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CREDITO 1 MOD. 1
Il problema della conoscenza nel pensiero filosofico: un excursus
La nozione di intersoggettività si fonda oggi in modo pressoché unanime sull’ipotesi
che i fenomeni psicologici si sviluppino e consolidino entro una matrice relazionale
intrinsecamente dinamica. Questo consente di considerare l’attività conoscitiva non più
come il prodotto di meccanismi intrapsichici isolati ma come il frutto dell’interfaccia tra
mondi d’esperienza diversi che interagiscono tra loro.
Così la ricerca non si circoscrive al limite angusto della singola psichicità, ma prende
coscienza dell’alterità, della relazione tra soggetto e oggetto, individuando al tempo stesso
le condizioni di possibilità di rapporto e comunicazione tra questi due poli.
Già Husserl aveva messo in luce il fatto che un mondo oggettivo esterno può essere
sperimentato solo da diversi soggetti in rapporto fra loro, cioè da una molteplicità di
individui conoscenti in rapporto di scambievole comprensione, per cui l’esperienza di altri
individui sarebbe presupposta alla conoscenza del mondo esterno.
In realtà questa nuova ed entusiasmante prospettiva è l’esito di un lungo e tortuoso
cammino, che demolendo certezze ben radicate nella tradizione occidentale, ci ha
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riconsegnato una nuova immagine di soggetto, considerato nella sua inscindibile unità di
mente e corpo e in reciproco adattamento armonico con l’oggetto della sua conoscenza.
Da un lato infatti, uno dei pregiudizi più radicati della nostra civiltà, che si può far
risalire ai Greci ma che si è accentuato nell’età moderna, è quello secondo cui conoscere
qualcosa o saper fare qualcosa equivarrebbe ad averne una teoria, cioè una descrizione analitica, rigorosa ed esauriente, sotto forma di regole o algoritmi. Questo pregiudizio è
strettamente intrecciato con un altro, secondo il quale l’intelligenza che dimostra un
teorema matematico sarebbe superiore a quella che ci fa distinguere il volto di un amico da
quello di un nemico o che ci fa attraversare una strada piena di traffico. In realtà tutti noi ci
comportiamo in modo intelligente nel mondo pur non avendone una teoria e l’intelligenza
astratta della mente non potrebbe esistere se non ci fosse l’altra, robusta ed implicita,
incarnata nella struttura e nelle funzioni del corpo e nella sua prontezza all’azione (Longo,
1996).
La negazione del corpo e la preminenza accordata alla razionalità pensante o addirittura
computante ha una delle sue radici nel cogito cartesiano. Il dualismo cartesiano derivava
forse da un impoverimento eccessivo del concetto di res extensa, cui, non potendosene
valutare la straordinaria e raffinatissima complessità, venivano attribuite solo proprietà
meccaniche elementari: sta di fatto che tutta la nobiltà veniva conferita all’attività pensante,
mentre il corpo veniva degradato a mero supporto.
Non solo. Il conseguente riduzionismo meccanicistico ha come presupposti che il
soggetto e l’oggetto della conoscenza possano essere separati e, in più, che il soggetto possa
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osservare l’oggetto da una distanza infinita, sottraendosi così ad ogni influenza e
interazione con quello.
Ma è un presupposto insostenibile quando si vogliano affrontare certi fenomeni in cui
l’uomo e il contesto sono appunto in stretta interazione: da una parte i fenomeni
microscopici studiati dalla meccanica quantistica, dall’altra i fenomeni che riguardano
l’emozione, l’estetica, l’etica e la comunicazione in genere, cioè quelli tipicamente creaturali che gli strumenti della descrizione fisico-matematica anatomizzano senza poterne
rendere un’immagine sensata. In questi casi, soggetto e oggetto si coinvolgono e si
ritrovano all’interno di un unico metasistema che da loro trae senso e che a sua volta dà
loro senso.
[Il soggetto] acquista una “conoscenza” dell’oggetto di natura diversa, perché non è
più un soggetto esterno, ma diventa un soggetto “interno” a un metasistema che lo
comprende insieme all’oggetto, e questo coinvolgimento induce in lui, in quanto
organismo integrato di cervello e di visceri, un insieme di reazioni fisiche e mentali
diverse da quelle che provoca in lui l’esperienza di chi descrive dall’esterno in che
modo altri soggetti interagiscono con gli oggetti con i quali sono a loro volta
coinvolti attraverso intense esperienze emotive (Cini, 1999).
Quando il soggetto - considerato nella sua inscindibile unità di mente e corpo - e l’oggetto
si trovano coimplicati, il flusso d’informazione si struttura in un circolo, vizioso o virtuoso,
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tipico dei fenomeni di auto-organizzazione, dai quali scaturiscono proprietà “emergenti”
che non si riscontrano nelle componenti in interazione. Questo è un argomento forte per
sostenere la necessità di più forme di conoscenza, di descrizione e di spiegazione tra loro
irriducibili, ciascuna delle quali illumina un aspetto o livello del fenomeno. Non esistono
verità assolute attingibili adottando un’unica descrizione o un unico punto di vista. Secondo
Francisco Varela la coimplicazione tra soggetto e oggetto è sempre all’opera:
nell’interazione circolare tra la mente propria e le menti altrui, da cui scaturisce una sorta di
mente collettiva, e tutti i processi cognitivi emergono da un circolo di questo tipo, immerso nel concreto, nella storicità incorporata, nel contesto biologico vitale. I processi
sensomotori, la percezione e l’azione sono inseparabili dalla cognizione in quella che
Varela chiama visione “enattiva” e che recupera alcune idee di Maurice Merlau-Ponty.
Dice Varela:
Per la tradizione computazionista dominante il punto d’inizio per la comprensione
della percezione è squisitamente astratto: il problema dell’elaborazione
dell’informazione nel recupero di proprietà del mondo preesistenti. All’opposto il
punto di partenza dell’approccio enattivo è lo studio di come il percettore guida le
sue azioni all’interno di situazioni locali. Siccome queste situazioni mutano
continuamente come risultato dell’attività del percettore, il riferimento per
comprendere la percezione non è più un mondo preesistente e indipendente dal
percettore, ma piuttosto la struttura sensomotoria dell’agente cognitivo. [...] É
questa struttura, il modo in cui il percettore è incorporato, piuttosto che qualche
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mondo preesistente, che determina come il percettore può agire ed essere modulato
dagli eventi ambientali. [...] La realtà non viene dedotta come un dato: dipende dal
percettore, non perché il percettore la “costruisce” secondo la propria fantasia, ma
perché ciò che viene considerato come mondo pertinente è inseparabile dalla
struttura del percettore. [...] Quindi la percezione non è semplicemente inquadrata
nel mondo circostante e da esso vincolata, ma contribuisce anche all’enazione di
questo mondo circostante [...] Organismo e ambiente sono legati insieme in una
reciproca descrizione e selezione (Varela 1994).
Insomma, al contrario di quanto sostiene la tradizione cartesiana, il mondo che noi
percepiamo e in cui agiamo si forma nell’interazione circolare coimplicante da cui
scaturiscono sia l’immagine che noi ci formiamo di esso sia il modo che adottiamo per
offrirci alle sue azioni.
Quello che mi preme comunque mettere in risalto è la modalità attraverso la quale è
stato possibile arrivare fino a questo punto, e cioè il recupero della corporeità, non più
scissa dalla sfera mentale, ma cruciale locazione da cui si avvia il processo cognitivo;
solo così infatti, è stato possibile liberarsi da un lato dallo statuto sostanziale del soggetto
pensante disincarnato, e dall’altro dalla visione di un mondo già dato e predisposto secondo
precise qualità preconfezionate.
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Si tratta proprio della corporeità, della nostra collocazione materiale, che non può più
essere messa a tacere perché, la conoscenza si rivela priva di fondamento, al di là del suo
radicamento nella corporeità.
Al soggetto diviene dunque possibile entrare in relazione col mondo e “abitarlo”
proprio attraverso la porta della sua corporeità; se questo non avvenisse, la comunione
come comune in-divisione tra i due non si realizzerebbe (Maurice Merleau-Ponty 1989,
p.19).
Anche a proposito del controverso nesso mente-cervello e del suo indebito riduttivismo,
filosoficamente dibattuto soprattutto nell’area di ricerca analitica della Theory of Mind,
nell’ultimo decennio è stata la neurofisiologia a compiere passi da gigante e a confermare
indirettamente le analisi fenomenologiche di Husserl, Stein e Merleau-Ponty su soggettività
e intersoggettività, sino al punto di formulare l’esigenza di fenomenologizzare le neuroscienze cognitive, piuttosto che naturalizzare la fenomenologia. Un maggiore dialogo
tra neuroscienze e fenomenologia è non solo auspicabile, ma necessario. La ricerca
neuroscientifica futura dovrà sempre più concentrarsi sugli aspetti in prima persona
dell’esperienza umana e cercare di studiare meglio le caratteristiche personali dei singoli
soggetti di esperienza.
Ripercorrere le tappe principali del lungo e difficile cammino alla scoperta di una nuova
visione del soggetto, scambievolmente coinvolto nella conoscenza del mondo, nella
conoscenza dell’Altro, è l’obiettivo di questo corso.
CREDITO 1 MOD. 2
Il problema della conoscenza nel pensiero filosofico: un excursus
Nelle principali lingue indo-europee, il termine conoscenza è assunto, sia pure nei
margini piuttosto elastici dall’uso quotidiano e letterario, in due gruppi di significati
abbastanza costanti: a)“conoscere di persona”, “riconoscere”, “venire in presenza di”,
“entrare in contatto con”, “saper fare” (ghighnòs-kein, agnoscere, conoscere, kennen
lernen, knowledge by acquintance, knowing how, ecc.); b)“essere informato su”,
“possedere notizie intorno a”, “avere nozioni di”, “sapere che”(eidènai, almeno nell’uso
più recente, scire, wissen, knowledge about, knowing that, ecc.).
