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Filosofia

Date post: 01-Jul-2015
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CREDITO 1 MOD. 1 Il problema della conoscenza nel pensiero filosofico: un excursus La nozione di intersoggettività si fonda oggi in modo pressoché unanime sull’ipotesi che i fenomeni psicologici si sviluppino e consolidino entro una matrice relazionale intrinsecamente dinamica. Questo consente di considerare l’attività conoscitiva non più come il prodotto di meccanismi intrapsichici isolati ma come il frutto dell’interfaccia tra mondi d’esperienza diversi che interagiscono tra loro. Così la ricerca non si circoscrive al limite angusto della singola psichicità, ma prende coscienza dell’alterità, della relazione tra soggetto e oggetto, individuando al tempo stesso le condizioni di possibilità di rapporto e comunicazione tra questi due poli. Già Husserl aveva messo in luce il fatto che un mondo oggettivo esterno può essere sperimentato solo da diversi soggetti in rapporto fra loro, cioè da una molteplicità di individui conoscenti in rapporto di scambievole comprensione, per cui l’esperienza di altri individui sarebbe presupposta alla conoscenza del mondo esterno. In realtà questa nuova ed entusiasmante prospettiva è l’esito di un lungo e tortuoso cammino, che demolendo certezze ben radicate nella tradizione occidentale, ci ha
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Page 1: Filosofia

CREDITO 1 MOD. 1

Il problema della conoscenza nel pensiero filosofico: un excursus

La nozione di intersoggettività si fonda oggi in modo pressoché unanime sull’ipotesi

che i fenomeni psicologici si sviluppino e consolidino entro una matrice relazionale

intrinsecamente dinamica. Questo consente di considerare l’attività conoscitiva non più

come il prodotto di meccanismi intrapsichici isolati ma come il frutto dell’interfaccia tra

mondi d’esperienza diversi che interagiscono tra loro.

Così la ricerca non si circoscrive al limite angusto della singola psichicità, ma prende

coscienza dell’alterità, della relazione tra soggetto e oggetto, individuando al tempo stesso

le condizioni di possibilità di rapporto e comunicazione tra questi due poli.

Già Husserl aveva messo in luce il fatto che un mondo oggettivo esterno può essere

sperimentato solo da diversi soggetti in rapporto fra loro, cioè da una molteplicità di

individui conoscenti in rapporto di scambievole comprensione, per cui l’esperienza di altri

individui sarebbe presupposta alla conoscenza del mondo esterno.

In realtà questa nuova ed entusiasmante prospettiva è l’esito di un lungo e tortuoso

cammino, che demolendo certezze ben radicate nella tradizione occidentale, ci ha

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riconsegnato una nuova immagine di soggetto, considerato nella sua inscindibile unità di

mente e corpo e in reciproco adattamento armonico con l’oggetto della sua conoscenza.

Da un lato infatti, uno dei pregiudizi più radicati della nostra civiltà, che si può far

risalire ai Greci ma che si è accentuato nell’età moderna, è quello secondo cui conoscere

qualcosa o saper fare qualcosa equivarrebbe ad averne una teoria, cioè una descrizione analitica, rigorosa ed esauriente, sotto forma di regole o algoritmi. Questo pregiudizio è

strettamente intrecciato con un altro, secondo il quale l’intelligenza che dimostra un

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teorema matematico sarebbe superiore a quella che ci fa distinguere il volto di un amico da

quello di un nemico o che ci fa attraversare una strada piena di traffico. In realtà tutti noi ci

comportiamo in modo intelligente nel mondo pur non avendone una teoria e l’intelligenza

astratta della mente non potrebbe esistere se non ci fosse l’altra, robusta ed implicita,

incarnata nella struttura e nelle funzioni del corpo e nella sua prontezza all’azione (Longo,

1996).

La negazione del corpo e la preminenza accordata alla razionalità pensante o addirittura

computante ha una delle sue radici nel cogito cartesiano. Il dualismo cartesiano derivava

forse da un impoverimento eccessivo del concetto di res extensa, cui, non potendosene

valutare la straordinaria e raffinatissima complessità, venivano attribuite solo proprietà

meccaniche elementari: sta di fatto che tutta la nobiltà veniva conferita all’attività pensante,

mentre il corpo veniva degradato a mero supporto.

Non solo. Il conseguente riduzionismo meccanicistico ha come presupposti che il

soggetto e l’oggetto della conoscenza possano essere separati e, in più, che il soggetto possa

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osservare l’oggetto da una distanza infinita, sottraendosi così ad ogni influenza e

interazione con quello.

Ma è un presupposto insostenibile quando si vogliano affrontare certi fenomeni in cui

l’uomo e il contesto sono appunto in stretta interazione: da una parte i fenomeni

microscopici studiati dalla meccanica quantistica, dall’altra i fenomeni che riguardano

l’emozione, l’estetica, l’etica e la comunicazione in genere, cioè quelli tipicamente creaturali che gli strumenti della descrizione fisico-matematica anatomizzano senza poterne

rendere un’immagine sensata. In questi casi, soggetto e oggetto si coinvolgono e si

ritrovano all’interno di un unico metasistema che da loro trae senso e che a sua volta dà

loro senso.

[Il soggetto] acquista una “conoscenza” dell’oggetto di natura diversa, perché non è

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più un soggetto esterno, ma diventa un soggetto “interno” a un metasistema che lo

comprende insieme all’oggetto, e questo coinvolgimento induce in lui, in quanto

organismo integrato di cervello e di visceri, un insieme di reazioni fisiche e mentali

diverse da quelle che provoca in lui l’esperienza di chi descrive dall’esterno in che

modo altri soggetti interagiscono con gli oggetti con i quali sono a loro volta

coinvolti attraverso intense esperienze emotive (Cini, 1999).

Quando il soggetto - considerato nella sua inscindibile unità di mente e corpo - e l’oggetto

si trovano coimplicati, il flusso d’informazione si struttura in un circolo, vizioso o virtuoso,

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tipico dei fenomeni di auto-organizzazione, dai quali scaturiscono proprietà “emergenti”

che non si riscontrano nelle componenti in interazione. Questo è un argomento forte per

sostenere la necessità di più forme di conoscenza, di descrizione e di spiegazione tra loro

irriducibili, ciascuna delle quali illumina un aspetto o livello del fenomeno. Non esistono

verità assolute attingibili adottando un’unica descrizione o un unico punto di vista. Secondo

Francisco Varela la coimplicazione tra soggetto e oggetto è sempre all’opera:

nell’interazione circolare tra la mente propria e le menti altrui, da cui scaturisce una sorta di

mente collettiva, e tutti i processi cognitivi emergono da un circolo di questo tipo, immerso nel concreto, nella storicità incorporata, nel contesto biologico vitale. I processi

sensomotori, la percezione e l’azione sono inseparabili dalla cognizione in quella che

Varela chiama visione “enattiva” e che recupera alcune idee di Maurice Merlau-Ponty.

Dice Varela:

Per la tradizione computazionista dominante il punto d’inizio per la comprensione

della percezione è squisitamente astratto: il problema dell’elaborazione

dell’informazione nel recupero di proprietà del mondo preesistenti. All’opposto il

punto di partenza dell’approccio enattivo è lo studio di come il percettore guida le

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sue azioni all’interno di situazioni locali. Siccome queste situazioni mutano

continuamente come risultato dell’attività del percettore, il riferimento per

comprendere la percezione non è più un mondo preesistente e indipendente dal

percettore, ma piuttosto la struttura sensomotoria dell’agente cognitivo. [...] É

questa struttura, il modo in cui il percettore è incorporato, piuttosto che qualche

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mondo preesistente, che determina come il percettore può agire ed essere modulato

dagli eventi ambientali. [...] La realtà non viene dedotta come un dato: dipende dal

percettore, non perché il percettore la “costruisce” secondo la propria fantasia, ma

perché ciò che viene considerato come mondo pertinente è inseparabile dalla

struttura del percettore. [...] Quindi la percezione non è semplicemente inquadrata

nel mondo circostante e da esso vincolata, ma contribuisce anche all’enazione di

questo mondo circostante [...] Organismo e ambiente sono legati insieme in una

reciproca descrizione e selezione (Varela 1994).

Insomma, al contrario di quanto sostiene la tradizione cartesiana, il mondo che noi

percepiamo e in cui agiamo si forma nell’interazione circolare coimplicante da cui

scaturiscono sia l’immagine che noi ci formiamo di esso sia il modo che adottiamo per

offrirci alle sue azioni.

Quello che mi preme comunque mettere in risalto è la modalità attraverso la quale è

stato possibile arrivare fino a questo punto, e cioè il recupero della corporeità, non più

scissa dalla sfera mentale, ma cruciale locazione da cui si avvia il processo cognitivo;

solo così infatti, è stato possibile liberarsi da un lato dallo statuto sostanziale del soggetto

pensante disincarnato, e dall’altro dalla visione di un mondo già dato e predisposto secondo

precise qualità preconfezionate.

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Si tratta proprio della corporeità, della nostra collocazione materiale, che non può più

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essere messa a tacere perché, la conoscenza si rivela priva di fondamento, al di là del suo

radicamento nella corporeità.

Al soggetto diviene dunque possibile entrare in relazione col mondo e “abitarlo”

proprio attraverso la porta della sua corporeità; se questo non avvenisse, la comunione

come comune in-divisione tra i due non si realizzerebbe (Maurice Merleau-Ponty 1989,

p.19).

