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GENNAIO-GIUGNO 2006 16 - delpt.unina.it · nale e diritto di partecipazione ... e del vescovo...

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GENNAIO-GIUGNO 2006

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RIVISTADI

STORIA FINANZIARIA

RIVISTA DEL CENTRO INTERUNIVERSITARIO DI RICERCAPER LA STORIA FINANZIARIA ITALIANA (CIRSFI)

NAPOLI – ARTE TIPOGRAFICA

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Direttore Responsabile: Francesco Balletta

Hanno collaborato a questo numero: Juan Hernàndez Andreu, Rosa Carrotta,Olindo De Napoli, Vittoria Ferrandino, Felice Fiorentino, Carmine Galloro, Alessan-dro Gnavi, Wanda Macrì, Stefania Manfrellotti, Franca Pirolo, Laura Storchi,Alberto Tanturri e Henrique Lucio Vasconcelos.

Indirizzo:“Rivista di Storia Finanziaria” – Sezione di Storia Economica “Corrado Barbagallo”del Dipartimento di Analisi dei Processi Economico-sociali, Linguistici, Produttivi eTerritoriali

via Cintia, 26 – Monte S. Angelo, 80126 NapoliTel. 081675267 oppure 0818472615 – Fax 081675353e-mail [email protected]

Autorizzazione del Tribunale Civile e Penale di Torre Annunziata (Na) n. 37 del 22gennaio 1997

Rivista giudicata di elevato valore culturale dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali ai sensi della legge del 5/8/1981 n. 416 (Lettera del3/4/2002, prot. n. 1196/43)La Rivista è pubblicata sul seguente sito: www.delpt.unina.it/storia finanziaria

Sulla copertina un dipinto di Carlo Montarsolo del 1991: Wall Street

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SOMMARIO

I. Saggi

A. TANTURRI, Il patrimonio fondiario della SS. Annunziata di Sulmona(1376-1861)

V. FERRANDINO, Una piccola cooperativa di credito nel Beneventano: laCassa di risparmi e prestiti di Vitulano fra le due guerre

J. H. ANDREU, El Banco de Menorca (1911-1952)C. GALLORO, Unternehmen an sich: La “impresa in sé” tra potere gestio-

nale e diritto di partecipazione

II. Dai convegni del CIRSFI

S. MANFRELLOTTI, Evoluzione del debito pubblico e formazione dei mer-cati finanziari in Italia fra età moderna e contemporanea

III.Centro Interuniversitario di ricerca per la storia finanziaria italiana(CIRSFI)- Relazione sull’attività scientifica nel 2005

IV. Recensioni

F. BALLETTA, Mercato finanziario, istituzioni e debito pubblico in Italianella seconda metà del Novecento, Dipartimento di Analisi dei pro-cessi economico-sociali, linguistici, produttivi e territoriali dell’Uni-versità di Napoli Federico II, Napoli, 2006 (FRANCA PIROLO)

F. LUCARELLI, La città e le periferie,Cangiano Grafica s.r.l., Napoli, 2006(HENRIQUE LUCIO VASCONCELOS)

M.G. RIENZO, Banchieri imprenditori nel Mezzogiorno. La Banca di Cala-bria, Donzelli Editore, Roma, 2004 (LAURA STORCHI)

E. CONZE – G. CORNI – P. POMBENI (a cura di), Alcide De Gasperi: unpercorso europeo, Il Mulino, Bologna, 2005 (WANDA MACRÌ)

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P. PECORARI (a cura di), L’Italia economica. Tempi e fenomeni del cambia-mento (1861-2000), Cedam, Padova, 2005 (OLINDO DE NAPOLI)

L. INCISA DI CAMERANA, Il grande esodo, Corbaccio, Milano, 2003(ALESSANDRO GNAVI)

L’industria chimica in Italia nel Novecento (a cura di Geoffrey J. Pizzor-ni), Franco Angeli, Milano, 2006 (ALESSANDRO GNAVI)

J.D. SACHS, La fine della povertà, Mondadori, Milano, 2005 (ALESSAN-DRO GNAVI)

M. FORNASARI, Finanza d’impresa e sistemi finanziari, Giappichelli, Tori-no, 2006 (ROSA CARROTTA)

V. Dalla copertina

VI. Libri ricevuti

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Il patrimonio fondiario della SS. Annunziata di Sulmona(1376 - 1861)

diALBERTO TANTURRI

1. Le origini dell’ospedale e le sue finalità istituzionali

Se l’esperienza di vari paesi europei nel settore dell’assistenza vede preva-lere, alternativamente, l’impronta laica o quella ecclesiastica, un elemento carat-teristico delle istituzioni assistenziali italiane di antico regime è la frequentecoesistenza di entrambe le matrici all’interno dei singoli enti caritativi1. Da unlato, tale ambivalenza appare l’effetto di uno sforzo comune, volto a contenerela pressione sociale dei fenomeni di pauperizzazione, che, in maniera del tuttoimprevedibile, potevano subire accentuazioni pericolose e drammatiche. Per unaltro verso, dato che molti istituti si trovarono a gestire patrimoni ingenti, sia intermini di beni immobili che di ricchezza mobiliare, il loro controllo consenti-va di esercitare ampi poteri: per questa ragione le cariche direttive furono pre-sto considerate fonti indiscusse di prestigio sociale. Agli originari intenti carita-tivi e filantropici vennero così sovrapponendosi istanze di controllo e gestionedi cospicui patrimoni, condivise tanto dagli esponenti del mondo laico cheecclesiastico. Le due anime si intrecciarono, in tal modo, nella direzione dei sin-

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1 Cfr. M. ROSA, Chiesa, idee sui poveri e assistenza in Italia dal Cinque al Settecento “Societàe storia” III(1980) n. 10, pp. 775-806, qui 780-781; G. MUTO, Forme e contenuti economici del-l’assistenza nel Mezzogiorno moderno: il caso di Napoli in G. POLITI – M. ROSA – F. DELLA PERU-TA (edd.) Timore e carità. I poveri nell’Italia moderna, Atti del convegno “Pauperismo e assisten-za negli antichi stati italiani” (Cremona 28-30 marzo 1980) “Annali della biblioteca statale e libre-ria civica di Cremona” XXVII-XXX (1976-1979) pp. 237-258, qui 243ss; A. PASTORE, Struttureassistenziali fra Chiesa e Stati nell’Italia della Controriforma in Storia d’Italia, Torino, Einaudi,1986, Annali, IX, pp. 431-465, qui 433-434; M. CAMPANELLI, Chiesa ed assistenza pubblica aNapoli nel Cinquecento in L. DE ROSA (ed.) Gli inizi della circolazione della cartamoneta e i ban-chi pubblici napoletani nella società del loro tempo (1540-1650), Napoli, Istituto Banco di Napoli,2002, pp. 143-168, qui 165-166.

I. SAGGI

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goli istituti, su uno sfondo talora di sintonia ma più spesso di concorrenzaquando non di aperto contrasto.

Quanto finora detto trova un preciso riscontro nel caso dell’ospedale dellaSS. Annunziata di Sulmona, che, fondato nel 1320, racchiude nel suo stessoatto d’origine i segni di un’ambigua natura che per lungo tempo ne avrebbecaratterizzato la storia. L’ospedale nacque infatti per l’iniziativa congiunta di unsodalizio laicale, la Confraternita dei Compenitenti, e del vescovo AndreaCapograssi, le cui origini salernitane e le riconosciute competenze in campomedico certamente concorsero ad incentivare i progetti assistenziali2. Per laverità, i poteri del presule sembrano, almeno in questa fase aurorale, prevalen-ti: gli ospedali erano del resto loci religiosi, e, come tali, soggetti alla giurisdi-zione dell’ordinario. Era dunque il vescovo che controllava l’amministrazione,approvava la nomina dei governatori, dirimeva le controversie, incentivava ilasciti dei benefattori privati. Il peso delle autorità ecclesiastiche nella vita delnascente istituto si accentuò peraltro nei mesi seguenti: nel gennaio 1321 l’o-spedale fu acquisito infatti dall’ordine dei Gerosolimitani o Cavalieri di S. Gio-vanni, depositari di una autorevole e già lunga tradizione nel campo della pub-blica assistenza3. Il controllo dei Gerosolimitani sull’ospedale non fu d’altraparte durevole, e senza dubbio si era già estinto nel 1372: sappiamo infatti che

2 L’atto di fondazione dell’Annunziata, rogato il 10 marzo 1320 dal notaio Barnaba Gual-tieri, è riprodotto integralmente in N. F. FARAGLIA, Codice diplomatico sulmonese (ed. G. PAP-PONETTI) Sulmona, Comune di Sulmona, 1988 (prima edizione: Lanciano, Carabba, 1888), pp.149-152. Cfr. anche C. ALICANDRI CIUFELLI, La Casa Santa dell’Annunziata di Sulmona. L’assi-stenza ai poveri e agli infermi, Roma, Istituto di Storia della medicina dell’Università di Roma,1960, p. 4ss. Sulla Confraternita dei Compenitenti si veda invece G. CELIDONIO, La diocesi diValva e Sulmona, Sulmona, La Moderna, s.d. (ristampa anastatica dell’edizione originale: Sul-mona, Tipografia Editrice Sociale, 1912) vol. IV, p. 115. Per altri casi di ospedali nati dall’ini-ziativa di confraternite di laici, cfr. G. VITOLO – R. DI MEGLIO, Napoli angioino-aragonese.Confraternite ospedali dinamiche politico-sociali, Salerno, Carlone, 2003, pp. 44, 80, 86-87. Ilvescovo Andrea Capograssi era stato allievo della Scuola medica salernitana, ed aveva assistito“medicinalis curis” persino Carlo, figlio del re di Sicilia Roberto d’Angiò: cfr K. EUBEL, Hie-rarchia catholica medii et recentioris aevi, Monasterii, Sumptibus et Typis Librariae Regensber-gianae, 1898, vol. I, p.543. Per alcuni cenni sul suo episcopato, si vedano F. UGHELLI, Italiasacra sive de episcopiis Italiae, Venetiis, Apud Sebastianum Coleti, 1717, vol. I, col. 1374; A.CHIAVERINI, La diocesi di Valva e Sulmona, Sulmona, Accademia cateriniana di Cultura, 1977,vol. V, pp. 43-52.

3 L’atto di soggezione dell’Annunziata all’ordine dei Gerosolimitani è analizzato in C. ALI-CANDRI CIUFELLI, La Casa Santa dell’Annunziata di Sulmona, cit., p. 10ss. Sui Gerosolimitani, siveda C. TOUMANOFF, Sovrano militare ospedaliero ordine di Malta in G. PELLICCIA – G. ROCCA

(edd.) Dizionario degli istituti di perfezione, cit., VIII (1988), coll. 1934-1944; G. DOTTI, Docu-menti della Biblioteca nazionale di Valletta per la storia dei Gerosolimitani “Rassegna degli Archi-vi di Stato” 43(1983) pp. 21-31; G. VITOLO – R. DI MEGLIO, Napoli angioino-aragonese. Confra-ternite ospedali dinamiche politico-sociali, cit., pp. 84-86.

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a quella data il governo dell’istituto era affidato a quattro amministratori laicieletti dall’università, e che tale sistema vigeva da lungo tempo4.

L’eterogeneità delle forze sociali che diedero vita all’istituto non inficiòd’altra parte la coerenza del progetto assistenziale che trovava espressione inesso. Come tutti gli ospedali coevi, anche quello sulmonese nacque “pro sub-stentatione pauperum et infirmorum”5, coniugando dunque ad una funzionepropriamente terapeutica un ruolo assistenziale che si sarebbe estrinsecato invarie e molteplici forme di carità. L’iniziativa della fondazione si prefisse inoltrelo scopo di creare un ente ben organizzato, finanziariamente solido, che potes-se dare una risposta valida ai crescenti bisogni della popolazione urbana e rura-le, afflitta da ricorrenti fenomeni di pauperizzazione. Fino al 1320, la pubblicaassistenza, in ambito locale, si presentava frammentata in una serie di piccolestrutture con limitate potenzialità ricettive. Le fonti attestano la presenza di treospedali urbani (S. Agata, S. Panfilo e S. Antonio de Vienda) e di due al difuori delle mura (S. Giacomo della Forma e S. Maria di Roncisvalle). Nonabbiamo ulteriori notizie su questi istituti, ma si trattava verosimilmente distrutture di modeste dimensioni, in cui operava personale scarso e poco quali-ficato, e con una capacità ricettiva limitata a pochissimi degenti6. Si aveva inessi, inoltre, quella promiscuità funzionale a cui abbiamo accennato: oltre amalati veri e propri, essi ospitavano viandanti, pellegrini e marginali di ognisorta. L’ospedale dell’Annunziata nacque invece con un profilo più elevato:nella sua erezione furono infatti coinvolte la massima autorità religiosa cittadi-na e una confraternita laicale da tempo operante nel settore della pubblicabeneficenza. L’ospedale, inoltre, prima ancora di assumere le forme monumen-tali che avrebbe acquisito a partire dal XV secolo, sorgeva già nel cuore del cen-tro abitato, lungo la principale via cittadina, quasi a suggellare simbolicamenteil suo ruolo istituzionale autorevole e prestigioso7.

4 Cfr. in proposito una bolla del vescovo della Sabina Filippo Cardia, legato a latere dellaSede apostolica per il Regno di Sicilia citra et ultra farum, datata 24 maggio 1372, riprodotta inN. F. FARAGLIA, Codice diplomatico sulmonese, cit., p. 152ss.

5 Ibidem.6 Sugli antichi ospedali sulmonesi, cfr. G. CELIDONIO, La diocesi di Valva e Sulmona, cit.,

vol. I, p. 146; vol. IV, pp. 118-139; C. ALICANDRI CIUFELLI, Ospedalità a Sulmona, Roma, Istitutodi Storia della medicina dell’Università di Roma, 1960; E. MATTIOCCO, Struttura urbana e societàdella Sulmona medievale, Sulmona, Labor, 1978, pp. 41-42 e 81-82; ID., Sulmona. Città e contadonel catasto del 1376, Pescara, Carsa, 1994, pp.134-135.

7 Sulla collocazione degli ospedali nel centro delle città (non di rado accanto al palazzomunicipale o nella piazza principale) cfr. M. BERENGO, L’Europa delle città. Il volto della societàurbana europea tra Medioevo ed Età moderna, Torino, Einaudi, 1999, pp. 615-616; E. DIANA, Ilpatrimonio immobiliare cittadino dell’ospedale di Santa Maria Nuova di Firenze tra XIV e XV seco-lo “Archivio storico italiano” CLXI (2003) pp. 425-454, qui 426. Sugli aspetti architettonici del-

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Sotto il profilo patrimoniale, d’altronde, l’istituto cominciò ben presto adaccumulare ingenti risorse, tanto da risultare già molto ricco nel 1372, a distanzadi pochi decenni dalla sua fondazione8. Tale incremento era imputabile soprat-tutto alle oblazioni e ai lasciti dei fedeli che in gran numero frequentavano lachiesa, grazie alle indulgenze opportunamente concesse dalle autorità ecclesiasti-che9. A queste ultime si sovrapposero poi parallele concessioni da parte dei pote-ri laici, che sarà opportuno richiamare brevemente. Il 3 agosto 1442, Alfonso Id’Aragona accordò in perpetuo l’esenzione della chiesa e dell’ospedale da ogniimposta di qualunque genere, tanto ordinaria quanto straordinaria10. Il 16 ottobre1484, Giovanna I d’Aragona autorizzò la cessione all’ente della ricca eredità diJorio di Antonello, ponendo alcuni vincoli per l’utilizzo delle relative somme, edonò all’ente stesso la chiesa di S. Sebastiano, (oggi S. Rocco) sita nella piazzamaggiore della città11. Il 18 marzo 1495, infine, il sovrano francese Carlo VIII diValois, all’indomani della sua effimera e contrastata invasione del Regno di Napo-li, e nel contesto di una serie di Capitoli di grazie in favore della città, esentò tuttoil patrimonio armentizio della SS. Annunziata dal pagamento della fida, ossia del-l’affitto annuale che i proprietari di pecore dovevano pagare alla Dogana di Fog-gia per il pascolo nel Tavoliere nei mesi invernali12.

l’Annunziata, considerata uno dei più significativi esempi di architettura civile nel Quattrocentomeridionale, cfr. P. PICCIRILLI, Monumenti abruzzesi. Il palazzo della SS. Annunziata in Sulmona“Rassegna d’arte” luglio-agosto 1919 (ristampa anastatica dell’estratto, S. Giovanni in Persiceto,Farap, 1985); R. GIANNANTONIO, Il palazzo della SS. Annunziata in Sulmona, Pescara, Carsa,1996; ID., La SS. Annunziata di Sulmona nella letteratura architettonica, S. Salvo, (CH) Di Rico,s.d., nonché le originali osservazioni di U. OJETTI, Una settimana in Abruzzo nell’anno 1907, Cer-chio, (AQ) Polla, 1999, p. 69.

8 Cfr. il documento citato alla nota 4, secondo cui la chiesa dell’Annunziata “in magnis red-ditibus, proventibus et emolumentis abundat”.

9 Tra queste, va ricordata l’indulgenza speciale concessa l’8 agosto 1382 da Urbano VI aifedeli che avessero visitato la chiesa nel giorno di Natale. Sempre Urbano VI, con due lettere del19 e 23 novembre 1382, autorizzava l’abate della badia celestiniana di S. Spirito a pronunciare lascomunica contro i detentori di beni dell’Annunziata che si rifiutavano di restituirli: cfr. A. CHIA-VERINI, La diocesi di Valva e Sulmona, cit., vol. V, rispettivamente pp. 207 e 212.

10 Cfr. N. F. FARAGLIA, Codice diplomatico sulmonese, cit., p. 336. Per alcuni esempi di esen-zioni fiscali concesse alle opere pie, cfr. I. PASTORI BASSETTO, Fiscalità e opere pie a Padova neisecoli XVI-XVIII in A. PASTORE – M. GARBELLOTTI (edd.) L’uso del denaro. Patrimoni e ammini-strazione nei luoghi pii e negli enti ecclesiastici in Italia (secoli XV-XVIII) Bologna, Il Mulino,2001, pp. 63-88.

11 La sovrana subordinava il suo generoso gesto alla condizione che i frutti dell’eredità venis-sero impiegati in opere di beneficenza “et non in cose vane come sono correre de palii, piferi,trompecti et altri soni”: cfr. E. MATTIOCCO, La giostra cavalleresca di Sulmona, Sulmona, Comune diSulmona, 1985, p. 30. Il coinvolgimento dell’Annunziata nell’organizzazione delle antiche giostrecittadine suona peraltro come indiretta conferma delle sue ragguardevoli disponibilità economiche.

12 Cfr. C. ALICANDRI CIUFELLI, La Casa Santa dell’Annunziata di Sulmona, cit., pp. 14-15.

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L’incremento patrimoniale goduto dalla SS. Annunziata attribuì ad essa unruolo ormai preminente nel sistema ospitaliero cittadino. Di ciò testimoniaanche l’incorporazione al pio istituto della chiesa ed ospedale di S. Maria diRoncisvalle, compiuta con un breve papale del 9 agosto 1392. Tale episodio siinscriveva in quel diffuso fenomeno di fusione in un solo ospedale grande divari piccoli istituti, che costituisce uno dei più qualificanti aspetti della storiaospitaliera del Tre e Quattrocento. Nel caso concreto, esso garantiva alla SS.Annunziata maggiori disponibilità economiche, ponendola in condizione disvolgere un’assistenza più efficiente e diversificata13. Alle originarie, e mai ab-bandonate, funzioni nosocomiali andarono infatti aggiungendosi varie altre ini-ziative. Nel 1489 venne istituito un Monte frumentario, con cui la SS. Annun-ziata si apriva alle esigenze dei ceti rurali, perpetuamente esposti al rischio dellafame per effetto di calamità o di raccolti scarsamente favorevoli14. Nel 1532 fuaperto un brefotrofio, per dare una risposta all’increscioso fenomeno dell’ab-bandono di neonati, le cui proporzioni erano in preoccupante crescita15. Acomplemento di tale iniziativa, nel 1630 fu inaugurato il conservatorio dei SS.Cosimo e Damiano, che trovò sede in un edificio adiacente, destinato ad acco-gliere le ragazze esposte dalla prima adolescenza fino al matrimonio16. Nel1628, infine, grazie al lascito della nobildonna Ippolita del Conchione, l’An-nunziata aprì una pubblica scuola con lo scopo di impartire l’istruzione ele-mentare ai figli dei ceti meno abbienti17.

