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foto - INDA · 2019. 11. 23. · diverso il modo di esprimersi, e mi sembra che questo immaginario...

Date post: 10-Mar-2021
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foto Ecuba 2006. Il Coro (particolare). Foto C. Aviello. Archivio INDA
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Ecuba 2006. Il Coro (particolare). Foto C. Aviello. Archivio INDA

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Sull’esilio

Uno straniero, talvolta, percepisce il significato di alcune parole della nostra lin-

gua più di quanto noi stessi siamo in grado di fare.

Leggendo vari testi in lingua italiana sui profughi, mi ha colpito il fatto di aver trovato una

grande profusione di termini che indicano realtà molto simili, quasi ci fosse l’impossibilità

ad esprimere ciò che realmente accade. Ho raccolto dieci parole che hanno significati

vicini, talvolta sinonimi: profughi, rifugiati, fuggiaschi, sfollati, deportati, esiliati, emigrati,

espulsi, respinti, espatriati. E potrei aggiungerne ancora altre: per esempio, clandestini o

regolari.

Come è possibile passare dalla clandestinità alla legalità? Si tratta di una confusione do-

vuta all’incapacità di definire questo fenomeno che abbiamo dinanzi agli occhi? Oppure si

tratta di una sovrabbondanza di termini? Non saprei cosa rispondere.

Per affrontare il tema vi sono due tipi possibili di approccio: utilizzare testi letterari e legi-

slativi, con il pericolo che un atteggiamento eccessivamente didascalico e “storicizzante”

faccia perdere al discorso la sua attualità, o parlare dell’esilio partendo dall’esperienza

biografica personale. In questo caso, si incorre nel pericolo del biografismo, del narci-

sismo; ci si guarda allo specchio, uno strumento molto ingannevole, e questo impone

prudenza. Forse è possibile, ancorché difficile, coniugare i due metodi, individuare delle

griglie di lettura per avvicinare i due percorsi.

Si può parlare della migrazione anche partendo dalla storia o dalla fede. I libri sacri, che

leggiamo anche noi laici, contengono esperienze importantissime. Nell’Esodo, ad esem-

pio, (esodo ed esilio si differenziano solo perché l’esodo è un esilio collettivo) si legge:

«Non molesterai lo straniero, né l’opprimerai, perché, foste anche voi stranieri in terra

d’Egitto» (Dt. 10,14; 16,19). Gli italiani hanno conosciuto l’emigrazione più cospicua di tutti

gli altri paesi europei all’inizio del Novecento e molti di loro hanno subìto disagi enormi:

adesso che i nuovi migranti arrivano in Italia, sarà forse il caso che gli italiani si ricordino

della loro esperienza.

Nel Deuteronomio è scritto: «Ama il forestiero e dagli pane e vestito. Amate dunque il fore-

stiero perché anche voi foste forestieri nel paese d’Egitto». E ancora: «Quando raccogli la

messe nel campo e dimentichi un covone, non tornare a prenderlo, sarà per il forestiero,

per l’orfano, per la vedova affinché ti benedica il Signore tuo» (Dt. 24,19-22). Come si

vede, molti insegnamenti dei libri sacri riguardano l’esilio.

Vorrei accennare a una vecchia istituzione dimenticata che mi sembra una delle cose

più belle, più poetiche che esistano nella storia, nella letteratura e nella tradizione delle

migrazioni. Mi riferisco al Resh Golutha, una carica ebraica che designava una persona

di fiducia eletta dagli esiliati. Il termine in lingua ebraica significava “Capo (Resh) della

diaspora (Golutha)”; la parola veniva tradotta in greco e in latino con exilarkon, da cui

anche l’italiano esilarca. Certi scrittori francesi di origine ebraica, conoscitori del Talmud,

hanno escogitato una traduzione più moderna: “principe dell’esilio” (prince de l’exil). Molti

hanno tratto ispirazione dal Midrash Rabba che l’esilarca Rabbi Huna dedicò agli esiliati

Ecuba 2006. Il Coro (particolare). Foto C. Aviello. Archivio INDA

Predrag MatvejevićUniversità La Sapienza di Roma

I saggi

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e ai loro persecutori. La diaspora ebraica mantenne a lungo il ruolo del Resh Golutha e

ne rispettò le funzioni, ma purtroppo l’elisarcato si spense con Rabbi Ezechia. Non era

più possibile rinnovarlo. I pochi dati che sono riuscito a raccogliere mostrano che questi

dignitari si distinguevano soprattutto per la pazienza e in particolar modo per la sofferenza

che avevano interiorizzato: erano veri e propri “fari sul capo di buona speranza”, capitani

nelle isole dell’esilio. Il Mediterraneo può essere orgoglioso che una simile istituzione sia

nata sulle sue coste.