Nell’ambito di queste due accezioni che potrebbero essere dette, della conoscenza-
contatto e della conoscenza-parola, il pensiero filosofico ha tematizzato tre principali
aspetti sotto i quali la conoscenza acquista rilevanza nel conteso dei suoi problemi. Nel
linguaggio filosofico si è sempre parlato in effetti della conoscenza o dal punto di vista
del soggetto conoscente come di un sua attività (precisamente l’attività conoscitiva), o
dal punto di vista del rapporto tra il soggetto e l’oggetto come di una struttura
relazionale, della coscienza, o infine dal punto di vista dello stesso oggetto o contenuto
conoscitivo (più esattamente si direbbe in questo caso, nella lingua italiana "le
conoscenze" anziché la conoscenza).
Sotto il primo aspetto, è noto che già specialmente la tradizione socratica intendeva la
conoscenza come un èrgon opera. E’ il senso del famoso inizio della Metafisica: «tutti
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gli uomini tendono per natura al conoscere», che Pascal, trascriverà in termini più consapevolmente assiologici: «tutta la dignità dell’uomo consiste nel pensiero». Ma di
quale natura è l’attività conoscitiva? Ed è possibile distinguere da altre forme di
attività umana quali sono le attività del volere o del sentire o del fare? Si sa quante
discussioni anche recentemente ha sollevato questo problema, al quale già la filosofia
antica aveva dato le più contrastanti risposte, dalla contrapposizione platonica, alla
identità plotiniana di thèoria e pràxis. Di fatto, i termini in cui fu posto furono tutt’altro
che univoci nella tradizione filosofica del pensiero europeo, riflettendosi molto spesso
nelle polemiche delle varie e ed opposte correnti e scuole, l’ambiguità non risolta del
significato originario del conoscere.
E’ chiaro che quanto più si accede al primo dei due sensi che abbiamo definiti, tanto
più tende a scomparire ogni distinzione della conoscenza dalle altre forme di attività
vitale. Così per esempio il Bergson per il quale la conoscenza educativa vive di una
visione profonda e si installa nello svolgimento della sua durata, finirà col far coincidere
in identica accezione questo più autentico conoscere con il sentire e il volere. Anch’egli
distingue in questo senso due specie molto differenti di conoscenza, l’una statica,
mediante concetti, dove c’è in effetto separazione tra ciò che conosce e ciò che è
conosciuto, l’altra dinamica, per intuizione immediata, dove l’atto di conoscenza
educativa coincide con l’atto generatore della realtà. Ma quando al contrario, si ponga
l’accento sopra il carattere di irrealtà simbolica della conoscenza, si sarà condotti ad
epurare da ogni senso vitale o pratico il concetto di attività conoscitiva. Di questo
conoscere “purificato da tutto ciò che non è essenziale”, parla tra gli altri molti, lo
Schopenhauer, contrapponendolo alla conoscenza, asservito alla volontà vitale nella quale la dimensione educativa avrebbe il suo peso. In realtà il problema del rapporto del
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conoscere in funzione dell’attività vitale, in tutte le sue forme ed il conoscere puramente
contemplativo resta tuttora aperto ed occupa un posto centrale nel pensiero filosofico
contemporaneo. Si raccolgono intorno ad esso, oltre che il dissidio in seno al
neoidealismo italiano tra il Croce ed il Gentile, anche le opposte concezioni della verità
che dividono tra metafisici ed antimetafisici, da Heidegger a Dewey e a Popper, dalla
fenomenologia al positivismo logico.
Considerata come una struttura relazionale della coscienza, cioè come una forma del
rapporto soggetto-oggetto, la conoscenza è stata tradizionalmente distinta in immediata
e mediata dove l’educazionale trova senso e significato. Forse si possono ricondurre a
questa distinzione in ultima analisi le molte altre che sono state variamente proposte
nella storia del pensiero filosofico per determinare la conoscenza appunto nella sua
qualità di modo coscenziale. Ma non si tarda ad accorgersi poi di quanto risulti
differente l’uso che la gnoseologia ha fatto del termine di conoscenza immediata (e, per
conseguenza, di quello di mediazione). E’ immediata tanto l’apprensione di un dato
sensoriale quanto l’intuizione dei primi principi della ragione tanto la percezione
individuale. La conoscenza immediata ora è posta come la forma più povera del
pensiero e dunque tale da dover essere oltrepassata o integrata dai procedimenti
discorsivi della ragione, ora viene dichiarata come la conoscenza più genuina e concreta
da recuperare al di qua della sofisticazione dei discorsi; ora viene fatta coincidere con
l’irrazionalità di un oscuro sentire, ora è proposta come il modello e la norma di ogni conoscenza vera. In effetto, anche questa grande varietà di determinazioni della nozione
di conoscenza immediata deve essere fatta risalire alla distinzione dei due significati
originari del conoscere.
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A questi certamente si riconnettono le due più costanti tradizioni moderne del
concetto di intuizione, che ha avuto inizio e l’accento rispettivamente da Cartesio e da
Kant e in cui si convogliano in definitiva tutte quelle determinazioni. Per Cartesio la
conoscenza intuitiva è semplicemente “la concezione evidente”, o il puro manifestarsi di
idee “la cui conoscenza è così chiara e così distinta che l’intelligenza non può dividerle
in altre di maggior numero che siano conosciute più distintamente”. Per Kant la
conoscenza intuitiva è piuttosto la conoscenza determinata di qualcosa che è
immediatamente presente al soggetto, cioè a dire, nella condizione umana del
conoscere, la conoscenza di ciò che ci è sensibilmente dato. Ci sono dunque due tipi di
immediatezza del conoscere intuitivo. C’è l’immediatezza che è propria della
conoscenza-contatto, ed è la “presenza”; e c’è l’immediatezza che è propria della
conoscenza-parola, ed è “l’evidenza” cioè la sua trasparenza espressiva e simbolica. Di
qui è facile rilevare che gli pseudo-problemi gnoseologici da cui sono germinate nel
pensiero contemporaneo vicendevolmente l’esaltazione del sensibile, del pragmatico e
del vitale, da un lato, e l’iperbole razionalistica in tutte le sue forme, dall’atro, sono sorti
dall’assurda pretesa o di sostituire la “presenza” alla “evidenza”, o di risolvere l’opaca
consistenza di quella dentro la pura formalità, divenuta necessariamente vuota o elusiva,
di questa. Così ad esempio, nel pensiero filosofico contemporaneo sono da scrivere senza dubbio a quell’equivoco talune esorbitanze della polemica esistenzialistica contro
l’“oggettivazione” o le impossibili richieste logiche del “problematicismo”, o la
rinascita neopositivistica di un “terminismo” irrimediabilmente chiuso dentro l’inanità
di un linguaggio che ha perduto ogni nesso con l’esistenza. Il vero problema era invece,
e rimane, quello di connettere piuttosto tra loro le due immediatezze della “presenza” e
della “evidenza”, non dovendo essere altro infine la conoscenza nel suo senso compiuto
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se non l’assunzione o la trasfigurazione della opacità del dato dentro l’infinita virtualità
rivelativa della parola.
Un analogo rilievo deve essere fatto da ultimo per quanto riguarda le distinzioni tra le
conoscenze e i contenuti dell’atto conoscitivo, dalle quali è stato in varia maniera
determinato lo schema di una divisione proposta dall’empirismo da Hume tra le
“relations of ideas” e le “matters of fact”. Secondo le diverse prospettive generali dei
loro problemi, i filosofi dell’educazione parlano delle prime come di conoscenze astratte
o innate o a priori o nozionali e delle seconde come di conoscenze concrete o empiriche
o a posteriori o esistenziali e via enumerando. Come è noto questa dicotomia di
qualificazione tende a porsi, specialmente nel pensiero moderno piuttosto come una
opposizione che non semplicemente una distinzione, assumendo in sostanza il carattere
di un giudizio di merito sopra la verità o non verità di quei contenuti conoscitivi. Di
volta in volta, ora facendosi valere l’istanza della “giustificabilità” o “validità delle
conoscenze”, ora quella della loro ricchezza o concretezza, si è opposto l’astratto o il
formale al concreto o materiale, l’universalità dell’a priori all’incoerenza dell’aposteriori, o viceversa l’indubitabilità e genuinità dell’esperienza alla fittizia ipoteticità
del nozionale. Ma anche queste opposizioni sono generate dal medesimo malinteso. Là
dove bisognava riguardare il formale o l’astratto come la stessa semanticità della parola,
e l’empirico o materiale come la presenzialità del dato, il primo fu invece inteso dagli
uni come una “riduzione” e dunque una deformazione e un impoverimento del dato
stesso.
Nel pensiero filosofico contemporaneo il positivismo logico, riproponendo il
problema della conoscenza formale come problema di analisi delle strutture
linguistiche, ha senza dubbio riportato quella nozione nel suo vero ambito, pur avendo
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poi il torto di disconoscere per un insuperato pregiudizio empiristico, la simbolicità
intelligibile della parola, cioè il suo carattere propriamente teoretico o metempirico.
