenza di una costruzione del discorso procedente per elaborazioni e trasformazioni di una cellula melodico

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PAOLO TEODORI, Fare musica 172

ritmica iniziale; la forma di questa sonata di Carl Philipp Emmanuel Bach è chiusa, assai vicina a una forma di canzone, come sono le sonate di questo periodo in generale e di quelle del periodo successivo.

In un’altra sonata dello stesso Carl Philipp Emanuel Bach, pubblicata nel 1754, si nota un altro fatto interessante:

C.P.E.Bach, Sonata in Mi bemolle maggiore, W. 65/28, primo movimento (parte)

In questa sonata, una volta arrivati sulla Dominante, non viene affermato un tema radicalmente nuovo; viene ripreso l’incipit del primo tema ed ad esso viene connessa una prosecuzione diversa. È una opzione del tutto frequente: la sonata può presentare due temi sui due piani tonali della Tonica e sulla tonalità raggiunta (Dominante o, nel caso di una tonalità minore iniziale, relativo maggiore); ma può anche presentare una stessa idea tematica proseguita diversamente la seconda volta rispetto alla prima. Entrambe le opzioni, come s’è visto più sopra, erano peraltro ben conosciute in epoca barocca (vedi sopra la sonata del tempo di Corelli); naturalmente, in un contesto di invenzione musicale non tematica, ma basata su elementi melodico ritmici da elaborare e trasformare.

La ripresa del tema iniziale nella tonalità raggiunta è frequente non solo in questa fase della storia della sonata, ma anche in quella successiva; ecco qualche esempio tra i molti disponibili (N.B. i temi riportati negli esempi subito qui sotto non sono riportati per intero):

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PAOLO TEODORI, Fare musica 173

F.J.Haydn, Sonata in Mi bemolle maggiore, primo movimento, Allegro (parte), 1789/90

primo tema:

ibidem,

secondo tema:

W.A.Mozart, Sonata in Si bemolle maggiore, K.V. 570, primo movimento, Allegro (parte), 1789

primo tema:

ibidem,

secondo tema:

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PAOLO TEODORI, Fare musica 174

M.Clementi, Sonata in Si bemolle maggiore, op. 47, n. 2, primo movimento, Allegro con brio (parte), 1781:

primo tema:

ibidem,

secondo tema:

Tornando alla sonata del periodo di mezzo, va ancora annotata la tendenza a limitare il numero delle idee tematiche proposte, e, dall’altra, la funzionalità prevalentemente ancora solo dinamica della sezione immediatamente successiva alla fine della prima parte (subito dopo il primo segno di ritornello). Questa sezione della sonata, ovvero, la maggior parte delle volte non ha funzione di sviluppo, così come sarà invece per le sonate del periodo successivo; d’altra parte, in una struttura semplice, tendente all’essenziale, come quella delle sonate del periodo di mezzo, non c’è la necessità di una parte, come uno sviluppo appunto, che raccolga e riaccosti il materiale tematico accumulato nel corso della prima parte della sonata.

Come si diceva su, i vari movimenti della sonata tendono ancora a uniformarsi sul piano della struttura; in particolare, il terzo movimento è del tutto analogo al primo. A volte è il secondo movimento che si presenta diversamente, evitando la ripetizione delle due parti attraverso il segno di ritornello; altre volte anche il secondo movimento si articola esplicitamente in due parti, e ognuna di esse è ritornellata.

Più sonate di questo periodo di osservano, più ci si convince che l’origine della sonata classico-romantica non sia da cercare nel bitematismo (come s’è visto, spesso le sonate anche del periodo classico- romantico non sono del tutto bitematiche, né il bitematismo è un’invenzione dei musicisti di quel periodo), e neppure è da cercare nella contrapposizione delle aree tonali della Tonica e della Dominante: la valorizzazione sul piano della struttura di tale contrapposizione si trova troppo indietro nel tempo, per attribuire ad essa una specificità del modo di fare musica del periodo classico-romantico.

La sonata classico-romantica si evolve senza soluzione di continuità da quella del periodo barocco, adeguando il modo di articolare il pensiero musicale e la forma all’invenzione tematica.

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PAOLO TEODORI, Fare musica 175

6. La sonata del periodo classico romantico Negli ultimi decenni del XVIII secolo la sonata conosce una ulteriore evoluzione; tutte le forme musicali, e anche la sonata, naturalmente, conoscono una continua, più o meno veloce evoluzione. Ma quella della sonata di questi ultimi decenni del secolo, assume un carattere particolare e deve essere interpretata con particolare attenzione. Ciò, non tanto per la considerazione che della sonata e della sua evoluzione ebbero coloro che vissero allora, ma per il modo con cui alla sonata della fine del ‘700, in particolare a quella di Beethoven, guardarono i musicisti del XIX secolo, e con loro, di conseguenza, anche gli studiosi della storia musicale venuti successivamente.

Per evitare alcuni pericolosi fraintendimenti, sarà bene fissare preliminarmente alcuni punti:

a. La forma della sonata così come viene in genere descritta nei manuali scolastici che trattano delle forme musicali fu elaborata da teorici musicali formalisti (Carl Czerny e Adolph Bernhard Marx furono i primi) solo intorno al 1840: tali descrizioni, che riguardano le sonate degli ultimi decenni del XVIII secolo, non potevano essere conosciute dai musicisti autori delle sonate stesse, per ovvi motivi cronologici.

b. Fissare un punto di riferimento virtualmente perfetto nella curva evolutiva di una forma musicale è pericoloso e da un certo punto di vista sbagliato: semplicemente, non si prende affatto in considerazione il punto di vista di chi la musica la fa. La storia ha una direzione solo per chi viene dopo: certo non si può pensare che chi stesse componendo una sonata nel 1770, lo faceva pur nella consapevolezza che il modello di sonata che stava usando era imperfetto e che quello perfetto sarebbe venuto di lì a una ventina d’anni. Ogni età elabora il modello giusto per le proprie tendenze stilistiche e di gusto.