13 Sull’incorporazione della chiesa di S. Maria di Roncisvalle all’Annunziata, cfr. A.CHIAVE-RINI, La diocesi di Valva e Sulmona, cit., vol. V, pp. 224-226; E. MATTIOCCO, Struttura urbana esocietà della Sulmona medievale, cit., p. 81. Sulle “concentrazioni” ospedaliere, premessa di unapiù vasta riforma dell’assistenza, cfr. G. COSMACINI, Storia della medicina e della sanità in Italiadalla peste europea alla guerra mondiale 1348-1918, Bari, Laterza, 1987, p. 53ss; A. PASTORE, Gliospedali in Italia fra Cinque e Settecento: evoluzione, caratteri, problemi in M. L. BETRI – E. BRES-SAN (edd.) Gli ospedali in area padana fra Settecento e Novecento, Atti del III Congresso italianodi storia ospedaliera. Montecchio Emilia, 14-16 marzo 1990, Milano, Angeli, 1992, pp. 71-87, qui71; ID., Usi ed abusi nella gestione delle risorse (secoli XVI- XVII) in A. PASTORE – M. GARBEL-LOTTI (edd.) L’uso del denaro, cit., pp. 17-40, qui 17. Per i risvolti urbanistici di tale fenomeno,cfr. M. BERENGO, L’Europa delle città. Il volto della società urbana europea tra Medioevo ed Etàmoderna, cit., pp. 608-609.

14 Gli statuti del Monte frumentario furono redatti dal conventuale Andrea da Faenza, chefondò a Cremona nel 1493 un’istituzione analoga: cfr. G. PANSA, I primitivi capitoli del Montedella Pietà del Grano di Sulmona, Firenze, Tipografia della Pia Casa di Patronato, 1890, p.6.

15 Cfr. A. TANTURRI, L’infanzia abbandonata a Sulmona nel XVIII secolo, “Ricerche di storiasociale e religiosa” XXXII (2003) n. 64, pp. 149-179.

16 Cfr. R. CARROZZO, Carità ed assistenza pubblica a Sulmona. Il conservatorio di san Cosimo,Sambuceto (CH), Brandolini, 2005.

17 Cfr. E. MATTIOCCO, L’insegnamento pubblico a Sulmona nel XVI e XVII secolo “Bulletti-no della Deputazione abruzzese di storia patria” LXXII (1982), pp.279-299; A. TANTURRI, La

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Nel quadro di una più ampia indagine sulla struttura patrimoniale dell’isti-tuto sulmonese, il presente lavoro si pone l’obiettivo di metterne a fuoco il pos-sesso fondiario. In particolare, si cercherà di valutare l’estensione dei terrenidell’Annunziata e la sua evoluzione nel tempo, i modi di gestione dei fondi, laricchezza che producevano e l’incidenza di quest’ultima sulla rendita globale.

2. Estensione del possesso fondiario: evoluzione storica

Il primo nucleo di beni fondiari dell’Annunziata si era già costituito adistanza di pochi decenni dalla sua fondazione. Come può infatti rilevarsi dalcatasto sulmonese del 1376, (si veda la tabella I) i terreni dell’istituto coprivanoa quella data una superficie complessiva di 19,95 ettari18. Il possesso era frazio-nato in 28 unità colturali, con un’estensione media di 0,71 ettari. Più in detta-glio, come può evincersi dalla tabella II, il 50% dei terreni aveva una grandez-za fino ad un ettaro, solo il 17,86% arrivava a due, e la restante, esigua porzio-ne superava tale misura. Il dato più evidente è pertanto quello della frammen-tazione della proprietà in numerose particelle di piccole dimensioni. Poiché tut-tavia non siamo informati sulle modalità di acquisizione dei terreni, (non sap-piamo cioè in che misura essi derivassero da donazioni o da atti di compraven-dita) non possiamo neppure stabilire se ciò fosse il risultato di una scelta gestio-nale o il casuale esito di una serie di lasciti. Quanto poi all’ubicazione dei ter-reni, può notarsi come essi fossero situati tutti nelle immediate adiacenze dellacittà, con una maggiore concentrazione nell’area a settentrione, in contradequali “le Cerqueta”, “plana Sancti Felicis” e “Baracta” (verso Pratola Peligna)

pubblica istruzione a Sulmona in età moderna “Annali di storia dell’educazione e delle istituzioniscolastiche” 13 (2006), in corso di pubblicazione.

18 Cfr. Museo Civico di Sulmona, Catastum bonorum omnium stabilium hominum civitatis Sul-mone [1376], cc. 612-613. Ringrazio il direttore del museo, dottor Ezio Mattiocco, per avermi con-sentito la consultazione del catasto. Le unità di misura utilizzate in tale fonte, così come in tutti icabrei che abbiamo esaminato, sono quelle anticamente vigenti nella zona, e tuttora in uso fra gliagricoltori: l’opera, suddivisa in 16 centenara, e questa a sua volta in 100 viti. Vale la pena notarecome le unità di misura della valle Peligna, a differenza di quelle in uso nel resto dell’aquilano, sianomodellate sullo spazio necessario alla coltivazione della vite, che è da sempre la coltura prevalentenella zona: cfr. L. SUSII, Memoria sulla viticoltura nella vallata di Solmona, in Atti della Giunta per laInchiesta Agraria sulle condizioni della classe agricola, vol. XII, fasc. II, Roma, Forzani e C. Tipografidel Senato,1885, pp. 39-48, qui 39. Quanto poi alle equivalenze di tali misure con quelle metricodecimali, si tenga presente che un’opera equivale a 0,2422 ettari: cfr. Circondario di Solmona – Qua-dro di ragguaglio delle misure secondo il sistema metrico decimale colle antiche legali ed abusive già inuso nei comuni del circondario, Torino, Dalmazzo, 1863. Sulla persistenza, in molte zone della peni-sola, delle unità di misura predecimali, cfr. U. TUCCI, Pesi e misure nella storia della società in Storiad’Italia, I documenti, V/1, Torino, Einaudi, 1973, pp. 583-612, qui 585.

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nonché ad oriente, in località “alli Paduli” (nei pressi delle Marane) e “de Veti-tu” (ai confini tra Sulmona e Pacentro)19.

Per avere una nuova rilevazione analitica, dobbiamo fare un salto di duesecoli, e arrivare al 157620. A quella data, il patrimonio fondiario ha subito unconsiderevole incremento, avendo raggiunto i 109,62 ettari. Permane tuttavia ildato della frammentazione, giacché il possesso risulta suddiviso in 77 particelleaventi un’estensione media di 1,42 ettari. Ancora una volta (si veda la tabella III)

19 Per l’individuazione topografica di tali contrade, si consulti utilmente E. MATTIOCCO, Sul-mona. Città e contado nel catasto del 1376, Pescara, Carsa, 1994, pp. 227-246.

20 Cfr. Sezione Archivio di Stato di Sulmona (d’ora in avanti SASS), Catasto delle chiese etforastieri [sec. XVI], cc. 3r-5v. La datazione esatta di tale catasto non è nota: la data del 1534,annotata in tempi recenti sul risguardo del codice è solo congetturale. Fermo restando che lacompilazione originaria di esso risale senza dubbio alla prima metà del XVI secolo, per ciò checoncerne l’Annunziata, mani diverse da quelle del primo estensore hanno aggiunto nel corsodegli anni i nuovi acquisti di case e terreni, annotandone talora la data di acquisizione. Poichél’ultima di tali aggiunte risale al 1576, si può supporre con fondatezza che il catasto descriva lasituazione patrimoniale dell’istituto in tale anno.

Anno Estensione complessiva Numero delle proprietà Estensione media(in ettari) (in ettari)

1376 119,95* 28 0,711576 109,62* 77 1,421619 229,43* 104 2,201702 486,66* 218 2,231744 567,92* 240 2,361790 559,58* 400 1,39

Tabella I - Estensione dei fondi rustici dell’Annunziata

Fonti: Museo Civico di Sulmona, Catastum bonorum omnium stabilium [1376]; SASS, Archivio Civico Sul-monese, Catasto delle chiese et forastieri [sec. XVI]; SASS, ACSA, Registri, n. 25 [1619 e 1702]; SASS, ACSA,Registri, n. 27 [1744]; SASS, ACSA, Registri, n.11 [1790].* Il dato non comprende il territorio denominato Villaneto, sulle pendici del monte Morrone (esteso 836,16ettari) né il feudo delle Carceri presso Pescocostanzo e la posta della Paglia sul Tavoliere (estesi rispettiva-mente 553,72 ettari e 1.112,31 ettari) che non avevano uso agricolo, ma erano utilizzati dalla SS. Annunziatacome pascolo per i propri armenti.

Classi in ettari Numero delle proprietà Percentuale sulla superficie totale0-1 14 50,00

1,1-2 5 17,862,1-3 1 3,57

oltre 3,1 1 3,57Totale 28 100,00

Tabella II - I fondi rustici dell’Annunziata per classi di estensione (1736)

Fonti: Museo Civico di Sulmona, Catastum bonorum omnium stabilium [1376].

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la maggioranza dei terreni (il 67,53%) presenta una superficie inferiore o ugua-le ad un ettaro, una parte più esigua (pari complessivamente al 18,18%) si atte-sta su dimensioni di due-tre ettari, mentre il 14,29% ha una grandezza superio-re ai tre ettari. Pur restando dunque la parcellizzazione del possesso il dato piùevidente, può notarsi come l’Annunziata abbia acquisito anche terreni di dimen-sioni più ampie, distribuiti in maniera indifferenziata nei dintorni del centro abi-tato. Tra essi spiccano una proprietà di 8,7 ettari nella zona nord, lungo la viaper la badia celestiniana di S. Spirito, un’altra di quasi 8 ettari a sud-est, lungo lavia per Cansano, e un’altra di 6,2 ettari ad oriente, nella contrada Aroto.

Nei quattro decenni circa compresi fra il 1576 e il 1619, data della successi-va rilevazione pervenutaci, il patrimonio rurale dell’Annunziata aumenta in misu-ra assai considerevole, giungendo ad un’estensione di 229,43 ettari21. Si tratta diun fenomeno spiegabile, almeno in parte, con l’elevato prezzo dei cereali che con-trassegna nel suo complesso tale periodo, e il correlativo incremento degli affitti,che, come vedremo, costituivano il prevalente sistema di conduzione adottatodall’istituto22. Si può pertanto ipotizzare che la favorevole congiuntura di merca-

21 Cfr. SASS, Archivio Casa Santa dell’Annunziata (d’ora in avanti ACSA), Registri, n. 25,pp. 24-96.

22 Cfr. per gli aspetti generali B. H. SLICHER VAN BATH, Storia agraria dell’Europa occidentale(500 – 1850), (traduzione italiana) Torino, Einaudi, 1972, pp. 275-288. Sulla fase espansiva che l’a-gricoltura meridionale attraversa tra il 1560 e il 1620, cfr. G. GALASSO, Strutture sociali e produttive,assetti colturali e mercato dal secolo XVI all’Unità in A. MASSAFRA (ed.) Problemi di storia delle cam-pagne meridionali nell’età moderna e contemporanea, Bari, Dedalo, 1981, pp. 159-172, qui 160.

Classi in ettari Numero delle proprietà Percentuale sulla superficie totale0-1 52 67,53

1,1-2 9 11,692,1-3 5 6,49

oltre 3,1 11 14,29Totale 77 100,00

Tabella III - I fondi rustici dell’Annunziata per classi di estensione (1576)

Fonti: SASS, Archivio Civico Sulmonese, Catasto delle chiese et forastieri [sec. XVI].

Classi in ettari Numero delle proprietà Percentuale sulla superficie totale0-1 59 56,73

1,1-2 17 16,352,1-3 10 9,62

oltre 3,1 18 17,30Totale 104 100,00

Tabella IV - I fondi rustici dell’Annunziata per classi di estensione (1619)

Fonti: SASS, ACSA, Registri, n. 25.

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to abbia suggerito agli amministratori pro tempore di incrementare gli investi-menti nel settore, attraverso l’acquisizione di nuovi terreni. Siamo inoltre in gradodi affermare che molti dei nuovi fondi avevano dimensioni medio-grandi, tanto èvero che l’estensione media dei terreni passa da 1,42 ettari del 1576 a 2,20 del1619. Le nuove unità colturali erano talora limitrofe a terreni già posseduti, la cuisuperficie veniva così ampliata, ma in altri casi collocate in aree nelle quali l’An-nunziata non aveva alcun possesso. Ampliamenti si hanno nei casi delle citateproprietà lungo la strada per S. Spirito, che raggiunge i 18,4 ettari, e lungo la viaper Cansano, che arriva a 13,07 ettari. Tra gli acquisti in zone originariamentesguarnite, spicca per le sue dimensioni una terra in contrada l’Isola, a sud del cen-tro abitato, di circa 13 ettari. Complessivamente, le proprietà del luogo pio con-tinuavano ad essere disseminate in numerose contrade, pur restando entro i limi-ti del territorio sulmonese, al punto che è estremamente difficile individuare lezone di più diffusa presenza. Anche questo è probabilmente il frutto di una pre-cisa scelta gestionale: acquisendo terreni in aree diverse, e conseguentemente condifferenti destinazioni culturali, l’istituto si proteggeva da eventuali congiunturenegative che potessero colpire questo o quel prodotto. Nei casi, inoltre, in cuil’affitto era corrisposto in natura, tale scelta poteva garantire all’Annunziata unrifornimento di derrate alimentari il più vario possibile23.

Il successivo inventario dei terreni, risalente al 1702, pone in evidenza unnuovo balzo in avanti del possesso fondiario, che giunge ad un’estensione com-plessiva di 486,66 ettari24. Per la prima volta, inoltre, notiamo che l’ubicazione

23 Cfr. F. LANDI, Introduzione in ID. (ed.) Accumulation and dissolution of large estates of theregular clergy in early modern Europe, 12th International Economic History Congress, Madrid 24-28 August 1998, Rimini, Guaraldi, 1999, pp. 15-24, qui 21; A. GIACOMELLI, Monasteri bolognesi,ivi, pp. 283-328, qui 323.

24 Cfr. SASS, ACSA, Registri, n. 25. Secondo M. Rosa, nel periodo compreso tra la fine del‘600 e l’inizio del secolo successivo, nonché negli anni che precedono il Concordato del 1741, siintensifica la compilazione di platee da parte degli enti ecclesiastici, allo scopo di chiarire i titolidi proprietà e ricostituire le rendite: cfr. M. ROSA, Sviluppo e crisi della proprietà ecclesiastica:Terra di Bari e Terra d’Otranto nel Settecento in P. VILLANI (ed.) Economia e classi sociali in Puglianell’età moderna, Napoli, Guida, 1974, pp. 61-86, qui 71-72. Sull’importanza della fonte plateale

Classi in ettari Numero delle proprietà Percentuale sulla superficie totale0-1 137 62,84

1,1-2 28 12,842,1-3 18 8,26

oltre 3,1 35 16,06Totale 218 100,00

Tabella V - I fondi rustici dell’Annunziata per classi di estensione (1702)

Fonti: SASS, ACSA, Registri, n. 25.

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dei terreni non è più limitata al territorio sulmonese, ma tocca comuni limitro-fi come Pacentro, Cansano, Bugnara e Pentima, seppure in una quota che supe-ra di poco il 10% della superficie complessiva dei terreni dell’istituto (si veda latabella VI). Questa nuova espansione è tanto più sorprendente se si considera

per lo studio del patrimonio degli enti ecclesiastici, cfr. F. GAUDIOSO, I testamenti a favore dellaChiesa, in U. DOVERE (ed.) Chiesa e denaro tra Cinquecento e Settecento. Possesso, uso, immagine,Atti del XIII Convegno di studio dell’Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa,Aosta 9-13 settembre 2003, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 2004, pp. 153-172, qui 155.

25 Cfr. B. H. SLICHER VAN BATH, Storia agraria dell’Europa occidentale, cit., pp. 289-307; E.SERENI, Agricoltura e mondo rurale in Storia d’Italia, Torino, Einaudi, 1972, vol. I, pp. 135-252,qui 205-213. Per i riflessi di tale congiuntura sfavorevole sul paesaggio agrario, cfr. ID., Storia delpaesaggio agrario italiano, Bari, Laterza, 1961, pp. 235-283. Per alcuni sondaggi in ambito meri-dionale, cfr. L. MASELLA, Appunti per una storia dei contratti agrari in Terra di Bari tra XVII eXVIII secolo in P. VILLANI (ed.) Economia e classi sociali nella Puglia moderna, cit., pp. 113-145,qui 123-126; A. MUSI, Il Principato citeriore nella crisi agraria del XVII secolo in A. MASSAFRA

(ed.) Problemi di storia delle campagne meridionali, cit., pp. 173-188. Sulla stagnazione demogra-fica di Sulmona durante il XVII secolo, cfr. E. MATTIOCCO, Sulmona in U. RUSSO – E. TIBONI

(edd.) L’Abruzzo dall’Umanesimo all’età barocca, Pescara, Ediars, 2002, pp. 559-578, qui 574-578.26 Cfr. M. SPEDICATO, Fasi congiunturali e gestione dei patrimoni monastici nel Regno di

Napoli in età moderna (secc. XVII – XVIII) in F. LANDI (ed.) Accumulation and dissolution of largeestates of the regular clergy in early modern Europe, cit., pp. 391- 407, qui 398.

Luogo Numero delle proprietà Ettari Percentuale sulla superficie totaleSulmona 149 436,58 89,71Pacentro 19 3,94 0,81Cansano 27 27,81 5,71Bugnara 18 9,82 2,02Pentima 5 8,51 1,75Totale 218 486,66 100,00

Tabella VI - Ubicazione dei fondi rustici dell’Annunziata (1702)

Fonti: SASS, ACSA, Registri, n. 25.

che essa si verifica in un periodo di stagnazione demografica e di recessionedell’agricoltura. In particolare, i bassi prezzi dei cereali provocano indiretta-mente un ribasso dei canoni d’affitto e una crescita dei pagamenti arretrati,rendendo meno conveniente l’investimento nella terra25. Se, pur in presenza dicondizioni così sfavorevoli, l’Annunziata aumenta il proprio possesso fondia-rio, ciò si deve probabilmente al fatto che anche forme alternative di investi-mento, nel contesto della crisi economica e finanziaria che il Regno attraversa,si fanno meno redditizie. In particolare, la svalutazione della rendita prove-niente dai censi, collegata ad un aumento del tasso di inesigibilità, rende anchetale fonte di guadagno alquanto aleatoria26. Quanto agli effetti dei bassi prezzi

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dei cereali, può ipotizzarsi che gli amministratori del luogo pio abbiano cercatodi limitarne i danni incrementando la superficie adibita alla vite o a colture orti-cole, ipotesi autorizzata dal silenzio della fonte plateale sulla destinazione col-turale dei terreni. Si può inoltre notare come a fronte del rilevante incrementodella superficie posseduta, rimanga praticamente invariata l’estensione mediadei fondi, che passa da 2,20 ettari del 1619 a 2,23. Altrettanto immutate sono laprevalenza numerica dei terreni di dimensioni inferiori o uguali ad un ettaro,pari al 62,84%, e la minore incidenza di quelli di ampiezza media o grande.

