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Foglio della comunità italiana di Capodistria · 2016. 2. 19. · costituiti l’asilo, la scuola,...

Date post: 29-Sep-2020
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Anno 16 Numero 32 Foglio della comunità italiana di Capodistria Giugno 2011 Foto: Ubald Trnkoczy ®
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Anno 16 Numero 32

Foglio della comunità italiana di Capodistria

Giugno 2011

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La città

Questa foto ci è stata inviata da Donatella Pohar e riguarda il 30.esimo anniversario della matura. »Ci siamo ritrovati il 26 marzo per la rimpatriata. I nomi da sinistra: Dean Guštin, Daniela Potočnjak (Kavalič), William

Knapič, Donatella Pohar, Patrizia Zonta, Laura Vianello. In piedi: Ugo Musizza, Ive Marković, Oliviero Cerin. Una bella occasione per ricordare, in un clima goliardico davanti ad una bella tavolata, i spensierati anni del ginnasio. Tra i tanti momenti e gli episodi vissuti tra i banchi, un ricordo affettuoso va in questa occasione a tutti i professori.

Un pensiero particolare alla nostra compagna, Luciana Fiorencis, scomparsa prematuramente

Elsa Fonda durante la presentazione del suo libro »La cresta sulla zampa«

(Ibiskos editore) presso la sezione italiana della Biblioteca centrale »Srečko Vilhar« di Capodistria. Foto J. Belcijan

Jan Zlatič della prima classe del Ginnasio »Gian Rinaldo Carli«, vincitore del

primo premi oper l'opera grafica all'VIII edizione del premio internazionale

»Giorgio Depangher« . Foto J. Belcijan

E' stata restaurata la chiesa di San Biagio. I lavori hanno interessato il tetto e la parte esterna. La prossima

fase riguarderà l'interno con gli altari e la tomba del vescovo Paolo Naldini

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La città »Elezioni il 10 luglio, nel 2014 Ancarano Comune«

Le elezioni amministrative il 10 luglio si faranno su tutto il territorio dell’attuale municipalità capodistriana, ma sarà l’ultima volta: nel 2014 inizierà a funzionare il nuovo Comune di Ancarano. La Corte costituzionale slovena lo ha costituito di propria iniziativa, poiché il Parlamento non era stato in grado di farlo e non vi sono altre vie per conformarsi alla precedente delibera dell’Alta Corte in materia. Nel dicembre dello scorso anno aveva imposto il distacco di Ancarano da Capodistria e le elezioni contemporanee nelle due nuove amministrazioni, nell’arco di due mesi. Visti tutti i tentativi falliti di pervenire ad una simile soluzione, la Corte non ha ritenuto incostituzionale la legge sulle amministrative capodistriane, già indette per il 10 luglio, ma ha deciso di usare il suo potere - è la prima volta che accade - per realizzare quelli che sono considerati i legittimi diritti dei cittadini di Ancarano. Fra tre anni, assieme agli altri enti locali del Paese, parteciperanno al voto in maniera autonoma.

La tutela della Comunità Nazionale Italiana nel nuovo Comune questa volta è stata citata esplicitamente. Sarebbe ampiamente garantita, nel rispetto degli atti internazionali vigenti e dei dettami costituzionali. I connazionali della zona, inoltre, avranno un seggio garantito nel nuovo Consiglio municipale, che conterà 13 consiglieri. Le reazioni alla sorprendente delibera della Corte costituzionale non si sono fatte attendere. Il presidente del Parlamento, Pavel Gantar non ha nascosto il proprio disappunto, dichiarando che la delibera su Ancarano potrà avere ripercussioni di natura giuridico - costituzionale. In tale contesto si attende una reazione adeguata della Camera di Stato ed un’attenta disamina delle competenze dell’Alta Corte, che si è espressa su una materia che, in questo caso, non era stata sottoposta alla sua attenzione. Per il deputato al seggio specifico del Parlamento sloveno, Roberto Battelli, si tratta, tutto sommato, di “una bella giornata per tutti i capodistriani, che potranno finalmente esercitare il loro fondamentale diritto al voto, anche se luglio non è il periodo migliore per una consultazione elettorale”. Sull’altra controversa delibera della Corte, rileva che “fino al 2014 sarà ancora possibile fare un’ulteriore riflessione sulle vere motivazioni che hanno indotto i promotori del nuovo Comune. ”Sarà possibile capire”, osserva Battelli, “quanto l’iniziativa sia legata alla realizzazione di legittimi interessi della popolazione e alla soluzione dei loro problemi, che come sappiamo non si risolvono creando nuove municipalità, ma riformando le leggi e attuando quelle esistenti, e quanto invece ad un uso a dir poco disinvolto delle procedure giuridiche a fini personali”. La soluzione migliore, secondo Battelli, “sarebbe di stabilire una volta per tutte che non esistono più i motivi che indussero nel 1994 la Corte costituzionale a dichiarare non congruo con le norme esitenti il Comune di Capodistria”. “Non è un caso”, conclude, “che lo spiritus agens di quella sentenza abbia uno stretto legame tuttora con i promotori del Comune di Ancarano”. Per il presidente della Giunta esecutiva dell’Unione Italiana, Maurizio Tremul, si riapre una lunga vertenza che sembrava già archiviata con la bocciatura di Ancarano in Parlamento. “Ora la questione viene ribaltata. Credo sia una decisione assurda e paradossale. Sconfessa la volontà della maggioranza espressa alla Camera. Per quanto riguarda la Comunità Nazionale Italiana, invece, viene penalizzata proprio da chi doveva difendere i suoi diritti.

Considerato che i giudici ritengono i nostri connazionali di Ancarano tutelati dalle norme vigenti, speriamo agiscano sul piano operativo affinché esse siano regolarmente attuate”, è stata la valutazione di Tremul.”La Comunità autogestita costiera della nazionalità italiana”, rileva il presidente, Flavio Forlani, “saluta la decisione di permettere le elezioni per il Comune di Capodistria, ma esprime rammarico per la decisione di permettere la costituzione del Comune di Ancarano con le amministrative del 2014. I giudici, anche in questo caso non hanno sentito il bisogno di interpellare i rappresentanti della Comunità italiana, credendo alle parole dei promotori del Comune di Ancarano. La comunità italiana ha più volte affermato e dimostrato che non viene rispettato lo statuto speciale del Memorandum di Londra, che vieta ogni cambiamento territoriale a danno della minoranza italiana. Ad Ancarano non ci sono strutture e istituzioni della minoranza italiana e pertanto non si può accettare la constatazione della Corte costituzionale che gli appartenenti alla comunità italiana di Ancarano abbiano garantiti tutti i diritti che provengono dagli accordi internazionali firmati dalla Slovenia. Se questi diritti saranno attuati, come promettono i promotori del Comune di Ancarano, allora speriamo che fino al 2014, quando si dovrebbero tenere le elezioni del nuovo Comune, vengano costituiti l’asilo, la scuola, la biblioteca e le altre strutture necessarie per la vita e l’attività della comunità italiana”.Sorpresa per la procedura che porterà al nuovo Comune di Ancarano è stata espressa anche dal presidente della Comunità Autogestita della Nazionalità di Capodistria, Alberto Scheriani. “L’imposizione dei magistrati è insolita. Finora le decisioni sulla nascita di nuove municipalità nascevano in Parlamento ed è risaputo quali sono state le decisioni dei deputati. Esprimo, invece, soddisfazione per la conferma delle amministrative capodistriane, quando saranno assegnati pure i tre seggi specifici per la CNI in Consiglio comunale e sarà rinnovata anche l’Assemblea della nostra CAN”. Comprensibile la soddisfazione dell’Iniziativa civica per l’autonomia di Ancarano. Il suo coordinatore, Gregor Strmčnik, ritiene che la delibera della Corte restituisca ai suoi concittadini la dignità che le procedure alla Camera di Stato avevano loro tolto.

Gianni Katonar (La Voce del Popolo del 14 giugno 2011)

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La città

Franco Juri (Zares): Perché ho votato a favore

Innanzitutto voglio ringraziare La Città per l’occasione che mi offre di spiegare, anche se sinteticamente, le ragioni per cui in parlamento ho votato a favore sia del referendum che della costituzione del comune di Ancarano. Mi sia concesso osservare che il dibattito su questo tema è stato sin dall’inizio ostaggio di sospetti e animosità che hanno voluto presentare la costituzione del nuovo comune come qualcosa di assiomaticamente ostile alla comunità nazionale italiana. Da ciò anche certi toni rancorosi a seguito della costituzione formale della Comunità degli Italiani di Ancarano su iniziativa di un gruppo di connazionali locali favorevoli alla nascita di un comune proprio.In merito penso sia opportuno sottolineare la differenza di fondo tra la situazione del 1999, ovvero il tentativo di smembrare il comune di Capodistria dall’alto e contro la volontà dei diretti interessati, e quella del 2009, in cui l’iniziativa è sorta dal basso, vale a dire per volontà diretta degli Ancaranesi, esponenti della CNI compresi, volontà verificata democraticamente in un referendum consultivo dalla partecipazione indubbiamente legittimante (il 65% degli aventi diritto) e una netta vittoria dei sì (56%). Il referendum è stato avallato prima e dopo della consultazione popolare dall’ Assemblea nazionale, ma l’esito finale della vicenda - per un solo voto la costituzione del nuovo comune, bloccata, dopo il primo avallo della legge, da un veto del Consiglio nazionale,

non è stata possibile- ha spinto la Corte costituzionale, interpellata dagli Ancaranesi, ad emettere una sentenza molto chiara che rileva come il parlamento, vanificando la volontà espressa al referendum che prima aveva confermato, abbia agito arbitrariamente. Arbitrariamente e in termini discriminatori, in quanto quello di Ancarano è diventato un precedente in assoluto per la Slovenia; il primo e unico caso di comune abortito dal parlamento malgrado l’esplicita volontà popolare emersa da un referendum legittimo e legale.Una serie di interessi particolari, perlopiù economici e legati alla speculazione immobiliare, nonché evidenti inciuci che hanno tessuto bizzarre alleanze politiche, hanno vanificato qualcosa che in ogni altra parte del paese sarebbe passata senza alcun problema. Hanno inoltre pericolosamente derubricato la Corte costituzionale e l’istituto del referendum, hanno esaltato l’arbitrio di chi fa la voce grossa e mantiene saldamente il controllo del potere reale, di quello economico e finanziario. Per camuffare i veri motivi dell’ostracismo nei confronti del nuovo comune abbiamo poi visto attingere strumentalmente a piene mani da alcuni timori – secondo me immotivati – espressi dalle istituzioni della CNI di Capodistria, ovviamente schierata con l’amministrazione comunale. Soprattutto quello di vedere nascere una CI e una CAN svincolate dal controllo dei vertici capodistriani. Sono stati così evocati lo statuto speciale e il Memorandum di Londra, la non esistenza di una scuola italiana ad Ancarano e l’ulteriore divisione della CNI nell’ Istria slovena. Timori legittimi ma che a un’attenta verifica dei fatti non reggono. Infatti il comune in gestazione prevedeva sin dalla prima proposta il pieno rispetto e l’applicazione dei diritti della CNI in tutto il territorio dell’attuale comunità locale di Ancarano, a prescindere dal numero dei connazionali. Così la legge sulla

costituzione del comune di Ancarano contempla il seggio specifico in consiglio comunale, la costituzione della CAN e il bilinguismo in tutto il territorio. Senza queste prerogative, come parlamentare interpellato da 650 firmatari dell’iniziativa ancaranese, non avrei mai sostenuto il diritto al referendum e di conseguenza ad un comune autonomo. La legalità dell’iniziativa è stata confermata a più riprese dal parlamento, dal governo e dalla Corte costituzionale. Ė perciò del tutto fuori luogo sostenere che il referendum ad Ancarano sia stato permesso senza rispettare il quadro legale. Se così fosse il parlamento non si sarebbe afrettato, subito dopo che il comune di Ancarano era stato vanificato dal veto, a modificare la legge sulle atonomie locali, cancellando l’articolo sulle eccezioni concernenti il numero di abitantiE mi sia consentito infine qualche dubbio sui timori delle istituzioni della CNI di fronte ad uno sviluppo urbano, territoriale, economico e demografico di Capodistria ben lungi dagli interessi reali della sempre più esigua e debole comunità italiana. I veri problemi di quest’ultima non sono certo la costituzione di un nuovo comune bilingue, una nuova CAN e una nuova Comunità degli Italiani ad Ancarano. Per quanto riguarda invece i motivi originari dell’iniziativa per il comune autonomo penso vadano individuati nella mancanza di soggettività giuridica delle comunità locali, soggette spesso all’arbitrio di un potere comunale che pianifica e impone i propri interessi senza considerare quelli delle comunità di cittadini direttamente interessati.

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La città

Luka Juri (SD): Perché ho votato contro

Per due ragioni: sia perché Ancarano no ha le condizioni legali e costituzionali per diventare comune, sia perché credo che tutti noi abbiamo ed avremo più beneficio nel vivere insieme in un comune unico. Mi rendo conto che gran parte della voglia di avere un proprio comune, espressa da quel 35% degli elettori di Ancarano che hanno votato a favore di esso, scaturisce dalla delusione con il sindaco attuale e dalla conseguente “voglia di andarsene”. Credo però che tale logica non sia giustificata - in questo modo infatti un domani

pure una regione slovena, scontenta col governo, potrebbe cominciare a pretendere uno stato proprio. Esiste un’altra via per cambiare la guida del comune: questa è quella delle elezioni amministrative che spero presto saranno effettuate pure a Capodistria. È proprio tramite le elezioni, scegliendo il sindaco, i consiglieri comunali e quelli delle comunità locali, che possiamo influenzare la scelta riguardo la nuova direzione comunale. Ancarano fa parte del concetto urbano di Capodistria. È come voler fare di Salara o di Semedella un comune indipendente: ciò significa più inefficienza, più divisioni e più problemi e non garantisce affatto più democrazia. Oltre a ciò la Costituzione, tramite gli articoli 8, 64 e 139, non permette la costituzione di un comune ad Ancarano, anche perché si vuole garantire il rispetto dei diritti della Comunità nazionale italiana. Purtroppo ciò non ha avuto l’attenzione dovuta prima del

referendum consultivo che molti di noi, compreso io, avevamo erroneamente interpretato come vincolante. D’altro lato sono convinto che il nostro comune, con un centro aperto verso il mare ed una periferia articolata ed interdipendente, rappresenti un vantaggio nell’intento di favorire lo sviluppo regionale. Un comune grande e forte ha una posizione migliore nel dialogo con lo stato, come lo dimostra ad esempio uno dei vivaci negoziati correntemente in corso nei quali stiamo cercando di modificare il proposto piano regolatore per il porto nell’intento di garantire una migliore convivenza di quest’importante impresa con noi, la gente che ci viviamo accanto. Spero che tutti, sindaco compreso, saremo capaci di favorire di più la convivenza nel nostro comune ed a dimostrare, giorno per giorno, che un comune grande, forte ed unito conviene a tutti, in primis a tutti noi, i suoi cittadini.

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La città

Cara Nazione Madre, anche noi ti auguriamo

Buon 150.mo compleannodi Alessandra A. Tremul

Da alcuni mesi assistiamo ai festeggiamenti indetti per il 150.mo anniversario della nascita dell’Italia, che avvenne finalmente nel 1861 dopo un processo durato lunghissimi anni, in un momento in cui tutte le condizioni erano favorevoli a questo importante evento. Oggi però sono presenti in Italia diverse sfumature del sentirsi italiani, anche molto distanti tra di loro. Spesso però, non ci si rende conto di quanto il sentirsi appartenenti ad una cultura, il poter parlare nella propria lingua madre o lingua padre, sia un cammino lungo e tortuoso.

Le cittadine della costa istriana sono state a forte prevalenza italiana fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, dunque Capodistria, Isola, Pirano in primis, ma anche in tantissime altre località della penisola era normalissimo vivere e parlare in italiano. Oggi è importante ricordare che noi italiani d’Istria, che siamo stati uniti allo Stato italiano, solo dopo la vittoria conseguita alla fine della Grande Guerra e in virtù di un Trattato di pace internazionale, siamo stati quelli che abbiamo dovuto pagare il conto per quella scellerata politica condotta dalla classe politica operante tra le due guerre mondiali, in questi territori abitati da popolazioni diverse.Il nostro destino di comunità italiana in Istria divenne incerto già nel corso

della Seconda guerramondiale, con le prime violenze gratuite nei nostri confronti, con il ridimensionamento della Resistenza italiana, per poter dimostrare così solo il lato oscuro – quello del male – della presenza italiana nell’Alto Adriatico. Tutto ciò era naturalmente funzionale ai grandi progetti di espansione e annessione della Jugoslavia in una terra dove da secoli convivevano popolazioni diverse, ma in cui le città dunque le attività economiche principali, l’istruzione e la classe dirigente erano in mano alla parte italiana.In questa zona di confine dopo la Seconda guerra mondiale si consumò una rivoluzione senza precedenti, che usando l’ideologia del socialismo, unitamente ad una serie di pressioni sulla popolazione locale, sopprimendo

la proprietà privata e introducendo (momentaneamente) quella socialista riuscì non solo ad effettuare il passaggio di quasi tutti i beni presenti sul territorio da un gruppo sociale ad un altro, ma a cambiare completamente e irreversibilmente quasi tutta la popolazione. Ecco che da maggioranza sul proprio territorio d’insediamento siamo diventati un’esigua minoranza.Il nostro mondo, i nostri valori, i nostri usi e costumi e la nostra storia, in alcuni decenni sono stati talmente erosi che anche molti di noi, purtroppo, fanno fatica a riconoscerli. Solo i più anziani della comunità, ormai pochissimi, cioè solo quelle persone che hanno visto il drastico cambiamento avvenuto in Istria ne hanno memoria.La nostra memoria e la nostra storia sono state sistematicamente rimosse, cancellate e re-inventate per farci sentire in colpa di errori non commessi, per giustificare quello che il sistema jugoslavo ha compiuto, per farci dimenticare, o meglio vergognare, di essere italiani.Non è stato semplice resistere e sopravvivere in un ambiente dove gli italiani sono stati a lungo considerati stranieri in una regione in cui invece sono sempre stati a casa propria, descritti esclusivamente in maniera negativa.Sulle nostre spalle abbiamo un lungo periodo di angherie e soprusi, a cominciare dal divieto (non sempre codificato ma fortemente sottinteso) di parlare nella nostra lingua madre/padre nei luoghi pubblici, sul posto Alessandra Argenti Tremul

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La cittàdi lavoro; dell’essere stati per lunghi anni senza un preciso status giuridico; di non aver avuto sempre il diritto al proprio nome scritto e pronunciato nella sua forma originale cioè italiana; dell’aver subito la chiusura delle scuole in lingua italiana e/o il traferimento forzato nelle scuole slovene e croate; nell’essere di fatto esclusi dal mondo del lavoro diverso dal piccolo gruppo di enti che si riferiscono alla minoranza italiana; nell’essere ostacolati da tutta una serie di pressioni psicologiche e ambientali, nel tramandare la propria lingua e cultura alle generazioni future. Per tutta la sofferenza che ci è stata inflitta e per l’essere comunque rimasti a vivere a casa nostra, ancorati ai nostri splendidi scogli come solo i granchi lo sanno fare, per l’aver continuato a parlare nella lingua di Dante con i nostri figli e ma anche con i nostri nipotini, per avere ancora il coraggio di iscrivere i bambini e le bambine alla nostra scuola, abbiamo il diritto e il dovere morale di chiedere il rispetto della nostra identità e della nostra storia.

Per quanto riguarda la storia del Risorgimento c’è da dire che anche gli istriani, ma soprattutto noi capodistriani abbiamo fatto la nostra parte. Vi invito a spendere un’oretta al Museo del Risorgimento di Trieste, in piazza Oberdan, per appurarlo di persona. In questo modo conosceremo anche questa parte della nostra storia, completamente dimenticata da più di mezzo secolo.Ricordiamoci che alla costruzione dell’Italia hanno dato il loro contributo Niccolò Tommaseo (Sebenico), Domenico Lovisato (garibaldino di Isola), i capodistriani Nazario Sauro, Carlo Combi e Antonio Madonizza, Carlo De Franceschi (Pisino), Antonio Baiamonti (Spalato), i fratelli Stuparich e tanti altri che persero la vita nelle varie guerre d’indipendenza.La nostra storia è tutta da riscoprire e valorizzare, da raccontare, non solo ai più piccoli affinchè crescano

forti delle loro radici e senza alcun timore di esprimersi nel dialetto capodistriano o istro-veneto o in italiano, dentro e fuori le mura domestiche. Questo è certamente un compito complesso, ma che ciascuno di noi può cominciare a fare solo ricordandosi delle storie di vita di una volta narrate da nonni e bisnonni, recuperare e s p r e s s i o n i linguistiche riposte nei cassetti, tirare fuori i giochi e le filastrocche di una volta, preparare e mangiare le pietanze tipiche che si cucinavano nella nostra città e regione. Mangiamo ancora i bisi e i cunigi de Capodistria? Le sepe o il brodeto con la polenta? Pinze, crostoli, fritole e bussolai sappiamo ancora farli?Si può iniziare con dei piccoli gesti nella nostra vita quotidiana a conservare e tramandare le nostre radici. Oltre al ruolo della famiglia è fondamentale anche il compito della scuola e dei docenti che con un pizzico di amore verso la propria/nostra comunità e la nostra regione, hanno modo di recuperare il nostro passato nelle diverse materie d’insegnamento, dunque di aiutarci a garantire e costruire un futuro ai nostri figli e alle nostre figlie, alla nostra comunità nazionale autoctona in Istria. Poi però ci vuole il coinvolgimento delle istituzioni, che grazie alla loro professionalità, possono contribuire notevolmente a recuperare il nostro immenso (e sconosciuto) patrimonio artistico, storico e culturale.

