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Forugh Farrokhzad, La strage dei fiori - La dimora del ... · Come postumi sono i ... antiche...

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DOMENICO INGENITO FORUGH FARROKHZAD LA STRAGE DEI FIORI
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DOMENICO INGENITO

FORUGH FARROKHZAD LA STRAGE DEI FIORI

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Post d’Autore, 9, 30 agosto 2017

Domenico INGENITO

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FORUGH FARROKHZAD LA STRAGE DEI FIORI

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Presentazione di Domenico Ingenito Parliamo d’Iran, e parliamo della poesia che accende da lato a lato questa terra. Gettiamo in acqua i tappeti volanti della Persia, nel fuoco il timore di una minaccia dall’Asse del Male, al vento la Tehran radical chic. Iran, nel tempo terra di disastri, certamente, ma nel disastro sono intere costellazioni d’astri a crollare al suolo per illuminare la terra. Iran è il sacro, è la pietra, è il nero, è porta sfondata, è oro e catrame, è denti bianchissimi. È luogo dove piangere non comporta vergogna. Parliamo della maggiore poetessa (se non il maggior poeta tout court) iraniana del ‘900, Forugh Farrokhzad, i cuoi versi sono un costante fremito nella solida struttura formale della poesia persiana classica, una continua trasmutazione lirica degli infiniti amori vissuti sul crocevia tra sogno e frustrazione. Una vita conclusasi violentemente a trentadue anni, nel 1967, disseminata da polemiche, scandali e da cinque raccolte di poesie di cui l’ultima è postuma. Come postumi sono i quattro decenni di diatribe – divina Forugh – o ingenua voce, bruciata nelle piazze durante gli anni neri, compianta da decine di persone ogni inverno sotto la neve, a cercare “quelle due giovani mani, quelle due giovani mani / sotterrate dal peso della neve senza sosta”. Martire suo malgrado, del cheguevarismo post mortem, delle magliette in vendita su Internet e delle numerose librerie di Tehran che vendono i cd con la sua voce . Ma se sola è la voce che resta, resta la memoria dei suoi versi nella voce di tutti i giovani iraniani non ancora sedotti dai fasti d’occidente. Recitano, scrivono, si ispirano e rievocano i tempi della sua scrittura. Perché di tutto quanto è stato detto e scavato, in Forugh resta ancora un lembo di tempo per rinnovare lo sguardo sulla poetessa più accesa del Novecento persiano. Lontana ancora dal sublime addomesticato, la Poesia d’Iran corrisponde al suo Altopiano e si mette in ascolto delle le pulsioni che laggiù, in quei testi e in quegli spazi, si accendono dietro i corpi e le parole, le tensioni che crescono tra le persone nei luoghi pubblici. L’immagine di un abbraccio si apre poi, finalmente, in un luogo sempre silenzioso, sempre nascosto dove “abbiamo trovato il sentiero nel sogno freddo / e silenzioso delle antiche fenici”. Racconta Forugh Farrokhzad: nella conquista del giardino di questi corpi “abbiamo trovato la verità nel giardino, / nel timido sguardo di un fiore senza nome”. Del paradisiaco non sussiste che un riflesso sbiadito, “non ho mai desiderato, io / diventare un astro nel miraggio del cielo […]mai stata io, separata dal terreno, / e mai amica delle stelle, / io m’innalzo sulla terra”, il giardino della terra è attraversato da confini irrisolvibili se non nella separazione tra le cose, decretata dalle leggi degli uomini, più nero specchio della regola divina.

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Tutto questo attraversa Forugh Farrokhzad, la sua poesia raccoglie il rosso vivo della sua terra, uno ad uno i papaveri bruciati nel bacio di chi desidera, nelle mani sotterrate dalla neve, senza sosta. Femmina che mostra lo sguardo sul corpo maschile, che tocca i confini della sua cultura senza negarli, senza rivendicare altra cosa che il vino sul petto dell’amato. Ed è donna e maschio, quando nel canto semplice espone la bellezza degli oggetti nella loro purezza, dove mondo è giardino e i corpi sono fiori, e dove, poco a poco, comprendiamo qualcosa dell’incontro, degli sterminati fiori.”

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Forugh Farrokhzad, La strage dei fiori Cura, introduzione, traduzione e note di Domenico Ingenito,

Napoli, Edizioni Orientexpress, “Le Ellissi”, 2007.