c. Nello stesso tempo, si deve riconoscere al modello della sonata individuato proprio alla fine del Settecento un valore storico diverso rispetto ai modelli elaborati precedentemente; i musicisti dell’Ottocento (a posteriori, quindi!), infatti, si riferirono ad esso come al modello compiuto della forma della sonata classico-romantica: come tale lo imitarono e lo riinterpretarono numerosissime volte.

d. Anche scorrendo di volo alcuni aspetti della storia della sonata dall’inizio del barocco alla fine del Settecento, abbiamo potuto costatare il fluttuare continuo del modello della forma della sonata: non esiste “la” forma della sonata, e non esiste non solo perché il modello si trasforma continuamente nel tempo, ma anche perché in uno stesso periodo potevano essere disponibili vari modelli di sonata, più o meno affini tra loro.

e. Dire che esiste un solo modello perfetto di sonata è errato, dunque; ma altrettanto errato, dal punto di vista di chi la musica la fa, è pensare, come ha fatto qualche studioso, che siccome non esiste “il” modello della sonata, non esiste alcun modello di forma della sonata. Sempre dal punto di vista di chi fa musica, la sonata non è un procedimento, ma una vero e proprio modello di forma cui riferirsi nel comporre.

Cerchiamo di capirci sui termini: la fuga, come si è visto, è un procedimento; un procedimento basato sulla tecnica imitativa e delle elaborazioni canoniche. E proprio perché la fuga è un procedimento e non una forma, ogni fuga è formalmente diversa dall’altra, diversa nelle proporzioni delle parti e anche nel numero stesso delle parti. Non si può dire a priori che una fuga sia fatta di esposizione divertimenti e stretti (lo si può dire solo relativamente al modello di scuola elaborato dai formalisti della metà dell’Ottocento); mentre, a priori, si può dire che la prima parte di un allegro di sonata è fatto di un tema alla Tonica, di un tema alla Dominante, di una transizione tra i due temi e di una coda48. Chi è convinto del contrario, provi a fare una fuga e provi a fare una sonata.

48 La sonata, come forma, può contenere parti che sono invece composte non in base a un modello di forma, ma riferendosi a un procedimento; così, per esempio, è per la maggior parte delle volte la transizione modulante tra il tema nella tonalità di impianto e quello sulla tonalità di arrivo nella prima parte della sonata; ancora come procedimento va considerato lo sviluppo.

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f. Nel corso del Settecento ci sono sempre stati modelli di sonata cui riferirsi, esattamente come oggi esistono modelli di canzone cui riferirsi quando se ne vuol fare una nuova. I modelli, tuttavia, non vengono in genere semplicemente replicati, ma adattati di volta in volta alle caratteristiche espressive di quella determinata musica. L’interpretazione del modello è ciò che contribuisce alla evoluzione del modello stesso, perché nella sua interpretazione, oltre che l’intervento personale del musicista, sta anche l’evoluzione del gusto e dello stile.

g. Al contrario del modello della fuga scolastica, inventato dai formalisti musicali della metà dell’Ottocento, la forma della sonata così come è stata descritta da quegli stessi formalisti è esistita nella realtà; tale forma trova il suo punto di riferimento ideale nella sonata beethoveniana, comprendendo le musiche di Beethoven fino all’inizio del XIX secolo. Naturalmente questo modello di sonata non fu usato solo da Beethoven, ma fu del tutto comune ai musicisti di quel tempo; la forma della sonata classico-romantica fu individuata con chiarezza, prima ancora che da Beethoven, da Haydn e da Mozart; e scrissero musica usando lo stesso modello anche musicisti come Boccherini, Cherubini, Clementi, solo per fare alcuni nomi.

Veniamo dunque alla descrizione della sonata classico-romantica. Essa si articola in tre o quattro movimenti; ecco la successione più frequente dei movimenti:

1. sonata in tre movimenti: a. primo movimento, allegro, generalmente in forma-sonata;

b. secondo movimento, adagio o comunque tempo lento, generalmente in forma di canzone;

c. terzo movimento, allegro, generalmente in forma di rondò o, più raramente, in forma-sonata.

2. sonata in quattro movimenti: a. primo movimento, allegro, generalmente in forma-sonata;

b. secondo movimento, adagio o comunque tempo lento, generalmente in forma di canzone;

c. terzo movimento, minuetto/scherzo, in forma A – B – A (minuetto-trio-minuetto);

d. quarto movimento, allegro, generalmente in forma di rondò; a volte in forma-sonata.

Come alternativa sempre disponibile e conosciuta, come visto, già dall’inizio del periodo barocco, c’è quella del tema con variazioni; si può trovare come primo o, più raramente, come ultimo movimento.

Le indicazioni appena date non devono essere prese come regola rigida; nella pratica si trovano sonate anche di due movimenti, o, al contrario di più di quattro movimenti. Affini alla forma della sonata, ma composti appunto di un maggior numero di movimenti, sono le forme del divertimento, del tutto frequente nella seconda metà del Settecento, della cassazione e della serenata49.

49 Il divertimento è privo di forma prestabilita; consiste in una serie di movimenti di carattere brillante e facile ascolto. È musica di intrattenimento e gli sono affini, o addirittura coincidono con esso, le forme della serenata, della cassazione, del trattenimento. È in 3/7 movimenti, non mancano movimenti di danza e inizia in genere con una marcia. Nel XVIII secolo fu in voga in Italia e in Francia, ma soprattutto in Austria (Dittersdorf, M. e J Haydn, Mozart). È assolutamente degno di nota il fatto che Haydn avesse intitolato inizialmente come divertimenti dodici musiche per pianoforte che in un secondo tempo furono pubblicate come sonate. Mozart compose 33 div. ; il div. Ha la stessa forma della cassazione in Haydn e Mozart. Nel periodo romantico il divertimento non incontrò lo stesso favore, proprio per il suo carattere disimpegnato; alla fine il termine coincise con pout-pourris.

La serenata strumentale si sviluppò attorno al 1770 come forma autonoma, affine al divertimento, alla cassazione o al notturno; quindi da eseguirsi all’aria aperta; inizialmente era da eseguire solo con strumenti a fiato, in seguito si

aggiunsero gli archi.

