Date post: | 28-Mar-2016 |
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Un fil di fumo
(una storia di cowboy)
di
Davide Mana
Se capisci, le cose sono come sono...
Se non capisci, le cose sono come sono.
(Proverbio zen)
Il brontolio basso dei motori mi riportò alla mente l’immagine di un giovane in
tuta di volo, sogghigno selvaggio sul volto abbronzato, che accarezzava
affettuosamente la fiancata del B-24 che per i prossimi tre anni sarebbe stata la
nostra casa.
Un viso aperto, un sorriso cordiale.
Honolulu rimpiccioliva ormai dietro di noi quando tornai alla realtà.
Di solito lo chiamavamo Pinky.
Avevamo iniziato insieme, sulla Gobba, nel ‘43, lui, io, Ripper Pace e tutti gli
altri, trasportando provviste da Johrat a Kunmin.
Era un aviatore fin troppo entusiasta, arrivato da qualche parte sulla costa del
Massachussets, felice come una pasqua di essere il primo ad infrangere la lunga
successione di uomini dati al mare dalla sua famiglia, e se la godeva un mondo
a volare su una carriola fra le montagne più alte del mondo.
Io facevo da navigatore su quella stessa carriola.
Ci eravamo conosciuti così.
Avevamo vissuto il nostro numero di disastri per poco evitati, di casini e di
avventure al limite della farsa, e questo ci aveva fatto avvicinare, come è
normale che capiti fra commilitoni.
Dopo il Gran Botto, lui venne trasferito in Giappone, mentre io rimanevo
indietro sul confine Nepalese, per poi finire a DC a pilotare una scrivania, con
un paio di patacche non troppo comuni appiccicate sul mio dossier.
Per servizi resi.
Lo scambio di lettere si fece progressivamente meno frequente mentre le nostre
vite si allontanavano. Venni a sapere del suo matrimonio con una ragazza del
posto, nel ‘48, una cosa che fece innervosire gli alti papaveri. Ricevetti una
fotografia in quell’occasione, ed una forse un anno dopo, scattata durante una
specie di festa che i suoi avevano messo in piedi quando finalmente era tornato
a casa.
Forse l’inizio dei suoi guai, forse solo l’ultimo giro di vite.
Poi le comunicazioni si interruppero, come spesso succede.
E sedici anni dopo il nostro primo incontro, ora venivo mandato a chiudere il
suo incartamento.
Il piedipiatti giapponese mi aspettava allo sbarco.
Ispettore, Tokyo CID, con un completo marrone scuro ed un impermeabile
color bruciato, pelle scura, per un giapponese, e alto, per un giapponese, forse
quasi un metro e ottanta e con l’aria cattiva; sembrava giovane e pieno
d’energia ma c’era una specie di vulnerabilità nella sua mascella serrata, ed una
certa idea di ineleganza, di grossolanità, nel suo modo di muoversi, che tradiva
una fresca promozione dal servizio di ramazza alle alte sfere.
Intelligente, però.
Da sotto alla tesa larga della sua lobbia, osservava con attenzione il flusso dei
passeggeri in arrivo.
L’agente al suo fianco, in uniforme impeccabile, reggeva un cartello, e sul
cartello c’era un nome.
In quelle specifiche circostanze, il mio nome, a tutti i fini pratici.
Li raggiunsi e mi feci riconoscere.
Accettò senza commenti i miei falsi documenti dell’OSI.
Ci stringemmo la mano, e puntammo verso l’auto di servizio che ci aspettava di
fuori.
Mi sorprese sedendosi al posto di guida, l'agente col cartello liquidato con un
cenno e una raffica di parole brusche.
“Immagino vorrà vedere immediatamente il posto,” disse, mentre prendevamo a
strisciare nel traffico del primo pomeriggio.
Aveva una voce aspra, ma il suo inglese era più che passabile.
Annuii.
Proseguimmo, puntando verso i sobborghi.
Era una casa intonacata di bianco, a due piani, un po’ malandata ma piacevole.
Gran parte degli isolati lì attorno erano occupati da anonime scatole di
calcestruzzo e legno, che la mia guida chiamava machi-nami o qualcosa di
simile, ma questa casa per lo meno aveva una sua individualità.
Ci fermammo appena prima del cancelletto del cortile ed io istintivamente
controllai l’ora. C’era un grosso orologio in cima all’edificio, ma le lancette
erano ferme alle dieci e ventitré.
Mi voltai verso lo sbirro giapponese.
Lui annuì seccamente e fece strada verso l’ingresso principale.
C’erano una cuccia vuota ed un piccolo porticato, un paio di gradini fino alla
porta. Un uomo di mezza età annuì due o tre volte mentre la mia guida gli
parlava, poi ci lasciò entrare.
Corridoio con pavimento di legno, porte con vetri smerigliati sui quali erano
dipinti in nero dei numeri. L’odore di cera e di cibo cucinato da poco
permeavano l’aria.
“Affittacamere,” spiegò il detective, “Studenti, impiegati senza famiglia,
talvolta un pendolare che si ferma per la settimana. Al piano di sopra,”
aggiunse, con un cenno del capo verso la scala. “Stanza numero cinque.
Venga.”
La porta era sigillata con strisce di carta appiccicate. Lui le spezzò e mi fece
entrare.
La stanza oltre la porta era piccola ma tutt’altro che affollata: una parete era
dominata da un grande armadio a muro, che conteneva pochi effetti personali ed
un materasso arrotolato. Una radio su un basso tavolino presso la finestra, uno
scaffale con alcune foto e dell’altra roba.
Al centro della camera, il tappeto chiaro del pavimento era macchiato di
marrone scuro. Come le pareti, spruzzate irregolarmente.
Su una di queste c’era una macchia più grande, come una scura pennellata
dall’alto al basso.
“Viveva qui?”
Inspirai, l'aria asciutta e polverosa nelle mie narici.
Una sola stanzetta con il bagno al piano di sotto.
Non era ciò che mi ero aspettato.
I nostri quartieri privati a Jorhat, quindici anni prima, erano stati più piccoli, più
affollati, molto più maleodoranti e malandati, ma tutto questo era...
Esalai.
Il mio accompagnatore mi osservava dalla porta.
Diedi un'occhiata in giro.
Abiti appesi nell’armadio a muro: due completi, due cravatte, ed un solo paio di
scarpe. Calzini e biancheria ripetutamente rammendati, impilati con ordine.
“Testimoni?”
Cacciò una mano in tasca.
Aprì un taccuino. “Il gentiluomo che occupa la stanza numero quattro,” indicò
la parete di fronte a me, oltre l'armadio a muro, “ha sentito gli spari ed ha
chiamato la polizia dal telefono al piano inferiore. Poi è rimasto rintanato al
sicuro fino all’arrivo dell’agente di quartiere. A parte questo,” assunse
un’espressione arcigna, “nessuno ha visto, nessuno sa.”
Chiaramente una versione che non lo soddisfaceva.
C’ero anch’io in una delle foto sulla mensola, alto orgoglioso e giovane alle
spalle del gruppo. Jack Pace era aggrottato e belligerante come sempre,
massiccio come un lottatore, mezzo sigaro fra i denti stretti. Pinky era come
d’abitudine al centro dell’immagine, e si pavoneggiava nella sua giacca di volo,
con un cappello di pelliccia da montanaro tibetano. Junior Dawson e l’inglese,
Chubby Wyngarde, erano accosciati ai nostri piedi. Ridevano.
Qualche altra foto dei tempi del servizio.
Nessuna foto scattata dopo il 1949.
Nessuna foto di suo figlio. Nessuna delle sue due mogli, né la giapponese
minuta che aveva sposato nel ‘48, né la bionda stile Mansfield, arrivata di
fresco dal confine canadese, che si era portato a letto ed aveva sposato nel ‘50.
Bigamo.
Io avevo fotografie di entrambe, copie che mi aveva mandato e che ora io avevo
aggiunto al suo incartamento, ma che lui non aveva conservato.
C’erano anche un modellino di caccia P-38, sospeso in cima a un piedistallo di
fil di ferro, come un fenicottero su una zampa sola, ed uno zippo dell’USAF.
“E la vittima?”
Lo zippo funzionava.
Niente sigarette in vista.
Nessuna nelle tasche della giacca.
Nessun posacenere.
L’ispettore chiuse di scatto il taccuino. “Ancora nessun indizio conclusivo,”
disse. “Veniva da fuori, probabilmente. Benestante, da com’era vestita. Siamo
sicuri che fosse la prima volta che veniva qui, ma la mia conclusione è che si
fossero conosciuti da qualche parte, in precedenza, e frequentati.” Una pausa,
appena percettibile. “Non era il loro primo incontro.”