Anche a proposito del controverso nesso mente-cervello e del suo indebito riduttivismo,

filosoficamente dibattuto soprattutto nell’area di ricerca analitica della Theory of Mind,

nell’ultimo decennio è stata la neurofisiologia a compiere passi da gigante e a confermare

indirettamente le analisi fenomenologiche di Husserl, Stein e Merleau-Ponty su soggettività

e intersoggettività, sino al punto di formulare l’esigenza di fenomenologizzare le neuroscienze cognitive, piuttosto che naturalizzare la fenomenologia. Un maggiore dialogo

tra neuroscienze e fenomenologia è non solo auspicabile, ma necessario. La ricerca

neuroscientifica futura dovrà sempre più concentrarsi sugli aspetti in prima persona

dell’esperienza umana e cercare di studiare meglio le caratteristiche personali dei singoli

soggetti di esperienza.

Ripercorrere le tappe principali del lungo e difficile cammino alla scoperta di una nuova

visione del soggetto, scambievolmente coinvolto nella conoscenza del mondo, nella

conoscenza dell’Altro, è l’obiettivo di questo corso.

CREDITO 1 MOD. 2

Il problema della conoscenza nel pensiero filosofico: un excursus

Nelle principali lingue indo-europee, il termine conoscenza è assunto, sia pure nei

margini piuttosto elastici dall’uso quotidiano e letterario, in due gruppi di significati

abbastanza costanti: a)“conoscere di persona”, “riconoscere”, “venire in presenza di”,

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“entrare in contatto con”, “saper fare” (ghighnòs-kein, agnoscere, conoscere, kennen

lernen, knowledge by acquintance, knowing how, ecc.); b)“essere informato su”,

“possedere notizie intorno a”, “avere nozioni di”, “sapere che”(eidènai, almeno nell’uso

più recente, scire, wissen, knowledge about, knowing that, ecc.).

Nell’ambito di queste due accezioni che potrebbero essere dette, della conoscenza-

contatto e della conoscenza-parola, il pensiero filosofico ha tematizzato tre principali

aspetti sotto i quali la conoscenza acquista rilevanza nel conteso dei suoi problemi. Nel

linguaggio filosofico si è sempre parlato in effetti della conoscenza o dal punto di vista

del soggetto conoscente come di un sua attività (precisamente l’attività conoscitiva), o

dal punto di vista del rapporto tra il soggetto e l’oggetto come di una struttura

relazionale, della coscienza, o infine dal punto di vista dello stesso oggetto o contenuto

conoscitivo (più esattamente si direbbe in questo caso, nella lingua italiana "le

conoscenze" anziché la conoscenza).

Sotto il primo aspetto, è noto che già specialmente la tradizione socratica intendeva la

conoscenza come un èrgon opera. E’ il senso del famoso inizio della Metafisica: «tutti

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gli uomini tendono per natura al conoscere», che Pascal, trascriverà in termini più consapevolmente assiologici: «tutta la dignità dell’uomo consiste nel pensiero». Ma di

quale natura è l’attività conoscitiva? Ed è possibile distinguere da altre forme di

attività umana quali sono le attività del volere o del sentire o del fare? Si sa quante

discussioni anche recentemente ha sollevato questo problema, al quale già la filosofia

antica aveva dato le più contrastanti risposte, dalla contrapposizione platonica, alla

identità plotiniana di thèoria e pràxis. Di fatto, i termini in cui fu posto furono tutt’altro

che univoci nella tradizione filosofica del pensiero europeo, riflettendosi molto spesso

nelle polemiche delle varie e ed opposte correnti e scuole, l’ambiguità non risolta del

significato originario del conoscere.

E’ chiaro che quanto più si accede al primo dei due sensi che abbiamo definiti, tanto

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più tende a scomparire ogni distinzione della conoscenza dalle altre forme di attività

vitale. Così per esempio il Bergson per il quale la conoscenza educativa vive di una

visione profonda e si installa nello svolgimento della sua durata, finirà col far coincidere

in identica accezione questo più autentico conoscere con il sentire e il volere. Anch’egli

distingue in questo senso due specie molto differenti di conoscenza, l’una statica,

mediante concetti, dove c’è in effetto separazione tra ciò che conosce e ciò che è

conosciuto, l’altra dinamica, per intuizione immediata, dove l’atto di conoscenza

educativa coincide con l’atto generatore della realtà. Ma quando al contrario, si ponga

l’accento sopra il carattere di irrealtà simbolica della conoscenza, si sarà condotti ad

epurare da ogni senso vitale o pratico il concetto di attività conoscitiva. Di questo

conoscere “purificato da tutto ciò che non è essenziale”, parla tra gli altri molti, lo

Schopenhauer, contrapponendolo alla conoscenza, asservito alla volontà vitale nella quale la dimensione educativa avrebbe il suo peso. In realtà il problema del rapporto del

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conoscere in funzione dell’attività vitale, in tutte le sue forme ed il conoscere puramente

contemplativo resta tuttora aperto ed occupa un posto centrale nel pensiero filosofico

contemporaneo. Si raccolgono intorno ad esso, oltre che il dissidio in seno al

neoidealismo italiano tra il Croce ed il Gentile, anche le opposte concezioni della verità

che dividono tra metafisici ed antimetafisici, da Heidegger a Dewey e a Popper, dalla

fenomenologia al positivismo logico.

Considerata come una struttura relazionale della coscienza, cioè come una forma del

rapporto soggetto-oggetto, la conoscenza è stata tradizionalmente distinta in immediata

e mediata dove l’educazionale trova senso e significato. Forse si possono ricondurre a

questa distinzione in ultima analisi le molte altre che sono state variamente proposte

nella storia del pensiero filosofico per determinare la conoscenza appunto nella sua

qualità di modo coscenziale. Ma non si tarda ad accorgersi poi di quanto risulti

differente l’uso che la gnoseologia ha fatto del termine di conoscenza immediata (e, per

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conseguenza, di quello di mediazione). E’ immediata tanto l’apprensione di un dato

sensoriale quanto l’intuizione dei primi principi della ragione tanto la percezione

individuale. La conoscenza immediata ora è posta come la forma più povera del

pensiero e dunque tale da dover essere oltrepassata o integrata dai procedimenti

discorsivi della ragione, ora viene dichiarata come la conoscenza più genuina e concreta

da recuperare al di qua della sofisticazione dei discorsi; ora viene fatta coincidere con

l’irrazionalità di un oscuro sentire, ora è proposta come il modello e la norma di ogni conoscenza vera. In effetto, anche questa grande varietà di determinazioni della nozione

di conoscenza immediata deve essere fatta risalire alla distinzione dei due significati

originari del conoscere.

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A questi certamente si riconnettono le due più costanti tradizioni moderne del

concetto di intuizione, che ha avuto inizio e l’accento rispettivamente da Cartesio e da

Kant e in cui si convogliano in definitiva tutte quelle determinazioni. Per Cartesio la

conoscenza intuitiva è semplicemente “la concezione evidente”, o il puro manifestarsi di

idee “la cui conoscenza è così chiara e così distinta che l’intelligenza non può dividerle

in altre di maggior numero che siano conosciute più distintamente”. Per Kant la

conoscenza intuitiva è piuttosto la conoscenza determinata di qualcosa che è

immediatamente presente al soggetto, cioè a dire, nella condizione umana del

conoscere, la conoscenza di ciò che ci è sensibilmente dato. Ci sono dunque due tipi di

immediatezza del conoscere intuitivo. C’è l’immediatezza che è propria della

conoscenza-contatto, ed è la “presenza”; e c’è l’immediatezza che è propria della

conoscenza-parola, ed è “l’evidenza” cioè la sua trasparenza espressiva e simbolica. Di

qui è facile rilevare che gli pseudo-problemi gnoseologici da cui sono germinate nel

pensiero contemporaneo vicendevolmente l’esaltazione del sensibile, del pragmatico e

del vitale, da un lato, e l’iperbole razionalistica in tutte le sue forme, dall’atro, sono sorti

dall’assurda pretesa o di sostituire la “presenza” alla “evidenza”, o di risolvere l’opaca

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consistenza di quella dentro la pura formalità, divenuta necessariamente vuota o elusiva,

di questa. Così ad esempio, nel pensiero filosofico contemporaneo sono da scrivere senza dubbio a quell’equivoco talune esorbitanze della polemica esistenzialistica contro

l’“oggettivazione” o le impossibili richieste logiche del “problematicismo”, o la

rinascita neopositivistica di un “terminismo” irrimediabilmente chiuso dentro l’inanità

di un linguaggio che ha perduto ogni nesso con l’esistenza. Il vero problema era invece,

e rimane, quello di connettere piuttosto tra loro le due immediatezze della “presenza” e

della “evidenza”, non dovendo essere altro infine la conoscenza nel suo senso compiuto

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se non l’assunzione o la trasfigurazione della opacità del dato dentro l’infinita virtualità

rivelativa della parola.

Un analogo rilievo deve essere fatto da ultimo per quanto riguarda le distinzioni tra le

conoscenze e i contenuti dell’atto conoscitivo, dalle quali è stato in varia maniera

determinato lo schema di una divisione proposta dall’empirismo da Hume tra le

“relations of ideas” e le “matters of fact”. Secondo le diverse prospettive generali dei

loro problemi, i filosofi dell’educazione parlano delle prime come di conoscenze astratte

o innate o a priori o nozionali e delle seconde come di conoscenze concrete o empiriche

o a posteriori o esistenziali e via enumerando. Come è noto questa dicotomia di

qualificazione tende a porsi, specialmente nel pensiero moderno piuttosto come una

opposizione che non semplicemente una distinzione, assumendo in sostanza il carattere

di un giudizio di merito sopra la verità o non verità di quei contenuti conoscitivi. Di

volta in volta, ora facendosi valere l’istanza della “giustificabilità” o “validità delle

conoscenze”, ora quella della loro ricchezza o concretezza, si è opposto l’astratto o il

formale al concreto o materiale, l’universalità dell’a priori all’incoerenza dell’aposteriori, o viceversa l’indubitabilità e genuinità dell’esperienza alla fittizia ipoteticità

del nozionale. Ma anche queste opposizioni sono generate dal medesimo malinteso. Là

dove bisognava riguardare il formale o l’astratto come la stessa semanticità della parola,

e l’empirico o materiale come la presenzialità del dato, il primo fu invece inteso dagli

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uni come una “riduzione” e dunque una deformazione e un impoverimento del dato

stesso.

