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Free Student Box. Counselling psicologico per studenti, genitori e docenti

Date post: 13-Mar-2016
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Il contributo di G. Pietropolli Charmet - Free Student Box è un insieme di sportelli di counselling psicologico rivolti agli studenti delle scuole medie superiori di Reggio Emilia, ai loro genitori e ai loro proff. Un insieme di sportelli gratuiti dell’Ausl di Reggio Emilia che fa da front office, rispetto ai tradizionali servizi del DSM, e in special modo al Servizio di Psicologia Clinica. Una nuova rete che si aggiunge e complica un tessuto già riccamente innervato e che, oltre agli psicologi, vede impegnati presidi, proff referenti e giovani studenti peer counsellor.
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Ricerche e Contributi in Psicologia

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Leonardo Angelini, Deliana Bertani(a cura di)

FREE STUDENT BOXCOUNSELLING PSICOLOGICO PER

STUDENTI, GENITORI E DOCENTI

scritti diLeonardo Angelini, Massimiliano Anzivino, Deliana Bertani, Silvia Borghi, Monica Gibertini, Alberto Grazioli, Iris Guaz-zetti, Linda Marchi, Adil El Marouakhi, Patrizia Montanari, Luana Pensieri, Claudio Renzetti, Silvia Sai, Marco Zambelli

Con un contributo di:

Gustavo Pietropolli Charmet

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Prima Edizione: 2009

ISBN 9788889845226

© 2009 Edizioni Psiconline - Francavilla al MarePsiconline® Srl66023 Francavilla al Mare (CH) - Via Nazionale Adriatica 7/ATel. 085 817699 - Fax 085 9432764Sito web: www.edizioni-psiconline.ite-mail: [email protected]

Psiconline - psicologia e psicologi in retesito web: www.psiconline.itemail: [email protected]

I diritti di riproduzione, memorizzazione elettronica e pubblicazione con qual-siasi mezzo analogico o digitale (comprese le copie fotostatiche e l’inserimento in banche dati) e i diritti di traduzione e di adattamento totale o parziale sono riservati per tutti i paesi.

Finito di stampare nel mese di marzo 2009 in Italia da SUPEMA srl - Gruppo Poligrafico Editoriale - Albano Laziale (RM) per conto di Edizioni Psiconline® (Settore Editoriale di Psiconline® Srl)

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Presentazione, Mariella MartiniIntroduzione, Luigi D’Elia

I servizi, gli sportelli e le retiChe cos’è Free Student BoxLeonardo Angelini, Deliana BertaniFree Student Box e gli altri “prodotti” del gruppo di volontariato giovanile “Gancio Originale” all’interno delle attività del Servizio di Psicologia Clinica dell’Ausl di Reggio EmiliaDeliana BertaniPer un counselling rivolto agli educatori di adolescenti “che non vedrò”Leonardo AngeliniL’assetto clinico di Free Student BoxLeonardo Angelini, Deliana Bertani I giovani migranti, le loro famiglie e Free Student BoxLeonardo Angelini, Adil El Marouakhi La scuola reggiana e Free Student BoxMarco ZambelliLa rete poliprofessionale e le reti interistituzionaliLeonardo Angelini, Deliana Bertani

I peer e il tema dell’accompagnamentoIl mestiere del giovane volontario: offrire relazioni, offrire sestessoGustavo Pietropolli CharmetPeer education, peer support, peer counselling, peer tutoringClaudio Renzetti Peer counselling, tutoring e accompagnamentoLeonardo AngeliniGiovani migranti e giovani migranti peer a scuolaAdil El MarouakhiI giovani peer di origine straniera: risorse e criticitàSilvia M. Sai

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INDICE

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Psicologi a scuolaFree Student Box: prime idee, realizzazione, sviluppoMassimiliano Anzivino“Chi ha bisogno di chi”: il rapporto iniziale con le scuoleMassimiliano Anzivino, Linda MarchiI proff referenti e Free Student BoxMassimiliano Anzivino, Alberto GrazioliI peer counsellorMassimiliano Anzivino, Patrizia Montanari, Luana PensieriL’attività di counselling individuale: come accedervi, come funzionaAlberto Grazioli, Luana PensieriI migranti agli sportelli di FreeSilvia Borghi, Patrizia MontanariFree Student Box: attivare interventi di sistemaMassimiliano Anzivino, Alberto GrazioliLe scuole di periferia e Free Student BoxAlberto Grazioli, Iris Guazzetti e Linda MarchiGli invii al back offi ce dei servizi sociosanitariSilvia Borghi, Linda Marchi www.freestudentbox.it - Il nostro sito web: a che serve, come funzionaLeonardo Angelini, Monica GibertiniGli spazi per la rifl essione: il lavoro d’équipe e la supervisioneLeonardo Angelini, Deliana Bertani