Una nuova rilevazione si ha nel 1744, e da essa emerge ancora una voltaun’espansione della proprietà rurale, ascesa a 567,92 ettari27. Le acquisizioni piùimportanti vengono compiute nel contado sulmonese: i terreni compresi in taleambito passano infatti da 436,58 ettari del 1702 a 507,90 (si veda la tabellaVIII), ma anche le proprietà dei comuni limitrofi lasciano registrare lievi incre-

27 Cfr. SASS, ACSA, Registri, n. 27, pp. 1-170. Non sono inclusi in tale cifra il territoriodenominato Villaneto, sulle pendici del Monte Morrone (esteso 836,16 ettari) né il feudo delleCarceri presso Pescocostanzo e la posta della Paglia sul Tavoliere (estesi rispettivamente 553,72ettari e 1.112,31 ettari) che non avevano uso agricolo, ma erano utilizzati dalla SS. Annunziatacome pascolo per i propri armenti. Non è altresì incluso il feudo di Ramatola presso Manfredo-nia (esteso 471,63 ettari) che sebbene concesso in enfiteusi perpetua all’Annunziata, era tuttaviaposseduto dal monastero dei celestini di Monte S. Angelo.

Classi in ettari Numero delle proprietà Percentuale sulla superficie totale0-1 147 61,25

1,1-2 31 12,922,1-3 19 7,92

oltre 3,1 43 17,91Totale 240 100,00

Tabella VII - I fondi rustici dell’Annunziata per classi di estensione (1744)

Fonti: SASS, ACSA, Registri, n. 27.

Luogo Numero delle proprietà Ettari Percentuale sulla superficie totaleSulmona 162 507,90 89,43Pacentro 21 4,80 0,85Cansano 28 28,42 5,00Bugnara 24 14,45 2,54Pentima 4 9,62 1,69

Pettorano 1 2,73 0,49Totale 240 567,92 100,00

Tabella VIII - Ubicazione dei fondi rustici dell’Annunziata (1744)

Fonti: SASS, ACSA, Registri, n. 27.

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menti. Ai possessi di Pacentro, Cansano, Bugnara e Pentima si aggiunge inoltreun terreno di 2,73 ettari a Pettorano. Anche tale incremento lascia alquantosorpresi, giacché si verifica in una fase in cui perdura una grave depressioneagricola. Si aggiunga che la zona viene colpita nel 1706 da un disastroso sismache produce molte vittime (circa un migliaio nella sola Sulmona) determinandoun ulteriore spopolamento rurale, l’abbandono di molti campi e la conseguen-te difficoltà di reperire affittuari28. Anche in questo caso, tuttavia, la spiegazio-ne dell’incremento può essere individuata nella mancanza di valide alternativeall’investimento fondiario. Alla scarsa convenienza dell’acquisto di censi siaggiunge la difficile praticabilità, dopo il terremoto, dell’acquisto di immobiliad uso abitativo o commerciale, per il grave depauperamento del patrimonioedilizio. La crescita dell’estensione dei terreni non altera, d’altronde, la fisiono-mia del patrimonio fondiario. Come può evincersi dalla tabella VII, rimaneinfatti costante la grandezza media delle singole particelle, pari a 2,36 ettari,nonché la proporzione fra il numero dei terreni di grandezza pari o uguale adun ettaro (che ammontano al 61,25%), quelli di due-tre ettari (pari al 20,84%complessivamente) e quelli superiori ai tre ettari (il 17,91%).

Un nuovo inventario dei terreni risale al 1790, ed evidenzia stavolta unariduzione, seppur molto lieve, della proprietà fondiaria dell’istituto. Dai 567,62ettari del 1744 si passa infatti a 559,5829. Il decremento proporzionalmentemaggiore si ha proprio nell’ambito del contado sulmonese, mentre situazioni

28 Sugli effetti del sisma del 1706, cfr. Distinta relazione del danno cagionato dal tremuotosucceduto a dì 3 di novembre 1706 secondo le notizie venute a questo eccellentissimo signor Vicerémarchese di Vigliena, Napoli, Bulifoni, 1706; I. DI PIETRO, Memorie storiche della città di Solmo-na, Napoli, Raimondi, 1804, pp. 356-359. Sotto il profilo demografico, si consideri che la popo-lazione cittadina, che nel 1669 ascendeva a 751 fuochi, nel 1732 raggiunge appena i 636: cfr. I.ZILLI, Imposta diretta e debito pubblico nel Regno di Napoli 1669-1737, Napoli, Edizioni Scienti-fiche Italiane, 1990, p.240. Per una più ampia valutazione delle conseguenze del terremoto sullastruttura demografica sulmonese, cfr. E. MATTIOCCO, Sulmona in U. RUSSO – E. TIBONI (edd.)L’Abruzzo nel Settecento, Pescara, Ediars, 2000, pp.351-374.

29 Cfr. SASS, ACSA, Registri, n. 11, Libro mastro della Real Chiesa e Sacro Ospedale d’A.G.P.di Solmona.

Classi in ettari Numero delle proprietà Percentuale sulla superficie totale0-1 324 81,00

1,1-2 35 8,752,1-3 12 3,00

oltre 3,1 29 7,25Totale 400 100,00

Tabella IX - I fondi rustici dell’Annunziata per classi di estensione (1790)

Fonti: SASS, ACSA, Registri, n. 11.

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stazionarie o in lieve crescita si registrano per i possessi di Cansano, Bugnara ePettorano (si osservi la tabella X). Le proprietà di Pentima e Pacentro appaio-no liquidate, ma la loro scomparsa è compensata dall’acquisizione di sette pic-coli terreni a Cocullo e di un vasto appezzamento a Tocco, adibito, come vedre-mo più dettagliatamente in seguito, alla coltura dell’olivo. L’assestamento delpatrimonio rurale dell’Annunziata si spiega con i limiti posti dal riformismoborbonico all’incremento dei beni degli enti ecclesiastici, culminanti con lalegge di ammortizzazione del 176930. In seguito a tale provvedimento, il luogopio si era vista preclusa la via dell’investimento in beni stabili, tradizionalmentepraticata fino ad allora, indirizzando le proprie risorse verso altri sbocchi31. Un

30 Cfr. M. ROSA, Il giurisdizionalismo borbonico a Napoli nella seconda metà del Settecento“Società e storia” XIV (1991) n.51, pp.53-76; O. MAZZOTTA – M. SPEDICATO, Dispersione e dis-soluzione del patrimonio ecclesiastico in antico regime: il caso della Terra d’Otranto (1650-1861) inF. LANDI (ed.) Accumulation and dissolution of large estates of the regular clergy in early modernEurope, cit., pp.111-133, qui 131-132. Sulla legge di ammortizzazione del 9 settembre 1769 e ledisposizioni successive emesse a chiarimento della legge stessa, cfr. L. BIANCHINI, Della storiadelle finanze del Regno di Napoli, Palermo, Lao, 1839, pp. 407-408; M. ROSA, Sviluppo e crisidella proprietà ecclesiastica: Terra di Bari e Terra d’Otranto nel Settecento, cit., pp. 70 e 81; A. PLA-CANICA, Chiesa e società nel Settecento meridionale: vecchio e nuovo clero nel quadro della legisla-zione riformatrice “Ricerche di storia sociale e religiosa” IV(1975) n.7-8, pp. 121-189, qui 180-183; M. SPEDICATO, Fasi congiunturali e gestione dei patrimoni monastici nel Regno di Napoli inetà moderna, cit., p. 401.

31 I governatori dell’Annunziata cercarono di ottenere l’esenzione del luogo pio dal divietodi acquistare beni immobili, previsto dalla legge, presentando un ricorso al Supremo Consigliodelle Finanze. Con un dispaccio del 29 agosto 1786, quest’ultimo rimise la domanda alla Som-maria, che il 7 settembre successivo dichiarò l’istituto “capace di acquistare, per essere addetto apubbliche opere di pietà”: cfr. SASS, ACSA, Cartacei, fasc. IX, 399, memoria non datata deigovernatori dell’Annunziata alla Sommaria. In seguito, tuttavia, la concessione fu revocata, comedimostra la richiesta rivolta dal governatore Pietro Carrera al Supremo Consiglio delle Finanze il23 gennaio 1790, e ribadita il 28 agosto successivo, che il luogo pio “non s’intenda compresonella legge d’ammortizzazione”: cfr. SASS, ACSA, Cartacei, fasc. XI, 484, lettera di Pietro Carre-

Luogo Numero delle proprietà Ettari Percentuale sulla superficie totaleSulmona 330 486,59 86,96Bugnara 25 27,16 4,85Pettorano 8 8,58 1,53Tocco 1 6,30 1,13Cansano 29 28,58 5,11Cocullo 7 2,37 0,42Totale 400 559,59 100,00

Tabella X - Ubicazione dei fondi rustici dell’Annunziata (1790)

Fonti: SASS, ACSA, Registri, n. 11.

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altro dato, tuttavia, si impone alla nostra attenzione: se la superficie possedutaè rimasta stabile, o si è addirittura ridotta, il numero delle unità colturali hasubito un balzo in avanti, passando dalle 240 del 1744 a 400. L’estensionemedia dei terreni si è per conseguenza abbassata ad 1,39 ettari. Una spiegazio-ne di tale fenomeno può individuarsi nella crescita della popolazione nel secon-do Settecento: assorbito infatti il collasso demografico del sisma del 1706, lapopolazione di Sulmona passa dai 3.668 abitanti del 1726 ai 4.000 della metàdel secolo, per raggiungere i 6.500 nell’ultima decade32. La fame di terre deter-minatasi in conseguenza dell’aumento della pressione demografica deve averindotto gli amministratori dell’istituto a frazionare i propri possedimenti, asse-gnandoli in porzioni più ridotte ad un maggior numero di coloni.

Quella del 1790 è l’ultima rilevazione ufficiale di cui disponiamo sui terre-ni dell’Annunziata. I registri ottocenteschi di introito, (di cui si conserva la seriecompleta dal 1818 in poi) pur indicando l’ubicazione e la rendita di ciascun ter-reno, tacciono infatti sulla sua estensione. Possiamo ricavare qualche elementosolo dal numero delle particelle, che, ridotte a 308 nel 1820, salgono a 330 diecianni dopo, per poi assestarsi a 361, cifra che rimane costante dal 1840 al 186033.È difficile tuttavia stabilire se tale crescita sia determinata dall’acquisto di nuovifondi o non piuttosto da un frazionamento di quelli già posseduti, derivante daun’accresciuta richiesta di affitti.

Alla luce di una valutazione complessiva, può notarsi come il patrimoniofondiario dell’Annunziata conosca una lenta e costante crescita dal Trecento ametà Settecento. A partire da allora, i sempre più stringenti freni legislativi agliinvestimenti fondiari da parte degli enti ecclesiastici ne stabilizzano il patrimo-nio attorno ai 550 ettari. In assenza di studi sull’entità dei beni ecclesiastici inambito locale, è difficile esprimere un giudizio sull’importanza relativa di talepossesso. Può tuttavia esserci utile un’anonima memoria illustrativa del 1783,che fissa in 3.238,45 ettari la superficie destinata a coltura delle campagne sul-monesi34. Poiché sappiamo che a fine Settecento il possesso fondiario dell’An-nunziata nel territorio di Sulmona ammontava a 486,59 ettari, ne risulta che l’i-stituto deteneva il 15,02% della superficie coltivabile, il che ne faceva, per quel-l’epoca, uno dei più importanti proprietari fondiari della città.

ra a Ferdinando Corradini del 23 gennaio 1790, e ivi, 469, lettera del 28 agosto del 1790. Non siconosce tuttavia l’esito di questo nuovo ricorso.

32 Cfr. A. CHIAVERINI, La diocesi di Valva e Sulmona, cit., vol. VIII, p. 110; E. MATTIOCCO,Sulmona in U. RUSSO – E. TIBONI (edd.) L’Abruzzo dall’Umanesimo all’età barocca, cit., pp. 356-357.

33 Cfr. SASS, ACSA, Registri di introito 1820-1860.34 Cfr. SASS, Fondo Mazara, Piano, o già mappa di tutto il territorio di Solmona, datato 16

agosto 1783. Il documento è pubblicato integralmente in appendice a E. MATTIOCCO, Sulmona.Città e contado nel catasto del 1376, cit., pp. 305-307.

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3. Modi di gestione dei fondi e rendita derivante da essi

Se per la determinazione dell’ampiezza dei terreni disponiamo di consi-stenti appoggi documentari, distribuiti per di più su di un arco temporalemolto vasto, la stessa cosa non può dirsi per l’analisi dei modi di conduzione.Le platee contengono infatti informazioni essenziali ma precise sull’ubicazionee le dimensioni delle singole particelle, di cui forniscono in alcuni casi suggesti-ve rappresentazioni iconografiche, ma tacciono sui criteri di gestione e sulladestinazione colturale. Quest’ultima omissione può spiegarsi o con il fatto che,almeno per certe specie di terreni, il tipo di coltivazione fosse scontato, o comeun modo per lasciare ai conduttori libertà di variare le scelte colturali in rela-zione alla congiuntura di mercato. Quale che sia il motivo, lo storico che vogliamettere a fuoco tali problemi si trova nella necessità di consultare fonti alterna-tive. In relazione al modo di conduzione, utili indicazioni possono reperirsinegli atti notarili, sebbene in tal caso l’indagine debba per forza di cose indiriz-zarsi su di un campione limitato di protocolli. Abbiamo tuttavia consultato 184contratti relativi al periodo 1801-1827: se si considera che nel decennio 1820-1830 il patrimonio fondiario dell’Annunziata passa da 308 a 330 unità coltura-li, può concludersi che il campione corrisponde a più della metà dei terreni del-l’istituto35. L’unico modo di conduzione previsto in tali contratti è l’affitto36.All’interno di tale categoria, possono poi distinguersi due tipologie: gli affitti abreve e quelli a lungo termine, gli uni e gli altri stipulati sempre in autunno,all’inizio dell’anno colonico. I primi prevedevano di solito un termine di seianni, indizio della presenza di rotazioni biennali o tutt’al più triennali. Stabili-vano inoltre, formulandoli in maniera abbastanza dettagliata, una serie di obbli-ghi a carico del conduttore. Egli doveva migliorare le condizioni del fondo,senza poter pretendere risarcimenti da parte dell’Annunziata, e sorvegliare

35 Cfr. SASS, ACSA, 32, Locazioni di fondi rustici e urbani 1801 – 1816; ivi, 33, Locazioni difondi rustici e urbani 1817 – 1820; ivi, 34, Locazioni di fondi rustici e urbani 1821 – 1827.

36 Per il secolo XVIII, alcune fonti documentarie testimoniano l’uso dell’enfiteusi: cfr. inparticolare SASS, ACSA, Cartacei, fasc. XI, 469, lettera di Pietro Carrera a Ferdinando Corradi-ni del 28 agosto 1790. La prevalenza dell’affitto, tra i modi di conduzione, può osservarsi anchein relazione ad altri ospedali, seppur al di fuori del contesto meridionale: cfr. G. PINTO, Forme diconduzione e rendita fondiaria nel contado fiorentino (secoli XIV e XV): le terre dell’ospedale diSan Gallo in Studi di storia medievale e moderna per Ernesto Sestan, Firenze, Olschki, 1980, vol.I, pp. 259-337, qui 286. Sui principali elementi dei contratti d’affitto, cfr. G. GIORGETTI, Con-tratti agrari e rapporti sociali nelle campagne in Storia d’Italia, I documenti, V-1, Torino, Einaudi,1973, pp. 699-758, qui 716-728; M. R. PELIZZARI, Per una storia dell’agricoltura irpina in etàmoderna. Prime rilevazioni dagli atti notarili in A. MASSAFRA (ed.) Problemi di storia delle campa-gne meridionali, cit., pp. 189-200, qui 194-195. Per una disamina dei contratti agrari più diffusinella zona, cfr. V. BATTISTA, La via del grano. Lavoro e cultura contadina nella Valle Peligna, L’A-quila, Provincia dell’Aquila, 1989, pp. 49-57.

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affinché esso non venisse occupato o assoggettato a servitù di nessun tipo37.Non poteva sublocare il terreno senza il permesso dell’ente proprietario. Dove-va inoltre rinunciare a qualsiasi richiesta di scomputo per danni alle colturederivanti dal maltempo o da altri casi fortuiti. Oltre a scaricare sul contadino irischi relativi alle congiunture sfavorevoli, i contratti prevedevano in genere laclausola dell’escomio prima della scadenza in caso di morosità: se cioè il con-duttore ritardava per un anno il pagamento dell’estaglio, la locazione era ipsoiure rescissa. In aggiunta a tali pesanti obblighi, erano a carico dell’affittuarioanche le spese di redazione e registrazione del contratto38.

Per ciò che riguarda l’estaglio, esso era corrisposto il più delle volte indenaro, e solo eccezionalmente in natura39. Tale elemento, emerso dall’esamedei contratti che abbiamo utilizzato come campione, è del resto confermatodalla platea del 1790, che ci consente anzi un’analisi più precisa40. Dei 400 ter-reni che essa censisce, 358 risultano affittati con canone in denaro e 42 in natu-ra. Fra questi, 37 si trovano fuori Sulmona e presentano quasi tutti estensioneinferiore ad un ettaro e collocazione in aree poco fertili, collinari o pedemonta-ne. L’estaglio è fissato in una quantità di grano “concio” (ossia passato al primocrivello) variabile dalle 2 alle 20 salme, con l’obbligo del trasporto nei fondacidell’Annunziata a carico dei conduttori. Nel complesso, si ha l’impressione cheil canone in natura sia legato all’affitto di piccoli appezzamenti a coloni non ingrado di sostenere una soluzione monetaria dell’estaglio. In casi più specifici, lafissazione del canone in natura aveva lo scopo di garantire all’Annunziata la for-nitura di generi di prima necessità, come avveniva per l’oliveto di Tocco, il cuiconduttore doveva elargire annualmente all’istituto 7 metri (ossia 1,54 ettolitri)di olio “chiaro e lampante”, cioè per uso alimentare41. In tutti gli altri casi, il

37 Nei contratti d’affitto, clausole del genere erano molto comuni: cfr. L. AIELLO, Monachee denaro a Milano nel XVII secolo in A. PASTORE – M. GARBELLOTTI (edd.) L’uso del denaro. Patri-moni e amministrazione nei luoghi pii e negli enti ecclesiastici in Italia, cit., pp. 335-377, qui 358.

38 Tale consuetudine risulta in uso, nei contratti agrari della zona, ancora fino ai primi del‘900: cfr. Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle provincie meridionali e nellaSicilia, vol. II. Abruzzi e Molise, tomo I. Relazione del delegato tecnico dott. Cesare Jarach, Roma,Bertero e C., 1909, pp. 124 e 129.

39 Per un raffronto con la prassi seguita a tale proposito da altri enti ecclesiastici, cfr. D.MERIANI, Patrimonio e gestione economica dei conventi domenicani in Campania a metà Seicento.San Domenico Maggiore di Napoli e i conventi della Valle dell’Irno “Campania sacra” 25(1994)pp.269-414, qui 324.

40 Cfr. SASS, ACSA, Registri, n. 11, Libro mastro della Real Chiesa e Sacro Ospedale d’A.G.P.di Solmona.

41 In seguito l’estaglio per tale fondo, pur restando in natura, venne innalzato: nel 1837 eradi 12 metri di olio (2,64 ettolitri) cfr. SASS, ACSA, Protocolli corrispondenza 1836-1838, letteradel direttore Scipione Corvi all’intendente dell’Aquila del 30 luglio 1837. Sui diversi utilizzi del-l’olio prodotto nella zona, cfr. R. QUARANTA, Monografia agraria della provincia di Aquila, in Atti

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canone era in denaro, e la sua corresponsione era fissata normalmente in duerate, la prima ad agosto e l’altra a novembre: scadenze che, coincidendo con laraccolta del grano e dell’uva, forniscono un chiaro indizio della prevalentedestinazione colturale dei fondi42.