Nel pensiero filosofico contemporaneo il positivismo logico, riproponendo il

problema della conoscenza formale come problema di analisi delle strutture

linguistiche, ha senza dubbio riportato quella nozione nel suo vero ambito, pur avendo

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poi il torto di disconoscere per un insuperato pregiudizio empiristico, la simbolicità

intelligibile della parola, cioè il suo carattere propriamente teoretico o metempirico.

Nella nuova “crisi della parola”, che travaglia di tensioni irrazionalistiche il pensiero

contemporaneo, in seguito alla riscoperta dell’originarietà o irriducibilità

dell’esistenziale, il problema della restaurazione della parola nella pienezza della sua

funzione rivelativa è di tale importanza da far convergere sopra di sé, oltre che

l’interesse di un’indagine gnoseologica, anche le più urgenti richieste della riflessione

morale ed educativa

CREDITO 1 MOD. 3

Il problema della conoscenza nel pensiero filosofico: un excursus

La conoscenza per contatto o partecipazione o “simpatia vitale” è la forma più

originaria dell’esperienza e nella sua genuina immediatezza costituisce il carattere

proprio della mentalità primitiva. Il conoscere il nostro legame consustanziale ci porta

come allora a imparare a “esserci”, a condividere, a comunicare, ed essere in

comunione. Si comincia per così dire ad instaurare una coscienza ecologica.

L’uomo primitivo osserva, il Cassirer, non manca affatto della capacità di afferrare le

differenze empiriche delle cose. Ma nella sua concezione della natura della vita tutte

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queste differenze sono cancellate da un sentimento più forte: la convinzione profonda di

una fondamentale solidarietà vitale che va oltre la molteplicità e la varietà delle singole

forme della vita. L’uomo primitivo non assegna a se stesso il posto unico e privilegiato

nella scala della natura.

Nella mitologia greca il modello di questo tipo di conoscenza – che è piuttosto una

convivenza con le cose, un rinascere in esse, assumendo le loro stesse forme

prolungando in esse la propria vita – è forse espresso nella notissima legenda omerica

dell’indovino Proteo, il vecchio marino di Egitto che “conosce le profondità di tutto il

mare”. Egli entra nella conoscenza di tutte le cose, perché “diventa tutte le cose”,

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assumendo le forme di quanti animali esistano sulla terra e trasformandosi perfino in

acqua e in fuoco.

La conoscenza in questo senso consiste nel farsi simile alla cosa conosciuta,

divenendo operativamente simpatetica e comprensiva in una dimensione che oggi chiameremmo educazionale-partecipativa. Tuttavia è avvenuto che l’uomo diventando

interiormente maggiorenne, ha spezzato la propria naturale familiarità e dimestichezza

con le cose, ponendo in crisi la possibilità di una conoscenza immediatamente

partecipativa all’interno di quella “società della vita” che era il mondo della sua

primitiva esperienza. Gli odierni psicologi evoluzionisti fanno risalire questa crisi ad un

importante salto evolutivo compiutosi nella stessa facoltà umana del percepire,

nell’esercizio degli organi sensoriali di presa del reale. Il salto è consentito, nel regresso

dei sensi più immediatamente partecipativi, come il tatto e l’odorato, e nella importanza

preponderante che hanno assunto nella specie umana in tempi già storici i sensi della

separazione e della lontananza, quali sono la vista e l’udito. Anche gli storici della

scienza antica ritengono essenzialmente legato al progressivo predominio del carattere

visuale o spettacolare della percezione, cioè ad un processo “di visualizzazione della

percezione” come essi lo chiamano, il passaggio dalla conoscenza qualitativa alla

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oggettivazione ed alla formalizzazione del sapere filosofico dei greci. Del resto, che la

consapevolezza di quel processo si sia avuta in un tempo non lontano dalle origini della

cultura greca, potrebbe esserne un indizio non trascurabile lo stesso apparire del nesso

di conoscenza e di visualità nei significati primitivi di òida e eidènai (rad.id-): “io ho

veduto e quindi so”, “conoscere sul fondamento di una propria intuizione”, mentre nel

latino più arcaico del greco nell’ambito delle lingue indo-europee, manca ancora una

tale connessione del verbo videre.

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La vista, predominando sugli altri sensi, opera un vero e proprio frazionamento della oro unità vitale primitiva, ma nello stesso tempo ne diventa in certo modo la “guida”

nella determinazione conoscitiva degli oggetti. Essa designa contorni ed apre

prospettive in ciò che ha isolato dai nessi oscuri del magma sensoriale ed emozionale;

interpone nella fluidità irreversibile del tempo la determinatezza plastica dello spazio,

sottraendo dalla vicenda delle genesi e delle corruzioni un mondo phainòmena e di

èide, che costituirà l’orizzonte originario dell’atteggiamento propriamente teoretico ed

analitico. In effetti, questa iniziale smaterializzazione è la condizione perché la realtà

dal suo manifestarsi primitivo del linguaggio “gestuale” o espressivo (dove la parola o il

gesto si identificano con l’evento stesso così da costituirne come avviene nella magia,

una funzione operativa), trapassi sul piano propriamente “simbolico” o

“rappresentativo” della conoscenza-nozione. La plastica stabilità del visibile è una

possibilità permanente di simbolizzazione. I greci chiameranno appunto epistème la

conoscenza obiettiva delle cose da quel “fermare la mente su” ephistànai diànonian, che

non sarebbe possibile, se non fosse avvenuta quella tematizzazione visuale del mondo

percettivo. Così il significato di eidènai, ha perduto presto la limitazione primitiva per

cui designava soltanto un sapere acquistato mediante un personale esperienza o

“visione”. Di fatto esso si è esteso nell’ambito generale del sapere costituito di nozioni,

dove la conoscenza diventa qualcosa che può essere scambiato nella comunità umana,

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cioè all’origine la “notizia” o narrazione che viene riferita da qualcuno intorno a

qualche cosa. L’èpos è il linguaggio assunto in questa sua funzione “rappresentativa” di

fatti lontani nel tempo e nello spazio e come tale è la prima forma del sapere oggettivo,

il cui contenuto è un mondo di simboli isolato dalla realtà degli eventi o dalla materialità delle cose.

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I termini in cui si è posto per la prima volta il problema della conoscenza nel pensiero

filosofico greco, si sono venuti precisando dentro il travaglio di questa transizione dal

conoscere partecipativo al conoscere nozionale. Il visualizzarsi della percezione

conduceva le cose a svelarsi nella loro indipendenza dall’uomo nel loro preesistere in se

medesime per quello stesso distacco che le poneva in lontananza dall’uomo e intoccabili

dalle sue emozioni. Si trattava allora di epurare l’esperienza dalle oscurità emozionali e

dai vincoli degli psichismi primitivi, dalle illusorietà antropomorfiche e dall’instabilità

del sentire, per raggiungere l’oggettività del reale. Il carattere profondamente

esistenziale della crisi dentro la quale da lungo tempo il problema era germinato nella

coscienza greca, è bene espresso dal famoso frammento empedocleo: «Ristretti sono i

poteri diffusi per le parti del corpo, e molti mali vengono a turbare i loro pensieri. Gli

uomini veggono solo una piccola parte di vita che non è vita; condannati a pronta morte,

sono rapiti e svaniscono come fumo. Ognuno di essi è persuaso solo di ciò in cui a caso

si imbatte; e sospinto in tutte le direzioni, si vanta di scoprire il tutto. Tanto è difficile

che queste cose siano viste o udite dagli uomini o abbracciate dalla loro mente».

Appaiono qui due temi fondamentali della scepsi percettiva che circola per tutto il

pensiero presocratico: quello della relatività o “ristrettezza” o “debolezza” dei sensi, e

quello della temporalità che travolge e consuma e fa svanire come fumo noi e le cose

nel loro inarrestabile fluire per cui «a chi discenda negli stessi fiumi sopraggiungono

sempre altre ed altre acque». Relativismo sensoriale e mobilismo cosmico costituiscono e due principali aporie centrali nella conoscenza che è contatto, presa. Esse sono

rimaste di fatto come uno stimolo critico negli sviluppi del pensiero filosofico dai

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presocratici fino a noi.

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Le vie lungo le quali si sono compiuti i più notevoli tentativi di soluzione, sono state

aperte nel pensiero filosofico greco da queste due principali direttrici problematiche: a)

la progressiva conversione noetica della percezione, cioè la tendenza ad oltrepassare i

limiti sensoriali della percezione modificando l’atto stesso o la disposizione naturale del

percepire in attitudine intuitiva o sinottica ; b) l’estensione della percezione in

esperienza, cioè la tendenza ad addizionare gli atti percettivi, a raccoglierli insieme, a

confrontarli e commisurarli in verificazioni reciproche di valenza partecipativa ed

educativa. L’intellettualismo nella sua accezione classica di intuizione meta-sensoriale,

e l’empirismo, nella molteplice gamma delle sue variazioni, costituiscono le correnti

fondamentali della problematica gnoseologica educativa nel pensiero greco.

CREDITO 2 MOD. 4

Il problema della conoscenza nel pensiero filosofico: un excursus

La crisi della conoscenza-contatto o partecipativa, come l’abbiamo chiamata, finiva

dunque col proporre nella sua forma più radicale il problema della partecipazione

ontologica, quel problema che era rimasto oscuro in Parmenide e dalla cui

consapevolezza trassero il loro senso più profondo le obiezioni di Platone ed Aristotele

al filosofo di Elea, il primo rilevando che nel cuore stesso dell’essere si articola l’alterità

degli enti, il secondo rimproverando appunto a Parmenide l’assunzione dell’essere come

una “specie dell’essere”, come esso stesso una “sostanza” o ousìa, anziché come

fondamento e l’energia originaria educativa di tutti gli enti. Di fatto, la prospettiva

metafisica in cui la filosofia greca porrà i termini del problema della conoscenza, che

polarizzeranno gli indirizzi più costanti del pensiero occidentale, fu essenzialmente una

ontologia della partecipazione: l’ontologia platonica della metessi teleologica.

