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Federico Gorio, contraddire per sopravvivere · 2015. 1. 24. · Ludovico Quaroni e Carlo Aymonino...

Date post: 18-Mar-2021
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7 SAGGI Introduzione Gli interessi progettuali e didattici di Federico Gorio appartengono a tre filoni tra loro stretta- mente connessi: l’urbanistica, l’architettura, la tecnica edilizia. Messi in quest’ordine, così co- me si sono presentati nella lunga e attivissima vita dell’ingegnere milanese che sceglie di svol- gere a Roma il suo lavoro. Insegna «Tecnica Urbanistica» alla Facoltà di Ingegneria di Roma fin dal 1939; riveste cariche importanti nell’INU e fa parte dei gruppi di progettazione del villag- gio La Martella e del quartiere Tiburtino all’ini- zio degli anni Cinquanta; ristruttura il Casale Gomez nel 1954, segnalandosi come progettista di rilievo nazionale; in quella stessa data scrive il testo chiave Appunti sull’urbanistica; ottiene l’incarico di «Tecnologia dei materiali» alla Facoltà di Ingegneria di Bari nel 1961; negli anni Sessanta pubblica alcuni saggi sull’industrializ- zazione degli elementi costruttivi. Queste atti- vità s’intrecceranno continuamente nella pro- fessione, nell’attività accademica, nelle cariche svolte in Enti ed Istituti di ricerca, così come nella sua riflessione teorica e sperimentale, illu- minandosi a vicenda. Sarebbe molto bello e utile poter dar conto dello sviluppo di questo denso e accidentato percorso man mano che esso si viene dipanan- do lungo più di cinquant’anni, in un confronto serrato con le vicende politiche, economiche e culturali della stessa storia italiana dal secondo dopoguerra fino agli inizi del terzo millennio; in particolare nel continuo colloquio con una generazione, nella quale sono presenti grandi personalità: da Giuseppe Samonà a Ludovico Quaroni, da Mario Ridolfi a Adalberto Libera, da Piero Maria Lugli a Michele Valori, da Giancarlo De Carlo a Giovanni Michelucci, da Franco Albini a Ignazio Gardella, da Giovanni Astengo a Luigi Piccinato, da Ernesto Nathan Rogers a Bruno Zevi, con molti dei quali Gorio ha stret- tamente collaborato. Non è però possibile, in queste note, dirimere una materia così comples- sa. Cercherò, quindi, di tracciare soltanto a grandi linee un itinerario di ricerca che, come si vedrà, ha caratteristiche assolutamente persona- li. Dividerò, per semplificarmi il compito, la materia nelle tematiche suddette, individuando- ne gli intrecci e le sintesi implicite o esplicite in alcune opere e testi teorici dello stesso Gorio. Intanto qualche accenno alla sua personalità. Gorio è allo stesso tempo intransigente e schi- vo. Propone spesso ipotesi estreme sia nella pianificazione sia nell’architettura, ma si defila dalla polemica. Si può affermare che egli sia mosso da ideali, se non eversivi, almeno origi- nalmente anarchici 1 , ma ciò finisce per estra- niarlo dalla vita politica militante che invece ve- de impegnati molti suoi colleghi ed amici. Egli, infatti, non si fa mai illusioni: rifugge da ogni atteggiamento fideista ed è pronto a denunciare con largo anticipo i probabili fallimenti di disci- pline, come quella urbanistica, che pur gli stan- no molto a cuore. Il suo modo di argomentare è complesso, non si svolge linearmente, ma se- condo un andamento oscillante ed induttivo che man mano aggrega ad un filo conduttore una serie di antinomie binarie o di dialettiche ternarie, la sintesi delle quali sembra allo stesso Gorio sempre più arduo configurare. Il suo elo- quio e la sua scrittura sono fascinosi, ricchi di metafore e di aggettivazioni imprevedibili, tanto che alcune sue definizioni restano impresse per la loro incisività. Si fida spesso più delle impres- sioni personalmente sperimentate che di ragio- Federico Gorio, contraddire per sopravvivere Alessandra Muntoni 007-030_Muntoni 14-11-2005 11:590 Pagina 7
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Page 1: Federico Gorio, contraddire per sopravvivere · 2015. 1. 24. · Ludovico Quaroni e Carlo Aymonino ne prenderanno le distanze appena cinque anni dopo. Il villaggio de La Martella,

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Introduzione

Gli interessi progettuali e didattici di FedericoGorio appartengono a tre filoni tra loro stretta-mente connessi: l’urbanistica, l’architettura, latecnica edilizia. Messi in quest’ordine, così co-me si sono presentati nella lunga e attivissimavita dell’ingegnere milanese che sceglie di svol-gere a Roma il suo lavoro. Insegna «TecnicaUrbanistica» alla Facoltà di Ingegneria di Romafin dal 1939; riveste cariche importanti nell’INUe fa parte dei gruppi di progettazione del villag-gio La Martella e del quartiere Tiburtino all’ini-zio degli anni Cinquanta; ristruttura il CasaleGomez nel 1954, segnalandosi come progettistadi rilievo nazionale; in quella stessa data scriveil testo chiave Appunti sull’urbanistica; ottienel’incarico di «Tecnologia dei materiali» allaFacoltà di Ingegneria di Bari nel 1961; negli anniSessanta pubblica alcuni saggi sull’industrializ-zazione degli elementi costruttivi. Queste atti-vità s’intrecceranno continuamente nella pro-fessione, nell’attività accademica, nelle carichesvolte in Enti ed Istituti di ricerca, così comenella sua riflessione teorica e sperimentale, illu-minandosi a vicenda.

Sarebbe molto bello e utile poter dar contodello sviluppo di questo denso e accidentatopercorso man mano che esso si viene dipanan-do lungo più di cinquant’anni, in un confrontoserrato con le vicende politiche, economiche eculturali della stessa storia italiana dal secondodopoguerra fino agli inizi del terzo millennio; inparticolare nel continuo colloquio con unagenerazione, nella quale sono presenti grandipersonalità: da Giuseppe Samonà a LudovicoQuaroni, da Mario Ridolfi a Adalberto Libera, daPiero Maria Lugli a Michele Valori, da Giancarlo

De Carlo a Giovanni Michelucci, da FrancoAlbini a Ignazio Gardella, da Giovanni Astengoa Luigi Piccinato, da Ernesto Nathan Rogers aBruno Zevi, con molti dei quali Gorio ha stret-tamente collaborato. Non è però possibile, inqueste note, dirimere una materia così comples-sa. Cercherò, quindi, di tracciare soltanto agrandi linee un itinerario di ricerca che, come sivedrà, ha caratteristiche assolutamente persona-li. Dividerò, per semplificarmi il compito, lamateria nelle tematiche suddette, individuando-ne gli intrecci e le sintesi implicite o esplicite inalcune opere e testi teorici dello stesso Gorio.

Intanto qualche accenno alla sua personalità.Gorio è allo stesso tempo intransigente e schi-vo. Propone spesso ipotesi estreme sia nellapianificazione sia nell’architettura, ma si defiladalla polemica. Si può affermare che egli siamosso da ideali, se non eversivi, almeno origi-nalmente anarchici1, ma ciò finisce per estra-niarlo dalla vita politica militante che invece ve-de impegnati molti suoi colleghi ed amici. Egli,infatti, non si fa mai illusioni: rifugge da ogniatteggiamento fideista ed è pronto a denunciarecon largo anticipo i probabili fallimenti di disci-pline, come quella urbanistica, che pur gli stan-no molto a cuore. Il suo modo di argomentare ècomplesso, non si svolge linearmente, ma se-condo un andamento oscillante ed induttivoche man mano aggrega ad un filo conduttoreuna serie di antinomie binarie o di dialetticheternarie, la sintesi delle quali sembra allo stessoGorio sempre più arduo configurare. Il suo elo-quio e la sua scrittura sono fascinosi, ricchi dimetafore e di aggettivazioni imprevedibili, tantoche alcune sue definizioni restano impresse perla loro incisività. Si fida spesso più delle impres-sioni personalmente sperimentate che di ragio-

Federico Gorio, contraddire per sopravvivere

Alessandra Muntoni

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namenti apparentemente scientifici, rifugge dalrazionalismo schematico, dall’Illuminismo co-me dall’utopia. Detesta gli slogan e le scorcia-toie, la burocrazia come il populismo. Dopotanti aspri conflitti, approderà quasi ad un ras-segnato pessimismo ontologico, ad un distaccofilosofico dalla contemporaneità, appena tem-perati dalla coscienza storica dell’origine dellecose.

Infine, netto è il suo distacco dalla cultura del-l’anteguerra: dall’architettura razionale italianacome dal meccanismo e dai contenuti della leg-ge urbanistica del 1942. Del resto non assimilacon facilità nemmeno il retaggio dei Maestri:parla quasi con fastidio di Gropius e Le Corbu-sier2; non gli piacciono i grandi modelli urbani,ma anche la cultura organica di Wright, chepotrebbe essergli vicina, lo spaventa per gli in-negabili rischi di formalismo; dichiara di averconosciuto la poetica del Raumplan di Loossolo dopo averla reinventata3. Lontano da ognilinguaggio, o teoria, alla moda, cerca un mododi esprimersi semplice, ma originale, che trovanella Casa del Maresciallo il punto più alto. In-fine, lavora spesso in gruppo, ma finisce poi pernon ritrovarsi nella soluzione adottata, se questaè imposta da personalità più determinate,rinunciando a sostenere le proprie idee con ladovuta energia. Anche con coloro che più am-mira e coi quali si sente maggiormente in sinto-nia, come Ludovico Quaroni o Giancarlo DeCarlo, non riesce a consolidare un rapporto cheregga negli anni, incapace com’è – lui così siste-matico – di seguire le impazienze, gli scarti logi-ci di quelli, abilissimi invece ad interagire con lacultura internazionale.

Il suo insegnamento è perciò originale e fuoridagli schemi, la sua eredità difficile, ma si ponecome un utilissimo ammaestramento per capirela nostra vicenda culturale e politica, sociale emorale.

Urbanistica e insediamenti abitativi: dina-miche e metamorfosi della città e del terri-torio

Una prima serie di opere, delle quali Goriofigura tra i protagonisti, si situa agli inizi deglianni Cinquanta, gli anni della ricostruzione: ilquartiere INA-Casa di Roma Tiburtino (1950-52), il villaggio rurale UNRRA-Casas La Martellaa Matera (1952), il quartiere San Giacinto aBrescia (1953) e la borgata di Torre Spagnola aMatera (1954). Si tratta di complessi che speri-mentalmente tracciano la strada della culturaurbanistica e architettonica italiana, e che – in

particolare per La Martella – Gorio, con Gian-carlo De Carlo, difenderà a spada tratta4: ilborgo, la piccola comunità contadina, celluladell’urbanizzazione estesa nel territorio, un’ar-chitettura che ha azzerato tutti i codici noti, perfar riemergere un’originaria lingua-base, laddo-ve la casa colonica, la tecnica muraria, la bassadensità edilizia, ma anche un apparente disordi-ne che è invece armonicamente misurato alpasso dell’uomo e alla dimensione minima del-l’unità familiare, sostiene una morfologia appa-rentemente debole e artificialmente spontanea.Si tratta di un’anomalia, o dell’illusione di unacomunità compatta e affratellata negli stessivalori di una dignitosa povertà basata sulla fati-ca e sul lavoro: comunità mediterranea dallecaratteristiche volutamente autoctone, oppureaddirittura aliene, tanto sono nuove e insiemeantiche, anzi arcaiche, le movenze dello spazio.

Gorio partecipa ad ognuno di questi quattroinsediamenti, ma a diverso titolo: al Tiburtinolavora sia col gruppo coordinato da Quaroni,sia con quello di Ridolfi. Le case che progettasono case in linea, che riescono a diventaretipologicamente e urbanisticamente interessantigrazie a quello snodo-Valori che connette levarie unità-scala, provocandone scatti e anda-menti eterogenei, oppure grazie all’originaleaggregazione di cellule esagonali5. L’effetto èquello neorealistico di un borgo antico, anzifuori del tempo, che parrebbe essere semprestato lì. Ludovico Quaroni e Carlo Aymonino neprenderanno le distanze appena cinque annidopo. Il villaggio de La Martella, invece – in col-laborazione con Quaroni – è volutamente estra-neo alle nuove realtà metropolitane, integratocom’è nella condizione rurale espressa, anzirappresentata, come organismo base del territo-rio disegnato dal lavoro agricolo. Ma il suo darsicome comunità individuata, complessa, com-pleta del suo centro civile e religioso e del suosfrangiarsi organico nei tenui filamenti dellecase e degli orti, il suo assestarsi, accomodarsi,nelle curve di livello della campagna, lo rendeun modello quasi cosmico, sociologicamentedimostrativo del progressivo evolversi dellasocietà in più moderni episodi di insediamento.Quelle case limpide e chiare, dislocate in curva,articolate in espliciti elementi funzionali sonoun incontro tra cultura mediterranea ed ispira-zione nordica, secondo un filone di pensieroche lega le ricerche italiane a quelle dell’empiri-smo scandinavo del quale Gorio appare porta-tore convinto. Ne sarà ulteriore dimostrazione ilborgo rurale non realizzato di Torre Spagnola –progettato da Gorio e Valori – che ripropone

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quel modello, ma serrandolo in sistemi contiguidi case a schiera che, pur riprendendo i modulidi quelle di La Martella, si richiudono a corteintorno al centro civico. Urbanistica ed architet-tura vi sono ancora inestricabilmente legate, mal’individuazione della corte, piuttosto che l’iso-lamento delle singole case, appare da qui in poiun filo conduttore dal quale Gorio si distaccheràraramente; è quasi il segno di un affratellamen-to di popolo, la cui articolazione spesso giocatasul digradare del terreno accidentato, offre quelquantum di complessità che basta all’individua-zione personalizzata delle singole cellule. Èquanto ritorna nel villaggio San Giacinto, cheGorio disegna ormai come un piccolo cortilequadrato, i cui angoli costituiscono le anomaliedi snodo, in modo che possa eventualmenteaprirsi alla continuazione. Qui mi pare si possaindividuare in nuce l’esito di una prima ricercacompatta, che prelude a sviluppi ulteriori, iquali peraltro implicano anche un’autocriticarispetto alle esperienze precedenti.

Ora sono i più ampi temi urbanistici che urgo-no, ai quali certo la strategia del quartiere popo-lare è strettamente legato, e Gorio li affrontadirettamente sia all’INU sia nelle riflessioni sullagrande città, prendendo Roma come campo distudio privilegiato. Ne scaturisce la presa d’attodella realtà territoriale dove, grazie a scelte poli-tiche lungimiranti, architettura e urbanisticadovrebbero sciogliersi, ridefinendo la propriadimensione scalare, la loro individuabilità mor-fologica, senza però irrigidirsi in una delimitataformula disciplinare: l’urbanistica, dirà più tardi,deve colloquiare con l’edilizia e persino conl’arredamento6. Gorio sente l’esigenza di porrequeste questioni teoricamente, ma anche conuna metodologia di ragionamento del tuttonuova.