Avevo immaginato fosse una vicina.
Gli lanciai ciò che speravo venisse interpretato come un’occhiata interrogativa.
“Una ragazza di quell’età non va da sola nella casa di un uomo appena
incontrato.”
C’era qualcos’altro sotto.
Annuii. “Magari non era sola.”
Lui anche. “Magari.”
Era divertimento ciò che sentivo nella sua voce?
Mi accovacciai e toccai il tatami macchiato. Vidi un paio di ciabatte sotto al
tavolino, rendendomi conto che entrambi indossavamo ancora le scarpe. La
Legge non faceva concessione alla cortesia, evidentemente.
Mi guardai di nuovo attorno.
Mancava qualcosa.
Mi rimisi in piedi. Andai alla finestra.
Tornai alla porta.
Aprii l’armadio a muro.
Gli occhi del piedipiatti non mi mollavano, le rughe sulla sua fronte si facevano
più profonde.
“Che ora era?”
Un altro lieve segno di esitazione. “Le sei e trentacinque del mattino.”
Ora mi stava studiando apertamente.
“Aveva passato la notte qui?”
Silenzio.
“Non era nel rapporto.”
Fece una smorfia. “Ci sono questioni che sono,” esitò appena, “delicate.”
Grugnii. Non si poteva negare--un perdente di gaijin che imbottisce di piombo
una minorenne locale dopo essersela scopata a morte era un biglietto di sola
andata per l’inferno per entrambe le nostre amministrazioni.
Il risveglio degli incubi della guerra.
Addio serena e amichevole collaborazione.
Non c’era da sorprendersi che l’Air Force volesse spazzare il tutto sotto ad un
bel tappeto.
Possibilmente un tappeto tanto lontano.
Guardai di nuovo la macchia sul pavimento, e mi ricordai del nostro Capodanno
1944 sulla Gobba, con Pinky che strillava Auld Lang Syne al di sopra del
ringhio dei motori e dell’ululato del vento, e che poi chiedeva a Dawson di
rimpiazzarlo mentre andava a recuperare una bottiglia di spumantello
estremamente dubbio che un inglese gli aveva venduto al mercato nero.
Un bigamo a cui piacevano le ragazzine.
Il mio amico.
“Nient’altro che voi considerate delicato ed io dovrei sapere?”
“No.”
“Immagino abbiate raccolto e schedato tutto ciò che c’era di interessante .”
“Non siamo dilettanti.”
Il tono era tagliente. Non avevo idea delle pressioni alle quali fosse soggetto in
quel momento, ma non era difficile immaginarlo.
“Andiamocene da questo posto.”
La strada del ritorno era soffocata dal traffico, e rallentammo fino a strisciare.
Guardai fuori dal finestrino. Folla. Uomini in nero, signore con gonne simili a
meringhe, vecchie in kimono, ragazzini in uniforme.
Biciclette, qualche motoretta.
Rimasi sorpreso dal numero di donne giovani e sole per strada così tardi la sera.
“Ce n’è un sacco,” disse lui.
“Prego?”
L’ispettore mi stava leggendo la mente.
“Ragazze che arrivano dalla campagna,” spiegò. “Chiudere lo Yoshiwara non è
stata una soluzione.”
Yoshiwara. Avrei dovuto controllare.
Avevo un dizionario, in valigia, insieme con una copia del vecchio libro della
Benedict.
“Sta pensando alla ragazza?”
“Lei non ci stava pensando?”
In un gesto improvviso, abbatté la mano sul clacson ed emise un breve assolo di
tromba, senza alcun risultato. Mormorò qualcosa in giapponese, a denti stretti.
Si affacciò al finestrino, urlando una serie di frasi che, dal tono, erano molto
lontane dalla cortesia formale.
“Si,” disse, poi, “alla ragazza, ed alla moglie del suo connazionale.”
Evitai di chiedergli a quale delle due si riferisse. “Pensavo fosse una qualche
specie di... artista, qui, oppure a Yokohama.”
Temevo che la parola geisha suonasse in qualche modo offensiva.
Lui emise un grugnito.
Ci fermammo completamente. Lui fece spallucce, frustrato.
“Perché si trova qui? Il vero motivo.”
“Per scoprire cosa abbia tramutato un bonario cialtrone amante del divertimento
in un assassino di ragazzine. Era mio amico.”
Mi guardò in tralice. “Vedo.”
“E lei?” gli chiesi io.
“Sto facendo il mio dovere. Sono l’ufficiale a cui è stato affidato il caso.”
“Vedo.”
Dormii fino a tardi, il mattino successivo.
Sulla strada per l’obitorio, ci fermammo ed io passai pochi brevi ma intensi
minuti all’ambasciata.
La mia gente non amava rendere nota la propria presenza ai Nuovi Alleati,
specie se questi, come spesso accadeva, rientravano nella categoria dei Vecchi
Nemici, ma con le autorità americane eravamo tenuti a parlar chiaro.
Più o meno.
Un sergente USMC in uniforme da parata controllò le mia carte e mi indirizzò
con una voce dall’accento del sud ad un piccolo ufficio al secondo piano.
Il tipo che sedeva dietro alla scrivania lucida là dentro era proprio il tipico
modello di passacarte della Central Intelligence Agency, intento a coccolare il
proprio piccolo delirio di onnipotenza, seduto su un morbido cuscino di
autocompiacimento mentre elargiva al mondo il suo sorriso di celluloide.
Sentii ancora una volta una fitta di dolore per la scomparsa dell’OSS e dei suoi
più caserecci operativi.
Mi invitò a sedermi ed io rifiutai, solo per il gusto di contraddirlo.
“Era un po’ che non si sentiva parlare di voi,” disse, esaminando svogliatamente
le mie credenziali. Quelle autentiche. Ero venuto per cacciare nei suoi boschi e
lui chiaramente non ne era troppo contento.
Se avesse avuto un minimo di cervello si sarebbe limitato ad aver paura.
Spinse le carte verso di me. “Pensavo foste morti tutti dopo la guerra.”
Le raccolsi. “Quale?”
Chiaramente non sarebbe stato l’inizio di una meravigliosa amicizia.
“Quella roba dice che devo fornirle completa assistenza.”
Annuii.
“Siete a caccia di qualche scienziato pazzo nazista?” sogghignò.
Lo ignorai. “Dovrebbe esserci un pacchetto qui per me.”
“Ce ne sono due, in effetti,” replicò con un sorriso smagliante.
Ovviamente.
Pinky mi stava aspettando nello scantinato, dietro al cartello “Magazzino”,
chiuso in una cassa di pino foderata di zinco, i sigilli pronti per l’imbarco, in
attesa che il mio lavoro fosse finito per poter finalmente tornare ad una pretesa
di casa, ammesso che qualcuno fosse disposto ad accettare l’incombenza di
riconoscerlo come familiare. C’erano delle foto, di un uomo non più giovane,
privo di segni particolari ma con la calotta cranica esplosa. Aggiunsi anche
quelle all’incartamento e fissai la cassa per forse dieci secondi.
Uscendo ritirai la scatola che avevano lasciato per me.
L’aprii in una sala d’attesa deserta, selezionai un paio di articoli.
L’ultimo collega che se ne era servito vi aveva lasciato anche un quarto ancora
sigillato di Laphroaigh di provenienza discutibile, la bottiglia squadrata e piatta
sistemata sul fondo, sotto al passaporto australiano ed alla busta di traveller’s
cheques, ma io non avevo nulla per cui brindare, e non ancora abbastanza da
voler dimenticare.
Andai a restituire la scatola, in modo che la conservassero per me o per chi
fosse venuto dopo.
In attesa nella hall, l’uomo del CID si era liberato dell’impermeabile e del
cappello e sedeva in una delle poltrone imbottite, gambe distese, leggendo un
romanzo tascabile malandato.
“Divertente?” gli chiesi.
Alzò gli occhi, arrossendo, e si passò una mano fra i capelli a spazzola.
“Sto facendo pratica di Francese.” Si alzò, ancora sorridendo come una pecora,
e mi mostrò il volume, qualcosa di gallico su una ragazza con gli occhi verdi, di
Maurice Leblanc.
Fece scorrere le pagine ingiallite contro il pollice.
“Questo per me è un posto provvisorio,” spiegò, mentre uscivamo in strada.
Il Marine fece un cenno di saluto col capo mentre passavamo.
“Voglio fare domanda per una posizione come Ufficiale di Collegamento
Internazionale. INTERPOL. A Parigi,” sorrise di nuovo. “Quello è il posto che
fa per me, a dare la caccia a trafficanti internazionali d’arte e ladri di gioielli.”