Page 15: Filosofia

Il punto di arrivo, autentica conquista a cui la filosofia è pervenuta con Platone

nell’affrontare l’arduo compito della riforma o della integrazione della ontologia

eleatica, in cui si metteva in gioco la pensabilità stessa dell’essere e del divenire, non è

stato messo sempre in primo piano nella storia della conoscenza nella sua dimensione

educativa. Nella sua formula più essenziale, questa novità gnoseologica del platonismo

può essere designata come la scoperta che il tèlos è la ragione o il fondamento della

pensabilità della ousìa e della ghènesis. Radicalizzando in prospettiva metafisica

originaria l’ideale socratico della vita, Platone ha dato origine con questo balzo nella profondità dell’essere ad una concezione originale che ha dato un avviamento nuovo

alla storia dell’interiorità umana.

L’opposizione di ousìa e ghènesis, di cui sono visibili i due poli estremi negli ultimi

eleati e in Protagora, rischiava di spezzare nei due piani opposti del formale e del

sensoriale il carattere unitario della primissima e più profonda concezione dell’essere.

Ebbene è stata l’idea teleologica ad operare la mediazione, o meglio ad eliminare quella

astratta e sterile opposizione. Alle idee Platone arriva, disponendosi ad un più radicale

noèin, all’emergenza rivelativa del carattere più profondo dell’essere nel mondo stesso

delle passioni, degli impeti e delle aspirazioni umane. La conversione noetica della

percezione - cioè l’atteggiarsi dello “sguardo puro”, ha condotto Platone a tematizzare

l’essere così come esso si manifesta nella originarietà dell’aprirsi dell’uomo verso

l’aldilà di se stesso del suo essere orientato verso fini nella maggior parte educativi.

L’intuizione metafisica più profonda del platonismo è proprio questa intuizione

dell’essere come essere-verso, come tendere-a, come prospezione originaria. Ecco

perché la sua dottrina del dìos come unità spirituale del vivere governato da una norma

ideale interiore si canalizza nell’immagine dei fini o del segno guardando il quale si

deve vivere, tratta dalla metafora del mirare, nell’arte dell’arciere; e l’immagine del

tèlos o del punto terminale a cui debbono convergere tutte le vie dell’azione umana. Le

idee sono i fini delle cose di qua giù, in quanto ne sono gli esemplari perfetti. Così

l’essere degli enti non è una inarrestabile fuga da sé, ne un’immobile inseità ma

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piuttosto un divenire verso uno scopo, dove tuttavia neppure questo fine terminale

appare chiuso in sé medesimo, nell’isolamento di una statica perfezione, ma al contrario è proteso a sua volta verso quella infinita ulteriorità che è il Bene in sé, il principio

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assoluto di ogni pensiero e di ogni realtà. Cioè a dire il Bene è misura educativa perché

muove gli esseri ad uscire da sé verso il meglio di sé.

La conseguenza epistemologica della scoperta di questo carattere necessario

dell’essere, era il più profondo concetto della conoscenza noetica-educativa. Conoscere

è cogliere il fine di una cosa, il vettore che orienta il suo divenire, cioè quel modello o

esemplare che costituisce per essa “l’essenza necessaria della produzione” come

«l’artigiano che fabbrica questo o quel mobile, fissa gli occhi sopra l’idea per fare, in

conformità con essa, chi i letti, chi le mense di cui ci serviamo, ed altre cose di questo

genere; poiché quanto all’idea stessa non c’è nessun operaio che la fabbrichi» .

La scienza pertanto non si può identificare con la sensazione, come afferma Protagora

nel Teeteto, né è accettabibile la formula protagorea che può essere considerata come la

posizione limite dell’empirismo puro: «l’uomo è misura di tutte le cose di quelle che

sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono». La tradizionale

interpretazione scettico-relativistica ne ha colto solo in parte il significato, è piuttosto a

cagione delle conseguenze che se ne potevano trarre, che non nelle intenzioni che

probabilmente l’avevano ispirata. L’esigenza di Protagora è di giustificare un

empirismo educativo senza presupposti teleologici.

La sua dottrina, a questo riguardo è la formulazione in chiave antropologica

dell’immobilismo cosmico degli eraclitei, come ha osservato Platone. C’è una

necessaria correlazione tra percezione e realtà, una correlazione di simultaneità tra il fluire delle cose e il fluire delle sensazioni cosicché l’attenersi rigorosamente a ciò che è

immediatamente sentito è per ciascuno la garanzia di un sapere infallibilmente

educativo. In questo senso precisamente Teeteto identificherà àisthesis e epistème. Era

3

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di fatto un superamento del sensismo grossolano ed ingenuo questo correlazionismo dei

due movimenti della sensibilità e della realtà, in cui paradossalmente si scopriva la

necessità o assolutezza della fruizione educativa dell’ istante. Quella assolutezza del

sapere che gli eleati avevano cercato in una intuizione meta-temporale, qui veniva a

coincidere con il recupero della stessa immediatezza pura del tempo. Anzitutto è

ingiustificabile la stessa teoria empiristica, la quale non può porsi come tale se non

abbandonando l’inmediatezza del sentire e formulandosi come una opinione

“educativa” che per lo stesso principio dell’uomo-misura sarà vera per Protagora e falsa

per tutti gli altri, e dunque insieme vera e falsa per lo stesso Protagora che riconosce

vere le opinioni di tutti. In secondo luogo l’inarrestabile fluire delle qualità e delle

sensazioni non consente che si pensi o si parli di qualcosa, perché non ci sarà più nessun

oggetto di cui si possa affermare che è “così” o “non così”, tutto, svanendo

nell’indeterminato di un perennemente imprecisabile “neppure così”, all’infinito.

Conoscere è invece per Platone scoprire gli schemi dinamici dell’essere, le Idee che

dirigono la genesi e il compimento di ogni realtà.

Platone, ha scoperto un duplice aspetto della “verità”, e quindi una duplice direzione

della ricerca che da essa è orientata. E’ questo certamente il senso della sua distinzione

delle due forme e due momenti della “dialettica”: la prima o “dialettica ascendente”, che ha il compito di condurre verso un’ Idea unica in una visione di insieme, ciò che è

disseminato in molteplici aspetti; la seconda o “dialettica discendente”, analisi che

invece si propone, di fronte all’oggetto di quella sinossi, di “separare” di nuovo

“secondo le articolazioni naturali”. Nella Repubblica i due momenti sono definiti come

quello della apprensione o del coglimento dell’essenza di ogni cosa e quello del

dimostrare o dare ragione a sé e agli altri di ciò che si è raggiunto. Scoperta della verità

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in una intuizione unitaria, e dimostrazione, controllo, verifica di essa nell’analisi o

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ripercorrimento della distinzione. In realtà, la “verità” a cui si apre la prima via è

l’essenza stessa della cosa, sua struttura teleologica, in quanto si fa manifesta; la

“verità” che risulta invece dal processo di controllo o di analisi, e la correttezza o

coerenza del discorso, che come tale, è universalmente valido, cioè consente il mutuo

accordo degli interlocutori del dialogo. Di qui deriva il carattere profondamente diverso

dei due procedimenti. La dialettica ascendente è essenzialmente una paideia dell’anima

alla contemplazione. Per essa l’anima intiera si sottrae dalla confusione dalla vita

sensoriale per raccogliersi e concentrasi in sé medesima così da svelare a se stessa la

propria essenza che sa di essere un puro noèin, la disponibilità o il luogo del

manifestarsi dell’essere delle cose. La dialettica ascendente, per questo suo carattere

intrinsecamente educativo non ha altra forza vincolante che non sia il richiamo

dell’anima al suo essere proprio, alla sua vera natura: un richiamo che comporta una

vera e propria “conversione” operata dall’impero dell’essere sopra la tenacità dei legami

dell’apparenza. Soltanto dopo lunghi anni di esercizio in quest’opera di purificazione interiore e di disponibilità al manifestarsi dell’essere potrà splendere nell’anima la luce

della verità.

Ha invece un carattere tecnicamente formativo il metodo della divisione per specie,

mediante il quale l’unità dell’idea viene ricondotta, attraverso dicotomie successive,

dentro l’infinita molteplicità delle rappresentazioni individuali. E’ il metodo o la

“scienza” di cui si ha bisogno per «guidarsi attraverso i discorsi se si vuole indicare

rettamente quali generi sono mutuamente accordabili e quali no; e mostrare se tra tutti

ce ne sono alcuni che rendono possibili le loro combinazioni e ridiscendendo di nuovo

nelle analisi, ce ne sono altri che sono fattori della divisione tra i composti». Si tratta

5

evidentemente, di un procedimento rigorosamente “obiettivo” dove la considerazione

dell’anima e della sua disponibilità alla intuizione del vero può essere messa tra

parentesi, poichè tutto si fonda sull’uso corretto di strutture linguistiche, e più

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precisamente di una classificazione mediante regole che saranno da determinare con

sufficiente precisione. Mentre la verità che guida la dialettica ascendente è una

conquista rara e in un certo modo privilegiata, poiché la conseguono soltanto coloro che

hanno raggiunto una elevata condizione educativa, la verità dell’analisi e cioè la

semplice scorrettezza ed esattezza del discorso è per essenza “essoterica” comunicabile

ed insegnabile. Ridirà che questa presuppone quella, e in definitiva si fonda sopra di

essa. E’ certamente vero. Quanto l’intuizione è rara e radicata nella profondità di

un’anima disponibile, altrettanto la dimostrazione tende a porsi come ripetibile e valida

per tutti. Nella prospettiva filosofica educativa di Platone quello che dall’inizio era soltanto il metodo della dimostrazione e dell’insegnamento, finisce per diventare esso

stesso il metodo della ricerca e della scoperta.

