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Future Forum 2013 - Bruno Lamborghini

Date post: 15-Dec-2014
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Lavoro del futuro e futuro del lavoro – Da Adriano Olivetti alla Società della Conoscenza condivisa Bruno Lamborghini, Presidente AICA Oggi parlare del futuro del lavoro in Italia in un momento drammatico della più grave crisi dal dopoguerra, una depressione che appare peggiorare senza speranza da un quinquennio, sembra un dibattito astratto, fuori del tempo. Più che di futuro del lavoro oggi si parla della mancanza di lavoro, quasi della morte del lavoro che tanti pagano sulla propria pelle, un lavoro che i giovani cercano invano oggi in Italia, con indici di disoccupazione giovanile tra i più alti, con il frustrante parcheggio delle risorse più strategiche, quelle dei giovani che sono l’asset per costruire futuro. Credo che invece oggi in particolare in Italia occorra parlare del lavoro in modo nuovo. Se c’è una morte del lavoro è quella del lavoro dequalificato, la catena di montaggio, la fine del taylorismo-fordismo, i caratteri del lavoro che hanno determinato oltre 200 anni di sviluppo industriale, ma che ora non hanno più spazio, in occidente, ma sempre più anche nei paesi emergenti che cercano di rincorrere i vecchi modelli dell’occidente. La fine del taylorismo-fordismo nelle fabbriche, ma anche negli uffici, nei servizi, anche se da tante parti si cerca sbagliando di proseguire su questa strada che non ha più futuro. 1
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Lavoro del futuro e futuro del lavoro – Da Adriano Olivetti alla Società della Conoscenza condivisa

Bruno Lamborghini, Presidente AICA

Oggi parlare del futuro del lavoro in Italia in un momento drammatico della più grave crisi dal dopoguerra, una depressione che appare peggiorare senza speranza da un quinquennio, sembra un dibattito astratto, fuori del tempo.

Più che di futuro del lavoro oggi si parla della mancanza di lavoro, quasi della morte del lavoro che tanti pagano sulla propria pelle, un lavoro che i giovani cercano invano oggi in Italia, con indici di disoccupazione giovanile tra i più alti, con il frustrante parcheggio delle risorse più strategiche, quelle dei giovani che sono l’asset per costruire futuro.

Credo che invece oggi in particolare in Italia occorra parlare del lavoro in modo nuovo.

Se c’è una morte del lavoro è quella del lavoro dequalificato, la catena di montaggio, la fine del taylorismo-fordismo, i caratteri del lavoro che hanno determinato oltre 200 anni di sviluppo industriale, ma che ora non hanno più spazio, in occidente, ma sempre più anche nei paesi emergenti che cercano di rincorrere i vecchi modelli dell’occidente.

La fine del taylorismo-fordismo nelle fabbriche, ma anche negli uffici, nei servizi, anche se da tante parti si cerca sbagliando di proseguire su questa strada che non ha più futuro.

La perdita di senso nella ricerca di una produttività statistica astratta, quando la competitività, l’innovazione e lo sviluppo richiedono ben altro.

E’ assolutamente necessario parlare di futuro del lavoro, di lavoro del futuro avendo chiaro che la grande depressione delle economie occidentali ed in particolare delle economie dell’eurozona meridionale è solo la causa più superficiale, non strutturale delle perdite di occupazione. Ma vi è ben altro da considerare.

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Al di là e al di sopra degli effetti della crisi nata dalla finanza internazionale e dalle politiche sbagliate per frenare la crescita incontrollata dei debiti degli stati e delle banche è in atto una mutazione strutturale dei sistemi economico-sociali che hanno governato sinora la crescita industriale, non solo nei paesi di antica industrializzazione, ma anche nelle economie emergenti.

E ‘ in atto una sfida radicale di cambiamento di fronte alla quale siamo del tutto impreparati, anche se facciamo convegni, scriviamo libri sul cambiamento, sul change management.

Cominciamo a renderci conto che qualcosa sta cambiando sotto i nostri piedi, diamo la colpa spesso alle nuove tecnologie, alla globalizzazione, alla concorrenza della Cina, ma non andiamo oltre, perché prevale l’istinto di conservazione, del business as usual, l’add’a passà a nuttata.