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PAOLO TEODORI, Fare musica 177

Guardiamo ora più da vicino la struttura di ogni movimento della sonata classico-romantica.

6.1. Primo movimento: allegro in forma-sonata Il primo movimento della sonata in genere è un allegro in forma-sonata. A volte, l’allegro è preceduto da una introduzione grave; quest’introduzione, più che a determinare il carattere espressivo della sonata, serve a creare un momento di attesa, incanalato verso l’inizio dell’allegro. Per questo, sul piano armonico si presenta in modo indeterminato, con modulazioni frequenti che, mentre inducono cambiamenti continui di atmosfere e situazioni espressive, impediscono lo stabilirsi di una tonalità determinata. L’introduzione si conclude quindi con una cadenza sospesa, che trova la sua giusta risoluzione sulla tonica con cui inizia l’allegro; vediamo un esempio:

L.van Beethoven, Sonata in Do minore, op. 13, primo movimento, Grave (parte)

ecco ora la cadenza con cui l’introduzione della sonata si conclude sfociando nell’allegro:

ibidem:

Va detto che l’introduzione lenta fu piuttosto infrequente nelle sonate per pianoforte, mentre fu adottata quasi sistematicamente da Haydn nelle sue ultime sinfonie (sinfonie londinesi):

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F.J.Haydn, Sinfonia in Do maggiore, n.97, primo movimento, adagio-vivace (parte)

Anche questa introduzione, come si vede, si conclude sulla dominante della tonalità di impianto (Sol, Dominante di Do maggiore), con cui attacca il Vivace seguente.

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Come già detto, l’allegro del primo movimento è il più delle volte in forma-sonata; questo modello formale, per la sua complessità, compiutezza e ricchezza architettonica, costituisce sicuramente un vertice nella evoluzione delle forme musicali della nostra cultura. Come tale esso fu considerato dai musicisti e dagli storici della musica delle generazioni successive all’epoca classico-romantica. Ecco dunque la articolazione della struttura della forma sonata:

1. Esposizione a. Primo gruppo tematico, comprendente:

a.1. Primo tema, Tonica, di carattere generalmente determinato;

a.2. Transizione, ponte modulante (costruito con elementi tematici derivati dal primo tema o autonomi); il ponte si conclude in genere con una cadenza sospesa sulla Dominante della tonalità da raggiungere (ovvero quella del secondo gruppo tematico) o con un pedale, sempre sulla Dominante della tonalità da raggiungere.

b. Secondo gruppo tematico, comprendente: b.1. Secondo tema, Dominante o Relativo maggiore se la tonalità di partenza è minore; di carattere più espressivo e cantabile. Il secondo tema è più complesso del primo; in genere si articola in tre elementi tematici diversi. Per accentuare il contrasto espressivo tra il primo e il secondo tema, se la tonalità di impianto è maggiore, a volte l’autore può decidere di comporre il secondo sulla tonalità della Dominante minore (ovvero, posta la tonalità di partenza di Do maggiore, il secondo tema potrà essere in Sol minore, anziché in Sol maggiore come è di norma).

A volte, come si è visto poco più sopra, il secondo gruppo tematico propone inizialmente un tema il cui incipit è uguale al primo tema; ma, come è evidente anche negli esempi sopra proposti, resta che la prosecuzione del tema si indirizza verso una espressività più cantabile.

b.2. Coda, tonalità del secondo tema (codette). La coda presenta il più delle volte elementi tematici nuovi su una base armonica che, attraverso la ripetizione di formule di cadenza (è tipica dello

stile romantico la ripetizione per tre volte di un medesimo frammento tematico), conferma la tonalità del secondo gruppo tematico. È altrettanto frequente che la coda faccia risentire alcuni degli elementi tematici proposti precedentemente nel corso dell’esposizione. Dacché si articola in più frasi o periodi, questa sezione conclusiva dell’esposizione viene definita da alcuni come “codette”.

La coda si chiude con il segno di ritornello, così come la prima parte della sonata/suite Barocca.

2. sviluppo Lo sviluppo è il cuore della sonata. Deriva strutturalmente dalla zona dinamicamente instabile con cui iniziava la seconda parte della sonata/suite barocca; l’instabilità tonale che lì era realizzata con modulazioni frequenti ai toni vicini, qui, nello sviluppo della forma-sonata è accentuata attraverso l’uso di modulazioni ai toni lontani.

Nello sviluppo vengono ripresi alcuni degli elementi tematici sentiti nell’esposizione; tuttavia, mentre nell’esposizione essi si presentavano distanti gli uni dagli altri, qui sono accostati o addirittura sovrapposti in contrappunto. Lo sviluppo ha quindi la funzione fondamentale di ricondurre in un unico ambito espressivo il discordante materiale tematico accumulato nell’esposizione: mentre si accostano, sovrappongono e fondono le figure tematiche, si riavvicinano e unificano le loro qualità espressive in un unico bacino di significato.

È qui, nello sviluppo, che si recupera il senso dell’unità di forma e significato, messi a repentaglio nell’esposizione dalla proliferazione delle idee tematiche.

A volte nello sviluppo vengono proposte idee tematiche diverse da quelle sentite nell’esposizione; anche in questo caso tuttavia, viene mantenuta la funzione dinamica e di instabilità propria di questa parte della sonata.

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Lo sviluppo può contenere la cosiddetta “falsa ripresa”: essa consiste nella ripresa pressoché testuale del primo tema, ma in una tonalità che non è quella di impianto.