La nostra cassetta degli attrezziLa nostra cassetta degli attrezziMassimiliano Anzivino, Luana Pensieri

Sitografi a

Allegati

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IL MESTIERE DEL GIOVANE VOLONTARIO: OFFRIRE RELAZIONI, OFFRIRE SE STESSO45

Gustavo Pietropolli Charmet

Cercherò di dire qualcosa relativamente a questo tema - che è quello che trovate nella locandina: “analisi della propensione alla cura dei gio-vani: fattori che la favoriscono e fattori che la inibiscono”- ma preferisco trattare soprattutto la prima parte del tema che mi è stato assegnato: e cioè vorrei provare a chiedermi se i modelli educativi, i percorsi di crescita, i contesti evolutivi in cui crescono i ragazzi, contribuiscono ad armare loro le mani di coltelli o di kalashnikov o no; se creiamo cioè dei guerrieri, dei mostri, oppure se creiamo dei volontari.

E siccome presumo che modelli, percorsi e contesti evolutivi favo-riscano la crescita sia degli uni che degli altri, penso che sia opportuno provare a mettere in luce gli elementi specifi ci, sui quali possiamo concor-dare, che possono contribuire a creare dei volontari, cioè dei giovani pro-pensi a prendersi cura di sé e dell’altro. Giovani che sentano che diventare volontari può diventare un modo di esprimersi, un modo di realizzarsi, un modo di esercitare un’azione trasformativa su sé e sul mondo, un modo per prendere la parola, ed intonare un proprio canto: quello di offrire rela-zioni, e cioè non offrire professionalità o competenza, ma offrire relazioni, offrire affetti: in sostanza offrire se stessi e la propria giovinezza.

Abbiamo motivi per ritenere che nell’ecosistema di crescita e di vita dei ragazzi ci siano dei fattori che favoriscano lo sviluppo di questa voca-zione e di questa propensione? Costruiamo volontari o soldati?

Per rispondere a queste domande proviamo a passare in rassegna gli elementi che costituiscono e che strutturano una relazione educativa, il contesto educativo, la politica, il modello, eccetera e ad individuare quegli elementi che paiono essere indiziati come atti a favorire lo sviluppo della tendenza a prendersi cura.

45 Relazione tenuta al Convegno “Un Gancio .. tanti ganci”, organizzato dall’Ausl, Reggio Emilia, 28.11.01

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Prendersi cura è una metafora semplice che però sottintende l’esisten-za di una costellazione di elementi, quali “responsabilità”, “identifi cazio-ne”, “riparazione”, “relazione”. Per cui dobbiamo chiederci se la scuola, la famiglia, e quell’altra grande organizzazione educativa che è il gruppo di coetanei sono propensi a sviluppare questa attitudine, oppure se favori-scono l’egoismo, l’appropriazione, la prevaricazione, l’organizzazione di bande, etc., etc.

Proviamo a vedere prima di tutto la famiglia, per capire bene se in essa costruiamo dei “soggetti relazionali” o dei “soggetti guerrieri”. È ine-vitabile che si debba fare un confronto tra la famiglia di oggi, e la famiglia di un tempo, che sicuramente era propensa a trasformarsi facilmente in caserma, ed ad organizzare la crescita di soldatini pronti a morire per la patria, e a conquistare le cose appartenenti agli altri.

Allora, sicuramente mi sembra che si possa dire che, per quanto possa sembrare paradossale in questi giorni, noi oggi ci troviamo davvero di fronte alla crisi complessiva della guerra come meccanismo per risolvere i confl itti fra i popoli; e credo che ciò sia dovuto alla presenza delle armi nucleari, che impediscono di fare la guerra, perché oggi la distruzione del nemico corrisponde alla distruzione dell’amico, di se stessi, che il timore della guerra nucleare abbia messo radicalmente in crisi questo marchinge-gno basato sul pensiero che il modo per risolvere i confl itti sia la distruzio-ne dell’avversario. Lo so che in questi giorni può sembrare paradossale, però è un fatto che la presenza delle armi atomiche costringa a spingersi fi no ad un certo punto, ma non più in là di questo.

E se riteniamo che nel passato la soluzione dei problemi e dei confl itti implicasse l’individuazione del nemico, del responsabile, per dichiarargli guerra al fi ne di occupare il suo territorio, bombardare le sue case e di-struggerlo, dobbiamo dire anche chi all’interno della famiglia testimonia-va e documentava questa opportunità e questa soluzione ineluttabile dei confl itti in nome della quale si dovevano accettare dei sacrifi ci e prepararsi alla guerra, alla inevitabilità di un confronto con il nemico che raggiun-geva il massimo della distruttività, per cui o si moriva, o si riusciva ad uccidere il nemico.