I suoi Appunti sull’urbanistica romana sonodel 1952-54. Vi medita, quindi, mentre il quar-tiere Tiburtino è in gestazione. La prima que-stione riguarda una critica alla legge urbanisticadel 1942, proprio per quella «separazione trop-po ossea» tra gli strumenti di piano alle variescale. La legge del 1942, spiega, prevede tre tipidi piani: «il piano regolatore generale […] è affi-dato al comune; il piano territoriale di coordi-namento è in certo senso coercitivo, perchéimposto dall’alto; il piano intercomunale, inantitesi con i primi due, è un atto democraticoperché frutto di una decisione collettiva, dovutaal libero arbitrio lasciato dalla legge alla colla-borazione spontanea di più amministratori: èdunque questo il vero strumento democratico».La città, invece, non può considerasi un «fatto

isolato o isolabile», perché fa parte integrantedel territorio», né può essere scissa da esso.Anzi, se si pensa di separare la città dal territo-rio, si finisce per non comprendere la realtà nédell’una né dell’altro. Quel «sistema continuo evitale» va dunque preservato, e, formulandonuovi piani, non può che esserne il punto dipartenza. Il nodo da risolvere è così individuatoda Gorio nell’area di appartenenza della città7.

Gorio parte da un’analisi, apparentementesettoriale, del sistema delle linee di comunica-zione tra Roma e i Castelli, dimostrando in talmodo il legame inscindibile tra Roma e il suoterritorio; si tratta di linee di traffico un tempoimportantissime, ma ormai assolutamente inef-ficienti per l’ingrandimento della città. L’indagi-ne è condotta in presa diretta, attraverso un’e-sperienza vissuta emotivamente: la folla di ope-rai, di studenti, di impiegati e commercianti«brulicante e nervosa», il disagio per le struttureferroviarie esigue, malandate e fatiscenti.Occorre, però, «scarnificare le sensazioni» – scri-ve Gorio –, e poi inserire il problema delle «vici-nali» nel rapporto tra piano regolatore comuna-le e intercomunale. Ecco che allora «l’esistenzadi un flusso di popolazione in un certo settoredel territorio interurbano», la folla che si muovecon difficoltà, fa scoprire il «nocciolo sostanzia-le del problema». Quel flusso che, passando conmezzi inadeguati per diversi quartieri, travalica ilimiti comunali, non è una questione marginale,ma definisce invece quell’area di appartenenzasenza la quale la vita della città appare troncata,spezzata com’è dal suo territorio. Questa, dun-que la questione da risolvere8.

Gorio definisce questi problemi i “fenomeniurbani totali”, quelli che sono studiati dai socio-logi e che gli urbanisti dovrebbero imparare avalutare, tenendo conto delle componenti tec-niche, statistiche ed economiche. È solo unesempio, che però indica un metodo per arriva-re ad una «soluzione integrale»: un piano rego-latore che non sia soltanto la somma di inter-venti specifici, ma diventi la guida per un’azio-ne sintetica che riassuma organicamente tutte ledinamiche interne alla città e al suo territorio diappartenenza. Se non si procedesse in tal senso,si romperebbe l’equilibrio possibile del sistema,provocando conflitti; a questo punto, sia pure afatica, l’organismo urbano finirebbe per riasse-starsi altrimenti e per vie del tutto spontanee. Ilpiano è perciò un importantissimo fattore dimodificazione. Nell’antinomia città-territorio,esso non deve essere sentito come un soprusoné come un compromesso conciliatorio, macome strumento che determina la congruenza

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di funzioni tra insediamenti e territorio. Deveessere «strumento di autodisciplina di una co-munità», basato sulla partecipazione.

Il caso di Roma, città di squilibri economici, dicorruzione, di sperpero, di clientele e di mise-ria, di povertà e di ricchezza entrambe «prive dipudicizia»9, è certo un campo che sfida gli urba-nisti non tanto a farsi imbrigliare, ma addiritturaa trasformare la sua «situazione anormale» inuna sintesi originale e nuova: da una produzio-ne agraria sporadica, da un artigianato quasiinesistente, da insediamenti industriali del tuttostentati, a punto di incontro tra comunità reli-giose, centri degli affari internazionali, tra capi-tali, operai. Insomma dalla «Roma dai pannilaceri», scettica, irriverente rispetto alle istituzio-ni, antisociale, «organizzata a vivere nella disor-ganizzazione» si dovrebbe arrivare ad una Roma«città-confine», incontro tra nord e sud d’Italia,tra oriente e occidente. Si capisce che Goriostesso veda il problema al di là della portatadella cultura urbanistica. Non accenna al valoredei professionisti, degli intellettuali, degli artisti,dei tecnici che pure nella capitale esistono elavorano attivamente. Egli tenta, tuttavia, ugual-mente di individuare gli strumenti necessari peraffrontare un dilemma così grande.

Tra piano formale o piano sostanziale, pianopossibilista o piano massimalista, tra utopistiche vogliono soluzioni integrali10, tra pianifica-tori economici e pragmatisti che puntano esclu-sivamente di provvedimenti riferiti all’edilizia,alla viabilità, alla zonizzazione, alle attrezzature,o mediatori che vogliono adeguare il piano allepossibilità e ai limiti della città, Gorio cercaun’integrazione. Egli vorrebbe conciliare i variaspetti, puntare ad un «patto di collaborazioneche nasce dalla consapevolezza di tutti i cittadi-ni», in modo tale che la partecipazione collettivapossa determinare il destino della propria città,rovesciando processi e contraddizioni secolariin una prospettiva di rinascita collettiva. Unpiano dal basso, dunque, dove «l’animus delcittadino, razionale e istintivo al tempo stesso, sitraduce in un legame biunivoco tra il singolo eil gruppo da un lato e gli organi politici e ammi-nistrativi della comunità dall’altro»11.

Analogo metodo d’indagine e analoghe con-clusioni emergono dall’intervento di Gorio al VCongresso Internazionale di Urbanistica, svolto-si a Genova nel 1954. Gorio si lascia irretire dal-la città, ne inala l’essenza urbanistica, la Stim-mung, cioè quel clima particolare e così diversoda ogni altra. Sono impressioni personalissime,che egli si guarda bene da trasformare in unarelazione accademica, anzi le lascia fluire come

sensazioni di un viandante, colto certo, maanche attento all’ingenuità dei sentimenti: «Rara-mente, come a Genova, in quei giorni del Con-gresso – scrive –, una città mi è apparsa cosìviva. Di solito, nelle città dove uno ha sostatoper pochi giorni, restano nella memoria imma-gini staccate e prive di scala: una strada affolla-ta insieme, chissà perché, alla divisa di unaguardia municipale; il volto di una cattedraleaccanto alla faccia di un uomo qualsiasi; il colo-re dei tram, un sentore di spezie, un silenzio.Poiché anche un silenzio può acquistare postonella memoria»12 .

L’impressione si lega a quella percepita aLondra, vicino la cattedrale di Westminster, aCharing Cross, alla folla della City, al traffico. Lì,per la prima volta, Gorio ha avuto l’impressionedi essere «immerso nella città», di essere pro-priamente un londinese. Egli sente quasi un’in-tima colleganza con quella gente dalla quale«non traspariva più nulla dell’alterigia né dall’a-dunca volontà di supremazia anglosassone»13.Così, analogamente, a Genova Gorio assaporaquell’alchimia urbana così pregna di tradizione:una città compatta, complessa, stratificata, orga-nica, che quasi dimostrava al vero gli assunti delconvegno, impostato appunto sullo stretto lega-me tra architettura e urbanistica. La teoria, qua-lunque teoria si potesse affacciare al pensiero diGorio, trae sempre alimento da percezioni sen-sibili, vive, travolgenti, dovute all’impatto diret-to con la realtà. La sua relazione è dunque unasfida a se stesso per rendere obiettivo ciò cheaveva avvertito come soggettivo, per sublimarein teoria esperienze concrete, senza togliereloro la pregnanza e persino l’afrore delle cosevere. Del resto il tema del convegno «I pianiurbani esecutivi e l’architettura» era stato dasempre al centro delle sue riflessioni e, come diconsueto, Gorio suddivide la materia in antino-mie rintracciabili a tutte le scale: disciplina elibertà, logica e irrazionalità, stile e maniera,espressione e convenzione. Contrasti tra i qualisi dovrebbe – ma è arduo se non impossibilefarlo – poter tracciare una sintesi convincente.

La difficoltà di regole, pur auspicabili quandosi parla di pianificazione, sta nel fatto che essenon riescono mai a tenere nel tempo. Le regoletendono invece a fissarsi, diventando coercitive;ecco perché i piani, dice Gorio, «fermano unrapporto che invece per natura varia continua-mente». L’equilibrio dinamico diventa la princi-pale difficoltà, mentre dovrebbe essere invecela caratteristica intrinseca di ogni strumento ur-banistico. I piani pongono vincoli e l’architettu-ra, che è espressione della società e della sua

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continua variazione, trova ostacoli nella «persi-stenza dei codici» programmati dai piani.

C’è poi l’antinomia più grave: quella tra buro-crazia e spontaneismo. Gorio vede nella primail disfacimento della società, mentre dal secon-do termine si sprigiona una vitalità che dovreb-be animare ogni progetto, ma che spesso è inca-pace di trovare adeguati mezzi espressivi. Laburocratizzazione tende, poi, quasi a corrompe-re ogni organismo amministrativo, ogni aspettolegislativo, normativo, tanto che le pur necessa-rie strumentazioni del piano sono esse stesseviste come pericoli incombenti su quei dinami-smi urbani senza i quali la città non può sussi-stere.

Insomma, ecco la pessimistica conclusione: lecittà sono in crisi perché la crisi vera sta nellasocietà. Il disorientamento è causato dal fattoche, dopo la guerra, non si è consolidata unademocrazia dal basso, e pertanto stenta a confi-gurarsi una forma della città e del territoriobasata sulle esigenze e definita dalla stessa par-tecipazione della cittadinanza. Cittadinanza eamministrazione comunale sono diventate dueentità antagoniste. Come può, allora, l’urbanisti-ca prendere per mano l’architettura, insegnarlea costruire uno spazio urbano organico? Comepuò concretarsi quell’urbanistica dal basso chedovrebbe conciliare la bellezza delle città anti-che col desiderio di razionalità e di organicacrescita dell’ambiente abitato? Tutto ciò apparea Gorio impossibile, tanto da doversi acconten-tare, per il momento, ed è già tanto, dell’aureamediocritas, di quel livello medio che ancheLudovico Quaroni ha tante volte additato cometappa per raggiungere una qualità diffusa nellenostre città. E allora, ecco la nostalgia per SanGimignano, per Siena, o tutt’al più l’aspirazioneal modello di Rotterdam, apparsa a Gorio, pochianni dopo la guerra, «gradevole, ordinata, deco-rosa, proprio in grazia al predominio assolutodella sua edilizia media priva di voli pindarici ein fondo modesta, ma, è quel che conta, assolu-tamente scevra da retorica, aderente al tema,ben costruita e ben mantenuta»14. E qui si affac-ciano già due altre tematiche fondamentali perGorio, di cui si parlerà più avanti: il modo dicostruire e l’opera architettonica.

Tuttavia Gorio non si sottrae al compito ditracciare l’elenco delle questioni che stanno da-vanti alla cultura urbanistica italiana; ne compi-la anzi un elenco. Seppure definito schematicodall’autore, si tratta invece proprio dell’insiemedei temi che saranno a lungo dibattuti negli anniCinquanta a Sessanta: l’edilizia residenzialepubblica e privata, l’architettura urbana come

espressione della società, le sistemazioni delsuolo, il sistema del verde, l’arredo urbano, leopere pubbliche d’alta ingegneria, gli ambientistorici da preservare, gli insediamenti industria-li. Infine la battaglia contro la speculazione edi-lizia, intesa come «antiforza opposta a qualsiasitentativo di pianificazione urbanistica»15.

Da questa base di partenza Gorio non si spo-sterà più, anzi diventerà sempre più intransi-gente. Egli tenderà, semmai, ad insistere sugliaspetti teorici di questo programma, assisteràalle successive delusioni e fallimenti dell’urba-nistica italiana, assumendo quasi la posizionescontrosa e isolata di un’indomita ma preveg-gente Cassandra, fino ad allontanarsi dagliaspetti professionali del fare urbanistica ed avvi-cinarsi a quelli più propriamente storici. Gorionon è disposto a rinunciare a questa strategia,senza la quale ogni piano regolatore, comunaleo regionale o intercomunale che sia, restaimpossibile. La sua, in fondo, è un’utopia socia-le, anzi un moto di redenzione politico-socia-le16, ma stranamente, di fronte alle coraggiosebattaglie condotte da Luigi Piccinato, GiovanniAstengo, Bruno Zevi, sarà lui ad avere ragione.E allorché le possibili strade tentate si riveleran-no tutte fallimentari, i protagonisti del dibattitourbanistico degli anni Cinquanta e Sessantasaranno costretti a dichiarare persa la partita.

Prima di riassumere brevemente queste vi-cende, vediamo però come Gorio modifica ilsuo atteggiamento progettuale rispetto al mo-dello-quartiere, che si trasforma da comunitàindividuata a modulo di un territorio in espan-sione: da borgo di una comunità a frammento diuna società ben più ampia. Lo dimostrano beneil progetto per un’Unità residenziale pilotaC.P.E. a Salerno (1956), il progetto per la Pinetadi Donoratico a Castagneto Carducci, Livorno(1956), il Quartiere di Via Cavedone a Bologna(1955-65), quello di Spine Bianche a Matera(1957), il Concorso per il quartiere C.E.P. alleBarene di San Giuliano a Venezia (1959), ilquartiere CECA di Piombino (1963-64).

Rogers prende spunto dalla presentazione delprogetto per Salerno su «Casabella-Continuità»17

per discutere le due tendenze presenti nella cul-tura italiana, altrettanti grossolani errori chestanno conducendo le nostre città ad un vero eproprio disastro: da una parte gli urbanisti, sicu-ri che la tridimensionalità del planovolumetricosia garanzia di successo per gli approfondimen-ti architettonici, dall’altra gli architetti che fannoa «gara di soliloqui ad alta voce» nella babelicaconfusione urbana. Rogers non intende infierire

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1-2/ Concorso per le Barene di San Giuliano, 1959. Plani-metria a terra e profilo di una delle corti. Studio per laplanimetria dell’intervento.

3-4-5-6/ Concorso per la Pineta di Donoratico, 1956. Pla-nimetria dell’intera area suddivisa in quattro elementi: lafascia costiera, i comparti delle ville, il nucleo dei servizi,la struttura stradale. Veduta, prospetto e pianta di uno deinuclei abitativi.

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sui singoli progettisti, conoscendo personal-mente le difficoltà della professione, ma richia-ma a quell’unità tra architettura e urbanisticache considera sinonimo di unità tra individuo esocietà, tra spazio e tempo. Sembrano concettidei quali Gorio è sempre stato più che convin-to, ma s’intuisce che il progetto di Salerno, perRogers, appartiene alla prima delle due tenden-ze. Stanno maturando, infatti, tempi nei qualiurge una svolta che stenta ad affiorare. A Saler-no Gorio e Valori propongono, in fondo, unapprofondimento dell’unità residenziale a cortedi San Giacinto a Brescia, iterando il modulo inuna serie di nuclei edilizi a corte aperta digra-danti sul terreno collinare, studiati come unsistema adatto ad essere realizzato con tecnichenuove: un cantiere che ammette la prefabbrica-zione. I moduli degli alloggi seguono un’itera-zione sistematica, nonostante la diversificazionedelle tipologie, la struttura prevede telai di c.a. esolai a pannelli unificati, i ritmi dei serramenti inalluminio anodizzato seguono una sequenzaelegante ma semplificata. È proprio in questoprogetto che Gorio comincia a ragionare sul-l’importanza della tecnica nella produzione edi-lizia, questione che, come vedremo, teorizzeràin alcuni scritti. La ricerca della qualità formalesembra però assorbita in un laconico e persinotroppo misurato autocontrollo.