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Saluterò di nuovo il sole Saluterò di nuovo il sole, e il torrente che mi scorreva in petto, e saluterò le nuvole dei miei lunghi pensieri e la crescita dolorosa dei pioppi in giardino che con me hanno percorso le secche stagioni. Saluterò gli stormi di corvi che a sera mi portavano in offerta l’odore dei campi notturni. Saluterò mia madre, che viveva in uno specchio e aveva il volto della mia vecchiaia. E saluterò la terra, il suo desiderio ardente di ripetermi e riempire di semi verdi il suo ventre infiammato, sì, la saluterò la saluterò di nuovo. Arrivo, arrivo, arrivo, con i miei capelli, l’odore che è sotto la terra, e i miei occhi, l’esperienza densa del buio. Con gli arbusti che ho strappato ai boschi dietro il muro. Arrivo, arrivo, arrivo, e la soglia trabocca d’amore ed io ad attendere quelli che amano e la ragazza che è ancora lì, nella soglia traboccante d’amore, io la saluterò di nuovo.

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داد م�اوخ �رابود مالس باتف� �ب

داد م�اوخ �رابود مالس باتف� �ب

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La Conquista del Giardino Quel corvo che volò sopra le nostre teste e discese sul pensiero confuso di nuvole vagabonde, e la sua voce come lancia che attraversa la distesa dell’orizzonte, porterà con sé in città il nostro annuncio. Tutti lo sanno, tutti, lo sanno che io e te abbiamo visto il giardino, da quella fessura fredda e triste, e da quel ramo danzante, lontano, abbiamo colto una mela. Tutti temono, tutti hanno paura, ma io e te siamo legati alla fiamma all’acqua allo specchio e non temiamo nulla. Non parlo del debole legame fra due nomi e di un abbraccio nelle pagine ingiallite di un quaderno. Parlo dei miei capelli baciati dalla fortuna con i papaveri bruciati del tuo bacio. E dell’intimità dei nostri corpi, serrata, e della nostra nudità che luccica come scaglie di pesci nell’acqua parlo della vita d’argento di una voce che all’alba mormora uno zampillo minuto. Noi in quel bosco che scorre abbiamo chiesto una notte ai conigli selvatici e nel mare gelido e in tormenta abbiamo chiesto alle conchiglie piene di perle e nella montagna estranea e vittoriosa abbiamo chiesto alle giovani aquile: Cosa bisogna fare? Tutti lo sanno Tutti lo sanno abbiamo trovato il sentiero nel sogno freddo e silenzioso delle antiche fenici.

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Abbiamo trovato la verità nel giardino, nel timido sguardo di un fiore senza nome. E l’eterno nell’attimo sconfinato in cui due soli si fissano incantati. Non parlo di un brusio atterrito nel buio parlo del giorno e delle finestre aperte e dell’aria fresca e delle cose inutili da ardere nel fuoco e della terra feconda di una nuova semina, della nascita, dell’eterno, dell’orgoglio. Parlo delle nostre mani innamorate che sopra le notti hanno costruito un ponte con il messaggio di luce del profumo e della brezza. Vieni sul prato Vieni sul prato sul vasto prato e chiamami alle spalle del fiato del fiore di seta come una gazzella chiama la sua metà. Le tende si gonfiano di rancore celato e i piccioni innocenti, dall’alto delle loro torri bianche, guardano la terra.

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Una finestra Una finestra per vedere una finestra per sentire una finestra che come bocca di un pozzo giunga in fondo al cuore della terra. E si apra lungo questa continua grazia azzurra, una finestra che nel favore notturno del profumo di nobili stelle trabocchi di piccole mani della solitudine, e da lì potremo invitare il sole all’esilio dei gerani. Mi basta una finestra. Vengo dal paese delle bambole sotto l’ombra di alberi di carta nel giardino di un libro illustrato dalle stagioni secche dell’esperienza arida dell’amicizia e dell’amore dai sentieri polverosi dell’innocenza dagli anni fiorenti nelle pallide lettere dell’alfabeto da dietro i banchi di una scuola malsana quando i bambini ormai sapevano scrivere sulla lavagna la parola pietra gli stormi confusi volarono dai vecchi alberi. Vengo dal cuore fra le radici di piante carnivore e la mia testa ancora trema all’urlo terribile di una farfalla crocifissa sull’album con uno spillo. Quando la mia fede era impiccata alle fragili corde della giustizia e in tutta la città facevano a pezzi il cuore dei miei occhi, quando soffocarono con il fazzoletto nero della legge gli occhi infantili del mio amare e dalle tempie pulsanti della mia speranza sgorgavano fiotti di sangue, quando la mia vita ormai non era più nulla, nulla, se non il tic-tac di un orologio, capii che dovevo amare, amare, amare follemente. Mi basta una finestra. una finestra nell’ora dell’intesa, dello sguardo, del silenzio. Adesso l’albero di noci è talmente cresciuto

