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FRANCESCA MAGNI - giunti.it · Dalla strada una fisarmonica manda a ripetizione le stesse note. È...

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FRANCESCA MAGNI

Il bambino che disegnava

paroleUn viaggio verso l’isola della dislessia

e una mappa per scoprirne i tesori

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© 2017 Giunti Editore S.p.A.Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – ItaliaPiazza Virgilio 4 – 20123 Milano – Italia

Prima edizione: settembre 2017

Questo libro è stato stampato con TestMeSans,un font open source per dislessici.

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Ai miei figli,Filippo e Costanza

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Senti, e lui come sta?Ora meglio. Ma è stata dura. Il peggio è stato affron-

tare il pregiudizio, il suo e poi quello degli altri. All’inizio diceva È come essere cresciuto credendo di essere uomo e scoprire di essere donna.

E voi? Sensi di colpa, rabbia, immagino...Un gran senso di stupidità. Ma ogni storia è come una

strada, deve seguire il suo percorso.E com’è arrivata esattamente? La scoperta, intendo.È bastato raccontare la storia di Teo. La sua storia dall’inizio.

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Caos

Ti svegli la mattina che stai bene, e poi a un tratto pensi: “C’è qualcosa che non va.Qualcosa è fuori posto da qualche parte”.

E poi ti ricordi che è tuo figlio, quello triste.[Anne Tyler, Una spola di filo blu]

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1.

Sono le sette e un quarto, hai spento la sveglia quattro volte, ti tiri su con la solita fatica e corri nelle camere dei ra-gazzi. Ludovica si veste cincischiando, detesta la colazione e divaga perché non resti il tempo per farla; dalla cucina tuo marito la chiama a intervalli regolari, lei lo ignora. Per Teo la colazione è sul tavolo, la solita tazza di latte e cereali, ma lui è sordo a ogni richiamo e tuo marito sembra avere rinunciato.

Perché non l’hai fatto alzare?, urli, come se non fossi tu sempre l’ultima a tornare nel mondo dei vivi.

Saluti Ludovica e ti precipiti nella stanza di suo fratello, Sveglia, sveglia, sveglia! Accendi la luce, Sono le sette e venti, gridi; con Teo e con suo padre porti sempre l’orologio un po’ avanti.

Teo è nel letto, seduto a gambe incrociate, il busto ripie-gato sulle cosce, le braccia sono infilate dentro la federa del cuscino, sul quale posa la testa. Ha dodici anni e ogni mattina bisogna srotolarlo.

Sbrigati, è tardi.Sono malato.Alzati subito, dici raccogliendo i vestiti sparsi per terra. Lui

ne approfitta per girarsi su un fianco, le braccia sempre dentro il cuscino che ora è serrato fra le gambe. Lo tiri di nuovo ma lui è più forte, Alzati, non mi fare arrabbiare, lui ti ignora mentre

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Il bambino che disegnava parole

spalanchi la finestra e l’aria di dicembre si pianta come una lama nel tepore della stanza.

Perché non l’hai svegliato?, urli a tuo marito che al piano di sotto fa colazione davanti al telegiornale.

Ludovica si affaccia alla porta, Cos’ha Teo? chiede guar-dando il fratello ancora annidato nel materasso. Sono le sette e trenta.

Niente, niente, rispondi senza smettere di piegare vestiti. Le lanci un’occhiata, indossa una t-shirt con scritto I’m here for the cake.

Metti almeno una felpa, dici irritata. Lei ti risponde con una smorfia, una di quelle da sit-com ti-

piche delle undicenni di oggi, e si volta sventolando una lunga coda.

Grazie del buongiorno, dice sarcastica e sparisce giù dalle scale.

Adesso basta, Teo, alzati.Sto male, fa lui arrochendo la voce.Lo tocchi, Non hai la febbre, Teo, alzati, hai già saltato

scuola la settimana scorsa. Lui si arrotola nel piumone con la testa sotto. La sua osti-

nazione ti sfibra, ti lasci cadere sul letto, i gomiti sulle gi-nocchia, affondi la faccia nelle mani e per un attimo chiudi gli occhi.