E credo che sicuramente toccava al padre farsi carico di questa in-combenza, e che l’esportazione della responsabilità e l’individuazione del nemico, fosse un compito paterno. E sono d’accordo con tutti quegli autori e studiosi della famiglia e della guerra - c’è una scienza della guerra che

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si chiama polemologia! - che individuano nel padre il signore della guer-ra, colui che è deputato in qualche modo ad esportare il male su un’altra famiglia, sui vicini di casa, e poi sull’altro quartiere e poi su una razza, etc., etc. -

Ma, da quando sono entrati in crisi il meccanismo della guerra e dell’esportazione della responsabilità sugli altri, è chiaro che è entrata in crisi anche l’autorità del padre. Su questo si è a lungo discusso in questi ul-timi tempi, e la maggior parte degli affanni odierni della pubblica opinione sono relativi proprio a questo punto: c’è la crisi dell’autorità - sottointeso: del padre! - e quindi diminuiscono le responsabilità, i ragazzi non possono più confrontarsi con il principio di autorità, quindi sono irresponsabili, e sono deresponsabilizzati, sono molli, etc., etc., etc. -

Io credo che questa questione vada approfondita e credo che, da quan-do il padre ha smesso di fare o di fi ngere di essere il signore della guerra, c’è da chiedersi che cosa sia diventato: io credo che sia diventato un per-sonaggio all’interno della famiglia che, più che indicare ai fi gli i nemici, indica loro le risorse; e credo inoltre che sia entrato nel repertorio del padre e nel ruolo di padre in generale più il tentativo di fare capire ai fi gli le ragioni del nemico per organizzare una pace conveniente che la sua distruzione.

Io anzi metterei l’attuale esercizio del ruolo del padre come uno dei capisaldi dell’educazione alla pace all’interno della famiglia, e penso ai giovani padri che portano i bambini in giro per il mondo, che gli indicano le risorse, che cercano di spiegar loro la complessità sociale, che cercano di dare un nome alle cose, che cerca, in sostanza, di trovare le ragioni: le ragioni del confl itto, le ragioni dell’avversario, le ragioni del male, le ragioni della distruzione.

Perché il padre fa questo? perché sa che è l’unica strada possibile è quella di aiutare il fi glio ad identifi carsi con le ragioni dell’avversario, di capire le ragioni dell’avversario. Se il bambino riesce a capire le ragioni dell’avversario, cioè dell’altro bambino che gli vuole portare via il gio-cattolo, se il padre riesce a spiegargli che non è che quel bambino voglia distruggerlo ed annientarlo, ma solo che magari vuole giocare con lui, non ha il giocattolo ed allora è invidioso, allora si può organizzare una pace conveniente!

Però per organizzare una pace conveniente, cioè per giocare assieme, ed arricchirsi tutti e due nella condivisione della grande esperienza del

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gioco e della comunicazione, bisogna assolutamente trovare il modo, sia al giardinetto, sul pezzettino di sabbia scalcagnato che c’è, sia nel nido e nella scuola materna, di organizzare paci convenienti e, per farlo, bisogna capire le ragioni degli altri bambini, che nel frattempo sono anche non solo di altre famiglie, ma anche di altre razze, di altre religioni, etc. -

Il padre indica la strada del tentativo, a volte disperato, di capire le ragioni dell’altro bambino, non per arrendersi, non per sottomettersi o per fare la pace a tutti i costi, ma per vedere quale è lo spazio per organizzare attraverso contrattazioni e negoziazioni una pace con i bambini del caseg-giato, del condominio, dell’area del gioco e della spiaggia.

Non tutti i padri sono così. Credo anzi che esistano tanti padri che de-clinano la loro funzione educativa con altre modalità, e cioè indicando la strada del sopruso, della lotta a tutti i costi, di tirare fuori i muscoli, i denti e tutto il resto, la strada del farsi valere, di rispondere occhio per occhio etc. - Ma a me sembra che questi altri padri siano in ribasso, e che stiano prevalendo giovani padri che interpretano la paternità nella direzione della comprensione delle ragioni dell’altro e del negoziato, e che si muovono in questa direzione non a caso, ma in base ad una analisi complessiva di un contesto in cui risulta evidente che non è più possibile fare la guerra, perché questo corrisponde alla propria morte e alla propria distruzione.

Se penso a questo padre che “si è dimesso” – diciamo – “dal ruolo di signore della guerra”, e che quindi deve per forza giocare con altre sostan-ze, che non siano la volontà, la forza, il sopruso, la virilità, deve giocare con altri elementi: e cioè con gli affetti, con la capacità di condivisione, con la capacità di capire le ragioni degli altri, ecco che mi si presenta un nuovo profi lo del padre: un padre che sostanzialmente si dispone a fare questo lavoro di “traduttore simultaneo delle contrastanti esigenze” per vedere se si riesce in questo modo ad organizzare una pace nel condomi-nio.