Nel discorso sulle migrazioni è sempre presente la consolazione, la nostalgia, la rasse-

gnazione, la desolazione, la protesta, la maledizione. Ma ciò che sembra forse più difficile

da sintetizzare ed esprimere è il contenuto interiore di colui che soffre da emigrato o da

esiliato. Il poeta francese Saint-John Perse, nel suo libro intitolato Esilio, lo descrive così:

«Questa grande cosa cupa e sorda per il mondo e che di colpo aumenta come un’ebbrez-

za». E aggiunge: «Nell’ora in cui le labili costellazioni cambiano il nome, per gli uomini di

esilio declinano sulle sabbie in cerca di un luogo puro».

Si potrebbe parlare di “attrezzi” dell’esilio. La zattera (spesso un relitto) è il primo strumen-

to, poi viene lo zaino o il fagotto. Lo zaino dell’emigrante contiene le cose più elementari:

indumenti di prima necessità, alcuni documenti indispensabili, foto di famiglia, a volte un

oggetto più personale, legato a un ricordo particolare. Sono rari quelli che fanno scivolare

da qualche parte un libro, a meno che non si tratti di un breviario per le preghiere o di un

manuale per apprendere la lingua del paese verso il quale sono diretti.

Molti migranti, provenienti non solo dai paesi poveri, sono partiti senza libri scritti nella

loro lingua d’origine, infatti possiamo distinguere l’emigrazione con libro dall’emigrazione

senza libro. Ad esempio, i primi emigranti italiani partivano solo con una piccola fotografia

e con un breviario. E oggi, viaggiando attraverso gli Stati Uniti, ci si accorge che alcuni di

loro sono diventati grandi scienziati, ingegneri o altro, ma tra loro, in relazione alla letteratu-

ra italiana, non si trovano nomi di grandi scrittori. Gli Italiani sono partiti senza libro.

L’emigrazione russa ha avuto tre premi Nobel per la letteratura e almeno un altro grandis-

simo scrittore: Bunin, Solgenitsin, Brodskij (che è sepolto a Venezia, città cui ha dedicato

pagine bellissime) e Nabokov, forse il più dotato fra tutti. L’emigrazione polacca, da parte

sua, ha avuto un Mickiewicz nell’Ottocento e un Gombrowicz nel Novecento.

Pongo ora una domanda: esistono degli emigrati felici? Io non ne ho mai conosciuti. Ma

ho conosciuto molte persone felici di emigrare. Ecco un paradosso dell’emigrazione. Ho

avuto occasione, nel corso di due giornate che mi hanno molto provato, di parlare con la

povera gente arrivata dal Kosovo sui gommoni. Erano tutti felici di essere riusciti a partire

e tuttavia già angosciati dal destino che li aspettava.

Gli emigrati che vivono qui, accanto a noi, sono simili a tutti gli altri sparsi nel mondo: sono

soli, esclusi o divisi. Il paese che li ha accolti non è la loro patria e quello che hanno lasciato

ha smesso di esserlo, salvo che nel ricordo. E talora essi vivono di questo ricordo.

Pochi emigranti della prima generazione imparano bene la lingua del paese che li ospita

e comunicano soltanto con un gruppo più o meno ristretto di connazionali. Cessano di

far parte della cultura anche più elementare da cui traggono origine e non riescono, se

non eccezionalmente, a integrarsi in quella del nuovo contesto. Così molti si chiudono,

rimangono tra di loro e si condannano a una subcultura. Gli operatori culturali dovrebbero

tenerne conto e fare in modo che questi circoli chiusi si aprano.

Talvolta gli emigranti scrivono. Il loro immaginario è molto interessante. Ho avuto l’occasio-

ne di curare la prefazione per un libro che raccoglieva testi di stranieri che cominciavano

a scrivere in italiano: la loro è una straordinaria irruzione, le loro metafore sono diverse,

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diverso il modo di esprimersi, e mi sembra che questo immaginario arricchisca quello della

letteratura italiana.

L’esilio ha un senso diverso nelle società sedentarie e in quelle nomadi.

I nomadi trasferiscono sempre i loro penati altrove, e per loro non si può effettivamente

parlare di esilio, se non volontario. Un nomade cambia luogo su questa terra senza pre-

occuparsi del suo domani. Si comprende come le mie simpatie vadano a questi uccelli

migratori.