E rise, forte, facendo sembrare tutto uno scherzo, e ricacciò il libro nella tasca
dell’impermeabile.
“Nel frattempo passo le mie ore libere in compagnia dei migliori: Simenon,
Leblanc, Vidoq.”
E rise di nuovo.
Il tipo del CID mi spiegò che maneggiare cadaveri non è considerato buono per
l’anima, in Giappone, e perciò il compito è riservato tradizionalmente ad una
classe speciale di persone che fanno solo cose che non sono buone per l’anima
di tutti gli altri.
Poveri disgraziati.
Maneggiare cadaveri non era buono per l’anima di nessuno, da dove venivo io.
Uno di questi tizi, basso e calvo, ci stava aspettando quando arrivammo, e ci
portò nella stanza refrigerata.
“Asokoni,” ci disse, indicando.
Da quella parte.
Il corpo era stato disposto su una lastra di pietra, coperto con un telo bianco,
con pezzi di ghiaccio dentro a sacchetti tutto attorno, una lampada a sommare la
propria luce alla poca che filtrava attraverso un lucernario.
Studiai le gibbosità e gli avvallamenti del lenzuolo.
La ragazza era chiaramente in pessimo stato.
Un condizionatore d’aria rantolava in distanza.
Un tanfo insopportabile gravava sul corpo disteso, un odore che non riuscii
immediatamente a collocare, ad associare alla morte. Era acre, come limoni
marci, e vagamente salmastro. Aveva un che di paludoso, un fondo di salamoia
che mi risultava naturalmente repellente.
L’ometto prese un angolo del telo fra indice e pollice e lo sollevò.
Il puzzo si fece più intenso.
Il mio accompagnatore emise un gemito strangolato, i suoi occhi sbarrati quanto
lo dovevano essere i miei.
Seguì una salva di giapponese staccato, tagliente, aggressivo e l’inserviente si
allontanò di corsa.
“E’ andato a cercare un medico. Certo un qualche genere di difetto
meccanico...”
Guardò più da vicino e si voltò di scatto, pallido, chiaramente nauseato.
Io ero pagato per continuare a guardare.
Il corpo stava precipitando in una sorta di estesa, pervasiva cancrena,
dissolvendosi lentamente ma senza pausa in uno spiacevole fluido giallo-
brunastro. Questo aveva impregnato il telo al di sotto del corpo, e si stava
raccogliendo in torpide pozze ceree al bordo del tavolo. In una di queste
galleggiava, capovolta, una singola unghia. Brani di muscoli rossi, le costole,
bianche e pulite come porcellana, alcune porzioni dell’epidermide erano ancora
intatte, ma ben poco del resto. Era come una statua di burro rancido e grumoso,
con una lucentezza spiacevole.
Un solo occhio, l’iride nera rivolta fissamente al soffitto, riposava su un
monticello di quella roba, circondato da un’incongrua, lussureggiante chioma di
capelli neri resi quasi blu dalle luci, l’unica cosa che il processo degenerativo
avesse lasciata intatta.
Arrivò il dottore. Diede un’occhiata e fu come se qualcuno lo avesse
schiaffeggiato con forza.
Si scatenò una discussione furiosa, lo staccato di sillabe del giapponese
riecheggiante fra le piastrelle delle pareti. Tutte le persone coinvolte evitavano
di volgere lo sguardo alla cosa sul tavolo.
Li lasciai discutere la faccenda ed andai fuori attraverso una porta laterale, in
cerca di una boccata d’aria.
Una breve scala fino al livello stradale, suoni di traffico.
Normale.
Ero arrivato tardi ancora una volta.
“Stanno per aprire ed esaminare il corpo.”
Il mio collega era nuovamente con me.
Mi resi conto che mi aveva seguito, ripetendo a mezza voce un qualche tipo di
preghiera buddista.
Ora si accese una sigaretta stropicciata malamente.
Utile per scacciare il fetore.
Tornammo dentro.
La morgue era antiquata e deprimente, piastrelle bianche e lampade nude a
formare uno schema in bianco e nero, un seminterrato ammuffito, l’aria pesante
per il puzzo di disinfettante industriale.
Il medico, sudato, il volto nascosto da una mascherina, l’assistente che spingeva
un carrello vicino al tavolo. Lo guardai scegliere un bisturi, verificarne il filo
sotto alla luce affilata della lampada, piegarsi in avanti lentamente per guardare
la cosa.
Abbassò la mano.
E la cosa gridò.
Il calare della notte nella terra del sol levante ci trovò in un ufficio saturo di
fumo, con un mare di caffè cattivo alle spalle, i rispettivi incartamenti aperti e
sparsi sul tavolo, a scervellarci in cerca di un indizio di qualsiasi genere.
Qualsiasi cosa di qualsiasi genere pur di non pensare alla cosa nel seminterrato.
Il medico si era inventato una qualche storia a proposito della pressione
residuale nei polmoni, possibilmente accresciuta dai gas rilasciati dalla
putrefazione accelerata, spinta attraverso la laringe dalla pressione esercitata sul
bisturi ed all’origine di ciò che l’uomo del CID al mio fianco tradusse come “un
forte gorgoglio”.
Stronzate, e lo sapevamo entrambi.
Il grido era stato acuto ed orribile, e lungo, interrotto solo quando l’assistente
aveva reciso la gola di quella cosa.
“Cosa succederà ora?”
Mi guardò, la cicca stropicciata una luce brillante fra le sue labbra serrate.
“Al cadavere, intendo?”
“Lo cremeranno,” disse.
Pareva la cosa più normale del mondo.
Smise di camminare avanti e indietro e si volse verso di me, sbattendo le mani
sul tavolo.
“Cosa sta succedendo?” mi chiese.
Cercai di mantenere un’espressione neutra. “Cosa intende?”
“Avanti, siamo professionisti. Questo non è un caso per l’intelligence della
vostra Aeronautica o che altro. Lo avevano buttato fuori. Il suo amico. Nel ‘52.
Per bigamia e, prima di quello,” i suoi occhi si ridussero a due fessure, “era
stato sospeso indefinitamente, prima, a mezza paga, io sospetto per il fatto di
aver sposato una mia connazionale. Succedeva di continuo, per quanto la
fraternizzazione fosse scoraggiata. E poi sono passati quasi dieci anni.
L’Aeronautica ormai non ha nulla a che fare con questa storia, e non ha voluto
averci niente a che fare per molti anni. O forse sbaglio? Cosa succede? Perché
questa collaborazione, quando i signori all’ambasciata ed al comando aereo
prima erano stati così restii a cooperare? Perché hanno mandato lei? A fare
cosa?”
Scossi la testa.
Ero stanco e spaventato.
Molto spaventato.
In questa città, forse in tutta quest’isola, stava succedendo qualcosa.
Qualcosa di orrido ed inaspettato.
Ma lui non aveva intenzione di farsi blandire. “Lei è andato da loro, e loro la
stavano aspettando,” disse.
Feci un’espressione stupida.
Rise. “Quelli che sostengono di essere venditori di macchinari agricoli, ma non
saprebbero distinguere il davanti di un maiale dal suo di dietro. All’ambasciata.
Cosa sono? CIA?”
No, solo degli sciocchi.
E dicevano di essere un’agenzia ‘a basso profilo’.
Allargai le mani. “Io sono solo un garzone di bottega...”
Gettò la cicca nel posacenere e sbatté di nuovo le mani sulla scrivania. Il
posacenere sobbalzò, le penne nel bicchiere portapenne tintinnarono, la pila di
documenti traballò disassandosi, fogli scivolarono e si sparsero turbinando sul
pavimento, un ampio ventaglio di pagine bianche e gialle.
“Non mi prenda in giro!”
Puntò un dito verso la porta. “Cos’è quella cosa nell’obitorio? Una specie di test
atomico che voi avete nuovamente fatto nel mio paese? O qualcosa che avete
testato in Corea, questa volta, ed ora sta venendo qui, allargandosi?”
“L’ha detto lei stesso... una specie di problema meccanico, un intoppo con la
refrigerazione...”
Sbuffò, raddrizzandosi.
Scuotendo il capo.
Indignazione.
“Lei pensa di avere a che fare con un idiota!” Si volse nuovamente, lo sguardo
da folle. “Io sono cresciuto qui in Giappone. A Tokyo. Non avevamo parenti in
campagna, la mia famiglia non poté lasciare la città. Mio padre era nella polizia
ma lavorava anche come capostazione. Ci addestravano a tirare con l’arco per
difenderci dagli invasori. Io ero qui. In questa città!”
Chiuse gli occhi, esalando un lungo sospiro.
“Ero in questa città il nove di marzo del 1945,” disse. “Ricorda?”