Ci sarà un giorno la ripresa, basta guardare quanto fanno nella Germania della signora Merkel senza renderci conto di quanto anche i tedeschi sono preoccupati del futuro e cercano di trovare la stabilità nelle braccia di Mutti.

Ci rifugiamo nella difesa del posto di lavoro del passato, anche se le fabbriche si sono svuotate, non tanto per colpa dei cinesi, ma perché non siamo capaci di innovare i nostri prodotti, di innovare soprattutto le forme ed i contenuti del lavoro.

Nel lavoro del futuro non c’è più il posto di lavoro certo e immutabile, c’è al suo posto la crescita continua della mia professionalità che solo io gestisco, non devo affidarmi ad altri, ma solo alla mia capacità di cambiare, di aggiornarmi, di stare al passo con il cambiamento continuo.

E’ un salto traumatico perché il nostro istinto naturale è la difesa del nostro saper fare, anche se non lo aggiorniamo. Anche se è divenuto drammaticamente obsoleto e non serve più.

Credo che dobbiamo modificare anche il nostro linguaggio, sostituire la parola lavoro con attività, professione, così come sostituire la parola formazione con la parola apprendimento. Possibilmente apprendimento continuo per tutta la vita, in stretto collegamento con la nostra attività, la nostra capacità di lavoro.

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C’è un modello di formazione dominante da abbandonare, quello dell’impegno scolastico che impegna la nostra vita per alcuni anni e poi basta, da un certo momento in poi nessuna formazione, si vive di una falsa rendita formativa che finisce rapidamente, e ci rende obsoleti, inadatti ad affrontare una società che cambia quotidianamente e che chiede nuovi contenuti lavorativi.

In alcuni paesi si comincia a comprendere che apprendimento e impegno lavorativo devono procedere sempre assieme, non in fasi separate e distanti, ma in modo integrato in tutte le età della vita.

In Germania ad esempio apprendimento teorico ed apprendistato pratico procedono assieme almeno in alcune fasi della vita scolastica.

In Italia sembra ancora un sacrilegio parlare a scuola di lavoro e di impresa.

Io che vengo dal mondo aziendale insegnando in università mi sono spesso sentito guardato con insufficienza dai colleghi quando promuovevo o meglio obbligavo stages in azienda ai tesisti.

Il principio è che l’università deve essere un monumento all’insegnamento scientifico, non occuparsi di business.

Il risultato finale è quindi il restare a casa per anni dopo la laurea inviando invano curricoli.

Devo dire però che al di là della mancanza generale di comprensione dei problemi del lavoro e della sua mutazione così come delle conseguenze in termini di scelte o mancate scelte da parte della politica e anche da parte imprenditoriale sta crescendo una nuova Italia che ha capito e vuole partecipare al cambiamento.

Non vi è dubbio che le imprese esportatrici che vivono la realtà dei mercati internazionali più dinamici e che sono forse l’unico vero motore della nostra economia hanno chiaro quanto sta accadendo e hanno profondamente modificato la loro azione organizzativa con particolare riferimento alle modalità di lavoro.

Un esempio per tutte che mi è particolarmente caro, Enrico Loccioni, un medio imprenditore marchigiano che opera nelle high tech dei sistemi di automazione a contatto con le realtà mondiali più innovative ha capito quale è il futuro del lavoro.

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Se andate a visitare i suoi reparti capite subito che i lavoratori sono principalmente persone che considerano gli obiettivi come propri partecipando personalmente e in team in cui lavoro ed apprendimento continuo stanno assieme, la conoscenza , il know how è totalmente condiviso.

C’è una consapevolezza etica nel proprio lavoro che produce effetti straordinari nella capacità di innovare, di introdurre idee nuove e quindi nel successo dei risultati.

Nel caso di Loccioni vale quanto qualcuno ha detto che le imprese tradizionali sono industrie specializzate per prodotti, come automobili, elettrodomestici. Le nuove imprese sono specializzate nel produrre innovazione dovunque e cambiano attività guidate dai percorsi dell’innovazione (tecnologica, organizzativa,ecc.). Innovation driven, non product driven.