Credo che in questa occasione del 150.mo anniversario della nascita

dell’Italia sia importante ricordare la nostra lingua e cultura, sempre naturalmente rispettando gli Stati domiciliari in cui oggi viviamo. Al contempo, desidero anche il rispetto e la dovuta considerazione per la storia e l’identità che siamo riusciti a mentenere nonostante le avversità del secolo scorso, non solo da parte di coloro che vivono accanto a noi, ma anche dalla nostra Nazione Madre.Mi auguro che nella prossima ricorrenza della Giornata del ricordo delle vittime delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata, anche noi rimasti possiamo partecipare assieme agli esuli, seduti uno vicino all’altro, alla cerimonia al Quirinale non solo in considerazione della comune sofferenza per lo stravolgimento della nostra società e della nostra vita, ma soprattutto per l’impegno che abbiamo profuso nel mantenere ancora oggi viva la lingua e la cultura italiane in Istria, nel Quarnero e in Dalmazia.

La lapide in ricordo di Carlo Combi murata in Via Verdi, di fronte alla sede del Comune

(ex casa Madonizza)

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La città

In questi giorni mi sto chiedendo cosa può significare per me un anniversario così importante, come lo è il 150.esimo anniversario dell’Unità d’Italia. Che contributo può dare, a questo avvenimento, la tribù a cui appartengo, quella Comunità nazionale italiana abbarbicata in Istria

e dintorni come un residuato bellico, come la parete di un casolare indecisa se andar giù o restare in piedi.Il caso politico e mediatico che sta lievitando intorno all’evento, le prese di posizione secessioniste della Lega nord, lo snobismo germanico della minoranza tedesca del Sud Tirolo, la

pacata partecipazione della minoranza slovena, mi stanno imbrigliando in una rete di strane sensazioni, miste fra distacco e nostalgia. Chissà se la passione per la cultura italiana e il dna linguistico che accomuna me e la mia tribù alla grande famiglia del Bel Paese sia condizione sufficiente per aderire al giubilo generale? Oppure, al contrario, il nostro essere italiani fuori d’Italia, fuori da tutti i suoi circuiti culturali e politici, il nostro essere figli di più storie e più Stati, mi dovrebbe porre in una condizione tutto sommato indifferente nei confronti di un processo, l’unificazione dell’Italia, che per noi non è altro che un riverbero culturale e linguistico.Ma un riverbero sottile e nitido, impresso nella memoria e pronto a riemergere ogniqualvolta cerco una risposta alla mia, alla nostra, condizione particolare, eccentrica, marginale, emarginata e trincerata. Un riverbero che per me ha la forma di un ricordo d’infanzia, appiccicato come il frammento di quel puzzle attaccato alla parete traballante del nostro vecchio casolare. Mi sono ancora ignoti i motivi per cui mia madre, nei lontani anni Sessanta del secolo scorso, decise di investire una bella somma di lire per acquistare, a rate, la grande enciclopedia Hoepli che ancora oggi addobba il salotto di casa. Sette rate per sette enormi tomi che non ho mai smesso di sfogliare come un oceano di parole, di storie, di spunti per sognare. Vedo ancora oggi, nitido come un raggio di sole, una madre e un figlio prendere la corriera per Trieste, fare la fila al confine di Rabuiese, incamminarsi giù per viale Carducci per ritornare, dopo una sosta in libreria, in Largo Barriera Vecchia, da dove ripartivano le corriere per l’Istria. Vedo ancora come stringono sotto il braccio, un po’ lei, un po’ lui, con circospezione, con gelosia, un libro pesante come un mattone.

Aljoša Curavić

Italia sì, Italia no

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Il Cimitero di S. Canziano, monumento da salvaredi Mario Steffè

Nella ricorrenza del duecentesimo anniversario della fondazione del cimitero di Capodistria a San Canziano, si impone una doverosa riflessione sulla conservazione e tutela del patrimonio culturale, artistico e achitettonico della necropoli cittadina. Il perimetro storico del cimitero capodistriano entro l’area delimitata dalla vecchia cinta muraria è stato fra i primi in Istria ad essersi adeguato nella pianificazione urbanistica alla moderna disciplina cimiteriale conseguente all’introduzione delle nuove norme di sepoltura in età napoleonica, mantenendo nei secoli il sito originario nonostante i successivi ampliamenti e ristrutturazioni. L’area del nucleo storico cimiteriale si presta pertanto, per quanto notevolmente intessata negli ultimi decenni da nuove sepolture che hanno rimpiazzato sepolcri antecedenti di cui erano cessati gli oneri del canone e di manutenzione, a svariate ipotesi di indagine di ordine sociodemografico, storico ed artistico-monumentale.

Essenziale è innanzitutto prendere coscienza del fatto che all’area cimiteriale vanno associate, accanto alla pietà del culto per i defunti, un’etica di rispetto e considerazione di una sfera di primaria importanza per il vissuto storico urbano. Dai monumenti funebri emerge una traccia non indifferente del nostro passato che riporta alla struttura sociodemografica dell’epoca nonchè all’incidenza locale dei cognomi, alla storicizzazione del blasone sociale, operato e virtù civici, censo, meriti pubblici e privati della popolazione capodistriana. Accanto alle fonti di documentazione storica, gli elementi materiali che rimandano al passato recente e la traccia di una presenza postuma collegata al territorio, costituiscono una componente di non poco conto nella storia di un luogo. Se si considerano poi i tanti illustri cittadini nel campo della storia patria, delle arti e delle scienze le cui spoglie mortali hanno trovato ultima dimora nel cimitero di San Canziano, la tutela dell’area cimiteriale e delle tombe di rilevanza storica, monumentale e artistica dovrebbe immediatamente imporsi come un impegno civico e morale prioritario. Un’eco di tale indirizzo si può rintracciare nelle convenzioni internazionali e nelle norme di carattere generale che sanciscono i principi di tutela delle aree cimiteriali a cui ogni società civile dovrebbe far riferimento in virtù degli elementi sopraccennati.

Ma vi è un altro aspetto, spesso sottaciuto o travisato, che dovrebbe da solo convogliare tutto l’impegno da parte delle istituzioni rappresentative della Comunità Nazionale Italiana sul suo territorio di insediamento storico a difesa di tale elemento. Mi riferisco alla presenza, inesorabilmente intaccata con l’andare del tempo, delle tombe italiane nel cimitero di Capodistria e in generale in tutta l’area istriana. E qui si intende la presenza storica di tutta quella parte di popolazione di nazionalità italiana di cui resta traccia nelle vestigia cimiteriali, in quanto componente egemonica del tessuto cittadino fino agli anni ‘50 del secolo scorso. Se il prezioso patrimonio monumentale, artistico e architettonico che fa bella mostra di sé nel contesto cittadino continua a rendere testimonianza dell’importante lascito di impronta istro-veneta, è legittimo chiedersi fino a quando e in che misura si conserverà traccia nelle testimonianze cimiteriali della matrice autoctona italiana.Di fatto, a partire dagli anni ‘60, con un incremento negli anni ‘70 e ‘80 (in particolar modo prima degli interventi di estensione dell’area cimiteriale resisi necessari in seguito all’espansione demografica della popolazione capodistriana), le nuove sepolture riconducibili alla sopraggiunta componente non autoctona hanno mutato sostanzialmente l’aspetto cimiteriale nella sua parte storica.

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Sulla situazione preesistente si è innestasta pertanto la nuova componente etnico-demografica della città, a volte con aspetti stridenti e in assenza di una regolamentazione specifica a tutela del patrimonio storico cimiteriale. Il ricambio biologico-generazionale della popolazione

non autoctona introdotta nel tessuto urbano in seguito ai radicali mutamenti sul territorio indotti dalle profonde trasformazioni politico-economico-sociodemografiche del dopoguerra, ha quindi inciso immancabilmente anche sul nuovo assetto cimiteriale.Solo a partire dagli anni ‘90, in un clima di nuova sensibilità ed aperture civili, si è iniziato a valutare gli aspetti di tutela della memoria storica in relazione all’area cimiteriale e ai monumenti funebri. Su un fronte l’Istituto Regionale per la Cultura Istriana di Trieste si è adoperato per la tutela delle sepolture italiane in Istria, pianificata a partire dal 1995. Nell’ambito di tale progetto di tutela sono state compiute ricognizioni e catalogazioni delle tombe e delle epigrafi lapidarie dei cimiteri istriani, e sostenuti finanziariamente i canoni di manutenzione di alcune tombe di rilevanza storico-monumentale. Per quanto riguarda il cimitero di Capodistria, la Comunità Nazionale Italiana si è impegnata sin dai primi anni ‘90 per l’introduzione di nuove disposizioni amministrative comunali volte a conservare il patrimonio stotrico-monumentale cimiteriale in quanto lascito artistico-culturale e testimonianza della presenza italiana sul territorio. Tale identità, ben riconoscibile nell’area storica del cimitero di San Canziano, rischiava e rischia tuttora di affievolirsi in seguito al degrado, all’incuria e alla mancata attuazione di un regime efficace di tutela e salvaguardia delle tombe che dovrebbero essere interessate da tale vincolo.

Dico dovrebbero perchè con l’entrata in vigore dal dicembre 1996 del nuovo decreto comunale sull’amministrazione

Le tombe dei 10 capodistriani fucilati dai tedeschi il 2 ottobre del 1943

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dei cimiteri l’amministratore (l’azienda municipalizzata Komunala s.r.l.) è tenuto a rispettare, in assenza di decreti particolari di tutela, le istruzioni e gli orientamenti prodotti dall’Ente competente per la salvaguardia del patrimonio naturale e culturale. Tali orientamenti preliminari non sono però di fatto mai confluiti in uno specifico decreto d’interesse particolare volto a stabilire il valore artistico, storico, monumentale ed altro, ivi compresi gli elementi comprovanti il carattere autoctono degli appartenenti alla nazionalità italiana. È importante far notare che in assenza di tali disposizioni e in regime provvisorio di tutela, l’amministratore ha l’obbligo per qualsiasi intervento nella parte vecchia del cimitero di ottenere il relativo permesso dell’Ente intercomunale per la tutela del patrimonio

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La cittànaturale e culturale di Pirano, nonché acquisire il parere della Comunità autogestita della nazionalità italiana di Capodistria. Sebbene sia dimostrabile la rimozione di diversi monumenti funebri e l’accoglimento di nuove sepolture su precedenti inumazioni nella parte storica del cimitero di Capodistria, nessuna richiesta di parere è stata finora trasmessa all’indirizzo della Comunità autogestita della nazionalità italiana, in palese inottemperanza alle disposizioni normative in materia. Giova forse a tal proposito riconsiderare la diffusa e palese contrarietà all’introduzione di disposizioni chiare e definitive in materia di tutela dell’area storica cimiteriale espressa all’epoca in sede di formulazione del decreto comunale sull’amministrazione dei cimiteri. Il risultato all’atto pratico ha generato l’odierno approccio in materia, dal quale consegue una generalizzata incuria se non addirittura un non dichiarato indirizzo di progressiva ridefinizione dell’area cimiteriale d’interesse storico. Anche l’auspicato allestimento dell’apposito lapidario per preservare le lapidi e pietre sepolcrali rimosse non sembra avere corretto riscontro nella prassi alla luce degli esigui reperti cimiteriali superstiti.

Recentemente è stato accolto dal Comune di Isola un decreto sulla proclamazione del cimitero isolano quale monumento di interesse locale per i valori culturali e storici (commemorativi). Il regime di tutela contempla la conservazione dell’impianto originario dell’area cimiteriale e la tutela dei monumenti funebri, inclusi gli elementi comprovanti l’autoctonia della Comunità Nazionale Italiana. Ritengo che questa sia la strada giusta da intraprendere anche a Capodistria, implementando le attuali disposizioni amministrative in uno spirito di rivalutazione di un patrimonio storico culturale cittadino di primaria importanza. Non certo per togliere spazio alle sepolture recenti, ma per definire in tutta chiarezza e con adeguati strumenti applicativi l’esigenza di rispettare la memoria storica della città, che si rispecchia anche nel lascito cimiteriale di San Canziano.E l’occasione del duecentesimo anniversario della fondazione del cimitero capodistriano può costituire una valida occasione per rivendicare ulteriormente presso gli organismi comunali pertinenti l’adozione di più efficaci strumenti di tutela del patrimonio storico d’interesse locale.

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Per lunghi secoli le umane spoglie venivano racchiuse dall’amore dei superstiti nelle chiese e nei luoghi abitati. Ogni famiglia agiata, ogni sodalizio avea la propria tomba, e l’affetto dei morti era manifestato con uffici di propiziazione e col rendere il venerato recesso il meglio possibile appariscente. Capo d’Istria diede luminoso esempio d’alti sensi di pietà, abbellendo la dimora al sempiterno riposo dell’infinita miseria umana.Nel Duomo vennero deposte le umane reliquie dei vescovi: S. Nazario (524 – non potendo precisare l’anno della morte d’ogni Vescovo, s’indica quello della loro nomina), B. Assalone (1220), Giovanni Loredano (1390), Geremia Pola (1420), Gabriele de Gabrieli (1448), Giacomo Valaresso ((1482), Antonio Elio (1572), Baldassare Bonifazio Corneani (1653), Antonio Maria conte Borromeo (1713), – e di altri. La chiesa di S. Alessandro, attigua al portone d’ingresso del Vescovato, ora atterrata, accolse la salma del vescovo Pietro Morari (1630); – la chiesa di S. Biagio quella di Paolo Naldini (1686); – la chiesa del Carmine quella d’Agostino conte Brutti (1733); – la chiesa di S. Chiara quella di Pietro Antonio Delfino (1684); – quella di Semedella di Bonifazio Da Ponte (1776); – e la chiesa di S. Francesco quella di

Pietro Manolesso (1301). In quest’ultima chiesa ebbero l’avello: il Beato Monaldo de’ Monaldi giustinopolitano; – il principe Enrico duca di Bar, nipote di Giovanni II re di Francia, e consanguineo di Carlo V il Saggio e di Carlo VI l’Amato, morto in questa città li 3 ottobre 1397; – il generale Filippo Arcelli nell’anno 1421; – addì 19 settembre 1742, nell’arca di Nicolò del Bello, vicina a quella dei conti Sabini (poscia Grisoni), S. E. Alfonso di Cardenas di Napoli, conte dell’Acerra, marchese de Lain, cavaliere del Toson d’Oro, principe del Sacro Romano Impero, Grande di Spagna di Prima Classe; – ed i membri delle più illustri Prosapie della città, chiudendo il registro, li 20 Gennaro 1806, la nobil donna Lucinia de Gavardo nata de Almerigotti.

Editto imperiale vietò nel 1806 ogni sepoltura in città, ed il terreno all’ingiro della chiesa della Madonna delle Grazie di Semedella, consacrato all’immutabile soggiorno degli estinti nell’ultima pestilenza (1630-31), veniva destinato alla tumulazione dei decessi, cittadini e militari, fino al giorno 25 Maggio 1811, in cui riceveva seppellimento per ultimo, il cadavere del bambino Domenico Rosa di Francesco.L’incomodo trasporto dei cadaveri con la barca, essendo la vecchia strada terrestre lunga e disagiosa, spronò i rettori del comune ad occuparsi per sostituire al campo santo di Semedella, un fondo di facile accesso per via di terra. Idoneo all’uopo venne ritenuto un campo di proprietà del civico nosocomio, sul versante settentrionale della collina di S. Canziano, nel suburbio di questa città, ad un quarto d’ora di distanza, il quale fu circondato da muri in calce dell’altezza di 9 piedi e fu aperto ai Resurrecturis dal Reverendissimo Decano capitolare Monsignor Pietro D’Andri; ricettando, per primo, il giorno 27 Maggio 1811, la salma dell’Eccellentissimo Dr. Leone Urbani, Protomedico dell’Istria, d’anni 81, figlio del defunto Pietro, da Gemona, marito di Elena Cerineo e suocero del Barone Angelo Calafati.Nel centro del sacro ed augusto recesso è stata eretta una chiesa di forma quadrata, collocandovi nella medesima l’altare della soppressa chiesa di S. Nazario, situata appresso la strada postale, convertita in polveriera ed ora ridotta a caserma della finanza.La custodia della nuova Necropoli fu affidata, fino al 1818, al sacerdote D. Luigi Bencich.Il Cimitero portava il numero catastale 3208, e la chiesa il numero catastale 305, con un’area di tese quadrate 1279.Risultando in progresso essere ristretta la nostra futura dimora a capire le spoglie mortali di questa popolazione,

Nel 1888 Gedeone Pusterla pubblicava l’opuscolo dal titolo:

»La necropoli di S. Canziano nel suburbio di Capodistria«Ne riportiamo il testo, senza gli elenchi pubblicati in calce all’opera

Memorie storiche

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fu divisato dalla rappresentanza comunale d’aggrandirla con due pezzi di terreno, l’uno al lato d’Ostro, erigendovi in questo nel 1830 dall’imprenditore Francesco Mori la seconda chiesa, che nel 1849, su disegno dell’architetto Dr. Girolamo de Almerigotti di Marco, dall’imprenditore Giovanni Cibeu, coll’ispezione del tecnico Pietro Zeriul

fu Antonio e degli assessori comunali conte Giuseppe Tacco di S. Domenico e Luigi Gallo fu Francesco, è stata rinnovata e nel 1850 ufficiata; – e l’altro al lato di Tramontana, stato nel 1858, dall’imprenditore Pietro Gallo cinto di muro in calce, in luogo dell’assito.L’ampliata suprema dimora fu solennemente benedetta

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La cittànel 1856 dall’Illustrissimo Preposito infulato, Monsignor Elio-Nazario Stradi, coll’assistenza del clero e col concorso della popolazione (…).Giuseppe Martissa fu Nicolò e Matteo Mocoraz hanno ceduto gratuitamente due lembi dei loro limitrofi fondi al campo santo, necessari per la regolazione del pezzo di terreno da incorporarsi nel medesimo.Il fondo del Cimitero, perché in riflessibile pendenza, è stato ridotto a ripiani parallelogrammi, con vie comode e regolari, specialmente quella del centro, e reso, dalla benemerita Commissione, a capo della quale sta il prestantissimo Andrea Bullo fu Giovanni, condegno asilo dei morti, non risparmiando cure e vigilanza per abbellire, in difetto di tesori marmorei, con verdeggianti zolle, la desolata memoria dei nostri estinti, alcuni dei quali vengono ricordati da iscrizioni, epigrafi, croci, ghirlande, fiori, mirti, cipressi, salici piangenti, semprevivi e marmi.

I molto reverendi Vicari corali Don Pietro Sincich (ora Canonico del Reverendissimo Capitolo di Trieste), e Don Giovanni Evangelista Treun, ebbero il merito negli ultimi mesi del 1855 e nei primi del 1856, di raggranellare, da offerte di persone divote, un gruzzolo per provvedere la nuova chiesa di arredi e di oggetti indispensabili per l’ufficiatura, e d’acquistare a Lubiana la campana e a Vienna, col mezzo di Don Giovanni Nepomuceno Glavina (in allora alunno nell’Istituto di sublime educazione presso Sant’Agostino, ed ora nostro venerato Pastore), un calice d’argento e sei candelieri di ghisa inverniciata a nero.Mercè l’opera dei sullodati benemeriti sacerdoti è stata istituita nel 1856 la Confraternita del suffragio dei defunti, che presentemente abbisogna di venire vivificata, per non abbandonare nell’oblio i nostri morti, e per ispirarci colla contemplazione delle tombe che racchiudono gelide e mute le loro salme (…) a solenni pensieri sulla miseria umana e sul nostro dovere di suffragarli, d’inaffiare colle lacrime il freddo avello e di svegliere il cardo, l’ortica e le cattive erbe dal medesimo.Essendo stata furata (rubata, ndr) la predetta campana, ne veniva data in dono una di minore grandezza dalla contessa Orsolina de Totto, vedova del conte Giovanni, ch’ebbe la sorte della prima, e poscia inviava una

terza il nobile Giovanni de Gavardo, che il Municipio collocò all’invece nel cortile dell’edifizio ginnasiale, per contrassegnare le ore di scuola. Sulla facciata della chiesa è infissa l’epigrafe:

PRESCELTA A CAMPO SANTOSOTTO IL REGNO ITALICO

QUESTA OCCIDENTALE APPENDICEDEL COLLE S. CANZIANO

LA PRIMA SALMA ACCOLSELI 27 MAGGIO 1811

1885.

Alla porta della medesima stà l’invito a stampa:

O TU CHE QUESTE ZOLLE A PREMER VIENIIMPLORA PACE ALL’ALME DEI SEPOLTI

E PERCHE’ LINDO SEMPRE SIA IL TEMPIETTOQUI UNA MONETA GETTA PRIA D’USCIR

Rettori della chiesa furono: Don Pietro D’Andri, D. Giuseppe Rossi, D. Elio-Nazario Stradi, D. Luigi Vlah, D. Elio-Nazario Stradi per la seconda volta, e dal 1868 impoi è il cavaliere Mons. Francesco Petronio.Appartato sepolcro hanno i sacerdoti secolari e regolari nel riparto a mano destra della chiesa; i greci non uniti, i protestanti, gli ebrei, i turchi ed i suicidi, in un riparto non benedetto; e 122 famiglie, in fondi lungo i muri di cinta al prezzo di f. 30 di convenzione, pari a f. 31 e 50 di valuta austriaca, elevato a f. 50, acquistati dal comune.