Nella nuova “crisi della parola”, che travaglia di tensioni irrazionalistiche il pensiero
contemporaneo, in seguito alla riscoperta dell’originarietà o irriducibilità
dell’esistenziale, il problema della restaurazione della parola nella pienezza della sua
funzione rivelativa è di tale importanza da far convergere sopra di sé, oltre che
l’interesse di un’indagine gnoseologica, anche le più urgenti richieste della riflessione
morale ed educativa
CREDITO 1 MOD. 3
Il problema della conoscenza nel pensiero filosofico: un excursus
La conoscenza per contatto o partecipazione o “simpatia vitale” è la forma più
originaria dell’esperienza e nella sua genuina immediatezza costituisce il carattere
proprio della mentalità primitiva. Il conoscere il nostro legame consustanziale ci porta
come allora a imparare a “esserci”, a condividere, a comunicare, ed essere in
comunione. Si comincia per così dire ad instaurare una coscienza ecologica.
L’uomo primitivo osserva, il Cassirer, non manca affatto della capacità di afferrare le
differenze empiriche delle cose. Ma nella sua concezione della natura della vita tutte
queste differenze sono cancellate da un sentimento più forte: la convinzione profonda di
una fondamentale solidarietà vitale che va oltre la molteplicità e la varietà delle singole
forme della vita. L’uomo primitivo non assegna a se stesso il posto unico e privilegiato
nella scala della natura.
Nella mitologia greca il modello di questo tipo di conoscenza – che è piuttosto una
convivenza con le cose, un rinascere in esse, assumendo le loro stesse forme
prolungando in esse la propria vita – è forse espresso nella notissima legenda omerica
dell’indovino Proteo, il vecchio marino di Egitto che “conosce le profondità di tutto il
mare”. Egli entra nella conoscenza di tutte le cose, perché “diventa tutte le cose”,
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assumendo le forme di quanti animali esistano sulla terra e trasformandosi perfino in
acqua e in fuoco.
La conoscenza in questo senso consiste nel farsi simile alla cosa conosciuta,
divenendo operativamente simpatetica e comprensiva in una dimensione che oggi chiameremmo educazionale-partecipativa. Tuttavia è avvenuto che l’uomo diventando
interiormente maggiorenne, ha spezzato la propria naturale familiarità e dimestichezza
con le cose, ponendo in crisi la possibilità di una conoscenza immediatamente
partecipativa all’interno di quella “società della vita” che era il mondo della sua
primitiva esperienza. Gli odierni psicologi evoluzionisti fanno risalire questa crisi ad un
importante salto evolutivo compiutosi nella stessa facoltà umana del percepire,
nell’esercizio degli organi sensoriali di presa del reale. Il salto è consentito, nel regresso
dei sensi più immediatamente partecipativi, come il tatto e l’odorato, e nella importanza
preponderante che hanno assunto nella specie umana in tempi già storici i sensi della
separazione e della lontananza, quali sono la vista e l’udito. Anche gli storici della
scienza antica ritengono essenzialmente legato al progressivo predominio del carattere
visuale o spettacolare della percezione, cioè ad un processo “di visualizzazione della
percezione” come essi lo chiamano, il passaggio dalla conoscenza qualitativa alla
oggettivazione ed alla formalizzazione del sapere filosofico dei greci. Del resto, che la
consapevolezza di quel processo si sia avuta in un tempo non lontano dalle origini della
cultura greca, potrebbe esserne un indizio non trascurabile lo stesso apparire del nesso
di conoscenza e di visualità nei significati primitivi di òida e eidènai (rad.id-): “io ho
veduto e quindi so”, “conoscere sul fondamento di una propria intuizione”, mentre nel
latino più arcaico del greco nell’ambito delle lingue indo-europee, manca ancora una
tale connessione del verbo videre.
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La vista, predominando sugli altri sensi, opera un vero e proprio frazionamento della oro unità vitale primitiva, ma nello stesso tempo ne diventa in certo modo la “guida”
nella determinazione conoscitiva degli oggetti. Essa designa contorni ed apre
prospettive in ciò che ha isolato dai nessi oscuri del magma sensoriale ed emozionale;
interpone nella fluidità irreversibile del tempo la determinatezza plastica dello spazio,
sottraendo dalla vicenda delle genesi e delle corruzioni un mondo phainòmena e di
èide, che costituirà l’orizzonte originario dell’atteggiamento propriamente teoretico ed
analitico. In effetti, questa iniziale smaterializzazione è la condizione perché la realtà
dal suo manifestarsi primitivo del linguaggio “gestuale” o espressivo (dove la parola o il
gesto si identificano con l’evento stesso così da costituirne come avviene nella magia,
una funzione operativa), trapassi sul piano propriamente “simbolico” o
“rappresentativo” della conoscenza-nozione. La plastica stabilità del visibile è una
possibilità permanente di simbolizzazione. I greci chiameranno appunto epistème la
conoscenza obiettiva delle cose da quel “fermare la mente su” ephistànai diànonian, che
non sarebbe possibile, se non fosse avvenuta quella tematizzazione visuale del mondo
percettivo. Così il significato di eidènai, ha perduto presto la limitazione primitiva per
cui designava soltanto un sapere acquistato mediante un personale esperienza o
“visione”. Di fatto esso si è esteso nell’ambito generale del sapere costituito di nozioni,
dove la conoscenza diventa qualcosa che può essere scambiato nella comunità umana,
cioè all’origine la “notizia” o narrazione che viene riferita da qualcuno intorno a
qualche cosa. L’èpos è il linguaggio assunto in questa sua funzione “rappresentativa” di
fatti lontani nel tempo e nello spazio e come tale è la prima forma del sapere oggettivo,
il cui contenuto è un mondo di simboli isolato dalla realtà degli eventi o dalla materialità delle cose.
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I termini in cui si è posto per la prima volta il problema della conoscenza nel pensiero
filosofico greco, si sono venuti precisando dentro il travaglio di questa transizione dal
conoscere partecipativo al conoscere nozionale. Il visualizzarsi della percezione
conduceva le cose a svelarsi nella loro indipendenza dall’uomo nel loro preesistere in se
medesime per quello stesso distacco che le poneva in lontananza dall’uomo e intoccabili
dalle sue emozioni. Si trattava allora di epurare l’esperienza dalle oscurità emozionali e
dai vincoli degli psichismi primitivi, dalle illusorietà antropomorfiche e dall’instabilità
del sentire, per raggiungere l’oggettività del reale. Il carattere profondamente
esistenziale della crisi dentro la quale da lungo tempo il problema era germinato nella
coscienza greca, è bene espresso dal famoso frammento empedocleo: «Ristretti sono i
poteri diffusi per le parti del corpo, e molti mali vengono a turbare i loro pensieri. Gli
uomini veggono solo una piccola parte di vita che non è vita; condannati a pronta morte,
sono rapiti e svaniscono come fumo. Ognuno di essi è persuaso solo di ciò in cui a caso
si imbatte; e sospinto in tutte le direzioni, si vanta di scoprire il tutto. Tanto è difficile
che queste cose siano viste o udite dagli uomini o abbracciate dalla loro mente».
Appaiono qui due temi fondamentali della scepsi percettiva che circola per tutto il
pensiero presocratico: quello della relatività o “ristrettezza” o “debolezza” dei sensi, e
quello della temporalità che travolge e consuma e fa svanire come fumo noi e le cose
nel loro inarrestabile fluire per cui «a chi discenda negli stessi fiumi sopraggiungono
sempre altre ed altre acque». Relativismo sensoriale e mobilismo cosmico costituiscono e due principali aporie centrali nella conoscenza che è contatto, presa. Esse sono
rimaste di fatto come uno stimolo critico negli sviluppi del pensiero filosofico dai
presocratici fino a noi.
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Le vie lungo le quali si sono compiuti i più notevoli tentativi di soluzione, sono state
aperte nel pensiero filosofico greco da queste due principali direttrici problematiche: a)
la progressiva conversione noetica della percezione, cioè la tendenza ad oltrepassare i
limiti sensoriali della percezione modificando l’atto stesso o la disposizione naturale del
percepire in attitudine intuitiva o sinottica ; b) l’estensione della percezione in
esperienza, cioè la tendenza ad addizionare gli atti percettivi, a raccoglierli insieme, a
confrontarli e commisurarli in verificazioni reciproche di valenza partecipativa ed
educativa. L’intellettualismo nella sua accezione classica di intuizione meta-sensoriale,
e l’empirismo, nella molteplice gamma delle sue variazioni, costituiscono le correnti
fondamentali della problematica gnoseologica educativa nel pensiero greco.
CREDITO 2 MOD. 4
Il problema della conoscenza nel pensiero filosofico: un excursus
La crisi della conoscenza-contatto o partecipativa, come l’abbiamo chiamata, finiva
dunque col proporre nella sua forma più radicale il problema della partecipazione
ontologica, quel problema che era rimasto oscuro in Parmenide e dalla cui
consapevolezza trassero il loro senso più profondo le obiezioni di Platone ed Aristotele
al filosofo di Elea, il primo rilevando che nel cuore stesso dell’essere si articola l’alterità
degli enti, il secondo rimproverando appunto a Parmenide l’assunzione dell’essere come
una “specie dell’essere”, come esso stesso una “sostanza” o ousìa, anziché come
fondamento e l’energia originaria educativa di tutti gli enti. Di fatto, la prospettiva
metafisica in cui la filosofia greca porrà i termini del problema della conoscenza, che
polarizzeranno gli indirizzi più costanti del pensiero occidentale, fu essenzialmente una
ontologia della partecipazione: l’ontologia platonica della metessi teleologica.
