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FILOLOGIA CRITICA - uniroma1.it...to capitolo e alla perdita compatta dei capitoli xix-xxii, come lo...

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FILOLOGIA CRITICA & rivista quadrimestrale pubblicata sotto gli auspici del centro pio rajna direzione: bruno basile, renzo bragantini, roberto fedi, enrico malato (dir. resp.), matteo palumbo ANNO XXXVII · 2012 SALERNO EDITRICE ROMA
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Page 1: FILOLOGIA CRITICA - uniroma1.it...to capitolo e alla perdita compatta dei capitoli xix-xxii, come lo stesso Seibt ammette. In attesa di nuovi documenti sull’Anonimo, o di nuovi manoscrit-ti

FILOLOGIACRITICA&

rivista quadrimestrale pubblicata sotto gli auspici del centro pio rajna

direzione: bruno basile, renzo bragantini, roberto fedi, enrico malato (dir. resp.), matteo palumbo

ANNO XXXVII · 2012

SALERNO EDITRICE

ROMA

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DirezioneBruno Basile, Renzo Bragantini, Roberto Fedi,

Enrico Malato, Matteo Palumbo

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Direttore responsabileEnrico Malato

RedazioneMassimiliano Malavasi

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I saggi pubblicati nella Rivista sono vagliati e approvati da specialisti del settore esterni alla Direzione (Peer reviewed )

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« BENCHÉ IO L’AIA IÀ FATTA PER LETTERA »: GLI INSERTI LATINI NELLA CRONICA

DELL’ANONIMO ROMANO

1. Il problema della redazione latina

Non si può dire che i passi latini della Cronica dell’Anonimo Romano ab-biano avuto un grande successo nel profluvio di studi seguiti all’edizione di Porta.1 Non c’è da stupirsene: tolte le espressioni formulari e le citazioni, re-stano pochissimi brani, del tutto frammentari, episodici, sporadici, che sem-brano aggiungere poco ai contenuti e nulla ai pregi stilistici della Cronica. Eppure il capolavoro dell’Anonimo fu in origine tutto latino, secondo quan-to l’autore stesso volle ricordare ai suoi lettori in conclusione del prologo, e dunque in posizione di rilievo (p. 6):

Dunqua per commune utilitate e diletto fo questa opera vulgare, benché io l’aia ià fatta per lettera con uno latino moito ‹…›. Ma l’opera non ène tanto ordinata né tanto copiosa como questa.

La coppia utilità e diletto, forse di lontana matrice oraziana, ma ben radica-ta nella riflessione storiografica tardo medievale,2 riprende il dualismo do-minante in quel piccolo manifesto sulle ragioni dello scrivere la storia che co-stituisce il cuore del prologo. Il fatto che la Cronica sia stata prima latina e poi volgare non sembra aver destato troppo interesse. Del resto non si può dire che la sorte non si sia accanita contro questa primitiva redazione, non solo facendola sparire, ma anche privandoci – a causa di una lacuna nel testo – del giudizio dell’autore sul proprio latino, tutto consegnato a quel superlativo di cui nel testo rimane solo uno sconfortante moito.

Non sarà inutile rilevare che ordinata e copiosa sono due aggettivi che sem-brano rinviare a precise partizioni retoriche: se l’ordine ha una connessione trasparente con la dispositio, la copia sarà da porre in relazione non tanto alla copia dicendi quanto piuttosto alla ricchezza delle informazioni fornite nella redazione in volgare. Se questa ipotesi è giusta, la copia andrebbe riconnessa

1. Anonimo Romano, Cronica, a cura di G. Porta, Milano, Adelphi, 1979 (l’editio minor, ivi, id., 1981, 20073, è munita di un prezioso glossario). Le citazioni dell’opera si intendono prese da questa ed. e saranno direttamente indicate a testo col solo numero di pagina.

2. Per un’analisi del prologo mi permetto di rinviare a M. Campanelli, The Preface of the Anonimo Romano’s ‘Cronica’: Writing History and Proving Truthfulness in 14th-Century Rome, in « The Medieval Chronicle », n. 9 2013, i.c.s.

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all’inventio. Un autore come l’Anonimo, il quale si dimostra colto anche sul-lo specifico versante della tecnica retorica, poteva certamente conoscere la divisione dell’ars rhetorica proposta da Cicerone all’inizio del De inventione (i 9), che ritornava identica nella Rhetorica ad Herennium (i 3), opere, com’è no-to, diffuse, lette e commentate in ogni angolo del Medioevo latino.3 In real-tà non c’era neppure bisogno di conoscere Cicerone di prima mano, visto che la partizione ciceroniana era stata ripresa anche nei manuali di ars dictan-di.4 Ma il fatto che nel De inventione le parti della retorica fossero poste sotto il nome di Aristotele avrebbe quantomeno raddoppiato l’auctoritas del passo agli occhi dell’Anonimo, che faceva professione di scienza medica e, anche indossando le vesti di cronista, non rinunziava a citare il filosofo greco. D’al-tro canto la definizione di inventio come excogitatio rerum verarum aut veri simi-lium quae causam probabilem reddant doveva sollecitare le corde piú intime del-l’Anonimo storiografo, che aveva fatto del tema della verità, in particolare della veridicità di quel che narrava, la chiave di volta del suo lavoro di croni-sta, secondo quanto scrive nel brano del prologo che immediatamente pre-cede quello di cui si sta qui discutendo.5

È chiaro che l’aggettivo che definiva la qualità del latino della versione originaria della Cronica dovesse riferirsi all’ambito dell’elocutio, ovvero alla terza parte dell’ars rhetorica (sembra quasi che l’Anonimo abbia proceduto a ritroso, andando dall’elocutio all’inventio). Quell’aggettivo era con ogni pro-babilità luculento. Si tratta di un aggettivo che l’Anonimo usa molte volte e sempre in relazione all’eloquenza, in particolare all’eloquenza di Cola. Non occorre ricordare come il tribuno fosse agli occhi dell’Anonimo l’unico in grado di penetrare e far proprie non soltanto le virtú, ma anche le doti orato-rie degli antichi, e direi le seconde con maggiore precocità e immediatezza delle prime, secondo quanto l’autore scrive nel celebre profilo del protago-nista della sua Cronica, nutrito « de latte de eloquenzia » fin dagli anni giova-nili, grammatico, retorico, « autorista », « veloce leitore » dei classici, indefes-

3. Vd. da ultimo The Rhetoric of Cicero in Its Medieval and Early Renaissance Commentary Tradi-tion, ed. by V. Cox and J.O. Ward, Leiden-Boston, Brill, 2006.

4. La ritroviamo, per far l’esempio piú scontato, in Bene da Firenze (cfr. Bene Florentini Candelabrum, edidit G.C. Alessio, Padova, Antenore, 1983, pp. 5-6).

5. Sarebbe interessante esplorare in questa prospettiva il panorama dei glossatori di quella che nel Medioevo fu nota come Rhetorica vetus; le glosse infatti accompagnavano e veicolavano il testo nei manoscritti come nelle scuole. Grillio, ad esempio, rincarava la dose in materia di legame tra inventio e verità: « Si vero inveneris quod nec verum nec veri simile est, inventum dici non potest; non autem inventum est, sed est deliramentum » (Grillii Commentum in Ci-ceronis ‘Rhetorica’, edidit R. Jakobi, München-Leipzig, Saur, 2002, p. 48).

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so narratore delle « magnificenzie de Iulio Cesari », unico interprete degli « antiqui pataffii » e capace di volgarizzare « tutte scritture antiche » (p. 143). In sintonia con questi enunciati, l’Anonimo presta allo stile di Cola un’at-tenzione che non ha eguali nella Cronica: tornato a Roma con la nomina papale a notaio di Camera, il tribuno si alza « nello assettamento de Roma, dove staievano tutti li consiglieri », e tiene una « luculenta diceria » (p. 145); « loculento » (p. 238) è il sermone che recita di fronte a Carlo di Boemia, fre-sco di nomina imperiale; dopo essere rientrato trionfalmente a Roma per quella che sarà la sua ultima avventura, il tribuno viene condotto nel palazzo senatorio dove si produce in un « sio bello e luculento parlare » (p. 246). L’ag-gettivo si applica anche ai testi di Cola, che scrive « lettere luculentissime » (in latino) a numerose città e signori d’Italia, al papa e all’imperatore.

L’altro aggettivo che l’Anonimo utilizza in unione a parole quali « stile », « diceria », « sermone » è « bello »: in un caso la diceria è « avanzarana e bella » (p. 144), ed ognuno ricorda che nel prologo l’Anonimo afferma che la sua opera « ène granne e bella » (p. 4). Ma luculento continua a sembrarmi il can-didato migliore per colmare la lacuna. D’altra parte per l’uso di luculentus all’Anonimo non sarebbe mancato il conforto delle sue fonti: in Sallustio, autore citato nel prologo, poteva leggere che Cicerone « orationem habuit loculentam et utilem rei publicae » (Cat., xxxi 6); nei Dialogi di Gregorio Magno, da cui l’Anonimo riprende l’episodio di un monaco morto in odore di santità (vd. pp. 172-73), leggeva che san Benedetto « scripsit monachorum regulam […] sermone loculentam »;6 all’inizio dell’aggiunta geronimiana al Chronicon di Eusebio, un testo che l’Anonimo non cita, ma che non poteva non conoscere, si legge che Arnobio « elucubravit adversus pristinam reli-gionem luculentissimos libros ».7 Luculento è dunque l’aggettivo che, allo sta-to attuale delle nostre conoscenze sul testo e sulla cultura dell’Anonimo, ha le maggiori probabilità di nascondersi dietro la fastidiosa lacuna che disturba la conclusione del prologo.

Sulle lacune, maggiori e minori, della Cronica ha scritto un paio di pagine Seibt, all’interno della sua bella monografia sull’Anonimo.8 Per quanto ri-guarda le grandi lacune, quelle che hanno causato la perdita di interi capitoli,

6. Gregori Magni Dialogi, ii 36, texte critique et notes par A. de Vogüé, Paris, Les éditions du Cerf, 1979, vol. i p. 242.

7. Eusebii Pamphili Chronici Canones, Latine vertit, adauxit, ad sua tempora produxit s. Eusebius Hieronymus, edidit J. Knight Fotheringham, London, Milford, 1923, p. 313.

8. G. Seibt, Anonimo romano. Scrivere la storia alle soglie del Rinascimento, ed. it. a cura di R. Delle Donne, Roma, Viella, 2000, pp. 27-29 (trad. rivista dell’ed. tedesca, Stuttgart, Klett-Cotta, 1992).