Per quanto riguarda gli affitti a lungo termine, la loro durata era stabilita inventinove anni, con la clausola che, alla scadenza del termine, i conduttori aves-sero il diritto di prelazione su altri offerenti. In caso di morte, inoltre, essi pote-vano trasmettere il ius colendi ai loro eredi e successori, fino alla scadenza delcontratto43. Anche sui coloni vincolati da questo tipo di affitto gravavano comun-que pesanti obblighi. Innanzitutto essi erano tenuti a migliorare il fondo, e talegenerico patto era talora precisato nel senso che spettava ad essi piantare la vignaoppure alberi utili e adatti al terreno. Tali migliorie, inoltre, non potevano esserevendute senza il consenso scritto dell’ente proprietario. Qualunque deteriora-mento del fondo comportava il diritto dell’Annunziata di espellere i coloni, cheerano anche tenuti a risarcire il danno. In secondo luogo, i conduttori rinuncia-vano a qualunque scomputo sul canone in caso di cattive annate o calamitàimpreviste. Infine, in caso di morosità, l’Annunziata era libera di espellere i colo-ni dal fondo. Nel complesso, tuttavia, in questo tipo di affitto, i patti erano piùfavorevoli ai coloni: la durata ventinovennale della locazione faceva sì che per taleperiodo essi fossero al riparo dalla minaccia di aumento del canone. Quest’ulti-mo, inoltre, doveva corrispondersi in una rata annuale (ogni primo novembre)anziché in due. Un’ultima importante clausola era posta a vantaggio dei condut-tori: al termine del contratto le migliorie apportate al fondo dovevano essere sti-mate, e la metà del loro valore andava a loro beneficio44.

della giunta per la Inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, vol. XII, fasc. III, Rela-zione del commissario barone Giuseppe Andrea Angeloni, deputato al Parlamento sulla quarta cir-coscrizione, Roma, Forzani e C., 1885, pp. 7-103, qui 40.

42 Il pagamento dell’estaglio in tali scadenze era largamente in uso nei contratti d’affittonella zona e anche al di fuori di essa: cfr. V. BATTISTA, La via del grano. Lavoro e cultura contadi-na nella Valle Peligna, cit., p. 49; G. PINTO, Forme di conduzione e rendita fondiaria nel contadofiorentino (secoli XIV e XV): le terre dell’ospedale di San Gallo, cit., pp. 291-292.

43 Sulla diffusione di accordi di tale natura, cfr. G. GIORGETTI, Contratti agrari e rapportisociali nelle campagne, cit., p. 737.

44 Se questa era, in relazione alle migliorie, la clausola più diffusa, i patti potevano tuttaviavariare molto a seconda dei casi. Non mancavano infatti accordi in base ai quali, al termine del-l’affitto, le migliorie ricadevano tutte a beneficio dell’Annunziata. Nei casi in cui era prevista laripartizione a metà, questa poteva avvenire “pro ut impensum”, oppure “quoad melioratum”,vale a dire in riferimento alle spese sostenute, oppure in base ad una stima del valore venale dellemigliorie stesse: cfr. Archivio di Stato di Napoli (d’ora in avanti ASN), Segreteria d’Azienda, SS.Annunziata di Sulmona, carte in ordinamento, dispaccio del direttore delle Reali Finanze Giu-seppe Zurlo al direttore dell’Annunziata Filippo Sardi del 20 novembre 1801; SASS, ACSA, 44,Bilanci – Preventivi – Conti – Consuntivi 1810 – 1890, cc. n.n., lettera della Commissione ammi-

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Nel complesso, la prevalenza dell’affitto, sia pure nelle due tipologie con-trattuali che abbiamo analizzato, ben si comprende alla luce delle caratteristi-che dell’Annunziata e delle sue finalità istituzionali. Attraverso tale contratto,l’istituto scaricava sui coloni le responsabilità e i rischi della gestione, limitan-dosi a pretendere il puntuale pagamento dell’estaglio. Per mezzo di appositeclausole contrattuali, il luogo pio assumeva idonee garanzie contro il deteriora-mento dei terreni e l’eventualità che i conduttori ne mutassero le caratteristichesenza il suo consenso. Escludendo la gestione in economia, gli amministratoridell’istituto si affrancavano da un intervento diretto nel processo produttivo eda un defatigante controllo sul lavoro dei coloni. Si sollevavano inoltre dall’ob-bligo di conferire ad essi anticipazioni e soccorsi, come invece erano costretti afare nei rarissimi casi in cui i terreni restavano in amministrazione45. La prefe-renza accordata all’estaglio in denaro si inquadra in questo tipo di logica. Inprimo luogo, tale modalità di pagamento poneva al riparo da eventuali frodi,che restavano viceversa largamente possibili nei casi di pagamento in natura46.

nistrativa dell’Annunziata all’intendente dell’Aquila del 26 maggio 1811: “La costituzione origi-naria degli affitti a ventinovennio è di voler migliorare la condizione de’ fondi così affittati. Dellemigliorie che debbono in essi eseguirsi a carico e spese de’ conduttori, quando terminerà il ven-tinovennio, la metà ricade a beneficio dell’ospizio senza pagamento alcuno, l’altra metà devericomperarla; e per taluni fondi devesi la detta metà delle migliorie pagare in ragione delle spesesoltanto occorse per eseguirle, e per altri in ragione del valore delle migliorie suddette. Vi sonoanche alcuni affitti a ventinove anni coll’obbligo di migliorare i fondi, e terminato l’affitto, tuttele migliorie ricadono a beneficio dell’ospizio senza pagamento alcuno”.

45 L’unico caso di cui abbiamo trovato traccia nella documentazione è quello dell’oliveto diTocco, rimasto in economia negli anni 1833-34, per i quali esso patì una sensibile diminuzionedell’estaglio. Poiché nel 1836, per l’assenza di valide offerte si presentava il rischio che restasse inamministrazione anche un vasto terreno alla Vicenna di S. Amico (a nord del centro abitato), ildirettore dell’Annunziata Scipione Corvi scrisse all’intendente dell’Aquila sottolineando le “tristiconseguenze che si verificano a proprietarj per le colture a proprio conto”, aggiungendo che lasua avversione per la conduzione in amministrazione non derivava “dalla premura di scemarmi itravagli, giacché per lo bene dello stabilimento sarei pronto a sorvegliarne la coltura colla miapersonale assistenza”, ma dalla “certezza dell’esito infelice” (SASS, ACSA, Protocolli corrispon-denza 1836 – 1838, lettera del 16 ottobre 1836). Nei mesi seguenti, la gestione del terreno inamministrazione incontrò in effetti grosse difficoltà, “esiggendosi delle forti anticipazioni di piùcentinaja [scil. di ducati] tanto per le sementi che per opere di coltura, concimazione ed altro”,perciò Corvi persuase il vecchio affittuario Domenico Carrozza, pur in assenza di un regolarecontratto, a condurre il fondo anche per quell’anno colonico (cfr. ivi, lettera di Scipione Corviall’intendente dell’Aquila del 4 dicembre 1836).

46 Basti pensare all’uso di bagnare il grano, affinché crescesse di volume, o di mescolarviterra e sassi: cfr. U. TUCCI, Pesi e misure nella storia della società, cit., p. 608. Sulle frodi dei colo-ni ai danni dei proprietari, cfr. anche F. LANDI, Il paradiso dei monaci. Accumulazione e dissolu-zione dei patrimoni del clero regolare in età moderna, Roma, La Nuova Italia Scientifica, pp. 156-157; A. TANTURRI, Vicende patrimoniali degli scolopi nel Mezzogiorno d’Italia: il caso del collegio

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Inoltre, considerate le molteplici attività assistenziali dell’istituto e il continuobisogno di mezzi monetari per svolgerle, l’estaglio in denaro si imponeva quasicome una necessità.

Un altro aspetto merita poi ulteriori precisazioni: sebbene i contratti defi-niscano in maniera molto rigida gli obblighi dei coloni, nella pratica le cosepotevano andare diversamente. La clausola dell’escomio per morosità, ad esem-pio, non era applicata sempre in maniera inflessibile. Questo non solo perragioni umanitarie: rescindere un contratto con un affittuario moroso, infatti,non significava sempre reperirne tempestivamente uno più solvibile, soprattut-to in periodi di crisi47. Inoltre, se c’erano ragionevoli speranze che il debitopotesse essere ripianato negli anni successivi, l’Annunziata preferiva non avva-lersi della possibilità concessale dal contratto. In maniera analoga, sebbene, anorma delle clausole usualmente stipulate, i rischi per le calamità naturali gra-vassero, come si è osservato, sui conduttori, in pratica l’Annunziata se ne accol-lava una grossa parte. Quando le alluvioni danneggiavano le proprietà dell’isti-tuto, era questo in genere a sobbarcarsi le gravose spese per riparare gli arginidei fiumi e ripristinare le condizioni per il normale svolgimento dell’attivitàagricola48. Se il maltempo comprometteva i raccolti, l’istituto concedeva spesso,paternalisticamente, congrui sconti sull’estaglio agli affittuari, specialmente se sitrattava di somme di modesta entità49.

chietino, in F. LANDI (ed.) Confische e sviluppo capitalistico. I grandi patrimoni del clero regolare inetà moderna in Europa e nel Continente Americano, cit., pp. 301-326, qui 316.

47 Cfr. G. GIORGETTI, Contratti agrari e rapporti sociali nelle campagne, cit., p. 718.48 Scrive infatti il direttore Scipione Corvi all’intendente dell’Aquila il 31 luglio 1836: “I

guasti prodotti nelle proprietà di questo ospizio dalle alluvioni avvenute in modo straordinarione’giorni 5 e 6 spirante sono innumerabili e di valore di più centinaja. Per evitarne maggiori, eper adattarmi alla mancanza di denaro, ed alla brevità del tempo, mi sono limitato senza ritardoagli accomodi in quei soli punti che minacciavano sconcerti maggiori” (cfr. SASS, ACSA, Proto-colli corrispondenza 1836-1838). Il 14 agosto successivo, Corvi torna sull’argomento, chiedendo diessere autorizzato a sostenere ulteriori spese: “Essendo ricorsi nella passata stagione di primave-ra e corrente estiva dei molti uragani che han prodotto de’ replicati non mai veduti gonfiamentidi acque, tanto del fiume Gizio che del torrente Vella, han questi prodotti degli incalcolabilidanni ai territorj ed ai diversi edifici che l’ospizio possiede nelle rive di essi, rompendo e distrug-gendo specialmente tutti i ripari e le arginazioni fatte per preservare i fondi dalle alluvioni. Tuttiquesti ripari ed arginazioni debbono assolutamente rinnovarsi, e sollecitamente e per urgenza,perché in caso tali inconvenienti tornassero a verificarsi, i danni sarebbero incalcolabili, per tro-varsi i fondi e gli edifici scoverti e senza ripari” (cfr. SASS, ACSA, ivi). Sulla frequenza delle inon-dazioni nell’Abruzzo interno, dovuta alla distruzione del manto boschivo e alla precarietà dellearginature, cfr. V. BATTISTA, La via dei carrettieri. Il racconto e la fonte orale nella media valle del-l’Aterno e nella valle subequana, L’Aquila, Provincia dell’Aquila, 1997, pp. 123-127.

49 È quanto avviene, ad esempio, nel 1837, per un terreno sito al Ponte della Pietra, a sud-ovest del centro abitato. Scrive infatti il direttore Scipione Corvi all’intendente dell’Aquila il 5ottobre di quell’anno: “Vincenzo Di Salle, contadino di questo comune, prese in fitto dall’ospi-

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In che proporzione i terreni dell’Annunziata erano concessi in affitto abreve o a lungo termine? Siamo in grado di rispondere con esattezza a taledomanda soltanto in riferimento al periodo 1818-1861, per il quale disponiamodi rilevazioni seriali50. Come evidenzia la tabella XI, all’inizio di tale periodo, c’èuna netta prevalenza del numero dei terreni affittati a ventinovennio, (il 76,3%)ma nei decenni successivi il rapporto fra i due tipi di conduzione si fa più equi-librato, assestandosi a partire dal 1840 sul 62-63% di terreni affittati a ventino-vennio, contro il 36-37% di terreni affittati a breve termine. Naturalmente, talivalori si riferiscono unicamente al numero delle proprietà, e poiché non ci èdato di conoscere l’estensione di esse, non possiamo essere certi che la praticadell’affitto a lungo termine fosse esercitata effettivamente sulla maggior partedella superficie di terra posseduta dall’istituto.

Quanto poi alle conseguenze di questi due tipi di affitto sullo stato genera-le della superficie coltivabile, si prospettano diverse situazioni. Gli affitti abreve termine, come è facile immaginare, esponevano i fondi ad una coltura dirapina51. Essendovi un vincolo solo temporaneo fra il colono e la terra, egli cer-

zio opere 4 e centinara 4 di terreno divise in due parti quasi uguali, e che poco distano fra loro,site nel locale detto Ponte della Pietra, per l’annuo estaglio in uno di ducati 40. Uno di questi dueterreni è quello che è stato danneggiato colla sola perdita di un’opera e mezza di fagiuoli, che inagosto ultimo furono svelti dalla lava che vi corse. Io immagino che ella […] conosca bene che literreni di tal fatta nel nostro clima danno due prodotti l’anno, essendo li fagiuoli il secondo didetti prodotti, ne emerge che la perdita sofferta dal Di Salle su le predette due opere è stata ditre ottavi, e perché alle dette due opere danneggiate il Di Salle paga ducati 20 di fitto, volendo ilConsiglio dargli un diffalco corrispondente all’ottavo della perdita, questo ascende a ducati 7,08.Io non ò presente la scrittura di fitto, […] per cui non so se vi siano le consuete rinunce alli casiprevisti ed imprevisti. In qualunque modo, trattandosi di piccola somma, e sul riflesso che que-st’ospizio è surto a solo oggetto di beneficare, perciò sono di parere bonarglisi detto ottavo, desu-mendosene la somma dal fondo delle imprevedute”: cfr. SASS, ACSA, Protocolli corrispondenza1836-1838.

50 Cfr. SASS, ACSA, Registri di introito 1820-1860. 51 Secondo R. Quaranta, tale forma d’affitto “mira al solo frutto dell’annata, con un anta-

gonismo d’interessi fra i proprietari ed i coloni, a scapito del progresso agrario”: cfr. R. QUARAN-

Anno Affitti a breve Percentuale Affitti a Ventinovennio Percentuale Totale1820 73 23,7 235 76,3 3081830 97 29,4 233 70,6 3301840 133 36,8 228 63,2 3611850 136 37,6 226 62,4 3621860 136 37,6 225 62,4 361

Tabella XI - Proporzione fra i prevalenti modi di conduzione dei fondi dell’Annunziata (1820-1860)

Fonti: SASS, ACSA, Registri di introito 1820-1860.

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cava di sfruttarla il più possibile, anche se ciò comportava l’impiego di avvicen-damenti irrazionali, a detrimento della produttività del suolo52. In questo modo,al termine di un periodo di affitto, i terreni erano talmente estenuati che le resenon arrivavano a 2:1. Il colono che subentrava nella conduzione del campodoveva perciò rianimarlo con abbondanti concimazioni ed attraverso una fati-cosa “scassata” del terreno. Per rivalersi delle spese sostenute, doveva in segui-to adibire il fondo alla coltivazione di ortaglie, finché, ripristinata in qualchemodo la fertilità del campo, vi piantava cereali anche per più anni di seguito53.Ostacolando l’impiego di rotazioni più razionali, tale sistema era perciò assaidannoso per il suolo, provocandone un grave e durevole impoverimento. Se talierano gli svantaggi dell’affitto a breve termine, per quale ragione una porzionecosì elevata dei terreni dell’istituto veniva sottoposta a tale modo di gestione? Ilmotivo stava nel fatto che tale sistema era in sostanza assai favorevole all’An-nunziata. I contratti a breve termine consentivano infatti all’istituto di aggior-nare continuamente i canoni d’affitto, ricavando dai terreni una rendita semprepiù elevata54. La situazione può cogliersi con evidenza attraverso la lettura della

TA, Monografia agraria della provincia di Aquila, cit., p. 92. In proposito, cfr. anche G. POLI,Appunti per una tipologia dei contratti agrari nella fascia costiera di Terra di Bari nel Cinquecentoin A. MASSAFRA (ed.) Problemi di storia delle campagne meridionali, cit., pp. 321-334, qui 329; L.PALUMBO, Vicende agrarie e organizzazione ecclesiastica a Molfetta nel XVI e XVII secolo “Archi-vio storico pugliese” XXII(1970) pp.89-113, qui 103; A. DI BIASIO, L’agricoltura nel Regno diNapoli nella prima metà del XIX secolo: produzione e tecniche agronomiche, “Annuario dell’Istitu-to storico italiano per l’età moderna e contemporanea” XXXI – XXXII (1979-1980), pp. 297-430, qui 365-366.

52 Scrive a fine Ottocento R. Quaranta che nell’aquilano “le rotazioni agrarie sono del tuttosconosciute per doppia ragione: per i fitti a breve durata, e pei proprietari che non si dipartonodall’empirismo agrario”: cfr. R. QUARANTA, Monografia agraria della provincia di Aquila, cit., p.17.Sul ritardo con cui le rotazioni si diffondono nell’agricoltura della zona, cfr. G. SABATINI, L’agri-coltura abruzzese tra Ottocento e Novecento: trasformazioni e continuità in U. RUSSO – E. TIBONI

(edd. ) L’Abruzzo nell’Ottocento, Pescara, Ediars, 1996, pp. 61-72, qui 68. 53 Cfr. SASS, ACSA, Protocolli corrispondenza 1836-1838, lettera di Scipione Corvi all’in-

tendente dell’Aquila del 16 ottobre 1836: “I terreni di Sulmona, e specialmente quelli in parola,[scil.: quelli affittati a breve scadenza] nel rilasciarsi dai coloni sono estenuati totalmente di suc-chi vegetabili, per cui rimangono inattivi alla produzione de cereali. Per rianimarli, facendosi ilfitto di sei anni, il primo anno i coloni dopo averli rianimati con straordinaria scassata eseguitacon bidenti, li ben concimano e postili ad ortaglie si rivalutano delle prime spese, e gli ultimi anniper mandarvi i cereali, li lasciano tanto rifiniti che volendovi ripetere le stesse sementi, appena sirifarebbe il doppio della semina”.

54 Cfr. G. POLI, Appunti per una tipologia dei contratti agrari nella fascia costiera di Terra diBari nel Cinquecento, cit., p. 329. Gli affitti a breve termine riducevano inoltre il rischio che icoloni potessero avanzare delle pretese sulla proprietà dei fondi, in virtù di una lunga occupa-zione: cfr. M.T. SNEIDER, Il patrimonio dell’Ospedale di santa Maria della Morte in Bologna in A.PASTORE – M. GARBELLOTTI (edd.) L’uso del denaro, cit., pp. 131-151, qui 142.

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tabella XII, che mostra la rendita proveniente dai fondi rustici, tanto a brevetermine che a ventinovennio, nel periodo 1818-1861. Come può notarsi, la ren-dita dei terreni affittati a lunga scadenza mostra fino al 1834 un andamentopiuttosto oscillante, ma a partire da tale data si stabilizza sugli 800-900 ducati,rimanendo costantemente attestata su tali valori. Al contrario, la rendita dei ter-reni a breve tempo subisce un progressivo ma costante incremento, passandodai 1.902,60 ducati del 1818 ai 4.146,18 ducati del 1861. Inoltre, sebbene i ter-reni a ventinovennio siano numericamente maggiori, la rendita che si ricava daessi è sempre nettamente inferiore a quella dei terreni a breve tempo.

Potrebbe dunque ipotizzarsi, almeno per una parte dei terreni, uno speci-fico legame funzionale fra questi due tipi di contratto: quando un terreno, pereffetto del susseguirsi di una serie di affitti a sessennio era oltremodo depaupe-rato, l’Annunziata lo concedeva in affitto a lunga scadenza. La prospettiva, peril colono, di godere il fondo senza aumenti di canone per un periodo che copri-va buona parte della sua attività lavorativa, e di trasmetterlo ai suoi eredi, loinvogliava concretamente ad apportarvi durevoli migliorie55. La diffusa presen-za di contratti a ventinovennio potrebbe dunque spiegarsi, in tale ipotesi, comeun valido strumento, da parte dell’Annunziata, per ripristinare la fertilità delsuolo. Essa è perciò da mettere in relazione con la presenza di terreni sterili emarginali, per i quali l’affitto a sessennio non trovava sufficienti oblatori56.