Il punto di arrivo, autentica conquista a cui la filosofia è pervenuta con Platone
nell’affrontare l’arduo compito della riforma o della integrazione della ontologia
eleatica, in cui si metteva in gioco la pensabilità stessa dell’essere e del divenire, non è
stato messo sempre in primo piano nella storia della conoscenza nella sua dimensione
educativa. Nella sua formula più essenziale, questa novità gnoseologica del platonismo
può essere designata come la scoperta che il tèlos è la ragione o il fondamento della
pensabilità della ousìa e della ghènesis. Radicalizzando in prospettiva metafisica
originaria l’ideale socratico della vita, Platone ha dato origine con questo balzo nella profondità dell’essere ad una concezione originale che ha dato un avviamento nuovo
alla storia dell’interiorità umana.
L’opposizione di ousìa e ghènesis, di cui sono visibili i due poli estremi negli ultimi
eleati e in Protagora, rischiava di spezzare nei due piani opposti del formale e del
sensoriale il carattere unitario della primissima e più profonda concezione dell’essere.
Ebbene è stata l’idea teleologica ad operare la mediazione, o meglio ad eliminare quella
astratta e sterile opposizione. Alle idee Platone arriva, disponendosi ad un più radicale
noèin, all’emergenza rivelativa del carattere più profondo dell’essere nel mondo stesso
delle passioni, degli impeti e delle aspirazioni umane. La conversione noetica della
percezione - cioè l’atteggiarsi dello “sguardo puro”, ha condotto Platone a tematizzare
l’essere così come esso si manifesta nella originarietà dell’aprirsi dell’uomo verso
l’aldilà di se stesso del suo essere orientato verso fini nella maggior parte educativi.
L’intuizione metafisica più profonda del platonismo è proprio questa intuizione
dell’essere come essere-verso, come tendere-a, come prospezione originaria. Ecco
perché la sua dottrina del dìos come unità spirituale del vivere governato da una norma
ideale interiore si canalizza nell’immagine dei fini o del segno guardando il quale si
deve vivere, tratta dalla metafora del mirare, nell’arte dell’arciere; e l’immagine del
tèlos o del punto terminale a cui debbono convergere tutte le vie dell’azione umana. Le
idee sono i fini delle cose di qua giù, in quanto ne sono gli esemplari perfetti. Così
l’essere degli enti non è una inarrestabile fuga da sé, ne un’immobile inseità ma
piuttosto un divenire verso uno scopo, dove tuttavia neppure questo fine terminale
appare chiuso in sé medesimo, nell’isolamento di una statica perfezione, ma al contrario è proteso a sua volta verso quella infinita ulteriorità che è il Bene in sé, il principio
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assoluto di ogni pensiero e di ogni realtà. Cioè a dire il Bene è misura educativa perché
muove gli esseri ad uscire da sé verso il meglio di sé.
La conseguenza epistemologica della scoperta di questo carattere necessario
dell’essere, era il più profondo concetto della conoscenza noetica-educativa. Conoscere
è cogliere il fine di una cosa, il vettore che orienta il suo divenire, cioè quel modello o
esemplare che costituisce per essa “l’essenza necessaria della produzione” come
«l’artigiano che fabbrica questo o quel mobile, fissa gli occhi sopra l’idea per fare, in
conformità con essa, chi i letti, chi le mense di cui ci serviamo, ed altre cose di questo
genere; poiché quanto all’idea stessa non c’è nessun operaio che la fabbrichi» .
La scienza pertanto non si può identificare con la sensazione, come afferma Protagora
nel Teeteto, né è accettabibile la formula protagorea che può essere considerata come la
posizione limite dell’empirismo puro: «l’uomo è misura di tutte le cose di quelle che
sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono». La tradizionale
interpretazione scettico-relativistica ne ha colto solo in parte il significato, è piuttosto a
cagione delle conseguenze che se ne potevano trarre, che non nelle intenzioni che
probabilmente l’avevano ispirata. L’esigenza di Protagora è di giustificare un
empirismo educativo senza presupposti teleologici.
La sua dottrina, a questo riguardo è la formulazione in chiave antropologica
dell’immobilismo cosmico degli eraclitei, come ha osservato Platone. C’è una
necessaria correlazione tra percezione e realtà, una correlazione di simultaneità tra il fluire delle cose e il fluire delle sensazioni cosicché l’attenersi rigorosamente a ciò che è
immediatamente sentito è per ciascuno la garanzia di un sapere infallibilmente
educativo. In questo senso precisamente Teeteto identificherà àisthesis e epistème. Era
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di fatto un superamento del sensismo grossolano ed ingenuo questo correlazionismo dei
due movimenti della sensibilità e della realtà, in cui paradossalmente si scopriva la
necessità o assolutezza della fruizione educativa dell’ istante. Quella assolutezza del
sapere che gli eleati avevano cercato in una intuizione meta-temporale, qui veniva a
coincidere con il recupero della stessa immediatezza pura del tempo. Anzitutto è
ingiustificabile la stessa teoria empiristica, la quale non può porsi come tale se non
abbandonando l’inmediatezza del sentire e formulandosi come una opinione
“educativa” che per lo stesso principio dell’uomo-misura sarà vera per Protagora e falsa
per tutti gli altri, e dunque insieme vera e falsa per lo stesso Protagora che riconosce
vere le opinioni di tutti. In secondo luogo l’inarrestabile fluire delle qualità e delle
sensazioni non consente che si pensi o si parli di qualcosa, perché non ci sarà più nessun
oggetto di cui si possa affermare che è “così” o “non così”, tutto, svanendo
nell’indeterminato di un perennemente imprecisabile “neppure così”, all’infinito.
Conoscere è invece per Platone scoprire gli schemi dinamici dell’essere, le Idee che
dirigono la genesi e il compimento di ogni realtà.
Platone, ha scoperto un duplice aspetto della “verità”, e quindi una duplice direzione
della ricerca che da essa è orientata. E’ questo certamente il senso della sua distinzione
delle due forme e due momenti della “dialettica”: la prima o “dialettica ascendente”, che ha il compito di condurre verso un’ Idea unica in una visione di insieme, ciò che è
disseminato in molteplici aspetti; la seconda o “dialettica discendente”, analisi che
invece si propone, di fronte all’oggetto di quella sinossi, di “separare” di nuovo
“secondo le articolazioni naturali”. Nella Repubblica i due momenti sono definiti come
quello della apprensione o del coglimento dell’essenza di ogni cosa e quello del
dimostrare o dare ragione a sé e agli altri di ciò che si è raggiunto. Scoperta della verità
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in una intuizione unitaria, e dimostrazione, controllo, verifica di essa nell’analisi o
ripercorrimento della distinzione. In realtà, la “verità” a cui si apre la prima via è
l’essenza stessa della cosa, sua struttura teleologica, in quanto si fa manifesta; la
“verità” che risulta invece dal processo di controllo o di analisi, e la correttezza o
coerenza del discorso, che come tale, è universalmente valido, cioè consente il mutuo
accordo degli interlocutori del dialogo. Di qui deriva il carattere profondamente diverso
dei due procedimenti. La dialettica ascendente è essenzialmente una paideia dell’anima
alla contemplazione. Per essa l’anima intiera si sottrae dalla confusione dalla vita
sensoriale per raccogliersi e concentrasi in sé medesima così da svelare a se stessa la
propria essenza che sa di essere un puro noèin, la disponibilità o il luogo del
manifestarsi dell’essere delle cose. La dialettica ascendente, per questo suo carattere
intrinsecamente educativo non ha altra forza vincolante che non sia il richiamo
dell’anima al suo essere proprio, alla sua vera natura: un richiamo che comporta una
vera e propria “conversione” operata dall’impero dell’essere sopra la tenacità dei legami
dell’apparenza. Soltanto dopo lunghi anni di esercizio in quest’opera di purificazione interiore e di disponibilità al manifestarsi dell’essere potrà splendere nell’anima la luce
della verità.
Ha invece un carattere tecnicamente formativo il metodo della divisione per specie,
mediante il quale l’unità dell’idea viene ricondotta, attraverso dicotomie successive,
dentro l’infinita molteplicità delle rappresentazioni individuali. E’ il metodo o la
“scienza” di cui si ha bisogno per «guidarsi attraverso i discorsi se si vuole indicare
rettamente quali generi sono mutuamente accordabili e quali no; e mostrare se tra tutti
ce ne sono alcuni che rendono possibili le loro combinazioni e ridiscendendo di nuovo
nelle analisi, ce ne sono altri che sono fattori della divisione tra i composti». Si tratta
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evidentemente, di un procedimento rigorosamente “obiettivo” dove la considerazione
dell’anima e della sua disponibilità alla intuizione del vero può essere messa tra
parentesi, poichè tutto si fonda sull’uso corretto di strutture linguistiche, e più
precisamente di una classificazione mediante regole che saranno da determinare con
sufficiente precisione. Mentre la verità che guida la dialettica ascendente è una
conquista rara e in un certo modo privilegiata, poiché la conseguono soltanto coloro che
hanno raggiunto una elevata condizione educativa, la verità dell’analisi e cioè la
semplice scorrettezza ed esattezza del discorso è per essenza “essoterica” comunicabile
ed insegnabile. Ridirà che questa presuppone quella, e in definitiva si fonda sopra di
essa. E’ certamente vero. Quanto l’intuizione è rara e radicata nella profondità di
un’anima disponibile, altrettanto la dimostrazione tende a porsi come ripetibile e valida
per tutti. Nella prospettiva filosofica educativa di Platone quello che dall’inizio era soltanto il metodo della dimostrazione e dell’insegnamento, finisce per diventare esso
stesso il metodo della ricerca e della scoperta.