3. Ripresa (o Riesposizione) In questa parte viene ripresa per intero l’esposizione, mantenendo lo stesso ordine di successione degli elementi erano stati lì sentiti. Cambia tuttavia la dinamica tonale: a quella aperta dell’esposizione (apertura conseguente alla conclusione sospesa sulla Dominante o sul Relativo maggiore), fa riscontro la chiusura perfetta nella tonalità di impianto di questa ultima parte della forma-sonata. Ecco quindi, per maggiore chiarezza, anche la visione sintetica della Ripresa: a. Primo gruppo tematico, comprendente:

a.1. Primo tema, Tonica; a.2. Transizione, senza funzione di ponte modulante (il secondo gruppo tematico, infatti, è nella stessa tonalità di impianto del primo gruppo.

b. Secondo gruppo tematico, comprendente:

b.1. Secondo tema, Tonica; il secondo tema viene ripreso integralmente, quindi conservando

la sua eventuale articolazione in tre elementi.

b.2. Coda, Tonica; la coda nella ripresa ha proporzioni generalmente maggiori rispetto alla coda della esposizione. Anche qui, tuttavia, viene costruita ripetendo una formula di cadenza finale al fine di ribadire conclusivamente la tonalità di impianto.

Il fascino della forma-sonata, la fortuna che essa ha avuto durante le varie fasi del romanticismo e anche oltre, si deve alla sua complessità e compiutezza. È un arco dinamico impegnativo e di lunga gittata: la partenza sulla Tonica, la proiezione verso la Dominante o verso il Relativo maggiore alla fine della prima parte, l’instabilità accentuata della parte centrale, il ritorno alla tonalità di impianto. La sua complessità viene dalla ricchezza e dal contrasto dei contenuti espressivi propri di ogni tema; il procedimento dello sviluppo serve, come detto, a riaccostare, a far si che la ripresa possa ripresentare quelle tesse idee come modi differenti di manifestarsi di un’unica volontà espressiva.

La forma-sonata è una forma chiusa, riconducibile al modello ternario A –B –A: A, esposizione; B, sviluppo; A, ripresa. Le forme di canzone, in senso stretto, hanno una struttura tematicamente più essenziale, mentre, per i motivi accennati, la forma-sonata rappresenta uno degli approdi architettonici più complessi e ricchi della nostra cultura musicale.

6.2. Secondo movimento: adagio in forma di canzone Il secondo movimento della sonata è in forma di canzone (alcuni preferiscono l’espressione tedesca “lied”; non ne vedo il motivo, la parola “canzone” italiana è assolutamente adeguata per descrivere ciò di cui si sta parlando). Sono frequenti sia la forma ternaria A-B-A, che quella di quasi rondò A-B-A-C-A.

6.2.1. Il secondo movimento in forma A-B-A1 A. La prima sezione del secondo movimento strutturato in questo modo è totalmente unitaria e quindi tutta sostanzialmente nella tonalità d’impianto. L’estensione è variabile, a seconda dell’estensione dell’intera sonata; in genere, tuttavia, non si va oltre il doppio periodo.

B. La seconda sezione, in una tonalità vicina alla prima (spesso la relativa minore, se la tonalità iniziale è maggiore, o viceversa), propone un tema diverso rispetto a quello sentito nella prima. Tonalmente è più dinamica rispetto alla sezione A, quindi contiene in genere modulazioni ai toni vicini e/o lontani. Ha un’estensione uguale o leggermente maggiore rispetto alla prima

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A1. La terza sezione del secondo movimento in forma A-B-A riprende la prima; ma così come era comune nelle forme di canzone ternarie usate in musica durante il XVIII secolo (si pensi all’aria col da capo dell’opera), la ripresa presenta variazioni ornamentali melodiche rispetto alla prima sezione di questo secondo movimento.

6.2.2. Il secondo movimento in forma A-B-A1-C-A2

Si tratta, come si vede, di una forma quasi di rondò: A, infatti, svolge una funzione di ritornello, intercalato dalle sezioni B e C, diverse tra loro e dalla sezione A stessa. A. La prima sezione è nella tonalità d’impianto, senza modulazioni di rilievo; in genere non supera l’estensione di un doppio periodo

B. La seconda sezione è in un tono vicino; spesso nella tonalità relativa (minore se la tonalità di partenza è maggiore e viceversa); l’estensione è più o meno equivalente a quella della prima sezione.

A1 La ripresa della prima sezione è testuale o quasi e comunque nella tonalità di impianto.

C. Questa è la sezione più contrastante con le altre, sia sul piano tonale (in genere si svolge su – o almeno, anche su - una tonalità lontana rispetto a quella di impianto) che sul piano tematico. Totalmente è anche la sezione dotata di maggiore dinamismo, e quella, dunque, dove si possono ascoltare le modulazioni più frequenti.

A2 La seconda e conclusiva ripresa di A presenta variazioni di carattere ornamentale melodico rispetto alla prima sezione. A quest’ultima sezione si fa seguire in genere una coda per ribadire la conclusione del movimento.

6.3. Terzo movimento in forma di minuetto/scherzo Quando la sonata è in quattro movimenti, il terzo è un minuetto o uno scherzo. La presenza del minuetto nelle sonate degli ultimi decenni del Settecento, ricorda esplicitamente la loro discendenza dalle sonate/suite del periodo barocco.

Al carattere galante e leggero del minuetto, il romanticismo (già con l’opera di Beethoven) finirà col preferire quello infuocato e drammatico dello scherzo.

Il tempo dello scherzo è in ¾, come quello del minuetto; ma viene battuto molto più velocemente: tendenzialmente in uno.

Sia la forma del minuetto che quella dello scherzo è ternaria, ed è esprimibile sinteticamente nella formula A-B-A:

minuetto, nella tonalità di impianto (in genere quella dell’intera sonata);

trio, in un’altra tonalità; spesso nella omologa minore se la tonalità del minuetto è maggiore e viceversa;

minuetto; in genere non viene riscritto, ma alla fine del Trio si legge: “da capo a fine”.

La predilezione dei musicisti del periodo romantico per la struttura A-B-A è evidente; in questo terzo movimento dal piano generale della forma scende all’interno delle singole parti del movimento, sia nel minuetto che nel trio che si strutturano anche essi in una forma A-B-A; il più delle volte la ripresa di A, alla fine, è tuttavia solo parziale.