Io stavo giocando alla spia in India a quell’epoca.
Ma avevo amici fra quelli dei B-29.
Ricordavo.
“Ho visto più edifici distrutti e cadaveri da ragazzo di quanti lei ne abbia visti
da soldato. Ho visto quelli che erano stati uccisi dalle bombe, e poi in seguito
ho visto quelli che si erano tolti la vita dopo l’armistizio, per vergogna ed
umiliazione. Io ho visto gli hibakusha.”
Andò alla finestra. “Niente di quello che ho mai visto,” disse lentamente
“somigliava minimamente a quella cosa là sotto. Mai. La gente normale non si
decompone a quel modo. I cadaveri normali non gridano quando li tagli!”
Si voltò e rimase lì, in attesa di una risposta.
Era un brav’uomo, e l’unico che avessi a portata di mano.
Perciò gli diedi una risposta.
“Non so cosa stia succedendo.”
Non parve convinto.
“Davvero. La gente che mi ha mandato qui non ha fiducia negli osservatori che
possano covare dei pregiudizi. Mi hanno mandato senza informarmi di nulla,
affinché potessi valutare meglio la situazione. Senza preconcetti.”
Un solo cenno del capo. “Chi sono queste persone che l’hanno mandata? CIA?
FBI?”
“No, siamo... qualcos’altro. Con l’incarico di gestire... certe cose. Cose come
quella nell’obitorio. Come quelle con cui commerciavano i Nazisti.
Soderkommando H. In Slesia, e altrove. Abbiamo affrontato questo genere di
cose per... per parecchio tempo.”
Non sembrò troppo sorpreso alla rivelazione.
Puntò di nuovo il dito verso la porta. “E’ opera vostra?”
“No, non lo è.”
Speravo.
“Allora cos’è?”
“Non lo so. Sono qui per scoprirlo.”
“E quando l’avrà scoperto?”
Raddrizzai le spalle, sentendo un dolore fra le scapole.
“Me ne occuperò.”
“Come?”
Posai la mia Browning nove millimetri sul tavolo.
Era pulita, nuova, senza numeri di serie.
“In questo modo.”
La fissò. “Non le era permesso portare quell’arma nel mio paese.”
“Non l’ho portata. Era qui ad aspettarmi quando sono arrivato. E allora? Intende
arrestarmi?”
Sogghignò senza allegria e si lasciò cadere sulla poltrona, braccia conserte.
“Cappa e spada, nah? Ed io ora cosa dovrei fare?”
Mi limitai a fare spallucce.
Era tardi ed ero stanco.
“Sa cosa?” disse dopo un minuto di silenzio, “Voglio vedere il fondo di questa
faccenda anche se fosse anche l’ultima cosa che vedo.”
“Potrebbe esserlo.”
Serio. “Sta cercando di spaventarmi?”
“Per voi il caso è chiuso, giusto?”
“Fin dall’inizio non è mai stato un caso. Un semplice omicidio-suicidio,
sarebbe morto in uno schedario dopo quarantotto ore. Ma c’era coinvolto un
gaijin, e questo o quel politico voleva che si facesse qualcosa di ufficiale.”
Accese un’altra sigaretta. “Questi suoi padroni,” disse. “Hanno contatti politici
in questo paese? Al Ministero della Sanità, magari?”
Imparava in fretta.
“Non ne sarei sorpreso.”
“Allora forse era solo necessario che io corressi qua e là mentre voi vi
preparavate per subentrare,” fece un gesto, “Ah, e occuparvene, esatto?”
“Non ne sarei sorpreso,” ripetei.
“E cosa mi impedirebbe a questo punto,” domandò teatralmente, “di darle una
mano ad occuparsene?”
Sfilò una grossa 45 dalla fondina ascellare e la piazzò sul tavolo.
Mi sorprese scoprire che portava un’arma.
Ci osservammo per qualche tempo, come giocatori di poker in un film western.
I rumori della strada ci arrivavano attraverso la finestra aperta.
“Niente,” gli dissi alla fine.
I nuovi ragazzi del bebop nella struttura chiamavano quelli come lui “contatti
amichevoli.”
Utili e sacrificabili.
L’ispettore schiacciò la cicca nel posacenere affollato.
“Bene. Ripuliamo questo casino e chiudiamo i lavori per la giornata, ok?”
Si chinò per raccogliere i fogli sul pavimento.
“Domattina ricominceremo da capo più freschi e ... ehi!”
Quando tornò a raddrizzarsi stringeva una fotografia.
Era la foto della festa di nozze che avevo portato da casa--il flash dell’ignoto
fotografo aveva colto Pinkerton con un’espressione impacciata nella sua
uniforme blu, la donna in kimono rosso con un motivo ricamato, il suo viso
poco più che un ovale candido nell’inquadratura incerta, altra gente appena
visibile sullo sfondo.
“Questo è lo stesso fottuto kimono!”
Era proprio lo stesso fottuto kimono.
Era macchiato di sangue e strappato, ma il motivo era evidentemente lo stesso,
silhouette simili a piccole farfalle, nero, oro ed argento sulla superficie rosso
brillante del tessuto.
Era leggero, ancora morbido dove il sangue non lo aveva impregnato, ed
odorava debolmente di qualcosa che non riuscii a collocare con precisione.
Incenso.
O erbe di qualche genere.
Con un fondo di bruciato.
Il disegno aveva uno sviluppo complesso, come se le singole farfalline che
volavano attraverso la superficie dell’indumento fossero infatti piccole tessere
di un’immagine ancora più complessa, ma il danno era troppo esteso perché
potessi dirlo con sicurezza.
Lo stesso fottuto vestito.
O no?
Il mio consigliere locale ne era certo.
“Osservi la tessitura, l’evidente qualità della manifattura.”
Quello era facile a vedersi. “Roba di prima classe?”
Grugnì.
“Etichette del sarto, del negozio? ”
Fece una spallucciata. “Questo è chiaramente un kimono di Nishijin. Li fanno a
Kyoto, a sud. Un oggetto molto pregiato, tecnica di manifattura speciale, una
specie di segreto del mestiere, utilizzando fili d’argento e d’oro per il ricamo.”
Le sue dita danzarono brevemente sui resti, ricavando un lieve suono
sussurrante mentre si rigirava il tessuto fra le mani più e più volte.
“Costoso, prima classe superiore. Fatti su ordinazione, vengono normalmente
venduti solo ad una clientela selezionata, e vengono indossati solo in occasioni
particolari--come fidanzamenti della classe superiore, matrimoni. Anche
funerali.”
“Molto appropriato.”
“Esatto. Le avevo detto che si presumeva la vittima fosse di buona famiglia.
Ora sa per quale motivo. Ed ora sappiamo anche da che famiglia veniva.”
Tamburellò col dito sulla mia foto. “Dalla famiglia di questa donna. E’
probabile che sia lo stesso kimono. Letteralmente.”
Provai un capogiro.
Perciò Pinky aveva ucciso una parente.
O più probabilmente aveva scopato ed ucciso una parente.
Lo aveva saputo?
Roba per gli psichiatri.
Ma era evidente dove lui volesse arrivare. “Ora siamo in grado di risalire al
luogo di provenienza della ragazza. Ci basta controllare il certificato di
matrimonio del vostro uomo, e vedere da dove arrivava la giovane signora.”
Lui annuì, gli occhi ancora sulla foto.
“Lo indossa a rovescio,” mormorò.
Non vedevo nulla di strano nella foto. “In che senso?” gli chiesi.
Incrociò le braccia sul petto un paio di volte. “Il lembo destro sopra al sinistro.”
“E allora?”
“E’ strano,” disse, continuando a guardare la foto. “Brutto.”
Rimasi in attesa.
Fece una smorfia. “Solo i morti lo portano a quel modo.”
Ci facemmo portare da mangiare e ricominciammo a passare al vaglio le carte.
Richiedemmo anche i giornali dell’epoca, per verificare se qualcosa a riguardo
fosse stato pubblicato da qualche parte.
Nulla.
Niente certificato di nozze, niente documenti accessori.
Tutte le carte relative erano state trasferite in una specie di limbo burocratico,
sospeso da qualche parte fra l’Aeronautica degli Stati Uniti ed il Governo
Giapponese, un luogo dal quale non c’era speranza di recuperarli.
L’uomo del CID fece un po’ di chiamate, talvolta inchinandosi al telefono più
volte mentre parlava, altre volte assumendo toni aggressivi, o compiacenti.
Niente.
Esaurite le nostre opzioni, provammo nell’incertezza a chiamare i produttori di
seta dell’area di Kyoto, sperando in qualcosa di diverso dalle cortesi risposte
negative che ci diedero tutti.