Teo si finge morto. Riapri gli occhi, sono le sette e trentacinque: per terra c’è

un bastoncino scuro, lo raccogli, è il refill di una biro. Estratto dalla penna e piegato in due.

Dalla strada una fisarmonica manda a ripetizione le stesse note. È venerdì, giorno di mercato e di mendicanti, l’uomo

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1. Caos

della fisarmonica è sempre il primo ad arrivare, la sua musica si mescola al vociare degli ambulanti che allestiscono i loro banchi. Raccogli il refill e lo getti sulla scrivania in mezzo a quaderni spiegazzati, libri senza più la copertina, matite spezzate, molle estratte dalle penne a scatto, un mozzicone di gomma; le gambe di un compasso rotto sembrano ossa di pollo rosicchiate e lasciate sul piatto.

Metti da parte un mucchietto di macerie, senti oscuramen-te che è meglio tenerle. Sopra una pila di fogli accartocciati c’è la foto di scuola dell’anno scorso. Lo vedi solo adesso, la sua faccia è un graffito inciso con qualcosa di duro e appun-tito. La rabbia per la sua furia distruttrice ora prende la forma di un dolore. Guardi la foto. Seconda fila, terzo da sinistra, i compagni sorridono con quelle facce non ancora grandi e non più bambine. Teo la faccia non ce l’ha più, però indossa una camicia bianca, è il look delle medie, Se vuoi imparo a stira-re, ti aveva detto e tu avevi sorriso. Ti piace, con la camicia, ha un’aria da lord coerente con la sua natura. Guardi il viso grattato via dalla foto, guardi lui aggrappato al cuscino e ti chiedi Sarà normale?

Scendi le scale a cercare tuo marito, Non vedi che Teo non si alza?, gli urli. La tua ansia non lo smuove, sembra un cieco che non si accorge di essere davanti a un incendio.

E io cosa posso fare?Come cosa puoi fare? Sei suo padre, tiralo giù dal letto. Non reagisce, è in pigiama, in una mano un biscotto man-

giato a metà. Non può saltare scuola di continuo.Lui tace. Sai cosa sta pensando. Quand’era in seconda me-

dia come Teo, scaldava il termometro con una lampadina.

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Il bambino che disegnava parole

Siamo disposti a non farci domande di fronte a un dolore che ci ricorda il nostro. O forse ha deciso di lasciarlo decidere da solo.

Ha dodici anni, gli dici in risposta a un’obiezione che non ha fatto.

Mmmh, fa lui senza chiarire, mentre continua a bere il caffè e a guardare il telegiornale.

Arriva Ludovica, si siede sulla scala ad allacciare le scarpe, quelle di tela da ginnastica, ha i calzini corti, dai pantaloni spunta la caviglia nuda; si carica sulle spalle lo zaino enorme, con una torsione del braccio sfila la coda di capelli rimasta impigliata nelle cinghie.

Io vado, dice e spalanca la porta che dà sulla strada; le amiche sono già sul marciapiede di fronte, si soffiano sulle mani per scaldarle.

Aspetta, dici tu, Se vuoi ti accompagno in macchina.Sei ancora in pigiama, lei ti guarda vagamente divertita.Devo portare anche Teo, aggiungi, e ogni barlume nei suoi

occhi si spegne. Esce senza una parola e si tira la porta alle spalle. Sette e cinquanta, ti sembra di avere un mattone nella

pancia, ti chiedi come affronterai il resto della giornata. Tuo marito lava la tazza della sua colazione, quella di Teo è ancora piena, sul tavolo. Sali da lui ancora una volta.

Dai, ti porto a scuola in macchina alla seconda ora. Finalmente si convince, non sai se per la premura di ac-

compagnarlo o perché ha evitato la prima ora. Devi ricordarti di controllare che materia avesse. Lo osservi mentre si alza, le spalle ricurve, sembra trasporti uno zaino da montagna, si veste con lentezza esasperante, gli porgi le calze, i panta-

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1. Caos

loni, come quando era piccolo, gli accarezzi i capelli, Dai, dici sottovoce, lui si lascia allacciare la camicia e scende a fare colazione. Ha il cappuccio della felpa tirato in testa, mette in bocca il cucchiaio a occhi semichiusi. Quando deglutisce fa un verso simile a un lattante.