La prospettiva a partire dalla quale Platone costruisce la propria visione

dell’educazione è l’identificazione tra virtù e sapere, nella quale la virtù rappresenta le

positive capacità individuali mentre il sapere non si identifica nella sua pura teoreticità

bensì nella conoscenza di un ideale normativo capace di orientare il comportamento

etico dell’uomo. L’identificazione a sua volta basata su un’altra componente

fondamentale del pensiero platonico: l’individuazione della psiche come nucleo della

personalità umana aprendo cosi la possibilità di considerare la paideia dal punto di vista

della interiorità. Il problema dell’educazione visto in riferimento alla struttura

dell’anima acquista un nuovo significato per cui la struttura intima dell’uomo appare da

un complesso di forze diversamente orientate. Alla luce di questo, il problema

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principale dell’educatore non sarà quello di stabilire se la virtù sia insegnabile, bensì

quello di individuare i metodi per creare e mantenere l’equilibrio tra le diverse forze

della psiche.

L’educazione appare dunque non come un processo puramente intellettuale, ma

come un’attività che coinvolge le energie razionali e irrazionali dell’uomo e che mira a

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istituire tra di esse il giusto rapporto. Con la teoria dell’eros Platone compie un ulteriore

passo in questa direzione: individuando nell’amore la forza istintiva che anima il

processo educativo, egli suggerisce infatti che gli impulsi profondi della passione e del

desiderio debbono essere non soltanto oggetto di paideia, ma possono essere positivamente utilizzati nel processo di formazione dalla personalità. In questa

prospettiva, l’incontro amoroso è educativo perchè è innanzitutto un’occasione

maieutica in cui una psiche viene aiutata dall’altra a realizzare la propria natura. Platone

apre in questo modo una prospettiva inedita rispetto alla paideia tradizionale: maestro

non è colui che sa e trasferisce il suo sapere in altri, ma colui che costantemente effettua

un auotoeducazione dell’eros e che su questa base si propone all’altro.

In questa direzione la proposta platonica si avvia verso un riconoscimento di un

curriculum disciplinare che possa avere influenza sulla formazione della personalità

individuale, la quale tuttavia spezza il legame fra educazione e il riconoscimento della

comunità: mentre gli antichi poeti celebravano un ideale di aretè in cui tutta la città

poteva rispecchiarsi, il filosofo , che segue valori diversi è disconosciuto dalla società

del suo tempo. Parallelamente però i filosofi disconosciuti dal mondo si riuniranno

d’ora in poi in scuola, ossia in un’istituzione che propugna i valori della nuova aretè

filosofica di Platone. La fondazione delle scuole che rappresenta un evento cruciale

nella storia del pensiero, oltre a garantire un momento di alta mediazione culturale,

7

ristruttura il rapporto tra individuo e comunità fornendo uno specifico riconoscimento

alla figura dell’intellettuale e nello stesso tempo distinguendola e talora separandola

dalla più ampia comunità politica.

CREDITO 2 MOD. 5

Il problema della conoscenza nel pensiero filosofico: un excursus

Page 21: Filosofia

Aristotele e Platone partono dal convincimento che l’educazione consista nel capire i

rapporti che intercorrono tra le cose mediante la scoperta progressiva di principi o leggi

sempre più comprensivi. L’universo è un luogo di legge e di ordine ed è governato da

norme che quanto a significato e universalità stanno in una gerarchia ascendente.

Apprendere significa quindi per l’uomo riuscire ad afferrarle mediante un’operazione

dell’intelletto.

L’idea Platonica diventa in Aristotele eidos, morfè, principio che si individua nella

materia stessa; forma e materia assieme sono la parte costitutiva della sostanza

sensibile, per cui trova luogo nell’esperienza sensibile che diventa preponderante nel

suo aspetto informativo e apprensivo, diventando l’unica via dell’apprendimento.

Quindi la forma è immanente sia alla mente (concetto) che alla cosa in quanto

principio della sua esistenza; per questo nesso tra l’aspetto logico e quello ontologico

dell’idea la conoscenza è un’identità.

Per cogliere la forma unificatrice della cosa noi ci serviamo del processo intellettivo

della astrazione.

La realtà è la materializzazione e la individuazione della forma, la quale appartiene al

conoscente e alla cosa in sé e quindi garantisce la verità del conoscere, la quale viene

1

definita da Aristotele come concordanza piuttosto che come rivelazione: «la verità sta

nel discorso non nell’essere o nella cosa». La verità per Aristotele ha la sua sede nel

discorso cosiddetto apofantico e non in quello semantico. Mentre il primo, afferma enega qualcosa intorno alla realtà, il secondo, ovvero quello semantico, esprime solo un

significato, senza negare o affermare alcuna cosa. La verità si presenta quindi come una

combinazione di termini e una composizione di nozioni che trova nel giudizio l’atto del

comporre e del dividere le nozioni stesse, in quanto questo atto riflette l’effettiva

Page 22: Filosofia

composizione o divisione di ciò che è. Dal punto di vista della verità o della falsità,

«l’essere è considerato nelle cose in quanto può essere composto o diviso. Per la qual

cosa è nel vero colui che pensa essere diviso ciò che è composto; è nel falso, invece chi

pensa altrimenti di come le cose stanno…considera, infatti, che non perché noi ti

reputiamo bianco tu sei bianco davvero; ma, all’incontro, perché tu sei bianco,

pensiamo il vero noi che ti diciamo bianco». L’identità dell’essere della copula, nel

giudizio vero con l’essere oggettivo importa la necessità che l’affermare e il negare

siano rigorosamente riferiti a ciò che si coglie nell’esperienza, in ultima analisi a “quegli

indivisibili” a quelle essenze semplici che costituiscono il termine primo o ultimo di

ogni congiunzione o disgiunzione e sulle quali non è possibile sbagliarsi, se non “per

accidente”, perché “il solo averle presenti è già rivelarne la verità”. Questo energico

richiamo di Aristotele alla necessità di connettere la diànoia nel noèin, e cioè nella

presenza manifestativa dell’essere, è tale da far ritenere senza dubbio infondate le

interpretazioni della sua logica in senso puramente formale o terministico. Per cui il

modo di pensare aristotelico sta alla base di tutte le teorie educative che pongano

l’accento sull’esperienza sensibile in quanto punto di partenza dell’apprendimento.

Tuttavia ad una considerazione più attenta può apparire con sufficiente chiarezza dove stiano i suoi limiti reali. Il concetto della verità in quanto presenza manifestativa

dell’essere che Aristotele ancora mantiene accanto o anzi come il fondamento dell’altra

ormai prevalente accezione della verità come correttezza del pensiero discorsivo, è di

fatto una proprietà delle “essenze semplici”, cioè in definitiva del residuo irriducibile

della diàresis. Ciò significa in realtà, che l’essere stesso si configura per Aristotele

proprio dentro i limiti o l’ambito categoriale in cui può applicarsi l’operazione del

comporre o del dividere. Non può essere intesa in altro modo, ad esempio la

dichiarazione di Aristotele – così decisiva per le conseguenze che doveva avere nel

corso del pensiero filosofico educativo occidentale - che, riservando alla competenza

della logica lo studio del discorso apofantico, configura nell’ambito della retorica e

della poetica i discorsi soltanto semantici, come la preghiera o il comando ritenendoli

Page 23: Filosofia

indifferenti nei riguardi del vero o del falso. Proprio il luogo dove l’essere appare si

esprime ed è testimoniato nella sua vivente e non divisibile concretezza, veniva recisso

dalla considerazione del vero e del falso, cioè dall’ambito della scienza. Di fatto nella

prospettiva deontologica di Aristotele surrettizialmente la diànoia si è sovrapposta al

nous come la sua guida determinante e limitatrice. Quel mondo opulato di essenze

semplici che entrano in una composizione tra loro nelle più varie guise in una organicità

teleologicamente ordinata, com’è il cosmo della metafisica aristotelica, è infine un

mondo di residui concettuali indivisibili, di “concetti puri” o di “categorie” risultanti

dall’analisi logica di un certo tipo di linguaggi in cui si erano consolidati i primi risultati

della ricerca scientifica e filosofica. L’uomo deve partire per il suo viaggio pedagogico

fornito non del solo pensiero puro, scisso dai materiali forniti dall’esperienza sensibile ma armato di tutto ciò che è a sua disposizione in questa vita, cioè l’intelletto e le

percezioni derivategli dall’ambiente in cui si trova a vivere e di cui egli stesso è parte

3

integrante. La novità della concezione aristotelica dell’educazione (le cui linee sono

rintracciabili nell’ Etica Nicomachea e nei libri VII e VIII della Politica) si collegano a

uno dei principali aspetti che differenziano la filosofia di Aristotele da quella platonica:

la rivendicazione dell’autonomia reciproca di teoria e pratica.

In particolare, Aristotele critica la concezione di Platone secondo la quale la virtù si

identifica con la conoscenza del bene: la virtù non coincide con la conoscenza del bene

ma va a sua volta concepita in modo differenziato in conformità ai diversi aspetti

dell’attività umana.

Secondo Aristotele occorre innanzi tutto distinguere le virtù che riguardano

l’esercizio della ragione nel suo aspetto teoretico e conoscitivo dalle virtù etiche che si

riferiscono al comportamento pratico dell’uomo. L’educazione in quanto mira al

conseguimento delle virtù, deve svolgersi secondo procedimenti rispettosi delle

specifiche caratteristiche di ciascuna di queste.