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L.van Beethoven, Sonata in Fa minore, op. 2 n. 1, Allegretto

La struttura A-B-A emerge con chiarezza in questo minuetto; la sezione A termina col segno di ritornello; di lì inizia la parte B che si conclude, con la ripresa di A, alla battuta 29. Vediamo ora il Trio che segue a questo minuetto nella stessa sonata di Beethoven:

ibidem, Trio

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Nel minuetto viene ripreso il tema iniziale da battuta 29; nel trio è evidente la ripresa parziale del tema iniziale dello stesso trio proprio alla fine, da battuta 64 in poi. In entrambi i casi, dunque, il modello di riferimento è quello della forma A-B-A: per quadrare la forma e darle unità, in musica, non c’è niente di meglio che finire come si inizia.

6.4. Quarto movimento: allegro in forma di rondò sonata Che la sonata sia in tre o quattro movimenti, l’ultimo di essi è in ogni caso un rondò; più raramente è anch’esso, come il primo, in forma-sonata.

Il rondò, in generale, è una forma in cui si alternano ritornello e strofe: la struttura ideale è esprimibile nella formula A-B-A-C-A-D-A ecc. nella sonata del periodo classico romantico, il rondò si struttura invece in una forma che è in una certa parte assimilabile a quella della forma-sonata.

La preferenza per una forma di rondò rispetto a quella di forma-sonata per l’ultimo movimento della sonata si spiega facilmente, non appena si osservi il carattere più semplice, leggero e meno complesso del rondò rispetto alla forma-sonata, appunto. Tutti i salmi finiscono in gloria: la sonata di questo periodo non fa eccezione.

Proprio per la vicinanza del rondò della sonata di questo periodo alla forma-sonata descritta sopra, alcuni definiscono questo tipo particolare di rondò come “rondò-sonata”.

Il rondò-sonata si scosta dalla forma-sonata, per il continuo ritorno del tema iniziale e, insieme ad esso, della tonalità di impianto; tale ritorno rompe la tensione dinamica della forma-sonata, a favore di una struttura, come detto prima, più leggera e briosa. Vediamo dunque più da vicino la articolazione di questo ultimo movimento della sonata.

a. primo tema, Tonica, carattere brioso

transizione, ponte modulante; derivato tematicamente dal primo tema o diverso da esso.

b. secondo tema, Dominante (o relativo maggiore nel caso di tonalità di im0pianto minore); carattere più cantabile ed espressivo rispetto al primo tema; come nella forma-sonata, così nel rondò-sonata il secondo tema ha una complessità maggiore rispetto al primo, e anche qui può essere costituito di tre elementi tematici differenti

a. ecco la grande diversità tra la forma-sonata e il rondò-sonata: nella forma sonata la prima parte si sospende sulla tonalità raggiunta (Dominante o Relativo maggiore), e la struttura si tende dinamicamente verso la prosecuzione e il ritorno più distante della tonalità d’impianto; nel rondò sonata il ritorno del tema sulla Tonica rompe la tensione dinamica e rasserena il carattere della musica.

c. è la sezione intermedia del rondò sonata, che conserva il carattere dinamico dello sviluppo della sonata, pur non essendo in alcun modo uno sviluppo; si svolge in una tonalità lontana

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PAOLO TEODORI, Fare musica 184

e presenta in genere un certo numero di modulazioni al suo interno; anche sul piano tematico è la sezione più contrastante col resto del movimento.

a. primo tema, Tonica;

transizione, senza funzione di ponte modulante, dal momento che la successiva sezione è ancora nella tonalità d’impianto

b. secondo tema, Tonica;

a. Primo tema, Tonica.

Coda; nella coda può essere ripreso l’elemento tematico sentito nella sezione c.; ciò soprattutto se tale elemento ha un carattere molto contrastante con gli altri elementi tematici del movimento; in questo caso, la ripresa di tale elemento contrastante rafforza il senso di unità della forma.

Guardando ora in un ultima sintesi la forma del rondò-sonata è facile vedere come anche essa, accanto alla forma-sonata, sia descrivibile con la formula A-B-A:

A B A.

a-b-a c. a-b-a

La forma della sonata ora descritta, si applicò in quel periodo e successivamente a moltissima musica strumentale, oltre che alle sonate per pianoforte: le sonate per due strumenti (pianoforte e violino o altro strumento), i trii, i quartetti, i quintetti così come le sinfonie adottarono un unico modello formale, corrispondente a quello ora descritto.

Anche il concerto solista è strutturato nello stesso modo. L’unica differenza è conseguenza dell’adattamento della forma-sonata alla particolarità dell’organico; nel concerto solista, infatti, l’esposizione viene ripetuta due volte (anche nella sonata, d’altra parte, l’esposizione dovrebbe essere ripetuta, rispettando il segno di ritornello posto alla fine di essa): la prima volta viene affidata all’orchestra, la seconda al solista. Ovviamente, dal momento che la ripetizione dell’esposizione è esplicita, quando finisce non si può trovare alcun segno di ritornello.

6.5. Tempo in forma di variazioni Nella sonata classica è anche possibile che un movimento sia informa di variazioni; naturalmente, questa era un’opzione già conosciuta e largamente apprezzata e praticata già dal primissimo periodo dell’epoca barocca.

L’argomento della forma delle variazioni è già stato trattato, più sopra, all’interno di questo stesso capitolo (cfr. supra, Digressione, “La forma delle variazioni”); è lì quindi che si rimanda per una descrizione della stessa forma e la relativa esemplificazione.

7. Evoluzione della sonata romantica Il modello ora descritto di sonata si impose proprio negli ultimi decenni del XVIII secolo; in seguito si guardò ad esso come punto di riferimento, apprezzandone la complessità, la ricchezza e l’equilibrio della forma. Tali qualità hanno fatto della sonata classica una delle forme più comuni e longeve della nostra storia musicale: se ne composero durante tutto il XIX secolo e ancora se ne scrissero nel secolo successivo come espressione della corrente neoclassica dell’estetica musicale.