Nel quartiere di Via Cavedone, Bologna 1955-62, il discorso è nuovamente proposto. Gorioistituzionalizza in modo ancor più stringente ilsistema delle corti, ereditato dai modelli dell’u-topismo ottocentesco, ricevendo per questoqualche critica da Francesco Tentori. Il progettosarà, però, in gran parte mutilato nella realizza-zione, ma la parte realizzata, in collaborazionecon L. Benevolo, M. Carini, S. Danielli, A. Du-rante, A. Esposito, M. Vittorini, appare ormai laformula sicura di un tipo edilizio che, superan-do la separatezza del quartiere, può essere rias-sorbito armonicamente nel continuum urbano.Del resto Gorio più volte dichiarerà la sua pre-ferenza al modello ad isolati del piano diAmsterdam, piuttosto che a quelli a composi-zione libera del movimento moderno, da LeCorbusier a Gropius fino alle Siedlungen tede-sche. Gorio si confronta qui con la precedentevicenda dei Sassi di Matera, convinto però chesia necessario un salto logico rispetto alla primaemotiva adesione a quella realtà che aveva fattoinnamorare scrittori, sociologi, urbanisti e archi-tetti. «Eravamo allora convinti – scrive –, che lastoria della città – la somma stratificata di tanteesistenze, lo spessore umano della tradizione,quell’errore e quel calore che avevamo indivi-

duato nelle borgate e nei Sassi – potesse essereritrovato e ricostruito con mezzi così elementa-ri. Al tempo del progetto di Via Cavedone, ave-vamo perduto quest’illusione e la corte, liberatada ingannevoli dolcezze romantiche, diventatutto ciò che la sua linea rigorosa suggeriva:regola e dignità sociale, organismo formale epsicologico, trama ideale per il tessuto e perl’applicazione di principi di coordinamento tec-nologico. In una parola: disciplina, disciplinavolontaria e consapevole»18. Non a caso l’amicoMarcello Vittorini spiega con acribia gli studisull’unificazione, sulla modulazione, sull’indu-strializzazione edilizia messi in campo, con l’or-goglio di chi sente di aver superato persino leesperienze dell’empirismo scandinavo e la spe-rimentazione delle tecniche edilizie leggere de-gli inglesi19. Più mediato e forse meglio riuscitoè il quartiere di Spine Bianche, in collaborazio-ne con Aymonino, Chiarini, De Carlo Fiorenti-no, Girelli, Lenci, Ottolenghi, Sangirardi, Selem,Valori.

Il quartiere CECA, con Grisotti, Lugli, Mando-lesi e Petrigani, è interessante proprio perchédimostra come Gorio sappia fare anche alcunecorrezioni e recuperare la ricchezza, almenoambientale e urbanistica dei quartieri preceden-ti di Cavedone e Spine Bianche. Il modulo ele-mentare torna ad essere la cellula abitativa, inquesto caso bifamiliare, mentre la sistematicitàdelle iterazioni e la semplificazione modularerispondono ai criteri della «disciplina volontariae consapevole». Tutta la fragranza intuitiva e lanaturalezza disinibita delle esperienze prece-denti riaffiora qui in modo evidente, mentre èriconfermata quell’antiretorica laconicità che èun po’ la cifra stessa della moralità di Gorio.

Sorprendente, invece, la sequenza tra il pro-getto per la Pineta di Donoratico e il Concorsoper le Barene di San Giuliano. Il primo vedeGorio collaborare con Ludovico Quaroni, ritro-vando l’interlocutore degli anni carichi d’entu-siasmo di La Martella e del Tiburtino. Il caso èpiù unico che raro. Il programma era stato intel-ligentemente immaginato dal conte GaddoDella Gherardesca, il quale intendeva edificaregran parte della zona, di straordinaria bellezzapaesistica, della quale era proprietario. Si pro-pone, dunque, un concorso ad inviti ai miglioriprofessionisti italiani; si organizza una commis-sione giudicatrice che vede la presenza con-giunta di Ignazio Gardella, Giovanni Micheluccie di Giuseppe Samonà; si premiano senza dub-bio i migliori risultati: quello del gruppo diGiancarlo De Carlo, quello del gruppo Quaroni-Gorio, quello di Michele Valori, che collabora

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con Arnaldo Bruschi. Gorio e Quaroni, però,dispiegano tutta la loro vis polemica, partendoda critica serrata al bando; essi sostengono chei lotti previsti sono troppi, e rovinerebbero ilcomprensorio naturale, propongono viceversaun insediamento più limitato, che in nuce po-trebbe essere considerato un nuovo modello ur-bano. Vi si individuano quattro elementi: la fa-scia costiera lasciata allo stato naturale; i com-parti delle ville, aggregate secondo una model-listica nucleare; un centro di servizi direttamen-te raggiungibile da uno svincolo dell’Aurelia;una struttura stradale che dall’autostrada s’incu-nea sinuosamente nella pineta. Confrontatoall’ipotesi vincente di De Carlo – già padronadelle tematiche del Team X, svolte però conun’organica maglia esagonale, e probabilmentegià al corrente di teorie, di lì a poco largamentediffuse, come quelle di Christopher Alexander –o con l’armonica maglia urbanistica a serpenti-ne di Valori e Bruschi, il progetto di Gorio eQuaroni è pienamente convincente, anche se sipuò immaginare una qualche divisione di com-piti: Quaroni per la dimensione urbanistica, Go-rio per quella degli insiemi residenziali.

Nel Concorso per le Barene di San Giuliano,invece, entrambi partecipano separatamente,ma con scelte completamente opposte. Quaronicompie una vera e propria sterzata metodologi-ca e linguistica che offre una risposta illuminan-te a questioni sulle quali in tanti si erano affati-cati, aggiungendo quel plus valore che era sem-pre mancato alla cultura italiana: un’integrazio-ne sintetica, e anche simbolica, tra architettura eurbanistica nel segno del town-design. Quei«tamburi» circolari, ove sono collocati i servizi,calamitano l’edilizia minuta, innervata dallearterie stradali ad ala di farfalla e dominano lalaguna verso lo sky-line di Venezia. In fondosono i tre elementi già presenti nel progetto perla pineta di Donoratico, orchestrati sull’antino-mia «tessuto edilizio» ed «emergenza» ingranatain una trama stradale formalmente memorabile.Quaroni, dunque è il primo a raggiungere ilconvincente punto d’arrivo di una ricerca che siapre finalmente ai confronti internazionali epersino ne anticipa gli esiti. Gorio invece, restaancorato alle esperienze precedenti, e forse quifa addirittura un passo indietro. S’è detto dellasua idiosincrasia verso le utopie, del suo desi-derio di concretezza e del suo interesse per lacontinuità con la cultura delle preesistenze cheha assimilato dalla lezione rogersiana, ma inquesto progetto non si riesce ad intravederenulla di innovativo. Gorio, probabilmente, sisente a disagio nell’affrontare una scala così

grande, non la domina. Può sembrare strano,ma proprio lui che ha sempre teorizzato l’im-portanza del nesso inestricabile tra edilizia, cit-tà, territorio, non riesce a trovare una chiaveprogettuale adatta a tenerli insieme. Il suo pro-getto è professionalmente ineccepibile, ma –anche rispetto a quello pur genialmente reazio-nario di Saverio Muratori –, appare una stancaripetizione di formule ormai fuori tempo.Occorre aggiungere che anche Astengo e Samo-nà sono frenati da analoghe difficoltà. Incalzauna nuova generazione, rispetto alla qualequella di Gorio stenta a tenere il passo. Ecco,dunque, che le torri, gli «spazi conchiusi» dellecorti, intese come «continuità edilizia che è pro-pria della città del passato»20 e la maglia strada-le a rastrelliera, cui Gorio aveva conferito qual-che anno prima il valore di una sicurezza rag-giunta, appaiono ormai logori luoghi comuni.

Si stanno ormai aprendo gli anni Sessanta,connotati in Italia dal boom economico, dallapolitica centro sinistra e, a livello internaziona-le, dal rinnovamento linguistico delle arti, dallarivoluzione scientifica, dal sistema di comunica-zioni per una società di massa. La programma-zione e la terziarizzazione dell’economia, la lo-calizzazione dei Centri Direzionali come cervel-li pensanti della nuova metropoli, la grandedimensione, le nuove tecnologie, il design in-dustriale, sono i temi nuovi e urgenti che fannosentire gli anni Cinquanta improvvisamente lon-tani anni luce. Il Corso di Composizione diAdalberto Libera a Firenze già registra i tempimutati, Kenzo Tange progetta nel 1961 quelPiano per Tokyo che segnala la differenza e saràper tutti un punto di non ritorno. Gli studentidel IV e V anno della Facoltà di Architettura diRoma fanno una battaglia contro il Corso diSaverio Muratori e, ottenendo nel 1962 lo sdop-piamento della Cattedra di Composizione che èaffidata a Saulle Greco, progettano in gruppoCampus scolastici e i Centri Direzionali chesaranno pubblicati in libri e riviste di ampia tira-tura, partecipando anche ad importanti Mostrenazionali.

Gorio e Samonà si renderanno presto contodell’importanza di queste nuove tematiche e ilrecupero sarà quasi immediato. Per Samonà ilprogetto per il Centro Direzionale di Torino(1963), per Gorio il concorso per Secondiglianopresso Napoli (1964). Il primo esprime nellegrandi piastre orizzontali frastagliate – segnonel quale si riconosce il talento del giovaneCostantino Dardi – i temi della città democraticarazionalmente diretta dall’economia program-mata e da una classe dirigente illuminata. Il

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secondo aggiorna il linguaggio, la tecnologia, sicimenta per la prima volta con la forza della for-ma. Nel gruppo si raggiunge evidentementeun’intesa immediata; nel lotto certo troppoangusto, le unità edilizie perdono la perento-rietà di moduli disponendosi con andamentimistilinei, assecondando l’altimetria del terrenoricco di vegetazione, mentre una sciolta magliastradale attraversa la spina centrale del sistema.Un progetto non geniale, dirà Bruno Zevi21, manel quale si riscontra, assieme alla qualità deglialtri progetti di Luisa Anversa, di Adolfo DeCarlo, di Alfredo Lambertucci, la raggiunta ma-turità e la sprovincializzazione della cultura ita-liana. In particolare, nel progetto di Gorio c’è lapresenza di una nuova personalità emergente,l’ing. Sergio Musmeci, che suggerisce una solu-zione tecnologica originale e allo stesso tempoestrema: una serie di tubi in c.a. che anticipanola prefabbricazione a couffrage tunnel, ma chesembrano qui disponibili ad un’aggregazionequanto mai libera ed originale. Strano: Gorioaveva sempre privilegiato l’industrializzazione«leggera», qui invece si fa convincere da un gio-vane ingegnere di straordinaria intelligenza asperimentare quella «pesante» con esiti moltointeressanti. Non saprei dire quanto Gorio si siaeffettivamente convinto della validità di questoprogetto, ma certamente non sembra disposto aportare avanti questo tipo di ricerca. Si sta affac-ciando già un altro clima, dominato dallo stori-cismo, allora già maturo nella personalità emer-gente di Paolo Portoghesi.

Negli anni Sessanta, d’altra parte, si svolge ildibattito per la nuova legge urbanistica, per ilPiano regolatore di Roma, per la legge 167(approvata nel 1962), per la legge ponte (1967).

Può essere utile ripercorrere sinteticamentequesta vicenda – che ha appassionato anchetutta la nostra generazione, ma che forse è or-mai lontana nel tempo e meno nota ai più gio-vani – confrontando le posizioni di Gorio conquelle di Giovanni Astengo, Luigi Piccinato,Ernesto Nathan Rogers, Ludovico Quaroni,Bruno Zevi, per poi comprenderne la ricadutaprogettuale sui quartieri realizzati o progettatida Gorio dagli anni Sessanta agli anni Settanta-Ottanta, sui suoi scritti di urbanistica.

Gorio partecipa attivamente, come si è visto,ai Convegni dell’Istituto Nazionale di Urbani-stica, ma è del tutto assente dal più importantestrumento dell’INU, la rivista «Urbanistica» diret-ta da Astengo. Una rivista bellissima – ricca-mente illustrata e corredata con grafici a colori–, sulle pagine della quale si snoda un dibattito

serrato, diretto, militante, politico, sulle sortidell’urbanistica italiana.

Una prima differenza d’impostazione tra Go-rio e gli altri urbanisti consiste nel fatto che,mentre Gorio prende subito le distanze dallalegge urbanistica del 1942 – della quale, come siè visto, critica la separatezza tra i piani alle variescale ivi previsti – Piccinato e Astengo in fondo,ne accettano l’impostazione generale e lavora-no in continuità con quella, semmai per pro-porne modifiche e miglioramenti da travasare inuna nuova legge. Si può ipotizzare che ciò siadovuto soprattutto a due ragioni. Anzitutto laLegge del ’42 sancisce, di fatto, una separazionetra architettura e urbanistica che Gorio non puòcondividere, mentre gli altri urbanisti sono infondo attratti dal compito di definire gli stru-menti dell’urbanistica come disciplina autono-ma, e quindi condividono gli aspetti di differen-ziazione scalare, scompositiva, razionalista chequella legge delinea. Essi vi riconoscono la basedi partenza per una prospettiva di piano chedovrebbe coinvolgere tutta la cultura progettua-le italiana. Inoltre, mentre Gorio vede nella stes-sa formazione del demanio comunale un ulte-riore fattore di burocratizzazione, Astengo e glialtri condividono la procedura d’esproprio perpubblica utilità predisposta in quella legge, esemmai si prefiggono di renderla attuabile. Eccoperché s’impegnano nell’appoggio alla leggeSullo, alla quale dedicano editoriali ed articolichiarendone le motivazioni e gli aspetti miglio-rativi, mentre Gorio rimane in proposito moltoscettico.

Piccinato, fin dal 1951, offre un programmad’azione e un ruolo di tutto rilievo per l’urbani-sta. Il suo modo di parlare è incisivo, determi-nato, assertivo. Per lui l’urbanista è un «pianifi-catore che è capace di tradurre in un piano tec-nico pluridimensionale il suo programma», non-ché di condurre la propria opera da una dimen-sione intrecciata di tecniche alla sintesi delpiano. Vi si legge in trasparenza l’urbanistica tri-dimensionale di Le Corbusier. Cultura scientifi-ca, conoscenza dei modelli storici, impegnoetico-sociale, stretto rapporto con la comunità econ le istituzioni politico-amministrative, cono-scenza delle leggi, responsabilità e capacità dimaneggiare la complessità delle tecniche mo-derne, saranno suoi specifici strumenti di lavo-ro. Si formerà una figura professionale alla qua-le Piccinato non avrà nessuna remora di affida-re un ruolo d’élite. Anzi, affermerà illuministica-mente: «Occorre oggi, non solo creare e unanuova e più vasta élite per una società di massa,quanto convertire questa capacità in una vera

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coscienza universale»22. Nel 1958 Piccinato tor-na sull’argomento, discutendo i contenuti dellapianificazione regionale, e in questo caso la suavocazione progettuale lo spinge non solo a defi-nire teoricamente la coerenza dei comprensorie delle «aree di appartenenza» del territorio allacittà, ma imposta anche – assumendo la scaladelle regioni così come proposta dalla legge del1942, e dalla Costituzione Italiana –, un metododi lavoro, secondo il quale spetterà proprioall’urbanista la responsabilità di individuare, eprogrammare nel tempo, i logici spostamentidei centri nevralgici degli insediamenti urbani23.