La prospettiva a partire dalla quale Platone costruisce la propria visione
dell’educazione è l’identificazione tra virtù e sapere, nella quale la virtù rappresenta le
positive capacità individuali mentre il sapere non si identifica nella sua pura teoreticità
bensì nella conoscenza di un ideale normativo capace di orientare il comportamento
etico dell’uomo. L’identificazione a sua volta basata su un’altra componente
fondamentale del pensiero platonico: l’individuazione della psiche come nucleo della
personalità umana aprendo cosi la possibilità di considerare la paideia dal punto di vista
della interiorità. Il problema dell’educazione visto in riferimento alla struttura
dell’anima acquista un nuovo significato per cui la struttura intima dell’uomo appare da
un complesso di forze diversamente orientate. Alla luce di questo, il problema
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principale dell’educatore non sarà quello di stabilire se la virtù sia insegnabile, bensì
quello di individuare i metodi per creare e mantenere l’equilibrio tra le diverse forze
della psiche.
L’educazione appare dunque non come un processo puramente intellettuale, ma
come un’attività che coinvolge le energie razionali e irrazionali dell’uomo e che mira a
istituire tra di esse il giusto rapporto. Con la teoria dell’eros Platone compie un ulteriore
passo in questa direzione: individuando nell’amore la forza istintiva che anima il
processo educativo, egli suggerisce infatti che gli impulsi profondi della passione e del
desiderio debbono essere non soltanto oggetto di paideia, ma possono essere positivamente utilizzati nel processo di formazione dalla personalità. In questa
prospettiva, l’incontro amoroso è educativo perchè è innanzitutto un’occasione
maieutica in cui una psiche viene aiutata dall’altra a realizzare la propria natura. Platone
apre in questo modo una prospettiva inedita rispetto alla paideia tradizionale: maestro
non è colui che sa e trasferisce il suo sapere in altri, ma colui che costantemente effettua
un auotoeducazione dell’eros e che su questa base si propone all’altro.
In questa direzione la proposta platonica si avvia verso un riconoscimento di un
curriculum disciplinare che possa avere influenza sulla formazione della personalità
individuale, la quale tuttavia spezza il legame fra educazione e il riconoscimento della
comunità: mentre gli antichi poeti celebravano un ideale di aretè in cui tutta la città
poteva rispecchiarsi, il filosofo , che segue valori diversi è disconosciuto dalla società
del suo tempo. Parallelamente però i filosofi disconosciuti dal mondo si riuniranno
d’ora in poi in scuola, ossia in un’istituzione che propugna i valori della nuova aretè
filosofica di Platone. La fondazione delle scuole che rappresenta un evento cruciale
nella storia del pensiero, oltre a garantire un momento di alta mediazione culturale,
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ristruttura il rapporto tra individuo e comunità fornendo uno specifico riconoscimento
alla figura dell’intellettuale e nello stesso tempo distinguendola e talora separandola
dalla più ampia comunità politica.
CREDITO 2 MOD. 5
Il problema della conoscenza nel pensiero filosofico: un excursus
Aristotele e Platone partono dal convincimento che l’educazione consista nel capire i
rapporti che intercorrono tra le cose mediante la scoperta progressiva di principi o leggi
sempre più comprensivi. L’universo è un luogo di legge e di ordine ed è governato da
norme che quanto a significato e universalità stanno in una gerarchia ascendente.
Apprendere significa quindi per l’uomo riuscire ad afferrarle mediante un’operazione
dell’intelletto.
L’idea Platonica diventa in Aristotele eidos, morfè, principio che si individua nella
materia stessa; forma e materia assieme sono la parte costitutiva della sostanza
sensibile, per cui trova luogo nell’esperienza sensibile che diventa preponderante nel
suo aspetto informativo e apprensivo, diventando l’unica via dell’apprendimento.
Quindi la forma è immanente sia alla mente (concetto) che alla cosa in quanto
principio della sua esistenza; per questo nesso tra l’aspetto logico e quello ontologico
dell’idea la conoscenza è un’identità.
Per cogliere la forma unificatrice della cosa noi ci serviamo del processo intellettivo
della astrazione.
La realtà è la materializzazione e la individuazione della forma, la quale appartiene al
conoscente e alla cosa in sé e quindi garantisce la verità del conoscere, la quale viene
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definita da Aristotele come concordanza piuttosto che come rivelazione: «la verità sta
nel discorso non nell’essere o nella cosa». La verità per Aristotele ha la sua sede nel
discorso cosiddetto apofantico e non in quello semantico. Mentre il primo, afferma enega qualcosa intorno alla realtà, il secondo, ovvero quello semantico, esprime solo un
significato, senza negare o affermare alcuna cosa. La verità si presenta quindi come una
combinazione di termini e una composizione di nozioni che trova nel giudizio l’atto del
comporre e del dividere le nozioni stesse, in quanto questo atto riflette l’effettiva
composizione o divisione di ciò che è. Dal punto di vista della verità o della falsità,
«l’essere è considerato nelle cose in quanto può essere composto o diviso. Per la qual
cosa è nel vero colui che pensa essere diviso ciò che è composto; è nel falso, invece chi
pensa altrimenti di come le cose stanno…considera, infatti, che non perché noi ti
reputiamo bianco tu sei bianco davvero; ma, all’incontro, perché tu sei bianco,
pensiamo il vero noi che ti diciamo bianco». L’identità dell’essere della copula, nel
giudizio vero con l’essere oggettivo importa la necessità che l’affermare e il negare
siano rigorosamente riferiti a ciò che si coglie nell’esperienza, in ultima analisi a “quegli
indivisibili” a quelle essenze semplici che costituiscono il termine primo o ultimo di
ogni congiunzione o disgiunzione e sulle quali non è possibile sbagliarsi, se non “per
accidente”, perché “il solo averle presenti è già rivelarne la verità”. Questo energico
richiamo di Aristotele alla necessità di connettere la diànoia nel noèin, e cioè nella
presenza manifestativa dell’essere, è tale da far ritenere senza dubbio infondate le
interpretazioni della sua logica in senso puramente formale o terministico. Per cui il
modo di pensare aristotelico sta alla base di tutte le teorie educative che pongano
l’accento sull’esperienza sensibile in quanto punto di partenza dell’apprendimento.
Tuttavia ad una considerazione più attenta può apparire con sufficiente chiarezza dove stiano i suoi limiti reali. Il concetto della verità in quanto presenza manifestativa
dell’essere che Aristotele ancora mantiene accanto o anzi come il fondamento dell’altra
ormai prevalente accezione della verità come correttezza del pensiero discorsivo, è di
fatto una proprietà delle “essenze semplici”, cioè in definitiva del residuo irriducibile
della diàresis. Ciò significa in realtà, che l’essere stesso si configura per Aristotele
proprio dentro i limiti o l’ambito categoriale in cui può applicarsi l’operazione del
comporre o del dividere. Non può essere intesa in altro modo, ad esempio la
dichiarazione di Aristotele – così decisiva per le conseguenze che doveva avere nel
corso del pensiero filosofico educativo occidentale - che, riservando alla competenza
della logica lo studio del discorso apofantico, configura nell’ambito della retorica e
della poetica i discorsi soltanto semantici, come la preghiera o il comando ritenendoli
indifferenti nei riguardi del vero o del falso. Proprio il luogo dove l’essere appare si
esprime ed è testimoniato nella sua vivente e non divisibile concretezza, veniva recisso
dalla considerazione del vero e del falso, cioè dall’ambito della scienza. Di fatto nella
prospettiva deontologica di Aristotele surrettizialmente la diànoia si è sovrapposta al
nous come la sua guida determinante e limitatrice. Quel mondo opulato di essenze
semplici che entrano in una composizione tra loro nelle più varie guise in una organicità
teleologicamente ordinata, com’è il cosmo della metafisica aristotelica, è infine un
mondo di residui concettuali indivisibili, di “concetti puri” o di “categorie” risultanti
dall’analisi logica di un certo tipo di linguaggi in cui si erano consolidati i primi risultati
della ricerca scientifica e filosofica. L’uomo deve partire per il suo viaggio pedagogico
fornito non del solo pensiero puro, scisso dai materiali forniti dall’esperienza sensibile ma armato di tutto ciò che è a sua disposizione in questa vita, cioè l’intelletto e le
percezioni derivategli dall’ambiente in cui si trova a vivere e di cui egli stesso è parte
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integrante. La novità della concezione aristotelica dell’educazione (le cui linee sono
rintracciabili nell’ Etica Nicomachea e nei libri VII e VIII della Politica) si collegano a
uno dei principali aspetti che differenziano la filosofia di Aristotele da quella platonica:
la rivendicazione dell’autonomia reciproca di teoria e pratica.
In particolare, Aristotele critica la concezione di Platone secondo la quale la virtù si
identifica con la conoscenza del bene: la virtù non coincide con la conoscenza del bene
ma va a sua volta concepita in modo differenziato in conformità ai diversi aspetti
dell’attività umana.
Secondo Aristotele occorre innanzi tutto distinguere le virtù che riguardano
l’esercizio della ragione nel suo aspetto teoretico e conoscitivo dalle virtù etiche che si
riferiscono al comportamento pratico dell’uomo. L’educazione in quanto mira al
conseguimento delle virtù, deve svolgersi secondo procedimenti rispettosi delle
specifiche caratteristiche di ciascuna di queste.
Così l’educazione intellettuale finalizzata all’acquisizione di una mentalità scientifica
e all’apprendimento delle conoscenze proprie delle diverse discipline, opera sulla
facoltà razionale e si fonda sull’insegnamento teoretico. Per contro, l’educazione ha per
scopo la formazione del carattere, cioè l’acquisizione delle virtù etiche, si propone di
agire sulla facoltà desiderativa dell’anima sede di appetiti e passioni, per indurvi la
disposizione ad agire rettamente; e per fare ciò ricorre al ripetuto esercizio pratico -
compiuto sotto la giuda dell’educatore - di quelle stesse azioni virtuose che si vogliono rendere consuete e spontanee nell’allievo. Aristotele osserva, infatti come «compiendo
azioni giuste, diventiamo giusti; compiendo azioni moderate, diveniamo moderati;
agendo coraggiosamente, coraggiosi».