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che spiega alle sue giovani foglie la presenza del muro. Chiedi allo specchio il nome che ti salverà, la terra che freme sotto i tuoi passi non è più sola di te stessa? I profeti del nostro tempo hanno forse portato le scritture della rovina? Queste esplosioni continue, e le nuvole sporche sono forse l’annuncio di un canto sacro? Tu, amico, tu, fratello, tu che hai il mio stesso sangue quando arriverai sulla luna scrivi la storia della strage dei fiori. Sempre i sogni s’infrangono dall’alto e muoiono, io annuso il quadrifoglio che spunta sulla tomba di antichi sensi. La donna che divenne polvere nel sudario dell’attesa e del pudore, era forse la mia giovinezza? Salirò di nuovo, io, per le scale della curiosità per salutare il buon Dio che cammina sul tetto di casa? Sento che il tempo è trascorso sento che è un istante la mia parte tra le pagine di storia sento che il tavolo è il pretesto di una pausa tra i miei capelli e le mani di questo triste sconosciuto. Parla, parla con me esiste forse qualcuno che conceda a te il suo corpo caldo? E da te non desideri altro che sentire la vita che scorre? Parla, parla con me, salva, al riparo della mia finestra, sono amica del sole.

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Il mio uomo Il mio uomo con il suo corpo nudo e disinvolto come la morte s’innalza, sulle sue cosce vigorose. S’intrecciano le fibre delle sue membra nervose al disegno solido del suo corpo. Il mio uomo dai tempi andati dalle generazioni perdute sembra giunto. Un tartaro nel taglio dei suoi occhi in agguato dei viandanti, un barbaro nel guizzo splendente dei suoi denti incantato dal sangue caldo della preda. Il mio uomo come la natura, volge al senso ineluttabile di una comprensione chiara lui, con la mia disfatta conferma la legge inappellabile della forza. Terribilmente libero, simile a un istinto puro nel cuore di un’isola alla deriva. Della polvere delle strade lui si libera, con i resti della tenda di Majnun, antico Folle d’amore. Il mio uomo come un dio nei templi del Nepal da sempre un’esistenza da straniero. Lui, è un uomo dei secoli passati memoria d’una bellezza d’altri giorni. Risveglia intorno a sé continuamente come l’odore un bambino il volto di pure memorie.

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Lui come ballate di villaggio irrompe violento puro nudo. Sinceramente ama i grani della vita i grani della terra le tristezze degli uomini, le limpide tristezze. Sinceramente ama il sentiero verdeggiante di un villaggio un albero un coccio antico i panni stesi al sole. Il mio uomo è un essere semplice, un essere semplice che io dalla terra nefasta e volgare ho nascosto nei boschi dei miei seni, come ultimo segno d’incantevole religione.

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نم قوشعم

نم قوشعم

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نونجم �مخ ا� �راپ اب

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Un’altra nascita La mia intera vita è un canto oscuro che nel continuo ripeterti ti porterà all’alba di eterne crescite e fioriture. Ti sospiro, oh, e sospiro in questo canto in questo canto ti ho unito all’albero ti ho unito all’acqua ti ho unito al fuoco. Forse la vita è una lunga via attraversata ogni giorno da una donna con una cesta in mano forse la vita è una corda con cui un uomo si appende dal ramo di un albero forse la vita è un bambino che torna da scuola e… Forse la vita è una sigaretta accesa, nella languida pausa fra due amplessi o un passante che passa stupito e solleva il cappello e – Buongiorno! – dice, con un sorriso senza senso a un altro passante. La vita forse è quel momento serrato in cui il mio sguardo si annulla nelle pupille dei tuoi occhi, presentendo che mi mescolerò alla comprensione della luna, alla conquista del buio. In una stanza grande quanto una solitudine il mio cuore grande quanto un amore attende i pretesti semplici della sua felicità e il delicato appassire dei fiori nel vaso e l’alberello che hai piantato nel giardino di casa nostra e la voce del canarino che canta nello spazio di una finestra. Ecco, questa è la mia parte questa è la mia parte la mia parte è un cielo che una tenda scosta da me la mia parte è venir giù da gradini abbandonati e raggiungere una cosa appassita d’altri tempi la mia parte è una passeggiata malinconica nel giardino della memoria. E morire nella tristezza di una voce che mi dice – Amo, amo le tue mani –