Nel 1958, poi, si apre la battaglia contro laspeculazione edilizia nel seminario internazio-nale di Rio de Janeiro, promosso dall’Unesco.Piccinato ne riferisce ponendo l’accento sualcune risoluzioni finali del consesso, nellequali si dichiara: «Lo Stato deve preservare idiritti della collettività, evitando la speculazionedei terreni. Soluzione praticamente applicabileè che lo Stato conceda l’uso della terra secondoil principio del diritto di superficie, per untempo determinato e per i fini previsti dal pia-no»24. Certamente questa prospettiva appare aPiccinato di grande rilievo, proprio per la suasempre riconfermata volontà di voler governaregli spostamenti del centro metropolitano, non-ché per la sua idea di voler trasformare le strut-ture urbane chiuse e radiocentriche in sistemilineari ed aperti. Ma un piano cosiffatto, imma-ginato dal tecnico illuminato, sarebbe sembratoa Gorio un piano coercitivo, un piano dall’alto,burocratico, statico, incapace di accogliere lepulsioni della comunità. Due modi di vederecompletamente differenti.

Quando, nel mutato clima politico dell’iniziodegli anni Sessanta, si apre il dibattito sullagestione del territorio e sul nuovo piano regola-tore di Roma, il fronte degli urbanisti e della cul-tura architettonica di sinistra prende l’iniziativae, all’interno dell’INU, elabora il «codice dell’ur-banistica». Gorio, però, appare del tutto defilatodalla battaglia, ritenendola attestata su una lineadi mediazione che al suo radicalismo non puòcerto sembrare convincente. Giuseppe Samonàe Giovanni Astengo, invece, impostano la trac-cia sulla quale modificare la legge del 1942; unComitato, composto dal Presidente dell’INUCamillo Ripamonti, Luigi Piccinato, Ezio Cerutti,Umberto Toschi, e dall’avv. Gian Filippo DelliSanti, ne formula il testo definitivo da sottopor-re al dibattito congressuale. I punti principaliriguardano l’integrazione tra pianificazione eco-nomica e pianificazione urbanistica: i piani ter-ritoriali sorretti dagli Enti comprensoriali sulla

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traccia delle authorities, saranno il trait d’uniontra Comune e Regione; si prevede lo snellimen-to delle strumentazioni normative; soprattutto siriafferma la validità legale dell’espropriazionedei terreni, rendendolo però praticabile graziealla determinazione di un plus valore per le areefabbricabili, del quale il Comune percepirebbeil 50%.

Il tutto è quasi testualmente recepito dallaLegge del Ministro dei LL.PP. Fiorentino Sullo.Giovanni Astengo ne spiega i valori e le proce-dure sulle pagine di «Urbanistica»25, Piccinatoscrive articoli per divulgarne le motivazioni26,Bruno Zevi appoggia l’operazione dalle paginede «L’Espresso»27.

Com’è noto, e per ragioni che Gorio avevaprevisto, ma soprattutto per un’offensiva con-servatrice che dimostra d’avere ancora in manole leve della speculazione edilizia, la legge Sullonon passerà, e il dibattito si sposta sulla legge167 che sarà approvata nell’aprile 1962. Qui ildiscorso si fa più sottile. Nella difficoltà di redi-gere i nuovi piani regolatori delle grandi emedie città, nell’impossibilità di modificare lalegge del 1942, la 167 consente ai Comuni dipromuovere un processo di pianificazione,individuando nel proprio territorio le aree fab-bricabili da acquisire per l’edilizia popolare ebloccandone l’espropriabilità da parte delComune stesso con un vincolo decennale.Camillo Ripamonti ne spiega bene la strutturasu «Urbanistica»28; Bruno Zevi ne traccia unbilancio favorevole nel 1967, riportando le valu-tazioni del Direttore generale all’urbanisticapresso il ministero dei LL.PP. Michele Martu-scelli29. Potrebbe sembrare una legge che prefi-gura quasi un’urbanistica dal basso, basandosisulla qualità dell’edilizia popolare. Temi che aGorio hanno sempre interessato, che gli sonocari; ma anche in questo caso egli le considererànient’altro che un intralcio alla strada maestradella pianificazione, un improprio divergeredagli obiettivi più importanti, addirittura unadella tante «pozioni cerusiche» utili solo a «nebu-lizzare il caos normativo e rendere innumerevo-li le possibilità di evasione»30.

Analogamente polemico era stato il suo atteg-giamento rispetto al P.R.G. di Roma che, dopoviolenti dibattiti, aveva visto finalmente l’appro-vazione nel 1962. Il modello lineare dell’asseattrezzato, che nelle intenzioni di Piccinato,avrebbe dovuto risolvere la questione del cen-tro storico di Roma, spostando ad est il sistemadei centri direzionali e di tutti i più importantiservizi terziari, inserendo Roma in un ambitoterritoriale del sistema autostradale e contrap-

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ponendosi al modello radiocentrico, trovasostegno in Bruno Zevi31, ma Gorio, con PieroMoroni, N. Di Cagno e Marcello Vittorini, pre-senta nel 1961 una variante al ComprensorioPrenestino-Casilino che dimostra l’insufficienzadell’ipotesi «a fascia»32, come bene mette in evi-denza Manfredo Tafuri33.

I nodi vengono al pettine proprio nel 1967,con la cosiddetta legge-ponte. Anche questavolta il nuovo strumento legislativo, propostodal Ministro Giacomo Mancini, avrebbe volutoaggirare le difficoltà di una reale innovazionenegli strumenti urbanistici che consentisseroalle amministrazioni e ai tecnici di programma-re e dirigere responsabilmente e con lungimi-ranza lo sviluppo delle città. Questa volta siparla degli standard, quindi di un fattore nor-mativo di qualità tecnica e spaziale. Ma ancorauna volta la battaglia parlamentare è durissima.Per far passare la legge, si propone una morato-ria di un anno. Zevi aveva ripetutamente messoin guardia rispetto a quest’eventualità, previstadai pessimisti impegnati, ma tacitamente auspi-cata da una speculazione scriteriata e da unacomunità incapace di guardare più lontano daipropri immediati interessi; eventualità che inve-ce sembra sfuggire ai nuovi dirigenti del centro-sinistra che si erano illusi di accelerare un pro-cesso urbanistico continuamente boicottato. Ac-cade così che, nonostante gli appelli dello stes-so Mancini, i Comuni rilasceranno in quell’announa quantità di licenze edilizie – anche fuoripiano regolatore – che impedirà almeno per undecennio ogni ragionevole azione pianificato-ria, provocando guasti ingenti soprattutto allecoste e ai centri industriali del nord. Quella chedoveva essere una legge capace di produrre unmiglioramento sostanziale negli insediamentiurbani diventa così uno strumento predatorio,funzionale alla voracità dei privati e all’impre-parazione culturale dell’amministrazione, deitecnici, della società nel suo complesso. Aveva,dunque, ragione Gorio: la crisi dell’urbanistica,la crisi della città e del territorio è la «crisi dellasocietà», una società antidemocratica, incivile,grettamente legata al proprio tornaconto perso-nale immediato.

È solo a questo punto che avviene la presad’atto collettiva di un fallimento, tanto più ama-ro quanto più la battaglia per il rinnovamentoera stata ampia e condivisa. Alla conclusione diquesta vicenda, Giovanni Astengo e BrunoGabrielli scrivono due articoli che decretano lafine di una disciplina ormai fuori gioco: quel-l’urbanistica che sembrava aprire, negli anniCinquanta, prospettive di avvicinamento del-

l’Italia alle grandi democrazie europee. Inveceno: «Siamo al buio», dice Astengo; «I giochi sonofatti!», aggiunge Gabrielli. Il risultato è questo: 6-7 milioni di vani residenziali cantierizzati nel-l’anno di moratoria; «un terremoto urbanistico,un guasto irreversibile per un lungo futuro, unaterrificante constatazione»34. E poi la denunciadella contraddizione fondamentale: da unaparte l’iniziativa privata ha triplicato la produ-zione edilizia degli ultimi dieci anni, ma in vistadi una classe medio-alta, e i costi dei materialiper l’edilizia sono aumentati; dall’altra gli entipubblici sono restati inerti, si registra quindi unadomanda insoddisfatta di abitazioni a bassoprezzo, facendo esplodere le rivendicazionidella classe lavoratrice e le lotte sindacali. Si ria-pre, dunque, la questione della casa, proprioquella per risolvere la quale si era mossa com-patta la cultura architettonica italiana fin daglianni Cinquanta, con il Piano INA-Casa. Da quelmomento si spezza in Italia lo stretto rapportotra politica e cultura e l’impegno degli urbanistie degli architetti sarà d’ora in poi riversatosoprattutto sugli aspetti disciplinari.

Il terreno privilegiato da Gorio sarà proprioquesto. In uno scritto del 1970 dal titolo Urba-nistica, riflessioni critiche, egli sposta il discor-so sul piano teorico, accogliendo spunti dellacultura internazionale. Gli argomenti sono tre:progetto e contesto, piano e partecipazione,struttura e comportamento. L’impostazione èfortemente critica, il tono invece volutamentesotto le righe, mentre è evidente uno sforzod’aggiornamento rispetto agli studi internazio-nali sull’argomento. Gorio torna sul tema delrapporto tra piano e partecipazione, e poi pren-de in esame la linguistica e lo strutturalismo, suiquali in quegli anni è assai vivo il dibattito; inparticolare valuta i sistemi metropolitani, le ela-borazioni di Ferdinand de Saussure, ErwinCassirer, Christopher Alexander, Claude Lévi-Strauss, Louis Mumford. Gorio critica severa-mente l’atteggiamento degli urbanisti ricorrenteper tutto il Novecento, vale a dire il costante «ri-fiuto della realtà», la prefigurazione di una pro-posta urbana astrattamente alternativa, talvoltautopica, ma soprattutto quella orgogliosa «cer-tezza fideistica nella infallibilità delle proprietesi». Queste certezze stanno però venendo me-no, portando allo scoperto la coscienza di unacrisi, anzi di un profondo senso di disagio ed’angoscia nella condizione metropolitana. Go-rio se ne chiede le ragioni e, per dare una rispo-sta a quest’interrogativo, ripercorre le tappeprincipali della cultura urbanistica del secoloscorso: le semplificazioni illusorie della Carta

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d’Atene, le esperienze normative, il fallimentodei piani, la crisi dell’urbanistica razionalista,ma anche l’insorgere di un neopositivismo con-formista, del quale Alexander è uno dei prota-gonisti.

Gli urbanisti, sembrerebbe, sono convintiche, in fin dei conti, il «nemico è sempre fuori,come altro da sé». Invece no, per Gorio ci deveessere stato un errore di impostazione propriodentro la disciplina. È questo che bisognaammettere e spiegare. Gorio ripropone, allora,ma in modo più definito, l’intuizione dei primianni Cinquanta: ogni utopia è sempre un erro-re, ogni volontà di sostituire la realtà con for-mule inventate è nociva illusione, bisogna inve-ce «affrontare la ricerca di quei fattori della vitaassociata, la cui omissione ha condotto in unastrada sbagliata»35. La questione è sempre lastessa: «la dinamica è l’essenza stessa del feno-meno urbano». Se dunque la società si esprimesempre attraverso la «mobilità», la forma urbanafin’ora perseguita è basata invece sull’«immobi-lità». Di qui l’antinomia, perché la forma urbana,in fondo, ha un valore importante, è il segno diun «passaggio di cultura» o esprime il «grafico diun processo». La durata di permanenza dellaforma della città è, però, assai più lungo di quel-la delle comunità che vi s’insediano: esse sento-no quella forma come un’eredità che occorremodificare per modellarla sulle proprie esigen-ze. A questo fenomeno Gorio attribuisce il ter-mine di «isteresi», cioè di sfasamento tra la formae il processo di trasformazione. In analogia conle teorie del Foley, e in continuità metodologicacon le due idee, Gorio vorrebbe che forma eprocesso si sintetizzassero nella «struttura urba-na».

Nasce così il concetto di metamorfismo, giàanticipato nello scritto del 1961. Un concettoche ora Gorio ridefinisce, basandosi sull’osser-vazione della variabilità continua nel tempodella struttura urbana dovuta ai mutamenti in-dotti dal suo stesso uso: «in una città che cresce,non muta soltanto il parametro dimensionale,ma si modificano radicalmente gli elementicomponenti e con loro la natura stessa dell’in-sieme; talché risultante della variazione non è lostesso organismo ingrandito, ma un altro orga-nismo di diversa specie, di cui deve essere indi-viduata la struttura, la qualità, il carattere, ilcomportamento; il cambiamento, cioè ha la fi-sionomia di una vera e propria metamorfosi»36.Un’idea non nuova, già affacciata nella culturaitaliana37, che rimette in discussione metodi ecertezze dell’urbanistica, e soprattutto sembraessere la chiave adatta per superare barriere bu-

rocratiche, ipotesi di un formalismo statico, pro-grammabilità nel tempo, adattabilità di forme aimutamenti dei bisogni e dei contenuti sociali.

Allo stesso tempo, però, il metamorfismo è unconcetto difficile da tradurre concretamente instrumenti efficienti e tempestivi. Ciò induceGorio ad un’ulteriore riflessione analizzando imodelli utopistici, organici e teorici della cultu-ra internazionale38, dei quali critica allo stessotempo il biologismo e il neo-positivismo con-cettuale. Valga per tutti il ragionamento espostonel famoso scritto di Alexander Una città non èun albero39, testo che ebbe larghissima diffusio-ne e sembrò per un attimo aver ragione dei piùimportanti modelli urbani del Novecento: dallegarden cities agli schemi cellulari e «dendritici»di tipo organico, fino a Chandigarh e Brasilia.Ebbene, proprio quella struttura «intricata» ecomplessa che Alexander proponeva di sostitui-re a quella schematica ad albero, fin dalla faseprogettuale dei nuovi centri urbani, e che sem-brerebbe in linea con le preoccupazioni di com-plessità sempre presenti nei ragionamenti diGorio, è invece messa in discussione. Goriosostiene che ciò che sfugge ad Alexander è chela struttura «dendritica» e quella «intricata» (asemilattice) non si contraddicono a vicenda.Anzi, quasi sempre si presentano insieme nellastruttura urbana e, dalla loro concatenazione,trae alimento proprio il metamorfismo.