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Carnevale istriano: la sfilata dei mille con il gruppo della CI »Santorio«

Più di mille maschere hanno preso parte al terzo Carnevale istriano, organizzato quest’anno da tutti e tre i Comuni costieri con un programma estremamente ricco e variegato. Alla sfilata, snodatasi davanti alla porta della Muda per confluire di fronte alla Taverna, hanno partecipato 16 gruppi mascherati (composti da 8 a ben 90 elementi). E per la prima volta ha partecipato alla sfilata anche un gruppo della Comunità degli italiani di Capodistria che, guidato da Biserka Forlani, ha indossato maschere veneziane prodotte dalla sezione Lavori creativi della CI. Dettagli e foto li trovate sul sito www.istrski-karneval.si.

Le maschere del Circolo davanti alla sede della Comunità. Foto Matia Ščukovt

Il corteo passa davanti alla porta della Muda

Bambini in visita alla Casa del pensionatoPresso l’asilo Delfino Blu dell’unità di Semedella, noi maestre abbiamo organizzato una festa mascherata, abbiamo decorato l’ambiente, scelto i balli e i giochi per i bambini e preparato una bella sorpresa. Avendo avuto una bellissima esperienza l’anno precedente, anche quest’anno il martedì grasso abbiamo fatto visita agli anziani presso la locale Casa del pensionato.All’entrata dell’enorme salone, siamo stati accolti con l’accompagnamento musicale di un’allegra fisarmonica. Gli anziani stavano già seduti in attesa di vedere quello che i bambini avevano preparato per loro. Con grande entusiasmo abbiamo iniziato con il ballo “Metti la mano” seguito da “Jupi ja ja”, poi ancora “Kili kili”, infine abbiamo invitato alcuni anziani a ballare con noi il “Ballo del qua qua”. Li abbiamo fatti gioire, battere le mani a tempo e perfino a ballare assieme a noi!Alla fine abbiamo sfilato con le nostre maschere e li abbiamo salutati mandandogli tanti bacini con la promessa di tornare ancora.

La Città è il periodico semestrale della Comunità degli Italiani Santorio Santorio di Capodistria. Viene pubblicato nell’ambito dell’attività editoriale prevista dal programma culturale della Comunità autogestita della nazionalità italiana di Capodistria cofinanziato dal Ministero per la Cultura della Repubblica di Slovenia e dal Comune città di Capodistria, e con il contributo finanziario dell’Unione Italiana. Redattore responsabile: Alberto Cernaz. Stampa: Pigraf s.r.l. Isola. Tiratura: 1.300 copie. Distribuzione gratuita a mezzo posta riservata ai soci della Comunità. Indirizzo: Comunità degli italiani Santorio Santorio di Capodistria, Redazione de La Città, Via Fronte di Liberazione 10, 6000 Koper-Capodistria (SLO). E-mail: [email protected]. Foto di copertina di Ubald Trnkoczy.

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Fare teatrodi Edda Viler*

La recita a scuola era sempre un evento che riuniva insegnanti alunni e genitori. Alla fine dell’anno scolastico, oltre ad essere una festa (al posto del grembiule si indossava un abito più bello e si potevano calzare le scarpe - per noi femminucce un vero vanto), era una conferma davanti ai nostri compagni, ai genitori e parenti che facevano da pubblico. Chi faceva parte della filodrammatica sentiva di valere, di essere un po’ più bravo e più bello degli altri. Non era una gara: era una felicità derivante dall’idea di aver fatto bene qualcosa. La nostra bravura non influiva sulla pagella. La recita era pura soddisfazione, e anche vanto per l’insegnante che ci guidava.

È chiaro, dunque, che l’attività teatrale è sempre stata la mia passione, fin dalle elementari, attività che ho proseguito anche più tardi, quando al liceo e all’università, la filodrammatica era diventata una presenza piacevole e familiare ma soprattutto un bisogno. Una volta diventata insegnante ho voluto trasmettere questa possibilità ai ragazzi. Il teatro diventava uno degli strumenti più utili e dilettevoli nell’insegnamento della lingua italiana. Ho iniziato a scrivere brevi testi ‘’a misura di ragazzo’’ perché all’epoca non esistevano commedie per i piccoli (ora in rete si trova qualcosa, ma solo grazie a poche insegnanti appassionate e volenterose). Vorrei precisare che fare teatro non vuol dire solo imparare un testo e interpretarlo; vuol dire capire i personaggi, dare loro un’espressione, una personalità. Vuol dire interagire con i compagni di scena, curare la pronuncia e la dizione e seguire la situazione

scenica. Il teatro diventa un itinerario molto articolato in cui sia l’attività mimica (il movimento, la gestualità, il ritmo) che verbale (la modulazione della voce, il tono) creano un legame tra i piccoli attori anche dopo le prove e dopo la rappresentazione. Il teatro diventa parte del percorso educativo, che fra i principali obiettivi interdisciplinari vede la comunicazione, la relazione con i compagni e gli insegnanti, il riacquisto di un’identità, una coscienza del proprio ruolo nel gruppo. Significa anche un avvicinamento al mondo letterario, alla poesia, al linguaggio narrativo, musicale, pittorico: elementi inscindibili che, sul palco e nella comunicazione scenica, hanno un ruolo essenziale.

Dopo questa lunga premessa posso affermare che vivo e rivivo la mia felicità ormai da tre anni, proprio assieme ai ragazzi della Scuola Pier Paolo Vergerio il Vecchio, sezione di

Bertocchi. E posso dire con grande soddisfazione che il sodalizio in quest’anno scolastico che volge al termine, è stato consolidato proprio con la commediola ‘’Gli scacciamaestre’’. Le insegnanti Astrid, Silvia ed Alessia sono state delle formichine, una presenza preziosa per l’esito finale. Voglio ricordare che i piccoli di Bertocchi si sono dimostrati dei campioni di scena anche due anni fa con ‘’Il Paese di carta’’. Per quanto riguarda gli elementi scenici: carta e cartone, materiali poveri, va detto che hanno trasformato lo scenario in qualcosa di ricco. Inoltre voglio ricordare che i costumi meravigliosi e vistosi sono stati cuciti a mano; grazie all’abilità di ago e filo delle signore della Comunità degli Italiani di Bertocchi (Ana, Nerina e Anica) la rappresentazione non avrebbe avuto quella magia e quel brio che tutti gli spettatori hanno avvertito. Ecco perché il teatro l’ho sempre visto come strumento formativo, di crescita personale, sia per i ragazzi che per le insegnanti, naturalmente coinvolgendo anche le famiglie dei ragazzi. Il teatro, la filodrammatica sono un modello pedagogico orientato a sviluppare una serie di competenze e di abilità necessarie per una vera formazione dell’alunno. L’idea del teatro didattico non ha come obiettivo la rappresentazione finale. Conta maggiormente l’itinerario: il lavoro di squadra, quel procedere gomito a gomito nelle varie fasi, ascoltarsi, osservarsi e accettarsi. Per rafforzare la consapevolezza, per migliorarsi e sentirsi bene, con se stessi e con gli altri.

*mentore del gruppo di filodrammatica giovanile

della CI di Bertocchi

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1954, Crevatini e dintorni

Questa è l’ultima foto scattata durante l’anno scolastico 1953/54: una recita di Natale a Bosici, per la sceneggiatura di Bruna Frausin (che non appare nella foto) allora splendida giovane maestra, oggi splendida nonna. Aveva il dono di assegnare ruoli importanti a tutti gli alunni, nessuno era inferiore a nessuno. Osservo la foto con malinconia, quanti ricordi!Letizia Pincin, la rossa, esule da Piemonte d’Istria, Argeo Ciacchi da poco scomparso, Lino Novello, il “Terminator “della scuola, Osvaldo Crevatin, che da bravi bambini dispettosi avevamo soprannominato Osvaldo Leprotto, personaggio di

un fumetto allora in voga, Roberto Bossi, Graziella Circotta dei quali abbiamo perso le tracce. Al centro, le due inseparabili, fin dall’asilo: Elda Fontanot e Maria Pia Novello. La nostra avventura si concluse,nel 1954 anno in cui la nostra identità fu stravolta. Con l’avvento del nuovo confine molti se ne andarono lasciando case, beni e affetti. Noi bambini si ebbe la sensazione di essere in un cilindro trasparente da dove osservavamo il vuoto che ci circondava non amati ne’ di qua ne’ di là dal confine.Negli anni alcuni di noi ebbero modo di vedersi, ma sempre da

lontano forse timorosi di quello che avremmo voluto dire o sentire. Sono dovuti passare cinquant’anni per incominciare ad annusarci, a studiarci per aprirci e con serenità parlare di noi delle nostre gioie dei nostri dolori. Fin dal primo incontro abbiamo cominciato a ricordare. E’ stato un momento bellissimo, siamo cambiate solo nell’aspetto, ma la nostra identità il nostro essere à rimasto intatto.Ricordo la frase che disse Elda quando nel 1954 suo padre lasciò la casa: Papà hai chiuso la porta a chiave? Noi tutte assieme quella porta l’abbiamo aperta.

M.PIA

Complimenti a DimitriIl 14 dicembre 2010 Dimitri Kuštrin ha conseguito la laurea magistrale in Ingegneria Aerospaziale al Politecnico di Torino con i prof. Gaetano Iuso e Lionel Rossi difendendo la tesi scritta interamente in lingua inglese ed esposta in italiano Enhancing mixing in laminar flows using Lorentz body forces - Incremento della miscelazione in flussi laminari utilizzando le forze di Lorentz. Dimitri ha frequentato la scuola elementare italiana “Pier Paolo Vergerio il Vecchio” i primi quattro anni nella sezione di Crevatini e poi a Capodistria, conclusa con l’ottimo

profitto in tutti gli anni. Dopo questo percorso ha deciso di iscriversi al ginnasio “Gian Rinaldo Carli” di Capodistria, dove ha frequentato solo i primi due anni, per poi continuare al Collegio del Mondo Unito dell’Adriatico di Duino. Durante le elementari e le medie ha partecipato a molte gare di matematica, chimica e inglese con buoni risultati.Infine la scelta di studiare ingegneria aerospaziale al Politecnico di Torino, un po’ lontano da casa, ma ne è valsa la pena. Per la stesura della laurea ha intrapreso l’esperienza dell’Erasmus

all’Imperial College di Londra. Tanti sogni, tanta volontà e molta tenacia nell’esaudirli.Crediamo possa essere un esempio per molti giovani, tanto impegno nello studio però senza trascurare mai il divertimento. É solo una questione di sapere come gestire il proprio tempo e ovviamente avere sempre la testa sulle spalle. Gli facciamo i complimenti e un grande in bocca al lupo per il futuro.

Con orgoglio la Ci di Crevatini e le maestre.

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Semedella 2011

Mantenere vive le tradizioni, far riemergere i ricordi e passare un piacevole pomeriggio in compagnia. Sono stati i fini, tutti puntualmente raggiunti, che hanno portato anche quest’anno una folta schiera di partecipanti ai festeggiamenti per la Beata Vergine delle Grazie presso la chiesetta di Semedella.

I capodistriani rimasti, radunati attorno alla Comunità degli Italiani “Santorio Santorio”, sono tornati ad incontrare con grande affetto i concittadini che il dramma dell’esodo ha spinto a lasciare la propria città natia, dopo la Seconda guerra mondiale. Ai cordiali saluti iniziali ha fatto seguito la cerimonia religiosa, officiata dal vescovo ausiliario di Capodistria, mons. Jurij Bizjak, assistito dai parroci di Capodistria, Jože Pegan e di San Marco, Jože Koren. La liturgia è stata accompagnata dai Gruppo corale “Incontro” di Trieste. Nella sua omelia, mons. Bizjak ha rimarcato l’importanza di questo pellegrinaggio a Semedella, che rinsalda vincoli d’amicizia e conferma l’attaccamento

dei capodistriani al santuario della Beata Vergine delle Grazie, costruito 380 anni fa, per ricordare

l’intercessione della Madonna contro la terribile epidemia di peste in città. Il presule ha ringraziato per la sua presenza il Console Generale d’Italia a Capodistria, Marina Simeoni, e per lo sforzo organizzativo la Comunità degli Italiani ed il suo presidente, Mario Steffè. Ha rivolto un commosso ricordo a don Giovanni Gasperutti, scomparso lo scorso anno. Il sacerdote capodistriano, che dopo l’esodo ha prestato la sua preziosa opera nelle parrocchie triestine, è stato per anni uno degli animatori del raduno di Semedella, assieme al compianto presidente del sodalizio capodistriano, Lino Cernaz. Dopo la messa è seguito l’incontro conviviale. (gk)

Il vescovo ausiliario Bizjak e il coro »Incontro« di Trieste.

Mario Gandusio di Semedella e Fabio Ceppi esule a Bibione.

La prima lettura affidata a Livio Nardi

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“MIFEST” – Festival della Comunità Nazionale Italianadi Roberta Vincoletto*

Il Centro Italiano Carlo Combi, attivo dal 2007, ha voluto quest’anno presentarsi al vasto pubblico con un’iniziativa nuova e di ampia portata per l’intera Comunità Nazionale Italiana che vive in Slovenia, vale a dire il primo “MIFEST” – Festival della Comunità Nazionale Italiana. Dopo aver organizzato, agli inizi dell’anno diversi eventi, quali, il ciclo di conferenze intitolato “Le scuole italiane in Slovenia” – nell’ambito del programma “Le scuole delle comunità nazionali in Ungheria, Slovacchia e Slovenia”, in collaborazione con la Comunità Nazionale Ungherese, la partecipazione di 80 connazionali dei tre Comuni costieri all’evento sportivo-culturale a Venezia “Su e zo per i ponti” (33º maratona non competitiva di 13 chilometri con 53 ponti, lungo tutto il perimetro della città lagunare), la visita al Centro di Ricerche Storiche di Rovigno, all’Ecomuseo “Casa della batana” e alla città di Rovigno di una cinquantina di studenti dei Ginnasi Gian Rinaldo Carli di Capodistria, Antonio Sema di Pirano e della Scuola Media Pietro Coppo di Isola e partecipato alla coedizione della pubblicazione “I beni librari della Biblioteca centrale Srečko Vilhar Capodistria”, si è deciso di proporre una manifestazione di tipo promozionale che raggruppasse tutte le istituzioni della CNI sotto un “unico tetto”.

L’idea del Festival nasce verso la fine del 2010, quando dopo un incontro con la responsabile dell’Organizzazione turistica del Comune città di Capodistria, ci veniva offerta la possibilità di utilizzare la Taverna (ex magazzino del sale) per organizzare

un evento culturale e promozionale. In armonia con l’indirizzo programmatico fondamentale del Centro Italiano Carlo Combi, quale dare organicità e rilevanza strategica generale alle attività e alle iniziative culturali programmate, promosse e

realizzate dalla Comunità Nazionale Italiana in Slovenia, abbiamo reputato utile sfruttare la suggestiva cornice che ci veniva offerta per presentare le istituzioni della CNi.Partiti in po’ in sordina, dopo un primo giro di chiamate ed incontri con i rappresentanti delle nostre istituzioni, abbiamo capito che l’idea poteva funzionare e rappresentare un successo. Pertanto il 23 maggio 2011 (forse la data proposta era un po’ infelice, perché cadeva di lunedì, ma questo certamente non ci ha scoraggiato!) si è svolto tra la Taverna e l’adiacente Piazza Carpaccio il primo Festival della Comunità Nazionale Italiana che ha visto allestite a festa 24 bancarelle con presenti le sei Comunità degli Italiani, tutte le istituzioni prescolari e scolastiche dei tre Comuni costieri, Radio e TV Capodistria e diversi produttori connazionali. Nel corso della mattina sono stati organizzati anche dei laboratori per ragazzi con la presentazione degli antichi mestieri e delle tradizioni locali. Tutte le

Alunni di Crevatini con la caposcuola Sonja Maier

Il coro »La porporela« I mandolinisti capodistriani

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istituzioni partecipanti si sono date da fare per presentarsi al meglio e tale messaggio è stato recepito anche da chi ha avuto modo di visitare il Festival.Oltre all’allestimento delle bancarelle è stato organizzato al pomeriggio un programma con la partecipazione dei gruppi artistico-culturali operanti presso i sei sodalizi e, ciliegina sulla torta, il concerto finale del gruppo Calegaria. Un importante contributo

alla promozione dell’evento, infine, ci è stato senz’altro fornito dai mass media. In particolar modo è stato un piacere per noi ospitare la diretta in mattinata di Radio Capodistria dalla Taverna ed essere stati ospiti in diverse trasmissioni. Un servizio sulla manifestazione è andato anche sul Tg del primo canale di Tv Slovenia. In qualità di organizzatori di questa nuova iniziativa, eravamo un po’ preoccupati per la riuscita e ricaduta dell’evento, ma dopo i riscontri più che positivi tra i visitatori e tra gli stessi partecipanti, possiamo convenire che una manifestazione che riunisse le istituzioni della CNI effettivamente mancava e che tra una critica costruttiva e un suggerimento, possiamo pensare di organizzare

assieme un secondo MIFEST, ancora più ricco e suggestivo per una maggiore promozione e valorizzazione della nostra realtà italiana al vasto pubblico. Un grazie a tutti!

*Capo programma del Centro Italiano “Carlo Combi”

L'olio d'oliva di Giorgio Marino e Norma Zudich di Sezza

Andrej Bertok e Roberta Vincoletto del Centro »Combi«

I giochi di una volta mostrati da Francesco Rosso

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Folkest 2011Anche quest’anno la carovana di Folkest farà tappa a Capodistria. È un evento che si ripeterà per la diciannovesima volta. La più grande manifestazione di musica etnica dell’Alto Adriatico si fermerà da noi per tre serate di grande impatto. La manifestazione è patrocinata dalla Comunità Autogestita della Nazionalità Italiana. Il calendario completo di Folkest si articola, per tutto il mese di luglio, in una lunga serie di concerti nel Friuli - Venezia Giulia e in Slovenia.

Giovedì, 14 luglio – Piazza Carpaccio: AT FIRST LIGHT (Irlanda)

Eccezionale concentrato di talenti artistici, questo gruppo è stato fondato da John McSherry, uno dei più acclamati virtuosi di Uillean pipe (già con Tamalin, Lunasa e Coolfin di Donal Lunny), e Dónal O’Connor, talentuoso musicista proveniente da una famiglia di violinisti tradizionali del Nord Irlanda. A completare la formazione hanno poi chiamato accanto a loro Francis McIlduff del Clan McPeake.

Venerdì, 15 luglio – Piazza Carpaccio:ESMA REDŽEPOVA (Macedonia)

Interprete della tradizione dei Rom di Skopje. Oltre a continuare a rappresentare il suo paese nel mondo, ha costruito intorno a sé una scuola di musica, un museo d’arte e tradizioni locali e vari centri di assistenza e animazione, soprattutto per bambini. Esma ha inciso più di 500 lavori che la diaspora rom e l’emigrazione dai Balcani hanno portato in tutto il mondo. Con lei saliranno sul palco Zahir Ramadanov (tromba), Simeon Atanasov (fisarmonica), Sami Zekiroski (clarinetto), Elam Radisov (darbouka) ed Elvis Huna (tastiere).

Domenica, 17 luglio – CI Crevatini: COMPAGNIA DALTROCANTO (Italia)

Dalla comune passione per la musica popolare nasce una proposta che nel solco della tradizione si apre a sonorità nuove, reinterpretando in modo originale e attuale canti e balli della tradizione campana e del sud Italia. Formazione: Antonio Giordano (zampogne, bouzouki greco), Martino Brucale (ciaramelle, flauti, sax), Paola Tozzi (voce); Bruno Mauro (chitarra classica, bouzouki irlandese), Floriana Attanasio (voce, tamburello, danza), Flavio Giordano (basso elettrico), Christian Brucale (voce, tamburi a cornice, percussioni), Luca Lanzara (tamburi a cornice, percussioni), China Aresu (mandolino, tamburi a cornice).

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Sugar Blue Mississipi heat

Max Carletti Ian Siegal

Greg Koch Francesco Piu

“Guitar Radio Live” negli scatti di Igor Opassi

Tra i molti concerti organizzati quest’anno dalla Comunità va ricordata in particolare la serie “Guitar Radio Live” trasmessa in diretta da Radio Capodistria. Le foto, esposte a fine maggio in una mostra intitolata “BlueSantorio, sono del capodistriano Igor Opassi.

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La cittàA colloquio con Lorella Fermo

Carpe risum…ergo…SMILE!È il titolo della mostra allestita presso la nostra Comunità e la Galleria del Museo Regionale di Capodistria delle caricature di Lorella Fermo. In una giornata solare di maggio abbiamo incontrato Lorella in piazza. Ci siamo seduti vicino al palazzo Pretorio e abbiamo chiacchierato un po’.