Un giudizio complessivo sui criteri di gestione dei terreni dell’istituto nonpuò non rilevarne il carattere arretrato e irrazionale. Il sistema dell’affitto abreve termine, in particolare, privava il colono di qualsiasi stimolo a migliorarela produttività del suolo, spingendolo anzi ad avvalersi di antiche e obsoletepratiche agrarie57. La presenza di rapporti di produzione di questo tipo costi-

55 Cfr. G. GIORGETTI, Contratti agrari e rapporti sociali nelle campagne, cit., p. 744.56 Un valido esempio in proposito è dato dai due terreni siti rispettivamente ai Quadri Grandi

(di 7,5 ettari) e al Prato del Corvo (di estensione non specificata). Per tali fondi, soggetti per la loroubicazione a frequenti inondazioni, non si riusciva a trovare convenienti offerte per affitti a brevescadenza. Scrive il direttore Scipione Corvi all’intendente dell’Aquila il 5 dicembre 1839: “Solo puòsperarsi rinvenire chi ne assume l’affitto quando sia protratto ad un tempo lungo, per dar campo adessi di compensarsi delle gravi spese che bisognano per l’apertura e mantenimento perenne dei for-mali, [scil.: canali d’irrigazione] non che delle perdite delle intiere produzioni degli anni nei quali siverificano le stagioni piovose”: cfr. SASS, ACSA, Protocolli corrispondenza 1839-1840.

57 La necessità di pagare un canone sovente elevato rispetto alle proprie possibilità impediva alcolono di investire denaro in strumenti di scorta. Anche per questo, gli attrezzi di lavoro nella zonarimasero a lungo arretrati: ancora ai primi del ‘900, l’aratro più diffuso era quello in legno, di tipovirgiliano: cfr. Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle provincie meridionali e nellaSicilia, vol. II. Abruzzi e Molise, tomo I. Relazione del delegato tecnico dott. Cesare Jarach, cit., p. 17.Sui vari tipi di aratro, cfr. P. UGOLINI, Tecnologia ed economia agrarie dal feudalesimo al capitalismoin Storia d’Italia, Torino, Einaudi, Annali, I, 1978, pp. 373-452, qui 383-385; V. MARCHIS, Storia dellemacchine. Tre millenni di cultura tecnologica, Bari, Laterza, 2005, pp. 10-13.

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Anno Rendita terreni % Rendita terreni % Rendita lorda complessivaa breve a ventinovennio dell’Annunziata

1818 1.902,60 16,90 1.413,16 12,53 11.253,511819 2.256,21 14,61 1.907,46 12,35 15.437,101820 2.316,70 18,60 1.344,58 10,08 12.449,011821 2.508,64 19,34 1.317,12 10,15 12.967,451822 2.412,58 18,12 1.268,53 9,52 13.313,901823 2.451,77 16,91 1.323,00 9,12 14.497,681824 1.986,96 12,62 872,71 5,54 15.732,351825 1.948,00 14,27 889,18 6,51 13.649,951826 1.243,12 9,91 854,45 6,81 12.543,151827 1.605,06 11,55 1.072,04 7,71 13.891,871828 1.396,28 10,83 931,66 7,22 12.888,611829 1.913,01 14,49 1.118,09 8,94 12.504,661830 1.911,13 17,73 1.038,71 9,64 10.773,681831 2.107,00 17,59 1.038,10 8,66 11.975,101832 2.498,79 18,15 1.222,20 8,87 13.764,761833 2.398,17 16,72 1.209,78 8,43 14.339,941834 2.451,04 17,55 1.183,88 8,47 13.961,331835 2.739,02 21,66 886,40 7,01 12.643,681836 2.5460,87 22,13 795,89 6,87 11.569,911837 2.632,53 22,08 894,07 7,50 11.917,951838 2.545,96 21,44 856,03 6,93 12.337,021839 2.805,06 21,79 961,66 7,47 12.872,851840 2.903,09 20,23 927,83 6,46 14.347,051841 2.892,89 24,23 899,29 7,53 11.934,471842 2.976,69 26,26 913,87 8,06 11.332,261843 2.985,88 25,94 887,41 7,71 11.506,701844 2.999,38 24,84 966,72 8,00 12.071,101845 3.046,22 24,46 899,62 7,22 12.450,721846 3.159,12 25,65 937,61 7,61 12.312,151847 3.203,04 24,51 929,92 7,11 13.066,141848 3.175,78 21,58 910,07 6,18 14.710,731849 3.258,65 23,07 913,46 6,46 14.120,621850 3.230,15 16,56 909,74 4,66 19.505,711851 3.158,64 16,15 808,95 4,13 19.550,021852 3.406,12 16,90 898,82 4,46 20.151,041853 3.423,22 20,01 877,74 5,13 17.100,121854 3.459,20 23,10 918,57 6,13 14.974,391855 3.505,67 21,59 900,53 5,54 16.234,731856 3.651,93 20,61 880,40 4,96 17.716,611857 3.863,25 18,91 907,18 4,44 20.427,981858 4.016,61 18,89 915,22 4,30 21.256,291859 4.018,63 19,84 905,60 4,47 20.252,201860 4.052,28 18,16 911,59 4,08 22.302,371861 4.146,18 16,13 907,39 3,53 25.695,18

Tabella XII - Rendita in ducati proveniente dai fondi rustici dell’Annunziata (1818-1861)

Fonti: SASS, ACSA, Registri di introito 1818-1861.

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tuiva perciò una concausa dell’arretratezza dell’agricoltura locale. Sebbeneinfatti le caratteristiche pedologiche dei terreni, la debole altitudine, il climarelativamente mite e soprattutto l’abbondanza di acqua conferissero alla zonadiscrete potenzialità produttive, l’attività agricola restava connotata da caratteridi scarsa dinamicità58. Anche se, soprattutto nel lungo periodo, tale criterio digestione si rivelava dannoso per la fertilità del suolo, l’istituto lo mantenne invigore perché consentiva di difendere la rendita da qualsiasi erosione del suovalore. Se si osserva infatti la tabella XIII, può notarsi come la rendita com-plessiva dei fondi rustici abbia avuto un costante incremento, passando dai3.316,16 ducati del 1818 ai 5.053,57 del 1861. Nel complesso, l’incidenza dellarendita dei terreni sulla rendita lorda totale si mantenne per tutto il periodo ele-vata, essendo compresa tra un minimo del 16,72% nel 1826 ad un massimo del34,33% nel 1842. Se si considera che il valore medio dell’intero periodo è del26,25%, può concludersi che più di un quarto della ricchezza dell’Annunziataderivava dall’affitto dei fondi rustici59.

4. “Uno de’predj più speciosi”: S. Rufino

Nell’ambito del vasto patrimonio fondiario del luogo pio, la cui configura-zione parcellizzata abbiamo già osservato, spiccava per le sue dimensioni e perla sua rilevanza economica la proprietà di S. Rufino. Il primo nucleo di essa,situato due miglia a nord di Sulmona, venne acquisito dall’Annunziata in unarco di tempo compreso fra il 1576 e il 1619. Nel censimento dei terreni com-piuto in tale anno, l’Annunziata risulta infatti proprietaria di due fondi nellazona, estesi rispettivamente 12,6 e 14,8 ettari60. In seguito, probabilmente attra-verso l’acquisto di particelle vicine, e successivi ulteriori ampliamenti, si costi-tuì un vasto possedimento che nel 1702 aveva un’estensione di circa 36 ettari,di cui 9,9 adibiti a coltivazione e 26,1 a bosco61. Le dimensioni della proprietà

58 Sulle notevoli possibilità di coltivazione offerte dalle condizioni pedologiche e climatichedella zona, cfr. P. SERAFINI, Monografia di Sulmona in ID., Scritti varii di storia, letteratura e poli-tica, Pescara, Fracchia, 1913, pp. 148-157; P. VITTE, Le campagne dell’alto Appennino. Evoluzio-ne di una società montana (traduzione italiana), Milano, UNICOPLI, 1995, pp. 409-413; A. DE

MATTEIS, “Terra di mandre e di emigranti”. L’economia dell’Aquilano nell’Ottocento, Napoli, Gian-nini, 1993, pp. 154-161.

59 È un peccato che la scomparsa degli stati patrimoniali dell’Annunziata per il periodoanteriore al 1818 non consenta di verificare se tale valore conservò nel tempo la stessa importan-za. L’unico dato superstite si riferisce al 1728: per quell’anno sappiamo che a fronte di una ren-dita lorda di 6.966,85 ducati, la rendita derivante dall’affitto dei fondi rustici era di 2.017,50ducati, con un’incidenza pari al 28,95%: cfr. SASS, ACSA, 6, Collegiata chiesa di A.G.P., cc. n.n.

60 Cfr. SASS, ACSA, Registri, n. 25.61 Ibidem.

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Anno Rendita fondi rustici Rendita lorda complessiva Percentualedell’Annunziata

1818 3.316,16 11.253,51 29,471819 4.163,67 15.437,10 26,971820 3.661,28 12.449,01 29,411821 3.825,76 12.967,45 29,501822 3.681,11 13.313,90 27,641823 3.774,77 14.497,68 26,031824 2.859,67 15.732,35 18,181825 2.837,18 13.649,95 20,781826 2.097,57 12.543,15 16,721827 2.677,10 13.891,87 19,271828 2.327,94 12.888,61 18,061829 2.931,10 12.504,66 23,441830 2.949,84 10.773,68 27,381831 3.145,10 11.975,10 26,261832 3.270,99 13.764,76 23,761833 3.607,95 14.339,94 25,161834 3.634,92 13.961,33 26,031835 3.625,42 12.643,68 28,671836 3.356,76 11.569,91 29,011837 3.526,60 11.917,95 29,591838 3.501,99 12.337,02 28,381839 3.766,72 12.872,85 29,261840 3.830,92 14.347,05 26,701841 3.792,18 11.934,47 31,771842 3.890,56 11.332,26 34,331843 3.873,29 11.506,70 33,661844 3.966,10 12.071,10 32,851845 3.945,84 12.450,72 31,691846 4.096,73 12.312,15 33,271847 4.132,96 13.066,14 31,631848 4.085,85 14.710,73 27,771849 4.172,11 14.120,62 29,541850 4.139,89 19.505,71 21,221851 3.967,59 19.550,02 20,291852 4.304,94 20.151,04 21,361853 4.300,96 17.100,12 25,151854 4.377,77 14.974,39 29,231855 4.406,20 16.234,73 27,141856 4.532,33 17.716,61 25,581857 4.770,43 20.427,98 23,351858 4.931,83 21.256,29 23,201859 4.924,23 20.252,20 24,311860 4.963,87 22.302,37 22,251861 5.053,57 25.695,18 19,66

Tabella XIII - Incidenza della rendita proveniente dai fondi rustici sulla rendita lorda complessiva

Fonti: SASS, ACSA, Registri di introito 1818-1861.

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rimasero in seguito praticamente invariate: le platee del 1744 e 1790 ne attesta-no un’ampiezza di circa 37 ettari, incremento dovuto forse, più che all’acquistodi terreni limitrofi, ad una più accurata misurazione del fondo ed al recupero diporzioni di esso occupate dai proprietari confinanti62. Nel 1840, pur restandouguale la grandezza del possedimento, era cambiata la proporzione fra la parteboscosa e quella coltivata: la prima assommava infatti a circa 18,6 ettari, e laseconda a circa 17,763. Per ciò che riguarda l’utilizzo di quest’ultima, sappiamoche almeno una parte di essa era adibita alla coltivazione della canapa, unapianta industriale diffusa nel contado sulmonese fin dal Medio evo, e che nelcaso concreto poteva giovarsi delle possibilità di irrigazione concesse dalleacque del fiume Sagittario, che lambiva il fondo delimitandone il confine versooriente64. Vi erano inoltre un’ampia stalla, una peschiera e due case coloniche:comodità, quest’ultima, tutt’altro che frequente nella zona, dove le abitazionidegli agricoltori, trovandosi per lo più nel centro abitato, obbligavano a lunghitragitti per raggiungere i campi65. Per quanto concerne il bosco, sappiamo cheesso era costituito in larghissima maggioranza da pioppi, ma che non mancava-no salici, querce, olmi, ontani e noci66. Il numero delle piante, pari a circa

62 Cfr. SASS, ACSA, Registri, n. 27 e Registri, n. 11. 63 Cfr. SASS, ACSA, Protocolli corrispondenza 1839-1840, lettera della Commissione ammi-

nistrativa dell’Annunziata all’intendente dell’Aquila del 24 settembre 1840.64 Sulla diffusione della canapa nel contado sulmonese, cfr. E. MATTIOCCO, Sulmona. Città e

contado nel catasto del 1376, cit., pp. 185-186. Sulla necessità di acqua richiesta dalla coltura cana-picola, cfr. P. SERAFINI, Monografia di Sulmona, cit., pp. 156-157. Dopo la raccolta della canapa, cheavveniva tra la fine di luglio e i primi di agosto, le piante andavano immerse per alcuni giorni inapposite fosse piene d’acqua, per consentire la separazione della corteccia dal fusto. In seguito, ifasci andavano asciugati all’aria aperta, e quindi utilizzati per la produzione di corde e spaghi: cfr.D. LANZA, Canapa – coltivazione e prima lavorazione in Enciclopedia italiana, Milano, Istituto Gio-vanni Treccani, 1930, vol. VIII, pp. 668-671; V. BATTISTA, La via dei carrettieri. Il racconto e la fonteorale nella media valle dell’Aterno e nella valle subequana, cit., pp. 202-203. Fino al 1790, l’Annun-ziata possedeva alcuni terreni adiacenti al centro abitato, dotati di fosse per la macerazione di que-sta pianta. A partire da tale data, le fosse vennero probabilmente eliminate, in seguito alle protestedi alcuni cittadini infastiditi dal fetore che si sprigionava da esse: cfr. SASS, ACSA, Cartacei, fasc. X,450, lettera di Antonio Canofoli a Pietro Carrera del 16 ottobre 1790, con allegati.

65 Notava Domenico Tabassi nel 1885: “Poche sono le abitazioni in campagna, ed i conta-dini vivono concentrati ne’ paesi; e massimo è l’accentramento nel capoluogo”: cfr. D. TABASSI,Sulle condizioni della viticultura, dell’enologia e della classe agricola nella vallata di Solmona in Attidella giunta per la Inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, vol. XII, fasc. II, cit., pp.43-48, qui 46. Tale tipologia insediativa nel Mezzogiorno continentale costituiva peraltro la rego-la : cfr. G. GALASSO, Strutture sociali e produttive, assetti colturali e mercato dal secolo XVI all’U-nità, cit., p. 163n.

66 Stando ad alcune testimonianze, la presenza degli alberi di noce, a differenza di tutte lealtre specie, non era dovuta alla mano dell’uomo. Scrive ad esempio il direttore Scipione Corviall’intendente dell’Aquila il 2 giugno 1839: “Questi alberi di noce non sono piantati dalla mano

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10.000 nel 1797, era asceso a circa 12.000 nel 184067. Proprio nel bosco risie-deva l’importanza economica del possedimento, se si considera il grande valoreche il legno assumeva nell’economia preindustriale. Impiegato tanto nell’edili-zia che nella fabbricazione di mobili, utensili da lavoro e attrezzi agricoli, oltreche, naturalmente, per il riscaldamento domestico, il legno era una materiaprima estremamente richiesta. In relazione alla commercializzazione dei pro-dotti del bosco, il fondo possedeva un’altra pregevole caratteristica: la sua brevedistanza dalla città, che consentiva il trasporto del legname a prezzi relativa-mente contenuti.

Quanto ai criteri di gestione del possedimento, non abbiamo molte infor-mazioni, anche se testimonianze del Settecento e dei primi anni del secoloseguente attestano l’uso dell’affitto a breve termine68. Svariati erano gli incon-venienti connessi a tale pratica. Innanzitutto, i contratti venivano spesso stipu-lati senza il rispetto di regolari procedure, con criteri sovente clientelari e sullabase di fraudolente collusioni fra gli amministratori dell’Annunziata e gli affit-tuari. Nel 1761, ad esempio, il fondo fu concesso in affitto triennale a Miche-langelo Dorrucci per 45 ducati l’anno, pur in presenza di offerte che arrivava-no a 150 ducati69. Ancora più pregiudizievole per il luogo pio sarebbe stato unaccordo raggiunto nel 1789 tra l’amministratore Luigi Targioni e due affittuari,che prevedeva il rimborso a questi ultimi, al termine dell’affitto, del valore deglialberi da essi piantati. Stando ad alcune fonti, l’accordo non sarebbe stato for-

dell’uomo, perché sarebbero di nocumento per l’ombra che darebbero al resto della piantagionedegli alberi di pioppo. Questi alberi, signore, hanno origine dalle noci che i topi sotterrano per ladi loro provvista nell’inverno, e nel nascere con languidezza perché a fior di terra e perché sep-polti nel buio dell’ombra della piantagione de’ pioppi già adulta, costantemente si veggonoingrossare in poca altezza nel fusto, ed elevarsi più dell’ordinario con tanta sproporzione che ilrimanente dell’albero è tanto sottile che appena puote aversene qualche travicello”: cfr. SASS,ACSA, Protocolli corrispondenza 1839-1840.

67 Cfr. rispettivamente SASS, ACSA, Cartacei, fasc. XXIX, 378, perizia di Domenico Anto-nio Cautela, Vincenzo Carugno, Giovanni Torracci e Vincenzo Di Giacomo sul possedimento,del 15 novembre 1797, e SASS, ACSA, Protocolli corrispondenza 1839-1840, lettera della Com-missione amministrativa dell’Annunziata all’intendente dell’Aquila del 24 settembre 1840.

68 Cfr. ASN, Tribunale misto, Processi, 900, relazione del governatore di Capestrano PietroCelentani dell’8 gennaio 1762 e ASN, Segreteria d’Azienda, SS. Annunziata di Sulmona, carte inordinamento, Prospetto dei nuovi affitti di terreni e case del Real Pio Luogo d’A.G.P. di Solmona,del 4 novembre1801.

69 Cfr. ASN, Tribunale misto, Processi, 900, relazione del governatore di Capestrano PietroCelentani dell’8 gennaio 1762: “Per il territorio chiamato il Bosco ò provato che nel dì 12 mag-gio del passato anno 1761, essi amministratori (cioè don Lorenzo Amone e don Biase Zampi-chelli) diedero in fitto per anni 3 il sudetto territorio chiamato il Bosco a Michel Angelo Dorruc-ci per ducati 42 l’anno, e 5 salme di verdura, abbenché li fusse sopravvenuta l’offerta maggioresino a ducati 125 e anche 150, non si volle ricevere da esso Zampichelli”.

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malizzato in un regolare contratto per l’ondata di opposizioni che sollevò70. Siaggiunga a tale ordine di problemi la circostanza che gli affittuari esercitavanoin genere uno scarso controllo sui confini del fondo, sovente spostati dai colti-vatori dei terreni limitrofi, ma soprattutto sfruttavano la risorsa boschiva in manie-ra assolutamente indiscriminata71. Mirando unicamente a realizzare il massimoguadagno, senza aver riguardo alle esigenze di conservazione del bosco, essi adot-tavano pratiche di taglio puramente distruttive. Sistemi del genere erano in uso dalunghissimo tempo, se fin dal 1692 un decreto del vescovo Gregorio Carducci(all’epoca titolare di poteri di controllo sull’amministrazione del luogo pio) obbli-gava i governatori dell’Annunziata a ripiantare periodicamente nuovi arbusti perreintegrare il patrimonio boschivo72. Non erano certo, tuttavia, provvedimenti delgenere a poter contrastare un fenomeno così radicato: nulla di strano, perciò, senel 1790 il bosco, a causa del “devastamento” subito negli anni passati, poteva for-nire pochissima legna, e se nel 1801 l’amministratore Filippo Sardi, rilevando i“gravissimi danni” sofferti dalla proprietà, sollecitava da Napoli l’autorizzazionead una nuova numerazione degli alberi73.