Presto esaurimmo ogni altra labile opzione.
“Aveva un figlio. Un maschio.”
Ripescai le carte relative.
C’era poco riguardo a quella storia. “Morto alla fine del ‘51. Polmonite.”
“L’uomo era in America in quel momento, giusto?”
Giusto.
Pinky era stato a casa, a godere delle gioie del matrimonio con la sua pinup
bionda.
Non aveva mai incontrato il proprio unico figlio.
Date, numeri, qualche relitto in forma di fotografia sbiadita o qualche brano di
documento ufficiale.
Uno spaccato di vita.
Ricominciai ancora una volta a scartabellare, mentre il mio socio guardava
senza vedere fuori dalla finestra ed oltre.
Primavera 1948, e Pinky sposa la sua geisha.
Niente nome o altri dettagli della donna, le carte perdute da qualche parte nel
caos del Giappone del dopoguerra.
La notizia mi era arrivata come una sorpresa.
Non era così che faceva il mio amico, non con una cerimonia così affrettata.
L’unica foto disponibile è scura, lui è troppo serio nella sua uniforme, lei porta
quel dannato kimono rosso, la faccia un pallido ovale con delle chiazze scure
sotto ad una acconciatura complicata, la gente attorno a loro sagome scure nella
luce del flash, inginocchiati su un lucido pavimento di legno.
Inverno 1949, Pinky è a casa ed è tutta una festa da ballo.
E’ il giovane guerriero restituito ai suoi cari. Un’istantanea, mio personale
contributo all’incartamento, lo coglie mentre danza qualcosa di veloce ed
allegro con una bionda pettoruta, e se la gode un mondo. Il resto degli astanti
che roteano attorno a loro sono sagome sfocate e confuse; una delle luci sul
soffitto è riflessa da una tromba appena visibile sullo sfondo, l’alone brillante
orlato di nero a causa di un effetto ottico.
Si chiamava Dorothy, come ne “Il Mago di Oz”.
La sua strada di mattoni dorati sarebbe giunta ad una rapida interruzione da lì a
pochi mesi.
Come quei cartelli che mettono sulle vecchie strade di campagna--Fine
Carreggiata.
Altri relitti.
Un certificato di matrimonio, da qualche parte sulla strada per Vegas, carta da
poco compilata alla svelta con scarabocchi di penna a sfera, la firma del
testimone illeggibile, forse quella del prete stesso, forse quella di un accessorio
nuziale professionista.
Matrimonio e luna di miele in un unico comodo pacchetto.
E mentre Pinky si sposa la sua bionda pettoruta il Febbraio 1950 arriva
strisciando, e mancano solo due mesi alla nascita del suo unico figlio. Il
documento giapponese mi risulta indecifrabile, inutile al mio compagno. Niente
foto di nessuno dei due eventi, matrimonio e nascita persi nel crescente
labirinto nel quale la vita di Pinky si sta trasformando.
Sapeva di avere un figlio in arrivo?
Il viaggio a casa era forse la fuga di un uomo dalle sue crescenti responsabilità?
Com’era possibile che nessuno sapesse nulla del suo matrimonio in Giappone?
Ma poi arriva il 1951 e tutto cambia.
Mentre il suo figlioletto giace fra la vita e la morte, la sua moglie giapponese
chiede all’Aeronautica di rintracciare il suo coniuge scomparso. Rapporti
medici, un certo numero di telegrammi, qualche lettera su carta intestata
ufficiale, qualcuna no.
E viene fuori tutto quanto.
Pinky punta verso casa ma le cose si fanno frenetiche. Il ragazzino muore, la
donna giapponese si taglia la gola, e nessuno dei due eventi viene testimoniato
da una sola riga sui documenti ufficiali.
Ma il mio socio giapponese ha una parola per il suicidio.
Lo chiama funshi.
Il suicidio di chi è indignato.
Strana gente, i giapponesi.
Perché ci mise tanto a tornare indietro?
Perché non lo processarono per bigamia?
L’Aeronautica preferì passare tutto sotto silenzio?
Poi, attraverso un pedestre rapporto di sceriffo, la bionda pettoruta Dorothy
prende la via della fuga mentre Pinky è in Giappone , e poi si taglia i polsi nella
vasca da bagno di una stanza di motel, non troppo lontano dal confine canadese,
usando una bottiglia di gin spaccata.
Noi non abbiamo un nome apposta per certe cose.
Solo una reazione alla perdita, alla vergogna, o alla disperazione.
Stando al rapporto del coroner, la donna aveva appena subito un rapido e
piuttosto brutale aborto procurato in qualche clinica nascosta in qualche
scantinato da qualche parte.
Un altro figlio morto.
La simmetria è spaventosa.
Arriva il 1952 e lo Zio Sam restituisce il Giappone ai legittimi proprietari,
almeno sulla carta.
Pinky è tutto solo in un paese straniero.
Tutti i funerali finiti, tutti i cadaveri sepolti.
Poi il limbo.
Passeggiate nel parco, forse.
Forse una casuale frequentazione del Mercato dell’Acqua.
Piacevano ancora i film, al mio amico?
Solo.
Niente amici.
Niente famiglia.
Niente di niente.
Fino a quattro colpi di pistola contro una ragazzina i forse quindici anni,
probabilmente una parente di qualche genere, dopo una notte d’amore.
Amore?
Sollevai lo sguardo dalla foto delle nozze.
Mi doleva la testa, dietro.
Nessuna speranza di ricavare alcun dettaglio utile.
Pinky sembrava l’unica persona reale nella foto, serio fin quasi ad essere truce,
tutti gli altri solo manichini accosciati sul pavimento nei loro abiti tradizionali
scuri.
Matrimonio buddista?
Shinto?
Qualcosa di completamente diverso?
Di sicuro il fotografo doveva essersene già bevuti parecchi, a giudicare da
quant’era mossa l’immagine, la foschia della sfocatura una prova della mano
malferma.
Girai la foto.
Non c’erano segni o scritte sulla carta.
Ma c’era una possibilità.
“Pensa che questa possa essere stata scattata da un fotografo dell’Aeronautica?”
domandai.
Perché c’era stato un tempo in cui le migliori macchine fotografiche in
Giappone erano dello Zio Sam.
E lo Zio Sam ha la memoria molto lunga.
Ci vollero tre giorni per rintracciare il posto in cui era stata fatta la foto.
Il tipo che aveva fotografato le nozze di Pinky si era ritirato nel ‘52, aveva
sposato una interprete civile nisei che aveva incontrato ad Osaka e
successivamente si erano trasferiti ad Hong Kong, dove lui faceva un po’ di
lavoro per le riviste del posto ed un po’ di freelancing.
Il nome era Dzulinsky.
Sergente William T. Dzulinsky, USAF, cong., un ragazzo di Chicago con il
bernoccolo della fotografia.
Non più molto ragazzo, forse, ma il bernoccolo gli era rimasto.
Al telefono era come una piovra umida e impazzita, e sfuggiva in quindici
diverse direzioni mentre al contempo cercava di far presa su qualunque pezzetto
d’informazione che io mi lasciassi scappare.
Lavorava per una rivista, mi disse, come se quella fosse una ragione bastante
per cercare di spremermi nella speranza di uno scoop.
Che rivista?
Una rivista. Non volle elaborare ulteriormente.
Un basso suono raschiante ci tenne compagnia sulla connessione internazionale,
come onde che ruggissero in profonde caverne.
Mi attenni alla mia storia. Pinky morto d’infarto, nessun famigliare
sopravvissuto a casa, lo Zio Sam disposto a scucire qualche dollaro ai parenti
giapponesi ancora in circolazione, come forma di pensione, col fatto che lui era
un eroe di guerra, e tutto quel genere di cose.
Non abboccò, non completamente per lo meno, non era stupido, ma mi diede un
paio di informazioni comunque.
Fu vago.
Il nome della ragazza? Tomiko qualcosa. Ragazza timida. Molto per bene.
Non proprio lo standard, per Pinky.
Era da un po’ che si frequentavano, all’epoca.
Il posto del matrimonio? Da qualche parte a sud est. Un posticino piccolo ed
accogliente. Nell’area di Boso.
Yourou-qualcosa.
“Piuttosto fuori mano,” disse.
Ma ricordava di essere passato per Goi, per andarci.
Conosceva una ragazza a Goi.
Un paio.
Si erano fermati per dei drink.
Parecchi drink.
Disse chiaro e tondo che sia lui che Pinky erano piuttosto sotto spirito quando
erano arrivati sul posto.
Le sue ultime parole rimasero nelle mie orecchie a lungo dopo che la
connessione venne interrotta.
“Era tutto una specie di scherzo, sa?”
Uno scherzo.