Naturalmente, furono sempre possibili e sempre furono praticate articolazioni diverse della forma: diverse nel numero dei movimenti, per esempio, diverse nella loro disposizione o, ancora, diverse nel trattamento interno del materiale tematico. Non furono così rare, per esempio, sonate in due movimenti; è in due movimenti la Sonata in Fa maggiore K.v. 547 di Mozart (manca il movimento lento centrale), così come la Sonata in Do maggiore op. 53 di Beethoven (la “Introduzione, Adagio”

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posta tra il primo tempo Allegro e l’ultimo, Rondò, Allegretto moderato, non ha infatti la struttura di un movimento autonomo e deve essere considerata, così come Beethoven ha indicato nell’intestazione stessa, non più che un’introduzione). Più spesso ancora varia la disposizione dei movimenti interni. La Sonata in Mi bemolle maggiore K.V. 286 di Mozart inizia con un Adagio, prosegue con un Minuetto I, un minuetto II, e conclude con un Allegro che interpreta la forma sonata con la leggerezza e sinteticità di una sonatine, più che di una sonata. La Sonata in La maggiore K.V 331 inizia con un “Andante con variazioni”, prosegue con un Minuetto e conclude col famoso Allegretto “Alla turca”. Anche la Sonata in La bemolle maggiore op. 26 di Beethoven inizia con un Andante con variazioni, cui segue uno Scherzo con Trio, un Marcia funebre, e un Allegro finale. La Sonata in Mi bemolle maggiore op. 31 n. 3 sempre di Beethoven presenta come secondo movimento uno Scherzo, e come terzo un Minuetto. Nemmeno da citare sarebbero le due sonate dell’p. 27 di Beethoven, che, proprio per l’originalità della forma, indussero lo stesso Autore a intestarle con l’attribuzione aggiuntiva “quasi una fantasia”.

In molti casi, la disposizione interna del materiale tematico è diversa da quella descritta sopra nel modello della sonata classica; d’altra parte, quando si parla di temi, si invade il campo della interpretazione soggettiva di un modello astratto ed è facile, quindi, trovare aggiustamenti personalissimi dello stesso modello, aggiustamenti necessari per raggiungere i fini espressivi propri di ogni singola composizione musicale. Si guardi, per fare solo un esempio, alla ripresa del primo tema (batt. 137) nella Sonata in Fa maggiore op. 10 n. 2 che taglia la testa del tema stesso, ovvero le sue prime due battute, e riprende solo dalla terza battuta; si guardi ancora, sempre nel primo movimento ella stessa sonata, alla sezione che prende il posto dello sviluppo, subito dopo il segno di ritornello (batt. 67 e segg.): in questa sezione con ogni evidenza non si sviluppa alcunché si sia ascoltato nella esposizione, e si presenta invece il più bel tema cantabile di tutto il primo movimento (batt. 77 e segg.). Che dire ancora del tema in Si minore del primo tempo della Sonata in Re maggiore, op. 10 n. 3 sempre di Beethoven (batt. 23 e segg.); questo tema occupa il posto che dovrebbe essere quello del ponte modulante all’interno del primo gruppo tematico, ma ha un’incisività tematica tale, che difficilmente potrebbe essere ricondotta nei confini strutturali di una fase di transizione; per altro, questo tema in Si minore è decisamente più bello del secondo tema vero e proprio della sonata, quello in La maggiore, alla batt. 53.

Si potrebbero citare ancora molti casi, ma ciò non cambierebbe la valutazione complessiva delle cose: il modello comunemente adottato di sonata fu quello descritto prima; d’altra parte, essendo insita nel patrimonio genetico della sonata la estrema elasticità dei confini formali, le divergenze da quel modello devono essere viste come una ulteriore manifestazione di tale originaria elasticità. In nessun caso, le sonate manifestamente divergenti dal modello della sonata classico-romantica prima descritto rappresentano a loro volta un modello formale alternativo: sono casi unici, mai più ripresi in seguito.

A ciò va aggiunto che gli allontanamenti più e meno rilevanti dal modello della sonata comunemente seguito sono solo sulla superficie della struttura formale; essi investono la disposizione delle parti all’interno della struttura generale, la disposizione e il trattamento del materiale tematico: ma in tute le sonate fino all’inizio del XIX secolo resta salda la articolazione della forma fondata sulle funzioni dell’armonia tradizionale: la Tonica, la Dominante e il Relativo Maggiore quando l’impianto tonale è in minore.

Più radicale e decisivo, proprio sul piano della struttura e delle funzioni tonali che la supportano, è l’allontanamento che si compie successivamente, già dall’op. 31 n. 1 di Beethoven (siamo nel 1801/2). Qui si spezza l’asse Tonica-Dominante su cui si era incardinata la struttura della sonata almeno da un secolo indietro, a favore di una reinterpretazione del ruolo dell’armonia: resta il valore strutturante delle tonalità poste a confronto nelle diverse parti della forma, ma si sente e si vuole esaltare anche il gioco dei colori che le tonalità ricevono nei più vari accostamenti tra di esse. Ed è proprio sul valore coloristico dell’armonia che si concentra l’evoluzione del linguaggio musicale lungo il corso del XIX secolo. La Sonata in Sol maggiore op. 31 n. 1 si presenta dunque col primo tema, deciso, nella tonalità di impianto; il secondo tema, che secondo norma avrebbe dovuto essere alla Dominante, Re maggiore, viene proposto invece in Si maggiore; è un bel tema, questo in Si maggiore, ma non c’è dubbio che buona parte del suo fascino derivi proprio dal senso di apertura e allontanamento tonale che si percepisce attraverso lo spostamento a una tonalità

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lontana; ancora minore il dubbio riguardo il fatto che lo stesso identico tema, qualora fosse stato proposto in Re maggiore, sarebbe stato incredibilmente meno efficace50.