Gorio è convinto che proprio la lettura storicadella città antica dimostra questo processo. Lacittà, insomma, nascerebbe sempre con una for-ma ad albero, sarebbe poi la vita stessa e i mu-tamenti complessi a produrre quella successivastruttura ad intrigo che conferisce alla città anti-ca quella straordinaria bellezza: Priene, Mileto,Thimgad, hanno raggiunto, nei secoli, ciò chepotrebbe avvenire anche per Chandigarh e Bra-silia. «In quanto legge», scrive Gorio, «la distribu-zione individuata costituisce la forza internache, nel tempo, costringe inevitabilmente lestrutture dendritiche, costruite intellettualmentedall’uomo, ad assumere la forma di struttureintricate»40. Una stringente e bellissima argo-mentazione che non solo riappacifica Gorio conle più importanti proposte del Novecento, mache, alla luce di un continuum storico, può con-fermare l’ispirazione allo stesso tempo umani-stica, artistica e tecnica dell’avanguardia delNovecento. Ricordando però che «La formaurbana non tollera camicie di Nesso; essa se lestrappa di dosso n’è bruciata»41.

A questo punto si registra una sfasatura. È sin-golare, infatti, che gli anni Settanta vedano Go-rio impegnato nella redazione del piano regola-

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tore di Pescara (1973-75) che, come quelli perForlì e per Sant’Arcangelo o di Avezzano, nonsembra mettere in discussione la ormai consoli-data metodologia urbanistica. Egli progetta erealizza, poi, una serie di edifici di grande di-mensione e di rigida semplificazione, sia purein disaccordo con gli altri componenti i teamprofessionali con i quali collabora: il Corviale(1971-73), l’edificio residenziale per la Coop.Plasma Civis a Roma (1973-77), le Case d’abita-zione al Pineto, sempre a Roma (1972-80).

Il Corviale, soprattutto, riveste il significato diopera emblematica che sposta gli abituali modidi intendere la periferia romana, e quindi ha ache fare con l’urbanistica e l’architettura dellacittà. Non si parla più di quartiere, tanto menodi borgo o di comunità che cerca una propriaidentificazione nel luogo in cui vive, ma di unintervento di grande dimensione in grado dimisurarsi con la città nel suo insieme, di fron-teggiare la metropoli da parte di cittadini altret-tanto metropolitani, a costo di inserire nellacapitale un tipo edilizio del tutto estraneo allasua cultura. È noto che Mario Fiorentino, coor-dinatore di un gruppo assai ampio del qualefacevano parte – dirigendo altrettanti sottogrup-pi – anche Gorio, Valori, Lugli e Sterbini, abbiafortemente creduto in questa idea e abbia sapu-to imporre la sua determinazione ai recalcitran-ti collaboratori. Un’idea che, a quasi cin-quant’anni di distanza, e in condizioni politicheassai diverse, rivisitava l’epico Karl Marx-Hof diKarl Ehn della Vienna Rossa nella chiave di unmonumentalismo popolare, superando d’unbalzo l’imbarazzante pauperismo dei quartierineorealisti, dando forma ad un complesso cer-tamente di grande efficacia emotiva, ma anchedi una non collimata tipologia e funzionamentogestionale, tanto da ingenerare in gran partedegli impreparati abitanti un sentimento di nonappartenenza e poi di rigetto. Gorio tenta di for-mulare un’alternativa. Lui che aveva semprecombattuto il piano coercitivo, non poteva certocondividere l’idea di Fiorentino, coercitiva almassimo grado, ma la sua alternativa è debole enon riesce a formalizzarsi in modo convincente.Va bene la grande scala, sostiene, ma sarebbemeglio un lungo edificio a linee fluide, un ser-pentone; forse vorrebbe sviluppare l’ipotesi diSecondigliano o, in alternativa, un insiemedisaggregato di edifici più piccoli; ma resta soloun auspicio42. Nonostante queste riserve e iripensamenti rispetto alla prefabbricazione,Gorio si cimenterà più volte in quegli anni conl’edificio alto, senza tuttavia riuscire a sviluppa-re soluzioni in grado di indicare nuove strade,

vedi al Laurentino (1971-73), fino ad alcuniinterventi degli anni Ottanta, alla Torraccia(1980-85) e al Pineto (1985), tutti a Roma.

La critica a queste esperienze, ancor oggisotto processo, assieme ad analoghe operazioniinternazionali – Pritt-Igue, Vele di Scampia, Lau-rentino, Grand Ensamble francese, quartieri in-glesi degli anni Sessanta – induce Gorio ad unulteriore ripensamento, che comunica aperta-mente ai partecipanti del Corso di Specializza-zione in Pianificazione urbanistica legata allearee metropolitane, tenuto nel 1979 alla Facoltàdi Ingegneria di Roma «La Sapienza». Egli cercadi rispondere alla questione basilare: «Qual’è ilcontenuto dell’urbanistica? Che cosa insegnare?Che significa specializzare?». Senza reticenzeegli riconferma il suo ripudio rispetto al pensie-ro razionalista disaggregante, intendendo con-tro ogni significato etimologico la «specializza-zione» in urbanistica come «ricerca di nessi».Vorrebbe addirittura conferire alla «specializza-zione» il compito induttivo di «ricomporre» dueprocedimenti tradizionalmente contrapposti:scendere dall’unità dell’insieme all’unità delleparti e risalire contemporaneamente dal molte-plice della realtà all’unitario. Capire le «pertur-bazioni metropolitane» ed assecondarne l’asse-stamento. Tema arduo, quasi impossibile.

Nella scomposizione settoriale ormai cristal-lizzatasi nell’urbanistica, non si può fare altro –dice Gorio – che assumere semplicemente cia-scuna disciplina come un «posto di osservazio-ne» e, confrontando diverse letture, tentare diriassumere le ottiche parziali di ognuna di esse,desumendone quella che qui definisce la «ste-reometria»: può valere come sinonimo del con-cetto di «tridimensionalità» proposto altrove.Detta come metafora, la ricerca consisterà nel«ridurre l’opacità delle pareti che dividono i varisettori»43. Obiettivo che appare riduttivo e delresto Gorio chiede quasi aiuto agli specializzan-di. La struttura del corso sarà di tipo seminaria-le, cercando un confronto tra uguali, nel qualela cattedra è simbolicamente annullata. Si ristu-dieranno i testi della Jacobs, di Mitscherlisch, diAlexander, nella consapevolezza disarmanteche ormai «la materia resta, com’è, una congeriedi suggerimenti empirici, una specie di ricettarioda guaritore della multiforme morbilità degliinsediamenti, la sua debolezza è tale da lasciar-ne prevedere una progressiva ed indolore cadu-ta in disuso»44. La comunità non ha strumentiper esprimersi nel piano, e tanto meno si puòpiù parlare di un’urbanistica dal basso. Ag-giunge poi: «In una cultura caratterizzata dallatendenza involutiva a delegare le responsabilità

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operative all’elefantiaca impalcatura della buro-crazia, questa assunzione egemonica dell’inizia-tiva da parte delle pubbliche amministrazionisuona, per la materia, come una campana amorto»45.

Dunque, dopo aver insegnato per decenni inuna Facoltà importante, dopo aver progettato erealizzato insieme ai più noti architetti e urbani-sti italiani alcuni dei quartieri che restano altret-tanti snodi cruciali della cultura italiana, Goriodalla sua Cattedra getta la spugna? Dunque nonresta che studiare retrospetticamente la storiache ha costruito i capolavori della città antica?Sembra di sì. Armonizzare le conflittualità, tro-vare una sintesi tra consenso e coercizione, èoggi impossibile – asserisce –, anzi è ormai una«partita senza esito». Non resta che dichiararel’impossibilità stessa dell’urbanistica. Si puòimmaginare lo sconcerto degli allievi, ma forseanche un salutare shock, che il Maestro vuoleprovocare nei giovani, forse per sgombrare ilcampo da ogni inutile illusione46.

Questa scoperta porterà Gorio ad allontanarsisempre più dalla contemporaneità, a guardarlaquasi dal di fuori, per farsi assorbire, invece, dalfascino della storia della città e della monumen-talità urbana, tanto da farne oggetto precipuonella sua Lectio magistralis del 200247, anticipa-ta in parte in un articolo su «Parametro» di qual-che anno prima48.

Gorio aveva detto: «Gli architetti sono terribil-mente confusionari!»49, ma ora accetta con grati-tudine l’onorificenza che gli offre la Facoltà diArchitettura di Reggio Calabria – con la qualeaveva stretto da anni una relazione di reciprocastima – perché ormai è consapevole, in unmondo così disastrato, di condividere le stessedifficoltà e disorientamenti degli architetti. Lasua Lectio magistralis è importante perché è ilpunto d’arrivo di una riflessione durata decenni,laddove Gorio conferma alcune sue idee chia-ve, altre ne sviluppa prospettando un’area diricerca conclusiva, nella quale però sa bene dinon aver ormai tempo di potersi avventurare.

Conferma anzitutto la sua abitudine per unragionamento costruito su antinomie non ricon-ducibili a sintesi, ed espone le due modalitàche, a suo avviso, sono la chiave di tutto e chedeterminano il piano e la forma della città: lagenesi molteplice, un procedimento «per punti,per parti, per settori» che rispecchia pragmatica-mente gli andamenti della natura umana; e lagenesi unitaria che procede invece dal genera-le al particolare e, operando globalmente, vuolecontrollare nel tempo la stessa trasformazionedella struttura della città. La lettura storica della

città dall’antichità ad oggi è vista proprio nelladialettica tra il gene della molteplicità e il genedell’unità. Gorio, comunque, dichiara nuova-mente il fallimento dell’urbanistica, ma anche ilfallimento di chi ha cercato di agire in modoalternativo dal punto di vista culturale o empiri-co, vale a dire gli studi teorici degli americanioppure le leggi e normative settoriali che hannocercato di sostituire la mancata approvazionedella nuova legge urbanistica. Non solo, maconfronta questo fallimento con la svolta storicadeterminata dal crollo del Muro di Berlino nel1989, con il collasso dell’URSS e il conseguenteriassestarsi geografico-politico dell’Europa.

Conferma poi l’utilità di continuare a ragiona-re sul dinamismo urbano, inteso come caratteri-stica base, ma anche come difficoltà progettua-le per chi opera nella pianificazione, e proponedi cominciare ad indagare in profondità quelrapporto di «isteresi» tra civitas in movimento eurbs inanimata del quale ha già parlato altrove,ma del quale ora si sforza di individuare le leggid’invarianza nei diversi campi: fisico, econo-mico, psicologico e simbolico.

Quest’ultimo si delinea come quello piùnuovo rispetto ai suoi ragionamenti passati. Egliindividua nella città i «simboli impulsivi», intesicome forme che sprigionano estemporanea-mente uno stato d’animo. Tra questi si stabilisceuna polarità tra gli atti di forza di un sistemaoppressivo che la «frangia anomica e contesta-trice della società» respinge e sente come unnemico da abbattere, perché ingenera una«incrinatura e una rottura del valore linguistico».A questi contrappone invece i «simboli consoli-dati» che entrano nei sentimenti della gente,costituendone la tradizione. La città stessa, allo-ra, diventa un «codice simbolico decifrabilecome mezzo linguistico di comunicazione tragenerazioni»50. Certo, il simbolismo consolidato,sia pur sottomesso, – quello del selciato deipavimenti di Praga per fare un esempio – è piùvicino al cuore di Gorio rispetto ai simboli altidel potere, i quali però, innalzando archi ditrionfo e guglie di cattedrali, hanno moltiplicatoi capolavori della cultura urbana. L’invarianteda preservare sarà allora quel vivo – e non iste-rico – rapporto tra queste due categorie di sim-boli, salvaguardando con ciò, per il futuro, ilnesso tra civitas e urbs.

Insomma, perché l’urbanistica recuperi lavalidità e l’attualità storica del proprio corpusdisciplinare, occorre che essa prenda coscienzadell’«intricata e vitale complessità del reale» e siponga come obiettivo la sintesi dinamica neltempo delle invarianze individuate. Un compito

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difficile, del quale Gorio passa il testimone allagenerazione dei giovani ascoltatori.

Non è facile indicare una ricaduta progettua-le di questi ragionamenti. Se è possibile indivi-duarne uno, nel diffuso interesse allo storicismodegli anni Ottanta, si può indicare il centro diAbuja51, nuova capitale federale della Nigeria,redatto nel 1982-83 con il Team Engeneering. Sitratta di un progetto diverso da tutti gli altri, nelquale si registra un deciso scarto sia nell’impo-stazione planimetrica sia nello sviluppo plasti-co, e dove è difficile ritrovare il filo logico deiragionamenti di Gorio se non proprio nel con-fronto con la città antica. Una forma stellare acinque punte, a metà tra il fortilizio e la simbo-

logia cosmica, si delinea in un territorio vergine;scattanti forme diagonali, dalla possente e mas-siva aggressività, circondano uno spazio centra-le, nel quale si mischia la simbologia della tendae quella del menhir preistorico. Non è da esclu-dere che in questo progetto si possa rintraccia-re un’ispirazione simbolica analoga a quelladella fontana del villaggio La Martella52, giocatanell’intreccio eccentrico tra il cerchio e il trian-golo equilatero, proprio a significare il punto incui sta sorgendo una nuova comunità comples-sa, ma vera.

Siamo così tornati al nocciolo centrale, alleorigini dell’architettura.

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7-8-9/ Borgo rurale La Martella, Matera, 1952. Pianta, pro-spetto e sezione di studio per la fontana interna alla piaz-za dei servizi comuni e dei negozi, veduta aerea in fasedi esecuzione.10-11/ Studio per un centro di servizi ad Abuja, Nigeria,1983. Prospettiva esterna sull’ingresso e studio della cor-te pentagonale interna.

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Architettura e tecnica del costruire: dall’az-zeramento dei linguaggi alla ricerca di unrapporto tra teoria e sperimentazione

Avendo delineato ciò che Gorio intende perpiano e per urbanistica, misurandoli agli ampicomplessi residenziali da lui realizzati, vediamoora di capire il significato di una serie di operearchitettoniche che egli progetta e costruisce tragli anni Cinquanta e gli anni Ottanta.

Anzitutto, cosa è l’architettura per Gorio?Quale architettura bisogna costruire in Italia,dopo la seconda guerra mondiale?

Per avvicinarci ad un tema così delicato, sipuò partire dal suo progetto della scuola ele-mentare a Pastena del 1947, ma anche dagl’in-terrogativi che Gorio si pone osservando le ope-re degli amici: Ludovico Quaroni, Mario Fioren-tino, il gruppo Monti.

La scuola di Pastena, situata alla periferia diFrosinone, sembrerebbe quasi il preambolo aduna possibile architettura popolare, un’architet-tura anonima, senza architetti. Si tratta di unorganismo allo stesso tempo complesso e scar-no. Gli elementi funzionali – la serie delle aule,il corridoio, la rampa d’accesso, i servizi igienici– sono giocati con volumetrie indipendenti, maarmonicamente incastrate, seguendo l’anda-mento in pendio del paesaggio al quale l’edifi-cio appare come abbarbicato. Andamenti tra-sversali e appoggiati sulla linea della terra s’in-crociano nel cuore del piccolo edificio, dove sitrova il nodo della scala e della rampa esterna,diluendosi poi nei percorsi verso le aule penta-gonali. Le volumetrie scattanti non esprimono,però, alcuno slancio espressionistico, ma sonodisponibili invece ad assimilarsi, in particolarenell’impennarsi delle coperture a falde, all’edili-zia minore della provincia italiana. Il casale dicampagna ne è certamente l’antecedente logi-co, l’archetipo, mentre un residuo del linguag-gio razionalista è ben chiaro nella secchezzadelle finestre a nastro. Tutto esprime la volontàdi un parlare sommesso, sia pur nella ricerca diun intreccio organico. Siamo, dunque, al di quadell’architettura.