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Seminerò le mie mani in giardino diverrò verde, lo so, lo so, lo so, e le rondini deporranno le uova nelle pieghe delle mie dita sporche d’inchiostro. Incollerò alle mie unghie due petali di dalia, e indosserò i due rossi orecchini di due rosse ciliege gemelle. E c’è una strada dove i ragazzi che mi amavano sono ancora lì con i loro capelli spettinati e i colli sottili e le gambe magre, pensano ancora al sorriso innocente di quella ragazza che una sera il vento portò via con sé. C’è una strada che il mio cuore ha rubato ai quartieri dell’infanzia. Il viaggio di una sagoma lungo la linea del tempo fecondare con una sagoma la sterile linea del tempo, la sagoma conscia di un’immagine che poi ritorna da una festa nello specchio. Ed è così che qualcuno muore e qualcuno resta. Nessun pescatore raccoglierà mai la perla dall’esile ruscello che sfocia in un fosso. Conosco una piccola triste fata che vive nell’oceano e suona il suo cuore in un flauto di legno, piano piano, piccola triste fata, che a notte muori con un bacio e all’alba, con un bacio, tornerai al mondo.

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La Rivolta di Dio Contro gli Angeli urlerei una notte, se Dio io fossi, ché nel crogiolo del buio la scagliassero la moneta del sole. E con collera ai servi del giardino del mondo, la foglia gialla della luna ordinerei di strappare dal ramo delle notti. Dalla corte dei miei Arcangeli e tra i suoi veli distruggerei l’intero mondo con la rabbia furiosa del mio pugno. Dopo millenni di silenzio le mie stanche mani sprofondare farebbero le montagne nelle bocche spalancate degli oceani. Scatenerei milioni di stelle sfavillanti, e del fuoco spargerei il sangue nelle vene silenziose delle foreste. Strapperei la cortina del fumo, perché inebriata danzi la ragazza del fuoco nell’abbraccio delle foreste e nell’urlo del vento. Soffierei nel flauto un notturno vento d’incanti, perché dal letto dei ruscelli serpenti assetati si levino, stanchi di strisciare per una vita intera sopra un umido petto, e crollino in mezzo alla palude oscura del cielo. Con grazia direi ai venti di far scorrere sui fiumi di febbre il profumo di rossi fiori come battello inebriato.

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Spalancherei le tombe ché migliaia di spiriti erranti ritornassero alle fortezze dei loro corpi. Contro gli Angeli urlerei una notte, se Dio io fossi, ché facessero ribollire l’acqua paradisiaca nella botte dell’inferno, e con fiamme ardenti tra le mani avvolgessero il lamento degli incorruttibili in più pure vesti e li cacciassero via dai pascoli celestiali. A mezzanotte, stanca della purezza divina nel letto di Satana, nel crollo di un nuovo errore cercherei riparo. Al prezzo della corona dorata del Signore dei Mondi sceglierei il piacere nero e doloroso di un peccaminoso abbraccio.

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Amorosamente Del tuo sogno è avvampata la notte greve il mio petto ormai colmo del tuo odore, sei disteso davanti agli occhi miei e questa gioia che mi doni supera ogni affranto, come una pioggia che lavi il corpo della terra nuovamente pura sono, dal fango del mondo. Ascolta, i palpiti del mio corpo in fiamme un fuoco all’ombra delle mie ciglia, ascolta, più traboccante dei campi di grano dei rami dorati più colmo di frutti, tu, porta aperta sui soli splendenti quando ci invadono le tenebre dei dubbi sono con te, e del dolore non resta paura, se non il dolore della mia gioia. Cuore mio serrato, cos’è questo corpo di luce? Cosa sono i richiami della vita dal fondo della fossa? Sono le mie valli i tuoi due occhi, arroventato il marchio dei tuoi occhi sugli occhi miei, sì, nessuno prima d’ora consideravo come te, anche se prima ancora ti avevo in me. E’ un nero dolore, del volere il dolore, andar via e poi umiliarsi senza senso, rivolgere i toraci al cuore più nero e sporcare il petto con la bile dei rancori, trovare nella carezza il morso del serpente o vedere il veleno nel sorriso degli amici. Posare l’oro sulle palme dei briganti e perdersi infine tra le piazze dei mercati. Ascolta, mescolato in fondo alla mia anima per sollevarmi poi dalla tomba mia, come stella, con le ali sfiorate dall’oro è arrivato il cielo dalla piana più lontana, per te la mia solitudine è presa dal silenzio e rappreso il mio corpo nell’odore dell’amplesso. Il tuo seme attende il ruscello in secca del mio petto, e il letto delle mie vene è per il tuo torrente, e così, freddi e neri in strada per il mondo i tuoi passi con i passi miei.