Page 24: Filosofia

Così l’educazione intellettuale finalizzata all’acquisizione di una mentalità scientifica

e all’apprendimento delle conoscenze proprie delle diverse discipline, opera sulla

facoltà razionale e si fonda sull’insegnamento teoretico. Per contro, l’educazione ha per

scopo la formazione del carattere, cioè l’acquisizione delle virtù etiche, si propone di

agire sulla facoltà desiderativa dell’anima sede di appetiti e passioni, per indurvi la

disposizione ad agire rettamente; e per fare ciò ricorre al ripetuto esercizio pratico -

compiuto sotto la giuda dell’educatore - di quelle stesse azioni virtuose che si vogliono rendere consuete e spontanee nell’allievo. Aristotele osserva, infatti come «compiendo

azioni giuste, diventiamo giusti; compiendo azioni moderate, diveniamo moderati;

agendo coraggiosamente, coraggiosi».

4

Ad una più articolata considerazione del concetto di virtù corrisponde anche in

Aristotele una maggiore differenziazione degli stili di vita che l’educazione si propone

di realizzare. Pur ritenendo che la vita teoretica dedita alla contemplazione e agli studi

rappresenti la più perfetta espressione della natura umana, Aristotele non assolutizza

questo ideale, ma colloca accanto ad essi anche quello di una vita felice perchè vissuta

all’insegna della saggezza e ispirata a comportamenti virtuosi nella sfera privata e in

quella pubblica. Di conseguenza, mentre Platone costruisce la propria concezione della

paideia intorno ad un unico paradigma rappresentato dal filosofo (nel quale, per altro

l’attività teoretica e l’impegno politico vengono a fondersi), Aristotele, – riaffermando

l’importanza della mimesi quale componente essenziale del processo formativo -,

individua nella figura del saggio un modo di vita virtuoso, diverso e alternativo rispetto

a quello rappresentato dal filosofo. Inoltre, a differenza di Platone, mostra di concepire

sia il saggio, sia il filosofo non come esemplari astratti la cui percezione sia

inaccessibile agli uomini di questo mondo, ma come tipi concreti che ognuno nella

propria vita può incontrare e riconoscere. La paideia aristotelica, infine si specifica in

relazione ai diversi tipi di costituzione politica. Aristotele è cosciente quanto Platone

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della dimensione comunitaria dell’educazione: l’uomo è per Aristotele animale sociale e

lo scopo della paideia è quello di consentire all’individuo di raggiungerela virtù e la felicità nel mondo in cui vive. L’educazione rappresenta inoltre per Aristotele come per

Platone, il fulcro dello Stato: come l’osservanza delle leggi e dei costumi è un efficace

mezzo di educazione morale, poichè infonde rispetto per le istituzioni e crea uno spirito

di concordia nella città, così reciprocamente una corretta educazione rafforza la

coesione della polis. Tuttavia, mentre Platone concepisce la paideia come uno strumento

di riforma della personalità individuale e della costituzione statale, nella Politica di

5

Aristotele leggiamo che «bisogna che l’educazione si adatti a ciascuna costituzione,

perchè il costume proprio di ciascuna suole difendere la costituzione stessa e la pone in

essere già in origine, per esempio il costume democratico la democrazia, quello

oligarchico l’oligarchia». Ciò non significa che l’educazione si risolva per Aristotele in

uno strumento di consenso. Essa deve proporsi, al contrario di fornire a ciascun membro

della città una formazione adeguata al proprio ruolo sociale, e in particolare di garantire

al cittadino maschio una preparazione globale e non specialistica (basata su grammatica,

ginnastica, musica e disegno) che gli consenta di occupare il suo tempo libero in modo

degno e conforme alla sua natura di essere razionale.

La concezione aristotelica della paideia rispecchia una situazione in cui

l’autodeterminazione politica delle città greche è già minata dall’influsso della

monarchia macedone. Essa rivela infatti come l’aspetto intellettuale, quello etico e

quello politico dell’educazione che in Platone formavano un’unita inscindibile,

incomincino a differenziarsi. La vita speculativa tende a ritagliarsi uno spazio

indipendente dalla politica. Documento di ciò è l’attività del Liceo. La scuola filosofica fondata da Aristotele nel 335 a.c.. A differenza dell’Accademia platonica, il liceo si

configura soprattutto come un centro di studi specializzati in cui le motivazioni

strettamente teoretiche prevalgono su quelle politiche: l’apprendimento scientifico tende

a distinguersi dalla ricerca della saggezza. Proprio quest’ultimo aspetto assume rilievo

Page 26: Filosofia

nelle filosofie post aristoteliche che fioriscono in una situazione politica oramai

caratterizzata dal dominio delle grandi monarchie ellenistiche.

Queste filosofie sviluppano la riflessione sulla virtù intesa come giusto rapporto con

se stessi e come possesso eminentemente individuale che si acquisisce e si esplica nello

spazio della vita privata. La paideia, come conquista dell’equilibrio spirituale, è

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indipendente dal contesto politico: quest’ultimo dal saggio viene oramai percepito come

estraneo e lesivo della libertà interiore.

CREDITO 2 MOD. 6

Il problema della conoscenza nel pensiero filosofico: un excursus

Nella filosofia moderna, la questione mente-corpo si evidenzia con Cartesio, il quale

difende una concezione riduttivamente meccanicistica della vita e degli organismi

viventi: egli nega l’esistenza dell’anima nutritiva, che Aristotele indicava come

peculiare delle piante; afferma che gli animali sono delle macchine inconsapevoli di sé e

che il corpo umano è un meccanismo guidato da un intelletto e da una volontà libera,

che il filosofo francese, volendo ulteriormente prendere le distanze dall’aristotelismo,

chiama mens, cioè pensiero, coscienza. Di qui il celebre cogito, ergo sum (res cogitans).

E di qui la rilevanza non solo semantica del termine “mente”, destinato a imporsi sulla

scena culturale e a rimpiazzare il lógos e la psyché della filosofia classica: tale

consapevolezza è infatti irriducibile a qualcosa di fisico ed equivale a una sorta di

modificazione di quella sostanza immateriale che “io” sono, cioè della mia mens o

esprit, come pure suonerà la traduzione francese accettata da Cartesio stesso. Dai

termini mens ed esprit deriveranno nella modernità tutte le nozioni con le quali nelle

Page 27: Filosofia

lingue occidentali ci si riferisce a quello spazio interiore soggettivo accessibile soltanto

per introspezione: mind e spirit in inglese, mente e spirito in italiano, mente ed espíritu

in spagnolo.

Con Cartesio, il dualismo tra anima e corpo si spinge all’estremo, come insanabile

contrasto tra la res cogitans - “cosa pensante” il senso del mondo e dell’umano che abita

il mondo: la mente - e la res extensa -“cosa estesa” misurabile e quantificabile secondo le leggi “esatte” della fisica: il corpo -, dando pertanto vita a quel dualismo psicofisico

che per lungo tempo ha pesantemente condizionato le scienze umane e la filosofia.

Nella cultura anglosassone, è stato David Hume a respingere la sostanzializzazione

cartesiana della coscienza e del pensiero e a denotare con il termine mind l’insieme

degli stati coscienti come riduttivamente empirici, fisiologici, materiali, secondo una

logica della misura, della quantificazione e del calcolo. Soltanto alla fine dell’Ottocento

lo psicologo Franz Brentano ha proposto una concezione diversa e innovativa del

“mentale”, distinguendolo da ciò che è meramente fisico o somatico per una

caratteristica fondamentale: l’ intenzionalità, la capacità di dirigersi verso, di riferirsi e

di relazionarsi a qualcos’altro da sé, ovvero di possedere un contenuto. Tale concezione

era destinata a lasciare un segno profondo in due illustri allievi di Brentano: Sigmund

Freud - con la sua teoria dell’inconscio, un’attività “mentale” non meramente

fisiologica, anzi dotata di significato e tuttavia non consapevole - ed Edmund Husserl -

il padre della scuola fenomenologica, che ha posto l’accento sulla centralità dell’io

intenzionale (o coscienza) nel doppio movimento di indagante e indagato e del fluire

della sua vita corporea, psichica e spirituale.

Edith Stein chiarisce che colui che non vuole parlare di anima ( Seele) delle piante,

non può riconoscere ad esse neppure un corpo ( Leib) nel senso più alto della parola.

Deve allora usare un altro termine per distinguere questi esseri materiali viventi dagli

esseri inanimati. Abbiamo studiato la dottrina tomistica dell’anima, che con Aristotele

vede nell’anima la forma essenziale di tutti gli esseri viventi, e che distingue diversi

gradi di questa forma, a seconda che si tratti solo di una struttura materiale vivente oppure anche di una vita interiore, e a seconda che questa vita interiore sia solo

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sensibile o anche spirituale. Secondo questi gradi si distingue l’anima delle piante, degli

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animali e degli esseri umani (vegetativa, sensitiva, razionale), precisamente così: il

grado superiore agisce anche come grado inferiore svolgendo inoltre un compito

specifico. Abbiamo chiarito il significato della forma, da intendersi nel significato

aristotelico-scolastico, dicendo che dà all’ente la sua determinazione essenziale: negli

esseri corporei inanimati è semplicemente ciò che dà le caratteristiche specifiche al loro

essere materiale, l’estensione, il moto e l’azione, e il senso spirituale che si esprime

nella particolarità delle sue espressioni formali. La caratteristica differenziante le forme

viventi dalle forme inanimate è la loro forza superiore alla materia, che è in grado di

mettere insieme una molteplicità di formazioni materiali già presenti e di trasformarle

formandone un tutto, e che riceve l’unità formale conseguente alle continue mutazioni

della materia e la perfeziona.