La modulazione che viene proposta in questa sonata tra primo e secondo tema (da Sol maggiore a Si maggiore) è esattamente del tipo che sarà preferito dai compositori dell’epoca romantica: la modulazione per transizione, tra tonalità poste a distanza di una terza; tant’è, che la stessa modulazione sarà riproposta da Beethoven stesso nella Sonata in Do maggiore op. 53 (del 1803/4) sempre tra primo e secondo tema. Nella ripresa, il primo tema torna nella tonalità di impianto, Do maggiore, mentre il secondo tema viene riesposto nella tonalità di La maggiore, effettuando ancora una volta una modulazione per transizione a una tonalità posta a distanza di terza (questa volta di terza minore inferiore rispetto alla Tonica). Varrà la pena di notare che un identico piano tonale era stato impiegato nella Sonata in Sol maggiore op. 31 n. 1: anche qui, infatti, il secondo tema, nella ripresa, viene riesposto nella tonalità di Mi maggiore, una terza minore sotto la tonalità di impianto di Sol maggiore.

Il rapporto privilegiato dei compositori romantici nei confronti della modulazione per transizione trova numerose conferme in tutta la musica della prima metà dell’Ottocento e anche oltre. Solo per fare un esempio: nella Sonata in Sol maggiore d.v. 894 del 1826, Schubert segue le orme della sonata in Sol maggiore di Beethoven citata: il ponte modulante si presenta più come una zona di contrasto rispetto al primo tema che come una vera e propria fase di transizione, ed esattamente come accadeva nella sonata di Beethoven, la tonalità si sofferma prima sulla tonalità di Si maggiore, quindi su quella di Si minore, per raggiungere con una rapida modulazione la tonalità di Re maggiore, Dominante della tonalità di impianto, su cui secondo modello viene proposto il secondo tema. L’effetto tonale è efficacissimo e si esalta nella doppia modulazione per terze: prima quella di terza maggiore da Sol maggiore a Si maggiore, poi quella di terza minore da Si a Re maggiore.

La musica di Schubert, per la dimensione onirica nella quale i temi vengono fatti sentire e rievocati lungo il suo corso (nelle sonate, certo, ma più in generale in tutto il repertorio schubertiano), deve quasi interamente il suo fascino all’effetto che provoca l’accostamento inatteso delle tonalità; l’esempio che segue è indicativo, ed tratto dalla Sonata d.v. 958 del 1828:

50 Le tendenza a alterare l’originario impianto architettonico tonale della sonata non si limita alle musiche in

tonalità maggiore: nella Sonata in Re minore op. 31, n. 2 di Beethoven: il secondo tema, anziché presentarsi nella tonalità del Relativo maggiore, è in La minore (batt. 41 e segg.).

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Siamo nella tonalità di Mi bemolle maggiore, e il tema si appoggia con chiarezza su questa tonalità; ma si noti lo straniamento, la suggestione evocativa che comporta lo spostamento improvviso della tonalità da Mi bemolle maggiore a Re bemolle maggiore nella terza battuta del secondo rigo, accompagnato dall’indicazione dinamica del pianissimo…; si noti il senso di apertura che comporta il ritorno da Re bemolle maggiore a Mi bemolle maggiore, ottenuto rapidamente ancora una volta con una transizione di terza maggiore ascendente, passando d’improvviso dall’accordo di Re bemolle maggiore a quello di SI bemolle maggiore, Dominante di Mi bemolle; il tutto accompagnato dall’indicazione dinamica crescendo…

La crescente attenzione nei confronti del colore è un tratto che caratterizza fortemente il gusto musicale romantico; la musica di questo periodo, attraverso la ricerca attorno alle possibilità ancora inesplorate all’interno dei meccanismi tonali e dell’armonia, trovò una delle principali vie di espressione. L’Ottocento può essere letto proprio in questa luce: come secolo dedicato allo studio sulle capacità espressive del colore nel linguaggio musicale51; uno studio sempre più sottile e capillare, che partì nella musica di Beethoven dalla forma generale e dal modo di reinterpretarla e rigenerarla attraverso la diversa disposizione del materiale tematico e la diversa articolazione della forma, disposta su piani tonali diversi da quelli soggetti alla polarizzazione classica dei cardini tonali della Tonica e della Dominante.

Da questo interesse iniziale nei confronti dell’articolazione delle varie parti del discorso, si andò via via spingendosi sempre più nel particolare, verso la stessa disposizione degli accordi all’interno della frase; un approdo di tale percorso di ricerca è costituito dalla musica di Debussy: è noto il suo modo di comporre con l’aiuto costante del pianoforte, per “trovare” accordi nuovi e nuovi accostamenti degli accordi stessi. Per altro, l’evoluzione del gusto e del linguaggio musicale occidentale non ha esaurito l’interesse nei confronti del colore; ancora oggi gran parte dell’invenzione musicale (si pensi alla musica da film, alla musica per gli spot pubblicitari, ma anche a quella di più largo e semplice consumo) si concentra sulla individuazione di un colore che caratterizzi la musica e la individui rispetto alle altre.

51 La ricerca del colore non si esaurì entro i confini della tonalità e dell’armonia; basti pensare al rinnovamento della scrittura per il pianoforte - strumento romantico per eccellenza - e, ancora di più, all’arricchimento per numero e varietà di strumenti dell’intera orchestra sinfonica.

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Indice

PRIMA PARTE

Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 3 Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 4

1. Sapere come è fatta la musica per farla meglio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 4

2. Alcuni termini di uso comune. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 9

2.1 Stile. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 9

2.2. Genere. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 10

2.3. Struttura. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 10

2.4. Scrittura. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 11

2.5. Forma. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 11

Alcuni consigli preliminari p. 12

1. L’uso delle lettere nella analisi della musica. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 12

2. Come riconoscere accordi e tonalità. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 14

2.1. Identificazione dell’accordo indipendentemente dal contesto tonale. . . . . . . . . . . . . . . . . p. 16

2.1.1. Accordi scritti in verticale o sciolti in arpeggio. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 16

2.1.2. Accordi deducibili da figure contenenti note estranee. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 17

2.1.3. Come riconoscere gli accordi in una scrittura con un limitato numero di voci . . . . . . . . . p. 20

2.1.4. Durata dell’accordo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 22

2.2. Identificazione del contesto tonale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 23

Primo capitolo Come si dà forma alla musica. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 24