Nella Lettera a Quaroni, che Gorio scrive nel-lo stesso anno, si affronta direttamente un nodocruciale: il significato di un’architettura moder-na di grande importanza in una zona centrale diRoma, tra l’altro esito di un concorso che vedela generazione di mezzo e quella dei giovanissi-mi a confronto. Gorio considera il progetto diQuaroni e Ridolfi l’unico veramente interessan-te, quello che ha avuto il «coraggio di dire paro-le nuove»53. Gorio in quel frangente è vicino

all’APAO e a «Metron», Quaroni al MSA, una con-trapposizione tra organici e neorazionalisti cheGorio riassume nell’antinomia tra «libertà istinti-va oscura e romantica» e «libertà classica ecostruita». Oltre a questo dilemma, Gorio pone,però, a Quaroni una questione: se sono entram-bi d’accordo sul fatto che l’architettura nascedalla struttura, e che la struttura nasce dalla fun-zione, allora, quali ragioni hanno determinatonel progetto Quaroni-Ridolfi quella configura-zione che appare quasi una «deviazione forzatadell’idea», cioè dalla distinzione dichiarata traelementi portanti ed elementi portati? E poi, de-lineandosi ad «ala di pipistrello» invece di «la-sciare nudo lo scheletro», non ci si richiama for-se alle «figure di oscuro terrore del subcoscien-te», mentre il compito adesso è quello di trovareuna ragione che tenga insieme gli uomini, rin-tracciandone i valori di comunità? Allora, lasequenza spaziale innescata da quell’ala «morbi-da e secca ad un tempo» non è troppo «sontuo-sa», anche se, è vero – riconosce Gorio – biso-gna trovare un linguaggio ove «affiori e rimangala sensazione indistinta di dolore»? Ecco che,nonostante tutto nasca nell’arte da un’intuizioneimmediata, carica di sentimenti personali, l’o-biettivo, per Gorio, resta quello di un’architettu-ra intesa come sintesi di una società razionale icui valori siano comprensibili e condivisibili.Insomma, non bisogna separare per opposizio-ni contrapposte quello che è profondamenteunito. La sua interna coerenza di uomo, Gorio lariversa nell’anelito di un’architettura che, al di làd’ogni pur fascinosa retorica nella quale i roma-ni da secoli eccellono, riporti ai temi della vitaintesa soltanto come «transito».

Ecco perché Gorio apprezza senza riservel’architettura di Mario Fiorentino. Già nel Monu-mento alle Fosse Ardeatine, dove si parla concruda forza delle violenze, della guerra, dellaresistenza, del martirio, Gorio vede un atteggia-mento di autentica verità nell’espressione spo-glia e nuda del volume e dello spazio compres-so che rappresenta il drammatico «potenziale» diquelle tragiche esperienze, riconducendoloperò alla determinazione costruttiva di «resisterein piedi». Ma quanto più Fiorentino si allontanada quegli alti cimenti («Erano i giorni del-l’APAO», scrive Gorio) – alla formalizzazione deiquali era stata decisiva la presenza di GiuseppePerugini –, tanto più Gorio appare con lui insintonia. Ne coglie la «simpatia scandinava», la«minuziosa e attenta ricerca di una civiltà delprogettare e del costruire» e il legame di alunna-to con Ridolfi nella casa di Laviano, ma soprat-tutto il distacco dall’eredità razionalista restando

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tuttavia all’interno della cultura europea. Così ilquartiere di San Basilio, la palazzina di VillaBalestra e gli intensivi di Viale Etiopia a Roma,diventano tappe importanti per la definizione diun lessico che circola in tutta la sua generazio-ne. La sintesi ormai sicura raggiunta da Fiorenti-no è così descritta: «sicurezza formale, sapienzatecnologica dove l’opulenza artigianale delmaestro (Ridolfi) è diventata in lui ricercapaziente, ordinata»54. Doti che Gorio cerca dicoltivare anche per sé, assieme alla lezione ap-presa da Giuseppe Nicolosi.

Illuminante, a tal proposito, l’articolo dedica-to all’inaugurazione dell’Aula Magna di Perugiache Nicolosi ha appena finito di costruire: quasiuna definizione che Gorio dà dell’architetturaattraverso il silenzio. In quell’occasione Goriochiede, infatti, al suo maestro di spiegargli conuna visita guidata il significato del suo lavoro.Nicolosi lo porta a vedere la sala, ma non diceparola. Il silenzio di Nicolosi costringe Gorio,però, quasi a leggergli nel pensiero: «Tu sei delmio stesso mestiere – pare che quello dica –,ecco quello che ho fatto. Guardatelo, ma nonmi dire nulla perché tutti e due sappiamoquant’è dura questa strada e quanto pesa ogniscelta»55. Gorio tace, in quell’occasione, meditauna replica che avrebbe voluto dire a Nicolosi,ma che invece per pudore rimane inespressa,formalizzandosi soltanto nell’articolo su «Casa-bella»: «Si, la materia offerta al lavoro dell’archi-tettura è ostica, metamorfica e fuggevole sostan-za che è corpo ed è spirito, che è colore e nu-mero, calore e calcolo insieme»56. Pur compren-dendone l’importanza, Gorio si allontana dun-que dalle impazienti intuizioni di Quaroni,dall’«opulenza artigianale» di Ridolfi, ma anchedalle travolgenti innovazioni di Le Corbusier. Lacappella di Ronchamp è definita in quello stes-so articolo un «raffinato giocattolo» regalato al«movimento dei preti operai». Se togliamo anchel’eredità del razionalismo e le riserve rispettoall’architettura organica di Wright e all’empiri-smo scandinavo, non resta che un azzeramentoradicale, anarchico, che trae alimento, oltre chedalla forza della propria ostinazione, soltantodall’insegnamento morale di Nicolosi. Non èinutile rilevare che Nicolosi e Gorio sonoentrambi ingegneri, ben differenti dai «confusio-nari» e verbosi architetti.

Nel 1954, quindi, Gorio – dopo le esperienzedel Tiburtino e di La Martella delle quali s’èdetto – è pronto per immaginare l’opera allaquale resterà legato il suo nome: il CasaleGomez che lo porterà ad un immediato ricono-scimento a livello nazionale. Dalle pagine de

«L’Espresso» e di «L’architettura, cronache e sto-ria», Zevi e Quaroni ne fanno, però, letture mol-to diverse. Quaroni, che conosce bene Gorio eche si è avvalso così spesso della sua collabora-zione, la considera una lezione di modestia, madi una «modestia di classe» che ha trasformato inlusso e in poesia l’insegnamento provenientedal neorealismo italiano. Ne fa quasi una que-stione di stile, lo considera un virtuosismo nondel tutto riuscito, anzi bisognoso di qualche cor-rezione. I muri del vecchio casale sono sapien-temente tenuti insieme dalla linea del marcapia-no scuro, la genuinità del tipo edilizio della tra-dizione è tradotta abilmente in un linguaggiomoderno, attuale, ma la finestra in alto è giudi-cata inopportuna, un errore che sbilancia l’ope-ra, peraltro indicata come un «modello classico»per le abitazioni future57. Tutt’altro tono usa Zevi, che ammira la spregiudicata e felice creati-vità dell’«architetto», e definisce il piccolo edifi-cio «un gioiello caduto dal cielo». Un restaurointeso come battaglia morale per affermare unguizzo d’intelligenza popolare in un’area signo-rile dei Parioli costruita a palazzine; nel «grigio-re borghese», dunque, una casa «eccitante,gioiosa». Zevi interpreta la Casa del Marescialloin chiave addirittura avanguardistica: ne loda ilvalore di dissonanza rispetto all’ambiente; plau-de all’assenza di un modulo e a quella libertàcompositiva che rende possibile evitare ognierrore stilistico; esalta l’unità volumetrica deiblocchi murari nei quali i cordoli marcapiano ele finestre – tutte l’una diversa dall’altra –, sonocollocate là dove serve, proiettando all’esterno inuclei funzionali interni; giudica «un colpo digenio» l’impiego delle strutture d’acciaio che,distinguendosi dai muri esistenti, permettono disospendere i piani nel vuoto; infine spiega ilsusseguirsi degli spazi interni come una passeg-giata architettonica, anzi come un Raumplan58.Le invarianti del linguaggio moderno dell’ar-chitettura che Zevi elencherà nel 1972, ma cheha anticipato nei suoi precedenti testi di storiadell’architettura moderna, si ritroverebberodunque al completo, compreso ciò che derivadalla promenade architecturale di Le Corbusiere dall’insegnamento di Adolf Loos.

Certamente quella di Zevi è una valutazioneche va al di là di ciò che Gorio persegue, ma lasua intelligenza storico-critica ne capta giusta-mente gli intenti, frugando in quel subcoscienteche Gorio cerca prudentemente di celare, o chevuole comunque comandare attraverso l’azionerassicurante della misura, della tecnica, delmestiere. Del resto, quella zona a “palazzine”non ci appare più, oggi, così grigia e architetto-

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12-13/ Concorso per il quartiere CECA per gli operaiItalsider a Piombino, 1963. Schizzo di studio dell’interocomplesso, veduta assonometrica.

14-15-16-17/ Villino Mondini, Rocca di Papa, 1967-68.Foto dal giardino, veduta di scorcio dalla strada, pro-spetto del fronte interno, sezione longitudinale sul patio.

18-19/ Piante del progetto definitivo.

20/ Schizzo di studio. In evidenza le percorrenze interne.

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nicamente irrilevante; gli studi su questo tipoedilizio, che negli anni Cinquanta e Sessantaaveva ricevuto la sprezzante stroncatura soprat-tutto da urbanisti come Italo Insolera, è stato intempi più recenti rivalutata per i suoi innegabilirequisiti di vivibilità e perché ha conferito unacaratteristica del tutto particolare alla periferiaromana. In quella zona dei Parioli, del resto,erano state costruite alcune palazzine moltobelle, sia negli anni Trenta sia più tardi, adopera di Davide Pakanowski, Mario Paniconi eGiulio Pediconi, Mario Ridolfi, Mario Marchi,Luigi Moretti, dello stesso Mario Fiorentino59.Allo stesso tempo, si può trovare nella Casa delMaresciallo una convergenza tra la tradizione el’architettura anonima cara a Giuseppe Pagano,che tanti casali aveva attentamente fotografatonegli anni Trenta. Ecco, la forma-casale è ciòche resiste, che esprime quella forza morale chetiene insieme, in modo primordiale, gli uomini.Per Gorio è forse un simbolo ritrovato cheoccorre appena mascherare perché assuma unadimensione più ingranata alla contemporaneità.Ma è l’invenzione dello spazio affacciato, haragione Zevi, il vero salto di qualità. La formacasale e lo spazio affacciato saranno d’ora inpoi componenti insistite del linguaggio di Go-rio, entrambi appartenenti forse ad un humusculturale istintivo, comunitario, popolare. Delresto le case a La Martella e, in minor misuraquelle al Tiburtino hanno lo stesso segno.

Gorio, però, si rende presto conto che biso-gna contrapporre a questi elementi intuitivi unben più approfondito metodo razionalizzatore,un’antinomia rispetto alla quale cercar di trova-re una nuova sintesi. Si inaugura, dunque, unanuova fase della ricerca. Gli anni Sessanta siaprono appunto sotto questo segno.

Sugli anni Sessanta si è recentemente apertoun acceso dibattito, tanto essi hanno anticipatotemi, metodi, questioni, che oggi sono al centrodel sistema territoriale, delle metropoli, dellacomunicazione, dell’architettura. Essi hannoperaltro segnato per l’Italia un rivolgimentosociologico, culturale e politico che si apre conil boom economico sfocia nella contestazionedel ’68. Problemi complessi e intrigati cui si puòsoltanto accennare. Gorio ne è consapevole, mail suo carattere schivo lo fa ritrarre indietrorispetto ad un contraddittorio che si fa semprepiù violento e radicale. Si è visto come, rispettoa Quaroni, in occasione del Concorso per le Ba-rene di San Giuliano, egli non avesse nel 1959intuito la dimensione del town-design comepassaggio obbligato ove confluissero i ragio-namenti sul piano e sull’architettura. Nel 1961

individua invece, seguendo il filo sottile dellasua ricerca paziente, l’altro corno dell’antino-mia inespressa: l’aspetto tecnologico dellacostruzione, la normalizzazione dell’edilizia edel cantiere. Su tale questione, che gli consentedi tenere insieme responsabilità sociali, preoc-cupazioni economiche e innovazioni disciplina-ri, comincia a riflettere e a misurare pian piano,con una serie di sperimentazioni, all’inizio deltutto minimali, metodologie e tecniche che so-no destinate a trasformare il suo linguaggio. Sitratta di un approccio altrettanto lontano daquello razionalista di Diotallevi e Marescotti co-me da quello futuribile di Ciribini.

Un primo spunto riguarda gli infissi in allumi-nio adottati nel Quartiere di Via Cavedone aBologna60. Da una parte c’era, o c’era stata, l’ar-chitettura organica legata alla tradizione cheaveva alimentato il quartiere popolare, dall’altrala ricerca di un modo di costruire che potesseattualizzare i significati e i valori d’uso della ca-sa. La misura sociale, tecnica, economica dellaprofessione, che non affronta direttamente –anzi scavalca –, le questioni del linguaggio edella forma architettonica, conferiscono peròuna sicurezza ai procedimenti costruttivi chesono quasi la dimostrazione di una verità pro-gettuale altrimenti indimostrabile. Ecco, conl’introduzione degli infissi di alluminio in unquartiere popolare come quello di Bologna, conle sue corti modulari e seriali, Gorio comincia apensare alla possibilità di estendere l’innovazio-ne, fino all’industrializzazione edilizia conside-rata ormai una urgenza. «Oggi l’architetto ènudo» rispetto a questo terreno – scrive – maesso offre invece i vantaggi della sincerità nelcostruire che è la strada maestra per la progetta-zione, tale da coinvolgere insieme la responsa-bilità dello Stato, l’organizzazione e il controllodel lavoro edile. In realtà si fronteggeranno treforze: l’architetto, lo stato e l’industria e questa,ampliando il suo campo d’azione, finirà per tra-sformare i sistemi produttivi, gli elementicostruttivi, la catena di montaggio del cantiere.La stessa progettazione architettonica ne usciràrinnovata, ma non per individualistiche scelte dimaniera, bensì per motivi profondamente radi-cati nella struttura sociale ed economica, quellache a Gorio appare una scelta di civiltà.