E assieme al padre c’è una madre che per tantissimi motivi (che in realtà sarebbe utilissimo approfondire) chiede ai fi gli di fare un esercizio straordinario. Poiché ha meno tempo, dato che lavora anche fuori casa, per forza di cose deve contrattare e negoziare con il fi glio e nel far ciò gli chiede di capire le sue ragioni, di tenere basso il livello del confl itto in casa con lei, di non alzare il confl itto, di accettare il rispetto di un minimo di regole fl essibili, assolutamente non rigide, ma anzi reversibili, accompa-

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gnate da castighi blandissimi, e di rispettarle perché c’è poco tempo e ci sono tante cose da fare.

Tener basso il livello del confl itto, e organizzare, più che appartenen-ze, commiati, separazioni, dopo le quali ci sono tantissime ore al nido e in scuola materna, la scuola a tempo prolungato, eccetera. Insomma vi è tutto un lungo percorso durante la giornata in cui lei va in azienda, in fab-brica, mentre i bambini vanno alle istituzioni para-familiari, e nel breve periodo giornaliero in cui si sta insieme bisogna stare bene, anche perché dopo bisogna separarsi, andare a letto, alzarsi, reinserirsi di nuovo nelle istituzioni, separarsi, … ma per separarsi bisogna separarsi bene, bisogna separarsi in pace. Ed è per questo che la madre ha una necessità assoluta di tenere basso il livello del confl itto.

Ma per tenere basso il livello del confl itto, bisogna che il bambino capisca che quella poca pressione educativa che la madre è costretta ad esercitare, quelle poche regole che sono rimaste in famiglia, vanno ri-spettate! Cioè vanno contrastate, negoziate, discusse, ma alla fi ne vanno sottoscritte, e bisogna assolutamente rispettarle!

In base a quale istanza bisogna rispettarle? Bisogna rispettarle attra-verso l’identifi cazione con lei. Questo è il motivo sostanziale della madre quando chiede ai fi gli di fare uno sforzo e di capire. Essi devono capire, accettare, identifi carsi e schierarsi in favore del bene supremo di tutto il progetto educativo, che è la difesa della relazione, della buona relazione.

Ma una buona relazione vuole dire, appunto, tenere basso il livello del confl itto, eliminare il dolore, evitare di spararsi reciprocamente dei mis-sili, di denigrarsi, di fare un corpo a corpo domestico in cui apposta uno, sapendo, avendo imparato, avendo appreso quale è il modo per far soffrire lo fa apposta. La madre esorta a fare esattamente il contrario: avendo ca-pito che quella cosa fa soffrire, bisogna smettere di farla, bisogna smettere perché può provocare dolore e solitudine, può esasperare l’altro. E questo è il massimo! è il peccato mortale sulla scena della famiglia affettiva e relazionale!

Il fatto che i genitori chiedano al fi glio - in una situazione di contra-zione dei tempi a disposizione e in cui c’è bisogno che i fi gli siano precoci, autonomi poiché il tempo a disposizione per organizzare la comunicazio-ne è poco - di tenere bassissimo il livello del confl itto e di eliminare tutte le situazioni che si sa già per statuto che innescano la guerra e la distru-zione reciproca: tutto questo, a mio avviso, è una grande novità educativa.

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Quindi, io credo che il padre che si è dimesso dall’esercitare il ruolo di signore della guerra e di colui che troverà il nemico, e che in nome dell’esistenza del nemico organizzerà la famiglia come una caserma, co-stringendo i fi gli a fare i soldatini, ad obbedire alle regole, ed a esercitarsi a tollerare il confl itto, lo scontro armato in famiglia, il padre da una parte, ed i fi gli dall’altra, fi no a quando i fi gli prenderanno il potere e sconfi gge-ranno il padre.

Vecchie scenette, vecchie gag che però caratterizzavano il percorso di crescita, uccidere il padre era lo sport nazionale, dei giovani, dei minori, dei minorenni, degli adolescenti di un tempo, ma non era una metafora, era “la” metafora, il più delle volte ci si limitava all’uccisione simbolica, qualche volta ci scappava anche il morto, ma era una metafora convincen-te, sulle piazze, nelle strade, le città erano in subbuglio perché i ragazzi erano occupati ad uccidere simbolicamente il padre, il ché voleva dire lo Stato, il Preside, la scuola, la fabbrica, il potere, il capitalismo. bisogna-va farlo. Bisognava ucciderlo e non c’era la possibilità di negoziare, di contrattare la propria realizzazione e la realizzazione della propria libertà, l’identità, la sessualità, il piacere, il godimento, la coppia, il gruppo, la città, la civiltà, erano legate all’uccisione del padre.