Nel momento in cui la foto era stata scattata, il Caporale Dzulinsky era
probabilmente l’unica persona che ancora pensasse a tutta la faccenda come ad
uno scherzo.
La serietà dell’espressione di Pinky mi colpì ancora una volta.
Era appena tornato sobrio, rendendosi conto del casino in cui si stava
cacciando?
L’espressione truce, la mascella serata, erano forse un segno della sua mente
che cercava furiosamente di trovare una via d’uscita in extremis?
Non si poteva che ammirare il modo in cui questa gente faceva le cose.
Una telefonata e tre autopattuglie con agenti in uniforme e due camionate di
poliziotti in tenuta da sommossa correvano sulla strada per Chiba, in tre ore
esatte.
Il piano era di raggiungere Goi--dall’altra parte della baia rispetto a Tokyo-- e
poi risalire il corso del fiume Yourou fino al posto chiamato Youroumachi.
Un nome originale.
Avevamo dovuto far ricorso ad una mappa di prima della guerra per localizzare
quel maledetto posto, perché non risultava sui rilevamenti più recenti, né quelli
fatti da loro né quelli fatti da noi.
E stando alle vecchie mappe c’era proprio un tempio, laggiù, di proprietà della
locale famiglia di maggiorenti.
Niente nomi, niente registri, niente dettagli.
Era sempre stato lì.
Un grigio Buddha di pietra stava in piedi vicino al fosso, le dita delle mani del
rosario andate, la testa ad uovo inclinata ad un angolo spiacevole.
Mi ricordava un impiccato.
La nostra auto si fermò sul vialetto che conduceva al tempio ed il mio socio ed
io scendemmo. Alberi spogli stiracchiavano i rami sopra di noi, il villaggio
deserto ormai solo una memoria due miglia alle nostre spalle, perduto al
termine di una strada sterrata serpeggiante.
Mormorando qualcosa, il poliziotto giapponese raddrizzò la testa di pietra e
chinò la propria, sussurrando rapidamente una preghiera.
“Non ci si può fidare di gente che non rispetta le tradizioni,” mi disse.
Potevo capirlo.
“Qual’è il piano?” gli domandai.
“Andiamo a rendere omaggio al signore della casa,” disse. Si tirò su il colletto
dell’impermeabile, colto da un brivido improvviso.
“Diamo un’occhiata in giro, ci facciamo un’idea del posto.”
Cominciò a camminare lentamente oltre il tempio, in direzione della casa.
“E poi?”
“Pretendiamo delle spiegazioni.”
Pittoresco.
“E se il gentiluomo dovesse rifiutarsi?”
“Allora chiamiamo gli agenti e cominciamo a rivoltare il posto.”
Si fermò, si volse. “A fondo.”
Ma il posto era morto.
Il villaggio era un cumulo di macerie.
Il tempio era un’inutile pila di legno annerito, strisce di carta gialla appese a
corde davanti all’ingresso.
Il mio compagno non riuscì a decifrare l’iscrizione sull’architrave.
La casa era in condizioni appena più decenti, ma comunque un relitto.
Passammo attraverso il cancello cadente ed entrammo nel giardino
inselvatichito, pietre piatte a segnare un incerto cammino verso l’ingresso.
La mia guida scosse la testa, addolorato alla vista.
“Una casa così grande,” disse.
Il posto era enorme, uno di quegli affari giapponesi montati su corti trampoli ed
esteso quanto un campo da calcio.
Gran parte dei muri e del tetto erano ancora al loro posto, ma le porte scorrevoli
erano andate da tempo, buchi neri che ci fissavano spalancati.
“Immagino potremmo chiamare i ragazzi e cominciare la nostra ricerca,” dissi.
Ma dubitavo che avremmo trovato qualcosa di consistente.
Un altro vicolo cieco.
Sembrava che il mondo fosse sempre ad un paio di passi indietro quando si
trattava di chiudere la triste ballata di Pinkerton.
Il mio compagno annuì distrattamente e tornò verso la macchina.
Avevamo lasciato la truppa a due curve della strada di distanza, dando loro il
tempo di smontare dai camion e di prepararsi alle danze.
Salii alcuni gradini scricchiolanti e guardai nell’edificio attraverso quella che
era stata, immaginai, la porta principale.
Ebbi l’impressione di sentire una campanella che tintinnava nella brezza da
qualche parte.
Altrimenti, il posto era silenzioso.
Entrai.
Un po’ di luce entrava dai buchi nel tetto sfondato, raggi di sole pomeridiano
che piovevano dall’alto, rendendo le tenebre ancora più scure per contrasto.
Niente mobilio in vista.
Un odore dolce, spiacevole nell’aria.
E qualcos’altro.
Un suono come di strisciamento, come un grattare sul pavimento, che veniva
dall’interno.
Come carta stropicciata.
Come una grossa cicala.
Sfoderai la pistola ed entrai più all’interno.
Deboli passi ticchettanti--come di un cane randagio che ispezionasse la casa e
raspasse il pavimento per arrivare ad una tana di topo.
Ancora stanze vuote.
Ragnatele pendenti dalle pareti come tende di seta a brandelli.
Il suono, ora più forte.
Più vicino.
Il pavimento scricchiolò in modo spiacevole mentre entravo in un ampio spazio
completamente buio.
“E’ stato gentile da parte tua...”
Mi voltai sulla sinistra, arma pronta, il dito che si stringeva sul grilletto, il muso
della pistola a non più di una spanna dalla faccia del mio amico.
Pinkerton.
“Venirmi a trovare,” concluse. Sorrise, ignorando la pistola, e si voltò,
scomparendo nelle tenebre. Andato.
“Fermo!”
Passi. Un cerino sfregato nell’ombra, una lampada accesa.
Pinky scosse la testa.
“Non dovresti essere così nervoso,” disse.
Alla luce della lampada indossava un abito grigio, di qualità mediocre, che
qualcuno doveva aver modificato affinché meglio si adattasse alla sua forma
sparuta. Nel buio era difficile vedere i suoi piedi.
Non era troppo diverso dal mio compagno di volo.
Un po’ più vecchio, l’attaccatura dei capelli un po’ arretrata. Il viso pallido nella
luce tremolante.
“Mi spiace di non poterti invitare a sederti,” disse.
Si spostò di lato, allontanandosi dalla luce.
Qualcosa si mosse fuori dalla stanza.
“I nippo non ce le hanno le sedie, sai. Una sfortuna.”
Avevo altro a cui pensare. Guardai a destra ed a sinistra, senza voltare il capo,
in cerca di una via di fuga.
“Terrai quell’affare puntato contro la mia faccia ancora a lungo?”
Nessuna via d’uscita, solo oscurità. “Sei morto.”
“Questo non è molto gentile da dire, sai.”
Allargò le braccia, debolmente, in un gesto di sconfitta.
“Ho visto la tua bara,” proseguii.
E delle foto, ed il rapporto di un coroner.
Dove diavolo erano gli sbirri?
“Io non ero là dentro,” sorrise lui di nuovo. “Evidentemente.”
Passò un lungo minuto.
Abbassai l’arma.
Diamogli corda.
Prendiamo tempo.
Il terrore cercava di togliermi il respiro.
Il terrore e a polvere.
“Così va meglio,” annuì lui.
“Sarà meglio che tu abbia delle spiegazioni di prima classe, mister, e sarà
meglio che tu cominci a darmele alla svelta.”
La mia gente vuole delle risposte. Ma non glie lo dissi.
Ridacchiò.
“Si. Anch’io sono felice che tu stia bene.”
Abbassò la testa, grattandosi la sommità come ricordavo di avergli visto fare un
milione di volte durante le nostre infinite partite a carte, col vento che ululava
sulla pista di volo.
“Un bel pavimento, eh?” mi chiese.
Si accovacciò, tamburellando sul parquet con l’indice.
“Una stanza da diciotto tatami,” disse. “E’ un sacco di spazio da queste parti,
sai.”
Si rimise in piedi.
Mi aspettavo quasi che si sfregasse le mani per liberarle dalla polvere, e che poi
facesse lo stesso col ginocchio sinistro, ma non lo fece, le braccia abbandonate
lungo i fianchi.
“I tatami sono disposti in uno schema a spirale,” spiegò, facendo un paio di
passi a sinistra. “Le spirali sono estremamente comuni in una quantità di
diverse culture, sai?”
Era vicino ad una parete. Sollevò la destra e lentamente, attentamente tracciò
una spirale tremolante nella polvere che la ricopriva.
“Un segno che rappresenta l’evoluzione.”
“Cosa diavolo sta succedendo in questo posto, amico?”
“Ma in realtà si tratta di qualcosa che gira senza fine per restare nello stesso
posto. Come una trottola.”