Sul pannello della mostra c’era una foto che ti ha scattato lo scrittore Marjan Tomšič quand’eri bambina. Comincerei l’intervista da quella foto.È un bellissimo ricordo della mia infanzia. Avrò avuto sette/otto anni ed ero affacciata alla finestra di casa mia, posizione »strategica« perché passavo ore ad osservare l’andirivieni di gente. Forse avevo iniziato già allora, poprio lì ad osservare le persone, i loro aspetti, ma anche a cogliere i loro »animi«. Ad un certo punto vedo la figura di questo signore molto serio, barbuto, capelli tagliati a spazzola, guardare su, fermarsi e mormorare qualcosa. Non avevo capito, perché lo sloveno, allora, non lo conoscevo molto bene… (neanche oggi, se è per questo….scherzo!) Mi scattò una foto… La settimana dopo si ripresentò a casa nostra e ce la consegnò. L’ho rivisto più o meno sette anni fa per chiedergli l’autografo. Questa fotografia è ricca di contenuti ed ha un ruolo speciale nell’album dei miei ricordi; esprime tantissimo, col magico gioco di luci e ombre, nasconde tanto dietro alla mia figura col micio, rappresenta quella che è stata la mia infanzia nella bellissima via di allora, ciò che si vedeva, i giochi in strada

con gli amici…sono cose che al giorno d’oggi, purtroppo, non si colgono più.I tuoi genitori sono venuti a Capodistria dal Momianese, giovanissimi. Ma tu sei nata lì, o sei nata qua?I miei genitori si sono trasferiti a Capodistria il 31 dicembre 1963. Io sono nata il giorno dopo al vecchio ospedale di Capodistria. Mia madre mi ricordava spesso il momento della nascita quando l’ostetrica esclamò: »Je punčka!« . Il nostro percorso di vita capodistriana è iniziato proprio con la mia nascita. Mio padre, Attilio, invece è nato a Briz di Collalto.Con antenati di Vergnacco.Il nonno paterno, Rodolfo Fermo, era nato a Vergnacco. Mentre invece mia madre, Caterina Marin, momianese, aveva origini venete. Sua bisnonna, Angiolina, era nata a Conegliano Veneto e spesso mamma mi riportava delle frasi nella sua parlata veneta. Tipo?Sembra che da bambina, mia madre fosse piuttosto vivace e portasse un ricciolo, un ciuffo arricciolato sulla

Foto Marjan Tomšič

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La cittàfronte. Quando combinava qualche marachella, »nonna Angiolina« le gridava:«Vien qua, bisbetica, che te taio quel ciòt!«. Come mai scelsero di venire a Capodistria?Era una decisione di famiglia. Avevano acquistato un appartamento a palazzo Elio, che doveva essere una tappa prima di trasferirsi definitivamente a Trieste. Almeno questo era quello che avrebbe voluto mia madre. Cosa che poi non è mai avvenuta. Sai, non sempre le strade della vita ti portano dove vorresti… (»L’ uomo può fare ciò che vuole, ma non sempre vuole ciò che fa.« Schopenhauer). L’appartamento era stato venduto dal signor Novacco, anche lui nato a Vergnacco. Prima di noi, invece, qui ci abitava il dottor Rapotec. Dell’infanzia che ricordi hai?Abitando di fronte alla scuola di musica si sentivano sempre le lezioni di piano, di flauto, di tromba. Ci si abitua, ma col tempo ti accorgi quanto l’ambiente influisca sulla tua formazione. Il temperamento però lo erediti e probabilmente nel nostro patrimonio genetico era ben segnata questa passione per la musica e l’arte. Io all’età di otto anni ho avuto in premio una chitarra, che custodisco ancora gelosamente. Mi fu consegnata a Nimis durante il festival regionale della canzone per bambini. È stata determinante, pur a livello amatoriale, nel mio percorso musicale, ma ancor più in quello di mio fratello Danilo, allora allievo del maestro Skocir e oggi chitarrista nel gruppo Calegaria. Tu hai cantato invece nel coro della Comunità col maestro Stancich.Sì, ero prima voce e addirittura solista in qualche canzone. Una bellissima esperienza legata a tanti bei ricordi. Si viaggiava parecchio coi mitici Silvio e Silvana Stancich. Era un periodo ricco, pieno di energia, movimento, molto formativo, che ha lasciato i suoi segni.Avevi neanche cento metri per arrivare a scuola. Hai frequentato anche il nostro ginnasio?Sì, ho frequentato il Ginnasio italiano e dopo la maturità ho intrapreso gli studi a Trieste, alla Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di Laurea in lingue e letterature straniere moderne, indirizzo critico letterario. Ho conosciuto tanti bravi docenti che hanno influito molto sulla mia formazione. È stato fondamentale perché il mio intento di base era impossessarmi degli strumenti necessari per comunicare ed esprimermi. La lingua, la scrittura, l’arte sono tutte forme di comunicazione ed espressione atte a »creare«. Marjan Tomšič mi ripete spesso: »Lorella, vi imate božji dar komunikacije! » ovvero »Lorella, lei ha il dono divino della comunicazione!) …Mi piace comunicare,…non credo divinamente! Sono riuscita a realizzare molti progetti importanti. È una questione di scelte, di rinunce e di tanto impegno. Ho insegnato alla nostra scuola elementare pur dedicandomi a tanti altri interessi. Curavo coreografie, scenografie teatrali, ho tenuto corsi di lingua inglese per adulti, ho insegnato

italiano alla scuola slovena di Prade. Facevo tante cose, anche perché all’epoca non avevo ancora famiglia… Una mia , intendo... Con la famiglia e la nascita di Valeria ed Elvio ( che considero le mie due opere maggiori e migliori) le cose sono cambiate. Ho sempre voluto e voglio essere presente nella crescita dei miei figli. Questo mi ha allontanato da numerosi impegni , ma non mi ha certo impedito di curare e coltivare quelle che erano da sempre le mie passioni. Ora, che i figli sono più grandi riprendo gradualmente spazio e tempo anche per le cose che amo, oltre che alle persone.Ti è piaciuto lavorare con gli alunni?Sì, tantissimo. Per mia indole non potrei mai fare cose che non mi entusiasmano.Quando li incontro per strada ci si ferma sempre. Credo,… spero di aver trasmesso loro la sensibilità ed il rispetto verso il prossimo e la vita. Sai com’ è, la materia di studio è sacra, ma ci sono tante altre componenti indispensabili nella formazione scolastica di un alunno. Accanto al sapere, non deve mancare l’educazione, il buon senso. Le scuole sono delle istituzioni magiche, essere insegnante è una vocazione. Rispondi della formazione di giovani individui. I ragazzi sono il futuro della società. Però lo devi fare con amore, dedizione. Devono sentirsi ben voluti. La prima domanda che mi fece la direttrice della scuola, Lidia Colarich, fu «Ti piacciono i bambini?«…Ci vuole passione. E pazienza. Come in tutto. Vale anche per noi genitori. Gli adulti hanno una grossa responsabilità. Dovrebbero servire da modello, da punto di riferimento. Credo che la massima forma di autorità sia l’esempio. L’insegnante, attraverso la sua persona, i suoi atteggiamenti, riesce ad ottenere più di mille parole.

Lorella nello studio di casa. Foto Maksimiljana Ipavec, Primorske novice

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Ci vogliono anche quelle, dopo. Non esiste peggior cosa del… predicar bene e razzolar male. I ragazzi »captano« tutto. Sono un pubblico attentissimo.Vale per i maestri, ma tanto più per i genitori…Assolutamente. Soprattutto per noi genitori. Io sono la prima a dire ai miei figli : »Io non dico le parolacce, per cortesia non ditele neanche voi!« Oppure :»Queste cose non si fanno! Io non le faccio e voi neanche!« Così li disarmi subito. Però ci vuole coerenza…e disciplina.Per quanto riguarda il disegno, hai cominciato subito con le caricature?No. Da piccola ero molto timida. Tutti dicevano a mia madre che mi avrebbe persa perché stavo sempre zitta…(poi ho recuperato…) Osservavo molto, però. Non mi sfuggiva niente e ho avuto sempre un’ottima memoria. Ricordo che in prima classe dovevo copiare un disegno dal libro »Primi voli« con la maestra Elena Sponza, riguardava un lupo e delle ochette e non sapevo come fare. Chiesi aiuto a mia madre: ricordo le sue mani, il suo tratto…Mi ero stupita di quanto il suo disegno fosse fedele a quello originale. Devo averlo ancora quel quaderno da qualche parte. Col tempo mi sono perfezionata e poi non mi sono più fermata! Ho usato diverse tecniche e mi sono dedicata a vari generi.Comprese le caricature.Le caricature sono apparse per la prima volta in quarta

ginnasio. Sai, inizi sempre con le persone che ti stanno attorno. Avevo ritratto i miei compagni di classe: Marco Apollonio, Daniela Gregorič, Igor Opassi, Dean Rogoznica, Alberto Scheriani, Mario Steffè ed Ingrid Škerlič (te li ho detti in ordine alfabetico come nel registro), per un’edizione del giornalino scolastico. E, visto l’ entusiasmo riscosso, ho osato ritrarre anche i professori. Come l’hanno presa?Ricordo la reazione del prof. Kogoj. Insegnava latino dopo la scomparsa del mitico prof. Miroslav Žekar. Un giorno entrò in classe e venne spedito da me. Io ero seduta all’ultimo banco vicino alla finestra. Mi porse la mano e mi disse «Brava!« Avevo una maglietta bianca con stampato lo stemma della moneta americana dell’aquila dalle ali aperte con scritto:»E pluribus unum« . Il professore mi disse »Ecco!…E pluribus unum! Tu sai che cosa significa?«. »Da tanti, uno - credo« risposi. E lui : »Ebbene, tu sei uno! Anzi, una!«. E mi predicò una sorta di profezia: »Sappi che la caricatura è una cosa speciale, difficile. Non tutti sono in grado di farla e, stai attenta… non tutti sono in grado di capirla! Nella vita avrai successo e i tuoi intenti saranno buoni, ma non tutti li capiranno… potranno essere travisati, malintesi...« Rimasi sbalordita. Col tempo avrei capito quello che intendeva. Il giorno dopo mi portò una copia della moneta e disse »Tu hai fatto la mia caricature e io ti regalo questa moneta. Non è originale, è una sua ‘caricatura’!« Il professore era numismatico…Ci sarà stato qualcuno che, nel tuo disegno, non si è piaciuto…L’allora direttore del ginnasio, il professor Leo Fusilli. Io feci le caricature di tutti, ma evitai la sua per una questione di rispetto. Lui si sentì »escluso« e scendendo assieme le scale del ginnasio mi chiese »Beh, allora, perché non mi hai disegnato?...Devi fare anche me!«. Al momento esitai. Poi gli dissi che lo avrei ritratto secondo il »mio« punto di vista . E lui rispose »Naturalmente!« . Ho giocato un po’ sulla sua statura, notoriamente bassa, facendogli »rotolare« la cravatta a terra. In classe ci siamo divertiti tantissimo perché lui sosteneva di non assomigliarsi affatto, mentre noi allievi ci sbellicavamo dalle risate sotto i banchi… le mie intenzioni comunque erano buone, comiche ma buone. Definisco le mie caricature terapeutiche, mai intenzionalmente offensive. Più tardi, all’ univarsità tra gli appunti di italiano, avevo disegnato la caricatura del professor Elvio Guagnini, che non ha mai visto. (A quell’esame presi 30!) L’ho voluta elaborare e l’ ho presentata alla mostra. Mi ha fatto piacere risentirlo dopo tanti anni...e si ricordava ancora di me…Franco Juri fa le caricature soprattutto dei politici, protagonista dei tuoi disegni è invece la gente comune.La sfera politica è quella maggiormente presa di mira dai caricaturisti. Ma quella è satira. A me piace l’ ironia, la

Miloš Koradin posa davanti alla sua caricatura

Il discorso del critico d'arte Enzo Santese durante l'inaugurazione della mostra

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La cittàpsicologia. Ho voluto fare qualcosa di diverso, di originale. Mi interessano i settori che uniscono, non quelli che dividono. Siamo circondati da tanta bella gente nota che si presta alla caricatura ed è fuori dall’ambiente politico: parlo del mondo dell’arte, della musica, della cultura. E poi le mie caricature sono fatte prettamente a memoria dopo aver conosciuto le persone dal vivo. Hanno un percorso diverso. Mi viene in mente la mitica caricatura della redazione dei notiziari di Radio Capodistria fatta nell’84. Una delle più articolate, suggeritami dalle »antenne» di Bojan Saksida… Continuerai su questa scia o hai in mente dell’altro?Chi mi conosce, sa che disegno da una vita e non potrei mai farne a meno… spero di avere altre mostre. Magari anche in altri posti. Ho già finito molte caricature nuove. Però ho anche altri progetti… come scrivere un libro, una raccolta di aneddoti, di »quadretti« tratti dal quotidiano, magari alternati da vignette. Ci sono tante situazioni comiche da cogliere in giro, anche istruttive, che ti portano a riflettere. Sai, io sono una che, malgrado il cognome, non sta mai ferma…prendo costantemente appunti. Se vuoi te ne racconto una velocissima…OK.Durante la mostra ero molto occupata, presa dai contatti coi giornalisti, con gli amici. Un giorno mio figlio Elvio, di 11 anni, mi guarda e dice: »Senti mamma, ma tu sei capace di pensare solo alle tue caricature… e alla tua intervista???«…Sono rimasta di stucco, mi chiedevo cosa volesse dire. Poi, guardandomi negli occhi e scuotendo la testa continua:«E ai giapponesi???« ( Era il periodo del terremoto in Giappone…) »Non ci pensi ai giapponesi?…Hai idea di quello che stiano passando in questi giorni? …Non ti è venuto in mente di disegnare la caricatura di un giapponese che sorride e di mandargliela giù? Così almeno gli dai un po’ di speranza!.« In un primo momento pensavo si sentisse trascurato, poi ho capito che l’intento era un altro: ricordarsi anche delle persone in difficoltà e magari aiutarle. Mi credeva capace.Hai seguito poi il suo consiglio?No…Però sono momenti che ti fanno riflettere. Sono il risultato di un ragionamento. È segno di sensibilità. Hai grande soddisfazione, perchè entri nell’animo del bambino. È un mondo che non sempre siamo in grado di capire. Possiamo guardare tanto ma non »vedere« niente. Lo stesso vale per l’ascolto: puoi ascoltare e non »sentire«. È molto importante, sai, e non solo nell’età evolutiva, saper osservare e ascoltare. Ma questo richiede tempo, pazienza, interesse… cose che la società di oggi tende a rubarti.Vorrei concludere con una delle tante citazioni che leggiamo nel catalogo della tua mostra. Regalare un sorriso non costa nulla ma vale tanto.E te ne aggiungo ancora una se vuoi, di Voltaire: «Il sorriso è la palestra della felicità!«. Io ci credo. Sembra che mio nonno materno, »nono

Iano« (Aureliano), tenore tra l’altro, fosse propenso allo scherzo, all’ironia, alla battuta pronta al momento giusto. Dicono che io gli assomigli molto. Uno è in grado di cogliere la situazione che ti ispira la battuta. E poi ridere fa star bene! Noi a casa si rideva sempre. Alleni l’animo alle gioie della vita, fa parte del tuo modo di essere. Non so, sarà anche una strategia, un sistema di difesa, un modo per sdramatizzare, come ce lo insegnavano i manuali di psicologia. Però credo che sia tra i più efficaci e positivi.E semplici…Mooolto semplici! Ma difficili da raggiungere. Ci devi arrivare. C’è un percorso da fare. Essere autoironico tu , per primo. Essere solare, sereno, equilibrato e in pace con te stesso…è la condizione di base. Poi, di riflesso, riesci a trasmettere la propria positività anche agli altri. Io lo faccio con le caricature! O almeno ci provo…

Mirjana Starčevič

A parte le prime due, le foto sono di Danilo Fermo.

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Vojc Sodnikar Ponis

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Graziella Ponis Sodnikar

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»L’albero sarà morto, ma il legno non muore mai«In visita dal liutaio Ivo Magherini, tornato in Istria dopo 55 anni passati tra Firenze, Roma, Manchester e Brema. Continua a produrre strumenti nel suo laboratorio di Decani, presso Capodistria. Questo è l’indirizzo del suo sito www.floxflorum.com Magherini non è un cognome istriano. Qual’è il tuo collegamento con l’Istria?Il collegamento diretto è mia madre, Ogrin di nome nata a Bezovica, per cui diciamo il 50% del mio bagaglio genetico è qui. Magherini è il nome toscanissimo di mio padre, quello che si eredita.Come si sono incontrati i tuoi genitori?Le grandi storie, belle e brutte, dei tempi di guerra. Mio padre era militare in Italia all’epoca quando qualcuno decise di spezzare le reni al resto del mondo, per cui lui si ritrovò in Albania, in Grecia e poi finì qui.Tanto che tu hai vissuto la tua infanzia a S. Lucia.E’ una storia che non mi ha mai raccontato, perchè poi non ci parlavamo molto. Con mia madre si conobbero dopo la guerra quando lui rientrò dalla prigionia in Germania e rimase qui.Che ricordo hai degli anni passati a S. Lucia?Ho vissuto lì fino all’età di 10 anni e mezzo. Ho dei ricordi meravigliosi, infatti non è un caso che 55 anni dopo sono tornato qui a vivere. Oggi S. Lucia è una città, allora c’erano poche case di campagna…C’era una stazione ferroviaria, c’era un campo sportivo, c’erano le saline e c’era il tram per andare a Portorose. Il resto era campagna. Sono cresciuto praticamente senza problemi, all’aperto, nella natura…Dove frequentavi la scuola?

A S. Lucia, nella stessa casa c’erano le scuole italiana e slovena. Per cui hai avuto modo anche di imparare lo sloveno in quegli anni.Parlavamo tutte e due le lingue. Con mia nonna per esempio potevo parlare solo sloveno. Sloveno che per tanti anni, in giro per il mondo, non hai avuto più modo di parlare. Ricordi qualcosa?Ricordo qualcosa, è una specie di rumore di fondo, riconosco un sacco di parole, a parte il fatto che piano piano comincio a studiarlo perchè è giusto parlare la lingua del posto dove si vive. Parlavo inglese in Inghilterra, parlavo tedesco in Germania, per cui…Per cui nekaj razumeš?Malo razumem. Učim se, počasi.Il tuo rapporto con la musica inizia già da bambino?Non c’era neanche bisogno di pensarci, perchè era una famiglia molto musicale. La parte slovena della famiglia, gli Ogrin, erano tutti musicisti: mia madre era una delle più grandi voci soprano all’epoca e suonava anche la fisarmonica, tutti gli zii suonavano qualcosa… tromba, violino, chitarra; uno degli zii dirigeva il coro, per cui sono cresciuto dentro la musica. A 8 anni a cominciato ad imparare il clarinetto per la banda di S. Lucia.A 10 anni la famiglia decide di spostarsi a Firenze.La decisione fu di mio padre quando nel 1956 si definirono i confini. Per motivi suoi decise di tornare da mamma sua piuttosto che diventare socialista, non lo so. Non me l’ha mai spiegato. Per cui noi l’abbiamo seguito a Rufina, un paese a 25 km da Firenze, una zona molto bella della Toscana fra l’altro. Come ti sei trovato?Male. Nel senso che la Toscana è bellissima, ma è piena di toscani. E che c’hanno di male i toscani?Beh, qualcuno ce l’ha anche scritto »Toscani maledetti«. Era soprattutto uno scontro di mentalità.Uno immagina le splendide battute di Benigni…Sì, ma Benigni non fa ridere noi. Noi quelle battute le facevamo alle 8 di mattina aspettando il campanello della scuola, capito? Cioè, a Prato sono tutti così, fra l’altro. Non tutti sono matti come lui però. No, lo dico con simpatia perchè Roberto è davvero una bella persona, però lui non è niente di eccezionale lì...è quell’umorismo toscano, ficcante, acido molto spesso, e fin lì va bene infatti.Tornando all’impatto con l’ambiente toscano?Tu tieni conto di un ragazzino che cresce in mezzo alla natura, liberissimo, senza un dio, senza una religione, in una mentalità con il bel socialismo dell’epoca…almeno la gente ci credeva, e poi trovarti in un ambiente dove ti prendono in giro semplicemente se pronunci una E aperta o chiusa al posto sbagliato, fino a farti piangere. E’ uno choc. Naturalmente c’è bella gente in Toscana, come c’è qui…quello l’ho scoperto dopo però.

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La cittàQuanti anni sei stato a Firenze?12 anni. Ho fatto il tempo a farmi l’alluvione del ‘66, poi partii militare. Lì praticamente si è concluso il grosso della mia vita in Toscana. Poi ci sono tornato dopo due anni vissuti in Inghilterra, ma poco dopo me ne sono andato a lavorare a Roma. Hai un diploma in economia?Ragioneria esattamente. Non ci ho mai fatto niente. E’ stato comunque un periodo impegnato bene, perchè chiaramente era la scuola sbagliata: a vent’anni avevo già molto chiaro in mente quello che non volevo fare nella vita. Ed è un grosso vantaggio, credimi.In quegli anni qual’è stato il tuo rapporto con la musica?Quello era il periodo della chitarra, dei gruppi, del rock’n’roll. Che cosa ascoltavi?All’epoca ho avuto la fortuna di scoprire i grandi bluesman americani, tipo Muddy Waters, Howlin Woolf e questa gente qui da una parte, dall’altra ho cominciato a studiare la chitarra da autodidatta e ho scoperto abbastanza rapidamente la chitarra classica, che poi è stato l’inizio della lunga strada che mi ha portato al liuto. D’altra parte era il periodo dei primi grandi gruppi, i Beatles, i Rolling Stones.Ti piacevano?Gli Stones li apprezzavo. Quando questi bluesman suonavano in Inghilterra, a Mick Jagger gli mettevano un’armonica dentro la bocca e gli altri lo accompagnavano. Per cui sono dei bravi bluesman, lo sono sempre stati. Bene o male è gente che ci ha sempre messo la faccia, perchè – diciamoci la verità – abbiamo questo mito del sex, drugs and rock’n’roll, però era molto facciata: il mondo della musica pop all’epoca era pieno di bravi ragazzi, se tu guardi chi c’era sul mercato veramente. I Beatles non erano gli ultimi di questi, insomma. Come capiti a Manchester?Manchester è un punto d’arrivo non calcolato. Avevo intenzione di andarmene da Firenze comunque, e quello era il periodo…siamo alla fine degli anni ‘60 – che andavano tutti in Inghilterra. Come hai vissuto quegli anni?Sono stati una grande esperienza in un mondo diverso da quello che conoscevo, sia quello istriano che quello toscano. D’altra parte, anche lì ho fatto una strada laterale, come tante volte nella mia vita. Ho vissuto un anno a Londra e non la sopportavo sinceramente, con tutto quello che aveva da offrire. Lì trovavo di tutto e di tutti, tranne che gli inglesi. Io volevo imparare l’inglese, imparare qualcosa di nuovo…andare a Londra per incontrare degli italiani o dei portoghesi non mi interessava. Avendo conosciuto una ragazza di Manchester, andai a fare il fine anno da quelle parti, ma ci rimasi poi per quasi due anni. Ma i soldi te li mandava papà o te li guadagnavi?Ho sempre fatto da solo. Io lavoravo anche quando andavo a scuola. Da profughi non c’erano molti mezzi in casa, e poi a mio padre non avrei mai chiesto niente comunque; era una questione di orgoglio. Per cui ho fatto il fotografo – sapevo lavorare in camera oscura molto prima di avere i soldi per comprarmi una macchina fotografica – ho fatto il pellettiere, l’orologiaio…tutte cose dove lavoravi

comunque con le mani. Evidentemente ho questo istinto. Da militare poi, credici o no, ma sono riuscito a risparmiare un po’ di soldi. Feci il servizio di leva nei Carabinieri, per cui ci pagavano. E’ stata un’esperienza anche quella. Da Manchester all’incontro con il liuto, il passo è stato breve?Non proprio. Quello che è successo nel frattempo è che con la chitarra classica scoprivo via via musica più antica, cioè sono i passi all’indietro, dalla musica romantica; scopri Bach, poi scopri la musica per liuto o le trascizioni di chitarra barocca fatte per chitarra classica. Da lì mi sono incursiosito e un certo punto ho detto »Va bene, questa è musica scritta per il liuto. Come suona?« E andai a Manchester al Northern Renaissance Instruments e mi feci fare uno strumento. Allora non avevo idea come si costruisse uno strumento musicale. Era fatto benino però non era uno strumento eccellente dal punto di vista musicale. Avevo nel frattempo, grazie alla conoscenza di un falegname di origine irlandese, imparato a costruire qualcosa di legno per la casa. Rientrato a Roma ho preso dimestichezza col lavoro manuale con il legno e ho pensato di modificare un po’ il liuto che avevo.Allora è a Roma che cominci a costruire strumenti?E lì che comincio a costruire gli strumenti. Io all’epoca lavoravo per l’Alitalia, facevo lo steward, e per rilassarmi tra un massacro e l’altro in giro per il mondo mi chiudevo appunto dentro casa e mettevo insieme queste scatole di legno. All’epoca non pensavo veramente di diventare liutaio di professione. Era un passatempo. Volevo costruire qualcosa per me, ma lì si fermava il discorso. Il fatto di avere dei materiali vivi sotto le mani è molto rilassante: l’albero sarà morto, ma il legno non muore mai, poi alla fine ha sempre una vita sua.