Adesso padri che abbiano questa intenzione di farsi uccidere, così come fi gli che organizzano addirittura gruppi, associazioni e movimenti per uccidere il padre ce ne sono pochi. È chiaro che qualcosa è succes-so, è chiaro che il padre di questi nuovi ragazzi dice: facciamo pace se è possibile, evitiamo che ci scappi il morto, non vedo il motivo, volete che ridistribuiamo il potere? ridistribuiamo il potere! volete che le regole siano separate dai valori e dalle tradizioni? Separiamo, per carità! cioè organizziamo delle regole domestiche che servano soltanto per lo spazio domestico: si esce, ci si alza, ci si lava i denti, si cerca di arrivare tutti più o meno nella stessa fascia oraria, non lasciamo il bagno in disordine! ma questo non lo dice Dio, o la patria, ma lo dice la mamma perché è nervosa, il papà perché ha poco tempo, e lo dice il buon senso, detto questo è fi nita lì. È fi nita lì!

Allora, fra il padre che sulla scena domestica gira davvero disarmato - ed il disarmo del padre è il principale motivo del pacifi smo dei fi gli - e la madre che in affanno dice: guardate, non fatemi questo, vi prego, identifi -catevi, identifi catevi non con la mia bellezza o con la mia intelligenza, ma con la mia fatica, con la mia spossatezza, ed anche con la mia tendenza ad

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avere crisi di nervi; per cui evitate che io abbia una crisi di nervi! Questo duplice invito ad identifi carsi con il dolore dell’altro, avviene

in difesa di un principio fondamentale: che ciò che conta non è il rispetto dei valori e dei principi; ciò che conta è costruire buone relazioni. Questo è il principio educativo, il valore cruciale della famiglia attuale.

Per questo, giustamente, abbiamo defi nito la famiglia affettiva rispet-to alla famiglia etica e guerrafondaia di un tempo, in cui la guerra era il principio basilare: volevi il potere dovevi combattere e distruggere il nemico, simbolicamente.

E io credo che questa famiglia sia un vero e proprio laboratorio di educazione alla pace, con alcuni inconvenienti, secondo gli educatori e i sociologi.

È chiaro, ad esempio, che - come alcuni sostengono - a forza di met-tere tutto l’accento sulla relazione, a forza di tenere basso il livello del confl itto i ragazzi non sanno più stare “nel” confl itto, non sanno più con-frontarsi duramente. È chiaro che noi “famiglia italiana” che abbiamo co-struito in esclusiva questo modello educativo, a forza di contrattare regole abbiamo fi nito col consentire una eterna convivenza fra le tre generazioni, nonni, genitori e nipoti, e ciò a differenza delle altre famiglie europee, dove invece si esce abbastanza precocemente di casa e dove il confl itto evidentemente non ha tutte queste mediazioni, come avviene da noi. Per cui, quando adesso i ragazzi di tutta Europa dovranno confrontarsi fra di loro, tra i nostri trentacinquenni che vivono ancora con la mamma, e i francesi, i danesi, che sono tutti fuori di casa a diciassette, diciotto anni, può darsi che perdiamo il confronto: personalmente penso di no, e che comunque se lo perderemo non sarà questo il motivo, ma comunque forse non c’è neanche alcuna guerra, e si tratti solo dei consumi di cose, non della guerra che si faceva un tempo.

Quindi, insomma, se il valore è quello della relazione io direi: stiamo attenti, perché abbiamo una famiglia che in sé e per sé favorisce ed è un grande protagonista dell’educazione alla pace. Ed educare alla pace vuol dire incitare i fi gli a costruire relazioni, sapendo che quelli che sono più capaci di costruire relazioni sono i fi gli più obbedienti, quelli che tengono basso il livello del confl itto, i bravi ragazzi, quelli che agli occhi dei geni-tori hanno successo.

E perché hanno successo? Perché sono sempre invitati a tutte le fe-stine, fi n dal nido, fi n dalla scuola materna, in quanto hanno imparato

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a ballare ed a cantare, hanno più relazioni, più amicizie, sono i più noti, quelli che proprio “è una soddisfazione andare in giro con loro” perché tutti i bambini li riconoscono, e tutti gli telefonano, e sono i più gettonati, sono quelli cioè che sono diventati abili a costruire relazioni, e le mamme hanno tutto l’interesse che i fi gli abbiano buone relazioni, perché visto che bisogna stare separati tutto il giorno, se i fi gli hanno tanti amici buoni, selezionati, etc., etc., questo vuol dire che hanno accesso a forme sociali di nutrimento, extrafamiliari: e un fi glio ben nutrito di amicizie, di amori, e di affetti, è un fi glio che sta bene.