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la tesi di Seibt è che quei capitoli non siano mai stati scritti. È una tesi che si applica difficilmente alla lacuna che va dalla fine del terzo all’inizio del quin-to capitolo e alla perdita compatta dei capitoli xix-xxii, come lo stesso Seibt ammette. In attesa di nuovi documenti sull’Anonimo, o di nuovi manoscrit-ti della sua opera, la questione è destinata a rimanere aperta; nel frattempo sarebbe meglio discutere di mancata traduzione piuttosto che di mancata scrittura, una traduzione che certamente in larga misura doveva configurarsi come una riscrittura e implementazione del materiale. D’altra parte nessuno dubita piú del fatto che la Cronica sia incompiuta, o perlomeno che non abbia ricevuto l’ultima mano da parte dell’autore, e che questa sia stata la causa prima delle sfortune del testo. Le numerose mancanze di date e dati nume-rici stanno lí a testimoniarlo con immediata evidenza, ma altrettanto bene, e forse meglio, lo testimoniano i passi latini, come già sottolineato da Seibt.

2. Il latino come preziosismo: formule, citazioni, espressioni solenni

Si potrà eliminare subito il piccolo bagaglio di espressioni formulari, tut-te abbastanza trasparenti da poter esser capite anche dagli illitterati e quindi probabilmente destinate a rimanere in latino anche nella versione definitiva della Cronica. Spesso si tratta di ablativi posti ad inizio di frase, che dovevano esercitare un’irresistibile attrattiva su un autore votatosi alla brevitas: sine mo-ra, nullo contradicente, digno Dei iudicio, deliberato consilio saniori, sumpto cibo, inca-lescente vino.9 Ma andranno messi nel conto anche avverbi, sempre in positio princeps, quali repente e novissime, ed espressioni quali iustus pro peccatore o res digna memoratu, o ancora la « gonnella bianca de seta miri candoris, inzaganata de aoro filato »10 che Cola veste il giorno prima dell’autoinvestitura a cava-liere, laddove il latino serve a rinforzare il senso di ostentata preziosità del-l’indumento. Nel novero delle espressioni formulari si può senz’altro far rien-trare anche il comporre un cadavere secundum debitam figuram, onore, anzi riguardo elementare che non toccò al « pomposo » legato papale Annibaldo da Ceccano, nonostante la sua potenza in vita (vd. p. 219).

La trovata escogitata da re Roberto per liberarsi di seimila uomini del-l’esercito con cui aveva inutilmente tentato di invadere la Sicilia, è commen-tata con una citazione esplicita: « Eadem actio prava fuit et studiosa, como Ari-stotile dice » (p. 64). Questa frase era abbastanza trasparente da non necessi-tare di volgarizzamenti, ma vale la pena di notare che il passo a cui l’Anoni-

9. Risp. pp. 43, 51, 209, 223, 242, 243.10. Risp. pp. 258, 259, 215, 229, 185.

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mo si riferisce figura nelle Categorie secondo la traduzione di Boezio, e in realtà dice il contrario: « neque eadem actio et una numero erit prava et stu-diosa ».11 In casi come questo, non potendo certo sapere quale manoscritto avesse letto l’Anonimo, si ricorre di solito all’ipotesi della citazione a memo-ria. Altrimenti si dovrebbe ammettere – né io mi sentirei di escluderlo – che l’Anonimo abbia deliberatamente modificato il testo, per piegarlo ai suoi scopi, contando sul fatto che i suoi lettori non avrebbero potuto, né proba-bilmente voluto, verificare la fonte. Del resto si può credere che l’Anonimo considerasse la formula aristotelica in modo assoluto, perfettamente decli-nabile sia in senso negativo che in senso positivo, a seconda di ciò che richie-deva il contesto.

Piú lineare la situazione della frase latina con cui l’Anonimo commenta la repentina scomparsa di tutti i membri della familia del legato papale An-nibaldo da Ceccano dopo la morte di quest’ultimo per indigestione: « Non remansit canis mingens ad parietem » (p. 218). Come già notava Porta nelle note alla sua edizione, si tratta di una memoria biblica, ovvero di un’espres-sione che si legge in Samuele e nei Libri dei Re; il passo piú vicino all’Anonimo è « non dereliquit ex eo mingentem ad parietem » (Re, i 16 11), ma ve ne so-no diversi altri in cui uno sterminio completo è adombrato dalla stessa im-magine.12 Relativamente al testo biblico rimaneva il problema di capire chi fosse l’essere infimo caratterizzato dal mingere ad parietem (un bambino, uno schiavo, un animale?). Una serie di esegeti, che forse, almeno in un frangen-te come questo, non volevano complicarsi troppo la vita, lo aveva identifica-to con un cane; fra questi era Andrea da San Vittore: « mingentem ad parietem: canem qui ad, id est contra, parietem mingere solet ».13 L’espressione era di quelle che facilmente passavano in proverbio, per cui non c’è bisogno di pensare che l’Anonimo avesse presente una trafila di esegesi biblica, anche se proprio l’uso del latino lascia ipotizzare che fosse memore dell’origine della citazione e ne volesse serbare l’implicito ricordo.

Poche righe oltre l’Anonimo sintetizza alla sua maniera il viaggio della salma del legato: « Messo in una cassa sopra de un mulo como fussi una so-ma, qua venerat via Romam rediit » (p. 218). In questo caso non sembra trattarsi di una citazione, sebbene qua venerat via si trovi in un paio di passi di Livio,

11. Aristoteles Latinus, Categoriae vel Praedicamenta. Translatio Boethii, i 1-5, edidit L. Mi­nio-Paluello, Bruges-Paris, Desclée de Brouwer, 1961, p. 53.

12. Cfr. Sam., i 25, 22 e 34; Re i 14 10, i 21 21, ii 9 8.13. Andreae de Sancto Victore Opera, vol. ii. Expositio hystorica in Librum Regum, i 25 22,

edidit F.A. van Liere, Turnhout, Brepols, 1996, p. 66.

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di cui uno veramente vicino al dettato dell’Anonimo: « eadem qua venerat via Elatiam rediit » (xxxiv 50 9; l’altro passo è xxxviii 2 8; io naturalmente non me la sento di ipotizzare una conoscenza della iv deca da parte dell’A-nonimo su una base cosí esigua).14 Certamente l’inserto latino enfatizza lo scarto tra le manie di grandezza del cardinale in vita (« omo pomposo […] che desiderava la moneta, li onori, le granne casamenta, le onorabile com-pagnie », p. 219) e la miseria di quel suo ultimo ritorno a Roma: il latino in casi come questo rallenta il ritmo della Cronica e col suo collocarsi al termine di un segmento narrativo, segna quasi una pausa di riflessione, fonicamente marcata dalle allitterazioni di a, v, r.

Di fronte ad una pagina come quella che conclude la vicenda di Annibal-do da Ceccano bisogna interrogarsi anche sull’architettura complessiva del testo: i tre inserti latini, ovvero la memoria scritturale, il qua venerat via Ro-mam rediit e la formula secundum debitam figuram, sembrano messi lí a scandi-re, pur nella loro diversità, le tre tappe del dissolversi della gloria terrena del potente cardinale, dalla morte di tutti i membri della sua famiglia, al suo ano-nimo ritorno a Roma, alla sua indecorosa sepoltura; il latino, in questi casi, equivale ad un sigillo.

Tra le frasi latine destinate a rimanere intatte in una redazione finale del-la Cronica potremo annoverare anche ciò che l’Anonimo scrive dello stupro di Elisabetta, figlia del « barone de Ongaria » Feliciano, ovvero « Lo cunato dello re carnaliter illam mediante regina cognovit » (p. 66): un esempio tanto bel-lo quanto antico di latino usato per pruderie.

Destinato a sopravvivere doveva essere anche l’inserto latino su un Cola che, ormai in preda al panico in prossimità della sua prima caduta, si avvia a chiudersi dentro Castel Sant’Angelo per timore di venire ucciso, ma lo fa a mo’ di imperatore: « sonanno tromme de ariento, con insegne imperiale, accompagnato da armati triumphaliter descendit e gío a Castiello Santo Agni-lo » (p. 208). Cola volle dare alla sua processione tutta l’enfasi possibile, e l’Anonimo volle esprimere quell’enfasi esasperata: l’inserto latino, con l’al-tisonante avverbio che sapeva di antico ma era tutto medievale,15 gli serví a questo. D’altra parte non si può escludere che nella rappresentazione della

14. Sulla circolazione della quarta deca nel Trecento vd. L.D. Reynolds, Livy, in Texts and Transmission. A Survey of the Latin Classics, ed. by L.D. Reynolds, Oxford, Clarendon Press, 1983, pp. 205-14, alle pp. 212-13.

15. La prima attestazione a me nota di triumphaliter si trova in un estratto da un sermone di Avito: « Quod admirabiliter quoque ac triumphaliter ipse Dominus fecerat » (Alcimi Ecdicii Aviti Opera quae supersunt, recensuit R. Peiper, in Monumenta Germaniae Historica, vol. vi. to. 2. Auctores antiquissimi, Berlin, Weidmann, 1883, pp. 1-294, a p. 106 rr. 29-30).

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messinscena di Cola si celi una vena di sarcasmo, visto che appena sopra l’Anonimo aveva precisato che il tribuno non era stato « omo de tanta virtu-te che volessi morire in servizio dello puopolo, como promesso aveva ».

Un altro inserto latino si trova nel momento culminante della descrizione dell’autoinvestitura di Cola a cavaliere. L’Anonimo narra con minuzia i pre-parativi della festa e la processione che porta Cola a San Giovanni. Cola an-ticipa la sua metamorfosi a romani e non romani accorsi alla festa: « Sacciate ca questa notte me dego fare cavalieri » (pp. 185-86). Finita la festa e tornata la gente alle proprie case, i chierici del Laterano celebrano una solenne funzio-ne, e quindi Cola si bagna nella vasca battesimale di Costantino. Quest’azio-ne segna un salto di qualità nell’agire politico-teatrale di Cola, causando rea-zioni che l’Anonimo non manca di annotare: « Stupore ène questo a dicere. Moito fece la iente favellare » (p. 186). Cola si fa apprestare un letto all’interno della vasca battesimale. È l’inizio di un crescendo di atti senza precedenti, che produrranno le reazioni puntualmente registrate dall’Anonimo: « moito ne stette la iente sospesa e dubiosa. Fu tale che lo represe de audacia, tale disse che era fantastico, pazzo » (p. 188). E questo sconcertante inizio è segnato da una “maraviglia”, che altro non è se non un malum omen: non appena Cola sale sul letto, « subitamente una parte dello lietto cadde in terra et sic in nocte silenti mansit ». È probabile che l’inserto latino qui serva a potenziare l’omino-sità del passo: l’allitterazione della dentale fa da eco al tonfo del letto, mentre il ripetersi del si dà la sensazione di un silenzio che si espande attraverso la notte.16 La frase latina segna quasi un fermarsi del tempo, attraverso il quale il cattivo augurio, non raccolto da Cola, sembra dilatarsi, prima che il nuovo giorno porti ad un precipitare degli eventi. Anche questa frase dunque sareb-be rimasta intatta nella versione finale della Cronica.