Exilium vuol dire “fuori da questo luogo”, da “fuori” (foris) viene la parola “forestiero”. Esi-

liato, infatti, voleva dire anche espulso. Il termine “bandito” viene da bandire: nel sanscrito,

band vuol dire parola - una parola che esilia, espelle. Bandito designava una persona

condannata ad andarsene fuori, a migrare.

Qui possiamo suggerire la differenza fra esilio forzato da una parte ed esilio volontario

dall’altra; fra l’esilio senza speranza di ritorno e l’esilio con speranza di ritorno. Recente-

mente Kundera ha ricordato un fatto alquanto strano: tantissimi esiliati e dissidenti russi

non vogliono più tornare in patria. E quando tornano accade loro uno strano fenomeno.

Solzenitsyn, ad esempio, quando si pronunciava dall’esilio veniva ascoltato e tutti ripeteva-

no le sue parole come fossero quelle di un profeta. Al rientro nel suo paese, i suoi discorsi

venivano censurati dalla televisione e in pochi lo rispettavano. Si potrebbe sintetizzare un

simile fenomeno in questo modo: «La Galilea ha visto tanti profeti nel deserto: si accontenta

del deserto, non ha più bisogno dei profeti».

Kundera ha coniato la definizione di “esilio liberatore” per chi ha fatto la scelta di andar-

sene.

Un fenomeno nuovo nel nostro secolo è l’emigrazione interna, l’emigrazione di coloro che

non possono partire né esprimersi. È una forma di esilio molto dura, forse la più dura di

tutte. In questa situazione si esercita quello che nella tradizione russa è stato chiamato un

“silenzio eloquente”. Quando Pasternak taceva, quando Achmatova non pubblicava, signi-

ficava non accettare la farsa estetica (detta “lo zdanovismo”) imposta a una grandissima

letteratura come quella russa. E chi sapeva ascoltare il silenzio, sapeva che si trattava di

un “silenzio eloquente”.

Molti hanno vissuto questa emigrazione interna, spesso più dura dell’altra. Ci si deve muo-

vere tra i propri connazionali, ascoltare le parole della lingua madre senza potersi esprime-

re: anzi, si teme che gli scritti non ben nascosti possano essere scoperti, con conseguenze

nefaste. È un aspetto che va preso in considerazione quando si parla dell’esilio.

Un altro criterio, direi morale, per definire l’esilio esiste fin dai tempi più antichi e lo si trova

già in una metafora omerica: “è simile ad alcuni esuli senza onore”.

Essere esiliato con onore, essere esiliato senza onore è un’altra dicotomia, antichissima. È

doloroso essere a un tempo esiliati e disonorati senza potersi difendere. I regimi totalitari

praticano questo tipo di esilio: disonorano colui che se ne va – “è un traditore, ha venduto

il suo paese”. Potrei citare tantissime menzogne che in varie parti dell’ex Jugoslavia si pub-

blicavano a proposito di alcuni scrittori, me compreso, che avevano scelto di emigrare per

«Josip Brodskij, diceva che se c’è qualcosa di buono nell’esilio è che insegna l’umiltà. Per fare alcune cose, per scrivere alcuni libri, per perdere un po’ di arroganza, forse occorre aver vissuto l’esilio. Forse la peggiore delle vanità di chi accoglie il migrante è l’arroganza»

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non condividere la responsabilità dell’aggressione contro la Bosnia-Erzegovina o la città di

Vukovar, dell’assedio di Sarajevo, della distruzione del Vecchio ponte di Mostar, mia città

natale, dell’esodo dei Kosovari. E molta gente che era rimasta veniva punita doppiamente:

oltre alla condanna di vivere sotto il governo di un satrapo odiato dal popolo – come era

Milosevic – hanno dovuto subire anche la punizione dei suoi errori, con i bombardamenti.

Esiste una sintassi particolare, usata dai migranti. È caratterizzata da una specie di sdop-

piamento nel discorso, in cui si distingue fra “nostri” e “loro”, tra “noi”, venuti da “altrove” e

“loro”, che sono di “qui”. A questo corrisponde una singolare topografia: “qui” dove siamo

venuti, e “lì” da dove proveniamo. Si può aggiungere una analoga temporalità che taglia

anch’essa in due la biografia dei migranti, dividendo la vita “prima” della partenza da

quella “dopo” la partenza, “adesso” e “una volta” o “allora”. Anche questa è una frattura di

cui non ci si accorge facilmente.

La condizione del migrante è aggravata non solo dall’incomprensione esterna ma anche

dalle divisioni interne. I migranti si rivoltavano gli uni contro gli altri, al loro interno, senza

potersi realmente separare, creando così una situazione di ambiguità e ambivalenza di

grande tensione. Si tratta forse di una speciale escatologia.