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Ad una più articolata considerazione del concetto di virtù corrisponde anche in
Aristotele una maggiore differenziazione degli stili di vita che l’educazione si propone
di realizzare. Pur ritenendo che la vita teoretica dedita alla contemplazione e agli studi
rappresenti la più perfetta espressione della natura umana, Aristotele non assolutizza
questo ideale, ma colloca accanto ad essi anche quello di una vita felice perchè vissuta
all’insegna della saggezza e ispirata a comportamenti virtuosi nella sfera privata e in
quella pubblica. Di conseguenza, mentre Platone costruisce la propria concezione della
paideia intorno ad un unico paradigma rappresentato dal filosofo (nel quale, per altro
l’attività teoretica e l’impegno politico vengono a fondersi), Aristotele, – riaffermando
l’importanza della mimesi quale componente essenziale del processo formativo -,
individua nella figura del saggio un modo di vita virtuoso, diverso e alternativo rispetto
a quello rappresentato dal filosofo. Inoltre, a differenza di Platone, mostra di concepire
sia il saggio, sia il filosofo non come esemplari astratti la cui percezione sia
inaccessibile agli uomini di questo mondo, ma come tipi concreti che ognuno nella
propria vita può incontrare e riconoscere. La paideia aristotelica, infine si specifica in
relazione ai diversi tipi di costituzione politica. Aristotele è cosciente quanto Platone
della dimensione comunitaria dell’educazione: l’uomo è per Aristotele animale sociale e
lo scopo della paideia è quello di consentire all’individuo di raggiungerela virtù e la felicità nel mondo in cui vive. L’educazione rappresenta inoltre per Aristotele come per
Platone, il fulcro dello Stato: come l’osservanza delle leggi e dei costumi è un efficace
mezzo di educazione morale, poichè infonde rispetto per le istituzioni e crea uno spirito
di concordia nella città, così reciprocamente una corretta educazione rafforza la
coesione della polis. Tuttavia, mentre Platone concepisce la paideia come uno strumento
di riforma della personalità individuale e della costituzione statale, nella Politica di
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Aristotele leggiamo che «bisogna che l’educazione si adatti a ciascuna costituzione,
perchè il costume proprio di ciascuna suole difendere la costituzione stessa e la pone in
essere già in origine, per esempio il costume democratico la democrazia, quello
oligarchico l’oligarchia». Ciò non significa che l’educazione si risolva per Aristotele in
uno strumento di consenso. Essa deve proporsi, al contrario di fornire a ciascun membro
della città una formazione adeguata al proprio ruolo sociale, e in particolare di garantire
al cittadino maschio una preparazione globale e non specialistica (basata su grammatica,
ginnastica, musica e disegno) che gli consenta di occupare il suo tempo libero in modo
degno e conforme alla sua natura di essere razionale.
La concezione aristotelica della paideia rispecchia una situazione in cui
l’autodeterminazione politica delle città greche è già minata dall’influsso della
monarchia macedone. Essa rivela infatti come l’aspetto intellettuale, quello etico e
quello politico dell’educazione che in Platone formavano un’unita inscindibile,
incomincino a differenziarsi. La vita speculativa tende a ritagliarsi uno spazio
indipendente dalla politica. Documento di ciò è l’attività del Liceo. La scuola filosofica fondata da Aristotele nel 335 a.c.. A differenza dell’Accademia platonica, il liceo si
configura soprattutto come un centro di studi specializzati in cui le motivazioni
strettamente teoretiche prevalgono su quelle politiche: l’apprendimento scientifico tende
a distinguersi dalla ricerca della saggezza. Proprio quest’ultimo aspetto assume rilievo
nelle filosofie post aristoteliche che fioriscono in una situazione politica oramai
caratterizzata dal dominio delle grandi monarchie ellenistiche.
Queste filosofie sviluppano la riflessione sulla virtù intesa come giusto rapporto con
se stessi e come possesso eminentemente individuale che si acquisisce e si esplica nello
spazio della vita privata. La paideia, come conquista dell’equilibrio spirituale, è
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indipendente dal contesto politico: quest’ultimo dal saggio viene oramai percepito come
estraneo e lesivo della libertà interiore.
CREDITO 2 MOD. 6
Il problema della conoscenza nel pensiero filosofico: un excursus
Nella filosofia moderna, la questione mente-corpo si evidenzia con Cartesio, il quale
difende una concezione riduttivamente meccanicistica della vita e degli organismi
viventi: egli nega l’esistenza dell’anima nutritiva, che Aristotele indicava come
peculiare delle piante; afferma che gli animali sono delle macchine inconsapevoli di sé e
che il corpo umano è un meccanismo guidato da un intelletto e da una volontà libera,
che il filosofo francese, volendo ulteriormente prendere le distanze dall’aristotelismo,
chiama mens, cioè pensiero, coscienza. Di qui il celebre cogito, ergo sum (res cogitans).
E di qui la rilevanza non solo semantica del termine “mente”, destinato a imporsi sulla
scena culturale e a rimpiazzare il lógos e la psyché della filosofia classica: tale
consapevolezza è infatti irriducibile a qualcosa di fisico ed equivale a una sorta di
modificazione di quella sostanza immateriale che “io” sono, cioè della mia mens o
esprit, come pure suonerà la traduzione francese accettata da Cartesio stesso. Dai
termini mens ed esprit deriveranno nella modernità tutte le nozioni con le quali nelle
lingue occidentali ci si riferisce a quello spazio interiore soggettivo accessibile soltanto
per introspezione: mind e spirit in inglese, mente e spirito in italiano, mente ed espíritu
in spagnolo.
Con Cartesio, il dualismo tra anima e corpo si spinge all’estremo, come insanabile
contrasto tra la res cogitans - “cosa pensante” il senso del mondo e dell’umano che abita
il mondo: la mente - e la res extensa -“cosa estesa” misurabile e quantificabile secondo le leggi “esatte” della fisica: il corpo -, dando pertanto vita a quel dualismo psicofisico
che per lungo tempo ha pesantemente condizionato le scienze umane e la filosofia.
Nella cultura anglosassone, è stato David Hume a respingere la sostanzializzazione
cartesiana della coscienza e del pensiero e a denotare con il termine mind l’insieme
degli stati coscienti come riduttivamente empirici, fisiologici, materiali, secondo una
logica della misura, della quantificazione e del calcolo. Soltanto alla fine dell’Ottocento
lo psicologo Franz Brentano ha proposto una concezione diversa e innovativa del
“mentale”, distinguendolo da ciò che è meramente fisico o somatico per una
caratteristica fondamentale: l’ intenzionalità, la capacità di dirigersi verso, di riferirsi e
di relazionarsi a qualcos’altro da sé, ovvero di possedere un contenuto. Tale concezione
era destinata a lasciare un segno profondo in due illustri allievi di Brentano: Sigmund
Freud - con la sua teoria dell’inconscio, un’attività “mentale” non meramente
fisiologica, anzi dotata di significato e tuttavia non consapevole - ed Edmund Husserl -
il padre della scuola fenomenologica, che ha posto l’accento sulla centralità dell’io
intenzionale (o coscienza) nel doppio movimento di indagante e indagato e del fluire
della sua vita corporea, psichica e spirituale.
Edith Stein chiarisce che colui che non vuole parlare di anima ( Seele) delle piante,
non può riconoscere ad esse neppure un corpo ( Leib) nel senso più alto della parola.
Deve allora usare un altro termine per distinguere questi esseri materiali viventi dagli
esseri inanimati. Abbiamo studiato la dottrina tomistica dell’anima, che con Aristotele
vede nell’anima la forma essenziale di tutti gli esseri viventi, e che distingue diversi
gradi di questa forma, a seconda che si tratti solo di una struttura materiale vivente oppure anche di una vita interiore, e a seconda che questa vita interiore sia solo
sensibile o anche spirituale. Secondo questi gradi si distingue l’anima delle piante, degli
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animali e degli esseri umani (vegetativa, sensitiva, razionale), precisamente così: il
grado superiore agisce anche come grado inferiore svolgendo inoltre un compito
specifico. Abbiamo chiarito il significato della forma, da intendersi nel significato
aristotelico-scolastico, dicendo che dà all’ente la sua determinazione essenziale: negli
esseri corporei inanimati è semplicemente ciò che dà le caratteristiche specifiche al loro
essere materiale, l’estensione, il moto e l’azione, e il senso spirituale che si esprime
nella particolarità delle sue espressioni formali. La caratteristica differenziante le forme
viventi dalle forme inanimate è la loro forza superiore alla materia, che è in grado di
mettere insieme una molteplicità di formazioni materiali già presenti e di trasformarle
formandone un tutto, e che riceve l’unità formale conseguente alle continue mutazioni
della materia e la perfeziona.
Dal definitivo superamento del dualismo psicofisico cartesiano si è dunque originata
una più complessiva e al tempo stesso specifica visione di ciò che è “corpo” e di ciò che
è “mente”, tanto nell’elaborazione fenomenologica - con le decisive distinzioni di
Husserl tra corpo fisico ( Körper) e corporeità vivente ( Leib), tra presenza originaria
( Urpräsenz) e appresenza ( Appräsenz), riprese dalla sua allieva Edith Stein che ha poi
sottilmente indagato ciò che è “psiche” ( Psyche), ciò che è “spirito” ( Geist) e ciò che è
“anima” ( Seele) - quanto nella teoria freudiana delle pulsioni, incentrata sulla visione
del corpo quale fonte delle rappresentazioni psichiche.