3. Margini e interlinee: spiragli minimi di un Anonimo al lavoro sul suo testo

Proseguiamo ora con un’espressione che presenta tutti i crismi del pro-verbio. Durante la terribile carestia del 1338 Gianni Macellaro consente alla « poveraglia de Roma » di mangiare a volontà la fava dei suoi campi, rispar-miandone solo i fusti. La gente non se lo fa ripetere due volte: « Ora vedesi traiere de iente affamata. Corvinam servant pauperes famelici » (p. 49). La vora-

16. Segnalo, senza ovviamente voler dire che l’Anonimo lo tenga presente, che sub nocte silenti è stilema virgiliano: cfr. Aen., iv 527 e vii 87, ripreso quest’ultimo dal silenti nocte (vv. 102-3) in cui vengono dati i responsa di Fauno.

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cità dei corvi era talmente proverbiale da non necessitare di fonti specifiche, anche per quel che riguardava il loro avventarsi sui campi fin dalla semina, fatto testimoniato già da Plinio il Vecchio: « inprobae alites vomerem comi-tantes corvique aratoris vestigia ipsa rodentes » (Nat., xvii 37). Naturalmente non occorre postulare una conoscenza di Plinio da parte dell’Anonimo. Poi-ché il racconto della Cronica è quello di un miracolo col quale Dio ricom-pensa la generosità del massaro che aveva sfamato una moltitudine di nulla-tenenti, sarebbe piú facile immaginare che lo storico avesse nelle retrovie della memoria un passo del Vangelo di Luca: « Considerate corvos, quia non seminant neque metunt, quibus non est cellarium neque horreum, et Deus pascit illos » (xii 24).

Il sigillo latino sui poveri di Roma che assaltano i campi di Gianni Macel-laro va però valutato unitamente ad un altro inserto latino, che si legge nel capitolo successivo. La regina d’Ungheria si trattiene a Roma tre giorni per visitare i luoghi santi e fa grandi donativi « a tute le chiesie »; su richiesta di un frate francescano, arriva persino a finanziare il restauro di ponte Milvio; in men che non si dica la solita « poveraglia de Roma » la subissa di richieste di denaro, e la regina è quindi costretta a fuggire dalla città. Commento del-l’Anonimo: « Nam pauperes habent mores corvinos. Rustici montani mores habent lupinos » (p. 66). Si tratta evidentemente di frasi che appartengono ad un repertorio di proverbi. Ma perché l’Anonimo le mette in latino? La frase sui rustici montani si accoppia bene a quella sui pauperes ma è del tutto supervacanea rispetto al testo, in cui non v’è traccia di montanari. La mia impressione è che in questo caso ci si trovi di fronte a un appunto che l’Ano-nimo aveva aggiunto nei margini del suo esemplare, un promemoria per inserire un nuovo brano in una successiva fase redazionale della Cronica. Ed è probabile che appunto marginale, e frutto di uno stesso fiato di lettura, o meglio di rilettura, fosse anche il « Corvinam servant pauperes famelici » del ca-pitolo precedente. C’è da chiedersi per quale motivo l’Anonimo si sia con-cesso l’ellisse del sostantivo nel primo caso e non nel secondo; data la tipo-logia delle frasi e la loro ubicazione rispetto al testo, non sembra troppo agevole postulare una ricerca di variatio. È molto probabile che dopo corvi-nam si debba integrare un naturam, originariamente scritto nella forma ab-breviata di nam sormontato da tilde, e caduto nell’archetipo per aplografia con la parte finale dell’aggettivo. Meno probabile mi sembrerebbe l’emen-damento corvi naturam, poiché nelle altre due frasi l’Anonimo usa l’aggettivo per designare gli animali.

Dopo aver narrato la morte di Cola, l’Anonimo si “stenne” in un paralle-lo con la morte del senatore Marco Papirio, avvenuta durante l’assedio dei

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gli inserti latini nella cronica dell’anonimo romano

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Galli, per concludere che « Lo buono romano dunqua non voize morire colla coitra in capo como Cola de Rienzi morío » (p. 267). I “veterani” ab-bandonano il Campidoglio, in cui si asserragliano i difensori, e tornano alle loro case parati con le vesti e le insegne delle loro antiche glorie; natural-mente, nelle parole dell’Anonimo, sembrano piú personaggi di un mosaico absidale che non senatori dell’età aurea della repubblica: « Tale se vestío a muodo de pontefice, tale a muodo de senatore, chi de consolo. Allocarose nelli facistuori adornati, colle bacchette in mano, adorni de prete preziose e de aoro ». Papirio ovviamente non fa eccezione: « Forte adorno staieva de-nanti la soa casa, cum pretexta, cum trabea indutus » (p. 266).

Premesso che in Livio (v 41) non v’è traccia né di preteste, né di trabee, quest’inserto latino potrebbe banalmente esser dovuto alla volontà di met-tere in risalto la maestà del vecchio Papirio (Livio aveva definito lui e i suoi colleghi « maiestate etiam quam voltus gravitasque oris prae se ferebat simil-limos dis »). Ma può anche darsi che in questo caso l’Anonimo abbia usato il latino perché non sapeva bene come rendere nel suo volgare i nomi di quel-le vesti: il latino potrebbe dunque essere una rapida aggiunta, un promemo-ria su un’espressione da inserire nel testo volgare per dare maggior consi-stenza allo schizzo di Papirio « forte adorno ». Un tenue indizio a favore di questa seconda ipotesi può esser dato dalla giustapposizione della praetexta e della trabea. Quante vesti poteva indossare Papirio, sia pur in una situazione in cui voleva far sfoggio della sua migliore tenuta? È ovvio che non si può giudicare l’Anonimo col metro dell’antiquaria, neppure di quella aurorale della prima età umanistica, ma per sapere che la trabea e la praetexta erano due vesti diverse e tutto sommato incompatibili, bastava aver letto Isidoro, nel cui nome si apriva la Cronica.

È molto probabile che l’Anonimo avesse cominciato a sentir parlare di praetextae e trabeae fin dagli anni di scuola, quando avrà dovuto leggere Gio-venale, « quamquam non essent urbibus illis / praetextae, trabeae, fasces, lectica, tribunal » (x 34-35). In età adulta, la lettura della sola prima deca di Livio sarà stata sufficiente per comprendere che la praetexta era una veste che indicava l’esercizio di alte magistrature; questo si poteva agevolmente rica-vare da Liv., ii 54 4; vii 1 5; x 7 9; Livio inoltre narrava come Decio si fosse immolato agli dei vestito della pretesta (viii 9 5). Della trabea lo storico pata-vino diceva molto meno: dopo l’attentato mortale a Tarquinio Prisco, Ser-vio Tullio « cum trabea et lictoribus prodit », per mostrare che era lui il nuo-vo re (i 41 6). Volendo dunque far indossare al vecchio Papirio una veste garantita dall’autorità di Livio, la scelta sarebbe dovuta ricadere sulla praetex-ta. Ma un autore come l’Anonimo, che mostra un quasi morboso interesse

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per le vesti e i mutamenti delle mode, difficilmente avrà potuto ignorare il capitolo De palliis virorum delle Etymologiae (xix 24), in cui Isidoro elencava prima la trabea, « qua operti Romanorum reges initio procedebant » (8), e quindi, dopo alcune altre vesti, la praetexta, definendola un « puerile pallium quo usque ad sedecim annos pueri nobiles sub disciplinae cultu utebantur » (16). Isidoro dunque da un lato distingueva nettamente le due vesti, dall’al-tro citava la praetexta solo come veste di adolescenti. Non si può del resto escludere che l’Anonimo conoscesse uno o piú fra i lessici enciclopedici in uso nel tardo Medioevo. Sia Papia che Uguccione seguivano Isidoro nell’af-fermare che la pretexta era veste di fanciulli nobili, ma si dividevano sulla trabea, che da Uguccione era definita un « genus vestis imperialis qua soli imperatores utebantur », mentre per il piú antico Papia era una veste « qua operti Romanorum reges procedebant »; ma poco oltre nel lessico di Papia si legge anche « Trabea vestis senatorum ».17 Agli occhi dell’Anonimo quindi la natura dei due tipi di veste doveva presentarsi sostanzialmente controver-sa, e poiché in materia di vesti l’Anonimo era uno che andava parecchio per il sottile, è lecito chiedersi se quel « cum pretexta cum trabea » non corri-sponda a due varianti alternative, magari originariamente scritte in colonna e non in linea, tra le quali l’Anonimo si riservava di scegliere non appena gli si fossero chiarite le idee in materia di toghe.

Un’espressione che nell’originale aveva ottime probabilità di trovarsi scritta nell’interlinea è per avia. Cola si avvia a punire il ribelle Stefanello Colonna in gran fretta, tanto che una parte dei suoi soldati non riesce nep-pure a prendere le armi: « Curzero da porta Maiure, via de Pellestrina, per avia, per locora salvatiche, deserte » (p. 249). Quest’ultima espressione non è altro che una traduzione di per avia. Forse l’Anonimo non era ben contento della sua versione, sebbene essa sembri del tutto soddisfacente, forse avrà avuto un altro motivo piú contingente per mantenersi sotto gli occhi il testo latino di partenza, motivo che a noi è destinato a sfuggire; sicuramente per avia non era destinato a figurare nel testo in volgare, rispetto al quale è un corpo estraneo. Si tratta di un lacerto tanto piccolo quanto prezioso, perché ci offre un frammento della tecnica di traduzione dell’Anonimo, il quale

17. Per Papia, in mancanza di un’edizione moderna, ho consultato un incunabolo: Papias, Vocabularium, edidit B. Mombrizio, Venezia, A. Boneti, 30.vi.1485 (Istc ip00078000), cc. t iiiv e (cum)vv; per Uguccione vd. Uguccione da Pisa, Derivationes, ed. critica a cura di E. Cecchi­ni, G. Arbizzoni [et alii], Firenze, Sismel-Edizioni del Galluzzo, 2004, pp. 132 e 1219-20. Le definizioni di Uguccione sono ripetute da Giovanni Balbi, Catholicon, Venezia, B. Locatelli per O. Scoto, 20.xi.1495 (Istc ib00033000), ff. 240r b e 293r a.