È un fi glio che sta bene, anche perché con tutto questo affetto che riceve attraverso l’esperienza di gioco, di condivisione, etc., è sempre più pacifi co, è sempre più buono, non viene a casa incazzato: ha giocato, si è divertito, ha avuto gli amici, è stato soddisfatto, quindi viene a casa ed è buono, è buono anche con la mamma, e quindi non vorrà mica fare la guerra appena arrivato, e sarà ancora più facilmente in grado di tenere basso il livello del confl itto.

In base a questa “educazione sentimentale” è chiaro che nel caso che tu ti senta vagamente in colpa, nel caso che tu senta di avere un piccolo debito potrai offrire la roba che hai imparato a fare: cioè costruire relazio-ni, facendo il volontario perché attraverso il volontariato offri relazioni, offri la possibilità di scambiare affetti, di condividere tempo, di costruire assieme progetti.

Per cui - dico - la famiglia affettiva avrà tanti difetti, ma non si può dire che essa sia un’offi cina dove si prepara la guerra, anzi si deve ricono-scere che essa sia un piccolo laboratorio domestico all’interno del quale si costruiscono volontari: poi saranno felici o infelici. Poi ogni tanto, se sbagliano la mira, diventeranno dei mostri, non lo so! fatto sta che l’orien-tamento sarebbe questo: di provare a vedere che cosa succede se si mette come valore di riferimento principale quello di avere una buona relazione e di costruire relazioni, piuttosto che sottomettersi a dei valori, a dei prin-cipi.

Se infi ne guardiamo all’altra famiglia all’interno della quale si forma-no i giovani, cioè la “famiglia sociale”, e cioè il loro gruppo di coetanei, beh! anche lì si impara a tessere relazioni; e tutti quelli che hanno studiato le modalità di organizzazione, ed i valori di riferimento di questa società che corre parallela a quella degli adulti - a volte con dei punti di contatto,

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a volte proprio parallela, senza contatti con essa - hanno verifi cato che, grazie anche ai sistemi di comunicazione, alle grandi autostrade rappre-sentate dalle realtà virtuali, ciò che viaggia fra i giovani è la sensazione di appartenere ad una generazione globale, che avere quell’età oggi è di per sé un fenomeno che globalizza più di tutti i globalizzatori; che avere quattordici, quindici, sedici anni è effettivamente qualche cosa che stabi-lisce connessioni planetarie, consente di condividere esperienze, costumi, valori, idoli musicali, pratici, etc., etc. -

E io credo che sia vero che il gruppo - proprio perché è un’esperienza precocissima, e proprio perché sono gli stessi genitori che hanno tutto l’interesse perché i ragazzi stabiliscano dei vincoli precoci, e diventino soggetti sociali precoci e sappiano godere delle esperienze di gioco condi-vise, o di crescita comune, e sappiano fare la pace, etc., etc. - nasce già con funzioni consolatorie, cioè già caratterizzato da funzioni di contenimento, di “dare cittadinanza agli esuli”, a tutti i bambini soli della terra. Nasce già come famiglia, cioè come già abitato dall’idea di dovere mettere da parte tutto ciò che crea differenza e che crea confl itto, per creare accoglienza.

Infatti non c’è mai stato nei decenni precedenti, sulla base delle ricer-che che sono state fatte, un gruppo più fraterno e solidaristico di quello at-tuale, cioè un gruppo dove non ci sono i capi, i capetti, e dove non si deve lottare per il potere, dove i maschi non devono battersi per la conquista del territorio, delle donne, del potere, etc. -

Si tratta anzi di un gruppo dove chi vuole fare il capo lo mettono subi-to al posto: quindi è un gruppo orizzontale, paritetico, fraterno, solidaristi-co, quindi un gruppo che non può decidere niente, un gruppo a cui manca tutta l’organizzazione della leadership, in cui non funziona la presa di de-cisione. Ma lo ha fatto apposta il gruppo a rinunciare a prendere decisioni! Questa è una delle cose di cui i ragazzi si lamentano di più: che il gruppo non decide mai niente, che si sta sempre lì, che si passano delle ore, che si discute, si discute, si cerca di decidere e non si decide mai niente, non si decide mai niente apposta! apposta perché naturalmente la decisione crea confl itto, e la lotta per fare prevalere una decisione piuttosto che un’altra è, inevitabilmente, la lotta per il potere. Si creerebbe una gerarchia, un’or-ganizzazione ed una volta presa la decisione, ci sarebbe anche chi non sarebbe d’accordo e se ne andrebbe a casa: cosa temutissima dal gruppo, che invece vuole fare in modo che si stia sempre assieme, a tutti i costi, alzando moltissimo anche il livello di tolleranza, il rispetto della diversità.

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Questo consente, ad esempio, la convivenza pacifi ca all’interno della scuola fra gruppi di diversa impostazione politica. Ma anche all’interno dello stesso gruppo di amici è consentito una convivenza pacifi ca fra quel-li che fumano le canne e quelli che per qualche motivo non lo fanno, e quelli che hanno una tendenza fortemente deviante possono stare assieme con quelli che invece sono pacifi ci perché il gruppo è massimamente tol-lerante.