Un punto di svolta nella storia di questo possedimento, come avvenneanche per altri cespiti dell’Annunziata, fu costituito dalla gestione di PietroCarrera, che si protrasse dal dicembre 1789 all’agosto 1799 (con un’interruzio-

70 Il condizionale è d’obbligo, considerato che l’episodio ci è noto attraverso un memorialedel governatore dell’Annunziata Pietro Carrera, che subentrò al Targioni nella direzione dell’isti-tuto. In tale memoriale, redatto il 28 febbraio 1790 e indirizzato al Supremo Consiglio delleFinanze (SASS, ACSA, Cartacei, fasc. X, 445), Carrera espone i risultati del primo bimestre dellasua amministrazione, e rivolge dure critiche all’operato del suo predecessore. La veridicità diquanto in esso si dichiara potrebbe essere viziata dall’intento del Carrera, di enfatizzare i proprisuccessi, screditando l’azione di chi lo aveva preceduto. Stando al memoriale, comunque, Targio-ni, volendo affittare il bosco a due persone che intendeva favorire, aveva “accomodate le condi-zioni dell’affitto, in guisa che a tenore del secondo capo de’ banni emanatisi per ordine del Tar-gioni, l’aumento degli alberi, o crescimonia, doveva loro bonificarsi in fine dell’affitto […] e cosìsi sarebbe fissato, se non vi fosse stato chi fece fracasso contro i complottisti, onde il pio luogo infine dell’affitto si sarebbe trovato in debito con costoro di più migliaja di docati. Quest’affare hafatto fremere tutta Solmona”.

71 Sugli sconfinamenti nei fondi boschivi compiuti dai coltivatori dei terreni limitrofi, cfr. R.SANSA, Il mercato e la legge: la legislazione forestale italiana nei secoli XVIII e XIX in P. BEVILAC-QUA – G. CORONA (edd.) Ambiente e risorse nel Mezzogiorno contemporaneo, Corigliano Calabro,Meridiana, 2000, pp. 3-26, qui 20.

72 “Per che con tagliarsi ogn’anno gl’arbori tanto del bosco, come in altri luoghi di detta Chie-sa, senza ripiantarvisi i nuovi, si viene a spiantare detto bosco, il detto procuratore pro tempore siaobligato a ripiantarne tanti, quanti compensino il prezzo di quelli, che si tagliaranno”: cfr. R. CAR-ROZZO, Carità ed assistenza pubblica a Sulmona. Il conservatorio di san Cosimo, cit., p. 96.

73 Cfr. rispettivamente SASS, ACSA, Cartacei, fasc. X, 445, memoriale di Pietro Carrera per ilSupremo Consiglio delle Finanze, datato 28 febbraio 1790, e ASN, Segreteria d’Azienda, SS. Annun-ziata di Sulmona, carte in ordinamento, lettera di Filippo Sardi a Giuseppe Zurlo del 7 marzo 1801.

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ne dal giugno 1793 al gennaio 1797)74. Nell’uso della risorsa boschiva, la gestio-ne di Carrera significò il passaggio da un approccio sconsiderato e tendenzial-mente distruttivo ad una concezione mirante a razionalizzare il prelievo dellegname, preservando l’integrità del bene forestale. Il suo intervento si articolòin una serie di azioni coordinate: in primo luogo, trovando il bosco depaupera-to e interrotto da ampie radure, ne promosse il ripopolamento facendovi pian-tare 3000 arboscelli di pioppo75. Inoltre, per tutelare la proprietà dagli sconfi-namenti dei coltivatori dei campi adiacenti, ne rese evidente il perimetro appo-nendovi “grandiosi segni lapidei”76. Infine, sul finire del 1797, elaborò con l’au-silio di alcuni periti un piano di sfruttamento del bosco che appariva in lineacon i più aggiornati insegnamenti della scienza selvicolturale77. Il progetto pre-vedeva la suddivisione del bosco in trenta porzioni, numero non scelto a caso,

74 Di origini teramane (per l’esattezza di Rosciano), Carrera aveva ricoperto, prima della dire-zione dell’istituto sulmonese, importanti incarichi diplomatici e amministrativi. In particolare, erastato segretario dell’Ispezione generale della Fanteria, nonché segretario d’ambasciata a Londra eParigi. Si era poi distinto, per un quinquennio, quale Regio governatore di Cittaducale, ai confini conlo Stato pontificio. A coronamento del suo mandato, scrisse un Saggio topografico politico economicodi tutto il distretto allodiale di Città Ducale in Regno di Napoli sito in provincia di Abruzz’Ultra nelliestremi confini collo Stato Pontificio, (Aquila, Grossi, 1788). La sua direzione dell’Annunziata si inter-ruppe nel periodo 1793-1797, durante il quale, accusato di malversazione, fu richiamato a Napoli esottoposto a procedimenti giudiziari. Dimostrata la sua innocenza, poté riprendere il suo incarico,che mantenne fino al 1799. In occasione dell’invasione francese del Regno, egli si schierò con glioccupanti, fino ad assumere la carica di presidente della Municipalità sulmonese. Dopo il ritorno deiBorboni fu perciò destituito nuovamente dalla direzione dell’Annunziata (cfr. SASS, ACSA, Registri,n. 23, Libro mastro di debitori e creditori del Pio Luogo, 1790, c.1v). Rimasto senza lavoro, si sforzòinutilmente di essere reintegrato nel suo incarico, cercando di dimostrare, in alcuni memoriali per ilsovrano, il carattere esclusivamente tecnico, e scevro di qualsiasi implicazione ideologica, della suacollaborazione con i francesi (cfr. ASN, Segreteria d’Azienda, SS. Annunziata di Sulmona, carte inordinamento). Si ritirò dunque a Napoli, dove visse visse gli ultimi anni “nelle più deplorevoli mise-rie”. Solo nel febbraio 1808 il governo francese, a memoria degli “utili servigj” da lui prestati qualegovernatore dell’Annunziata, si decise ad elargirgli un assegno mensile, troppo tardi però perché eglipotesse goderne: si spense infatti il mese successivo, nel marzo 1808. Nonostante l’incontestabilerilievo della sua figura, scarsi sono stati finora gli apporti bibliografici sul suo operato: cfr. A. DI

NICOLA, Nel nome del Re. Le Masse della Montagna fra il 1798 e il 1799, Rieti, A.G. Nobili Sud,1999, pp.35n e 42n; A. TANTURRI, I soccorsi dell’arte salutare. L’ospedale della SS. Annunziata a Sul-mona, “Ricerche di storia sociale e religiosa” XXXIV (2005) n. 67, pp. 217-261, qui passim, e R. CAR-ROZZO, Carità ed assistenza pubblica a Sulmona. Il conservatorio di san Cosimo, cit., pp. 30-41.

75 Cfr. SASS, ACSA, Cartacei, fasc. X, 445, memoriale di Pietro Carrera per il SupremoConsiglio delle Finanze del 28 febbraio 1790.

76 Cfr. SASS, ACSA, 22, Registri della corrispondenza 1843-1856, lettera del direttore del-l’Annunziata Domenico Sardi alla Commissione amministrativa del 16 giugno 1846.

77 Cfr. SASS, ACSA, Cartacei, fasc. XXIX, 378. Per un confronto con le teorie sull’uso dellerisorse forestali elaborate a quell’epoca, cfr. R. SANSA, La trattatistica selvicolturale del XIX seco-lo: indicazioni e polemiche sull’uso ideale del bosco, “Rivista di storia dell’agricoltura” XXXVII(1997) pp. 97-144.

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ma equivalente al numero di anni in cui il pioppo giungeva alla maturità, ed eradunque pronto per essere abbattuto. Ogni anno, il taglio degli alberi andavalimitato ad una singola porzione, nella quale doveva effettuarsi un immediatorimboschimento per mezzo dell’inseminazione naturale o tramite piante prove-nienti da vivai78. In questo modo si sarebbe ottenuta una organizzazione razio-nale e costante del rendimento del bosco, che avrebbe finalmente cancellato ilmetodo praticato fino ad allora, consistente nell’abbattere i pioppi maturi inqualunque parte del fondo si trovassero. Al posto di un bosco che presentavaalberi di diverse età confusamente mischiati (oltre ad ampie radure, dovute agliscarsi controlli con cui i tagli venivano eseguiti) vi sarebbe stato un bosco ordi-nato geometricamente in trenta porzioni con alberi di età omogenea. Il prelie-vo di legname, limitato, come si è detto, ad una singola porzione per anno,avrebbe assicurato all’Annunziata una rendita costante, mentre il rimboschi-mento immediato avrebbe consentito al bosco di rinnovarsi in perpetuo.

Il sistema venne approvato dal Supremo consiglio delle Finanze nel luglio1798, e fu probabilmente applicato da subito79. Il depauperamento subito dalpatrimonio boschivo era tuttavia tale da indurre l’amministratore Filippo Sardi,nel 1801, a stipulare un nuovo contratto d’affitto sessennale del fondo con clau-sole ancora più restrittive per il conduttore. Questi doveva infatti restituire allascadenza del contratto lo stesso numero di alberi che gli erano stati consegnati,non poteva recidere alcuna pianta, e poteva avvalersi delle sole fronde80. Negli

78 Cfr. SASS, ACSA, Cartacei, fasc. XXIX, 378: “È cosa indubitata (perché la costante eferma sperienza lo dimostra) che l’albero di pioppo per giugnere alla sua perfezione vi si ricercail corso di anni trenta. Ciò posto, deve dividersi l’intiero bosco in trenta parti uguali, con reci-dersene una in ogni anno, e senza preterizione nell’istesso anno tornarsi nuovamente a piantare;ed ecco una seria ed infallibile rendita ascendente a più migliaja; e la ragione è chiara, mentrediviso così in trenta parti uguali, e recidendosene una in ogni anno, e tornandosi subito a pianta-re pria che si recida quella del trentesimo anno, già è matura l’altra, che venne piantata nel primoanno”. Si ricordi che il taglio doveva tener conto dell’età della pianta, ma doveva anche eseguir-si in fase di luna calante, pena il severo deprezzamento del legno sul mercato: lo si ricava, tra l’al-tro, da una lettera del direttore Scipione Corvi all’intendente dell’Aquila del 12 febbraio 1835,(SASS, ACSA, Protocolli corrispondenza 1833-1835) in cui, dando notizia della caduta di parecchialberi a causa del vento, e chiedendo l’autorizzazione a venderli, si rammarica che le piante sianostate abbattute “nell’aumento della luna, circostanza tanto disprezzante alla pubblica opinione”.

79 Cfr. SASS, ACSA, Cartacei, fasc. XXIX, 378, dispaccio del marchese Saverio Simonetti aPietro Carrera del 21 luglio 1798: “ Avendo proposto al Re la perizia rimessa da Vostra Signoriacon sua dimostranza de’15 dello scaduto giugno sul nuovo regolato sistema di piantaggione e dicoltura da introdursi nel territorio detto il Bosco, appartenente alla Santissima Nunciata di Sul-mona, di cui ella è amministratore, si è degnata la Maestà Sua approvarla, e di suo real ordine glielo partecipo per la corrispondente esecuzione, respingendole a tale oggetto copia della stessaperizia per suo regolamento”.

80 Cfr. ASN, Segreteria d’Azienda, SS. Annunziata di Sulmona, carte in ordinamento, Prospettodei nuovi affitti di terreni e case del Real Pio Luogo d’A.G.P. di Solmona, del 4 novembre 1801.

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amministratori dell’istituto sembra insomma essersi creata, da Carrera in poi, laconsapevolezza dell’esauribilità della risorsa boschiva e della necessità di ope-rare un prelievo del legname a prese regolari. Gli effetti di tale cambio di rottanon tardarono a manifestarsi: i tagli indiscriminati cessarono, e il numero dellepiante passò, come si è accennato, dalle 10.000 del 1797 alle 12.000 del 1840.

I problemi legati alla gestione del fondo nella prima metà dell’Ottocentosembrano riferirsi più che altro ad occasionali controversie con i titolari dei ter-reni limitrofi per le solite questioni di sconfinamento, come quella che a parti-re dal 1820 oppose l’Annunziata ai baroni Francesco e Nicola Corvi81. Questiultimi, per accedere ad un fondo di loro proprietà confinante con il bosco, ave-vano fatto costruire un ponte di legno sul fiume Sagittario e realizzato un viot-tolo, assoggettando di fatto il fondo di S. Rufino ad una servitù di passaggio. Diqui nacque una lunga lite, che si concluse nel 1841 con esito favorevole all’An-nunziata82. A causa, tuttavia, del periodico verificarsi di simili episodi, l’ammi-nistratore Domenico Sardi decise nel 1846 di far riconfinare il terreno, appo-nendovi nuovi termini lapidei83.

Altri danni al patrimonio boschivo provennero occasionalmente da feno-meni atmosferici: nel febbraio 1835 il forte vento abbatté 118 alberi fra pioppi,salici, querce, noci ed ontani, mentre nell’aprile 1841 le piogge a dirotto e leabbondanti nevi comportarono la perdita di parecchie giovani piante84. Più fre-

81 Cfr. SASS, ACSA, Protocolli corrispondenza 1839-1840, lettera della Commissione ammi-nistrativa dell’Annunziata all’intendente dell’Aquila del 24 settembre 1840.

82 Cfr. SASS, ACSA, Protocolli corrispondenza 1840-1841, lettera della Commissione ammi-nistrativa dell’Annunziata all’avvocato Panfilo Gentile del 3 ottobre 1841.

83 Cfr. SASS, ACSA, 22, Registri della corrispondenza 1843-1856, lettera del direttore del-l’Annunziata Domenico Sardi alla Commissione amministrativa del 16 giugno 1846: “Fra le gran-diose proprietà di questo pio luogo, per cui è salito a tanta altezza e decoro, non v’ha dubio chemerita certamente particolare attenzione la grandissima estensione di territori a S. Rufino di oltrele 153 opere tutte di feracissima natura, con una sorgente di eccellenti acque nel suo centro e conuna quantità di pioppi di molte e molte migliaia in nessun’altra contrada eguali. Tale quasi regiaproprietà è rimasta sempre esposta all’avidità dei limitrofi compadroni, i quali forse insensibil-mente occupando, han profittato della poca cura e vigilanza che le proprietà de’corpi moralisotto questo aspetto han sempre riportato. Laonde la necessità di una confinazione legalmentefatta si è da grandissimo tempo sentita, e l’amministratore don Pietro Carrera nella fine del pas-sato secolo si determinò ancora a recar sopra luogo dei grandiosi segni lapidei da servire da segnidi termini; ma rimasti colà abbandonati, ben pochi ora se ne rinvengono. Per le quali tutte cosesotto l’aspetto della massima utilità del pio luogo, affine di reintegrare ciò che avesse potutoinsensibilmente occuparsi, affine di rimuovere ogni rischio di futura occupazione ed allontanareinfine ogni responsabilità potesse aver luogo, mi sembra convenire in ogni modo di pregare lasaggezza del ragguardevole Consiglio Generale a degnarsi di autorizzarmi per provedere a quan-to si convenga, onde poter divenire alla menzionata confinazione legale”.

84 Cfr. rispettivamente SASS, ACSA, Protocolli corrispondenza 1833-1835, lettera del diret-tore Scipione Corvi all’intendente del 10 marzo 1835, e SASS, ACSA, Protocolli corrispondenza

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quenti furono i dissesti dovuti alle alluvioni, giacché le piogge primaverili eautunnali provocavano spesso straripamenti del Sagittario. Di qui la necessità dirafforzare periodicamente gli argini del fiume, con spese talora piuttosto consi-derevoli85. Ai danni derivanti dalla natura non si aggiunsero più, tuttavia, quel-li apportati dalla mano dell’uomo. L’uso del bosco, durante l’Ottocento, obbedìnel complesso alla logica del prelievo regolare, accompagnato da frequenti epuntuali opere di rimboschimento86.

5. I canali di irrigazione

Un quadro generale delle proprietà rurali dell’Annunziata non sarebbecompleto se non includesse i canali d’irrigazione (o “scerti”) che distribuivanole risorse idriche su una porzione considerevole del suolo coltivabile87. L’istitu-to ne era entrato in possesso nel 1634: a quell’epoca infatti la città di Sulmona,volendo estinguere un debito di 1.200 ducati che aveva con l’Annunziata, fucostretta a cederle queste infrastrutture di cruciale importanza per l’agricolturadella zona88. I canali in questione erano due, entrambi derivanti dal fiume

1840-1841, lettera della Commissione amministrativa dell’Annunziata all’intendente dell’Aquiladel 18 aprile 1841.

85 Cfr. SASS, ACSA, Protocolli corrispondenza 1836-1838, lettere del direttore ScipioneCorvi all’intendente dell’Aquila del 14 settembre 1837 e del 19 luglio 1838.

86 Fra i numerosi documenti che accennano a lavori di rimboschimento, si veda SASS, ACSA,Protocolli corrispondenza 1836-1838, lettera del direttore Scipione Corvi all’intendente dell’Aquiladel 3 luglio 1836: “Non obbliando annualmente le sagge disposizioni di cotesto Consiglio per lo rim-piazzo delle piante di pioppo nel bosco di questo ospizio a S. Rufino ne’luoghi ove sono stati recisigli alberi di pioppo venduti, […] non ho mancato neppure in questo anno di far seguire un tale rim-piazzo, consistito in 350 piante”; ivi, lettera allo stesso del 18 giugno 1837: “Per mandare ad effettogli ordini di cotesto Consiglio circa il rimpiazzo degli alberi di pioppo nel bosco di quest’ospizio ven-duti a subasta dietro le convenevoli autorizzazioni nell’anno 1835, furono impiantate n. 300 postureacquistate dal signor Domenico Corvi a ragione di grana 3 l’una, le quali importarono ducati 9”.

87 Sull’abbondanza di acque nella valle Peligna, cfr. P. SERAFINI, Monografia di Sulmona, cit.,pp. 148-149; E. MATTIOCCO, Struttura urbana e società della Sulmona medievale, cit., pp. 111-112;A. DE MATTEIS, “Terra di mandre e di emigranti”. L’economia dell’Aquilano nell’Ottocento, cit.,pp. 152-153. Lo stesso toponimo “Sulmona” sembra riconducibile etimologicamente alla ric-chezza di acqua: cfr. la voce Sulmona in Dizionario di toponomastica. Storia e significato dei nomigeografici italiani, Torino, UTET, 1990, p. 641.

88 Cfr. SASS, ACSA, Registri, n. 11, Libro mastro della Real Chiesa e Sacro Ospedale d’A.G.P.di Solmona, c. 400v. Anche in altre aree della penisola non era infrequente il caso di grossi entiecclesiastici proprietari di canali d’irrigazione: cfr. E. ROVEDA, Il beneficio delle acque. Problemidi storia dell’irrigazione in Lombardia tra XV e XVII secolo, “Società e storia” VII (1984), pp. 269-287, qui 279; L. AIELLO, Monache e denaro a Milano nel XVII secolo in A. PASTORE – M. GAR-BELLOTTI (edd.) L’uso del denaro, cit., p. 355.

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Gizio: il primo, denominato “scerto grande”, deviava le acque del fiume versooriente, e dopo aver scavalcato il corso del torrente Vella sul maestoso pontedelle Canala, provvedeva ad irrigare un’ampia zona compresa fra la città e labase del monte Morrone. Da esso si diramavano una serie di condotte secon-darie, che penetravano fin dentro l’abitato, irrigando gli orti e i giardini. Unulteriore ramo lambiva poi le mura occidentali della città, alimentando alcuniimpianti industriali tra cui un mulino, una cartiera e una rameria di proprietàdella stessa Annunziata89. Il secondo, detto “scerto piccolo” o “al ponte dellaPietra”, attraversava la zona delle Cavate e dell’Arabona, a sud-ovest della città,passando sotto il ponte omonimo. A causa di lavori di manutenzione non ese-guiti, questa condotta finì per interrarsi, restando inutilizzata. Fu così che, nel1811, un tal Vincenzo Cattenazzi, proprietario di vasti appezzamenti nell’Ara-bona, offrì all’Annunziata di anticipare le spese per l’escavazione di un canaleche sostituisse il vecchio. La nuova condotta, denominata da allora “scerto diArabona” o “di Cattenazzi”, seguiva parallelamente il corso dell’altra, pur col-locandosi più a monte90. Nel complesso, i canali posseduti dall’Annunziata, contutte le loro ramificazioni, irrigavano una superficie abbastanza vasta del terri-torio, modificandone gli orientamenti colturali ed incrementandone le capacitàproduttive. Ancora molto arretrati erano tuttavia i metodi di irrigazione: il piùdiffuso era quello “a scorrimento”, che consisteva nel rompere con la zappal’argine del canale, facendo affluire l’acqua senza alcuna guida su tutta la super-ficie dell’appezzamento91. Non risulta inoltre in uso nella zona la pratica, testi-moniata altrove, di spargere sui campi la fanghiglia dragata annualmente daicanali, che aveva buone proprietà fertilizzanti92.