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La cittàSarà stato difficile cominciare…Ma guarda, io come battuta dico sempre che potresti insegnare a uno scimpanzè a costruire liuti. Per quello che riguarda il lavoro meccanico, il lavoro manuale, non è particolarmente difficile. Qualsiasi lavoro manuale ha le sue difficoltà che sono però quelle di imparare ad usare certi attrezzi e di imparare a conoscere il materiale che stai lavorando.In che cosa si riconosce la bravura di un liutaio?Nel suono. Chiaramente quello che rende particolare qualsiasi strumento sono le qualità acustiche, quello che lo strumento ti concede di fare come musicista. Io non mi sono mai ritenuto un artista, ma sono un costruttore di strumenti, di attrezzi da lavoro se vogliamo, per artisti. E lì caschiamo un po’ nel mito, che è una cosa che rifiuto sinceramente: non esistono segreti particolari! Il segreto è proprio quello che a un certo punto, per istinto, per esperienza, riesci a mettere insieme delle scatole che danno un bel suono e che mettono un musicista in condizione di produrre dei bei lavori d’arte. I segreti non si raccontano certo in un’intervista…Ma sono segreti anche per me! Non te li so spiegare, è questo che voglio dire. Se Stradivari avesse scritto un libro sulla costruzione dei violini, sarebbe uno delle centinaia di libri scritti sull’argomento. Dei tanti figli di Stradivari, tre erano liutai, violinari, e nessuno era bravo all’altezza del padre. Se avesse avuto qualche segreto, loro l’avrebbero conosciuto sicuramente. Per cui il segreto è quello che non riesci poi a mettere in parole, è tutto lì. I primi liuti li facevi solo per se…Era qualcosa che facevo solo per me. Era un hobby evidentemente, però è stato un periodo molto fortunato, in quel momento stavamo alla fine degli anni ‘70, a Roma c’erano due liutisti che erano proprio all’inizio della loro carriera – uno si chiama Andrea Damiani ed è ancora il nome più noto in Italia come liutista.Che differenza c’è tra liutaio e liutista?Liutaio è il costruttore, liutista è il musicista. E Andrea si era diplomato alla Royal College a Londra, aveva giù

tre o quattro allievi. Io costruivo qualcosa, lui provava gli strumenti, mi diceva tutto quello che non andava o quello che anche gli piaceva. Così ho cominciato a fare degli strumenti accettabili diciamo, finchè un giorno uno dei suoi allievi mi dice »Ma mi costruisci uno strumento per studiare?« Accettai ed è cominciata così. Da allora, dalla fine degli anni ‘70, vivo praticamente solo di quello. Da Roma ti sei spostato in Germania.Già l’Italia pre-berlusconiana cominciava a starmi un po’ stretta, con Roma avevo comunque un rapporto conflittuale…la città stava cambiando. Quando ci arrivai nel ‘72 parcheggiavamo sotto il Colosseo, andavamo a Piazza Navona in macchina, sentivi parlare romanesco, trovavi ancora la gente suduta sui marciapiedi davanti alla porta di casa l’estate, cose che non vedi più. Comunque tu, quando ti viene voglia di traferirti, non è che ci pensi molto. Te ne vai e basta.Vedi, il fatto di essere stato sradicato da questa terra così giovane ha un suo vantaggio. Una volta superato il dolore, il vantaggio è che poi non metti radici da nessuna parte, ovvero, casa è dove stai bene. Per cui mi sono sempre adeguato molto bene alla situazione del momento. »Casa è dove stai bene«, allora in Germania sei stato bene…A Brema sì. E’ un mondo abbastanza particolare, la Germania del nord. Di solito non ci si pensa, ma la Germania è una scatola chiusa, che ha formato un po’ il carattere tedesco: a sud ci sono le Alpi e lì è un limite, a est gli slavi e sono botte, a ovest i francesi e sono botte; per cui l’unica porta aperta sul mondo era il mare: Amburgo e Brema, Rostock, tutto il mondo anseatico.Che mestiere hai fatto a Brema?A Brema, per 17 anni, ho fatto solo il liutaio.Che cosa ti ha dato professionalmente questo periodo?Professionalmente, non come liutaio direttamente, ma come cultore della musica. A Brema c’era un’Accademia per musica antica che purtroppo hanno chiuso dopo pochi anni, ma è stata un crogiuolo di talenti ed è stata comunque alla base di quella che diventerà la Facoltà di musica antica del Conservatorio di Brema. Con insegnanti e musicisti molto bravi e un ambiente molto aperto, dove si sperimentava molto, a differenza del Conservatorio italiano classico dove c’è il maestro che ti dice dalle 8 alle 10 quello che devi fare, dove per imparare la chitarra devi studiare dieci anni. Diciamolo chiaramente: se non impari a suonare uno strumento dopo due anni e meglio che fai qualcos’altro. A Brema ho fatto molta esperienza nella costruzione della musica, la preparazione di opere – lavoravo con i cantanti, che cantavano in italiano senza conoscere la lingua, per cui ho fatto un po’ di coaching.Hai anche composto?No. Lavoravo sulla pronuncia, sui testi italiani. Non sono così bravo come musicista. Mai stato. In quale paese si trovano i migliori liutai?In Inghilterra, sicuramente, perchè hanno più esperienza degli altri, hanno incominciato un po’ prima.Immaginavo l’Italia.L’Italia è un paese strano…cioè non è strano per chi lo conosce. Riesce a far crollare a pezzi Pompei, è il paese che se ne sbatte tranquillamente di quello che ha, della

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cultura, delle opere d’arte, di quello che le appartiene. Metti un po’ di donnine nude in televisione, un balletto brasiliano e sono tutti contenti.C’è poca coscienza di quello che si ha?Pochissima. Il liuto effettivamente era lo strumento principe per due secoli in Italia. L’hanno dovuto riscoprire gli inglesi.Sting ha reinterpretato nel suo ultimo album antichi brani col liuto. Che ne pensi?Lo trovo brillante. E’ molto discussa questa cosa nel mondo specialista della musica antica. Io penso che lui sia molto più vicino all’originale di quanto ci piaccia pensare noi e sicuramente, è un’opinione personale, rende i testi seicenteschi di John Dowland molto più vicini alla realtà di quanto facciano gli specialisti moderni di quel tipo di musica. Dalla Germania, un anno e mezzo fa ti sei traferito a Decani, vicino a Capodistria. Ma allora è vero che con gli anni arriva il richiamo delle radici?E’ verissimo. Non ci avrei mai creduto ancora vent’anni fa, me l’avessero detto. Come dicevo prima, una volta sradicato perdi la tendenza a rimettere radici, e invece quello che è successo – perchè tornavo sempre a trovare i miei parenti, mio cugino Jadran – sono sempre tornato con una forte emozione. Cioè ho vissuto tutti quegli anni vicino a Firenze e a Roma, io ci ripasso, ci ritorno, una bella cartolina…morta, senza emozioni. Brema è stato un posto molto importante, come ti dicevo prima, e effettivamente ci torno con una certa emozione. E qui in Istria mi si apriva il cuore. Quando arrivavi, prima che costruissero lo svincolo autostradale, quando avevi da fare la 202, quando uscivi dall’autostrada e vedevi per la prima volta il mare, mi si apriva il cuore. Tra l’altro, il posto dove vivi è splendido, un po’ fuori dal villaggio, immerso nella natura. Queste colline istriane assomigliano a qualche angolo di Toscana?Diciamo che la differenza nella Toscana, perlomeno quella non litoranea, è che manca il mare, mentre qui c’è questo influsso ancora più bello, più dolce. Si raggiunge

in pochi minuti Capodistria e anche Trieste, dove vado spesso. A Trieste c’è una realtà intellettuale stimolante e vivace, più di quanto ricordavo. A Decani adesso hai un tuo laboratorio. C’è richiesta per gli strumenti che produci?La parte bella del mio lavoro è che te lo porti dietro. Io sono ormai trent’anni che vivo esclusivamente di liuteria, ho circa due anni di lista d’attesa, ho strumenti sparsi dal Canada all’Argentina all’Australia… e tutto quello che ci sta in mezzo. Quanto costa un tuo strumento?Dalle cose più semplici dai tremila euro, fino ai chitarroni o tiorbe, come si chiamavano, dove andiamo intorno ai 5.500 euro. Dopo aver girato mezza Europa, come vedi il tuo futuro?Ci sono già dentro. Sto a Decani, da qui sicuramente non mi muovo più, anche perchè finalmente ho una casa tutta mia, un laboratorio che è incluso nella casa…e ho ritrovato veramente la mia gente e quella serenità, quella tranquillità che ho cercato per cinquant’anni in giro per il mondo.

a.c.

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»Bastet« di Carlo Marzuttini, una delle opere esibite alla mostra »Ludens«. Alla collettiva, organizzata assieme all'Associazione culturale »La Roggia« di Pordenone e la galleria »Insula« di Isola, hanno

partecipato anche Elena Armellini, Angelo Maisto e Vincenzo Rusciano.

Mostra Gail Morris e Vojc Sodnikar Ponis. Provenienti da esperienze formative diverse - la Morris è gallese ed ha studiato a Londra, Sodnikar è nato a Lubiana e si è

formato a Parigi - hanno in comune l’amore per l’Istria, dove vivono e lavorano da molti anni (Foto J. Belcijan).

Il 31 maggio l'ex calciatore del Milan, campione mondiale nel 1982, Franco Baresi, ha presentato a palazzo Pretorio la terza edizione del Milan Junior Camp, scuola estiva di calcio che si svolge in varie

città, compresa Capodistria. Nella foto Baresi firma un autografo a Mattia Sponza (Foto D. Fermo).

Il 19 maggio a Medina, sull'isola di Malta, il nostro Loris Morosini ha tenuto una mostra personale. Le

sculture sono state esposte nel Chiostro del Carmelite Priory Museum. Presenti all'inaugurazione il console onorario per la Slovenia Nicholas Baldacchino con la

moglie Nadia, nata a Ika (Foto S. Morosini).

Il 16 aprile gli alunni della »Vergerio« hanno aderito all'iniziativa ecologica promossa dalla Comunità locale

di Giusterna. Sacchetti in mano, hanno percorso i sentieri che dal Monte San Marco si calano fino alla riva. In primo piano Liam Cernaz, Timotej Glavina e

Cristian Ponis (Foto Fermo).

Alcune scene di »Faccia d'angelo«, il film di Andrea Porporati sul boss Felice Maniero, sono state girate a Capodistria (Port'Isolana, Calegaria). Alunni della

»Vergerio« vi hanno partecipato come comparse (vergerio.si). A interpretare il protagonista del film è

l'attore Elio Germano.

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L'11 maggio è stato in visita alla Ci di Capodistria, il deputato del Partito Democratico, Massimo D'Alema. Nell'occasione il presidente della Giunta UI, Maurizio

Tremul, ha espresso un sentito ringraziamento al governo, al Parlamento e a tutta la Nazione italiana per

il sostegno offerto alla CNI (Foto Katonar).

Il 20 maggio, i ragazzi della nona classe della »Vergerio« hanno presentato al teatro di Capodistria

il recital “Creare legami” e il video “Così come sono” dell’alunna Tina Braico. attori gli stessi ragazzi, che si sono divertiti a mettere in scena la complessità dei

rapporti d’amicizia a scuola (Foto Fermo).

Terzo incontro degli operatori scolastici pensionati delle istituzioni scolastiche della Comunità Nazionale Italiana in Slovenia e Croazia, tenutosi in quest’occasione a Palazzo Gravisi. L’iniziativa, promossa dal Settore Istruzione della Giunta Esecutiva dell’Unione Italiana, nell’ambito di un percorso di valorizzazione delle risorse umane della CNI, è

divenuta un evento tradizionale, volto a riconoscere l’impegno di chi ha operato per la crescita di generazioni di giovani.

Incontro conoscitivo Capodistria tra la VI classe della locale Scuola elementare italiana e la II classe media della Scuola »Nazario Sauro« di Muggia. I muggesani hanno presentato uno spettacolo con l'interpretazione

della fiaba “La barba del conte” di Italo Calvino (Foto Fermo).

Conferito a Emil Zonta il Premio 2011 della Comunità autogestita della nazionalità di Capodistria. Musicologo

e musicista impegnato nella valorizzazione delle tradizioni musicali istriane, Zonta ha suonato in vari

complessi. Ultimamente dirige il gruppo di canto »La Porporela« della CI »Santorio« (Foto Katonar).

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Il Silos. Vicissitudini di un esododi Vinicio Bussani

C’è un’iscrizione bene in vista sulla facciata del vecchio “Silos” di Trieste, che rievoca al frettoloso viandante una parentesi dolorosa della nostra storia, connessa ai drammatici fatti del secondo dopoguerra, quando migliaia di profughi istriani, fiumani e dalmati, furono costretti ad abbandonare la terra natia e rifugiarsi a Trieste, accolti a più riprese in questo enorme edificio asburgico, prima di approdare a nuove destinazioni per ricominciare una nuova vita. L’edificio in questione, la cui architettura abbastanza rigida e austera, dà l’idea di un luogo di pena o forse di una antica caserma, sorge tra il porto vecchio e la stazione ferroviaria; nasce in origine con la creazione del Porto di Trieste, come magazzino-deposito di granaglie e terminale ferroviario. Fino a quando il porto regge le sfide della concorrenza sullo scenario internazionale, il Silos mantiene la sua importante funzione, ma più tardi, al manifestarsi di una grave crisi dell’attività portuale, perde questa sua prerogativa e viene lasciato in uno stato di abbandono. Solo nel dopoguerra, riassume una funzione di grande utilità, divenendo un’ampia struttura di accoglienza per la gente dell’Esodo. Assolta per circa vent’anni anche questa funzione, ritorna nell’anonimato e nell’oblio, fino al verificarsi di un grave episodio: viene infatti colpito da un disastroso incendio, in cui rimane danneggiato in modo molto serio. Da questo fatto, si sollevano contrasti e dispute per il suo mantenimento: alla fine prevale la decisione di conservarlo e viene dichiarato “monumento di archeologia industriale”. Dopo un adeguato intervento di ristrutturazione, alla fine è trasformato nell’attuale autoparcheggio.

Chiuso il preambolo, voglio soffermarmi su alcuni fatti significativi che hanno dato una svolta al nostro destino di esuli. La mia famiglia come tante altre, con l’arrivo a Trieste, ha dovuto far fronte da subito, ad una situazione a dir poco difficile. Dopo lo smarrimento iniziale, abbiamo preso coscienza di questa nuova realtà: in primo luogo urgeva una soluzione al problema principale, vale a dire la ricerca di una sistemazione e successivamente la ricostruzione di un futuro dal contorno ancora incerto. Le prime grosse difficoltà, non tardarono però a presentarsi. Inizialmente credevamo in una possibile accoglienza al Silos, che ben presto ci viene preclusa in quanto il numero degli spazi abitativi in quel momento, erano pochi e riservati a famiglie con “necessità precise”, che noi, secondo la commissione non

possedevamo. Queste disposizioni non erano sempre rispettate, dal momento che contavano molto le raccomandazioni dei politici locali. Giunge pertanto il momento di doverci arrangiare da soli: vissuto un breve periodo in casa di parenti, riusciamo dopo molte ricerche a trovare una stanza in affitto al pianterreno di un casolare di campagna, nella periferia di Zaule. Questo luogo isolato e fuori mano, era l’unico che poteva rientrare nelle nostre possibilità: abbiamo accettato quindi questa situazione, “facendone buon viso”. Il monolocale che ci è stato proposto, risultava essere un luogo angusto di appena 14mq, semibuio di giorno, emanava un odore caratteristico di muschio, tipico di un ambiente umido e malsano. Osservando l’interno, si vedevano lungo gli angoli delle pareti e sul soffitto delle macchie più o

meno estese di umidità punteggiate di muffa. Questo posto avrà un’influenza negativa sulla nostra salute, ma soprattutto su quella di mia mamma, che subirà le maggiori conseguenze. Ricordo che alla sera mentre mi coricavo, percepivo sulla pelle una sensazione di freddo-umido a contatto con le lenzuola e la mamma tutte le volte poneva ai piedi del letto, tra le coperte, la borsa dell’acqua calda, avvolta in un panno e nel piacevole tepore, mi addormentavo con il lume acceso. Quando il sonno ritardava, osservavo il soffitto con le sue macchie di umidità e nella mia fantasia le sostituivo con delle forme immaginarie di oggetti o animali, mentre la tremolante fiammella del lume proiettava sulla nuda parete laterale, le ombre in movimento dei miei cari, che stanchi della giornata, si predisponevano al riposo notturno.In questa stanza fredda e disadorna, priva di corrente elettrica, di giorno filtravano a stento i raggi del sole, quasi sempre ostacolati dai rami folti di un pergolato sovrastante la nostra unica finestra, che essendo molto bassa, era protetta da una grata. Al calar della sera, tutta la zona circostante il casolare, per un vasto raggio, era immersa nell’oscurità: per uscire, era indispensabile premunirsi di una piccola torcia tascabile e percorrere un buon tratto di strada prima di arrivare in una zona illuminata. In questa atmosfera, ovattata da un silenzio surreale, Il Silos