Mi guardò, poi tornò a volgersi verso il muro.
Avrei dovuto impiombarlo subito e fare le domande dopo, ma ero stato mandato
qui per avere delle risposte.
“Non se ne può sfuggire, sai,” disse, seguendo col dito la spirale che aveva
tracciato, lentamente, senza staccare gli occhi.
Arretrai leggermente. Le mie spalle colpirono una parete sottile dietro di me, o
forse una porta scorrevole. Cedette un poco, poi si fermò.
“Non ti lasceranno mai andare, prova finché ti pare. Io ci ho provato, sai,”
proseguì Pinky, gli occhi bassi, fissi sul pavimento, “ma non puoi scappare alla
tua famiglia.”
Ridacchiò ancora.
Io non gli toglievo gli occhi di dosso, misuravo la distanza, cercavo bersagli
sicuri.
Il pavimento scricchiolò debolmente. Una figura in kimono emerse dalle
tenebre oltre il raggio della lampada. Era bassa, curva e coi capelli neri, con una
faccia impossibile da distinguere, un disco bianco di cipria gessosa.
S’inchinò, sussurrò qualcosa, si volse verso di me quando lui fece un gesto
svogliato.
Ebbi l’impressione di uno sguardo, localizzato da due ovali scuri sotto alla
frangia nera della sua acconciatura, focalizzato in un punto da qualche parte
sopra la mia testa mentre sussurrava quello che decisi dovesse essere un saluto.
“Il té ti va bene, vecchio mio?” gracchiò lui. Si schiarì rumorosamente la gola
mentre io facevo un cenno di assenso.
La donna si ritirò e vene nuovamente inghiottita dall’oscurità.
“I giapponesi lo sanno, sai. La famiglia è per loro importante quanto lo era per
noi un tempo. Loro parlano di Amae.”
La risatella si tramutò in una risataccia spezzata.
Il rumore cartaceo era vicino, dietro di me.
“Tutto questo è stato solo un modo per tornare a casa!”
Si volse verso di me, la spirale ormai dimenticata.
“Fecero un patto, capisci? Omiai, capisci? Il vecchio nella sua casa di Telegraph
Hill accettò la chiamata dei suoi amici antipodei ed io potei viaggiare verso
oriente. Ero divenuto oggetto di trattative.”
La risata divenne un singulto, un rigurgito.
Il suo tono era improvvisamente rotto, si fece più vicino di due, tre passi, si
fermò, sospirò.
“Nuovo sangue per la vecchia dinastia. Omiai. Un matrimonio preordinato,”
parlando balbettava, la bocca rifiutava di dar forma ai suoi pensieri storti.
“Ed io avevo pensato. Sciocco, immaginare di poterli eludere.”
Rise di nuovo. “Mentre questa era sempre stata la mia destinazione.”
Il tempo stava per finire.
Il palmo della mia destra era sudato attorno alla gomma nera del calcio.
Il muro alle mie spalle parve muoversi leggermente, come sotto la spinta di una
brezza discontinua.
“Ora mi dispiace per la povera Dotty,” sospirò, di nuovo apparentemente sotto
controllo.
Dotty.
Dorothy, la sua moglie bionda.
“Dì a tutti che sono dispiaciuto per lei. Quando seppe della cosa. Dentro di
lei...”
Qualcosa gridò da qualche parte.
“Che cresceva.”
Rimasi paralizzato per un istante ma la mia mente continuava a correre.
Gli sbirri.
Stavano arrivando.
Domande.
“La ragazza...?”
Mi guardò per un istante, perso. Poi annuì.
“Volevano una seconda nidiata, capisci? La prima era difettosa.”
Il muro alle mie spalle tremava.
“E loro mi rimandarono Tomiko, di nuovo, per farsi impregnare. Loro... Esso
me la mandò più giovane questa volta.” Rise, una risata infantile. “Conosceva
meglio i miei gusti. I suoi.”
Un colpo di pistola.
Un altro.
“Ma io. Lui. Ci rifiutammo.”
Sembrava confuso, si fece più vicino.
Il pavimento tremava.
Pinky annuì. “I tuoi amici hanno trovato l’alveare principale,” mi disse.
Mi afferrò la destra, sollevandola di forza.
“Ora fai il tuo dovere,” disse appoggiando la fronte alla bocca della pistola.
“Tira il fottuto grilletto e libera il tuo vecchio amico dalla sua gabbia almeno
per qualche momento.”
La sua mano sul mio polso era fredda, morbida, umida, sottilmente oscena.
Una singola lacrima, giallastra oleosa e fetida gli scivolò sulla guancia.
E mentre io lo fissavo una terza mano scese dall’alto e serrò i propri lunghi
artigli sottili sull’arma, tirando con forza.
Alzai gli occhi.
C’era un viso capovolto di donna che mi fissava, gli occhi completamente gialli
che colavano lacrime cremisi ed una grande bocca ghignante zeppa di una fitta
foresta di denti simili a spilli, ma lunghi una spanna, lunghe ciocche di capelli
che le cadevano attorno al viso bianco.
La cosa si sporgeva avanti per guardarmi mentre io cercavo di strappare la mia
arma dalla presa di una mano che pareva e sembrava al tatto la radice appena
divelta di un albero molto vecchio.
Cominciai a gridare, senza riuscire a sentire la mia voce.
Una parete crollò in una nube di macerie, e degli uomini in uniformi
impolverate si precipitarono a passo di carica nella stanza, illuminando la scena
con le torce, una testuggine ispida di magli, accette e manganelli. Alcuni
portavano degli scudi squadrati.
C’erano ancora grida in sottofondo, e l’odore della benzina e della paura
invasero le mie narici.
Era una forma vestita di seta, schiacciata a terra sotto agli scarponi dei
poliziotti?
Il volto che mi sovrastava si raddrizzò, con un ruggito, ed esplose all’impatto di
un singolo colpo di pistola in mezzo a quegli occhi alieni.
“Si muova, idiota!”
Tentai di correre via ma Pinky mi tratteneva.
I suoi lineamenti si stavano sciogliendo in una cascata di poltiglia giallastra.
La sua bocca bofonchiò qualcosa, riempiendosi di denti affilati.
Gli sparai.
Una due tre volte, nel pieno di ciò che restava della sua faccia, ed al petto.
Le pallottole entrarono in lui con un suono umido e lui parve non badarci.
Allora io sparai ancora ed ancora.
L’uomo del CID mi afferrò e mi trascinò via che ancora premevo inutilmente il
grilletto.
Ebbi l’impressione di un corpo femminile decapitato che si allungava in una
forma serpentina, di un ampio addome che si espandeva in segmenti simili alle
elitre di un coleottero, di un numero di spire che si dibattevano scomparendo
nelle tenebre dell’edificio ormai in fiamme.
Poi i poliziotti sopraffecero la creatura con le mazze e le accette e cominciarono
a versare ancora benzina sui tatami.
La luce mi investì come un pugno chiuso, l’aria fresca parve soffocarmi e mi
trovai fuori.
Rotolai nell’erba e respirai e tossii per alcuni secondi.
Piedi in corsa intorno a me mentre i ragazzi in uniforme nera abbandonavano
l’edificio.
Mi voltai.
C’erano fumo, legno e benzina nell’aria.
E grida acute, insistenti e terrorizzate, come se qualcuno stesse soffocando una
lettiera di maialini.
L’ispettore giapponese si accosciò al mio fianco, ancora stringendo la propria
arma.
“Tutto bene?”
Io annuii, tossendo.
Rimasi seduto a terra, a guardare la casa che andava a fuoco.
Le fiamme ruggivano attorno ai pilastri di sostegno ed attraverso le porte
spalancate.
Il tetto scricchiolava, insaccandosi lentamente.
Una figura infuocata emerse dalla casa, agitando delle appendici fiammeggianti
che avrebbero potuto essere braccia.
Gridava bestemmie in Inglese e Giapponese ed in qualcosa che sembrava Urdu,
ed agitava i propri pugni deformi verso il cielo, rilasciando con ogni gesto
sbuffi di fumo nero ed oleoso.
Mi chiesi quanto del mio amico fosse intrappolato in quella cosa.
Una mano mi offrì silenziosamente una pistola.
Lasciai cadere la mia, scarica, sollevai la .45 con poca dimestichezza e piantai
sette pallottole nel manichino infuocato, spingendolo nuovamente nella sua
tomba di braci col resto della famiglia.
Poi il tetto finalmente crollò.
Sbuffi di fumo nero e denso si alzarono verso il cielo come un ultimo sospiro.
Fine della partita.
“Checcazzo era quell’affare?”