Quanto ai criteri di gestione degli scerti, anche qui l’Annunziata era solitaricorrere all’affitto. La conduzione in economia, che si ebbe solo eccezional-

89 Sul percorso di questo canale, cfr. E. MATTIOCCO, Struttura urbana e società della Sulmo-na medievale, cit., pp. 112-113. Per un quadro dei canali irrigui presenti nella zona, cfr. E. MAT-TIOCCO – F. VAN WONTERGHEM, Sistemi irrigui nel territorio dei Peligni tra antichità e medioevo,“Atlante tematico di topografia antica” 4(1995) pp. 197-209.

90 Cfr. SASS, ACSA, Protocolli corrispondenza 1836-1838, lettera del direttore Scipione Corviall’intendente dell’Aquila del 19 luglio 1838: “Il canale così detto di Cattenazzi prese tale domina-zione [sic] sin dall’anno 1811, tempo in cui l’antichissimo canale detto Scerto piccolo di proprietàdi questo ospizio, a causa delle alluvioni e straripamenti, erasi inutilizzato, in modo che doveva inte-ramente rinnovarsi in sito superiore a quel vecchio, accostandosi l’incile sopra corrente, operazioneche presentava un interesse non lieve. Allora fu che la famiglia de’ signori Cattenazzi si offrì ese-guirne il lavoro anticipandone le spese per esserne rivalsa dalla Commissione amministrativa quan-do conveniva agli interessi dell’ospizio, rivaluta che si verificò nel 1814 circa”.

91 Sui metodi di irrigazione diffusi nella zona, cfr. T. BONANNI, Le antiche industrie della pro-vincia di Aquila, Aquila, Grossi, 1888, pp. 65-69; V. BATTISTA, La via del grano. Lavoro e culturacontadina nella Valle Peligna, cit., pp. 21-24.

92 Cfr. B. H. SLICHER VAN BATH, Storia agraria dell’Europa occidentale, cit., p. 357.

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mente, comportava per gli amministratori “grave imbarazzo, responsabilità edinquietudine”, e si traduceva spesso in un guadagno minore93. I contratti, sti-pulati sempre in primavera, nell’imminenza dell’inizio dell’irrigazione, che siprotraeva da maggio ad agosto, prevedevano delle clausole abbastanza unifor-mi94. La durata dell’affitto poteva variare da uno a sei anni, a seconda dell’affi-dabilità e della forza contrattuale del conduttore, spesso peraltro affiancato dagaranti che si obbligavano in solido per il rispetto degli obblighi contrattuali.L’affittuario si impegnava a corrispondere un estaglio in moneta, sovente in trerate, e rinunciava a qualunque richiesta di scomputo per mancanza d’acqua.Doveva eseguire a proprie spese tutti i lavori di manutenzione ordinaria deicanali, mentre restavano a carico del luogo pio solo le spese occorrenti perrestaurare le strutture “in caso di dirroccamento”. Era poi tenuto a dividere lacorrente delle acque in maniera tale che una quantità adeguata fluisse nel cana-le che alimentava il mulino, la cartiera e la rameria, assumendo l’obbligo dirisarcire i gestori di questi tre impianti per ogni eventuale danno. Si impegnavaad attenersi a precise tariffe nella somministrazione dell’acqua ai vari terreni:prezzi più elevati (fino a 40 grana per opera nel 1826) erano ammessi per le red-ditizie colture orticole e per alcuni vigneti, mentre per il resto dei terreni dove-va accontentarsi di compensi più bassi (non più di 24 grana per opera). Erainfine obbligato a restituire gli scerti al termine dell’affitto in buone condizionie adeguatamente spurgati.

A tenore di tali accordi, in definitiva, gli amministratori dell’Annunziatadovevano preoccuparsi soltanto di eseguire i più importanti lavori di riparazio-ne delle condotte. Tra questi, particolarmente frequenti erano i restauri degliincili (ossia le imboccature dei canali irrigui), spesso danneggiati dalla neve edalle alluvioni, nonché il consolidamento delle strutture essenziali al funziona-mento di tutto il sistema irriguo, come il già ricordato ponte delle Canala95.

93 La citazione è tratta da SASS, ACSA, Protocolli corrispondenza 1836-1838, lettera deldirettore Scipione Corvi all’intendente dell’Aquila del 19 maggio 1836. Nel periodo 1818-1861,la gestione degli scerti in amministrazione si ebbe solo per il triennio 1833-1835: cfr. SASS,ACSA, Registri, n. 41, Libro maggiore 1814-1815, c. 68v.

94 Cfr. SASS, ACSA, Registri, n. 11, Libro mastro della Real Chiesa e Sacro Ospedale d’A.G.P.di Solmona, cc. 400v-407v, per i contratti stipulati dal 1790 al 1806, e SASS, ACSA, Registri, n. 41,Libro maggiore 1814-1815, c. 65v e segg. per quelli stipulati dal 1815 al 1847. La citazione che seguenel testo è tratta dalle clausole del contratto con Giacomo Granata, concluso il 30 aprile 1815.

95 Danni agli incili sono documentati tra l’altro nel 1828 e nel 1836. Nel primo caso, le“copiose nevi” provocarono la rottura dell’incile dello scerto piccolo, mentre nel secondo, le“alluvioni avvenute in modo straordinario” il 5 e 6 luglio danneggiarono gravemente l’incile delloscerto grande: cfr. rispettivamente SASS, ACSA, 21, Registri della corrispondenza 1824-1828, let-tera del direttore Vincenzo Sardi all’intendente dell’Aquila dell’8 maggio 1828, e SASS, ACSA,Protocolli corrispondenza 1836-1838, lettera del direttore Scipione Corvi all’intendente dell’Aqui-

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Assai pesanti erano viceversa gli obblighi posti a carico degli affittuari, e vanotato che l’adempimento dei vincoli contrattuali veniva in genere preteso conuna certa inflessibilità. Lo dimostra, fra l’altro, il caso di Croce Balassone, con-duttore degli scerti dal 1821 al 1826 per l’estaglio annuo di 755 ducati. Questisperimentò fin dall’inizio una certa difficoltà a pagare la somma convenuta, per-ciò, fondandosi sul mancato rispetto di alcuni vincoli da parte dell’Annunziata,chiese ed ottenne nel 1823 uno scomputo di 80 ducati l’anno96. Neppure in talmodo, tuttavia, riuscì a far fronte ai suoi obblighi: il volume delle acque, ridot-to in quegli anni a quantità assai modeste, non gli consentì di ricavare dai dirit-ti d’irrigazione neppure la metà delle somme che doveva annualmente all’istitu-to97. Quest’ultimo fu dunque autorizzato ad espropriare diverse proprietà diBalassone e di tutti i suoi garanti, anche se non riuscì mai a recuperare tutto ildenaro di cui era creditore98.

Oltre ad ammettere, naturalmente, cause di ordine climatico, la diminuzio-ne del flusso delle acque poteva derivare anche dalla mano dell’uomo. Fre-quenti erano, in particolare, le sottrazioni di acqua compiute dagli abitanti di

la del 31 luglio 1836. Per quanto concerne il ponte delle Canala, sappiamo che nel maggio 1761subì il crollo di una parte in muratura lunga 5 canne e mezza (all’incirca 11 metri). L’imminenzadell’inizio della stagione delle irrigazioni indusse l’amministratore Biase Zampichelli ad appron-tare provvisorie riparazioni in legname, che costarono 40 ducati: cfr. ASN, Tribunale misto, Pro-cessi, 900, relazione del governatore di Capestrano Pietro Celentani dell’8 gennaio 1762. Nel giu-gno 1814, il ponte richiese ancora urgenti lavori di restauro. Come afferma una nota redatta daGiuseppe Arcangioli e dal direttore Vincenzo Sardi, i lavori “debbono farsi sollecitamente, primoperché dovendosi cominciare l’irrigazione, l’impeto dell’acqua che passar deve per lo cennatocanale produrrebbe un guasto considerevole, cosicché la spesa poi sarebbe quadrupla di quellache al presente occorre; secondo perché trascurandosi i riattamenti medesimi, il ponte potrebbeancora pericolare, ed allora oltre della spesa per la rifazione, che sarebbe incalcolabile, non sipotrebbe avere il beneficio della irrigazione, si correrebbe il rischio di perdere tante derrate, esarebbero in conseguenza grandi ed inesprimibili gli schiamazzi ed i clamori del popolo; terzoperché mancando l’irrigazione, l’ospizio verrebbe a privarsi di un cespite di rendita ben signifi-cante”: cfr. SASS, ACSA, Mandati di pagamento, vol. 1, giugno- dicembre 1814, c. 108r.

96 Cfr. SASS, ACSA, 21, Registri della corrispondenza 1824-1828, lettera del direttore Vin-cenzo Sardi all’intendente dell’Aquila del 17 marzo 1825: “Nell’anno 1821 si procedé all’affittodegli scerti delle acque in subasta, e rimase per anni sei e per l’annuo estaglio di ducati 755,00 adun tal Croce Balassone di questo comune, ed a di costui favore fu da cotesto Consiglio approva-to. Il Balassone diede varj garanti, ed ottenne da cotesto stesso Consiglio un annuale diffalco diducati 80,00 sul cennato estaglio, a causa di non essersi aperto il formale della Madonna delleGrazie, cosicché l’estaglio stesso si ridusse a ducati 675. In ciascun anno, il cassiere ha duratomolto stento e fatica, e per via di coazioni, e mezzi giudiziarj contro del principale, e de’ garanti,ha esatto come meglio ha potuto, ed ora in saldo del 1824 debbono esigersi altri ducati 549,25”.

97 Cfr. SASS, ACSA, Protocolli corrispondenza 1836-1838, lettera del direttore ScipioneCorvi all’intendente dell’Aquila del 13 novembre 1836.

98 Cfr. ivi, lettera del direttore Scipione Corvi all’intendente dell’Aquila del 22 giugno 1836.

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Pettorano, un comune situato in prossimità delle sorgenti del Gizio, da cui sialimentavano, come si è accennato, i canali irrigui di proprietà dell’Annunzia-ta99. Nel luglio 1826, ad esempio, i pettoranesi edificarono delle “forti impaliz-zate” nell’alveo del fiume, facendo sì che pochissima acqua fluisse verso Sul-mona, al punto che fu necessario interrompere l’attività dei mulini e delle gual-chiere cittadine100. Nell’agosto 1833 una nuova emergenza fu provocata dallasistemazione di “grosse ceppe, lunghi travi e grossi margini” in prossimità delleimboccature dei canali posseduti dall’istituto101. Nel settembre 1839, infine, conil pretesto di restaurare il vecchio ponte d’Arce, i pettoranesi ne intrapresero lacostruzione di uno nuovo, strutturato però in maniera tale da alimentare i cana-li che adacquavano le campagne del piccolo centro in modo assai più abbon-dante che nel passato102. Tali episodi non furono tuttavia che le manifestazionipiù evidenti di un conflitto mai del tutto sopito, che dava anzi adito, conside-rata l’entità degli interessi in gioco, a gravi problemi di ordine pubblico. Nonper caso, le operazioni di distribuzione delle acque irrigue dovevano spesso ese-guirsi con l’assistenza di gendarmi103.

99 Le controversie tra gli abitanti di Sulmona e Pettorano per l’utilizzo delle acque irriguesono antichissime: le prime testimonianze in merito risalgono al 1291: cfr. E. MATTIOCCO, Sulmo-na. Città e contado nel catasto del 1376, cit., p. 34. Sull’argomento, cfr. C. MARINUCCI, Una con-troversia in materia di acque in E. MATTIOCCO (ed.) Scripta et scripturae, cit., pp. 71-98.

100 Cfr. SASS, ACSA, 21, Registri della corrispondenza 1824-1828, lettera del direttore Vin-cenzo Sardi all’intendente dell’Aquila del 13 luglio 1826.

101 SASS, ACSA, Protocolli corrispondenza 1833-1835, lettera del direttore Scipione Corviall’intendente dell’Aquila dell’11 agosto 1833.

102 Cfr. SASS, ACSA, Protocolli corrispondenza 1839 – 1840, lettera di Scipione Corvi al sot-tintendente di Sulmona del 19 settembre 1839: “Non ho potuto pria di questo giorno significar-le le mie osservazioni sulla nuova opera che il sindaco di Pettorano intende fare sul corso delleacque del fiume Gizzio nel locale detto ponte d’Arce col fondare i due pilastri a fabbrica percostruirvi un ponte in surroga del vecchio cadente […] e tra perché non ho potuto avere sott’oc-chio il progetto dell’opera, e tra perché ho voluto attendere lo scavo delle fondazioni per veder-ne la direzione. Non ho trascurato giorno per giorno di farvi assistere persona dell’arte, ed aven-do ricevuto l’avviso di essersi già incominciato ad operare, che immantinenti nella giornata di ieriinsieme coll’avvocato dell’ospizio ci portammo sopra luogo, e col massimo rincrescimento rile-vammo che l’oggetto di quel comune di Pettorano non è quello di rinnovare il vecchio pontecadente, ma di divergere al di più che si può la corrente delle acque, costruendo un muro allaparte di oriente non rettilineo come era costruito l’antico ponte, ma in linea piegata, sufficiente afar divergere le acque per imboccare una maggiore quantità, ed anche totale se fosse possibile,nell’incile del formale detto di ponte d’Arce, che irriga i campi di esso e degli altri sottoposti […]Potendo aver luogo e termine quella operazione novella, gravissimi pregiudizi ne risentirebbe l’o-spizio, e le campagne di questa città potrebbero fin da ora dirsi a secco”.

103 Le testimonianze in proposito sono numerosissime. Per tutte, si veda SASS, ACSA, Pro-tocolli corrispondenza 1833-1835, lettera del direttore Scipione Corvi all’intendente dell’Aquiladel 6 ottobre 1833: “Che tale guardia […] sia stata necessaria ed indispensabile può contestarlo

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Anno Rendita canali di irrigazione % Rendita lorda complessiva dell’Annunziata1818 640,00 5,68 11.253,511819 640,00 4,14 15.437,101820 640,00 5,14 12.449,011821 251,67 1,94 12.967,451822 186,20 1,39 13.313,901823 355,17 2,44 14.497,681824 205,75 1,30 15.732,351825 442,34 3,24 13.649,951826 528,00 4,20 12.543,151827 624,00 4,49 13.891,871828 475,84 3,69 12.888,611829 700,00 5,59 12.504,661830 700,00 6,49 10.773,681831 570,00 4,75 11.975,101832 570,00 4,14 13.764,761833 566,14 3,94 14.339,941834 663,02 4,74 13.961,331835 550,77 4,35 12.643,681836 476,44 4,11 11.569,911837 505,00 4,23 11.917,951838 624,00 5,05 12.337,021839 635,00 4,93 12.872,851840 635,00 4,42 14.347,051841 560,01 4,69 11.934,471842 577,32 5,09 11.332,261843 798,40 6,93 11.506,701844 746,56 6,18 12.071,101845 800,00 6,42 12.450,721846 500,00 4,06 12.312,151847 700,00 5,35 13.066,141848 770,00 5,23 14.710,731849 700,00 4,95 14.120,621850 700,00 3,58 19.505,711851 700,00 3,58 19.550,021852 800,00 3,97 230.151,041853 750,00 4,38 17.100,121854 760,00 5,07 14.974,391855 800,00 4,92 16.234,731856 850,00 4,79 17.716,611857 750,00 3,67 20.427,981858 750,00 3,52 21.256,291859 750,00 3,70 20.252,201860 750,00 3,36 22.302,271861 750,00 2,91 25.695,18

Tabella XIV - Rendita in ducati proveniente dall’affitto dei canali di irrigazione (1818-1861)

Fonti: SASS, ACSA, Registri di introito 1818-1861.

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Alla luce di tutto questo, può ben comprendersi l’orientamento seguitodagli amministratori dell’Annunziata, che, concedendo in affitto i canali d’irri-gazione, scaricavano sui conduttori i rischi e le inquietudini connesse a tali pro-blematiche, preoccupandosi solo di incassare gli estagli in corrispondenza dellescadenze pattuite. A quanto ammontava la rendita che l’istituto ricavava dagliscerti? Anche in questo caso, siamo in grado di rispondere a tale domanda soloper il periodo che va dal 1818 al 1861, come può più dettagliatamente osser-varsi nella tabella XIV. Le somme variavano da un minimo di 186,20 ducati,registrato nel 1822, ad un massimo di 850 ducati, attestato nel 1856. L’inciden-za di tale rendita sulla rendita lorda complessiva oscilla dall’1,30% al 6,93%104.Se si considera che la media dell’intero periodo è del 4,33%, può concludersiche dai canali d’irrigazione l’Annunziata ricavava una rendita non elevata, macomunque sicura e non soggetta alle imprevedibili fluttuazioni di altri cespiti.

lo stesso signor sindaco, non solo, ma il fatto stesso, giacché per raro esempio l’irrigazione si èeseguita senza le solite risse ed omicidi, ed altri gravissimi sconcerti, verificati in tutti i tempi tra-scorsi periodicamente”.

104 Per ciò che riguarda il periodo anteriore, è possibile fare un confronto solo con il 1728 (l’u-nico stato patrimoniale completo del ’700 di cui disponiamo si riferisce infatti a tale anno). A fron-te di una rendita lorda di 6.966,85 ducati, la rendita proveniente dall’affitto degli scerti era di 236ducati, con un’incidenza del 3,38%: cfr. SASS, ACSA, 6, Collegiata chiesa di A.G.P., cc. n.n

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Una piccola cooperativa di credito nel Beneventano:la Cassa di risparmi e prestiti di Vitulano fra le guerre

diVITTORIA FERRANDINO

L’associazionismo di mutuo soccorso, che si diffuse nel nostro Paese nellaseconda metà del secolo XIX, era legato soprattutto alla formazione di unaclasse operaia moderna. Specialmente nelle province dell’entroterra dell’Italiameridionale, esso diede maggiore impulso alla creazione di istituzioni culturali,come scuole serali e corsi di qualificazione per artigiani ed agricoltori, e di orga-nismi di interesse collettivo, come banche, cooperative, piccole manifatture1.

Negli anni 1881-1890, le società costituite in Campania erano aumentate da76 a 293, con un aumento degli iscritti da 13.313 a 30.676, a testimonianza dicome negli anni più acuti della crisi agraria il mutuo soccorso potesse rappre-sentare una possibile risposta alla contrazione dei redditi delle categorie piùdeboli2. Nel decennio successivo, le società si ridussero a 68 con 8.352 soci. Diesse, appena 3, con 151 soci, sopravvivevano nella provincia di Benevento, ri-spetto alle 15 fondate nel decennio 1881-1890 con 941 soci3.

Purtroppo, non si dispone della documentazione archivistica relativa allesocietà di mutuo soccorso costituite nel Beneventano4, se non per poche di esse, icui archivi sociali hanno consentito di ricostruire le vicende interne dei singoli

1 D. IVONE, Associazioni operaie, clero e borghesia nel Mezzogiorno tra Ottocento e Novecen-to, Milano, 1979, p. 21.

2 Lo squilibrio nella distribuzione regionale del mutualismo era rilevante, data la maggioreconcentrazione nelle regioni settentrionali e in Toscana (cfr. V. FERRANDINO, Le società operaie dimutuo soccorso nella provincia di Benevento tra Ottocento e Novecento: natura e funzioni, in E. DE

SIMONE - V. FERRANDINO, a cura di, Assistenza, previdenza e mutualità nel Mezzogiorno tra Otto-cento e Novecento, in corso di pubblicazione).

3 Ibidem. 4 Nello studio dell’associazionismo meridionale si continua a riscontrare l’esiguità delle fonti

disponibili. L’unico tentativo di censimento delle associazioni operaie e contadine è rimastosostanzialmente quello condotto da Diomede Ivone (cfr. D. IVONE, Associazioni operaie, clero eborghesia nel Mezzogiorno tra Ottocento e Novecento, cit.).