E questo fi nisce con l’essere un valore di riferimento: fi nché uno non fa delle cose che rompono gravemente le scatole agli altri, è libero di fare qualsiasi cosa! Questi valori contraddistinguono il gruppo: l’accoglienza e la condivisione profonda e radicale di una fantasia comune: e cioè che il gruppo abbia - come dire? - “un progetto”, che il gruppo sia legato dalla necessità di tenere vivo questo progetto che non si sa bene che cosa sia, ma che dovrebbe incarnarsi da un momento all’altro in una decisione per diventare quello che si fa la sera, al sabato, l’estate e quello che succederà, etc., etc.

Questo, secondo me, rende i ragazzi straordinariamente capaci di sacrifi carsi per gli amici, straordinariamente capaci di sacrifi carsi per il gruppo, ed è quello che a me sembra giusto chiamare l’etica masochistica degli adolescenti nei confronti del loro gruppo. C’è l’impressione che il gruppo abbia delle esigenze, chieda molto, e cioè chiede di sacrifi care il proprio desiderio del momento, chiede di diventare fortemente altruisti, di mettere da parte il proprio egoismo personale in vista di un proseguimento di un fi ne comune, e quindi chiede di accettare tutte le mediazioni, chiede di dare accoglienza, etc. -

Quindi, da questo punto di vista, a me sembra che le due famiglie, la famiglia naturale, quella dei genitori, e la famiglia sociale, quella degli amici, lavora a staffetta da questo punto di vista, perché tutte e due le famiglie mettono come valore di riferimento centrale la relazione e chie-dono ai membri famiglia, ai membri del gruppo, di contrattare, negoziare, di non volere a tutti i costi fare prevalere la propria opinione, di non lottare per la conquista del potere, ma di farsi valere per acquisire cittadinanza, per diventare visibili e soggetti contrattuali, ma non più di questo!

I ragazzi lo sanno che nel loro gruppo il gruppo chiede. Chiede e dice: “di la tua opinione, proponi qualcosa, non essere di peso e basta, fai qualcosa anche te, sacrifi cati, impegnati, pensa, assumiti delle responsa-

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bilità, proponi, dì qualcosa anche tu, esprimi”. Il che vuol dire partecipare responsabilmente alla gestione della sopravvivenza del gruppo, perché anche il gruppo è sempre sull’orlo di una crisi di nervi; è sempre lì, lì per sfaldarsi, è sempre lì, lì per morire; e non muore mai, naturalmente, ma dà questa impressione di essere dietro ad annoiarsi mortalmente, a non riuscire a combinare mai niente, ad essere tristissimo, ad essere oramai quasi in coma, e di non riuscire più a sopravvivere se non in una situa-zione di ebbrezza, con qualche birretta e qualche canna, ma insomma, è sempre molto sfi lacciato così. Poi, fi nalmente si rianima grazie all’impe-gno, grazie alla generosità di tutti, che con uno scatto di reni riescono a rivitalizzare il gruppo.

Sappiamo che ci sono tante altre componenti: che dentro la famiglia e al gruppo ci sono delle forze che lavorano in direzione contraria, che il gruppo è spesso lì, lì per trasformarsi in banda. E la banda è crudele, la banda compie reati, deriva dal gruppo, ma rappresenta il momento in cui il gruppo si ammala e non ce la fa a rimanere gruppo, inteso come gruppo di amici, ma anzi deve delegare ad un gruppetto, ad una task force il compito di compiere un’azione stupefacente, rischiosa, deviante e trasgressiva per risolvere il problema, che in realtà hanno tutti.

Quindi sappiamo che è dall’interno del gruppo che poi decolla l’espe-rienza deviante e trasgressiva, sappiamo che l’aumento di reati minori-li non è che dipenda dall’aumento del numero dei ragazzi delinquenti, ma dipende dal numero sempre maggiore dei reati commessi dal gruppo, quindi è un soggetto psicologico quello che commette reati, un soggetto che però è un gruppo e non l’individuo.

Quindi sappiamo che il pacifi smo, il solidarismo, l’organizzazione orizzontale del gruppo, l’invito del gruppo ad assumersi responsabilità, poi nasconde delle insidie, perché il gruppo, la mente del gruppo pensa in termini molto primitivi, etc., il gruppo è tendenzialmente un po’ pa-ranoico, va un po’ alla ricerca del nemico, ha bisogno di segnare i propri confi ni, ha bisogno di presidiare un’area del territorio, ha bisogno, se è in crisi, di emblemi, di gagliardetti, di inni, di canti. Insomma, ci vuole poco per trasformare un gruppo in banda, ma fi nché il gruppo funziona favorisce l’interiorizzazione di ideali. E questa è la funzione del gruppo, in adolescenza, quella di mettere a tacere il super io familiare dentro ad una mente individuale e sostituirlo con degli ideali sociali, con degli ideali di gruppo, appunto.