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gli inserti latini nella cronica dell’anonimo romano

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sfaccetta il sostantivo latino in due aggettivi che ne rendono diverse sfuma-ture semantiche.

4. Un bollettino di guerra

L’inserto latino di gran lunga piú noto, perché coinvolto nel problema della datazione della Cronica, è quello che si legge alla fine del capitolo xxvi, relativo alla cattura di Giovanni II di Francia nella battaglia di Poitiers e alla sua decisamente poco favorevole liberazione, avvenuta nel 1360. Non pos-sono sussistere dubbi sul fatto che questo brano sia un’aggiunta (p. 236):

Per questa guerra mantenere fu predicata la crociata moite fiate. Mode novamente che curre anno Domini mccclvii‹i›, de iennaro, nella citate de Tivoli fu predicata. His ferme diebus Iohannes 18 rex Francie captus est a filio regis Anglie bello magis tumultuario quam militari apud villam que dicitur ‹…› ductusque in Angliam sub custodia annis ferme duobus. Tandem cum magno sui detrimento et regni evasit.19

Nel 1360 dunque la Cronica era per il suo autore un testo ancora suscettibile di accogliere nuovi materiali. Per quanto riguarda il testo, mi limiterò ad osservare che sarebbe meglio togliere il punto fermo dopo duobus, che non si trova nei manoscritti sui quali è costituita l’edizione di Porta e spezza il fiato di quella che è un’unica frase. Poiché molto si è discusso sulla forma della Cronica, varrà la pena di rilevare che il passo mostra come l’Anonimo, al grado zero del suo lavoro, ovvero quando deve registrare la notizia pura e semplice di quello che si annuncia come un evento straordinario, una novi-tate pronta ad offrir materia, fonti permettendo, per un intero capitolo, si comporti da cronista tradizionale. L’unico collegamento che la notizia ha con il capitolo è infatti quello cronologico. La Cronica è un’opera selettiva, come l’Anonimo afferma nel prologo, in particolare enunciando la terza ca-scione del suo scrivere la storia, ma le novitati di cui l’opera si compone vengo-no inizialmente ordinate e raccolte secondo la cronologia.

Questo modo di procedere trova conferma anche nel testo in volgare. Il capitolo vi è interamente dedicato all’avventura italiana di fra’ Venturino, con speciale attenzione al suo maldestro epilogo in una Roma disincantata, per non dire prevenuta, nei confronti del predicatore. Il titolo del capitolo

18. Forse sarebbe meglio stampare Ioannes visto che i manoscritti utilizzati da Porta hanno in genere la forma senza aspirata o l’abbreviazione Io.

19. In realtà Giovanni II era stato catturato nel 1356, e la sua prigionia era quindi durata quattro anni (cfr. la nota storica di Porta alle pp. 720-21).

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tuttavia annunciava anche il racconto « dello campanile de Santo Pietro lo quale fu arzo »; ma tutto quello che il lettore trova sono un paio di righe con la nuda registrazione, cronachistica appunto, dell’evento (« In questo tiem-po uno folgoro ferío lo campanile de Santo Pietro e tutto lo cucurullo arze », p. 27), subito seguito dalla registrazione di un altro evento di cui nel titolo non era traccia (« Anche in questo tempo morio papa Ianni, dello quale dit-to ène »), ma al quale l’Anonimo dedica un minimo di spazio, rievocando alla sua maniera l’epilogo della disputa sulla visione beatifica innescata da Giovanni XXII.20 È chiaro che, soprattutto nella prospettiva storiografica tanto chiaramente delineata dall’Anonimo nel suo prologo, quello sul rogo del campanile di San Pietro non era se non un semplice appunto, destinato ad essere sviluppato in una fase redazionale successiva.

Naturalmente tutto ciò pone ulteriormente la questione del rapporto tra il testo che noi possediamo e l’originale redazione latina: è molto probabile, per non dire sicuro, che queste parti appena abbozzate, o poco piú che ab-bozzate, non figurassero nel testo latino; coerentemente con quanto affer-mato in conclusione del prologo, dunque, il testo volgare non era soltanto traduzione, ma anche superamento di quello latino. Un esempio di come sarebbe potuta essere la seconda parte del capitolo vi in un’ulteriore fase di elaborazione è offerto dall’Anonimo al capitolo xii, che già nel titolo si pre-senta, analogamente ad altri capitoli della Cronica, quale un dittico (« Como fu cacciato de Fiorenza lo duca de Atena, e como morío papa Benedetto e fu creato papa Chimento », p. 90): il profilo di Clemente VI, sebbene molto piú breve e decisamente sproporzionato rispetto alla narrazione della fine del duca d’Atene, è un piccolo capolavoro in sé già perfettamente compiuto.

Il brano latino contenente la notizia della battaglia di Poitiers, della prigio-nia e della liberazione del re di Francia, ci consente dunque di cogliere l’Ano-nimo nella primissima fase redazionale, nell’atto di fissare sulla carta il germe aurorale di un futuro capitolo. In questo caso il contesto rende chiaro che si tratta di un’aggiunta e non di un recupero (« Mode novamente che curre an-no Domini mccclvii‹i›, de iennaro, nella citate de Tivoli fu predicata. His fer -me diebus », p. 236). Sappiamo dalla fine del capitolo xii che l’Anonimo ave-va in animo di dedicare una parte della Cronica alla battaglia di Poitiers,21 e

20. « Quanno approssimao a morte, revocao lo errore de chi diceva ca·lle anime delli beati non veiono Dio de faccia. E disse ca ciò che avea ditto avea ditto per disputazione fare » (p. 27).

21. « Alla fine morío [scil. il Duca d’Atene] nella vattaglia la quale fu fatta fra lo re de Francia e·llo re de Egnilterra; nello quale stormo Iuvanni re de Francia fu presone, como se diceraio » (p. 100).

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non è affatto escluso che nella sua mente si trattasse di un intero capitolo, anche perché non è credibile che il « como se dicerao » del capitolo xii alluda ad una menzione cursoria, alla luce degli altri passi della Cronica in cui è usato questo inciso. Il nuovo capitolo avrebbe formato un dittico con quello dedicato alla battaglia di Crécy e all’assedio di Calais. Tuttavia quest’evento non figura nell’indice dei capitoli della Cronica, e quindi non sarà stato pre-sente neppure nell’originaria redazione latina. Si tratta di un ennesimo do-cumento che andrebbe allegato al voluminoso fascicolo dell’incompiutez-za della Cronica, e che apre anche una finestra sulle discrasie tra la redazione latina e quella in volgare: piú la si esamina e piú la Cronica appare, nella for-ma in cui ci è giunta, un lavoro ancora in fieri, un lavoro anzi che ad un certo punto sembra essersi rimesso in moto sullo scrittoio dell’autore, allontanan-dosi sempre piú dal testo latino di partenza.

Per quel che riguarda Poitiers, le fonti dell’Anonimo sembrano essere mutate, e migliorate, nel tempo intercorso tra la stesura della pagina finale del capitolo xii e il brano latino che nei manoscritti si trova appeso alla fine del capitolo xxvi, in cui il vincitore della battaglia è individuato nel principe di Galles e non nel re d’Inghilterra. D’altra parte è ben possibile che il latino che si legge in fondo al capitolo xxvi non sia tutta farina del sacco dell’Ano-nimo: lo stile, come già si è accennato, sembra quello di un bollettino, e non escluderei che l’Anonimo lo abbia veramente tratto da un bollettino, forse con qualche mutamento inter transcribendum, ma lasciandone intatta la so-stanza di sommario, buono a fungere quale appunto di lavoro. Si può con-frontare con l’inizio del capitolo sulla battaglia di Crécy (p. 118):

Currevano anni Domini mccc‹…› quanno fu fatta la orribile sconfitta in Francia, da priesso a Parisci a otto leuce, allo monte de Carsis, e fu sconfitto Filippo de Valosi re de Francia e fu vincitore Adoardo re de Egnilterra.

Nonostante fosse considerata fin da subito un evento epocale, per la batta-glia di Crécy le testimonianze di personaggi che presero parte all’evento si riducono a quattro lettere, una scritta da Edoardo III in persona e altre due da chierici del suo seguito. L’unica lettera scritta da qualcuno che realmen-te avesse combattuto viene da un cavaliere tedesco militante nelle fila degli inglesi, Johann von Schönfeld, il quale inviò una missiva al vescovo di Pas-sau, lamentando fra l’altro di esser stato ferito in volto da una freccia. Alla lettera è aggiunta una cedula con i nomi dei caduti che inizia cosí:

Anno Domini mcccxlvi, indictione xiv, pontificatus domini Clementis pape sexti anno quinto, mensis Augusti, die xxvi, prelium fuit inmensum inter duos reges,

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videlicet Anglie et Francie, in quo idem dominus rex Anglie illustris victoriam Dei gratia obtinuit et triumphum. Idem bellum fuit in Francia iuxta quandam villam, que dicitur Kersy, quinque miliaribus iuxta Monstruel in Pocien.22

Scritta nella forma di un comunicato neutrale annunciante il risultato della battaglia, ma sostanzialmente dal punto di vista degli Inglesi, la cedula fu probabilmente concepita « for circulation around Europe ».23 Non c’è biso-gno di evidenziare quanto il preambolo della cedula di Schönfeld sia analogo all’incipit dell’Anonimo. Bisogna anche dire che l’incipit del capitolo su Cré-cy è praticamente identico a quello della battaglia del Rio Salado (p. 68):

mccc‹…› anni Domini currevano, de mese de ‹…›, quanno fu fatta la granne e orri-bile vattaglia infra Cristiani e Saracini. Duce Deo Cristiani fuoro vincitori. Saracini fuoro sconfitti in Spagna in uno campo lo quale se dice Cornacervina, nello terreno della citate de Sibilia, dove moriero sessanta milia Mori.

Inoltre in entrambi i casi la fine del preambolo e l’inizio della narrazione sono marcate dalla frase « La quale novitate fu per questa via ». Per la batta-glia del Rio Salado siamo praticamente sicuri che l’Anonimo ebbe modo di vedere un bollettino, ché tale doveva essere l’enigmatica lettera “berbenta-na” inviata a Stefano Colonna a Roma, che l’Anonimo cita come fonte per la descrizione dello schieramento cristiano (cfr. p. 75). Pur tenendo presente la formularità quasi da telegramma di queste rapidissime sintesi, la possibi-lità che l’Anonimo congegnasse le sue introduzioni alle grandi battaglie eu-ropee a partire dai bollettini, formulari anch’essi, che giungevano a Roma può senz’altro essere ventilata a livello di ipotesi di lavoro; in tal caso il brano latino su Poitiers dovrebbe rappresentare il punto in cui l’Anonimo si è man-tenuto piú aderente alla sua fonte.