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Ascolta che ti nascondi sotto la mia pelle, e spumeggi come sangue sotto la mia pelle, bruciati i miei capelli dalle carezze e bruciate le mie guance da ogni desiderio. Ascolta che estraneo sei per la mia veste ma amico profondo dei campi verdi nel mio corpo. Ah, che sorgi luminoso senza tramonto sole ardente delle terre di mezzogiorno. Ascoltami, sì, più fresco del farsi giorno e più traboccante acqua d’ogni primavera. Ma questo non è più amore, su chi si avventa la disgrazia? E’ solo un guizzo nel silenzio e nell’oscuro. E quando ridesto si fece l’amore nel mio petto per l’invito, io, da testa a piedi profusione. Questa non sono più io, non sono io, e che pena di quella vita che con me ho trascorso. Ascolta le mie labbra, sono la stanza dei tuoi baci ed attendono stupiti i miei occhi sul sentiero dei tuoi baci. Ascolta io cosparsa di piacere sul mio corpo veste mia sono le linee del tuo petto, ah, come vorrei spaccarmi in due, e impastare per un respiro il dolore con la mia gioia, sì, io voglio levarmi in piedi e andar via, come nuvola versare lacrime a singhiozzi. Il mio cuore serrato come il fumo dell’aloe? E nella stanza della notte le corde d’arpa e cetra? Quest’aria vuota, dove poi spiccare il volo? E questa notte di silenzi e queste voci? Ah, il tuo sguardo così carico di magie una culla per i bambini senza casa, Ascolta brezza sonnolenta i tuoi sospiri mi han lavata dai fremiti dell’angoscia addormentati nel sorriso dei miei domani, e sprofondati nei fossati dei miei mondi. Ascolta mi ha mescolata al fervore dei versi, e hai versato nei miei versi tutto questo fuoco

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mi hai infiammata poi nella febbre d’amarti, e così con il fuoco, hai acceso il mio canto.

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Nota sulla traduzione “La ripetizione in altra lingua letteralmente è traduzione. Recupera con le funi, le corde, i fili del linguaggio, quello che era altrui e altrove, portando alla luce la voce dei morti, dei lontani, dei sommersi, dei dispersi.” (1) Chi è morto come Forugh, o lontano, sommerso, disperso, eppure elevato, capovolto, teso, luminoso, richiede al traduttore un assiduo e attento lavoro fatto di abbracci e rinunce. Faro è stata la frequentazione dei versi classici della letteratura persiana, pratica che può tuttora mostrare quali fuochi circondino ancora la parola d’Iran, che per essere rispettata necessita di un tradimento assiduo. La parola tràdita ritorna molte volte per dire sempre della differenza incolmabile tra quel testo e questo testo, come dire ancora i due lembi di quella e questa costa. In questa distanza mai ricolmabile completamente ogni verso della Farrokhzad promette una comprensione totale accanto a un fondo opaco, e nell’italiano si aprono varchi impossibili da recuperare. Il traduttore nel suo lavoro dispone di infinite letture, aggrappate a una torre di Babele piegata tra due lingue. Una possibilità è il silenzio, un’altra ancora è la nota che, come spina, rischiara, riconduce, afferma ciò che deve essere detto. La mancanza di un testo a fronte, dove le due lingue segretamente si toccano nel buio del libro chiuso, impone la condizione penosa della resa incondizionata. E’ un modo come un altro per cadere di spalle, e fidarsi, a patto che l’abbandono sia piacevole. Di abbandoni in questa traduzione ne abbiamo nascosti molti, come il gol-e sorkh di Forugh, che in persiano significa “rosa rossa” ma che in italiano abbiamo scelto di rendere più genericamente e letteralmente con “Fiore Rosso”. La “rosa” di laggiù (e soprattutto di ieri) non è la nostra “rosa”, e nella rosa rossa il Fiore Rosso cerca di dire che cosa resta delle zone d’ombra fra due lingue. Un secondo esempio, e la lista potrebbe continuare ad oltranza, è quel “primo giorno dell’inverno” che inaugura l’inizio di una Stagione Fredda. Il calendario persiano, solare, inizia il ventuno marzo, e i suoi mesi, dai nomi bellissimi, hanno quindi un corso sfasato rispetto al nostro calendario. L’espressione “il primo giorno dell’inverno” traduce “il primo giorno di Dey”, che corrisponde al nostro ventidue dicembre. Come rendere? Lasciare il mese persiano Dey in traduzione? Tradurre con un asettico e preciso “ventidue dicembre”? Aggiungere una nota alla traduzione nostra? Diverse sono le traduzioni di Forugh in lingue europee(2), mentre manca ancora una versione italiana esauriente, se non completa. Un primo e felice passo è stato fatto da Faezeh Mardani con la traduzione di undici delle più famose liriche della poetessa(3). Traduzioni particolarmente eleganti ed attente alla tensione dell’originale verso la musicalità. il cui stile è stato uno dei modelli di riferimento per il presente lavoro (4). I versi che proponiamo acquistano quindi il sapore di un invito a continuare a lavorare su Forugh per presentare al più presto al lettore italiano un’edizione completa dei cinque