CREDITO 3 MOD.7
La questione mente-corpo nel cogito cartesiano
La negazione del corpo e la preminenza accordata alla razionalità pensante o
addirittura computante ha una delle sue radici nel cogito cartesiano. Il dualismo
cartesiano derivava forse da un impoverimento eccessivo del concetto di res extensa,
cui, non potendosene valutare la straordinaria e raffinatissima complessità, venivano
attribuite solo proprietà meccaniche elementari: sta di fatto che tutta la nobiltà veniva
conferita all’attività pensante, mentre il corpo veniva degradato a mero supporto.
L’idea di un oggetto proprio e di un’autonomia di metodo della “conoscenza” si è
venuta elaborando come è noto nel secolo e mezzo che intercorre tra Cartesio e Kant. In
realtà, il suo problema si era imposto come il problema centrale della filosofia in un’età
in cui gli uomini si erano accorti di quanto poco sapessero intorno al mondo, nonostante
l’ingombrante bagaglio di quell’enciclopedia di chimere e di astrattezze che avevano
ereditato dalla tradizione accademica dell’ultimo Medioevo e del Rinascimento. Essa è
stata come il ripiegamento di un esercito sconfitto dentro una salda fortezza: la sconfitta
di tanto vano e macchinosa opinare della “philosophia naturalis”, ed il ripiegamento
dentro l’evidenza incontrovertibile di quelle nozioni prime, di quelle “naturae solitariae”
che giacciono nel fondo della mente come il fondamento di ogni genuino sapere. La
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novità essenziale di Cartesio è stata certamente quella di avere rovesciato in una norma
metodologica quella medesima istanza scettica che aveva scoperto l’isolamento
reciproco delle “idee” dalle “cose”, in due mondi che parevano irrimediabilmente chiusi l’uno all’altro. Fossero pure sottoponibili al nostro diretto controllo soltanto le “idee” e
non le “cose”, il compito della filosofia restava quello di farne un consuntivo critico, di
epurarle da ogni apparenza o deformazione, di recuperarne i nessi necessari ed ultimi.
Ma le scienze sono i nessi necessari tra le “idee”, così che qualunque affermazione
riguardante il mondo delle “cose”, se mai fosse possibile, dovrà essere derivata, in
definitiva, come una conseguenza e uno sviluppo rigoroso della “mathesis universalis”,
cioè di quel nucleo irriducibile di verità prime che costituisce, secondo Cartesio,
l’antecedente normativo-educativo ed implicito di ogni retto uso della ragione.
Il presupposto su cui si è fondata l’impostazione generale del problema gnoseologico
moderno è stato, in effetti, la riduzione del conoscere alla sua accezione puramente
“nozionale”, per la quale esso è inteso soltanto come un possesso o repertorio di
“cognizioni” o “idee”. E’ questa senza dubbio, la differenza più importante tra la
posizione antica e la posizione moderna del problema della conoscenza educativa.
Mentre all’inizio della filosofia in Grecia il problema era derivato da una profonda crisi
della conoscenza partecipativa, per una perdita del contatto ingenuo e connaturale con la
realtà, così che il senso o la “verità” di questa appariva inafferrabile sul piano della pura
percezione sensoriale, invece nella rinascita moderna della filosofia, dopo duemila anni
di tradizione accademica, la crisi gnoseologica nasceva dall’interno di uno pseudo-
sapere, cioè di una incoerente congerie di nozioni, ormai slegate da ogni significato
reale, nei riguardi delle quali bisognava procedere ad un’opera di rigorosa epurazione
critica. Così il problema della conoscenza, che per i Greci consiste soprattutto in un progetto di restaurazione della conoscenza partecipativa mediante la conversione
noetica della percezione o la sua integrazione empirico-discorsiva, per i moderni si pone
inizialmente come un problema di catalogo e di bilancio delle “idee”, cioè come un
problema interno al mondo della “chose qui pense” e tale da potersi trattare in una
maniera sufficientemente autonoma, per la sua stessa priorità, nei confronti degli altri
problemi del pensiero.
Così è avvenuto che Cartesio si sia proposto di «applicarsi seriamente e con libertà a
distruggere in generale tutte le sue precedenti opinioni». Poiché la conoscenza si
compone, in materia sommativa, di singole cognizioni, bisogna vagliare quali di queste
resistano al tentativo di dubitarne e di porle in questione. Il primo compito del filosofo è
«di vagliare tutte le verità che la ragione umana può conoscere, cosa che deve fare una
volta nella vita chi vuol giungere alla vera conoscenza». Vagliare, distruggere, in
analogia con i procedimenti “riduttivi” dell'analisi algebrica, nasce con Cartesio quel
progetto di un “esperimento intellettuale” sopra le idee, che avrà un'importanza decisiva
negli sviluppi futuri della gnoseologia. Tuttavia egli non giunse ancora al concetto di
questa come scienza filosofica a sè stante. Partito dal proposito di distruggere tutto ciò
che non è indubitabile, Cartesio si arresta alla scoperta del “cogito” da cui origina tutta
la filosofia moderna. Il cogito è esperimento della coscienza allo stato puro, è
tematizzazione e messa in luce di ciò che Husserl direbbe il “noetico”, cioè del
soggettivo puro in quanto tale; non potremo comprenderne la novità se non elimineremo
l'equivoco di considerarlo una scoperta operata fuori del dubbio.
Il dubbio non è un preambolo retorico al cogito, ma, viceversa, il cogito è il dubbio che pensa se stesso e coglie sè nel suo cercare come atto educativo. Nella
consapevolezza della scepsi, sia pure radicale, ci rendiamo conto dell’indubitabilità del
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dubitare e il nostro pensiero si fa autocertezza. Ciò potrà sembrare ovvio a prima vista,
ma Cartesio vi aggiunge il senso profondo di una ricerca che non può essere se non
possesso originario della verità: il suo dubbio non è soltanto uno “stato d'animo”, né è
un momento patologico nella vita della coscienza, ma ha la sua rilevanza filosofica nella
stessa natura trascendentale della ricerca. Il dubbio filosofico è la “meraviglia” come
pura disponibilità alla presenza delle cose. E' il metodo con cui la coscienza, mediante
la consapevolezza del suo cercare si dispone alla manifestazione di ciò che le è
dinnanzi, cioè dell'intrinseca norma della verità: “veritas qua ostenditur id quod est”.
Il cammino verso la coscienza pura svela che essa è pura disponibilità, preparazione
alla rivelazione: essa è “meraviglia originale” che ci apre all'autenticità del mondo e ci
mostra le cose come sono al di sopra degli psichismi inibenti che sono la fonte dei nostri
errori. La epoché, il dubbio metodico cartesiano, è l’esigenza di epurare l'atto
conoscitivo dalle intrusioni psichiche nell'obbiettività del conosciuto.
Nietzsche dicendo che il filosofo deve essere asceta, voleva significare che la verità è
presente in quanto si vincono tutti i legami della vita. Conoscere è realizzare la purezza
dell'originario; e la condizione perché le cose si manifestino come sono fuori di ogni
soggettiva violenza o concupiscenza, è l'isolarsi della coscienza che vive la sua
esperienza educativa. L’esperimento del dubbio svela la verità nel suo essere in sé. La
coscienza pura ci apre alla indubitabilità di “ciò che è”, in quanto ci è presente, e insieme all'indubitabilità dell’autocoscienza.
Il nesso intrinseco tra la riduzione critica del pensiero e la scoperta delle evidenze
incontrovertibili ha costituito l'importanza centrale del Cogito nel pensiero educativo
moderno. Nel Cogito - in questa specie di esperimento della coscienza allo stato puro -
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la coscienza scopre se stessa, e la propria imprescindibilità, nell’atto in cui si raccoglie
in un radicale atteggiamento interrogativo. Si è detto, a questo proposito che il dubbio
non è una specie di preambolo retorico del Cogito, ma anzi il Cogito non sarebbe
nient’altro che il dubbio stesso, il dubbio che pensa se medesimo e diviene atto
educativo. In realtà, il dubbio non può costituirsi come un aspetto ostensivo del pensiero
puro, se non a patto di non ricadere aporeticamente sopra sè medesimo, isolandosi da
quell'altra componente essenziale dell'atteggiamento interrogativo, che è la disponibilità
attenta ed attiva alla risposta delle cose, la meraviglia che il mondo sia quello che è. Il
dubbio come tale - cioè come astratto momento negativo o eversivo - è soltanto un
episodio nella storia del pensiero: un indice e insieme un reattivo della patologia del
pensare che ha perduto nella selva dei presupposti arbitrarii e degli equivoci linguistici
la nativa apertura al chiaro svelarsi del mondo. In questo senso, il dubbio può interes-
sare soltanto, ad esempio, la biografia di Cartesio o il quadro di una indagine
psicologica. Assumendo il proprio dubbio in funzione metodica, Cartesio l’ha di fatto
oltrepassato come dubbio, così da porlo piuttosto come il procedimento mediante il
quale viene alla luce e si esprime la consapevolezza immanente del puro pensiero nel
suo radicale sospendersi dinanzi al mondo delle evidenze. «E' un punto di partenza positivo per la filosofia» - osservava Kierkegaard - «quando
Aristotele dice che la filosofia comincia con la meraviglia, e non come ai nostri tempi
con il dubbio. In generale, il mondo deve ancora imparare che non giova cominciare con
il negativo e la ragione per cui fino ad ora il metodo è riuscito è perché non si è mai dati
del tutto al negativo e così non si è mai fatto sul serio ciò che si è detto di fare. Il loro
dubbio è una civetteria». Ma il dubbio metodico, quando si pone nel rigore di una
radicale esplicitazione della coscienza pura, non è nient’altro che il ritrovamento della
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meraviglia originaria. I pretesti scettici, più o meno energicamente pensati, che ne ha
tratto una parte della filosofia moderna, sono nati dal travisamento della sua genuina
intenzione teoretica.