1. Formare la Musica. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 24

1.1. Ripetere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 24

1.2. Diversificare. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 24

1.3. Variare. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 24

2. Forma e valore di senso. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 25

3. La musica come un discorso p. 26

Secondo capitolo L’articolazione della musica. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 28

1. Elementi di ritmica. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 28

1.1. Ritmo libero. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 28

1.2. Ritmo misurato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 29

1.2.1. Ritmi iniziali e ritmi finali. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 31

2. L’articolazione del discorso musicale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 33

2.1. L’articolazione del discorso nella musica a ritmo libero. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 33

2.2.1. L’articolazione regolare del periodo nella musica a ritmo misurato. . . . . . . . . . . . . . . . . p. 35

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2.2.2. L’articolazione libera del periodo nella musica a ritmo misurato. . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 40

3. Due prototipi formali: forma chiusa, forma aperta. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 41

3.1. Forma aperta. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 41

3.2. Forma chiusa. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 42

3.2.1. Alcune tipologie di forme chiuse. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 43

3.2.1.1. Struttura binaria. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 43

3.2.1.2. Struttura ternaria. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 43

3.2.1.3. Rondò. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 43

4. La forma della musica in presenza di altri linguaggi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 43

Terzo capitolo Immaginare e scrivere musica p. 45

1. Inventare a partire da… . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 45

1.1. Inventare a partire da un elemento melodico ritmico. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 45

1.2. Inventare a partire da un soggetto. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 47

1.3. Inventare a partire da un tema. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 48

1.4. Invenzione libera. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 50

2. Scrittura omofonica/polifonica, verticale/orizzontale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 50

2.1. Scrittura omofonica, scrittura polifonica. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 50

2.2. Scrittura orizzontale, scrittura verticale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 53

Quarto capitolo Le tecniche di costruzione contrappuntistica p. 55

1. Contrappunto libero. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 55

2. Contrappunto imitato. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 56

2.1. Il canone e le tecniche di costruzione canonica. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 56

SECONDA PARTE

60

Primo capitolo La fuga. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 61

1. Alcune forme vocali del Cinquecento: il mottetto e il madrigale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 61

2. Il ricercare e altre forme strumentali affini. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 64

3. La fuga. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 67

3.1. L’esposizione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 68

3.1.1. Le parti fisse necessarie. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 68

3.1.2. Le parti fisse non necessarie. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 70

3.1.3. Le parti libere. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 71

3.2. Lo sviluppo della fuga. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 71

3.2.1. Ripercussioni del soggetto alternate a divertimenti. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 71

3.2.2. Sviluppo secondo le tecniche del contrappunto imitato canonico. . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 71

3.3. Il pedale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 72

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3.4. Alcune considerazioni finali sulla “forma” della fuga. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 72

3.4.1. La fuga di scuola. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 73

4. Come si analizza una fuga. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 74

4.1. Individuazione dell’organico e della tonalità. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 74

4.2. Individuazione del soggetto. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 75

4.3. Risposta tonale/risposta reale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 77

4.4. Individuazione dell’eventuale controsoggetto. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 77

4.5. Individuazione della fine dell’esposizione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 78

4.6. Ripercussioni del soggetto e divertimenti nello sviluppo della fuga. . . . . . . . . . . . . . . . . p. 78

4.6.1. Individuazione di ogni ripercussione del soggetto. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 79

4.6.2. Divertimenti. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 81

4.7. Individuazione di eventuali pedali di Dominante o Tonica. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 83

5. La fuga a più soggetti. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 84

6. Lo stile fugato. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 87

Secondo capitolo La sonata. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 89

Premessa. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 89

1. La sonata della prima metà del XVII secolo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 90

1.1. La scrittura nella sonata della prima metà del ‘600. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 90

1.1.1. Organico, numero di esecutori; alcune note sulle edizioni moderne. . . . . . . . . . . . . . . . . p. 90

1.1.2. Tra contrappunto e omofonia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 92

1.1.3. Effetti di contrasto dinamico. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 99

1.1.4. Progressioni. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 99

1.1.5. Elaborazioni del modello melodico ritmico. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 101

1.2. La struttura formale delle sonate della prima metà del XVII secolo. . . . . . . . . . . . . . . . . p. 103

1.2.1. La sonata in più sezioni/movimenti e modelli melodici. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 103

Digressione La forma di variazione p. 106

1.2.2. La sonata “sopra l’aria di…” della prima metà del ‘600. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 110

1.2.3. Considerazioni finali sulle sonate della prima metà del ‘600. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 111

2. La sonata del periodo di Corelli. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 114

Premessa. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 114

2.1. Struttura: l’elaborazione degli elementi melodici tra omofonia e polifonia. . . . . . . . . . . p. 114 2.2. Elementi della composizione strumentale tra la fine del XVII secolo e l’inizio del secolo successivo. . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 116

2.3. La sonata da chiesa. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 120

2.4. La sonata da camera (suite) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 126

3. La sonata di Scarlatti. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 137

3.1. Scarlatti precursore? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 149

4. Sviluppo della sonata: verso il tematismo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 151

4.1. La scrittura della sonata classica. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 152

4.2. Elementi della costruzione della sonata classica. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 161

4.3. Verso la forma della sonata classica. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 168

Page 191: fare musica nov 2006 · 2017. 10. 4. · 5 PAOLO TEODORI, Fare musica dell’uomo che ci si trovano rappresentati, valori tanto profondi, da essere riconosciuti dagli uomini del suo

PAOLO TEODORI, Fare musica 191

5. La sonata del periodo di mezzo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 168

6. La sonata del periodo classico romantico. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 175

6.1. Primo movimento: allegro in forma-sonata. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 177

6.2. Secondo movimento: adagio in forma di canzone. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 180

6.2.1. Secondo movimento in forma A-B-A. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 180

6.2.2. Secondo movimento in forma A-B-A-C-A. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 181

6.3. Terzo movimento in forma di minuetto/scherzo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 181

6.4. Quarto movimento: allegro in forma di rondò sonata. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 183

6.5. Tempo in forma di variazioni. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 184

7. Evoluzione della sonata romantica


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