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canzonieri. Con la speranza di restituire la bellezza originaria attraverso la pratica dell’attenzione filologica e del necessario tradimento che ogni riscrittura poetica comporta. Per questa via le liriche tradotte, chiedendo venia al lettore esperto, conterranno sempre qualcosa in più o qualcosa in meno dell’originale. E’ così che nell’edizione persiana di riferimento(5), sebbene si omettano in più punti baci, abbracci, fiori rossi e languide pause fra due amplessi, resta ancora la traccia di memoria di un testo che ha attraversato un colpo di stato, due rivoluzioni e pagine bruciate per raccontare ancora in altre forme, in voci altre, chi è questa persona che indossa in testa la ghirlanda d’amore / e che marcisce nel suo vestito di sposa. (D. I.) (1) Vita a fronte, Saggio su Paul Celan, Camilla Miglio, Quodlibet, Macerata, 2005, pg. 15. (2) Per l’inglese: Bride of Acacias, a cura di Jascha Kessler e Amin Banani, Modern Persian Literature Series, edito da Ehsan Yarshater, n. 5, Caravan Books Delmar, New York, 1982. Per il francese: La Conquête du jardin, poèmes 1951 – 1965, a cura di Jalal Alavinia, con introduzione di Christian Jambet, Lettres Persanes, Paris, 2005. (3) “E’ solo la voce che resta”, Poesia, Anno XVIII, n. 197, Crocetti Editore, Milano, 2005, pp. 34-44. (4) Da citare inoltre le traduzioni di Abbas Effati, E’ solo la voce che resta, Edizioni Thyrus, Arrone, 2002. (5) Divân-e Forugh-e Farrokhzâd, Ahurâ, Tehrân, 2005. Per la traduzione dei versi censurati sono state consultate le seguenti edizioni: Asir, Amir Kabir, Tehrân, 1963, Divâr, Amir Kabir, Tehrân, 1956, ‘E¡yân, Amir Kabir, Tehrân, 1958, Tavallodi Digar, Amir Kabir, Tehrân, 1963.

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Domenico Ingenito, nato a Castellammare di Stabia (Na) nel 1982, è attualmente iscritto al dottorato di ricerca in Turchia, Iran, Asia Centrale presso l’istituto universitario L’Orientale di Napoli. Si occupa principalmente di poesia persiana del periodo classico, letterature comparate, teoria e prassi della traduzione e rappresentazione fotografica. In Iran e in Portogallo si concentrano le sue principali passioni. (2010) [Domenico Ingenito (Vico Equense, 1982), poeta, fotografo e traduttore (da persiano, portoghese, catalano e spagnolo), insegna lingua e letteratura persiana presso l'Università di Oxford, dove risiede, e la Harvard Summer School in Studi Ottomani. Ha partecipato a numerosi eventi di poesia in Italia e all’Estero, ed è stato pubblicato nelle principali riviste letterarie italiane e nelle raccolte antologiche degli ultimi anni, tra cui La generazione entrante. Poeti nati negli anni ottanta (ed. M. Fantuzzi, G. Ladolfi Editore, 2011). Per camminare rapidi sulle acque (Ladolfi, 2012) è la sua prima opera in versi.]


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