CREDITO 3 MOD. 8
La questione mente-corpo nel cogito cartesiano
Il cammino verso la coscienza pura è di fatto un cammino verso l'autenticità del
mondo, al di qua di ogni presupposto deformante e di ogni psichismo inibente. L'isolarsi
della coscienza è la condizione educativa più rilevante perché le cose stesse si
manifestino alla coscienza così come veramente sono, “in carne ed ossa”, nella loro
originaria identità con sè medesime. Nessun dubbio può intaccare questa identità della
cosa con se stessa quando e fin tanto che la cosa è effettivamente presente alla
coscienza: qualunque tentativo di porla in questione la presupporrebbe, qualunque
procedimento della coscienza sarebbe impossibile senza di essa. E' questo il secondo
aspetto della apoditticità del Cogito, intrinsecamente connesso con il principio della
imprescindibilità dell'autocoscienza e della sua valenza educativa. Tutto ciò che è
pensato, nell’atto in cui è effettivamente pensato è indubitabile. E' una variante
dell'antica formulazione del principio di identità. L'errore di Cartesio è stato di avere
introdotto nella coscienza, come un “contenuto” di essa, o una sua “idea”, il pensato o
l'oggetto della coscienza, opponendo l’apoditticità del “mondo interno” (illa omnia quae
nobis consciis in nobis sunt, quatenus eorum in nobis coscientia est) alla problematicità
dell’“esterno”, del mondo reale. Egli non ha tratto, in realtà, l’ultima conseguenza della
sua giusta impostazione del problema dell'autocoscienza: che cioè il procedimento
critico o riduttivo del pensiero al suo stato puro implica necessariamente e mette in
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evidenza la pura trascendenza di tutto ciò che è nell'orizzonte oggettivo del pensiero stesso.
Così il nesso tra questi due aspetti dell’apoditticità, che costituiscono insieme la
verità del Cogito, non è stato colto, o non è stato mantenuto con fermezza nella filosofia
dell’educazione contemporanea.
In un certo senso è giusto affermare che una gran parte di questa è vissuta sotto il
segno di una interpretazione parziale del Cogito. Da un lato, la tematizzazione
dell’autocoscienza come critica ha condotto alla risoluzione del pensiero nella infinita
inquietudine della dialettica, e, in definitiva, in un radicale acosmismo. Dall’altro,
l’esclusiva considerazione di ciò che vi è d’incontrovertibile nell'oggetto - il “fatto” o,
come dicono i neopositivisti, il suo “protocollo”, che ne è l'oggettivazione linguististica
- tende ad impedire come priva di senso ogni riflessione sopra il suo fondamento,
disperdendo il pensiero “positivo” fuori da ogni possibilità d'unificazione, cioè da ogni
effettivo pensare.
Ciò che non è spiegato per un verso o per l’altro è l’articolazione tra l'attività
riduttrice o interrogativa, propria dell’autocoscienza e della sua funzione educativa, e la
consistenza intrinseca di ciò che è effettivamente presente alla coscienza-di. La
reciproca unilateralità di quelle due prospettive ripropone tuttavia la necessità di
approfondire il senso di questo nesso intrinseco del Cogito. Come può la certezza
“vuota” del pensare, la radicale criticità dell'autocoscienza, sostenere l’apoditticità del
pensato, l'invulnerabile auto-identità o “pienezza” di ciò verso il quale la coscienza
intenzionalmente trascende?
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E’ il problema della mathèsis universalis, la scienza universale che costituisce il grandioso progetto di tutto il Seicento.
Cartesio è stato interpretato sovente razionalisticamente come il fondatore della
rigorosa autonomia della ragione e del pensiero indipendente da ogni esperienza non
razionale, cioè mistica religiosa o, comunque, emotiva.
Il Discorso sul metodo, in effetti nasce in lui come problema di riformare la propria
umanità fondandola su una scienza universale.
Il Discorso è autobiografico, in prima persona: è la “histoire de son esprit” che si
attendevano ed avevano richiesto da lui i suoi amici.
Esso non si riferisce al momento in cui viene scritto, ma è proiettato nel tempo
passato di cui abbiamo qualche documentazione sotto forma di annotazioni e di abbozzi
raccolti negli Olimpica, riferiti dal suo primo biografo, il Bailet, e nelle Cogitationes
privatae, una copia delle quali finì nelle mani di Leibniz. Tutti questi scritti a cui si
riferisce Gouhier ci mostrano lo stato d’animo da cui nacque il Discorso e ci aiutano a
comprendere il valore di quella che i biografi ci tramandano come la “ispirazione” della
notte di S. Martino del 1619 che avrebbe deciso il destino spirituale di Cartesio. Si tratta
di tre sogni alternati da veglie e da meditazioni sui sogni stessi quasi di un “raptus” in
cui gli si manifestò l’idea centrale che fu il filo conduttore del suo pensiero:
«…Cominciai a capire il fondamento di una scienza meravigliosa…», dice la nota che
Cartesio appose in margine al testo in data 2 febbraio 1620. E’ come dire che il
raziona1ismo di Cartesio origina da questa esperienza mistica e che la sua metafisica è
la traduzione di tale esperienza in termini razionali - si ricordi quanto osserva il
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Bergson, dicendo che tutte le metafisiche sono il tentativo di esporre razionalmente un’intuizione originaria.
Nel primo sogno Cartesio sogna di andare verso la Chiesa del suo collegio spinto da
un forte vento. Ha un dolore al lato destro; si sveglia con l’impressione di essere sotto la
seduzione di un genio maligno.
Nel secondo è spaventato dallo scoppio di un fulmine che lo sveglia e gli lascia negli
occhi uno scintillio che gli impedisce di vedere le cose: è l'approssimarsi dello spirito
della verità come intuizione accecante.
Nel terzo sogno, che è il più significativo, Cartesio si trova dinanzi a due volumi: il
primo è un dizionario che simboleggia la somma disordinata di tutte le scienze; il
secondo è un Corpus poetarum in cui appare la congiunzione della filosofia con la
saggezza. In quest’ultimo Cartesio legge un verso di Ausonio che esprime la sua
situazione scettica: «Quod vitae sectabor iter?» (Quale cammino seguirò nella mia
vita?) e quindi il motto pitagorico “est et non” (si e no). Meditando su tale sogno egli
scopre il legame intimo tra poesia e filosofia e intuisce che la prima è più capace di
esprimere e far nascere la scintilla della verità.
Cartesio, sentendosi sotto la protezione e lo stimolo dello spirito della verità, accetta
la missione di costruire la scientia universalis e fa anche il voto di compiere un
pellegrinaggio a Loreto per attingere questa forza e ringraziarne la Vergine.
“L'inventum mirabile” fu forse questa idea della unità delle scienze, strettamente
connessa con il senso e la perfezione della vita, leit motiv del terzo sogno. Di tutto ciò
non c’è alcuna traccia nel Discorso. Tuttavia, Cartesio imposterà sempre più il suo
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problema della scienza in un nesso tra razionalità e personalità in quanto il suo processo razionale si svolge in vista della sua chiarificazione interiore: egli è un pensatore ed un
ispirato allo stesso tempo.
Come Cartesio ha incontrato la filosofia? Non affatto da metafisico o da teologo, ma
da gentiluomo destinato, già nel disegno dei suoi educatori del collegio della Flèche,
alla pratica. Perciò il problema filosofico gli si configurò inizialmente come problema
della saggezza: «Avevo sempre un estremo desiderio di apprendere a distinguere il vero
dal falso per vedere chiaro nelle mie azioni e procedere con sicurezza in questa vita».
Ha dovuto affrontare il problema filosofico - educativo per rispondere ad un dubbio che
nasceva dall’insicurezza della tradizione. E nella dimensione educazionale è giunto a
una tesi ultima definiente un tipo di filosofia che non ha carattere contemplativo. La
meditazione quindi non esaurisce la vita, ma ne è soltanto un momento. Ma
sull'esperienza della notte famosa è possibile intravedere anche il senso più
radicalmente esistenziale, sia del dubbio sia della certezza, che costituiranno la tensione
dialettica del Discorso.
In questo, com'è noto, l'esperienza radicale del dubbio ha il suo culmine nell’ipotesi
del “Genio maligno”:
«…Io supporrò, dunque, che vi è, non già un vero Dio, che è la fonte sovrana
di verità; ma un certo cattivo genio, non meno astuto e ingannatore che possente,
che ha impiegato tutta la sua industria ad ingannarmi. Io penserò che il cielo,
l'aria, la terra, i colori, le figure, i suoni e tutte le cose esteriori che noi vediamo
non siano che illusioni e inganni di cui egli si serve per sorprendere la mia
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credulità. Io mi considererò io stesso come privo affatto di mani, di occhi di carne, di sangue, come non avente alcun senso, pur credendo falsamente di aver
tutte queste cose. Io resterò ostinatamente attaccato a questo pensiero; e se, con
questo mezzo, non è mio potere di pervenire alla conoscenza di una minima
verità, almeno è in mio potere di sospendere il mio giudizio».
Era forse questa la “seduzione” del cattivo genio, o il “vento impetuoso” del primo
sogno?