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2.

Alla fine sei riuscita a portarlo a scuola. Lasciami all’angolo, ti dice. Lo saluti con una carezza. Buona giornata.Lui ti guarda da sotto il cappuccio come se avessi detto la

cosa più stupida del mondo. Sbatte la portiera e si incammina trascinando il trolley. Per lo meno, a differenza di sua sorella, non si porta quel peso sulle spalle.

Aspetti di vederlo sparire nel portone, devi andare in se-greteria, serve un nuovo libretto delle assenze. Parcheggi con le doppie frecce su un passo carraio, estrai un fogliet-to e una biro dal cruscotto e compi il gesto di tuo padre, scarabocchi una frase di scuse. Lui una volta aveva scritto “Se intralca suonte il clacson”, esattamente così, con gli errori; avevate riso per anni, quel cartello era rimasto lì, nel cassetto dell’auto pronto all’uso. Sorridi, poi entri a scuola correndo.

Ah signora, proprio lei!, senti una voce che ti chiama, guar-di in alto, la professoressa d’inglese si sporge dalla scala e sventola una mano per fermarti.

Mi deve spiegare cosa succede di notte a casa vostra, ti dice senza aspettare di averti raggiunta.

Niente, cosa dovrebbe succedere?, rispondi vergognandoti della voce tremante.

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1. Caos

Suo figlio arriva in classe e dorme, si appoggia al calorifero e dorme. Le prime ore. Poi si sveglia e non sta più fermo.

In che senso?, chiedi. Si agita, dondola, fa vibrare le gambe, cade dalla sedia.

Sospira, scarabocchia, strappa fogli, chiede di uscire, sembra sempre sul punto di esplodere.

La professoressa accompagna ogni punto della lista con gesti eloquenti, conclude mimando una deflagrazione con i pugni chiusi. La ascolti come se parlasse del figlio di un’altra.

Spezza le matite?, domandi alla fine.Lei ti guarda perplessa. Sì, anche.

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Il bambino che disegnava parole

Foglio protocollo a quadretti, completamente bianco:

Teo C. 1a A21-5-2014VERIFICA DI GEOMETRIA

In rosso la professoressa ha scritto:

COMPLIMENTI! ORA CHE VOTO TI MERITI?

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3.

Quand’eri bambina tuo padre aggiustava ogni cosa. Vali-gie, elettrodomestici, radio, giocattoli, nulla sfuggiva alla sua ansia di riparazione. Un giorno l’hai visto trafficare con una lavastoviglie di vent’anni, gli hai chiesto perché non si deci-desse a cambiarla, ti ha risposto Bisognerà pur combattere con la morte.

Sei cresciuta pensando che custodire gli oggetti fosse una specie di liturgia della vita. Aggiustare era una certezza di con-solazione. L’altra faccia di quel modo di stare nel mondo erano le paure.

Quando erano piccoli e li lasciavate dai nonni materni, i vostri bambini non capivano tutti quei no. Non dondolarti sulla sedia, che la rompi. Non tirare le frange del cuscino, che le rompi. Non calcare con la matita, che rompi la punta. Loro guardavano con occhi interrogativi il nonno e la nonna, e poi guardavano voi, Perché dicono che ogni cosa si rompe?

Quando tornavano da un fine settimana a casa dei nonni, tuo marito canticchiava sempre Il bambino di gesso di Sergio Endrigo.

Era la pedagogia degli anni Settanta, diceva. Ti immagini la mia infanzia, aggiungevi tu. Eravate contenti che i vostri figli saltassero sul divano e si

arrampicassero dappertutto, li volevate liberi. A dire il vero,

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Il bambino che disegnava parole

quando non si mortificavano per aver rotto qualcosa, tu re-stavi un po’ scossa, ma ti convincevi che fosse meglio così.

Poi un giorno, in uno di quegli eterni viaggi sull’Autosole di ritorno dal mare, incastrati tra i bagagli che invadevano l’abi-tacolo, Teo aveva incominciato a giocherellare con la maniglia di una borsa. La contorceva per farle assumere forme che evocassero qualcosa, forse gli animali che allora popolavano ogni sua fantasia. A furia di piegare e distorcere, la maniglia si era rotta e tu eri impazzita.