Gli restituii la pistola. Lui fece spallucce.
“Qui è lei il cowboy, mister.”
Ci guardammo negli occhi per un lungo secondo.
“E’ lei a conoscere i nomi di quelle cose,” disse, rinfoderando il pezzo. “Io mi
limito ad ammazzarle.”
Oltre la parete di vetro uomini in tuta grigia e guanti bianchi stavano caricando
la bara di Pinky nella stiva del volo PanAm.
Riflessa nel vetro, Haneda era affollata come sempre.
L’uomo del CID mi accompagnò al cancello ed allontanò con un gesto il
poliziotto in uniforme che portava la mia valigia.
“Darà seguito personalmente a questa faccenda, una volta a casa?” mi
domandò.
“Probabilmente,” annuii.
“Alla fine era un matrimonio combinato. Omiai,” annuì a sua volta.
Altre rovine da esplorare, altre case da bruciare.
Spinse le mani a fondo nelle tasche dell’impermeabile.
“Lei farà la stessa cosa qui.”
Lui scosse la testa. “I miei superiori non credono saggio esporre due volte gli
stessi uomini.”
Tirò fuori una busta e me la mostrò.
“Il mio incarico con l’INTERPOL è arrivato ieri.”
“Parte per la Ville Lumiere?”
“Così sembra. Mansione più tranquilla, paga migliore, posti eleganti,” sollevò il
mignolo della sinistra. “Donne, anche.”
Esplose in quella sua strana risata a bocca aperta, ed io provai all’improvviso
pietà per qui poveri ladri che avrebbero dovuto vedersela con lui.
“Ho una cosa per lei,” disse.
Tirò fuori un rotolo di carta e me lo diede, con un mezzo inchino. “Un regalo di
buon viaggio. In amicizia.”
Era un dipinto.
Uno strano disegno di una lucertola di un verde molto scuro, quasi nera,
sistemata su una pietra vicino ad una pozza d’acqua, all’ombra di poche foglie
stilizzate.
Vecchio.
Antico.
Aveva un che di estivo, di caldo e pacifico.
C’erano degli ideogrammi angolosi tracciati su un lato.
“Per buona fortuna,” aggiunse.
Arrotolai il dipinto e lo misi nella mia borsa.
Era tempo di stringersi la mano.
Immaginai ci fossero un sacco di cose che non ci eravamo detti, ma questo era
il nostro lavoro, o lo era stato per un po’.
Si inchinò rigidamente.
Io lo salutai alzando una mano.
E non ci vedemmo mai più.
“Le illusioni ingannano.
I colori circoscrivono.
Anche i divisibili sono indivisibili.”
[manoscritto del Kashmir, 2000 a.C.]
Postilla: Una Storia di Cowboy
I wanna be the guy who wears the white hat
Then rides across the plain
I'm gonna be your enigmatic stranger
Honey you are lookin' at your Shane
(Cowboy Dreams – Prefab Sprout)
Questa storia nasce dall'aver sfregato insieme due idee ed averne ricavata una
scintilla.
La prima idea è in realtà un'immagine, ed è l'immagine attorno alla quale è stata
costruita la scena dell'obitorio.
Un corpo indiscutibilmente morto che urla.
la seconda idea è un po' più complicata. Quando scrissi questa storia, avevo
un'amica che impazziva per l'opera lirica, e non riusciva a leggere neanche le
più blande storie dell'orrore.
Com'era possibile, le domandai, che avesse gli incubi a leggere certe blande
faccende lovecraftiane, mentre poi gongolava tutta all'idea delle morti inutili,
delle torture fisiche e psicologiche e degli ammazzamenti all'ingrosso della
lirica.
Gente che muore di sete alle foci del Mississipi.
Opere liriche in cui tutti i protagonisti muoiono, ma solo dopo essersi traditi
vicendevolmente.
E poi la Butterfly, maledizione!
Se c'è un'opera lirica che sintetizza in tutto e per tutto lo spirito lovecraftiano,
deve essere assolutamente la Butterfly: le antiche tradizioni, l'oriente misterioso,
il pericolo dei rapporti sessuali fra razze diverse, il finale di morte.
Che poi, diciamocelo, è anche possibile che una donna giapponese commetta
seppuku scoprendosi tradita da un gaijin fedifrago – ma al seppuku di
indignazione, farebbe seguito una vendetta trasversale da far impallidire
Chushingura...
Click!
Perché non provare a scrivere una versione horror della Butterfly?, mi dissi.
Il resto fu abbastanza semplice.
L'orrore della contaminazione, la vendetta della donna tradita, il disprezzo per i
gaijin... ci misi tutto.
E poi un bel po' dei miei soliti giochini – che pochi colsero, e probabilmente
meno ancora coglieranno oggi, dopo quindici anni, poiché certi elementi che
all'epoca mi parevano ubiqui e universalmente noti, oggi sono diventati
memorie futili di una sottocultura morente.
Non che sia importante, ma ora che ci penso è molto lovecraftiano e mi fornisce
una buona idea per una storia che potrei anche scrivere un giorno o l'altro.
Per il giapponese mi feci dare una mano da mio fratello – e sì, lo so, c'è un
errore nel giapponese, ma è voluto, ed è mia responsabilità.
Quindici anni.
Quanto tempo...
Questa storia venne scritta una quindicina di anni or sono, in inglese, e col titolo
di A Whisp of Smoke, Rising, venne prima distribuita come testo grezzo sulla
mailing list del gruppo Delta Green e poi, convertita in pdf, rilasciata come
ebook gratuito su un sito ormai morto e sepolto.
Già, me ne rendo conto solo ora, scrivendo queste righe, ma io quindici anni fa
pubblicavo ebook gratuiti.
Che strano.
sarà che all'epoca la grande diatriba cartaceo/elettronico non esisteva, e quindi
distribuire una storia in pdf via web era... boh, una cosa normale, no?
Quella prima versione del racconto era leggermente diversa - soprattutto perché
usava Delta Green come cornice.
Da cui il sottotitolo - A Story of the Cowboy Years.
Qualche anno dopo, quando la CoopStudi di Torino decise di produrre il primo,
arrischiatissimo e sperimentale volume di Alia, questa storia mi parve la
migliore del mio catalogo, e fui ben felice di regalarla ai miei amici e complici.
Per quell'edizione, per ovvi motivi di copyright, tutti i riferimenti a Delta Green
vennero rimossi - non un gran cambiamento, in effetti, in quanto fu sufficiente
rimuovere due paragrafi e cambiarne un terzo.
Ne approfittai anche per dare una ripulita minima al testo.
La storia uscì col titolo di Un Fil di Fumo - Una Storia di Cowboy.
Fatto che causò la perplessità ed il disorientamento di alcuni lettori - che si
lamentarono del fatto che di cowboy, nel film, non ce ne sia la minima traccia.
In compenso la storia piacque - l'amico Vittorio Catani ne parlò benissimo,
Danilo Arona ne disse molto bene, e ricevetti un feedback ampiamente positivo.
Non c'era naturalmente, all'epoca (parliamo del 2003?), una fiera compagine di
esperti online pronti a crivellare il mio racconto di colpi – certe cose accadono
solo oggi, ed ho aspettative molto alte in questo senso.
Ci fu chi lodò il fatto che la mia storia fosse molto "giapponese" – e ci fu
immediatamente chi si fece un punto d'onore di far notare che la mia storia con
la narrativa orrifica giapponese non c'entrava nulla.
Né d'altra parte io mi proponevo di scrivere una storia giapponese, o di rifarmi
allo stile di questo o quell'autore giapponese.
Né avevo l'intenzione di cavalcare l'onda del successo di certi film al fine di
spacciare al pubblico i miei lavori.
Certe cose le lascio ai professionisti.
E così arriviamo a questa nuova versione – perché naturalmente non ho resistito
alla tentazione di dare un'ultima ripulita al testo, andando a metter mano a quei
dettagli sciocchi che, già nel 2003, avrei dovuto sistemare.
In più c'è questa postfazione/making of, che riprende la postfazione che
accompagnava l'originale pdf in inglese, ampliandolo.
La pubblico il 29 di maggio del 2012, in occasione del mio quarantacinquesimo
compleanno – un regalo da me stesso quand'ero un trentenne.
Non ho più in corpo neanche una cellula di quella persona che era quindici anni
or sono, ma condividiamo ancora le stesse storie.
E così, txt, pdf, cartaceo, ed ora epub e pdf di nuovo.
Quindici anni.
Regge ancora, la mia storia di cowboy?
Questo tocca ai lettori deciderlo, naturalmente.
A me non pare malaccio ma capirete, io sono abbastanza di parte.
Davide Mana
Asti
27 Maggio 2012
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