Nel 1964 Gorio torna sull’argomento con stu-dio più amplio, una specie di piccolo trattato inmateria: La costruzione in funzione dei suoielementi. Punto di partenza è il fallimento deglistrumenti urbanistici, ormai sotto gli occhi ditutti, fatto che impone atteggiamenti più prag-matici, superando ogni idealismo. Il fabbisogno

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di alloggi è enorme, mentre il sistema delleimprese è arcaico e polverizzato. Bisogna dun-que escogitare un metodo di lavoro coordinatoche acceleri i processi e che raccordi la quantitàalla qualità, controllando il reddito e la forzalavoro. La parola chiave è lo standard, chedovrebbe diventare il luogo di convergenza traproduzione e consumo nel segno della qualità,in modo da razionalizzare il processo edilizio.Lo scritto si articola in molti capitoli che analiz-zano questi problemi fino a prendere in consi-derazione l’adeguamento stesso dei sistemi diricerca, la formazione di un Centro Studi peraffrontare la questione a livello nazionale, l’in-segnamento universitario. Sul Centro StudiGorio preparerà anche una dettagliata relazioneche resterà lettera morta. L’argomento è poinuovamente approfondito negli scritti pubblica-ti nel 1968.

Osservando gli edifici che in questo periodoGorio va disegnando e realizzando, si scopreche questa progressiva dilatazione dell’elemen-to modulare – l’assenza del quale aveva fattogridare al miracolo Bruno Zevi a proposito delCasale Gomez –, ingenera quasi una mutazionenel modo di progettare che coinvolge sia lesuperfici esterne sia le matrici interne, struttura-li e statiche.

Il discorso diventa volutamente dimostrativonello studio della scuola prefabbricata pilotaper la XII Triennale di Milano (1962-64), cheserve ad alimentare anche altri progetti di edili-zia scolastica. In questo caso prevale la merapreoccupazione per la modularità generalizzatae per lo schematico trattamento del volume: lastruttura a gabbia prende il sopravvento, assor-bendo in sé ogni residuo di espressione archi-tettonica, che si presenta solo nelle anse dellospazio interno, quasi per grumi provvisori entroun capannone di sopravvivenza. Gorio deveessersi accorto dei limiti di questa strada, evi-dente se si confronta con i risultati nell’ediliziascolastica promossi da Ciro Cicconcelli e rag-giunti da Luigi Pellegrin61. Provvede perciò adalcune correzioni concettuali e formali, perrecuperare i valori dissipati.

La cosa è evidente sia nel villino di Via Manas-sei a Roma (1960-63)62 sia nella casa di ViaMonti a Milano (1962-63)63. La casa romana èquasi un teorema: un blocco fermo, laconico,nel quale gli infissi in alluminio – pannelli dasolaio a solaio – e la cortina in mattoni lascianocompatta la parete, formando una serie alternache articola la superficie, superando così la tra-dizionale composizione dei “pieni” e dei “vuoti”che nel Casale Gomez aveva saputo sapiente-

mente raccordare con i cordoli in cementoarmato. La forma tradizionale, quasi un’allusio-ne ironica al tetto-cappello rastremato, apparesoltanto nella sintetica copertura, esplicitoomaggio a Ridolfi. Nell’edificio milanese, unacasa d’abitazione a sei piani, Gorio si cimenta,invece, con l’edificio alto: lo riassume in unblocco che si chiude all’esterno proprio con iltrattamento ermetico degli infissi, ormai esplici-to ritmo seriale di un cantiere prefabbricato.All’interno, invece, i differenti uffici usufruisco-no dell’affaccio su uno spazio a doppia altezza:un edificio singolare, purtroppo non realizzato,che si può confrontare con le coeve costruzionidi Gio Ponti e di Luigi Caccia Dominioni. Quasiun minimalismo ante litteram di grande elegan-za, un eloquio che non ha nulla di manieristico,ma che è invece conseguenza del prevalere del-l’unificazione edilizia, tradotta però, con grandeabilità, in una tipologia nella quale anche l’in-terno gioca un ruolo assai importante.

Questa raggiunta chiarezza sarà riversata daGorio in progetti di più ampia scala: il quartiereCECA per gli operai dell’Italsider a Piombino,con Grisotti, Lugli, Mandolesi, Petrignani (1963-64)64 e il Centro turistico di Castelsardo (Sas-sari), con L. Mariani Travi (1973-75)65. In questicasi la composizione planimetrica scaturiscedalla «normalizzazione» e dalla scansione modu-lare dello spazio, ma con caratteristiche nellaterza dimensione d’opposta tendenza. Nel quar-tiere CECA, che precede di un anno quello diSecondigliano, è evidente l’accostarsi alla tema-tica del Grand Ensamble francese, con la plani-metria impostata su un asse centrale in curva,mentre le unità abitative costituite da torri ecase basse a gradoni, sono collegate da una pia-stra continua di tessuto connettivo di servizio.Un’immagine regolare, modulare, misurata,esplicitamente legata al movimento moderno,sia pure in una declinazione attenta ai suoi svi-luppi internazionali nella direzione del towndesing.

Il Centro di Castelsardo, invece, sembra quasiun ripensamento rispetto ai tentativi sperimen-tali quale quello di Secondigliano. Una serrataplanimetria si distende sul terreno, digradandoper la collina e aggregando in un tessuto conti-nuo le cellule abitative variandole in ben ottotipi edilizi differenti giocate tutte sul tema dellospazio affacciato; un sistema a cluster o acasbah che ricorda le proposte del Team X o diAdalberto Libera. Gli alloggi a due piani sonostudiati, in alcuni schizzi, addirittura in forma dicapanna-casale, ricollegandosi alle ricerchedegli anni Cinquanta.

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Tra questi due progetti si situa un piccolo edi-ficio, nel quale si registra il pieno recupero diquesto tema: il villino a Rocca di Papa in localitàCampi di Annibale (1967-68)66, in una campa-gna ricca di olivi. In questo caso la forma-casa-le assume una serie di varianti che ne rendonoassai attuale il risultato. Gorio impiega un mor-fema che ha usato anche nella casa di Paola(1958) e che anche Giuseppe Perugini e Uga DePlaisant adotteranno nelle case di Acilia (1958-60): la copertura del tetto a falde convergentiverso l’interno. Ma se nei casi suddetti quellafigura è un brillante formalismo, nella casa aRocca di Papa diventa una matrice spaziale le-gata all’archetipo della domus romana. Laforma-casale si trasforma in casa a patio; mal’inclinata della falda del tetto corre parallelaalla rampa interna che collega, attraverso il pic-colo giardino le due zone della casa: a est l’in-gresso e il soggiorno a due piani che attraversatutto il corpo di fabbrica, a ovest i due letti e iservizi. La forma scelta è quindi perfettamenteaderente alle ragioni interne della casa. Tuttodiviene logico e fluidamente risolto. Anche lospazio affacciato diventa spontanea prosecu-zione della promenade architecturale che, inquesto caso, è ben altro che una fortuita citazio-ne del Maestro, ma appare viceversa collegarsia quella stagione di Le Corbusier che ha visitatol’edilizia spontanea, come nella Maison auxMathes del 1935. Del resto c’è un’altra vistosacitazione nella testata est, che ripete quasi te-stualmente la soluzione delle case della Gar-batella di Pietro Aschieri nel 1929. Un’architet-tura colta, dunque, che si mimetizza nell’am-biente, ma che diventa un vero e proprio mo-dello. È ben strano che questo piccolo edificio,costruito in opus incertum lasciato a vista, siarimasto quasi inosservato dalla critica, attentissi-ma invece a registrare i minimi movimenti deiprotagonisti più in evidenza.

Questa continua oscillazione – che si riscon-tra anche in altre opere e progetti, talvoltaaffrontati in chiave esclusivamente professiona-le –, dà però la misura di un progressivo distac-co di Gorio dai temi che hanno dominato queidecenni: l’utopia e la ricerca linguistica deglianni Sessanta, la tipologia degli anni Settanta, ilpost-moderno degli anni Ottanta. Com’è avve-nuto per l’urbanistica, anche l’architettura e l’in-teresse per il modo di costruire sembrano pianpiano perdere mordente per lasciare campolibero alla riflessione teorica e lo studio storico.Si registra come una stanchezza, in Gorio, nel-l’essere sempre in disaccordo con gli altri, quasi

l’inutilità di dover affermare le proprie ragioni odi dover contestare i percorsi dell’architetturacontemporanea che non condivide.

Si è affermato che, per l’urbanistica, la Lectiomagistralis può essere il punto d’arrivo di unatteggiamento scettico solo in apparenza, vice-versa animato da una profonda tensione di re-sponsabilità creativa, magari da infondere negliallievi; c’è, allora, un edificio che può esserepreso come punto d’arrivo del lavoro d’architet-to di Gorio, nel quale mi sembra che le difficoltà«antinomiche» e la ricerca di sintesi si sciolganonuovamente in un risultato pienamente convin-cente. Non è un caso che si tratti ancora unavolta di un piccolo casale, così com’era stato perla Casa del Maresciallo, e anche qui di un inter-vento di restauro. In più, in questo caso si trattaanche di una casa che Gorio ristruttura per sestesso, cosicché si può considerare quasi unautoritratto dell’autore: la casa a Torno, vicino aComo (1982).

Gorio ne ha offerto una lettura critica spie-gandone, con argomenti circostanziati fino allapignoleria, motivazioni e scelte progettuali, chedefinisce come una «mini-esercitazione tipologi-ca»67. Si possono riassumere in breve: recuperodella simmetria in pianta e nel volume di unvecchio rustico irregolare collocato in un lotto alosanga allungata; rotazione delle falde del tettoappoggiandone il colmo tra i due angoli oppo-sti tra loro quasi uguali; disposizione di unascala elicoidale nella punta acuminata del trape-zio, smussandone in tal modo l’angolo acuto eraccordando così la casa alla strada verso il lago;trasformazione dell’interno aumentando a tre ilnumero dei piani, abbassando la quota delpiano terra e utilizzando il sottotetto; sposta-mento delle finestre conseguente al riassestarsidell’imposta dei solai, aprendone due angolarisulla scala e sulla mansarda, in modo da domi-nare il panorama; «centrifugazione» degli arredilungo la muratura, data l’esiguità dello spaziodisponibile, aumentando in tal modo la vivibi-lità dell’interno; progettazione dello stesso arre-do in muratura e legno smontabile con tavolatidi pino russo e abete; non resta che «incastona-re» i blocchi di servizio nell’incastro degli arredie il gioco è fatto. Una casa strabica e ironica,persino divertente, pensata come il design di unpiccolo scafo, assolutamente povera all’esterno,capace di celare il sapiente virtuosismo dell’in-terno, ma stravagante quello che basta persegnalarsi come opera d’autore. Qualcosa che siisola in sé, ma che può essere ricollegata a tuttoil mondo. Qualcosa che rinuncia alla tecnologiadel contemporaneo, ma solo per riscoprire una

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tecnica della tradizione che ne è irrinunciabilepremessa.

In tal modo il cerchio si richiude temporanea-mente, ricollegandosi al Casale Gomez dalquale si era partiti – da coniugare con il proget-to presentato al Concorso INA-Casa per Ebolinel 194968 e poi replicato al Tiburtino, con quel-le cellule esagonali irregolari aggregate a grap-polo e le falde del tetto ripiegate dal colmoverso il basso –, per riaprirsi subito dopo finoagli esiti dell’inizio del nuovo millennio.

È possibile tirare qualche conclusione?

Da quanto s’è detto, il percorso non è mono-direzionato ed esclude ogni stabile punto d’arri-vo. Quella di Gorio è un’esperienza di vita sin-golare, inimitabile, alla quale però è probabil-mente mancata la forza, anzi la prepotenza, perimporsi. Parole e frasi ricorrenti nei suoi scrittisono: rinuncia, torti, sfasamento, incertezza,dubbio, imbarazzo, impreparazione, fallimento,coscienza della sofferenza; ma anche ritornoalla speranza, messa in valore delle risorse la-tenti, tolleranza, curiosità, fratellanza disinteres-sata, equilibrio e buon senso, entusiasmo.Questa strada difficile, controcorrente, solitaria,c’insegna, però, l’importanza dell’intransigenzamorale e della coerenza ideale, virtù rare chedobbiamo saper cogliere come insegnamento.Mi sembra giusto, allora, dare la parola allo stes-so Gorio, almeno per esprimere tre concetti chehanno innervato tutta la sua ricerca.

Anzitutto la forza dilettante. «Poiché spesso iconcetti procedono per contrari – scrive –, sicontrappone, al participio sostantivato “dilet-tante» (con evidente influenza del gergo sporti-vo) l’attributo «professionista» […], ma «ognunodi noi, per la parte di lavoro che gli compete, èdilettante e professionista nello stesso tempo,così come è istintivo e razionale, romantico eclassico in uno». Ma aggiunge: «Soltanto unariserva di forza dilettante riuscirà a salvarlo (l’ar-chitetto) e a tenerlo nel giusto equilibrio»69. Laforza dilettante, perciò, è quella che alimenta ilpensiero e l’approccio alla progettazione, intesacome «atto produttivo frutto di un procedimen-to critico»70. Non dunque una scienza, nemme-no una disciplina o una dottrina, invece unmestiere piuttosto che una professione, intesoin sintonia con Ridolfi.

Poi mutevolezza e coerenza. «Certo – scriveGorio –, è difficile rispettare i nessi tra i passag-gi del ragionamento, se parli in termini di logicacartesiana. Ma la logica dell’esistenza è un’altra,ben più intricata; e la coerenza la puoi ritrovare

sotto forma di impegno, ad esempio, di fatica edi sofferenza. L’umanità consiste nel mantenerel’equilibrio fra i due estremi, l’istinto e la ragio-ne, pur lasciandosi trasportare all’uno e dall’al-tra. Turarsi le orecchie con la cera e remarecome i marinai o, come Ulisse, ascoltare legati ilcanto delle Sirene?»71. Gorio, lo si è più volte ri-scontrato, preferisce non scegliere, perchélasciar vivere i contrasti e le difficoltà del ragio-namento lo mette al sicuro, almeno, dal nondover ostacolare la contraddittorietà della natu-ra umana. Il pegno da pagare può essere, però,molto alto: rimaner prigioniero di un organici-smo problematico che rifiuta il rischio dell’av-ventura.

Infine, il frammento di una sua frase: «archi-tettura, metamorfica e fuggevole sostanza»72.