Per questo anche se vi sono crisi in un mercato utilizzano la capacità d’innovazione per trovare altri mercati e quindi non c’è mai crisi del lavoro e l’impresa fintanto che innova non va mai in crisi.

L’Italia è piena di imprese innovative e credo che tutti voi conoscete altri casi simili che danno speranza a questo paese di ritrovare una strada di vero sviluppo.

A metà settembre abbiamo organizzato a Salerno un grande Congresso di AICA dedicato alle nuove frontiere digitali.

Abbiamo incontrato e sentito tanti giovani in gran parte del Sud che hanno avviato start up, spin off universitari, per divenire artigiani digitali, dai Fab Lab con le stampanti 3D, agli sviluppi di nuovi media digitali e apps, ai cosidetti makers che riescono a coniugare bit e atomi, innovazione digitale e capacità manifatturiera, con un rapporto dal basso con le università, con la creazione di fitte reti relazionali con i centri di ricerca più avanzati in USA, in Svezia, in Giappone. A Roma recentemente vi è stata la Makers Faire con centinaia di nuovi giovani produttori.

Un grandissimo impegno creativo anche in carenza di grandi risorse finanziarie e in mancanza di un sistema paese che non li ostacoli, ma con forti legami territoriali, l’unione feconda tra valori locali e reti mondiali. Impresa e lavoro devono trovare forza nel legame con il territorio che diviene un ecosistema interattivo con le imprese, senza il rischio di specializzare il territorio come nel caso dei distretti per cui tutto il sistema locale rischia di entrare in crisi quando cambiano i mercati e le tecnologie.

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Questi giovani non sono preoccupati del futuro,perché lo stanno creando con la loro attività, con il loro entusiasmo.

Questa creatività la troviamo se visitiamo gli ambienti di coworking dove si trovano assieme competenze diversi di giovani innovatori che condividono computer ma anche tavoli di calcio balilla. C’è una iniziativa che si sta sviluppando chiamata TAG, Talent Garden ormai in diverse città del Nord Italia.

Sono sedi aperte 24 ore su 24 dove si va con modica spesa e si trova un ambiente infrastrutturato always on senza orari dove si opera già nel modo di lavorare del futuro in totale partecipazione e collaborazione, in cui vita e attività operativa tendono a coincidere, in cui l’unica garanzia di futuro è la propria testa, in scambio continuo con altre teste.

So che alcuni sorridono di fronte a queste prospettive pensando che gli artigiani digitali, i coworker non risolveranno nel breve i problemi della disoccupazione italiana, i cassintegrati, il 40% di disoccupazione giovanile..

Non dimentichiamo però che negli USA, ma anche in Europa da queste nuove forme di attività, dai garage sono nate in pochissimo tempo imprese di dimensioni mondiali.

Pensiamo a Google che ha adottato queste modalità operative, in ambienti aperti all’open innovation ed in cui un giorno alla settimana è lasciato libero a ciascuno per pensare.

Ma pensiamo anche che si può anche in Italia: Arduino, un microprocessore open source a bassissimo costo, nato a Ivrea da 5 ragazzi in un garage che oggi è divenuto standard internazionale tanto che Intel nei giorni scorsi ha deciso di integrarlo nei suoi sviluppi.

Abbiamo introdotto per il Congresso di AICA uno slogan: I protagonisti dell’Italia digitale sono già tra noi.

I nuovi protagonisti stanno nascendo nel silenzio dei media, forse con l’eccezione di Riccardo Luna su Repubblica, ma soprattutto nel silenzio e nell’indifferenza della politica e delle istituzioni.

Non si tratta di chi opera solo nel mondo digitale, ma vediamo nascere nuove iniziative libere anche in altre aree, come ad esempio le nuove imprese tecno-agrarie, nuovi prodotti e servizi dell’ambiente, dell’energia, del turismo.

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E’ uscito un bel libro che consiglio, scritto da un giovane economista italiano che insegna a Berkeley, Enrico Moretti. Si intitola La nuova geografia del lavoro e parla degli Stati Uniti, ma quello che dice vale anche per il nostro paese ed apre opportunità per il futuro, assieme a rischi per chi sta fermo.