Non è grave, aveva detto tuo marito, infastidito dalle tue urla. Se pensiamo che non sia grave vuol dire che niente di quel-

lo che abbiamo ha valore, che non ne abbiamo nemmeno noi. Era diventata una questione esistenziale. Teo piangeva

annientato. Era una delle prime ditate che lasciavi sulla sua innocenza.

C’era stata poi la volta delle infradito viola. Teo te ne aveva calpestata una mentre muovevi il passo, e si era spezzata. Ti eri trovata a piedi scalzi. Avresti potuto ridere, invece ne avevi fatto un caso: a sette anni Teo ancora non sapeva muoversi senza finire addosso a qualcuno. Avevi urlato a lungo.

Tuo marito taceva e tu pensavi Fermami, fermami, ma lui non lo aveva fatto. Non sapevi se fosse d’accordo con il rim-provero o se preferisse, una volta svanita l’ira, che fosse il senso di colpa a punirti. Gli errori dell’altro ci fanno credere migliori, ai figli in quei momenti non si pensa.

Eppure sono episodi insignificanti come questi a mutare per sempre il corso delle cose, la forma dei caratteri. Teo ave-va iniziato a reagire con angoscia ogni volta che qualcosa si rompeva. D’altra parte ora sapeva come ferirti. Deve essere allora che ha iniziato a fare a pezzi gli oggetti, di nascosto.

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1. Caos

Ricordi la bambola eschimese?, ti chiede tuo marito una sera vedendoti togliere mozziconi di penne dalla cartella di Teo.

Come potrei dimenticare. Il mistero della bambola eschi-mese, dici con enfasi.

Io so come è andata.

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4.

E da quando lo sai? Da tanto, risponde con tono dispettoso. La bambola eschimese l’aveva portata dall’Alaska tuo

nonno, che navigava sulle petroliere. Avevi poco più di un anno quando è morto, tutto quello che ti resta di lui è qualche racconto mitico, una foto sbiadita scattata sul ponte di una nave, e i regali che ti comprava quando sbarcava nei porti. Un kimono, un paio di ciabatte indiane con la punta all’insù, un pigiama di seta cinese, e la bambola eschimese. La tenevi su un ripiano alto della libreria, grande una spanna, il viso paffuto e scuro era incorniciato da un cappuccio di pelliccia, il corpo avvolto in un cappotto marrone. Aveva un braccio rotto, lo teneva infilato nella manica.

I tuoi figli impazzivano per quella bambola piccola e ar-ruffata dagli occhi strabici. Avevano il permesso di giocarci solo in compagnia degli adulti e con attenzione a non perdere il braccio.

Una sera a cena era venuta, non sai più a chi, l’idea di metterla in palio per una gara di verbi. Teo non li imparava. Indicativo, passato remoto, trapassato, parole senza senso. Glieli scrivevi e riscrivevi, niente, non restavano attaccati. Un giorno ti aveva spiegato che lui distingueva tra il passato e... Be’, io lo chiamo l’arrivato.

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1. Caos

Ormai anche sua sorella, che è una classe indietro rispetto a lui, aveva iniziato a studiare i verbi, così avevate scatenato la competizione.

Chi ne dice giusti tre di seguito può giocare con la bam-bola eschimese. Pronti? Allora cos’è “noi eravamo scap-pati”?

Aveva vinto lei, lingua veloce. Quando erano piccolissimi, il papà suonava al pianoforte le canzoni dei cartoni animati e la gara era a chi le riconosceva per primo. Finiva in rissa, il più delle volte. Come questa.

Teo era così disperato, ricordi? Ci sembrava assurdo che gli importasse tanto della bambola eschimese.

Già. E il giorno dopo l’ho rimessa sulla libreria e mi sono accorta che non aveva più il braccio, dici tu. L’ho cercato per giorni, anni. Quando abbiamo traslocato ero convinta che l’avrei ritrovato, invece niente.