Dal definitivo superamento del dualismo psicofisico cartesiano si è dunque originata

una più complessiva e al tempo stesso specifica visione di ciò che è “corpo” e di ciò che

è “mente”, tanto nell’elaborazione fenomenologica - con le decisive distinzioni di

Husserl tra corpo fisico ( Körper) e corporeità vivente ( Leib), tra presenza originaria

( Urpräsenz) e appresenza ( Appräsenz), riprese dalla sua allieva Edith Stein che ha poi

sottilmente indagato ciò che è “psiche” ( Psyche), ciò che è “spirito” ( Geist) e ciò che è

“anima” ( Seele) - quanto nella teoria freudiana delle pulsioni, incentrata sulla visione

del corpo quale fonte delle rappresentazioni psichiche.

CREDITO 3 MOD.7

La questione mente-corpo nel cogito cartesiano

Page 29: Filosofia

La negazione del corpo e la preminenza accordata alla razionalità pensante o

addirittura computante ha una delle sue radici nel cogito cartesiano. Il dualismo

cartesiano derivava forse da un impoverimento eccessivo del concetto di res extensa,

cui, non potendosene valutare la straordinaria e raffinatissima complessità, venivano

attribuite solo proprietà meccaniche elementari: sta di fatto che tutta la nobiltà veniva

conferita all’attività pensante, mentre il corpo veniva degradato a mero supporto.

L’idea di un oggetto proprio e di un’autonomia di metodo della “conoscenza” si è

venuta elaborando come è noto nel secolo e mezzo che intercorre tra Cartesio e Kant. In

realtà, il suo problema si era imposto come il problema centrale della filosofia in un’età

in cui gli uomini si erano accorti di quanto poco sapessero intorno al mondo, nonostante

l’ingombrante bagaglio di quell’enciclopedia di chimere e di astrattezze che avevano

ereditato dalla tradizione accademica dell’ultimo Medioevo e del Rinascimento. Essa è

stata come il ripiegamento di un esercito sconfitto dentro una salda fortezza: la sconfitta

di tanto vano e macchinosa opinare della “philosophia naturalis”, ed il ripiegamento

dentro l’evidenza incontrovertibile di quelle nozioni prime, di quelle “naturae solitariae”

che giacciono nel fondo della mente come il fondamento di ogni genuino sapere. La

1

novità essenziale di Cartesio è stata certamente quella di avere rovesciato in una norma

metodologica quella medesima istanza scettica che aveva scoperto l’isolamento

reciproco delle “idee” dalle “cose”, in due mondi che parevano irrimediabilmente chiusi l’uno all’altro. Fossero pure sottoponibili al nostro diretto controllo soltanto le “idee” e

non le “cose”, il compito della filosofia restava quello di farne un consuntivo critico, di

epurarle da ogni apparenza o deformazione, di recuperarne i nessi necessari ed ultimi.

Ma le scienze sono i nessi necessari tra le “idee”, così che qualunque affermazione

riguardante il mondo delle “cose”, se mai fosse possibile, dovrà essere derivata, in

definitiva, come una conseguenza e uno sviluppo rigoroso della “mathesis universalis”,

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cioè di quel nucleo irriducibile di verità prime che costituisce, secondo Cartesio,

l’antecedente normativo-educativo ed implicito di ogni retto uso della ragione.

Il presupposto su cui si è fondata l’impostazione generale del problema gnoseologico

moderno è stato, in effetti, la riduzione del conoscere alla sua accezione puramente

“nozionale”, per la quale esso è inteso soltanto come un possesso o repertorio di

“cognizioni” o “idee”. E’ questa senza dubbio, la differenza più importante tra la

posizione antica e la posizione moderna del problema della conoscenza educativa.

Mentre all’inizio della filosofia in Grecia il problema era derivato da una profonda crisi

della conoscenza partecipativa, per una perdita del contatto ingenuo e connaturale con la

realtà, così che il senso o la “verità” di questa appariva inafferrabile sul piano della pura

percezione sensoriale, invece nella rinascita moderna della filosofia, dopo duemila anni

di tradizione accademica, la crisi gnoseologica nasceva dall’interno di uno pseudo-

sapere, cioè di una incoerente congerie di nozioni, ormai slegate da ogni significato

reale, nei riguardi delle quali bisognava procedere ad un’opera di rigorosa epurazione

critica. Così il problema della conoscenza, che per i Greci consiste soprattutto in un progetto di restaurazione della conoscenza partecipativa mediante la conversione

noetica della percezione o la sua integrazione empirico-discorsiva, per i moderni si pone

inizialmente come un problema di catalogo e di bilancio delle “idee”, cioè come un

problema interno al mondo della “chose qui pense” e tale da potersi trattare in una

maniera sufficientemente autonoma, per la sua stessa priorità, nei confronti degli altri

problemi del pensiero.

Così è avvenuto che Cartesio si sia proposto di «applicarsi seriamente e con libertà a

distruggere in generale tutte le sue precedenti opinioni». Poiché la conoscenza si

compone, in materia sommativa, di singole cognizioni, bisogna vagliare quali di queste

resistano al tentativo di dubitarne e di porle in questione. Il primo compito del filosofo è

«di vagliare tutte le verità che la ragione umana può conoscere, cosa che deve fare una

volta nella vita chi vuol giungere alla vera conoscenza». Vagliare, distruggere, in

analogia con i procedimenti “riduttivi” dell'analisi algebrica, nasce con Cartesio quel

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progetto di un “esperimento intellettuale” sopra le idee, che avrà un'importanza decisiva

negli sviluppi futuri della gnoseologia. Tuttavia egli non giunse ancora al concetto di

questa come scienza filosofica a sè stante. Partito dal proposito di distruggere tutto ciò

che non è indubitabile, Cartesio si arresta alla scoperta del “cogito” da cui origina tutta

la filosofia moderna. Il cogito è esperimento della coscienza allo stato puro, è

tematizzazione e messa in luce di ciò che Husserl direbbe il “noetico”, cioè del

soggettivo puro in quanto tale; non potremo comprenderne la novità se non elimineremo

l'equivoco di considerarlo una scoperta operata fuori del dubbio.

Il dubbio non è un preambolo retorico al cogito, ma, viceversa, il cogito è il dubbio che pensa se stesso e coglie sè nel suo cercare come atto educativo. Nella

consapevolezza della scepsi, sia pure radicale, ci rendiamo conto dell’indubitabilità del

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dubitare e il nostro pensiero si fa autocertezza. Ciò potrà sembrare ovvio a prima vista,

ma Cartesio vi aggiunge il senso profondo di una ricerca che non può essere se non

possesso originario della verità: il suo dubbio non è soltanto uno “stato d'animo”, né è

un momento patologico nella vita della coscienza, ma ha la sua rilevanza filosofica nella

stessa natura trascendentale della ricerca. Il dubbio filosofico è la “meraviglia” come

pura disponibilità alla presenza delle cose. E' il metodo con cui la coscienza, mediante

la consapevolezza del suo cercare si dispone alla manifestazione di ciò che le è

dinnanzi, cioè dell'intrinseca norma della verità: “veritas qua ostenditur id quod est”.

Il cammino verso la coscienza pura svela che essa è pura disponibilità, preparazione

alla rivelazione: essa è “meraviglia originale” che ci apre all'autenticità del mondo e ci

mostra le cose come sono al di sopra degli psichismi inibenti che sono la fonte dei nostri

errori. La epoché, il dubbio metodico cartesiano, è l’esigenza di epurare l'atto

conoscitivo dalle intrusioni psichiche nell'obbiettività del conosciuto.

Nietzsche dicendo che il filosofo deve essere asceta, voleva significare che la verità è

presente in quanto si vincono tutti i legami della vita. Conoscere è realizzare la purezza

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dell'originario; e la condizione perché le cose si manifestino come sono fuori di ogni

soggettiva violenza o concupiscenza, è l'isolarsi della coscienza che vive la sua

esperienza educativa. L’esperimento del dubbio svela la verità nel suo essere in sé. La

coscienza pura ci apre alla indubitabilità di “ciò che è”, in quanto ci è presente, e insieme all'indubitabilità dell’autocoscienza.

Il nesso intrinseco tra la riduzione critica del pensiero e la scoperta delle evidenze

incontrovertibili ha costituito l'importanza centrale del Cogito nel pensiero educativo

moderno. Nel Cogito - in questa specie di esperimento della coscienza allo stato puro -

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la coscienza scopre se stessa, e la propria imprescindibilità, nell’atto in cui si raccoglie

in un radicale atteggiamento interrogativo. Si è detto, a questo proposito che il dubbio

non è una specie di preambolo retorico del Cogito, ma anzi il Cogito non sarebbe

nient’altro che il dubbio stesso, il dubbio che pensa se medesimo e diviene atto

educativo. In realtà, il dubbio non può costituirsi come un aspetto ostensivo del pensiero

puro, se non a patto di non ricadere aporeticamente sopra sè medesimo, isolandosi da

quell'altra componente essenziale dell'atteggiamento interrogativo, che è la disponibilità

attenta ed attiva alla risposta delle cose, la meraviglia che il mondo sia quello che è. Il

dubbio come tale - cioè come astratto momento negativo o eversivo - è soltanto un

episodio nella storia del pensiero: un indice e insieme un reattivo della patologia del

pensare che ha perduto nella selva dei presupposti arbitrarii e degli equivoci linguistici

la nativa apertura al chiaro svelarsi del mondo. In questo senso, il dubbio può interes-

sare soltanto, ad esempio, la biografia di Cartesio o il quadro di una indagine

psicologica. Assumendo il proprio dubbio in funzione metodica, Cartesio l’ha di fatto

oltrepassato come dubbio, così da porlo piuttosto come il procedimento mediante il

quale viene alla luce e si esprime la consapevolezza immanente del puro pensiero nel

suo radicale sospendersi dinanzi al mondo delle evidenze. «E' un punto di partenza positivo per la filosofia» - osservava Kierkegaard - «quando

Aristotele dice che la filosofia comincia con la meraviglia, e non come ai nostri tempi

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con il dubbio. In generale, il mondo deve ancora imparare che non giova cominciare con

il negativo e la ragione per cui fino ad ora il metodo è riuscito è perché non si è mai dati

del tutto al negativo e così non si è mai fatto sul serio ciò che si è detto di fare. Il loro

dubbio è una civetteria». Ma il dubbio metodico, quando si pone nel rigore di una

radicale esplicitazione della coscienza pura, non è nient’altro che il ritrovamento della

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meraviglia originaria. I pretesti scettici, più o meno energicamente pensati, che ne ha

tratto una parte della filosofia moderna, sono nati dal travisamento della sua genuina

intenzione teoretica.