Ciascuno di noi porta con sé un bagaglio di aneddoti e di storie dell’emigrazione, che ha

vissuto, che ha ascoltato, che ci ha accompagnato, e proprio da questo triste patrimonio

che si accumula indipendentemente dalla nostra volontà, possono scaturire esiti diversi.

Il cosiddetto diritto d’asilo si è rivelato un grande inganno. È stato proclamato solenne-

mente nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (1948) e sottoscritto, mezzo se-

colo fa, dalla grande maggioranza dei membri delle Nazioni Unite. Di quei membri solo

pochissimi hanno rispettato pienamente il patto e sono rare le situazioni in cui il contenuto

di questo diritto ha trovato il posto che merita in una cultura politica propriamente detta.

Il diritto d’asilo è un diritto assolutamente fittizio, non esiste in quanto tale, ma solo come

semplice pratica. La mancanza di una cultura politica adeguata riduce in generale la que-

stione dell’asilo e le pratiche che lo riguardano a banali procedure formali oppure a stru-

mentalizzazioni pragmatiche.

Non è raro il fatto che nelle democrazie europee più avanzate la materia divenga oggetto

di esami di routine, che badano molto più all’applicazione delle regole che alla valutazio-

ne dei fatti; e le strutture politico-amministrative incaricate di quelle pratiche si ritengono

spesso obbligate, in particolare quando si tratta di relazioni fra Stati, a consultare i rap-

presentanti del potere in carica, quando addirittura non danno seguito, in modo puro e

semplice, alle loro disposizioni. Da una parte si parla dell’autonomia totale della giustizia e

dall’altra si sottopone completamente la pratica del diritto d’asilo agli interessi dello Stato.

Su questo occorre meditare. Nella storia della cultura europea troviamo moltissimi riferi-

menti. Kant parlava di un diritto all’asilo che non si riducesse soltanto a filantropia, ma che

diventasse una morale. Hannah Arendt, un’ebrea che emigrò negli Stati Uniti, ha parlato

«Quando Pasternak taceva, quando Achmatova non pub-bl icava, signif icava non accettare la farsa estet ica impo-sta a una grandissima letteratura come quella russa. E chi sapeva ascoltare i l si lenzio, sapeva che si trattava di un si lenzio eloquente»

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proprio dell’asilo come di uno strumento di cui

lo stato si serve quando e quanto gli convie-

ne. Nella tradizione italiana c’è una specie di

timore del castigo che può ricadere sui propri

cari. C’è un esempio antico nella famosissima

ballata di Cavalcanti composta a Sarzana,

Perché io non spero di tornar giammai, in cui

si legge: «Per la mia disavventura / tu saresti

contesa, / tanto da lei ripresa / che mi sarebbe

angoscia». Dunque, “tu” saresti la vittima del

mio esilio.

Nietzsche, con il suo grande anticonformismo,

diceva: «Solo quando hai lasciato la città vedi

a che altezza le sue torri si innalzino sopra le

case». Dunque, andare in esilio volontaria-

mente è anche un’occasione per conoscere

l’altezza delle mura della propria casa.

Un altro suggerimento mi viene da un caro

amico defunto che ebbi l’occasione di difen-

dere quando fu esiliato, Josip Brodskij, il quale

diceva che se c’è qualcosa di buono nell’esilio

è che insegna l’umiltà. Per fare alcune cose,

per scrivere alcuni libri, per perdere un po’ di

arroganza, forse occorre aver vissuto l’esilio.

Forse la peggiore delle vanità di chi accoglie il

migrante è l’arroganza. Imparare l’umiltà infatti

può essere un grande insegnamento dell’esi-

lio e forse consente di riallacciarci alle citazio-

ni bibliche che ho fatto.

Il discorso sulla migrazione è a volte un di-

scorso di consolazione. Ci si consola para-

gonando il proprio destino a quello altrui. C’è

un testo di Plutarco, all’alba della storia, rivolto

alla moglie per la sua consolazione, che reci-

ta: «Molti erano esiliati. Aristotele era di Stagi-

ra, Teofrasto di Efeso, Stratone di Lampsaco,

Glicone della Troade, Aristone di Chio, Crito-

lao di Farselide e, nella scuola stoica, Zenone

era di Cisio, Creante di Asso, Crisippo di Sori,

Diogene di Babilonia, ...e tutti hanno dovuto

andarsene».

E aggiungeva: «Se non fossero partiti, forse

non avrebbero fatto quello che hanno fatto».

«Se non fossero par t i t i , forse non avrebbero fatto

quello che hanno fatto»

Edipo a Colono 1936. Archivio INDA


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