Era stato lui a farlo sparire, dice tuo marito.Sgrani gli occhi.Ho trovato il braccio nel suo astuccio alcuni giorni dopo,

mentre cercavo una matita.Non ci credo! E cosa ne hai fatto?L’ho conservato, è in un cassetto.L’hai tenuto tutti questi anni? Perché non me l’hai mai det-

to?, esclami sbalordita.Perché non avresti capito. Avresti pensato che Teo volesse

farti una cattiveria.E invece?L’ha messo nell’astuccio perché tu lo trovassi.Voleva essere sgridato, dici guardando un punto impre-

cisato a mezz’aria.

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Il bambino che disegnava parole

Credo di sì.Ti senti piccola e sciocca. Ora mi dai quel braccio? Voglio rimetterlo a posto.

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5.

L’hai capito tardi. Non erano i compagni scalmanati a man-giare le matite, a distruggere le penne. Ogni settimana, dalla prima elementare alla quinta, riempivi da capo l’astuccio. Suo padre si arrabbiava per quello spreco, tu un po’ sgridavi Teo, un po’ gli rimettevi le matite nuove di nascosto. Pensavi È svagato, non fa apposta. I suoi pensieri sono impegnati in altre fantasie.

La sera prima di dormire ti diceva Apriamo il negozio delle domande, voleva sapere cose che tu non sapevi, Il virus è più grande o più piccolo della coda di una pulce? Come fanno gli uccelli a volare se c’è la forza di gravità? Perché i numeri sono infiniti? Perché l’orizzonte è diritto se il mare è a onde?

Chissà se i gomiti del maglione tagliati con le forbici in terza elementare erano davvero colpa dei compagni. È un pensiero ormai senza importanza e ti attraversa la mente all’improvviso, anni dopo, durante il colloquio con il profes-sore di lettere di prima media.

Teo è un ragazzo intelligente, dice, ma non si impegna. Eh, lo so, mormori fissandogli i piedi; indossa un paio di

vecchie Clarks.Non affronta la realtà, continua il professore.Vive in un mondo tutto suo, provi a spiegare.Lo studio è concentrazione, impegno, tempo speso sui

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Il bambino che disegnava parole

libri. Lui conosce tante cose, ha pensieri profondi, sa ragio-nare. Ma deve capire che non ci sono scorciatoie.

Non capiamo neanche noi, in casa si è sempre data im-portanza allo studio.

In classe è agitato, in ansia. Ogni tanto ha scatti di rabbia. Il professore parla scrutandoti, ti senti come se ti stesse

facendo un’endoscopia.Sulla trentina, barba e viso tondo, è il più amato dai geni-

tori, uno che ha insegnato al liceo e che in prima media dà da leggere Bulgakov. I ragazzi lo venerano perché ha un gruppo di rock alternativo. Ha cantato alcune canzoni in classe, loro lo seguono su YouTube. Teo lo trova mitico per via del rock, però lo odia con ferocia.

Il colloquio dura un’ora, su due sedie di scuola a ridosso di un termosifone; il professore cantante indossa pantaloni di velluto e una sciarpa scozzese, appoggia un braccio al calo-rifero e si tiene la testa con la mano in una postura confiden-ziale. Capisci che ha un profondo interesse per tuo figlio, ma senti che da qualche parte qualcosa è fuori posto. Uscendo controlli se per caso hai indossato il maglione a rovescio.

Pensa che Teo sia capace ma che non studi abbastanza, sintetizzi al telefono a tuo marito.

Lui tace. Ti sembra di vederlo, con gli occhi stretti in un pensiero che punge. È deluso. Ci sono cose che, chissà per-ché, non si mettono in conto. La malattia, per esempio, o l’insuccesso scolastico di un figlio intelligente.

Dai, stasera a tavola ne parliamo con calma.

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La sera c’è minestrone per cena e basta questo ad agita-re gli animi. Ludovica protesta con energia, dice Che schi-fo, e voi fate uno sforzo perché non finisca subito male. Anche Teo, che odia ogni cibo vegetale ma ha imparato a scansarlo con la diplomazia più che con la guerra, stasera non media.

Siete la peggiore famiglia di tutte, dichiara. Nessuno dei miei compagni ha mai mangiato minestrone in vita sua.