Moretti dice: negli Stati Uniti l’economia postindustriale basata sul sapere e sull’innovazione sta cambiando profondamente il mercato del lavoro per la tipologia dei prodotti, per le modalità e per la localizzazione produttiva, creando enormi disparità geografiche tra i centri innovativi, come Seattle ed i centri in declino irreversibile come Detroit, in conseguenza dell’incapacità di cambiamento innovativo.

Per alcune regioni e soprattutto alcune città americane la globalizzazione e la diffusione di nuove tecnologie generano aumenti della domanda di lavoro, più produttività e redditi più alti.

Le aree che non riescono a partecipare a questo processo vengono emarginate con pesanti effetti in termini di istruzione,aspettative di vita e stabilità famigliare.

Noi pensiamo agli effetti della globalizzazione mondiale, mentre in realtà questi fenomeni si manifestano all’interno delle nazioni o delle aree regionali.

Le imprese ed i lavoratori più creativi si concentrano in determinati luoghi e non in altri, creando fenomeni di forte attrazione e mobilità del lavoro, con mercati del lavoro “densi” in alcune aree a danno di altre a minor tasso di innovatività.

Questa analisi deve farci riflettere anche per il futuro dell’Italia produttiva in termini di fattori innovativi concentrativi in alcune aree, di crisi endemiche per carenza di innovazione e processi di maggiore mobilità sociale.

Nel sottotitolo del mio intervento ho evidenziato Da Adriano Olivetti alla Società della Conoscenza condivisa e cerco di spiegare perchè prendo questi due riferimenti parlando del lavoro del futuro.

Il termine Società della Conoscenza è ornai abusato sia nei convegni che anche nelle politiche europee.

Ricordiamo Lisbona Obiettivo 2010 dell’Unione Europea in cui si programmava di fare dell’Europa la più avanzata Società della Conoscenza, dando ai paesi membri precisi target da raggiungere. Arrivati al 2010 senza averli raggiunti si è spostato l’obiettivo Horizon 2020 più o meno con gli stessi target tecnologici, formativi ed organizzativi.

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La grande crisi ha interrotto parte di questi obiettivi, ma resta sempre aperta l’esigenza di dare un futuro di sviluppo innovativo al vecchio continente, schiacciato tra Stati Uniti e paesi emergenti e condizionato dalle politiche di austerità connesse all’Eurozona.

Non basta accumulare conoscenza, oggi internet, i social networks accumulano miliardi di miliardi di informazioni, i Big Data che gestiscono quantità stratosferiche di informazioni, alimentate sempre più anche da oggetti in rete (Internet of things), informazioni e dati che non divengono conoscenza se non vengono finalizzati.

La conoscenza assieme all’abilità pratica diviene competenza e solo allora serve davvero. Ma il valore della conoscenza si accresce esponenzialmente solo se è oggetto di scambio, se diviene conoscenza condivisa.

Nei laboratori di ricerca oggi si sono aperte le porte. Ci si muove nell’’open innovation, nello scambio in rete attraverso i Forum ed allora la conoscenza diviene la materia prima dell’innovazione e del nuovo lavoro.

E’ la fine della frammentazione della catena di montaggio sia in fabbrica che negli uffici. Ciascuno apporta la sua conoscenza al gruppo e la condivide arricchendola e producendo valore aggiunto.

La nuova value chain è conoscenza condìvisa, apprendimento di scambio che produce nuova conoscenza individuale e collettiva, innovazione aperta, partecipazione creativa nelle attività del lavoro, condivisione dei risultati

In fondo, si potrebbe dire che questo era il modello dell’artigiano classico, della bottega artigianale, uccisa dalla fabbrica di massa. L’Italia per sua natura è forse un ambiente adatto ad un rilancio di questo modello che peraltro non significa non divenire mai grande impresa dato che abbiamo modelli di artigiani italiani di successo divenuti grandi imprese, come Luxottica,Della Valle, Cucinelli e tanti altri.

In più oggi le tecnologie di rete permettono di essere glocal, cioè di fare ricerca e innovazione con strutture limitate, aperte al mondo attraverso ampissime relazioni in rete con tutto il mondo, di produrre con nuovi modelli produttivi a costi ridotti (il digital fabrication model sta entrando anche nella produzione di larga scala e consente di personalizzare i prodotti), ma ancora le nuove tecnologie di rete consentono di vendere in tutto il mondo attraverso reti di e-commerce a costi minimi di distribuzione.