5. L’opera « non ène tanto copiosa como questa »: integrazioni, rivisi­tazioni, supplementi

All’estremo opposto del brano sulle disavventure di Giovanni II si collo-cano brevissimi appunti destinati ad aggiungere dettagli a narrazioni già compiute. È il caso della rivolta di Cesena contro Madonna Cia, moglie di

22. Il testo è pubblicato in J.F. Böhmer, Acta Imperii selecta. Urkunden deutscher Könige und Kaiser 928-1398. Mit einem Anhang von Reichssachen, aus dem Nachlaß hrsg. von J. Ficker, Inns-bruck, Wagner, 1870 (rist. anast. Aalen, Scientia, 1967), p. 750.

23. A. Ayton, Crécy and the Chroniclers, in The Battle of Crécy, 1346, ed. by A. Ayton and Ph. Preston, Woodbridge, Boydell and Brewer, 2005, pp. 287-350, a p. 295.

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Francesco degli Ordelaffi, assediata nel cassero della città. La prima fase del sollevamento termina con l’invio di due emissari dei rivoltosi ai mercenari ungheresi che presidiavano il bastione di Savignano. Cosí madonna Cia vie-ne a conoscenza della rivolta. Tra i due momenti si insinua un « Celeriter illi vadunt » (p. 232), detto degli emissari dei rivoltosi, che serve a completare il quadro della rapidità con cui la sollevazione divampa e si diffonde, a perfe-zionare il senso di isolamento in cui il lettore ha l’impressione che madon-na Cia venga improvvisamente a trovarsi. Poco oltre l’Anonimo registra la decapitazione dei due consiglieri rei di aver suggerito a Cia di risparmiare quattro personaggi che di lí a poco sarebbero divenuti i capi della rivolta; l’or-dine di decapitare i quattro veniva dal marito (p. 232):

Irata madonna Cia de questa perdenza convertío la sia ira in li doi consiglieri amicis-simi dello marito, Iuorio delli Tumberti e Scaraglino, feceli decollare. Quod factum maritus improbavit. Postera die, luce orta, ecco li Malatesti venire collo grande succurzo, colla moita potenzia.

Mentre la seconda parte del testo latino rientra in quelle espressioni ablati-vali poste ad inizio di frase a cui ho fatto cenno sopra, la reazione negativa dell’uomo ha tutta l’aria di essere un appunto: l’Anonimo non perde occa-sione di descrivere le reazioni sempre violente e inconsulte di Francesco degli Ordelaffi, personaggio di assoluta, psicotica malvagità, e c’è da credere che, di fronte a quello che appariva come un doppio tradimento della mo-glie, l’Anonimo non si sarebbe limitato a registrare in modo tanto neutro la disapprovazione del marito.

In altri casi il rapporto della frase latina col testo volgare è piú controver-so. I quarantamila saraceni fatti prigioneri nella battaglia del Rio Salado « fine nello díe de oie staco siervi de Spagnuoli » (p. 82). Il testo in volgare è caratterizzato da ripetizioni: l’Anonimo scrive due volte che i saraceni sono siervi – anche se nel primo caso pare riferirsi a tutti i prigionieri, nel secondo soltanto ad una parte di essi – e che fanno « onne artificio » o « servizio »; quindi precisa: « Hortos et vineas colunt dominorum precepto solo victu contenti » (ivi). In questo caso non si tratta di una citazione o di una frase sentenziosa, ma neppure di un anello mancante nella narrazione; sembra piuttosto un appunto finalizzato a dar maggiore concretezza a quanto esposto in prece-denza, sia sul versante del lavoro dei saraceni (« hortos et vineas colunt » esplica quanto contenuto nello « zappano, arano » di poco sopra), sia su quello della loro condizione (dominorum precepto riprende « Spagnuoli loro signori » che immediatamente precede, mentre il solo victu contenti serve a dar corpo alla loro condizione di schiavitú). Il latino dunque sarebbe servito da base alla

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riformulazione di un brano che, come molti altri della Cronica, non aveva ancora raggiunto un assetto definitivo.

Secondo l’Anonimo colui che diede il segnale della rivolta che portò alla cacciata di Cola fu Giovanni Pipino conte di Minervino: « Questo paladino demorava in Roma, perché soie grannie e boganze24 non potevano patere li regali de Napoli. Cum familia sua degebat Rome » (p. 207). La natura di questa frase latina non è troppo diversa da quella dei saraceni prigionieri degli spa-gnoli: il latino contiene sostanzialmente le stesse informazioni contenute nel testo volgare, ma con in piú il dato della familia. Si trattava con ogni pro-babilità di una familia di armati: l’Anonimo preciserà piú avanti che a Gio-vanni Pipino, tornato in Puglia, fu contestato di essersi messo a « capo de granne compagnia », con « arcieri e robatori » (p. 210). Non occorre sottoli-neare che la notizia della presenza di una familia di tale natura avrebbe con-ferito, agli occhi del lettore, un ben altro peso al fatto che il conte di Miner-vino fosse stato il promotore della rivolta contro il tribuno.

Purtroppo il capitolo viii è affetto da una vasta lacuna, per cui si salta dal banchetto offerto da Mastino II della Scala agli ambasciatori veneziani alla fase finale dell’assedio di Padova. Un uomo di Marsilio da Carrara apre una porta della città alle milizie di Pietro Roscio, capitano dei Veneziani, che entra a Padova « senza colpo de spada »; l’Anonimo precisa che Pietro Roscio e i suoi arrivano ben dentro la città: « Ora ne veo per la strada alla piazza lo capitanio de Veneziani con moita grossa pedonaglia e cavallaria » (p. 42). Nel frattempo il laido ed incapace Alberto della Scala, mandato dal potentissimo fratello a governare Padova, si è da poco alzato dal letto e monta un bel ca-vallo accompagnato dal solo Marsilio; all’Anonimo basta una frase per di-pingere la pochezza del personaggio: « Per la terra iva trastullanno ». Segue l’inserto latino: « Omnis armatorum eius multitudo pugnans resistebat ad portam » (p. 42). La porta presso la quale i soldati resistono deve essere quella di San-ta Croce, dove l’Anonimo scrive che si combatteva, e non quella di Ponte Corvo, da cui il capitano dei Veneziani era entrato impunemente. È eviden-te che la frase serve a creare un’opposizione tra il personaggio che avrebbe dovuto sovrintendere alla difesa della città e i soldati che cercano di resistere, ovvero a far risaltare l’idiozia e l’incapacità del primo, ed è chiaro che l’Ano-

24. Castellani ha proposto, anche in polemica con Marco Mancini, di emendare boganze in aroganze: vd. A. Castellani, Note di lettura: la ‘Cronica’ dell’Anonimo romano, in S.L.I., vol. xiii 1987, pp. 66-84, e Id., Ancora sulla ‘Cronica’ d’Anonimo romano, ivi, vol. xv 1989, pp. 202-17, entram-bi ristampati in Id., Nuovi saggi di linguistica e filologia italiana e romanza (1976-2004), a cura di V. Della Valle, G. Frosini, P. Manni, L. Serianni, Roma, Salerno Editrice, 2009, 2 to., ii, risp. pp. 975-93 e 1060-75.

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gli inserti latini nella cronica dell’anonimo romano

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nimo non avebbe rinunciato a quest’elemento narrativo, cosí come è chiaro che, se fosse arrivato ad inserire la frase nel testo in volgare, avrebbe dovu to aggiungervi almeno il nome della porta, ammesso e non concesso che il no-me non sia caduto nell’archetipo.

Nel capitolo sulla crociata che portò alla conquista di Smirne, l’uccisione del patriarca legato pontificio, di Pietro Zeno e di Martino Zaccaria è narra-ta dall’Anonimo secondo la testimonianza “verisimile” di un imprecisato testimone che lo « vidde perzonalmente, e ciò fermao per sacramento » (pp. 110-11). Lo scenario è quello della città antica, ridotta ad uno spettrale labi-rinto: « Erano quelle locora non domestiche, anche paurose per li moiti im-pedimenti de mura rotte, fonnamenti de case e de torri; locora senza vie, locora da intanare iente » (p. 112).25 Ritrovatisi « soli senza sequito nello labe-rinto delle deserte case », i tre vengono accerchiati, appiedati e decapitati; i turchi portano via le loro teste, i loro ornamenti ed armi, i loro cavalli e la-sciano i corpi in terra. Questa parte del racconto è finita, ma l’Anonimo torna a narrare la sorte del patriarca, in latino (ivi):

Ad presulem tamen plangibilior casus fuit. Nam eques insuper – Dardo nomen erat – in virum sacrum sceleratas primum manus iniecit clavaque ferrea ictus ictibus cumulans moribundum semianimemque pontificem leva tenuit arreptoque gladio caput obtruncat nudatumque cadaver ad terram prolapsum dimisit venerabilemque calvariam ornato involvens pallio ad suos abiit.

Questo brano certamente non è un appunto di lavoro, dato l’alto grado di elaborazione formale che lo caratterizza. Basterà qui notare l’uso di un ag-gettivo sonoramente aulico come plangibilior,26 il cui effetto è rincalzato dal-l’allitterazione con presulem; il chiasmo virum sacrum - sceleratas manus, in cui la scellerataggine di quelle mani è rinforzata dall’inserzione di primum; l’accu-mularsi delle gutturali per rendere fonicamente il cumulo dei colpi, clava

25. Il brano è interessante perché apre una finestra sulla considerazione che l’Anonimo, e la cultura di cui l’Anonimo è espressione, poteva avere delle antichità quando non fossero semantizzate come simboli, reliquie, precise testimonianze di un passato che continuava a vi-vere nel presente o serviva a rivendicazioni per il presente. È un’ulteriore testimonianza, sem-mai ce ne fosse bisogno, della totale estraneità dell’Anonimo a qualunque sentore di quello che di lí a qualche decennio sarà l’Umanesimo.

26. Questo comparativo di plangibilis meriterebbe una qualche attenzione lessicografica, visto che sembra trattarsi di una parola non troppo comune: plangibilis ovviamente non figura nel Thesaurus linguae Latinae, ma neppure nei lessici medievali quali Papia, Uguccione e Gio-vanni Balbi; ho cercato il termine nei lessici di latino medievale attualmente in circolazione, ma l’ho trovato soltanto nel Lexicon Latinitatis Nederlandicae Medii Aevi, vol. vi (Leiden, Brill, 1998), che rinvia ad un altro lessico, il Teuthonista di Gherardo di Schueren.