Figurati, dite voi.Invece è vero. Per voi è importante solo mangiare verdura

e studiare. Siete dei genitori terribili. Terribili. La sua erre è un frullo d’aria nello spazio della consonante

che non ha mai imparato a pronunciare. Sua sorella appro-fitta e alza la posta, Io non lo mangio!, e spinge via il piatto con una manata che rovescia il minestrone sulla tovaglia. Tuo marito diventa una furia, tutto succede in fretta ma lo vedi al rallentatore, lui che si sfila una ciabatta e la sventola verso le gambe di Ludovica. È da quando erano piccoli che lo prendete in giro perché agita la ciabatta e grida Ush ush, ma stavolta non è un gioco.

Siete arrabbiati perché Teo va male a scuola e allora pic-chiate me e mi costringete a mangiare una cosa che fa schifo!, grida lei.

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Il bambino che disegnava parole

Ora la ciabatta arriva a segno, Ludovica lancia il cucchiaio e scappa di sopra, Io non mangio più.

Sbatte la porta. Teo è chino sul piatto e rimescola all’infinito. Ludovica scendi, lo dico una volta sola, poi ti metto in pu-

nizione, urli stancamente, affacciandoti sulle scale. Il suo no fa tremare i vetri.

Tuo marito dice Lascia perdere. Piuttosto parliamo di cose serie. Il signorino qui sa che sei stata dal suo professore di lettere?, e ti guarda negli occhi mentre agita il pollice all’in-dietro verso Teo.

Dai, non è il momento, ribatti tu fra i denti.E qual è il momento allora? Lo sa il signorino che alle medie

si deve studiare? Che deve assumersi la responsabilità dei suoi impegni? O aspetta che la mammina lo tiri fuori dai guai?

Cosa c’entra ora la mammina?, dici stizzita.C’entra eccome. Se tu non fossi sempre lì ad aiutarlo do-

vrebbe decidersi a fare da solo. E in che cosa lo aiuterei?In tutto. Chiami le altre mamme per sapere i compiti.Ma se lui non li segna.Sono fatti suoi. Devi disinteressarti. Invece tu gli fai da balia. Ma è per insegnargli un metodo.Bel metodo, il metodo del bamboccione.Smettila, sai che non è così. Alle elementari non ha impara-

to a organizzarsi, è giusto dargli una mano, almeno all’inizio.Ma tu non gli dai una mano, tu lo rimbambisci perché ti

piace fare la mammina.Il tono di sfottò è quello che ha scatenato le vostre liti più

violente. Adesso urlate entrambi.

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1. Caos

Ma quale mammina e mammina, sei solo geloso. E dicia-mola tutta: tu non vuoi fare fatica.

È lui che deve stu-dia-re, è chiaro sì o no?Lo dice sillabando in faccia a Teo, che ha gli occhi incollati

al piatto e fa smorfie per mandar giù il minestrone. Fatica bisogna fare, fa-ti-ca. Capito, signorino?Teo ingoia l’ultimo cucchiaio, mette il piatto in lavastovi-

glie, sale le scale e va a rinchiudersi in camera.Bravo, bravo, vattene senza dire niente, gli urla il papà.Complimenti, bella cena, dici acida.Sparecchiate sbattendo i piatti.Comunque è colpa delle elementari. Non l’hanno prepa-

rato ad affrontare le medie. Provi a tornare sull’argomento con più calma.

È sempre colpa di qualcuno e mai sua. Se continui a difen-derlo diventerà un rammollito.

E tu non fai che aggredirlo, non ti accorgi che ti teme? Che quando ha un problema non viene mai da te? Che si sente giudicato?

Ma fammi il piacere, io ho un ottimo rapporto con lui. Tu non capisci niente di lui.Tanto capisci tutto tu. Ha avuto delle elementari difficili, lo sai.Non studiava neanche allora. Prendeva dieci perché era il

meno peggio della classe e pensava che sarebbe stato sem-pre così, ecco com’è la storia.

Molli il colpo, l’hai pensato anche tu, qualche volta. Come sia andata per Teo, alle elementari, continua a non essere chiaro. Ti porti il dubbio in camera. Anche questa serata la trascorrete rintanati in quattro angoli della casa.


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