Note

1 Tra la borgata abusiva e la città conformista, Goriopreferisce di sicuro la prima. Ecco quanto scrive, ricor-dando i tempi del neorealismo: «Qualche anno prima –stavamo facendo il Tiburtino – avevo incontrato ungiovane regista che stava rimuginando un documenta-rio sulla borgata abusiva: nel discutere, gli avevo indi-cato il contrasto tra l’umanità di certi esempi di queltipo e lo squallore della città legittima e conformista». F.GORIO, Idee in margine al quartiere di via Cavedone,in «Casabella-continuità», n. 267, settembre 1962, p. 26,ora in ID, Scritti d’occasione, p. 161. Quest’ultimo libroha avuto una seconda edizione, intitolata Il mestiere diarchitetto, per le Edizioni dell’Ateneo di Roma. I riferi-menti del presente saggio rimandano alla prima edi-zione del testo. 2 «Se Le Corbusier costruisse alla periferia di Roma unadelle sue unità monumentali di abitazione sarebbe unfatto senz’altro clamoroso, ma certo senza nessunappiglio alla realtà circostante». F. GORIO, Relazione alConvegno INU, 1955, ora in ID, Scritti d’occasione(1947-1963), Roma 1964, p. 24. «Aire, sol y vegetation»è il manifesto di un congresso urbanistico dell’Americalatina, colto a caso, nient’altro che la traduzione delleparole magiche del Corbu, o di quelle del C.I.A.M.nella carta di Atene, nient’altro che la sostituzione diuno stato di fatto alterato e inaccettabile, ma carico difecondi contenuti sociologici e umani, con la prospet-tiva di un ambiente biologicamente sano, ma insop-portabile per la sua penuria di significati». F. GORIO,Urbanistica: riflessioni critiche e ipotesi di lavoro,Quaderni dell’Istituto di Architettura. Università diCagliari, Facoltà di Ingegneria, Roma 1970, p. 22.3 «Questo lo ha detto Zevi, nell’articolo che scrisse perpresentare il mio progetto (La Casa del Maresciallo,1954-58 n.d.a.) su L’Espresso. Fu lui a dire del richiamoa Loos. Io, devo confessarlo, le opere di Loos le hoviste dopo aver progettato la Casa». Dall’intervista adAntonino Libro del 2002. Non è inutile ricordare che,

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però, il libro di B. ZEVI, Storia dell’architettura moder-na, è del 1950. 4 Cfr. F. GORIO, Il villaggio La Martella, autocritica, in«Casabella-continuità», n. 200 pp. 31-38; G. DE CARLO, Aproposito di La Martella, in «Casabella-continuità», n.200, 1954, p. 29-30. 5 L’aggregazione è da ricollegarsi al prototipo studiatodallo stesso Gorio per il Concorso INA-Casa ad Eboli.Cfr. Archivio Gorio, Faldone 1.10.6 F. GORIO, Urbanistica alla Triennale, «Casabella-con-tinuità», n. 203, 1954, ora in ID, Scritti d’Occasione, pp.60-65.7 F. GORIO, La città e il territorio, in ID, Scritti d’occa-sione cit., pp. 72-73.8 Ibidem, pp. 75-76.9 La descrizione che Gorio fa di Roma è in piena sin-tonia con quella che ne farà Ludovico Quaroni. Cfr L.QUARONI, Immagine di Roma, ed. Laterza, Bari, 1969. 10 F. GORIO, La città e il territorio, op. cit., p. 93. 11 Ibidem, p. 97-98. 12 F. GORIO, In occasione di un convegno di urbanisti-ca, in «Casabella-continuità», n. 204, marzo 1955, ora inID, Scritti d’occasione, p. 13. 13 Ibidem, p. 14. 14 Ibidem, p. 24. 15 Ibidem, p. 28. 16 Marcello Fabbri ha spiegato molto bene questa situa-zione, anzi il clima generale nel quale maturano que-ste idee. Cfr. M. FABBRI, Le ideologie degli urbanisti neldopoguerra, ed. De Donato, Bari, 1975. 17 E. N. ROGERS, Contrasti tra architettura e urbanisti-ca, in «Casabella-continuità», n. 224, febbraio 1959, pp.1-2. 18 F. GORIO, Idee in margine al quartiere di Via Cave-done, in «Casabella-continuità», n. 267, settembre 1962,pp. 26-27. 19 M. VITTORINI, Produttività edilizia nello studio delprogetto, ibidem, pp. 27-30.20 F. GORIO (Gruppo), Concorso per il quartiere C.E.P.alle Barene di S. Giuliano – Venezia. Relazione, p. 24-25, Archivio Gorio, Faldone 1.52/a.21 B. ZEVI, Concorso per il quartiere di Secondigliano.Quattrocento forme di città nuova, in «L’Espresso», 8agosto 1965, ora in ID, Cronache di architettura, VI,587, ed. Laterza, Bari, 1970, pp. 26-29. L’editoriale di«L’architettura, cronache e storia», n. 121, novembre1965, che pubblica ampliamente i progetti di Secon-digliano, Zevi lo dedica all’urbatettura di Jan Lubicz-Nycz, quasi per sottolineare il divario tra le incertezzedegli italiani e la temeraria ricerca internazionale.22 L. PICCINATO, La figura dell’urbanista, 1951. Pro-lusione al I Convegno Nazionale di Urbanistica, Siena1951, ora in F. MALUSARDI, Luigi Piccinato e l’urbanisti-ca moderna, Roma 1993, p. 202-205. 23 L. PICCINATO, Pianificazione regionale, in Scritti vari,Roma 1977, ora in F. MALUSARDI, op. cit., pp. 206-217. 24 L. PICCINATO, Un piano per battere la speculazioneedilizia, in «Italia-domani», 30-1-1958, ora in F. MALU-SARDI, op. cit., pp. 233-234.25 G. ASTENGO, Urbanistica in Parlamento, editoriale di«Urbanistica», n. 36-37, novembre 1962. 26 L. PICCINATO, Per un codice dell’urbanistica, in ID,

Scritti vari, ora in F. MALUSARDI, op. cit., pp. 237-41. 27 B. ZEVI, Un codice per l’Urbanistica. L’elettorato con-trolli i piani regolatori, «L’Espresso», 18 dicembre 1960,ora in ID, Cronache di architettura, IV, 245, ed.Laterza, Roma-Bari, 1971, pp. 109-111; B. ZEVI, Leggeurbanistica Sullo. Va bene, il Parlamento l’approvi,ibidem, 435, pp. 486-489.28 C. RIPAMONTI, Le finalità della 167, in «Urbanistica», n.39, ottobre 1963, pp. 20-21.29 B. ZEVI, La relazione Martuscelli sulla 167. Bloccatoil supersfruttamento fondiario, in «L’Espresso», 23 apri-le 1967, ora in ID, Cronache d’architettura, VI, pp. 410-413. 30 F. GORIO, Lectio magistralis, Reggio Calabria, Facoltàdi Architettura, 2002, p. 2. 31 B. ZEVI, In piazza il piano di Roma – 35 minuti con-tro 10+15, in «L’Espresso», n. 10 giugno 1962, ora in ID,Cronache di architettura, IV, 422, ed. Laterza, Bari,1970, pp. 432-434; B. ZEVI, Altalena sul futuro di Roma- Emendamenti degli usurai del suolo, in «L’Espresso»,16 dicembre 1962, ora in ID, Cronache di architettura,IV, 449, ed. Laterza, Bari, 1970, pp. 542-545.32 N. DI CAGNO, F. GORIO, P. MORONI, M. VITTORINI, Re-lazione sullo studio urbanistico del Comprensorio Pre-nestino-Casilino, 1961. Archivio Gorio, Faldone1.60/b.33 M. TAFURI, Studi e ipotesi di lavoro per un sistemadirezionale di Roma, in «Casabella-continuità», n. 264,1962, p. 28. 34 G. ASTENGO, Al Buio, in «Urbanistica», n. 56, marzo1970, pp. 1-4; B. GABRIELLI, A Giochi fatti, in «Urba-nistica», n. 56, 1970, pp. 5-6.35 F. GORIO, Urbanistica, riflessioni critiche, «Quadernidell’Istituto di Architettura», n. 21, Università di Cagliari,Facoltà di Architettura, Roma, 1970, p. 23.36 F. GORIO, op. cit., p. 24. 37 Cfr. C. CONFORTO, G. DE GIORGI, M. PAZZAGLINI, A.MUNTONI, G. REMIDDI, Un pattern metamorfico per lacittà, in «Marcatre», n. 26/29, 1965, pp. 72-83. Vedianche le relazioni sull’Asse Attrezzato di Roma delloStudio Asse, 1968, in «L’architettura, cronache e storia»,n. 238-239, agosto 1975. Numero speciale.38 F. GORIO, Struttura e comportamento, in ID, Urba-nistica cit., pp. 31-61. 39 CH. ALEXANDER, Note sulla sintesi della forma (1964),ed. Il Saggiatore, Milano, 1967, pp. 194-230. 40 CH. ALEXANDER, op. cit, p. 40.41 F. GORIO, Urbanistica cit., p. 58. 42 Federico Gorio confida a Antonino Libro, così comela ricorda, quell’esperienza. «Per Corviale ho presoparte alla progettazione, ero uno dei capigruppo, maquella volta la colpa non è stata degli architetti, ma del-l’organizzazione che pretese a un certo punto che cimettessimo in contatto con le imprese già nominate.Quando abbiamo cominciato a progettare vi erano unaserie di condizionamenti che obbligavano a convo-gliarci verso una determinata soluzione ed in modoparticolare all’unificazione, alla standardizzazione.All’impiego di volumetrie non troppo articolate. Inquel contesto è nato un mostro, che chiamo “MobyDick”».La vicenda (fu) influenzata da Fiorentino il quale aveva

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Page 24: Federico Gorio, contraddire per sopravvivere · 2015. 1. 24. · Ludovico Quaroni e Carlo Aymonino ne prenderanno le distanze appena cinque anni dopo. Il villaggio de La Martella,

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dalla sua parte una folta schiera di giovani architetti.Un giorno venne con quest’idea di una stecca lunga unchilometro, mentre io e Valori rimanevamo in mino-ranza, non potendoci neanche dimettere poiché erava-mo stati chiamati a progettare senza nessuna racco-mandazione da Pietrangeli (Papini), dirigente dell’uffi-cio tecnico delle case popolari, che ci stimava comearchitetti.[…]». D. Quindi l’idea della barriera, in con-trapposizione all’espansione sfilacciata della periferiadi Roma, è di Fiorentino? «Si, l’idea è sua: per la veritàc’era stata una premessa mia che probabilmente lo haindirizzato all’ultima soluzione: gli avevo suggerito dipensare alla natura abbastanza ricca del terreno pienodi solcature e raschiature cosa abbastanza frequentenella campagna intorno a Roma, da parte dei torrentiche si buttano nel Tevere. […] Io gli avevo propostouna cosa che avesse una linea superiore di corona-mento tutta alla stessa quota, che però, adattata al ter-reno, produceva un edificio lungo un chilometro incurva e con la base che seguiva anch’essa il terreno.Sul progetto di Fiorentino si buttarono a capofitto leimprese perché massimizzava la possibilità di prefab-bricazione». A. LIBRO, Intervista a Federico Gorio, in R.M. CAGLIOSTRO, A. LIBRO, C. DOMENICHINI (a cura di), Fe-derico Gorio. Esperienze. Ricerche. Progetti, Universitàdegli Studi «Mediterranea» di Reggio Calabria – In/Arch,ed. De Luca, Roma, 2002, pp. 75-76.43 F. GORIO (a cura di), Urbanistica, dall’empirismo allateoria. Introduzione, ed. Franco Angeli, Milano, 1979,p. 9. 44 Ibidem, p. 10. 45 Ibidem, p. 11.46 Non a caso Laura De Carlo e Piero Albisinni, chericordano bene quella esperienza, e con i quali horecentemente parlato, hanno poi preso altre strade.Essi rivestono oggi ruoli importanti nello studio e nel-l’insegnamento della scienza della rappresentazionealla Prima Facoltà di Architettura Ludovico Quaronidell’Università «La Sapienza» di Roma. Lucio Carbonara,anch’egli tra il gruppo di architetti che ha seguito ilCorso, ha invece continuato ad interessarsi della mate-ria, tanto che oggi dirige il Dipartimento di Pianifica-zione Territoriale e Urbanistica in questa stessa Facoltà.47 F. GORIO, Per un’urbanistica alternativa, Lectio Ma-gistralis, Reggio Calabria, Facoltà di Architettura, 7 feb-braio 2002. 48 F. GORIO, Pensieri elementari sull’urbanistica, in«Parametro», n. 186, settembre-ottobre 1991, pp. 30-38. 49 A. LIBRO, op. cit., p. 69. 50 F. GORIO, Lectio magistralis cit., p. 9. 51 Archivio Gorio, Faldone 1.98/c.52 Archivio Gorio, Faldone 1.15/i. 53 Questa e le citazioni seguenti sono tratte da F. GORIO,Lettere a Quaroni, in ID, Urbanistica e architettura.Scritti d’occasione (1947-1963), Roma, 1964, pp. 119-125. 54 F. GORIO, Presentazione di Mario Fiorentino, in«L’architettura, cronache e storia», n. 45, 1959, pp. 155-156; F. GORIO, Il villaggio di San Basilio, in «Casabella-continuità», n. 212, 1956, pp. 52-54. 55 F. GORIO, l’Aula Magna di Perugia, in «Casabella-Continuità», n. 220, 1952, p. 148.

56 Ibidem.57 L. QUARONI, «La Casa del Maresciallo» a Villa Balestrain Roma, in «L’architettura, cronache e storia», n. 52,1959, pp. 805-816. 58 B. ZEVI, Casa del Maresciallo. Raumplan in un’ecce-zionale abitazione pariolina, in «L’Espresso», 4 gen-naio 1959, ora in ID, Cronache di architettura, III, 243,pp. 230-233.59 Cfr. i due numeri monografici: Dal Villino alla Pa-lazzina. Roma 1920-1940, in «Metamorfosi – Quader-ni di Architettura», n. 8, 1987 e La palazzina romanadegli anni ’50, in «Metamorfosi – Quaderni di Architet-tura», n. 15, 1990.60 F. GORIO, L’alluminio nell’edilizia popolare, 1961, inID, Scritti d’occasione cit. , p. 168. 61 Ciro Cicconcelli ha diretto, per il Ministero della Pub-blica Istruzione, il Centro Studi per l’Edilizia Scolastica– fondato nel 1952 e attivo fino al 1978 –, promovendoin questo periodo, attraverso un sistema particolare diappalto-concorso, la realizzazione di più di 450 edificiscolastici in tutta Italia. Vengono costruite, tra l’altro,opere di Sergio Lenci, Fausto Ermanno Leschiutta,Luigi Pellegrin, Carlo Platone, Gino Valle. Le ditte diprefabbricazione sono: Benini, Bortolaso, Delta, Feal,Isci, Leonori, R.D.B., Sicilprofilati, Valdadige. Le scuo-le, che proponevano un’organizzazione sperimentaleper lo spazio didattico e per i sistemi costruttivi, hannocostituito la base per la stesura delle nuove Norme perl’edilizia scolastica, elaborate dal Centro Studi ed entra-te in vigore nel 1975. I risultati di questa operazionesono stati pubblicati nei «Quaderni del Centro Studi perl’Edilizia Scolastica» dal 1953 al 1969. Una sintesi dellavoro del Centro Studi è in «Edilizia Scolastica», n.19/20, 1981. Vedi anche: «Casabella-continuità», n. 245,novembre 1960, Fascicolo speciale dedicato alla scuo-la; L. PELLEGRIN, Un percorso nel potenziare il mestieredel costruire, Silvana Editrice, Milano, 2003. 62 Archivio Gorio, Villino a Via Manassei, Roma, Tubo1.55/A/1.63 Archivio Gorio, Casa di Via Monti, Milano, Faldone1.57/b2.64 Archivio Gorio, Quartiere CECA, Piombino, Faldone1.63/b.65 Archvio Gorio, Centro turistico di Castelsardo,Faldone 1.83/c. 66 Archivio Gorio, Villino a Rocca di Papa, Faldone1.73.67 F. GORIO, Una casa ristrutturata a Torno, Como,1990, in «Metamorfosi – Quaderni di Architettura», n.12, 1989, pp. 33-37. 68 Archivio Gorio, Concorso Ina-Casa, Eboli, Faldone1.10.69 F. GORIO, Appunti sull’Urbanistica romana cit., pp.103-104.70 F. GORIO, Scritti d’occasione cit., p. 149. 71 F. GORIO, Idee in margine al quartiere di via Cave-done cit., p. 27. 72 F. GORIO, Scritti d’occasione cit., p. 148.

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