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ictus ictibus cumulans, cosí come quello di dentali e gutturali per il taglio del-la testa, arreptoque - cadaver ; la coppia aggettivale moribundum semianimemque, una campitura di patetismo che introduce al momento culminante dell’a-zione; l’iperbato di ornato involvens pallio. Ma ricercata è la struttura dell’in-tero periodo, che esprime la repentinità dell’azione attraverso una serie di coordinate il cui ininterrotto inseguirsi è ulteriormente accentuato dall’uso esclusivo dell’enclitica; ed anche la reiterata combinazione di una forma participiale e di un verbo di modo finito in ognuna delle frasi (cumulans - te-nuit, arrepto - obtruncat, prolapsum dimisit, involvens - abiit) serve a comprimere l’azione, o meglio il susseguirsi delle azioni. Si noti infine come l’Anonimo usi il presente obtruncat per il momento culminante della vicenda, laddove gli altri tre verbi sono al perfetto. Ad onor del vero non si capisce perché il casus del patriarca debba essere plangibilior, dal momento che la sua sorte non sembra differire da quella degli altri: decapitazione, spoliazione del cadave-re, che viene abbandonato in terra, mentre la testa è portata via, avvolta in un pallium che è certamente il ricchissimo piviale descritto dall’Anonimo poco prima. In realtà la fine del patriarca è plangibilior perché nel passo latino è narrata con maggiori dettagli.

L’ipotesi piú probabile è che l’Anonimo, dopo aver voluto tenere insieme il racconto della morte dei tre (« Tre baroni recipero lo santo martirio e fuoro fatti cavalieri de Cristo »; poco sopra aveva detto che il patriarca « a cavallo in uno potente destrieri ben pareva barone », p. 111), abbia preso in considerazio-ne l’ipotesi di dedicare al patriarca uno specifico cammeo. Mi sembra meno probabile ipotizzare che l’Anonimo abbia ottenuto, in un momento succes-sivo alla stesura del testo in volgare, un’altra fonte con maggiori dettagli sulla morte del patriarca (il nome dell’uccisore e le modalità dell’uccisione). Cer-tamente questo brano non poteva esser stato originariamente inserito nel testo volgare senza soluzione di continuità col vernacolo, cosí come lo si legge nei manoscritti. La mia ipotesi è che il brano fosse trascritto in margine, come una scheda destinata ad essere tradotta ed inserita nel testo, necessaria-mente modificato rispetto all’attuale, in una successiva fase redazionale.

Una situazione analoga è quella di un brano relativo all’ultimo Cola, che si muove ed agisce in una dimensione ormai psicotica, fondando il suo tra-ballante potere sul terrore e manifestandolo con gesti arbitrari. La decapita-zione di Pandolfuccio di Guido Pandolfini turba tutta Roma, ma il tribuno sembra ancora avere il controllo della situazione: « Staievano Romani como pecorella queti; non osavano favellare.27 Cosí temevano questo tribuno co-

27. Adotto l’interpunzione stabilita da L. Bertolini, Proposte interpretative e testuali per la ‘Cro-

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mo demonio » (p. 259). Segue un brano latino che sarebbe senz’altro degno dell’aggettivo memorabile (ivi):

In loco consilii obtinebat omnem suam voluntatem, nullo consiliatore contradicen-te. Ipso instanti ridens plangebat et emittens lacrimas et suspiria ridebat, tanta inerat ei varietas et mobilitas voluntatis.

Anche questo brano non si presenta certamente come un appunto di lavoro, ma come un prodotto stilisticamente finito; il gioco delle allitterazioni è qui talmente scoperto ed insistito che non occorre metterlo ulteriormente in evidenza. Al brano latino fa seguito un lapidario « Ora lacrimava, ora sgavaz-zava ». Il latino ha qui tutto l’aspetto di una fase redazionale autonoma ri-spetto al volgare: da una parte il timore che produceva inazione, nel volgare attribuito genericamente ai romani, è portato all’interno del consiglio co-munale, assumendo cosí un preciso peso politico, dall’altra la frase sull’estre-ma mobilitas voluntatis del tribuno è chiaramente un’espansione di « Ora la-crimava, ora sgavazzava ». In questa situazione è molto probabile che il bra-no latino fosse stato scritto dall’Anonimo nel margine della sua copia di la-voro, o piuttosto di una copia in pulito che andava in parte diventando una copia di lavoro, e che la traduzione e inserzione del brano nel testo volgare avrebbe comportato anche l’eliminazione di « Ora lacrimava, ora sgavazza-va ».

Il racconto della lapidazione del senatore Bertoldo Orsini è uno dei tan-ti capolavori dell’Anonimo. Il senatore muore in silenzio, un silenzio che sembra persistere nell’abbandono del suo cadavere: « Non fece motto alcu-no. Morto che fu lassato,28 onne persona torna a casa » (p. 221). Segue imme-diatamente un brano latino sulla fuga del secondo senatore, Stefanello Co-lonna, a cui riesce quello che non riuscirà a Cola (ivi):

Senator collega turpiter per funem demissus deformis pileo per posticam palatii obvoluta facie transivit ad domum.

Nonostante la brevità, questo brano è accomunato a quelli esaminati in pre-cedenza da un alto grado di elaborazione formale: senza insistere sul ric -co tessuto di allitterazioni, farò notare il sottile chiasmo « per funem demis-

nica’ d’Anonimo romano, in « Contributi di filologia dell’Italia mediana », n. 5 1991, pp. 5-22, a p. 12. In Porta il brano compare come « […] pecorella. Queti non […] ».

28. Seguo l’interpunzione proposta da F.A. Ugolini, Intorno a una recente edizione della ‘Cro-naca’ romanesca di Anonimo, in « Contributi di dialettologia umbra », a. ii 1983, fasc. 6 pp. 57-109, a p. 80. Porta interpunge « Morto che fu, lassato ».

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sus deformis pileo per posticam palatii obvoluta facie », in cui l’Anonimo incrocia i dati sul camuffamento e le vie della fuga esperite dal senatore. Ma a diffe-renza di quelli esaminati in precedenza, questo brano configura un’unità narrativa autonoma rispetto al testo che lo contiene, e tuttavia indispensabi-le, poiché subito dopo l’Anonimo parla di due senatori, mentre in prece-denza aveva parlato del solo Bertoldo. Se la narrazione del sollevamento popolare con cui si apre il capitolo xxvi figurava già nella prima redazione latina (cosa di cui a rigore non si può essere certi), essa doveva contenere un brano sul senatore fuggiasco. Cosa ne abbia fatto l’Anonimo è impossibi-le dirlo. Il capitolo xxvi è particolarmente ricco di inserti latini ed è quello cronologicamente piú avanzato della Cronica (si conclude con l’aggiunta sul-la battaglia di Poitiers e la prigionia di Giovanni II): si potrebbe anche pen-sare che ci sia giunto in uno stadio redazionale piú provvisorio rispetto agli altri capitoli. L’Anonimo in questo caso potrebbe essersi riservato di svilup-pare un passo contenente una vicenda la cui natura di prefigurazione rove-sciata della sorte del suo massimo e piú controverso eroe avrebbe certamen-te meritato ai suoi occhi una speciale attenzione narrativa.

Il brano latino piú cospicuo della Cronica è quello relativo allo sfortunato tentativo del Malatesta, capitano delle milizie fiorentine, di portare aiuto a Lucca assediata dai Pisani. Il Malatesta giunge al Serchio, ma si trova di fron-te « uno fossato esmesuratamente luongo e largo » scavato dai Pisani tra il fiume e la città (p. 93):

Quanno la matina missore Malatesta, paratis omnibus copiis tam ad pugnam quam etiam ad grasciam, transivit aquam diluculo, non potens transire ex impedimento valli, miratus stupefactusque retrocessit meavitque, per ripam fluminis ascendens, deditque circuitum miliaribus decem ferme, ibique improvise Pisanum exercitum invasit. Tum vero, facta resistentia factoque ingenti Florentinorum impetu, fessi Florentini terga dederunt. Multi cadunt, multi capiuntur. Vix Malatesta cum aliqui-bus evasit. Omnis eorum copia militibus preda fuit.29

Anche in questo caso il latino sembra tutt’altro che un appunto, o una traccia destinata unicamente a servire da base per la redazione di un brano in vol-gare: si noti il raddoppiarsi e l’affastellarsi dei verbi, miratus, stupefactus, retro-cessit, meavit, ascendens, dedit, che serve a rendere idea del trambusto che si

29. Segnalo che C2 (Roma, Biblioteca Casanatense, ms. 976), il piú antico manoscritto da-tato della Cronica (1550), lascia un piccolo spazio bianco alla fine del periodo precedente, che riempie con un segno ad angolo retto (ereditato dal suo antigrafo?), e comincia il periodo a riga nuova con una Q maiuscola.

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produce nel Malatesta e nel suo esercito nel momento in cui si trovano di fronte l’inattesa barriera. Dopo dedit segue invece una pausa, col successivo verbo invasit posto alla fine della frase successiva: un lungo giro sintattico che rende l’idea del lungo percorso fatto dal Malatesta e poi del repentino attacco portato alle milizie pisane. Quello che segue mostra un Anonimo latino che ricorda da presso il suo alter ego volgare: le frasi brevi, il cui incal-zarsi è reso ancor piú concitato dall’anafora e dalle allitterazioni, esprimono bene il precipitare dell’azione. La narrazione dell’assedio non va oltre que-sto brano latino, al termine del quale l’Anonimo registra nella forma piú scarna l’esito finale di tutta l’operazione: « Alla fine Pisani venzero Lucca per forza de fame » (p. 93).