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La cittàudivo talvolta l’abbaiare lontano di un cane e ai primi tepori primaverili percepivo il verso lugubre, sempre uguale, di un uccello notturno. Tutto questo mi recava un senso di struggente malinconia e di isolamento, che cercavo di fronteggiare in casa svolgendo di malavoglia i miei compiti. Nelle lunghe pause serali, fissavo il lume acceso davanti a me e con la mente ritornavo a Capodistria, agli amici e al mio mare, che avrei rivisto nel corso della lunga vacanza estiva, atteso come sempre con affetto, nella casa delle nonne rimaste.Una delle maggiori preoccupazioni vivendo in questo posto, era il problema dell’acqua - che il più delle volte doveva essere prelevata da un pozzo e fatta bollire per essere resa potabile; c’era inoltre l’enorme carenza dei servizi igienici, per cui in caso di impellente necessità, bisognava uscire in aperta campagna dentro un rudimentale casotto di legno, che racchiudeva un cesso maleodorante e scomodo. Finalmente, dopo due anni, venimmo accolti, si fa per dire, nella struttura del Silos, le cui condizioni di vivibilità, malgrado tutto, erano migliori delle precedenti. Ci adattammo ben presto a questo nuovo ambiente, che comprendeva una superficie di appena 16 mq. I mini-locali messi a disposizione per le famiglie, erano definiti “box” e la loro composizione formata a celle d’alveare, era distribuita sui tre piani dell’edificio: il terzo era sicuramente il più favorevole per luminosità, in quanto aveva il vantaggio dei grandi lucernai posti sul tetto. I singoli box erano tutti numerati e disposti linearmente, in modo tale da formare lunghi corridoi intervallati da brevi passaggi in corrispondenza dei quali c’erano le rare finestre per far entrare la luce e l’aria. Tornando ai box; il nostro in particolare era delimitato all’interno da sottili pareti di legno, che confinavano su due lati con gli altri contigui. La copertura del soffitto invece, era costituita da fogli di carta d’impacco, tenuti insieme da un collante e sostenuti nella parte interna da un intreccio di sottile filo di ferro zincato disposto a reticolo. La parete anteriore con la porta

d’ingresso rivolta al corridoio, era formata da pannelli di faesite a loro volta fissati su un telaio di legno e nella parte superiore era stata ricavata un’apertura ad anta girevole, per sfogare all’esterno gli odori ed i vapori di cottura. L’aria e la luce del sole, non arrivavano mai direttamente a tonificare l’ambiente, che dalla mattina alla sera veniva illuminato con luce artificiale ed era viziato da aria impura. A lungo andare, questo posto si rivelerà deleterio per il mio organismo, che nella fase più importante di crescita, sarà colpito da un’infezione polmonare, con tempi di guarigione molto lunghi, trascorsi nel più assoluto riposo. La vita dei primi anni al Silos, scorreva per me veloce e spensierata. Potevo contare su un gruppo di amici con i quali dividevo passatempi e sfide sportive: per questo avevamo a disposizione un ampio terrazzo, posto tra le due ali interne dell’edificio ed un cortile situato ad un livello più in basso, al quale si poteva accedere solo da una scala di ferro. Per noi questo spazio costituiva il campo di calcio, dal fondo oltremodo irregolare e cosparso di sassi, che cercavamo di eliminare di volta in volta per non farci troppo male. Un muro di confine divideva il nostro campo dall’area prospiciente la ferrovia. Spesso bisognava scavalcarlo, per recuperare il pallone calciato accidentalmente oltre. Ci si sfidava in partite interminabili, assieme a quelle

di “palla avvelenata”, considerata una derivazione dell’attuale pallamano. Quando il tempo atmosferico era inclemente, trascorrevamo le ore di svago all’interno dei cosiddetti “cameroni”e lì giocavamo a carte, mettendo in palio giornaletti o figurine. Costretti a vivere in questo ambiente certamente limitato, avvertivamo continuamente un insopprimibile bisogno di evasione, cercando insistentemente luoghi diversi al di fuori del Silos. E con l’inizio della bella stagione, ci spostavamo in gruppi in direzione di Scorcola, verso “la campagneta”, dove c’era un rudere che chiamavamo “il Castelletto”. Però le grandi opportunità arrivavano d’estate, con i bagni di mare. Talvolta con qualche amico, attendevo alla fermata l’arrivo del tram della linea 6 e appena giungeva, eravamo pronti a saltare con destrezza sul rimorchio ancora in movimento. La destinazione era il litorale di Barcola, dove tra tuffi e nuotate, godevamo un intero pomeriggio di sole, aspettando il tramonto per rientrare. Quelle splendide giornate non avevano mai fine e si concludevano a tarda sera, quando sfinito dalla stanchezza, sfruttavo le poche energie, per i giochi notturni sul terrazzo. Nel periodo estivo c’era anche la possibilità, per chi lo desiderava, di frequentare la colonia marina o montana, tramite l’“Opera figli del Popolo” diretta da don Marzari ed è stato grazie a questa iniziativa che ho

Durante la messa. Sono al centro che guardo il prete

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La cittàpotuto conoscere la montagna per la prima volta e apprezzarne il fascino. Molti episodi derivanti dalla promiscuità o dalla mancanza delle più elementari regole di buona educazione, condizionavano la vita degli abitanti del Silos; l’intimità e la libertà erano spesso violate e inevitabilmente avvenivano scontri verbali conditi con minacce: bisognava quindi fare attenzione nel trattare con certi soggetti irritabili. I rumori e i fastidi erano all’ordine del giorno, anche se il silenzio era regolato da una norma interna: chi doveva per esempio lavorare la notte, era costretto a sopportare il vicino che teneva la radio accesa a pieno volume, oppure come nel mio caso, subire per interi pomeriggi le canzoni di Claudio Villa, che una giovinetta del box adiacente metteva ripetutamente sul suo giradischi. I problemi si presentavano già di buon

mattino, quando uscendo dal box per andarsi a lavare, ti trovavi davanti ai lavelli una fila di persone che cercavano di occupare quanto prima un rubinetto o un bagno. Appena si liberava un posto, c’era subito ressa, qualcuno non rispettava il suo turno e all’istante nasceva un battibecco. La domenica però, “tutti buoni”: si andava alla messa nella piccola cappella interna, il rito era officiato da un prete mite e bonario, di origine bresciana: padre Vinci. Questi essendo un ottimo conoscitore dell’animo umano e abile psicologo, sapeva attirare su di sé l’attenzione dei fedeli. A volte, nelle dispute di varia natura, molti ricorrevano a lui, che con intelligenza e buon senso riusciva a metter d’accordo un po’ tutti, dicendo sempre che il torto o la ragione non stanno mai da una sola parte. Era molto sensibile agli stati d’animo delle persone, specialmente

nei riguardi degli anziani che non volevano mai rassegnarsi alla perdita della loro terra. Comprendeva il tormento e la speranza dei più giovani smaniosi di uscire prima degli altri da questa bolgia del Silos, per avere al più presto una casa e un lavoro. Intanto passa inesorabile il tempo e finalmente arriva anche per noi il momento tanto atteso: la concessione di un appartamento. Un sogno che diventa realtà dopo dieci anni trascorsi in un’alternanza di speranze e delusioni. Finalmente possiamo ripartire e iniziare un nuovo capitolo della nostra vita, con ritrovata fiducia e nuovi stimoli. A questo punto si impone un’amara considerazione: la nostra tragedia istriana, è stata inizialmente ignorata dai nostri politici, distratti e superficiali, a volte distolti da problemi più pressanti, in un’Italia umiliata e prostrata da una guerra perduta. In passato la classe politica dominante, ricordava l’Istria e la sua gente, con “comizi strappa-lacrime” soltanto in prossimità di scadenze elettorali, facendo promesse fasulle e mai mantenute! Ora dopo 50’anni hanno riscoperto il problema istriano istituendo “il giorno del ricordo”, che sa tanto di ipocrisia.Scriveva un mio stimato professore d’italiano dell’istituto Volta originario di Pola: “il problema dell’Istria non doveva essere posto in termini nazionalistici, ma in un contesto europeo, più tollerante e più intelligente”.I nostri figli che in larga maggioranza nulla sanno, o conoscono poco la nostra storia, distratti da altre cose e proiettati, loro malgrado, verso un futuro in cui regna solo instabilità e incertezza, si limitano a dire: ma quelli erano altri tempi, ora bisogna guardare avanti e scordare il passato anche se tragico. Allora io dico: se noi dimentichiamo il nostro passato, dopo queste sconvolgenti vicende, un passato che è segno profondo di una tradizione, di un costume di vita, di una civiltà; un popolo che abbia coscienza di questo, deve portare avanti i frutti della propria cultura e poter ricostruirsi un futuro consapevole della propria identità.

Vinicio Bussani Il cortile. Io sono al centro, davanti il pallino

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Il Sermino continua a restituirci vestigia romane di quella che forse fu Egida. Nel corso di scavi effettuati ad aprile in vista del rinnovo della ferrovia, è stato rivenuto

il basamento di una colonna e numerose tegole con iscrizioni: AMBROSI, CRISPINI, CL HER

(Foto Ilona Dolenc-Primorske novice).

I coniugi Gina e Petar Terzić, assidui frequentatori della nostra Comunità, hanno festeggiato recentemente il

sessantesimo anniversario di matrimonio. Lei nativa di Momiano, lui di origini serbe, si vogliono bene come il

primo giorno. Continuate così! Auguri.

»Evropska vas - Villaggio europeo« in Piazzale Carpaccio. Scopo della manifestazione avvicinare ai giovani i Paesi dell'Unione europea presentandone le

varie culture. La »Vergerio« quest'anno ha presentato il Portogallo e l'Italia. Nella foto, in primo piano il prof.

Apollonio (Foto Fermo).

La Comunità degli Italiani di Bertocchi ha organizzato in aprile la tradizionale manifestazione »Saluto

alla primavera«. Ospiti: l'asilo e la scuola italiana di Bertocchi, il Coro Brnistra-Ginestra, il Gruppo

filodrammatico giovanile della CI di Verteneglio (foto) e il Gruppo danza della CI Valle.

La strada di Semedella venne costruita nel 1826 per favorire il traffico dei paolani verso le loro campagne. Prima potevano uscire con i loro carri solo attraverso la strada principale che passa oggi vicino allo stadio. Davanti

all'attuale Hotel Koper bisognava attraversare un ponticello chiamato »el ponte de tola«. Fino ai primi anni Ottanta la strada di Semedella era trafficata dalle automobili. Oggi è la riva che i capodistriani, e non solo loro, prediligono per le passeggiate. Quest'anno la strada è stata allargata, munita di panchine e lastricata con blocchi di arenaria.

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Il mio ricordo di Bossedragadi Egidio Salvatore Di Grazia

Venni ad abitare con la mia famiglia a Capodistria nel gennaio del 1950, avendo lasciato il villaggio natio abbarbicato sul versante meridionale della valle della Dragogna. Sul far della sera arrivammo alla porta della Muda, il punto di collegamento tra la città, altera e scostante, e gli abitanti della campagna verso i quali i capodistriani avevano un sentimento di diffidenza e superiorità.

Ci era stata assegnata una parte della grande casa di proprietà della contessa Gambini, erede di una famiglia di possidenti ed armatori, posta sullo stradone principale che dal Brolo conduceva al mare in prossimità del quale si diramava, a sinistra verso il Convento di Sant’Anna, trasformato in carcere, ed a destra al porticciolo di San Pieri. A quel tempo la strada più non aveva i maestosi platani che l’ombreggiavano nelle afose giornate estive ma era ancora sterrata, polverosa d’estate, fangosa nei giorni di pioggia.La vecchia contessa, con la quale condividevamo alcuni locali della sua casa, mi appariva, soprattutto nel portamento, fiero e riservato, tanto diversa dalle contadine che avevo fino a quel tempo conosciuto. Compariva raramente e quando attraversavamo il suo soggiorno rapidamente, ma con un sussiegoso contegno, si ritirava nella sua stanza da letto. Con il passare del tempo fece amicizia con mia madre o, meglio, la degnò di considerazione tale da superare la barriera che fino a quel momento ci aveva reso estranei pur in tale promiscuità.Il retro della casa comunicava, tramite un piccolo cortile, sempre in ombra, che dava una sensazione di vecchio e stantio, con la calle che dal montaron scendeva ripida verso il porticciolo di Bossedraga. Questo, già nel 1957, l’anno del primo dei miei tanti ritorni a Capodistria, più non esisteva essendo stato interrato per creare le banchine del nuovo porto industriale. L’accesso al mare è stato gradualmente chiuso da muri, recinzioni di filo spinato

per evitare traffici o passaggi illeciti.La distruzione del mandracchio aveva rappresentato il colpo finale per Bossedraga, la cui anima vitale si era già persa con l’esodo dei suoi abitanti terminato pochi anni prima.Oggi il muro non esiste più e l’ampio piazzale di Sant’Andrea è aperto su di un lato alla nuova strada che lo mette in comunicazione con il resto della città, anch’essa profondamente mutata. Ma il rione non pulsa più della vita operosa dei suoi abitanti, che si svolgeva per lo più fuori dalle modeste case, nelle calli, negli squeri e sulle banchine dei porticcioli. In un certo senso i suoi abitanti sembravano appagati dell’emarginazione del rione dal contesto sociale cittadino, in un certo modo voluto dai suoi abitanti i quali, come afferma Tomizza, nelle pagine introduttive del romanzo storico sulla vita di Vergerio, “si vantavano di non essere stati da anni su , in piassa”.Sul punto un cui la calle inizia a scendere più ripida verso il Mandracchio, lungo la quale mi lanciavo con il mio monopattino curvando strettamente sulla sua banchina, finendo talvolta in acqua quando la manovra non era tempestiva, faceva mostra di sé , l’edicola che un tempo conteneva il dipinto, intitolato “La Madonna del mare”. Opera del pittore capodistriano, Bartolomeo Gianelli, risaliva alla metà del 19.esimo secolo. Rappresentava la Madonna, Sant’Andrea, e sullo sfondo il mandracchio di Bossedraga.Mi trovai, dunque, a vivere in un’ambivalenza, favorita dalla posizione della mia casa, posta a mezzo fra la città dei commercianti e della nascente nomenclatura slava, burocratica e militare, ed il rione dei pescatori, separato, per non dire avulso da essa. Sul “campo de Bossedraga” (Piazzale S. Andrea), si trovava la testata del vecchio magazzino, già del sale, sul quale si apriva il grande portone d’ingresso della “fabrica de sardine”, l’industria delle conserve ittiche De Langlade, che aveva adottato per insegna la testa anguicrinita della Medusa, stemma di Capodistria.La zia Giovannina, sorella giovanissima di mia madre, che per me era come una sorella, iniziò subito a lavorare presso la De Langlade la quale da sempre aveva dato lavoro a molte donne, che concorrevano in tal modo ad arrotondare i bilanci familiari. La fabbrica era rifornita non solo dai pescatori locali. Di frequente giungevano al mandracchio barche colme di pesce, ma sul volto di chi le governava si notava una cupa amarezza unita ad timore e rabbia nello stesso tempo. Erano le barche di pescatori non istriani che la milizia titina aveva colto in acque sotto la giurisdizione jugoslava e scortate fino a Bossedraga dove avrebbero scaricato il loro carico nella “fabrica de sardine”.Brazzera capodistriana (1890) di Anders Beer

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La cittàCom’era naturale fui attratto dalla gente di Bossedraga, dal ritmo del piccolo porto di pescatori. Qui passavo ore ed ore non solo a giocare insieme ai loro figli, ma anche condividere con loro i momenti tipici della vita marinara: la gioia per il ritorno delle barche colme di pesce, il sollievo per lo scampato pericolo in caso di maltempo. Passavo tutti i momenti liberi intorno al porticciolo, intorno al quale vi erano le case dei pescatori, dove essi erano intenti a rammendare le reti. Vivevo le loro esperienze, sentivo i loro discorsi tanto che il tratto di mare tra Capodistria ed Ancarano divenne lo spazio nel quale passavo la maggior parte della giornata non priva di avventure talvolta pericolose.Della mia “nuova vita” i miei genitori non erano partecipi perché non avevano fatto amicizia con nessuna delle famiglie di pescatori. Del resto questa amicizia sarebbe stata impossibile specie con mia madre che era e restava una contadina dell’interno, tanto diversa dai cittadini capodistriani, bottegai o pescatori che fossero. Costoro esprimevano una chiusura verso gli altri, specie per gli slavi che da secoli davano loro ricchezza ma anche timore. Anch’io, per loro, era uno “s’ciavo”. Ricordo quando, attendendo gli amici per andare a giocare a nascondino od ai pirati tra le barche accatastate nello squero, mi ero seduto sul gradino di una casa antistante. Una anziana donna notandomi chiese, con un tono affettuoso, a colui che poteva essere suo marito, “chi xe ‘sto bel putel?”. “ Mah...- rispose lui- el sarà un s’ciavo”, intendendo con questa espressione la mia provenienza dall’interno dell’Istria.In quell’occasione provai una forte umiliazione dovuta più al tono con il quale la parola fu pronunciata che al significato: era la stessa che dovevano provare i contadini dell’interno, quando, con il loro incerto parlare in italiano, andavano a Capodistria a fare acquisti nelle “privative” condotte da italiani alteri e superbi.

La mia breve, ma intensa ed indelebile, stagione capodistriana si concludeva in una triste giornata di fine ottobre 1953. Capodistria, infatti, mi è rimasta, nel cuore e nel ricordo cosicchè, come afferma Herman Hesse, “… i vicoli, le case, la gente e le storie di laggiù sono per me modello e archetipo di tutte le patrie e di tutte le storie degli uomini”.

Edicola e volto a Bossedraga

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La cittàLettere dal Siam Bangkok, 12 Magio 2011

Tripoli, bel suol d’amore, ti giunga dolce questa mia canzon!Tripoli, terra incantata, sarai italiana al rombo del cannon!

Caro Alberto,in sti giorni anca nel Siam lontan, se parla ‘sai de Libia. Tanti qua no la gaveva mai sentida nominar e xe anca gente che me dimanda dove che xe la Libia. Mi, no me meraveja perché qua, in Siam, la geografia no xe stada mai de moda, gnanca desso. Pensa che una, gnanca propio sproveduda, me ga dimandà se, per andar de Bangkok in Arabia, bisogna passar per l’Europa. Tanto per dar una idea, ma i esempi podaria esser tanti, ancora più paradossali.Se parla tanto, che me xe vignù per forsa in mente una serie de episodi che riguarda ‘sai de vissin la Libia (quela de cento ani fa, dato che semo in tema de centenari e de centosinquantenari) e che i me xe capitai mentre, qualche ano fa, stavo aiutando a alestir, a Bangkok, una mostra sul pitor e decorator italian Galileo Chini, no ‘sai conossù in Italia (dove che al ga afrescà, fra l’altro, el Palazzo dei Congressi de Salsomaggiore Terme), ma ‘sai nominà in Tailandia per i sui afreschi al Palazzo del Trono che al ga scominsià a far proprio sento ani fa, tondi tondi.Dovemo saver che, durante el secondo viagio che re Chulalongkorn de Tailandia ga fato in Europa, fra cui Venezia (1907), par che al gabi amirà afreschi fati de sto

pitor, apunto a la Bienale de Venezia, e che al lo gabi invità a lavorar a la decorasion del Palazzo del Trono che i stava giusto costruindo a Bangkok.Ancora però no podemo capir cossa che ghe entra la Libia con la presenza de Chini a Bangkok. E invesse!! Traficando con le carte (documenti, relazioni e fotografie) che riguardava sto pitor, me son sprofondà nell’esame critico del suo diario de viagio, che po’ no jera un diario; par infati che al sia stado scrito dopo e che tante robe le sia un poco confuse, al punto che qualchidun disi che qualche episodio descrito come capità nel primo viagio, riguardi invesse el secondo. In ogni caso no xe date, che le xe ricavade invesse dalla “biografia ufficiale” del pitor. Ma no semo qua a parlar de Chini, anca perché la roba andaria ‘sai per le longhe e ti, caro Alberto, tanto spasio sul giornal, no ti me lo dà.Dunque la biografia su Chini parla che i ‘veva firmà el contrato col governo siamese in magio (1911 e da quel giorno partiva anche el compenso!!), ma che Chini no veva podù partir subito, perché al veva in pie una mostra a Roma che andava avanti fino in giugno. Alora el biografo (quel uficiale) stabilissi che lu al xe partido per el Siam in giugno (sempre del 1911).

Recente manifestazione pro Gheddafi in Piazza verde a Tripoli (Foto Boris Palakovič)

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La cittàPossibile, ma no che fussi necessariamente cussì. Al varia anca podù esserse ciolto un poco de tempo per sistemar le so robe, resta el fato che dai documenti tailandesi, risulta che lu, el primo stipendio, comprensivo dei aretrati da magio, lo ga tirà in novembre. Qua me xe nato el primo dubio. Che nol gabi tirà un solo scheo fin a novembre, co’ la paga ghe spetava da magio? Vedo anca una foto de la partenza dall’Italia e vedo che la gente che jera sul mol, no la jera vestida come de solito se se vesti in giugno. E alora i dubi me se ga raforzà! Pareva gente vestida de autuno. Continuo a leger el suo, ciamemolo, diario. Al descrivi i suoi compagni de viagio, oviamente de prima classe e, altretanto oviamente bianchi de pele. Solo la presenza de una fameia indiana, par che no la ghe andava zo. Al la ga nominada un saco de volte, come una anomalia (in prima classe!!) e ogni volta al se sentiva in dover de come giustificar la presenza anomala, precisando che se tratava de una fameia, “sai ricca”. E Alora ogni volta che al la nominava al doveva scriver la intiera frase “la ricca famiglia indiana”. Me pareva quela batuda sul negro che diseva che “un negro ricco è un “ricco”, mentre un negro povero è un “negro”. Bon, ma fin qua ancora con la Libia no ghe semo. Ma ‘sai vissin!! La nave va zo per el Mediterraneo e la riva al Canale de Suez. Prima de traversarlo i se ferma a Port Said e i ga ocasion de veder una sfilata de “volontari arabi”, con tanto de baioneta inestada e i ven a saver che i xe reduci dala bataglia de Sciara Sciat, in Libia dove i veva fato strage de bersaglieri italiani. E lui naturalmente che ghe boiva dentro, al pensiero che quele baionete …Mi me son sempre interessà de storia, de quando jero picio, ma el nome de sta bataglia no lo ‘vevo mai sentì. Ver savù, però, quando se gaveva svolto sta bataglia, me varia aiutà a identificar, se no la data esatta de la partensa de Chini per Bangkok, almeno el mese che, ripeto, no me pareva podessi esser sta giugno.Adesso lassemo Chini sul suo vapor che andava verso Singapore (dove che al doveva cambiar per andar a Bangkok) con i suoi compagni de viagio bianchi de pele e con la presenza anomala de la “ricca famiglia indiana” e se concentremo su Sciara Sciat.Go ripassà duti i libri de storia, che ‘vevo a disposision a Bangkok: gnente! Vardo le carte topografiche e no trovo gnente. E pur! Se la ‘veva fato tanto colpo sul “nostro” Chini, ghe doveva esser stada una bataglia importante! Dopo, legendo de la “giornata dell’odio” contro l’Italia, istituida da Gheddafi (dopo spostada al 7 de otobre in ricordo dell’espulsione dei Italiani da la Libia nel 1970), vegno a saver che la jera stada istituida per comemorar la strage fata dai Italiani in Libia per vendicarse de la sconfita de Sciara Sciat, che jera stada el 23 de otobre del 1911.Ghe semo! Se la bataglia la xe stada el 23 de otobre, e Chini ga visto i reduci de quela bataglia, lu nol podeva esser partì 4 mesi prima de quela bataglia. La partenza

quindi doveva esser stada verso la fine del mese de otobre (eco giusti i vestidi de la gente sul mol!), con arivo a Bangkok in novembre (e eco che funsiona anca el suo primo stipendio, tirà apunto in novembre).Podé facilmente imaginar come me ga scominsià a interessar quel nome strano Sciara Sciat e la bataglia che portava quel nome. Acuratamente nascosta sui libri de storia che vevo studià a scola, ma anca su quei ‘sai più seri de quei de scola. Serco sule carte, trovo una piantina de Tripoli del 1930 e vedo che ghe jera una “via Sciara Sciat”, vicin al porto, disemo in periferia de Tripoli stessa. Go imaginà che la località la ‘vessi fato parte dell’oasi de Tripoli, ma che adesso la sia sparida, inglobada nela cità. Deso scominsiava a esser squasi duto ciaro.L’Italia ‘veva dichiarà guera a la Libia a la fin de setembre e ai primi de otobre la ‘veva za ocupà Tripoli. I giornai italiani faseva grande propaganda per la guera e tanti partiva volontari tanto, i pensava, jera de far una passegiata. La Libia la fasseva parte dell’Impero Ottomano, che i Libici vedeva de malocio. Jera solo poche migliaia (i disi 4000) i soldai turchi presenti in duta la Libia, con la gente araba che no sperava altro che rivassi i Italiani e alora!! Se parti. Jera de gran voga in quei giorni, la canzoneta, “Tripoli bel suol d’amore”, che ‘vemo riportà qua sora, cantada da una cantante, la Gea de la Garisenda, che ‘veva gran successo. No se ga mai capì se jera per l’entusiasmo che suscitava, quela volta, l’impresa de Libia, o per le fato che la se presentava in scena solo vestida con la bandiera tricolore e … gnente soto! In ogni caso nissun notava la