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Ripeto, oggi la vera sfida è la centralità dell’investimento è nelle persone, nelle competenze, più che nelle tecnologie o nelle macchine.

Oggi molte imprese di fronte alla crisi della domanda sono costrette a tagliare i costi e cioè a mandare a casa i dipendenti, senza badare se con loro se ne va via dall’azienda il patrimonio di conoscenze, il know how, cioè il vero asset per lo sviluppo futuro e restano solo i muri vuoti.

Le persone e le loro competenze, il loro lavoro sono gli elementi vitali e l’investimento fondamentale per lo sviluppo è rappresentato dalla valorizzazione delle competenze dei propri dipendenti, aiutandoli ad una formazione permanente e creando una capacità di rinnovare la value chain dei collaboratori.

La centralità delle persone mi porta immediatamente a parlare di Adriano Olivetti e della sua concezione dell’azienda e del lavoro.

Un pensiero ed una azione imprenditoriale quella di Adriano Olivetti che oggi a 50 anni dalla sua scomparsa viene riscoperta come la chiave per affrontare questo nuovo scenario.

C’è un discorso di Adriano quando deve affrontare una crisi di mercato nel 1952 , un discorso che esprime bene il significato del ruolo di imprenditore verso le persone che collaborano assieme con lui all’obiettivo di crescita aziendale.

“Verso l’estate del 1952 la fabbrica attraversò una crisi di crescenza e di organizzazione … Fu quando riducemmo gli orari; le macchine si accumulavano nei magazzini di Ivrea e delle Filiali a decine di migliaia. L’equilibrio tra spese e incassi inclinava pericolosamente: mancavano ogni mese centinaia di milioni. A quel punto c’erano solo due soluzioni: diventare più piccoli, diminuire ancora gli orari, non assumere più nessuno; c’erano cinquecento lavoratori di troppo; taluno incominciava a parlare di licenziamenti. L’altra soluzione era difficile e pericolosa: instaurare immediatamente una politica di espansione più dinamica, più audace. Fu scelta senza esitazione la seconda via. In Italia furono assunti 700 nuovi venditori, fu ribassato il prezzo delle macchine, furono create nuove filiali…. Diciotto mesi dopo il pericolo di rimanere senza lavoro era ormai scongiurato.”

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C’è una espressione nel pensiero di Adriano Olivetti che mi ha sempre colpito “Per vivere occorre progettare” Tutta la sua vita è stata motivata, guidata da questa esigenza quasi ossessiva:

Progettare significa guardare avanti, pensare al futuro per innovare sempre,per crescere e creare ricchezza collettiva, per costruire valori destinati a restare vivi anche al di la della vita dell’impresa

Pensiamo invece quanto oggi sia difficile programmare, andare oltre al budget annuale o perfino mensile. Ma questa vista corta porta inesorabilmente al fallimento.

Adriano Olivetti non amava guardare indietro, guardare al passato. Preferiva guardare avanti ad un domani prossimo, non futuribile, un domani da costruire partendo oggi con una squadra secondo un progetto preciso.

A proposito del suo concetto di lavoro ecco cosa dice ai lavoratori di Pozzuoli nel 1955:

“Perché lavorando ogni giorno tra le pareti della fabbrica e le macchine e i banchi e gli altri uomini per produrre qualcosa che vediamo correre nelle vie del mondo e ritornare a noi in salari che sono poi pane,vino e casa, partecipiamo ogni giorno alla vita pulsante della fabbrica, alle sue cose più piccole e alle sue cose più grandi, finiamo per amarla, per affezionarci e allora essa diventa veramente nostra, il lavoro diventa a poco a poco parte della nostra anima, diventa quindi una immensa forza spirituale”.

Ed ancora sulla disoccupazione, ricorda l’ammonimento di suo padre Camillo, “la disoccupazione è la malattia mortale della società moderna; perciò ti affido una consegna: tu devi lottare con ogni mezzo affinché gli operai di questa fabbrica non abbiano da subire il tragico peso dell’ozio forzato, della miseria avvilente che si accompagna alla perdita del lavoro”

E Adriano poi aggiunge: “E il lavoro dovrebbe essere una grande gioia ed è ancora per molti tormento, tormento di non averlo, tormento di fare un lavoro che non serva e non giovi ad un nobile scopo”.