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Per cui se è in salute il gruppo tendenzialmente lavora anch’esso nella direzione di aumentare il sentimento di responsabilità nei confronti della relazione, invita tutti i suoi membri ad essere leali, ad essere generosi, etc., etc. - Non è un gruppo portato all’azione, ma all’essere, al costruire rela-zione, a scambiarsi affetti, sentimenti, farsi compagnia, ad essere molto solidale con chi in quel momento è in diffi coltà, non è un gruppo in cui si lotta per il potere, ma è un gruppo in cui ci si impegna per stare bene, per scambiarsi, per divertirsi, etc., fi nché le cose funzionano, perché anche la famiglia è pacifi ca e lavora per tenere basso il confl itto.

L’assunzione di responsabilità signifi ca - nel mio linguaggio psico-analitico, di tipo depressivo e non paranoideo - che vi è una tendenza a costruire più ragazzi tristi che ragazzi cattivi: ragazzi che si assumono le responsabilità nei confronti del destino dell’altro, e che si assumono le responsabilità nei confronti del fatto che la loro giovinezza è destinata a fare invecchiare i genitori, a condannare a morte la famiglia, perché se ne andranno, etc. –

Ed è stata la famiglia che è andata in questa direzione, che cioè ha fatto della relazione un oggetto di culto, dello stare bene assieme a costo di smettere di parlare, perché magari viene fuori il confl itto, un programma. Si tratta di una famiglia che sta costruendo dei soggetti relazionali.

E allora dopo non stupisce di vedere che i fi gli della famiglia attuale, che sono soggetti relazionali, costruiscono relazioni, relazioni sociali pre-coci, costruiscono molto precocemente, fi no dalle elementari grupponi, gruppetti molto legati, dove c’è uno scambio affettivo molto intenso, e c’è una fame di relazioni sociali molto visibile, e c’è una richiesta alla fami-glia di avere più tempo da dedicare ai propri amici: quindi c’è, insomma, la costruzione di soggetti relazionali, soggetti sociali.

Il culto della relazione vuole dire non chiedere e divorare, ma scam-biare, identifi carsi, capire ed entrare nella mente dell’altro. Ma nel far ciò il nuovo padre e la nuova madre sostanzialmente attribuiscono una responsabilità tremenda ai fi gli perché gli chiedono di entrare nella loro mente. I genitori del passato non lo facevano, non avevano nessuna inten-zione di fare capire niente delle loro debolezze, delle loro stanchezze, del-le loro delusioni, delle loro crisi coniugali ai fi gli: stavano blindati! invece qua si condivide tutto, e quindi l’invito al fi glio è: cresci, sviluppa questa abilità, questa competenza, cioè quella di capire, quella di identifi carti, e quindi quella di assumerti delle responsabilità affettive, e non etiche, non

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valoriali.Sul tema della riparazione, cioè del prendersi cura, a me sembra che

abbiamo tutta una serie di elementi che rendono comprensibile come pos-sa esserci - in base alla percezione che ognuno di noi ha, ma poi ci sono le statistiche nazionali - una maggiore propensione nei giovani d’oggi a fare i volontari piuttosto che i soldati, a fare il servizio civile, piuttosto che il servizio militare, a fare più i volontari che i guerrieri. Poi naturalmente, siccome non ci sono solo queste belle famigliole, questi bei gruppetti, ma ci sono anche tante altre esperienze nei contesti educativi, che favorisco-no altri sviluppi, altre propensioni, verranno fuori le guerre, le bande, la criminalità giovanile, etc., etc. -

Però, credo che se andiamo in cerca con il lanternino, dei fattori che favoriscono la vocazione a offrire relazione, penso che possiamo seguire a ritroso tutto il percorso che porta il bambino a diventare un volontario, e a trovare nel suo ecosistema di vita tutto un percorso che in qualche modo lo sospinge in quella direzione, è una direzione alla quale si può anche dire di no, si può anche dire “sono stufo di offrire relazione”, e preferisco la solitudine, la separatezza, la creatività solitaria, faccio altre cose. Però bisogna dire che fra le aspettative che la famiglia attuale ha nei confronti dei propri fi gli non c’è quella non di vederlo in divisa, ma semmai quella di vederlo con il camice della Croce Verde o della Croce Bianca, o di tutte le Croci della terra, ad offrire relazione e soccorso, a prendersi cura di chi non è “dentro”, di chi sta fuori, per farlo venire dentro, dentro nella rela-zione, dentro nella condivisione, dentro nell’accomunamento.

Poi naturalmente ci sono forze che giocano in direzione contraria.

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