CREDITO 3 MOD. 8

La questione mente-corpo nel cogito cartesiano

Il cammino verso la coscienza pura è di fatto un cammino verso l'autenticità del

mondo, al di qua di ogni presupposto deformante e di ogni psichismo inibente. L'isolarsi

della coscienza è la condizione educativa più rilevante perché le cose stesse si

manifestino alla coscienza così come veramente sono, “in carne ed ossa”, nella loro

originaria identità con sè medesime. Nessun dubbio può intaccare questa identità della

cosa con se stessa quando e fin tanto che la cosa è effettivamente presente alla

coscienza: qualunque tentativo di porla in questione la presupporrebbe, qualunque

procedimento della coscienza sarebbe impossibile senza di essa. E' questo il secondo

aspetto della apoditticità del Cogito, intrinsecamente connesso con il principio della

imprescindibilità dell'autocoscienza e della sua valenza educativa. Tutto ciò che è

pensato, nell’atto in cui è effettivamente pensato è indubitabile. E' una variante

dell'antica formulazione del principio di identità. L'errore di Cartesio è stato di avere

introdotto nella coscienza, come un “contenuto” di essa, o una sua “idea”, il pensato o

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l'oggetto della coscienza, opponendo l’apoditticità del “mondo interno” (illa omnia quae

nobis consciis in nobis sunt, quatenus eorum in nobis coscientia est) alla problematicità

dell’“esterno”, del mondo reale. Egli non ha tratto, in realtà, l’ultima conseguenza della

sua giusta impostazione del problema dell'autocoscienza: che cioè il procedimento

critico o riduttivo del pensiero al suo stato puro implica necessariamente e mette in

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evidenza la pura trascendenza di tutto ciò che è nell'orizzonte oggettivo del pensiero stesso.

Così il nesso tra questi due aspetti dell’apoditticità, che costituiscono insieme la

verità del Cogito, non è stato colto, o non è stato mantenuto con fermezza nella filosofia

dell’educazione contemporanea.

In un certo senso è giusto affermare che una gran parte di questa è vissuta sotto il

segno di una interpretazione parziale del Cogito. Da un lato, la tematizzazione

dell’autocoscienza come critica ha condotto alla risoluzione del pensiero nella infinita

inquietudine della dialettica, e, in definitiva, in un radicale acosmismo. Dall’altro,

l’esclusiva considerazione di ciò che vi è d’incontrovertibile nell'oggetto - il “fatto” o,

come dicono i neopositivisti, il suo “protocollo”, che ne è l'oggettivazione linguististica

- tende ad impedire come priva di senso ogni riflessione sopra il suo fondamento,

disperdendo il pensiero “positivo” fuori da ogni possibilità d'unificazione, cioè da ogni

effettivo pensare.

Ciò che non è spiegato per un verso o per l’altro è l’articolazione tra l'attività

riduttrice o interrogativa, propria dell’autocoscienza e della sua funzione educativa, e la

consistenza intrinseca di ciò che è effettivamente presente alla coscienza-di. La

reciproca unilateralità di quelle due prospettive ripropone tuttavia la necessità di

approfondire il senso di questo nesso intrinseco del Cogito. Come può la certezza

“vuota” del pensare, la radicale criticità dell'autocoscienza, sostenere l’apoditticità del

pensato, l'invulnerabile auto-identità o “pienezza” di ciò verso il quale la coscienza

intenzionalmente trascende?

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E’ il problema della mathèsis universalis, la scienza universale che costituisce il grandioso progetto di tutto il Seicento.

Cartesio è stato interpretato sovente razionalisticamente come il fondatore della

rigorosa autonomia della ragione e del pensiero indipendente da ogni esperienza non

razionale, cioè mistica religiosa o, comunque, emotiva.

Il Discorso sul metodo, in effetti nasce in lui come problema di riformare la propria

umanità fondandola su una scienza universale.

Il Discorso è autobiografico, in prima persona: è la “histoire de son esprit” che si

attendevano ed avevano richiesto da lui i suoi amici.

Esso non si riferisce al momento in cui viene scritto, ma è proiettato nel tempo

passato di cui abbiamo qualche documentazione sotto forma di annotazioni e di abbozzi

raccolti negli Olimpica, riferiti dal suo primo biografo, il Bailet, e nelle Cogitationes

privatae, una copia delle quali finì nelle mani di Leibniz. Tutti questi scritti a cui si

riferisce Gouhier ci mostrano lo stato d’animo da cui nacque il Discorso e ci aiutano a

comprendere il valore di quella che i biografi ci tramandano come la “ispirazione” della

notte di S. Martino del 1619 che avrebbe deciso il destino spirituale di Cartesio. Si tratta

di tre sogni alternati da veglie e da meditazioni sui sogni stessi quasi di un “raptus” in

cui gli si manifestò l’idea centrale che fu il filo conduttore del suo pensiero:

«…Cominciai a capire il fondamento di una scienza meravigliosa…», dice la nota che

Cartesio appose in margine al testo in data 2 febbraio 1620. E’ come dire che il

raziona1ismo di Cartesio origina da questa esperienza mistica e che la sua metafisica è

la traduzione di tale esperienza in termini razionali - si ricordi quanto osserva il

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Bergson, dicendo che tutte le metafisiche sono il tentativo di esporre razionalmente un’intuizione originaria.

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Nel primo sogno Cartesio sogna di andare verso la Chiesa del suo collegio spinto da

un forte vento. Ha un dolore al lato destro; si sveglia con l’impressione di essere sotto la

seduzione di un genio maligno.

Nel secondo è spaventato dallo scoppio di un fulmine che lo sveglia e gli lascia negli

occhi uno scintillio che gli impedisce di vedere le cose: è l'approssimarsi dello spirito

della verità come intuizione accecante.

Nel terzo sogno, che è il più significativo, Cartesio si trova dinanzi a due volumi: il

primo è un dizionario che simboleggia la somma disordinata di tutte le scienze; il

secondo è un Corpus poetarum in cui appare la congiunzione della filosofia con la

saggezza. In quest’ultimo Cartesio legge un verso di Ausonio che esprime la sua

situazione scettica: «Quod vitae sectabor iter?» (Quale cammino seguirò nella mia

vita?) e quindi il motto pitagorico “est et non” (si e no). Meditando su tale sogno egli

scopre il legame intimo tra poesia e filosofia e intuisce che la prima è più capace di

esprimere e far nascere la scintilla della verità.

Cartesio, sentendosi sotto la protezione e lo stimolo dello spirito della verità, accetta

la missione di costruire la scientia universalis e fa anche il voto di compiere un

pellegrinaggio a Loreto per attingere questa forza e ringraziarne la Vergine.

“L'inventum mirabile” fu forse questa idea della unità delle scienze, strettamente

connessa con il senso e la perfezione della vita, leit motiv del terzo sogno. Di tutto ciò

non c’è alcuna traccia nel Discorso. Tuttavia, Cartesio imposterà sempre più il suo

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problema della scienza in un nesso tra razionalità e personalità in quanto il suo processo razionale si svolge in vista della sua chiarificazione interiore: egli è un pensatore ed un

ispirato allo stesso tempo.

Come Cartesio ha incontrato la filosofia? Non affatto da metafisico o da teologo, ma

da gentiluomo destinato, già nel disegno dei suoi educatori del collegio della Flèche,

alla pratica. Perciò il problema filosofico gli si configurò inizialmente come problema

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della saggezza: «Avevo sempre un estremo desiderio di apprendere a distinguere il vero

dal falso per vedere chiaro nelle mie azioni e procedere con sicurezza in questa vita».

Ha dovuto affrontare il problema filosofico - educativo per rispondere ad un dubbio che

nasceva dall’insicurezza della tradizione. E nella dimensione educazionale è giunto a

una tesi ultima definiente un tipo di filosofia che non ha carattere contemplativo. La

meditazione quindi non esaurisce la vita, ma ne è soltanto un momento. Ma

sull'esperienza della notte famosa è possibile intravedere anche il senso più

radicalmente esistenziale, sia del dubbio sia della certezza, che costituiranno la tensione

dialettica del Discorso.

In questo, com'è noto, l'esperienza radicale del dubbio ha il suo culmine nell’ipotesi

del “Genio maligno”:

«…Io supporrò, dunque, che vi è, non già un vero Dio, che è la fonte sovrana

di verità; ma un certo cattivo genio, non meno astuto e ingannatore che possente,

che ha impiegato tutta la sua industria ad ingannarmi. Io penserò che il cielo,

l'aria, la terra, i colori, le figure, i suoni e tutte le cose esteriori che noi vediamo

non siano che illusioni e inganni di cui egli si serve per sorprendere la mia

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credulità. Io mi considererò io stesso come privo affatto di mani, di occhi di carne, di sangue, come non avente alcun senso, pur credendo falsamente di aver

tutte queste cose. Io resterò ostinatamente attaccato a questo pensiero; e se, con

questo mezzo, non è mio potere di pervenire alla conoscenza di una minima

verità, almeno è in mio potere di sospendere il mio giudizio».

Era forse questa la “seduzione” del cattivo genio, o il “vento impetuoso” del primo

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sogno?


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