Commissariato di polizia dato alle fiamme nel centro di Ghadames. Foto B. Palakovič

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La città

contradission fra duti i Libici che spetava i liberatori e el fato che, dixeva la canzon, Tripoli sarà italiana al rombo del canon. Che bisogno ghe jera de le canonade? I Turchi jera 4 gati, comunque za scampai al primo sbarco, i Libici no spetava altro che i “liberatori”!Fato sta che, sicuri de sto fato, i generai italiani i andava come a nozze. I se spetava solo gloria! E anche i fantaccini, da le letere che i mandava a casa, i ciodeva duto soto gamba. I parlava più dei muleti che i li tirava per la giaca per farse dar qualcossa de magnar (… una turba di piccoli bimbi, coperti de una camicia a brandelli, mi si attaccano alle ginocchia gridando “bono taliano, mangeria, mangeria, italiano bono”). Anche i giornalisti i jera su de giri e i presentava la Libia come favolosamente ricca (duta roba che sarà nostra); el giornalista Bevione, su la Stampa de Torin, scriveva che ne speta ”milioni di posti di lavoro in Tripolitania”, naturalmente sempre dito insieme a la “facilità della conquista”. Jera anca voci più realiste come quela del magior Luigi Breganze che sovraintendeva al sbarco e che descriveva nei suoi raporti, per filo e per segno, el caos che regnava e i furti che vigniva fati, sia dai “corpi militari stessi e dagli indigeni”. Naturalmente el controlo portava solo al mazamento de qualche ragazzotto arabo che robava sensa furbissia e al se fasseva becar. Quei che robava in grando ….. gnente!! Ma xe roba che dura anca ogi!Un militar scriveva a casa: “abbiamo tribolato molto, dato il terreno sabbioso”. Ma i generai no saveva prima che in Tripolitania ghe jera el “terreno sabbioso”? Po’, podé imaginar duti sti militari italiani, giovini e sensa ragazze … in un paese mussulman. Nissun gaveva previsto ste robe e nonostante i proclami uficiali sul rispeto che i varia dà a la dona mussulmana, i bersaglieri se ocupava più de sercar done che de altro. E sempre pezo li vardava la popolasion araba, specialmente quela … maschile. Ariva la matina del 23 otobre (sempre 1911, semo al centenario) e de matina presto se scominsia a sentir qualche colpo de arma de fogo. Ma roba sparsa, sembrava inizitive squasi private. I bersaglieri che no vedi gnente e no i xe pratici de oasi, i scominsia a ritirarse e sercar de

meterse su posisioni più sicure. L’oasi xe grande, Tripoli no xe lontana, i Turchi rimasti in zona jera pochi ma quei che sbarava scominsiava a esser tanti. E chi sbarava, alora? Jera arabi tripolini, quei che sbarava, Quei che fin a l’altro giorno i pareva poveri ragazzi sottomessi e che te diseva “bono taliano”, e i saltava fora da per duto. L’oasi nascondeva le armi che sbarava, specialmente a chi l’oasi no la conosseva e gnente ‘veva fato in quei primi giorni de calma, per imparar a conosserla. Semo i più forti, no? Una volta i ‘veva visto un rioplan turco che volava sora de lori e i ‘veva scherzà su “l’uccello di Maometto”. Adeso la voja de scherzar la jera finida de boto. I arabi i jera da per duto, i saltava fora a l’improviso con cortei e pugnai. I se la ciapava specialmente con i uficiai. I pugnai de lori no i veva pietà per nissun. Ai bersaglieri no restava che ritirarse, verso Tripoli e lassar l’oasi ai Arabi e, sempre nell’oasi, tanti lori compagni che no se varia alzà più. Ma quando za quei che se stava ritirando i scominsiava a sentirse sicuri, ecco che i trova altri arabi, citadini stavolta che ghe bloca la strada (i doveva acoglierli “a braccia aperte” e invesse i ghe sbara: “traditori”!!). Xe stada una carneficina; solo a Sciara Sciat 400 bersaglieri morti. Ma no se podeva dirlo dopo dute le grancasse che i giornai ‘veva batù al momento de la partenza dei soldai. Un giornal jera vignù fora col titolo: “I nostri soldati non vanno a Tripoli a morire, vanno a compiere una passeggiata trionfale”. Come se podeva far saver a la gente che la situasion jera sai grave? Silensio! De Sciara Sciat xe vignui a saver solo chi che legeva la stampa estera (‘sai pochi). Dopo, e fin a poco tempo fa, silenzio assoluto. Silenzio assoluto anche e specialmente su la repression che xe cominciada subito dopo. Se ga scadenà quel che la stampa estera ga ciamà “ un vero e proprio genocidio” e che l’ordine del giorno del comando talian ciamava invesse “disarmo generale degli arabi e perquisizioni”. Un giornalista tedesco della Frankfurter Zeitung, Walter Weibel, che ‘veva scrito articoli su quei fatti al xe sta semplicemente costretto “di lasciare Tripoli al più presto, e di guardarsi dal rimettere piede a Roma nell’avvenire”. Un altro giornalista tedesco e un american i ga restitui la tessera de giornalisti e i ga lassà Tripoli spontaneamente e immediatamente.In seguito, quando Gheddafi ga preso el poter in Libia, al se ga afretà a dichiarar quel giorno (26 otobre) giorno dell’odio o della vendetta; xe sta istituì un museo dove se pol veder foto a dir poco raccapriccianti. Tempo fa la nostra TV usava mostrar esecuzioni sui campi sportivi dei talebani, dove veniva copade done inzinociade. Le foto xe simili, anca se no le xe fate in un campo sportivo, solo che quei che sbara, no xe talebani!Duto questo xe saltà fora ani fa, perché no podevo creder che el nostro Galileo Chini al fussi partì per Bangkok in giugno del 1911. Xe proprio vero che quando se serca qualcossa, se trova… magari no proprio quel che se sercava, ma in questo caso quel e anca tanto altro ancora.

Lucio

La partenza del pittore Chini da Genova

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La città

Tv Capodistria compie 40 anniIntervista con il caporedattore responsabile dei programmi italiani Robert Apollonio

Si dice che la vera maturità di una persona arriva 40 anni. È che così anche per un’emittente?Per quanto riguarda le persone è molto soggettivo: c’è chi raggiunge la maturità prima, chi dopo e…chi mai. Per quanto riguarda invece Tv Capodistria credo che 40 anni di televisione siano un retaggio importante che ha portato maturità e crescita giacchè a Tv Capodistria hanno lavorato generazioni di giornalisti di operatori di tecnici eccetera, che hanno investito molto sulla loro professionalità. Sicuramente vedendo il prodotto di quella volta e quello di oggi, credo che l’emittente abbia raggiunto una maturità nel senso più ampio. Oggi è una realtà televisiva forse diversa rispetto al passato, ma comunque importante in un’area qual’è quella a cavallo dei confini tra Slovenia, Croazia e Italia. Ha evoluto il suo ruolo rispetto a certi momenti del passato soprattutto in funzione della Comunità nazionale italiana. Anche dal punto di vista tecnologico e dei programmi si è sviluppata molto. A livello di emittenza televisiva areale transfrontaliera è oggi la realtà più importante. Quando è entrato a Tv Capo-distria?Nel 1984. Era un periodo diverso rispetto ad oggi. Sono entrato come giovane giornalista, lavoravo in redazione del telegiornale, scrivevo le notizie, facendo servizi, poi il capoturno. Erano anni non facili: la tecnologia che avevamo a disposizione era poca, c’era l’arte dell’arrangiarsi, ma c’è stata sempre molta professionalità sia dal punto di vista giornalistico che dal punto di vista tecnico. Si cercava di lavorare dando il massimo; c’erano dei buoni maestri, giornalisti di esperienza - anche oggi alcuni di questi sono qui con noi e stanno dando il loro contributo fattivo alla creazione dei nostri programmi.Il concetto di Tv all’epoca era diverso da quello che intendiamo

oggi…All’epoca tutta la realtà mediatica era diversa rispetto ad oggi. Non solo mediatica: all’epoca c’era la Jugoslavia, uno stato monopartitico, socialista e i mass media, volente o nolente erano un po’ espressione di quella realtà. Oggi le cose sono cambiate sia dal punto di vista mediatico ma anche del ruolo che i media possono o vogliono avere. Oggi, soprattutto nel campo dei mezzi elettronici, tutto è cambiato, ci sono tante piattaforme, ci sono tv, radio, internet…ci sono mille modi per far arrivare le notizie.Tante opportunità, ma anche più concorrenza.Logicamente c’è tanta concorrenza, ognuno deve in qualche modo identificare quali sono le sue funzioni, il suo pubblico e svolgere poi questo ruolo nel migliore dei modi. L’importante è essere presenti sulle tante piattaforme di cui dicevo prima per raggiungere quanti più utenti.Di sera in poltrona, cosa quarda in Tv Robi Apollonio?Come primo, mi siedo poco in poltrona, nel senso che ho tante cose da fare. Seguo sicuramente i programmi di Tv Capodistria, un po’ per lavoro un po’ per interesse…cerco di crearmi un’opinione da telespettatore. Mi sembra importante questo elemento per poi poter valutare, anche dal punto di vista professionale quello che stiamo facendo. Comunque prediligo sicuramente programmi un po’ più impegnati…possono essere documentari, approfondimenti, telegiornali; ma guardo con piacere anche film e telecronache sportive. Scelgo molto guardando la televisione, lo faccio non per passatempo ma per cercare di imparare.Che cos’hanno gli altri che noi non abbiamo? E viceversa…Il mondo mediatico è abbastanza in crisi, la recessione ha colpito un po’ tutti e quindi c’è un problema di risorse. Se parliamo dei grandi servizi pubblici come può essere la Rai, ma anche Tv Slovenia rispetto a

Capodistria, hanno a disposizione più risorse dal punto di vista finanziario…quindi per poter impegnarle nella produzione facendo magari produzioni più esigenti, facendo scene di un certo tipo. Le risorse sono importanti per poter impostare un certo programma televisivo. La televisione costa, però d’altra parte i buoni prodotti…se a monte ci sta una buona idea e che quindi riesce a cogliere l’attenzione di una fetta di pubblico, sicuramente è sempre un fattore rilevante. Comunque le persone, la loro creatività e capacità fanno la differenza. Un’emittente, per distinguersi, deve proporre qualcosa di specifico…Le grosse emittenti possono acquistare dei buoni film, dei format…la specificità nostra è che ci rivolgiamo a un target ben preciso, a un territorio. Siamo molto presenti anche sul regionale, sul minoritario e abbiamo comunque un know-how della gente. 40 anni di tv non sono pochi e un certo di grado di professionalità è stato tramandato di generazione in generazione. Quando sento anche gli altri – dicono che comunque abbiamo dei prodotti televisivi di qualità, sia per contenuti che dal punto di vista visivo – questo ti da una marcia in più. Anche tecnologicamente siamo ben attrezzati. Sicuramente è giusto pretendere di più, però mi pare che da questo punto di vista, rispetto ad altre realtà televisive sul territorio, abbiamo comunque questo tipo di marcia in più.In che direzione dovrebbe andare Tv Capodistria?Tv Capodistria penso abbia un ruolo ben definito. Negli ultimi anni abbiamo cercato di svolgere nel migliore dei modi la nostra funzione rispetto la Comunità nazionale italiana sul territorio, ma anche rispetto al mantenimento della presenza della lingua e della cultura italiana, nonché dell’approfondimento su un ampio territorio transfrontaliero. Una visione chiara con progetti come la “Tv transfrontaliera”. Abbiamo

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La cittàtelespettatori molto variegati, anche dal punto di vista territoriale: dalla minoranza, dal Litorale, dal resto della Slovenia, dal Friuli Venezia Giulia, dal Veneto, dall’Istria…ma anche dal Quarnero e dalla Dalmazia visto che da alcuni anni trasmettiamo anche via satellite. Da un anno siamo anche su una piattaforma satellitare italiana, Tivù Sat, nel cui ambito siamo rientrati a pieno titolo sul circuito televisivo italiano. Queste sono le strade da seguire, puntando inoltre sulla multimedialità e sulle sinergie tra Tv e Radio Capodistria, per mantenere viva e sviluppare questa realtà culturale, linguistica e professionale in un territorio dove la Comunità italiana è storicamente presente. Ci stiamo attrezzando per i futuri cambi generazionali?La questione dei quadri è per noi fondamentale. Dobbiamo ringiovanire le nostre file. Sta andando in pensione da alcuni anni la prima generazione di giornalisti, ma anche di altri operatori televisivi, e logicamente all’interno del servizio pubblico televisivo c’è un momento di crisi. C’è questa precisa volontà di ridurre il numero dei dipendenti a cui noi cerchiamo di far fronte, perché per noi è fondamentale avere un ricambio. Tv Capodistria, da questo punto di vista, sta diventando un punto di riferimento per molti giovani, non solo connazionali, che

vogliono avviarsi al lavoro televisivo. Ci contattano anche dall’Italia. Ci rendiamo conto di essere una realtà viva che in qualche maniera riesce anche a catalizzare l’interesse dei giovani. Ma la nostra Comunità è piccola. Come trovare ragazzi e ragazze interessati al mestiere?Dipende molto anche dai singoli. Noi cerchiamo di avere contatti continui con alcuni giovani della Comunità nazionale cercando di avvicinarli al giornalismo o ad altri lavori. Spesso e volentieri riusciamo a creare anche dei quadri che collaborano con noi sottoforma di collaboratori esterni, poi però il blocco delle assunzioni fa scegliere loro altre strade.Queste prime collaborazioni fanno vedere se un giovane ha la stoffa per fare il mestiere.È fondamentale sia per noi, che per il giovane che deve capire se questo lavoro fa per lui. Ci sono giovani interessati, solo che poi trovano altre strade. Tutti aspirano all’assunzione a tempo indeterminato, ma oggi nel mondo lavorativo c’è purtroppo molta precarietà. Per noi diventa un problema, visto che i collaboratori vengono pagati con le risorse per le spese vive dei programmi. Queste son poche e siamo limitati. Per noi comunque le assunzioni sono importanti, soprattutto quelle di appartenenti alla Comunità nazionale

che possono garantire un futuro a questa emittente.Nella strategia della RTV c’è anche un riferimento al contenimento della precarietà.Noi operiamo all’interno di un ente che ha la sua situazione. Siamo riusciti comunque, negli ultimi anni, ad assumere dei giovani e fare un parziale turn-over che si è dimostrato anche valido. Penso che abbiamo dei giovani collaboratori che stanno già emergendo dando un contributo importante.Altri problemi da risolvere?Per ogni emittente è fondamentale la diffusione del segnale. È una battaglia continua per Tv Capodistria, fa parte della sua storia ormai. È stato sempre un problema cruciale raggiungere col nostro segnale quei telespettatori ai quali ci rivolgiamo. Vogliamo essere in primo luogo un servizio pubblico televisivo per tutta la Comunità nazionale italiana e sicuramente la parte problematica è arrivare ai connazionali nella parte croata dell’Istria, a Fiume e in Dalmazia. Mi pare importante poterli raggiungere. Il satellite è una soluzione, però credo che con questi sviluppi tecnologici, resterà un problema che va risolto. La stessa diffusione, passata di recente al digitale terrestre, è problematica, perché i formati usati in Slovenia sono diversi rispetto a quelli usati in Croazia e Italia. Ciò crea delle difficoltà. Ognuno ha un sogno nel cassetto. Se avesse la bacchetta magica…Credo non ci sia operatore televisivo che non sogni di gestire un’emittente importante, che abbia buon riscontro e al contempo sia capace di andare controcorrente. La tv di oggi s’è un po’ appiattita, si parla diffusamente di ‘tv spazzatura’. Il sogno è quello di restituire, assieme ad altre emittenti, la dignità alla televisione, quindi di essere uno strumento in grado di informare, di modificare la società, portando valori e progettualità. Questa mi pare sia la direzione in cui soprattutto i servizi pubblici dovranno tornare.

a.c.

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La città

Laura Morgan si è laureata presso la facoltà di Psicologia dell'Università di Trieste. Tesi: »Le leggi che governano la salute mentale in Italia e Slovenia. Un confronto«. Laura ci tiene a ringraziare le persone che le sono state vicine: »il dott. Dell'Acqua per avermi introdotto al mondo della

psichiatria, la mia famiglia, mia madre e mia nonna perchè il loro sogno è sempre stato vedermi laureata. Anche se non

possono più essere presenti sono convinta che sarebbero state felici ed orgogliose«.

Isabella Flego ha ricevuto il Premio annuale del Comune di Capodistria »15. Maggio«. Il riconoscimento

le è stato assegnato »per il suo lavoro pluriennale nell’ambito del sociale, della cultura, dell’arte e di altri settori, e per la sua speciale apertura ai nuovi stimoli di

democrazia civile e di convivenza«.

Cinque i riconoscimenti »Istria Nobilissima« andati quest'anno a connazionali capodistriani. Flavio

Forlani di Radio Capodistria si è aggiudicato il Premio giornalistico per »Verde Istria«, trasmissione dedicata al patrimonio ambientale della penisola. Alessandra

Argenti Tremul di Tv Capodistria ha ottenuto il primo premio nella sezione „Arte cinematografica, video e televisione“ per il documentario »Istria nel tempo«.

Nella stessa categoria, si è classificata seconda Anna Apollonio (Tv Capodistria) per »Una vita, una storia: Alessandro Damiani«. Menzioni onorevoli a Claudio

Geissa nella sezione Poesia per »Inseminazioni patetiche« e Sergio Settomini per i Testi teatrali con

»Giro d'aria in Calegaria«.

Marko Loredan ha conseguito la laurea in Scienze politiche all'Università degli studi di Trieste, presentando

in febbraio una tesi riguardante la Seconda guerra mondiale: »Economia e ideologia nella guerra di Hitler«.

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La città

Il »Piccolo teatro di Capodistria« al »Leone d’oro« di UmagoIl »Piccolo Teatro Città di Capodistria”, diretto da Livio Crevatin, regista radiofonico e teatrale, ha fornito un’eccellente prova della propria qualità con lo spettacolo “La memoria di Medea” di Ugo Vicich. La protagonista Paola Bonesi ha offerto un’interpretazione molto impegnativa, affiancata da Adriano Giraldi, nel ruolo dello psichiatra che l’ha in cura.“Sicuramente uno spettacolo dall’impronta forte e seria”, commenta la tematica il regista Crevatin, “anche perciò in platea era necessario avere un pubblico di giovani già più adulti”. Il Teatro di Capodistria infatti, ha ospitato due Ginnasi italiani, il “Gian Rinaldo Carli” di Capodistria e l’”Antonio Sema” di Pirano, nonché

i ragazzi della Scuola media tecnica “Pietro Coppo” di Isola ed alcuni studenti del corso di Italianistica della Facoltà di Studi umanistici dell’Università del Litorale. Tutte le istituzioni, tra l’altro, che collaborano con il “Piccolo Teatro” a livello organizzativo e di proposte delle opere e degli autori trattati. “La nostra offerta ha anche un valore formativo, che va ad integrare il programma scolastico”, rileva ancora Crevatin.Da segnalare che “la memoria di Medea” è stato selezionato, tra una quarantina di candidati, a far parte dei dieci partecipanti al Premio teatrale internazionale “Leone d’oro”, che si svolgerà a Umago all’inizio di luglio. Mentre già si lavora a un nuovo spettacolo, ispirato a Pasolini.

In febbraio a Isola sono stati consegnati i premi ai partecipanti alle gare di lingua italiana che si erano

tenute a Rovigno lo scorso novembre. I tre temi meritevoli d’essere premiati sono risultati nell’ordine quelli scritti

da Nicola Mitar (foto), del ginnasio “Gian Rinaldo Carli” di Capodistria, Pamela Sirotić, della SMSI Leonardo da Vinci di Buie, ed Eufemia Barzellato, della SMSI di Rovigno. Fra i tre temi proposti, i primi due classificati avevano scelto “In un mondo che uniforma tutto, dove il

modello della globalizzazione viene visto come necessario e conveniente, secondo te, quanto sono ancora validi il

senso di appartenenza ad un gruppo sociale, l’importanza delle proprie radici e delle proprie tradizione e il valore

delle piccole realtà locali?”.