In realtà l’Anonimo sintetizza in maniera estrema un complesso fatto d’armi avvenuto il 2 ottobre 1341, fatto di cui doveva aver avuto notizie som-marie e confuse, come si potrebbe agevolmente evincere da un confronto con le altre fonti coeve (l’Anonimo sbaglia anche il nome del condottiero delle milizie fiorentine, che in quel momento non era il Malatesta, bensí Matteo da Ponte Carradi).30 Il racconto della fatale disavventura del Mala-testa non poteva non figurare anche nella originaria redazione latina della Cronica. L’Anonimo aveva cominciato a tradurre questo brano, ma si inter-ruppe subito, e decise di trascriversi il latino come promemoria, evidente-

30. Cfr., tra gli altri, B. Marangone, Croniche della città di Pisa, in Rerum italicarum scriptores, Firenze, P.C. Viviani, vol. i 1748, coll. 307-842, alle coll. 691-95; Corpus Chronicorum Bononien-sium, a cura di A. Sorbelli, ivi, Città di Castello, Lapi, vol. xviii 1906-1914, pp. 1-720, fasc. 132- 34 1914, alle pp. 500-2; Annales Arretinorum Maiores et Minores [aa. 1192-1343], a cura di A. Bini e G. Grazzini, ivi, vol. xxiv to. i 1909, pp. 1-45, alle pp. 33-34; Storie Pistoresi [mccc-mcccxlvii], a cura di S.A. Barbi, ivi, vol. xi to. v 1914, pp. 1-385, alle pp. 169-70; Ranieri Sardo, Cronaca di Pisa, a cura di O. Banti, Ist. Storico Italiano per il Medio Evo, 1963, pp. 92-94; G. Villa­ni, Nuova Cronica, xii 134, ed. critica a cura di G. Porta, [Milano]-Parma, Fondazione Pietro Bembo-Guanda, 1991, vol. iii pp. 262-68; Cronica di Pisa dal ms. Roncioni 338 dell’Archivio di Stato di Pisa, ed. e commento a cura di C. Iannella, Roma, Ist. Storico Italiano per il Medio Evo, 2005, pp. 113-18. Il Malatesta in realtà intervenne solo dopo la disfatta dei fiorentini. Si può confrontare il testo dell’Anonimo con la cronaca B delle cronache bolognesi, sintetica quanto l’Anonimo ma decisamente meglio informata: « Et feceron loro capetanio meser Malatesta segnore de Rimene. El quale messer Malatesta con tuto l’exercito de’ Fiorentini andoe per levare le campo de’ Pisani da Lucha e per fornire Lucha de gente e de vitualia. Ma tanto era cressuto el fiume Serchio, che non posserono passare, e oltra quello tante erano le bastie le quale avevano facte li Pisani intorno Lucha, ch’era non possibele a fornire Lucha. Unde las-sando stare Lucha assediata, meser Malatesta con lo suo exercito andoe molestando certe ca-stelle de’ Pisani, e senza prender alcuno, egli retornoe a Fiorenza con tuto l’exercito » (ed. cit., p. 500). Vd. anche L. Green, Lucca under Many Masters. A Fourteenth-Century Italian Commune in Crisis (1328-1342), Firenze, Olschki, 1995, pp. 143-47.

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mente pensando di tornarvi in un momento successivo. Perché l’Anonimo si sia interrotto cosí bruscamente non lo sapremo mai: forse voleva dare al fatto d’armi uno spazio maggiore, e questo gli avrebbe richiesto uno sforzo che in quel momento non era in grado di fare, forse si sentiva in difetto di documentazione o forse vi furono altri motivi destinati a rimanere impon-derabili. Certo è che questo brano latino viene a costituire un paragrafo au-tonomo, che è difficile immaginare collocato senza alcuna soluzione di con-tinuità nel testo volgare, cosí come lo leggiamo nei manoscritti cinquecen-teschi e succes sivi.

6. Assetto e tradizione della Cronica alla luce dei passi latini

È venuto il momento di fare alcune considerazioni complessive sui passi latini esaminati in quest’ultima parte dell’articolo, ovvero su quei brani lati-ni che, non avendo carattere formulare o proverbiale, non sarebbero stati destinati a sopravvivere in una redazione compiuta della Cronica in volgare. Sono brani eterogenei dal punto di vista quantitativo, andando dal Celeriter illi vadunt della rivolta contro madonna Cia al brano sull’assedio di Lucca che si è appena letto, ma sulla loro natura si possono formulare due ipotesi uni-tarie.

La prima è che si tratti di semplici aggiunte operate dall’Anonimo in se-guito ad una rilettura del testo. In questo caso bisognerebbe ipotizzare che l’Anonimo avesse nel latino la lingua spontanea, naturale della scrittura, ov-vero che il latino fosse la prima lingua dell’Anonimo scrittore, cosa che non desta particolari difficoltà. Le difficoltà sono piuttosto costituite dal grado di elaborazione formale che i brani piú lunghi presentano, difficilmente com-patibile con lo status di appunto di lavoro, e dal fatto che alcuni di questi bra-ni appaiono necessari alla coerenza della narrazione. Una seconda ipotesi, meno economica ma piú affascinante, è che questi brani provengano dall’o-riginaria redazione latina e rappresentino quindi dei frammenti di tale reda-zione: l’Anonimo potrebbe aver recuperato dalla versione latina alcuni bra-ni che non aveva sviluppato a sufficienza o che aveva del tutto omesso nella versione volgare. Questo per tener fede all’assunto esposto nel prologo, se-condo il quale la versione volgare doveva essere piú “ordinata” e “copiosa” di quella in latino, che quindi in linea di massima non avrebbe dovuto conte-nere brani e notizie che risultassero assenti da quella in volgare, tanto piú se quei brani erano piccoli pezzi di bravura, il cui volgarizzamento avrebbe contribuito a conferire al volgare quell’eccellenza formale che era sicura-mente nei voti dell’Anonimo quando intraprese il lavoro di traduzione. È

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ovviamente impossibile pronunciarsi con certezza in favore dell’una o del-l’altra ipotesi, ma la mia opzione va ad un Anonimo che, arrivato ad uno sta-dio avanzato del lavoro sul testo volgare, operi una ricollazione, sia pure non sistematica, del nuovo testo con l’originale latino, recuperando quello che, sia pure per semplice calo d’attenzione, era rimasto fuori o era stato espresso in maniera parziale.

Qualunque delle due ipotesi si voglia sostenere, è certo che questi brani latini, nell’originale dell’Anonimo, non potevano stare nel corpo del testo cosí come figurano nella tradizione manoscritta della Cronica. Sarei presso-ché sicuro che l’Anonimo abbia vergato questi brani nel margine di una co-pia del testo volgare che era ancora una copia di lavoro, o che lo stava ridi-ventando proprio con l’aggiunta di quei brani. In una futura edizione criti-ca della Cronica questi brani andranno tolti dal corpo del testo e collocati in un’apposita fascia d’apparato. Si tratta di un materiale esiguo, ma prezioso, perché rappresenta la sola finestra che ci permetta di vedere l’Anonimo al lavoro sul suo testo, sia pure in fase di revisione piú che di creazione.

A questo punto si pone un’altra, e finale, questione. Chi inserí i brani la-tini nel testo volgare, senza porsi il problema della loro sostanziale, oltre che linguistica, estraneità a quel testo? Certamente colui che mise insieme l’ar-chetipo. Sull’archetipo della Cronica Porta ha scritto una densa pagina nella sua edizione, senza però avventurarsi in ipotesi di datazione, ma notando che « Il suo cattivo stato di conservazione fornisce una base concreta all’i-dea, già suggerita dalla tarda età dei codici, della distanza che separa le copie per venute dall’originale » (p. 340). Chi maggiormente si è occupato del pro-blema dell’archetipo della Cronica è stato Castellani, in una serie di articoli31 nei quali ha decisamente collocato l’archetipo, da lui siglato con X, nel Cin-quecento, escludendo sia la fine del Trecento, sia il Quattrocento. Gli argo-menti di Castellani sono in larghissima prevalenza di natura paleografica, e hanno portato lo studioso a proporre un “identicatore” dell’antigrafo di X; il problema è che lo studioso è venuto via via riducendo, attraverso una se-rie di “palinodie”, i materiali sui quali basava le sue ipotesi, e conseguen-temente è venuto anche mutando il profilo dell’antigrafo di X, passando dall’idea che « fosse un manoscritto della seconda metà del Trecento in litte-ra textualis » a quella, formulata in modo meno reciso, che si potesse trattare di « un manoscritto della seconda metà del Trecento in lettera semicorsi-

31. Si tratta dei cit. Note di lettura e Ancora sulla ‘Cronica’, ai quali va aggiunto Ritorno all’Ano-nimo romano, in S.L.I., vol. xviii 1992, pp. 238-50 (anche quest’ultimo lavoro è ristampato in Castellani, Nuovi saggi, cit., pp. 1130-43, da cui le citaz. che seguono).

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va ».32 Sulla natura di questo antigrafo di X Castellani ha preferito non pro-nunciarsi. A parte l’esile e controverso caso di rechiesa,33 la datazione di Ca-stellani si basa fondamentalmente sull’idea che fraintedimenti grafici come pentolosa per pericolosa, guisarina per guisarma, clinora per elmora, posana per pi-scina (o pescina o poscina),34 pontani per poitrani siano difficili da spiegare in un copista trecentesco, o almeno che tali fraintendimenti siano piú facili a pro-dursi in una mano del Cinquecento piuttosto che in una del Trecento.

In realtà questo è un assunto intrinsecamente debole, perché la pratica di collazioni insegna che i copisti coevi ai testi copiati sono esposti al rischio di errori, anche grossolani, non meno di quelli delle epoche successive. Se il copista è semplicemente un copista, spesso non si preoccupa affatto del si-gnificato di quello che sta trascrivendo, se invece – come potrebbe essere il caso di chi redasse l’archetipo della Cronica – è una persona interessata al testo, ma non un copista di professione, può commettere ogni sorta di erro-ri paleografici, sia per incuria del fatto grafico, sia per stanchezza e sbadatag-gine. Senza voler mettere in discussione l’esistenza di un anello di primo Cinquecento nella tradizione della Cronica,35 mi chiedo se i passi latini non permettano di affrontare il problema di X da una prospettiva nuova. Un’ope-razione filologicamente disinvolta come l’inserzione dei passi latini dal mar-

32. Risp. Ancora sulla ‘Cronica’, p. 1074, e Ritorno all’Anonimo Romano, p. 1142. In realtà il pro-blema del tipo di scrittura dell’antigrafo di X, che a mio parere può identificarsi con l’origina-le dell’Anonimo, andrebbe impostato in maniera un po’ piú concreta, a partire dalle scritture utilizzate da personaggi di cultura romani coevi all’Anonimo. Un ottimo punto di partenza potrebbe esser fornito da M. Petoletti, « Nota valde et commenta hoc exemplum »: il colloquio con i testi nella Roma del primo Trecento, in Talking to the Texts: Marginalia from Papyri to Print. Procee-dings of a Conference held at Erice, 26 september-3 october 1998, ed. by V. Fera, G. Ferraú, S. Rizzo, Messina, Centro interdipartimentale di studi umanistici, 2002, vol. i pp. 359-99.