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Lavoro, persona, ambiente sociale, comunità di persone nella fabbrica e nel territorio, conoscenza, formazione, cultura. Una sintesi della concezione adrianea che è stata tradotta in una utopia concreta che ha prodotto sotto la sua guida negli anni 50 la più grande, bella e competitiva impresa italiana e un modello unico del lavoro, osteggiato da sindacati, politici e confederazioni industriali, legati a modelli di sfruttamento fordista.

E che vedevano in lui un nemico, un rivoluzionario, quando si chiedeva “Può l’industria darsi dei fini ?Si trovano semplicemente nell’indice dei profitti ? Non vio è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione , una vocazione anche nella vita della fabbrica ?”

Ho cercato di concentrare in sette valori olivettiani questo messaggio per dare a chi fa impresa, ma anche a chi vi lavora delle direzioni verso cui andare per affrontare questa grande mutazione del lavoro e soprattutto un aiuto ai giovani per costruire il loro futuro di lavoro.

Questi valori sono:

Visione del futuro, avere una ricerca ed una curiosità insaziabile e progettare sempre il futuro, non subirlo, non ancorarsi all’esistente, ma guardare avanti, sognare, avere vision.

Intelligenza che innova, porre al centro conoscenza, innovazione e decisione di cambiamento

Ricerca e libertà creativa, dare e avere spazio alla libertà di pensare , divenire una comunità di condivisone di idee e conoscenze

Cultura del cambiamento, non fermarsi mai ai risultati raggiunti, ma ripartire ogni giorno come fosse il primo, avere il coraggio di abbandonare quello che si sa per imparare il nuovo tutti i giorni della vita. Il cambiamento è l’unica certezza in un contesto di incertezza ma non bisogna avere paura.

Coscienza sociale, Non siamo delle isole ma degli arcipelaghi. Siamo responsabili a costruire il bene comune che ci ritorna moltiplicato mille volte. L’etica deve entrare in tutte le azioni, in tutti i lavori, in tute le imprese.

Forma, bellezza, tecnologia, la bellezza delle cose, delle idee cambia il mondo e rende felici. Tecnologia e bellezza stanno assieme nei prodotti, nell’attività degli artigiani. Adriano Olivetti esprime bene la sua visione di bellezza.

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“colui che prende il giusto cammino deve cominciare ad amare le bellezze della terra e progredire incessantemente (cioè innovare, creare il nuovo) verso l’idea della Bellezza stessa: dall’armonia delle forme a quella delle azioni, dalla perfezione delle azioni (l’impresa) a quella delle conoscenze (la società della conoscenza) per raggiungere infine quella ultima conoscenza che è la Bellezza in sé (la forma più alta della vita)”.

Apertura al mondo, il mondo oggi è aperto, non è un nemico, ma un alleato per costruire il nostro futuro di lavoro, mondo e ambiente locale stanno assieme, vi è una logica olivettiana del think global and act local.

Credo che se tutti fossimo convinti di seguire queste strade potremmo ridisegnare il percorso per il nostro lavoro del futuro già oggi.

Nel dopoguerra la ricostruzione del paese dalle macerie della guerra ha spinto tutti piccoli e grandi, pubblici e privati a darsi da fare per costruire, creare nuove attività arrivando sino a quello che venne chiamato il miracolo economico.

Oggi credo siamo di fronte a tante macerie che sono le aziende che chiudono, i giovani senza lavoro, la perdita di speranza di futuro e perfino di valori di una etica civile e sociale.

Occorre oggi ritrovare la volontà di ricostruire avendo però chiaro che è finito un ciclo, è finita una storia, ma questo richiede di affrontare un nuovo cammino caratterizzato da un grande cambiamento, forse una mutazione permanente senza più rendite di posizione, false illusioni e falsi privilegi.

Non riusciremo a creare come allora un altro miracolo economico, ma dobbiamo provarci e soprattutto dare ai giovani la speranza di futuro.

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