»L’anima e il corpo del suono. Quando nasce la necessità di allontanarsi verso spazi ideali e silenzi

lontani« è il titolo dell’evento promosso dal Comitato della Dante Alighieri di Capodistria lo scorso 23 marzo.

A Palazzo Gravisi, sede della Comunità degli Italiani, è stata infatti ospitata l’installazione sonora »Silenzi

lontani« di Giovanni Corvaglia. La performance è stata preceduta da un’illustrazione del suono, che da fenomeno

fisico si trasforma in emozione, tenuta da Luigi Mancini

(Foto Maja Pertič Gombač – Primorske Novice).

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La città

Dante, il mistero dell’erma scomparsaÈ un anno di relativa calma il 1930, e così in una città, sita ai bordi del Regno d’Italia, l’argomento del giorno era: dove la mettiamo? Siamo nell’anno dopo il grande crollo di Wall Street, l’intera economia mondiale ne soffrì. In Europa monta l’ideologia fascista. Contemporaneamente al problema dell’indebitamento, sia dei vincitori sia dei vinti, e i possibili risarcimenti post bellici, abbiamo in Germania l’ascesa di Hitler. Grandi tragedie sono alle porte. Ma il momento è di apparente tranquillità, in un tempo in cui il peggiore dei mali è la crisi economica, ci si può rifugiare nella serenità della lettura, anzi, della letteratura e della cultura in generale. Nella nostra città c’era una “Società di abbellimento”, la stessa, sembra, che l’anno precedente, s’interessò all’erma dedicata al senatore Felice Bennati (Pirano 1856 – Capodistria 1924). Infatti, racconta Aldo Cherini, nel marzo del 1929 Capodistria si apprestava ad erigere e a dedicare al Bennati, un busto. In occasione del quinto anniversario della sua morte nasce la volontà di onorarne la memoria con un monumento. Si scelse di collocare l’erma nel giardino del Belvedere, un posto che ci svelerà tutta la sua “magia” quando parleremo di Dante. Arrivò poi il giorno in cui questa erma doveva essere inaugurata, ed era il 21 ottobre 1929. L’opera era firmata dallo scultore Giovanni Mayer, e all’evento parteciparono i rappresentanti del Senato e della Camera dei Deputati di Roma, delle provincie di Trieste e dell’Istria, i podestà di diverse città e delegati di numerose associazioni ed enti. Un grande evento coronato da discorsi solenni e promesse di un futuro all’insegna dell’illustre esempio.Il busto è rimasto nel giardino, almeno sino al 1945, posto di fronte al Belvedere. Ma la curiosa assenza nelle cronache e nella memoria dei più, del busto dedicato a Dante, forse la possiamo spiegare attraverso una richiesta della “Società di abbellimento di Capodistria”. Questa società, infatti, promosse un anno dopo l’inaugurazione una nuova erma: quella a Dante. Questo illustrissimo poeta e padre della

lingua italiana che, forse non a caso doveva porsi lì. La proposta è mossa, al municipio di Capodistria, da Piero Almerigogna. Questo pilastro, che doveva proteggere i viandanti, è stato donato dall’associazione nazionale Dante Alighieri all’omonima sezione di Capodistria. Dice l’Almerigogna: “Il busto è una pregevolissima opera d’arte (purtroppo non è indicato l’artista) e, a parere nostro dovrebbe esser collocato, senza cerimonie speciali nel primitivo posto ove avrebbe dovuto esser posta l’erma a Bennati.” Ma come, non l’avevano inaugurata, in modo solenne, l’anno precedente?Guardando il mondo dall’alto, si nota una cosa curiosa: l’Atlante d’Italia del 1930 indica, come posizione sul Globo terrestre di questo Belvedere, la latitudine di 45°. Ma, guardando

bene e avendo in mente le famose terzine: Sí come ad Arli, ove Rodano stagna, sí com’a Pola, presso del Carnaro ch’Italia chiude e suoi termini bagna, (Inferno, Canto IX, vv. 109 e segg.) si raggiunge un’insolita e singolare conclusione: Pola si trova sul 44° meridiano! Come per indicare, forse malinconicamente, lo sguardo di Dante volto, leggermente verso ponente, dalla parte opposta al Carnaro, dove l’Italia chiudeva i suoi confini. Oltre le valli, oltre il Quieto … forse verso Ravenna, dove le sue spoglie riposano, ancora e in perenne attesa di quel riconoscimento e incoronamento a Poeta. Il viso rivolto verso il tramonto che, secondo la tradizione cristiana, indica un funesto presagio.

Valentina Petaros Jeromela

Il busto bronzeo di Dante conservato al Ginnasio »Carli«. Sul piedistallo reca la scritta »L'opera sua torna ch'era dipartita.

1321-1921«

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La città

Freschi di stampaLa cresta sulla zampa di Elsa Fonda

Elsa Fonda, piranese di nascita, triestina dal 1955 in seguito all’esodo e romana d’adozione, artistica e professionale. Nell’estate del 2010 pubblica il romanzo autobiografico “La cresta sulla zampa”, per l’Ibiskos Editrice. Testo in cui riversa i ricordi di una vita, legati alla terra d’origine, presentato alla Comunità degli Italiani “Giuseppe Tartini” di Pirano e successivamente anche a Capodistria, nell’ambito della serata, organizzata dalla Comunità degli Italiani “Santorio Santorio” assieme alla sezione italiana della

Biblioteca civica “Srečko Vilhar”. Da un’intervista alla Voce del Popolo: »La gente parteggia: o sei per l’uno o per l’altro – dice Elsa Fonda. Se invece vuoi essere fuori dai partiti e ragionare con la tua testa, questo implica l’odio di entrambe le parti. Ciò vale per tutte le situazioni, e si può generalizzare affermando che la persona libera è detestata e non vista bene. Oltre a qualcuno che ti stima o ammira, non si trovavano molti simpatizzanti. Questo ho capito della vita: le persone, per sentirsi qualcuno, devono mettersi nel gregge”.

“Il patrimonio scritto di Capodistria, dalla conservazione dei documenti pubblici al riordino dell’archivio storico” Z. Bonin – D. Rogoznica

Zdenka Bonin e Deborah Rogoznica, ricercatrici ed archiviste presso l’Archivio regionale di Capodistria sono autrici di un volume che ripercorre la tradizione archivistica della nostra città. Molti dei materiali, anche se originari e legati a Capodistria sono oggi custoditi in archivi, musei e biblioteche all’estero, tra cui Venezia, Trieste e Fiume. “Bisogna ricordare che la nostra eredità storiografica è legata all’attività notarile”, ha spiegato durante la presentazione il dott. Darko Darovec, “e nel Capodistriano questa era ben sviluppata, rispetto ad altre aree interne dell’attuale Slovenia”. I notai, tra le rare persone alfabetizzate del Medioevo, con i loro atti avevano funzione e valore pubblico (fides publica) e a Capodistria nella seconda metà del secolo XIII fu istituito l’Ufficio della vicedominaria, che aveva il compito di autenticare gli atti giuridici. Più tardi, nel 1598 seguì la fondazione del Collegio dei notai – per contrapposizione, un’istituzione simile esiste all’interno della Slovenia solo negli ultimi anni del XIX secolo. Nel volume sono riportati dati sino

al periodo dopo la Seconda guerra mondiale, quando l’archivio fu sventrato, e molti di quei materiali sono introvabili ancora oggi. Nella storia e nel mantenimento dell’archivistica e dell’inventarizzazione spiccano diverse personalità. Agostino Vida, che nel 1611 – giusto quattro secoli fa - fu incaricato da Venezia di ordinare e riorganizzare i documenti dell’archivio capodistriano, e Francesco Maier. Su questi si è soffermata pure Deborah Rogoznica, connazionale e co-autrice, ricordando che Maier si è occupato, tra il 1903 e il 1908, dell’inventario dei materiali capodistriani. Lavoro svolto da volontario, il quale fu pubblicato in più edizioni di “Pagine istriane”, ed infine anche come volume unico e completo. L’altra autrice, Zdenka Bonin, ha ricordato l’impegno per la realizzazione dell’opera, con le visite agli archivi statali di Venezia, Trieste, poi alle biblioteche con fototeche sempre di Trieste, l’archivio parrocchiale capodistriano, l’archivio di Fiume e naturalmente quello di casa.

Deborah Rogoznica ha consegui-to il titolo di dottore di ricerca in storia all'Università di Lubiana, con una tesi dal titolo »Prisilni premoženjski ukrepi in vzposta-vljanje novega gospodar-skega sistema v coni B Svobodnega tržaškega ozemlja« (»Provvedi-menti patrimoniali restrittivi e co-stituzione del nuovo sistema eco-nomico nella zona B del TLT«).

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La città

Repertorio italiano di corrispondenzaalle voci dialettali capodistriane

Tratto dall’appendice al Dizionario storico fraseologicoetimologico del dialetto di Capodistria di Giulio Manzini

Q

Quaderno – quaderno, (ant.) tecaQuadrato – quadroQuaglia – quaiaQualche – calcheQualchecosa – calcossaQualcheduno – calchidunQuale – qual (-ai), qualaQualità – sorteQualora – quando che, se, siQualunque – calunche

Quando – coQuantità – misura, mucio, (grande q.) desìo, borida, butada, capelada, fraco, furegoto, carego, saco, monteQuantunque – abenchèQuarantina – quarantenaQuarta parte – (di 1 m., della bussola) quarta, (di 1 litro) quarto, (di staio) quartariòlQuartiere – rion, contrada

Quasi – squasi, de botoQuatto – quacioQuercia (veg.) – ròverQuesto – questo, ‘stoQuindi – per questoQuinto (mar.) – corbaQuisquilia – roba de gnente, monada

R

Rabbia – rabia, fotaRabbrividire – ingrissolirseRaccattare – ingrumar, cior su, coleser, (ant.) catàrRaccolto – entradaRaccontare – contàrRacconto – storia, fiabaRaccorciare – scurtarRaccorciamento – scurtadaRacimolare – ingrumar, meter insiemeRaddrizzare – drissar, refarRadice – radisaRado – raro, ciaroRaffica – refolo, goboRaffinato – finRaffio – ganso, (dell’ancora) pataAffittire – infissirReganella – ranèlaRagazzaglia – marmaia, mulariaRagazzo – fio, putel, muloRaggirare – inbroiarRaggiungere – ciapar; rivarRaggiustare – governarRagù – sguassètoRamaiolo – poto, cassiolRamanzina – filadaRamarro (rettile) – sboroRamificare – butar zimiRammarico – crùssioRamo – zimo

Rannicchiarsi – cufolarseRanocchia – rana, crotaRanuncolo (veg.) – naroncoloRapidamente – a la svelta, prestoRapidità – sveltessaRappezzo – tacon, biecoRapprendersi – (del latte) andar insiemeRaramente – de ciaroRasare – rasar, taiar a filRaschiare – rascarRasserenare – s’ciarirRassomigliare – somejarRastrellare – rastelarRastrello – rastelRazza – rassa, (pesce) rasa, baracola, colonboRazzo – rochètaReagire – dar contraRealizzare – far, meter suRealmente – de seno, de fatoRecapitare – portarRecedere – andar indrioRecidere – taiar, soncàrRecinto – seràioRedarguizione - sigadaRedine – brena, brèdenaReggere – tegnir, guantarReggi tende – bonagrassiaRegolamento – regola, (di confraternita) mariegola

Regredire – andar indrio, drioculRemare – vogar, (piano) paiolarRemissivo – bon, cucioRemoto – lontanRendere – tornar; frutarReprimere – sofegarResistente – duro, forteRespingere – mandar indrioRespirare – respirar, tirar el fiàRestaurare – governar, meter in sestoRestituire – tornarRete – rede (plur. rede), arte, (a strascico) cocia, trata, gripo, (a tramaglio) passelera, gonbinaRete metallica – ramadaRetino (con manico) – volegaRetta (dar r.) – dar badaRettamente – ben, pulitoRibassare – sbassar, calarRibrezzo – sensoRiccio – porcospinRicciolo – risso, bocoloRicerca – batudaRicevere – ciaparRichiedere – dimandarRicotta – puinaRidarella – ridariolaRidosso (a r.) – a coloRiempimento – incolmada, inbunidaRiempir – inpinir, inbunirRifare – far de novo

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La cittàRifocillare – dar de magnarRifornimento – proviandaRigagnolo – fossetoRigattiere – strassariolRigettare – gomitar, far i gatisiniRigogolo (ucc.) – papafigo, becafigoRilasciare – molarRilassamento – bandonRilassatezza – fiacaRilucente – lustroRilucere – sluser, lusìrRiluttante – contravoiaRimando (di r.) – de rebatìnRimbalzello (giocare a r.) – far petoleRimbambire – insempiarse, andar a la sensaRimbambito – insenpià, insemenìRimbombare – intronarRimessa – recovero, lupa; barcoRimesso lucido – lustrofinRimestare – missiarRimorchio – remurcioRimpinzare – incoconarRincorare – far coraioRincorrere – corer drioRincrescere – despiàserRincrescimento – dispiasèrRinfusa (alla r.) – sensa stivarRingalluzzire – ciapar fià, meter su bavaRinghiare – rugnarRinnegare – denegarRinomato – famosoRinsavire – far judissioRintanarsi – sconderseRinterrare – coverser, inbunirRintocco – boto

Riordinare – distrigar, meter a postoRipeter (annoiando) – tontonarRipianare – valisarRiporre – salvar, meter viaRipostiglio – cànova, (di bordo) gavònRiprendere – refar, (del vento) riondarRisacca – antimamaRisata – ridadaRischiare – ris’ciarRisciacquare – resentarRisentimento – ruseneRisiedere – starRisolto – distrigàRisparmiare – sparagnarRissa – barufaRisvolto – patela, balsanaRitardare – (ant.) intardigarRitenere – crederRito religioso – funsionRitorcere – intorcolarRitornello (stucchevole) – nàina, làinaRitto – dritoRiunire – ingrumarRivalità – rifaRivangare – tirar foraRivendugliola – venderigolaRiverso – roversoRivo – fosso, rioRivoltare – revoltar, voltarRobusto – stagnoRocchetto – rochelRoccia – piera, scoio, grota, grebenoRodimento – bruseghin, cicada, crussioRompere – ronper, spacar

Rondella – sàibaRondine (ucc.) – rondolaRondone (ucc.) – rondonRosa (fiore) – rosaRosa (pianta) – rosèrRosicare – rosegarRotaia – sinaRotolare – rodolar, tonbolarRotondo – tondoRovesciamento – rebalton, (di barca) capela, scufiaRovesciare – rebaltar, incapelarRoveto – graiaRovina – rovina, malora, remengoRovinare – andar a remengoRovo (veg.) – rubidaRozzo – grezo, rustego, grubianRubare – robar, portar via, cior, gratarRubinetto – spinaRuggine – rusenoRugiada – rosadaRullare (mar.) – rolar, balarRullio (mar.) – gaiòlaRuminare – rumegarRuota – roda; (di propulsion mar.) tànburaRupe – scoioRurale – canpagnolRuscello – fosso, aguàrRuspare – sgrapedarRussare – ronchisarRuta (veg.) – rudaRuvido – ruspedo; groposoRuzzolone – sbrissada, tonbola

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La città

In Memoriam

Fabio Abram (1943) – È stato presidente della Comunità degli italiani di Crevatini, voluta e sostenuta da suo padre Apollinio. Dall’infausto giorno dell’incidente che gli portò via il figlio Gregor, fu messo a durissima prova. In questa triste circostanza vogliamo esprimere a Fabio tutta la nostra riconoscenza per quello che ha fatto e per ciò che è stato.

Bruno Auber (1938) – Nato a Trieste, ma traferitosi presto a Salara, Bruno Auber ha lavorato prima come operaio alla Stil e alla Tomos e poi come agricoltore. Lo ricordiamo sempre presente agli incontri in Comunità per Carnevale, San Nazario e San Martino. Il suo rifugio preferito però, era la sua casa, la campagna, i suoi famigliari.

Armida Perossa (1918) – È morta un mese dopo l’omonima nipote, lo scorso dicembre. Avevamo intervistato la signora Armida nel numero de La Città dedicato a Sermino (dicembre 2002). Una testimonianza preziosa sulla vita in campagna (cibo e usanze), le superstizioni (le strolighe), sulla guerra e il periodo successivo.

Elisabetta Polvi (1953) – Chi non ricorda la signora Betty che abitava nella casa tra Via OF e la Calegaria. Sua madre era belgradese, suo padre il triestino Claudio Polvi tecnico del trasmettitore di Radio Capodistria a Croce bianca. È stata redattrice del programma per ragazzi di Tv Capodistria realizzando anche una serie di pregevoli cortometraggi.

Sergio Zorzet (1927) – I Zorzet, di origine friulana, giungono a Capodistria nel ‘700 come coloni. Nel tempo si sono sviluppati due rami, quello di San Micèl vicino a Bertocchi e quello di Pastoràn nella Val d’Olmo. Sergio era di quest’ultimo. Ha sempre fatto l’agricoltore, curando – finchè la salute glie l’ha concesso – le sue amate campagne.

Guido Porro (1932) – Secondo di dieci fratelli, «il professore» per generazioni di studenti si è spento a Pordenone. Esodato nel ‘53 – la famiglia abitava vicino alla fontana della Muda - si laureò in Storia e filosofia a Trieste e insegnò al liceo “Grigoletti” di Pordenone. Autore del libro “Dalla parte dei piccoli”, di cui abbiamo pubblicato un capitolo ne La Città di luglio 2005.

Aldo Cherini (1919) – Nato alla Case nove, esule dal ‘52, Cherini si è interessato fin dalla giovane età di storia patria e marinara, ha pubblicato un libro in proprio e tre libri con coautore, una ventina di opuscoli e numerosi articoli per periodici e giornali. Una biografia e suoi disegni (acquerelli con motivi capodistriani) sono consultabili sul sito www.webalice.it/cherini

Edda Vergerio – Pittrice, scultrice e poetessa, Edda Vergerio era nata nel rione capodistriano di Porta Isolana e ha vissuto in Belgio, Grecia e a Roma. Diplomata in disegno ed educazione tecnica a Torino, ha insegnato per molti anni nelle scuole italiane. Una presentazione della sue opere è stata organizzata dalla nostra Comunità nel 2002. Alcune sue poesie sono state tradotte da Ciril Zlobec.

Senza confine

Rimane senza confinela confusione

delle gracili nottisgretolate

di calce e pezzi di cielo.

Scandiscono con rumoredi vetri infranti

le ore che precedono l’abbandonoin una dolina riparata

ascoltando le raffiche di borapiegare e gemere

fronde e sassicome lamentoso addio.

E questa ricchezzamistificata

spenta dagli affannifolle rincorsa

in questo cerchioche chiudo nel palmo.

e dal pugno esconorivoli verdi

germinati dalla fatica

si aprono le chiusescorre poesia e morte

ritrovare l’etica primordialeè arrivo senza nastri.

Edda Vergerio

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La cittàProgetto europeo Shared Culture

Casa Baseggio diventerà un Centro per il recupero del patrimonio veneto

Entro il 2012, il centro storico di Capodistria potrà vantare il recupero di un importante monumento, per tanti anni abbandonato a se stesso. Si tratta dell’edificio barocco Baseggio (precedenti proprietari erano anche i Vida e i Tiepolo) di Via Krelj, ex Combi. Il caseggiato, noto in sloveno come “Borilnica” (luogo dei combattimenti) poichè vi sono stati trovati degli affreschi che ritraggono confronti di scherma tra nobili, è attualmente sottoposto a una notevole ed impegnativa opera di restauro. Oltre al recupero degli affreschi (comprendenti anche stemmi e una raffigurazione della Madonna) la prima fase ha visto all’opera gli archeologi. Negli strati medievali sono state rinvenute due tombe, nelle quali sono state rinvenute ceramiche e conchiglie. Secondo l’archeologa Katharina Zanier, coordinatrice dello scavo condotto dall’Istituto per il Patrimonio del Mediterraneo del Centro di Ricerche Scientifiche dell’Università del Litorale, le tombe potrebbero essere connesse con il vicino monastero di Santa Chiara. Il recupero del palazzo, che conserva all’interno una splendida doppia

scalinata e un ballatoio in legno, avviene grazie ai fondi europei (per una somma di 1 milione di Euro) e al contributo del ministero della Cultura sloveno. Rientra, più concretamente, nel Programma di cooperazione transfrontaliera tra Italia e Slovenia 2007-2013. Si tratta del progetto strategico “Shared Culture - Cultura condivisa”, che intende valorizzare

il comune patrimonio veneto, a Capodistria ricchissimo e non sempre sufficientemente valorizzato. Il progetto è condotto dal Centro di ricerche scientifiche dell’Università del Litorale di Capodistria e coinvolge le Università Ca’ Foscari di Venezia e di Udine, la Regione Veneto e poi il Comune e la CAN di Capodistria, nonché l’Istituto per i beni culturali della Slovenia. Tra gli obiettivi principali del progetto vi è la creazione di un centro interuniversitario per il patrimonio storico culturale veneto. Sarà aperto ai ricercatori e agli studiosi, ma anche al pubblico che attraverso mostre, presentazioni, convegni ed altro potranno conoscere meglio la storia di questo territorio. Aleksander Panjek, vice coordinatore del progetto, rileva che fondamentale è stato il ruolo del Comune di Capodistria, che ha concesso all’Università il palazzo, consentendole con ciò di elaborare e presentare il progetto per il finanziamento europeo e di realizzare quindi il recupero dell’edificio storico.

Il pianoterra e la doppia scalinata che sale al piano nobile

Il retro dell'edificio, verso le Case nove

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La città

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La cittàPopolana di Capodistria nel primo Novecento. Da una tomba di famiglia al cimitero di San Canziano.


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