33. Sul quale vd. Ancora sulla ‘Cronica’, pp. 1065-68; vd. anche V. Formentin, Nuovi rilievi sul testo della ‘Cronica’ d’Anonimo romano, in « Contributi di filologia dell’Italia mediana », n. 16 2002, pp. 24-29.

34. Quest’ultimo emendamento è stato proposto dalla Bertolini, Proposte interpretative e testuali, cit., p. 22.

35. V. Formentin, Tra storia della lingua e filologia: note sulla sintassi della ‘Cronica’ d’Anonimo romano, in « Lingua e Stile », a. xxvii 2002, pp. 203-50, ha affrontato il problema della datazione dell’archetipo muovendo dall’analisi della sintassi del testo. Le sue conclusioni sono riassunte in sei punti « corrispondenti ai sei tratti sintattici sistematicamente verificati entro un corpus rappresentativo della langue romanesca dalla metà del Duecento alla fine del Cinquecento » (p. 248). Anche da questa prospettiva però mi sembra che la necessità di postulare un archetipo cinquecentesco non sia troppo stringente, poiché soltanto uno dei sei punti costringerebbe a pensare ad una « trascrizione archetipica tarda », ovvero la presenza di sette eccezioni alla legge Tobler-Mussafia, pur contenute in un quadro in cui l’obbligo dell’enclisi viene « generalmen-te rispettato ».

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gine nel testo è piú probabile che sia avvenuta nel tardo Trecento o nel pri-mo Cinquecento? Ovvero, per formulare la questione in modo piú appro-priato, alla fine del Medioevo o tra Umanesimo e Rinascimento (si può far rientrare in gioco anche il Quattrocento)?

Da Coluccio Salutati in avanti, la storia della filologia umanistica è tutta un mettere in guardia contro l’arbitrio dei copisti che inseriscono nel testo varianti e glosse originariamente collocate nel margine.36 Sebbene qualche testimonianza di un’attenzione a non trasferire nel testo le glosse marginali sia reperibile anche per il Medioevo,37 non c’è alcun dubbio che nel pieno Cinquecento la sensibilità a questo problema fosse infinitamente piú forte di quanto non poteva essere negli ultimi decenni del Trecento. Naturalmen-te questa considerazione vale per gli ambienti di cultura umanistica e, pur premesso che degli ambienti in cui fu recuperata la Cronica di fatto non si sa nulla, non sarebbe comunque prudente considerarli contigui al citato milieu. Eppure, a giudicare dallo scrupolo con cui i testimoni cinquecenteschi in no-stro possesso hanno conservato, e in alcuni casi evidenziato, le lacune gran- di e meno grandi che si erano prodotte nell’archetipo, e che figuravano nei loro antigrafi,38 occorre dire che questi copisti cinquecenteschi erano anima-

36. Vd. ad es. S. Rizzo, Il lessico filologico degli umanisti, Roma, Edizioni di Storia e Letteratu-ra, 1973, pp. 227-28 e 234, e M. Campanelli, Le ‘Observationes’ di Domizio Calderini. Polemiche e filologia ai primordi della stampa, ivi, id., 2001, pp. 194-95.

37. Ne ha individuate tre M.D. Reeve, Misunderstanding Marginalia, in Talking to the Text, cit., vol. i pp. 289-300, ristampato in Id., Manuscripts and Methods: Essays on Editing and Transmission, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2011, pp. 135-44, anche se una delle tre risale a Lupo di Ferrières, la cui sensibilità ai problemi del testo è del tutto eccezionale e senz’altro degna dei migliori filologi dell’età umanistica.

38. In particolare, come segnalato da Porta nella sua ed. della Cronica (p. 333), i manoscritti del gruppo b non si sono limitati a lasciare spazi bianchi, ma hanno anche segnalato la grande lacuna, che ci ha privato della fine del capitolo iii, del iv e dell’inizio del v, con frasi come « Qui mancha il fine, cioè delle connitione di Dante » e poi « Qui mancha il principio » (V8, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 11717, ff. 32v-33r). Queste segnalazioni non riguardano solo la grande lacuna dei capp. iii-v: V8 ad esempio scrive il titolo del cap. xvii e sotto aggiunge « Qui manca quesso capitolo », lasciando poi due carte bianche (f. 97r). O3 (ivi, Ottob. Lat. 2616) in corrispondenza della lacuna del cap. xxvii (p. 253) lascia tre righe bianche, nel mezzo delle quali scrive: « Hic deerat una carta » (f. 111v). Ch2 (ivi, Chigiano G II 63) per la stessa lacuna scrive « Qui manca una carta » al centro di una riga lasciata in bianco (f. 136r ; identica situazione nell’Ottob. Lat. 1511; anche il Vat. Lat. 5522 scrive « Qui manca una carta », ma lascia ben due terzi di pagina in bianco, f. 513r). Segnalo inoltre, anche se la cosa non mi sembra avere un particolare rilievo dal punto di vista del mio discorso, che in V5 (ivi, Vat. Lat. 6880), V8 e Ch2 molti dei brani latini sono vergati in un modulo maggiore del resto, con ductus meno inclinato e con iniziali maiuscole. Colgo l’occasione per segnalare che in Ch2, in margi-ne al f. 13v, dove si parla di fra’ Venturino, e in particolare da « lavati piedi », che è sottolineato,

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ti da un sentimento filologico o, se si preferisce, da un cospicuo scrupolo nel mantenere il piú possibile intatta quella che ai loro occhi doveva apparire come una letteraria reliquia, da trattare con tutte le relative cure testuali. In realtà il problema di capire quanto le acquisizioni della filologia umanistica si fossero travasate nell’ambito del volgare è un falso problema, perché qui non è questione di glosse o di varianti penetrate in un testo: chi copiò il ma-noscritto destinato a diventare l’archetipo non aveva dubbi sul fatto che i passi latini fossero dell’autore; ai suoi occhi l’inserimento di quei brani nel testo non doveva apparire un arbitrio, bensí una forma di salvaguardia del testo, un accorgimento volto a creare una sorta di testo aucto, in cui nulla avrebbe rischiato di perdersi. Un atteggiamento siffatto potrebbe collocarsi altrettanto bene nel tardo Medioevo come nell’Umanesimo o nel Rinasci-mento.

Ma se immaginassimo un redattore dell’archetipo vicino cronologica-mente e culturalmente analogo ai copisti dei manoscritti cinquecenteschi della Cronica, sarebbe difficile non rimaner sorpresi dal fatto che l’inserzione dei passi latini entro il corpo del testo volgare sia avvenuta senza che il redat-tore ponesse nella pagina alcunché atto a rammentare l’originaria colloca-zione di quei passi. Questo modo di procedere sarebbe stato contrario non solo alla specifica prassi dei copisti cinquecenteschi della Cronica, ma anche alla generale attitudine verso il testo propria della cultura cinquecentesca, poiché dopo la diffusione della stampa il confine tra il testo e il margine era diventato infinitamente piú avvertibile e rigido di quanto non fosse in pre-cedenza. In definitiva, se si dovesse valutare la questione soltanto sulla base dei passi latini, l’archetipo andrebbe piuttosto collocato nel tardo Trecento che non nel Cinquecento (o nel Quattrocento), cosa che ovviamente non vieterebbe di postulare un subarchetipo di primo Cinquecento, anche se i materiali messi insieme a tal fine, dopo tre articoli di Castellani e uno di

fino a « entrao [corretto in entraro] in Roma » (pp. 25-26), si legge: « Quello che si fa dalli fratel-li della copagnia [sic] della Trinità di Ponte Sisto et massime l’anno santo del 1575 ». La nota è vergata da quella che Porta individua come seconda mano postillatrice, posteriore a quella che ha copiato il testo e una prima serie di postille marginali. Porta datava questa mano al XVII secolo, datazione che sarà meglio anticipare. Ma soprattutto questa nota costituisce un termi-nus ante quem che consente di ritenere tale manoscritto il piú antico a noi noto dopo C2, che è datato 1550 (cfr. la nota di Porta nel commento alla Cronica, p. 320) e al quale Ch2 potrebbe a questo punto avvicinarsi non poco. Segnalo anche un’altra postilla della stessa mano, vergata in margine alla storia di re Alfonso e della sua badascia Leonora (cfr. p. 89): « Il re Alfonso odia la Reina, ama una sua concubina nominata Leonora né potea stare senza essa lei, come a’ tempi nostri il Gran Ducha di Toschana Francescho amò la Biancha Cappella Venetiana » (f. 49r).

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gli inserti latini nella cronica dell’anonimo romano

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Formentin, appaiono ancora troppo esigui. L’antigrafo di un eventuale ar-chetipo di tardo ’300, a mio parere, non potrebbe essere altro che l’originale, ovvero la copia di lavoro, dell’Anonimo, di cui proprio l’allestimento dell’ar-chetipo segnò l’inevitabile e facilmente pronosticabile fine.39

Maurizio Campanelli

A partire da una rilettura del brano del prologo della Cronica in cui l’Anonimo parla dell’originaria redazione latina del testo, avanza una proposta di integrazione per una lacuna e quindi procede all’analisi delle formule, citazioni, espressioni solenni latine che punteggiano il testo volgare. Individua cosí quattro luoghi che aprono uno spiraglio, sia pur minimo, sul modo di lavorare dell’Anonimo e offre alcune riflessioni sul rapporto tra la versione volgare e l’originaria redazione latina alla luce del brano sulla battaglia di Poitiers, sempre citato per la datazione della Cronica. Formula infine un’ipotesi interpre-tativa dell’origine e delle funzioni dei brani latini inseriti nell’opera e quindi sulla tradi-zione della Cronica nella fase che andò dall’originale all’archetipo.

By giving an analysis of the passage of Anonimo Romano’s Cronica, in which the author men-tioned a previous Latin draft of the text, this paper offers a new hypothesis for a text lacuna. Then, it examines all the Latin formulas, quotes, and solemn expressions of the vernacular text, so as to high-light four probably significant passages for understanding the way the Anonymous worked. Further-more, it reconsiders the relation between the vernacular and the Latin version by focusing on the passa-ge of the battle of Poitiers, which is a key reference for dating the entire work. Lastly, it gives an inter-pretation on the origin and uses of all the Latin passages of the work and on the textual tradition of the Cronica at the passage from the original manuscript to the archetype.

39. Ringrazio Vittorio Formentin per aver letto in anteprima questo saggio, dandomi pre-ziosi suggerimenti, e per avermi consentito di leggere il suo Approssimazioni al testo e alla lingua della ‘Cronica’ d’Anonimo romano mentre era ancora in bozze.


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