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sodalizi e dei rapporti da essi intrattenuti con altre associazioni. Si tratta dellaSocietà operaia di mutuo soccorso di Benevento (1864), della Società di mutuo soc-corso tra gli operai di Cerreto Sannita (1881), della Società operaia di mutuo soccor-so e di previdenza di S. Agata dei Goti (1903) e della Società operaia di mutuo soc-corso di Vitulano (1911)5.

Tutte avevano come obiettivo prioritario quello di migliorare le condizionifisiche e morali degli operai, assicurando sussidi per malattie croniche o di vec-chiaia e concedendo prestiti. Non mancavano il sostegno finanziario per lespese funebri, in caso di morte di un socio, e la costituzione di «maritaggi» perle figlie dei soci. Per far fronte a tali spese, le società richiedevano ai propriiscritti un contributo associativo, crescente a seconda dell’età, una prima voltacome tassa di ammissione e successivamente come contribuzione mensile, il cuiimporto poteva essere aumentato in caso di necessità.

In tal modo, le società di mutuo soccorso si assicuravano una notevole flessi-bilità e una conseguente capacità di adattamento alle situazioni più difficili.Nonostante l’attenta gestione dei fondi, però, l’indice di «mortalità» di tali societàera piuttosto elevato, soprattutto a causa delle condizioni spesso fallimentari deiloro bilanci, dovute alla riscossione di quote sociali per lo più modeste a fronte dispese, soprattutto di natura assistenziale, piuttosto consistenti6.

Molto dipendeva dal modo in cui le società operavano e da come investi-vano o redistribuivano i risparmi dei soci. Si andava dal piccolo prestito, all’in-vestimento in titoli fino ad attività imprenditoriali vere e proprie o cooperative,condotte direttamente o date in appalto7.

Nel Beneventano, le modeste dimensioni dei sodalizi non sempre consentiro-no l’apertura di apposite «Casse di prestiti», come nel caso delle Società cerretesee santagatese, mentre quelli che riuscirono a farlo dovettero ben presto chiudereper cattiva amministrazione, come nel caso della Cassa cooperativa operaia dellaSocietà operaia di mutuo soccorso di Benevento8 e della Cassa cooperativa dirisparmi e prestiti annessa alla Società operaia di mutuo soccorso di Vitulano.

Il fallimento di quest’ultima è emblematico delle difficoltà in cui si dibatte-vano i sodalizi operai. La Società, costituita a Vitulano il 29 ottobre 1911, siproponeva non soltanto «il mutuo soccorso dei socii fra di loro […] promo-

5 V. FERRANDINO, Le società operaie di mutuo soccorso nella provincia di Benevento tra Otto-cento e Novecento: natura e funzioni, cit.

6 L. TOMASSINI, Il mutualismo nell’Italia liberale (1861-1922), Atti del seminario di studio, Spo-leto, 8-10 novembre 1995, Le società di mutuo soccorso italiane e i loro archivi, Roma, 1999, p. 30.

7 S. CASMIRRI, Tra lavoro e solidarietà: l’azione delle Società operaie di muto soccorso in Terradi Lavoro dopo l’Unità, in P. MASSA-A. MOIOLI, a cura di, Dalla corporazione al mutuo soccorso.Organizzazione e tutela del lavoro tra XVI e XX secolo, Milano, 2004, p. 487.

8 V. FERRANDINO, Le società operaie di mutuo soccorso nella provincia di Benevento tra Otto-cento e Novecento: natura e funzioni, cit.

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vendo e cooperando con ogni mezzo alla istruzione, educazione, moralità ebenessere economico dei socii e delle loro famiglie», ma anche di «aiutare ilpiccolo commercio fra i socii mediante la istituzione di una cassa cooperativa dirisparmi e di prestiti»9. La Cassa fu costituita contemporaneamente alla fonda-zione della società di mutuo soccorso, sotto forma di società cooperativa perazioni a capitale illimitato. Essa aveva un Consiglio di amministrazione proprio,che operava sotto la sorveglianza del Consiglio direttivo e del Comitato dei sin-daci della Società operaia. Il Consiglio di amministrazione era formato daldirettore, dal vice-direttore, da sette consiglieri, dal segretario e dal cassiere10.

Con deliberazione assembleare del 30 settembre 1928, fu stabilito diapportare alcune modifiche allo statuto, che «per le sue molteplici lacune edimperfezioni» doveva essere emendato in alcuni punti11. Fu prevista, tra l’altro,la trasformazione in «Cassa rurale cooperativa di risparmi e prestiti» in nomecollettivo e quindi con la responsabilità illimitata dei soci, «per dare una mag-giore garanzia che offrirebbero sui loro averi circa 400 soci, garanzia di moltosuperiore a quella che offr[iva] il capitale azionario della Società stessa»12. Gliamministratori della Cassa, però, volutamente, non curarono gli adempimentilegali relativi alle modifiche proposte in assemblea, ma addirittura giunsero adabrogarle mediante altra delibera del 19 aprile 193113.

Il patrimonio della Cassa si componeva delle quote sociali, versate dai sociin ragione di 20 lire ognuna, e del fondo di riserva, costituito dagli utili netti (equindi dedotte tutte le spese, compresa la quota annuale destinata al mutuosoccorso) devoluti alla fine di ogni anno, fino al raggiungimento del decimodell’ammontare dei depositi. Ciascun socio poteva effettuare depositi in contocorrente o vincolati. Il patrimonio della Cassa e l’ammontare dei depositi dove-vano essere impiegati in prestiti ai soci. Essa poteva, inoltre, accordare sovven-zioni su pegno di effetti pubblici, assicurare il servizio di cassa anche per contodi terzi o dello Stato e ricevere valori a custodia e in amministrazione. Poiché loscopo della Cassa era di favorire lo sviluppo dell’agricoltura, essa poteva anchefungere da intermediario, per la provvista di fondi, con il Banco di Napoli oaltro istituto designato ad esercitare il credito agrario14.

9 Statuto della Società operaia di mutuo soccorso di Vitulano, Montoro superiore, 1912, pp. 3-4.10 ARCHIVIO BANCA D’ITALIA, FILIALE DI BENEVENTO, Cassa cooperativa di risparmi e presti-

ti della società operaia di Vitulano, Ispezioni alle aziende di credito, 26 febbraio 1933.11 Ibidem.12 ARCHIVIO BANCA D’ITALIA, FILIALE DI BENEVENTO, Cassa cooperativa di risparmi e presti-

ti della società operaia di Vitulano, Relazione del direttore della Cassa, Cusano Domenico, del 16febbraio 1929.

13 IDEM, Cassa cooperativa di risparmi e prestiti della società operaia di Vitulano, Ispezioni alleaziende di credito, 26 febbraio 1933.

14 IDEM, Cassa cooperativa di risparmi e prestiti della società operaia di Vitulano, Verbale del-l’Assemblea straordinaria del 30 settembre 1928.

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Negli anni 1926-28, i depositi, remunerati ad un tasso di interesse del 4 percento per quelli in conto corrente e del 6 per cento per i vincolati, fecero registra-re una consistenza variabile tra quasi 800 mila e più di 900 mila lire, mantenendo-si a questi livelli fino al 1931. Negli stessi anni, le cambiali in portafoglio, che frut-tavano un tasso medio di sconto dall’8 all’8,50 per cento, si mantennero intorno almilione di lire15.

Gli utili di esercizio crebbero da poco più di 26 mila lire nel 1926 a più di 46mila lire nel 1930, nonostante l’aumento delle spese di amministrazione e dei costidel personale. Nel 1931 si cominciò a registrare una diminuzione degli utili che nel1933 furono di poco superiori alle 15 mila lire, soprattutto a causa del mancatoinvestimento in titoli di Stato e della maggiore incidenza delle spese giudiziarie16.

Un’ispezione della Banca d’Italia rilevò, infatti, nel 1931, l’esistenza di cre-diti di difficile riscossione a favore di componenti del consiglio di amministra-zione, del vice direttore, del cassiere e del segretario17. L’importo delle cambia-li in sofferenza superava, quell’anno, le 130 mila lire, raddoppiatesi l’anno suc-cessivo, anche perché gli amministratori della Cassa avevano accolto l’invitodella Banca d’Italia «a sistemare con tutta sollecitudine le cambiali scadute enon regolate e a passare a Sofferenze quelle di lenta e difficile realizzazione»18.

Il direttore della Cassa, Cusano, in una comunicazione alla Banca d’Italia,sottolineò il momento di crisi economica che si stava attraversando19. L’econo-mia rurale risentiva, infatti, dei contraccolpi della caduta dei prezzi manifestati-si all’indomani del crollo di Wall Street20.

Nella provincia sannita la situazione era aggravata dalle conseguenze deri-vate «dal fallimento di numerose banche e dalle condizioni poco liete dell’agri-coltura»21. Parecchie aziende avevano limitato la lavorazione e qualcuna di esseaveva sospeso ogni attività. Anche il commercio, principalmente al minuto, sof-friva della restrizione del giro d’affari dovuta alla diminuzione dei prezzi, alladifficoltà di riscuotere i crediti dai clienti, specie dopo la riduzione degli sti-

15 IDEM, Cassa cooperativa di risparmi e prestiti della società operaia di Vitulano, Comunicazio-ne del Direttore della Cassa alla filiale di Benevento della Banca d’Italia, 22 agosto 1929; v. tav. 1.

16 V. tav. 2.17 ARCHIVIO BANCA D’ITALIA, FILIALE DI BENEVENTO, Cassa cooperativa di risparmi e presti-

ti della società operaia di Vitulano, Ispezioni alle aziende di credito, 19 gennaio 1931.18 IDEM, Cassa cooperativa di risparmi e prestiti della società operaia di Vitulano, Comunica-

zione dell’amministrazione centrale della Banca d’Italia, 23 marzo 1931; v. tav. 1. 19 IDEM, Cassa cooperativa di risparmi e prestiti della società operaia di Vitulano, Comunica-

zione del Direttore della Cassa alla filiale di Benevento della Banca d’Italia, 13 maggio 1931.20 V. ZAMAGNI, La dinamica dei salari nel settore industriale, in P. CIOCCA-G. TONIOLO, L’e-

conomia italiana nel periodo fascista, Bologna, 1976, pp. 338-339.21 CONSIGLIO E UFFICIO PROVINCIALE DELL’ECONOMIA CORPORATIVA DI BENEVENTO, Rela-

zione sull’andamento economico della provincia di Benevento nell’anno 1931, p. 230.

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pendi, alla preferenza del pubblico per i prodotti più scadenti, nonché allarichiesta di vendita a rate che il commerciante non poteva soddisfare, non aven-do in genere la possibilità di ricorrere al credito presso le banche22.

Come è stato osservato, «venivano al pettine i nodi formatisi negli anni pre-cedenti, quando si era largheggiato nel credito»23. Le banche locali avevanomolto spesso riservato il credito ai soci e a loro parenti ed amici, potendo con-tare sul risconto presso gli istituti di emissione24.

Comunque, nonostante la difficile situazione che l’intero comparto crediti-zio beneventano stava vivendo, il direttore della Cassa cooperativa Cusano ras-sicurò la banca centrale che alcuni amministratori avrebbero estinto senz’altrole loro obbligazioni, mentre gli altri si erano impegnati ad una restituzione gra-duale dei loro debiti25.

L’anno dopo, sempre la Banca d’Italia, rilevava l’inosservanza delle dispo-sizioni vigenti in materia di tassi passivi, che stabilivano un tasso del 3 per centoper i depositi a risparmio e del 4 per cento per quelli vincolati26. La visita ispet-tiva del febbraio 1933, inoltre, accertò che i prestiti più rilevanti risultavanoconcessi a non soci27, nonostante lo scopo della Cassa fosse di «aiutare il picco-lo commercio fra i soci mediante prestiti da farsi ai soci medesimi»28.

Fino al 1931, comunque, la situazione finanziaria ed economica era sem-brata piuttosto rassicurante, dal momento che i depositi a risparmio e il patri-monio sociale superavano ampiamente gli impieghi, specie in sconto di cambia-li, per importi superiori al milione di lire, e si continuava a registrare un risul-tato di esercizio costantemente positivo29. Dopo il pauroso calo dell’utile a pocopiù di 18 mila lire, nel 1932, e a 15 mila nell’anno seguente, si arrivò ad una

22 ARCHIVIO STORICO DELLA BANCA D’ITALIA, Ispettorato generale, pratiche, n. 336, fasc. 1,Visita ispettiva, Affari e partite incagliate, anno 1933, pp. 1-2; Consiglio e Ufficio Provinciale del-l’Economia Corporativa di Benevento, Relazione sull’andamento economico della provincia diBenevento nell’anno 1931, cit., p. 230.

23 E. DE SIMONE, La Banca Sannitica. Economia e credito a Benevento fra Ottocento e Nove-cento, Napoli, 1999, p. 239.

24 G. MORICOLA, Usurai, prestatori, banchieri. Aspetti delle relazioni creditizie in Campaniadurante l’Ottocento, in Storia d’Italia Einaudi. Le regioni dall’Unità ad oggi: La Campania, a curadi P. Macry e P. Villani, Torino, 1999, pp. 656-657.

25 ARCHIVIO BANCA D’ITALIA, FILIALE DI BENEVENTO, Cassa cooperativa di risparmi e presti-ti della società operaia di Vitulano, Comunicazione del Direttore della Cassa alla filiale di Bene-vento della Banca d’Italia, 13 maggio 1931.

26 IDEM, Cassa cooperativa di risparmi e prestiti della società operaia di Vitulano, Ispezioni alleaziende di credito, 17 dicembre 1932 e 21 dicembre 1932.

27 IDEM, Cassa cooperativa di risparmi e prestiti della società operaia di Vitulano, Ispezioni alleaziende di credito, 26 febbraio 1933.

28 Statuto della Società operaia di mutuo soccorso di Vitulano, cit., p. 3.29 V. tavv. 1-2.

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perdita di quasi 4 mila lire nel 193430. A parte la perdita di esercizio, ciò chepreoccupava era l’esodo dei depositi, tanto che questi si erano ridotti da più di818 mila nel 1931 a poco più di 695 mila lire nell’anno successivo, nonché ilnotevole importo dei crediti in sofferenza, aumentati da 130.577 a ben 301.708mila lire31.

L’ispettore della Banca d’Italia sottolineava che le perdite certe emerse dal-l’esame del portafoglio, quelle non ancora palesi «che non di meno insidiavanola consistenza dell’azienda», il passaggio a perdite delle partite iscritte al conto«Debitori diversi», l’immobilizzo di tutti i crediti e l’incuria con la quale veni-vano espletate le pratiche intese a recuperare le partite in contenzioso, costitui-vano un pericolo per gli interessi dei depositanti32.

Negli anni successivi la perdita continuò a crescere, arrivando a quasi 130mila lire nel 1937, a causa soprattutto dell’elevata incidenza delle spese per ilpersonale, oltre che dell’imposta di ricchezza mobile che, «per ragioni d’accer-tamento, v[eniva] pagata sul bilancio di anni precedenti, quando il giro d’affa-ri era di molto superiore»33. Ciò a fronte di un progressivo calo dei depositi apoco più di 191 mila lire34. Il prefetto di Benevento, nella comunicazione del 5marzo 1935 al Ministero delle Finanze, a difesa della Cassa, precisava che alcu-ne cambiali della stessa erano «passive» per effetto della sopravvenuta crisi eco-nomica e per altre, anche ben garantite, non si procedeva ad atti di espropria-zione per evitare elevate spese giudiziarie, che avrebbero gravato sui debitori, inmaggior parte agricoltori. Il prefetto faceva notare, inoltre, che sia il direttoreche gli amministratori avevano rinunciato da oltre tre anni ad ogni remunera-zione e prestavano perciò la loro opera gratuitamente35. Dall’altro lato, il diret-tore della filiale di Benevento della Banca d’Italia riferiva alla sede centrale chenon pochi depositanti della Cassa continuavano a denunciare le difficoltà che

30 V. tav. 2. Proprio in quell’anno, il direttore della sede beneventana della Banca d’Italiaaveva diffidato gli amministratori della Cassa ad abbandonare l’abitudine di contabilizzare tra iricavi del conto economico gli interessi maturati e non riscossi sui crediti incagliati, «allo scopodi poter distribuire un dividendo agli azionisti» (ARCHIVIO BANCA D’ITALIA, FILIALE DI BENE-VENTO, Cassa cooperativa di risparmi e prestiti della società operaia di Vitulano, Vigilanza sulleaziende di credito, 9 giugno 1934).

31 V. tav. 1; ARCHIVIO BANCA D’ITALIA, FILIALE DI BENEVENTO, Cassa cooperativa di risparmie prestiti della società operaia di Vitulano, Ispezioni alle aziende di credito, 11 novembre 1935.

32 IDEM, Cassa cooperativa di risparmi e prestiti della società operaia di Vitulano, Ispezioni alleaziende di credito, 26 febbraio 1933.

33 IDEM, Cassa cooperativa di risparmi e prestiti della società operaia di Vitulano, Prefettura diBenevento, 5 marzo 1935.

34 V. tavv. 1 e 2.35 IDEM, Cassa cooperativa di risparmi e prestiti della società operaia di Vitulano, Prefettura di

Benevento, 5 marzo 1935, cit.

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incontravano nell’ottenere la restituzione anche di piccola parte delle sommedepositate, il che dimostrava che, nonostante i ripetuti inviti rivolti agli ammi-nistratori, nulla era stato fatto «per sollevare l’azienda dallo stato di disagio incui si dibatte[va]»36.

L’esame del bilancio di esercizio dell’anno 1935 evidenziava «l’anormalesituazione in cui l’azienda stessa si trova[va] da tempo, sia per le difficoltà direalizzo degli impieghi sia per la mancanza di disponibilità liquide». Considera-to, inoltre, il rilevante ritiro dei depositi tra gennaio 1935 ed ottobre 1936, laBanca d’Italia riteneva che la Cassa difficilmente sarebbe stata in grado di risol-levarsi dallo stato di disagio e, pertanto, non restava altro che liquidarla. Primadi ricorrere a tale provvedimento, si invitavano i dirigenti della Cassa a delibe-rare, senza ulteriori dilazioni, provvedimenti atti ad evitare che le ragioni credi-torie dei terzi potessero essere compromesse37. La convocazione dell’assembleastraordinaria dei soci era, però, difficile, a causa delle «colture campestri incorso», che rendevano impossibile il raggiungimento del numero legale38. Final-mente, con delibera assembleare del 25 luglio 1937, la Cassa propose di svalu-tare le azioni possedute dai soci e di chiedere ai depositanti di concedere un«abbuono» del 30 per cento sui depositi39. Le proposte furono approvate dal-l’assemblea straordinaria del 24 dicembre 1937, giungendo addirittura ad unaccordo circa un abbuono sui depositi del 40 per cento40.

L’Ispettorato del credito ritenne tali provvedimenti non idonei ai fini delrisanamento della Cassa, essendo necessario reintegrare il capitale sociale nellamisura non inferiore a 100 mila lire, in un periodo massimo di tre mesi. LaCassa non riuscì a farlo, a causa soprattutto del lento recupero dei crediti, sic-ché l’assemblea dei soci fu costretta a deliberare la messa in liquidazione e loscioglimento anticipato della società41.

Il liquidatore Antonio Zotti svolse il difficile compito di liquidare le attivitàdella Cassa, «totalmente costituite da partite incagliate realizzabili con perdite

36 IDEM, Cassa cooperativa di risparmi e prestiti della società operaia di Vitulano, Vigilanzasulle aziende di credito, 19 febbraio 1936.

37 IDEM, Cassa cooperativa di risparmi e prestiti della società operaia di Vitulano, Vigilanzasulle aziende di credito, 14 gennaio 1937.

38 IDEM, Cassa cooperativa di risparmi e prestiti della società operaia di Vitulano, Comunica-zione alla Banca d’Italia, succursale di Benevento, 16 maggio 1937.

39 IDEM, Cassa cooperativa di risparmi e prestiti della società operaia di Vitulano, Deliberazio-ne dell’Assemblea dei soci, 25 luglio 1937.

40 Ibidem, 24 dicembre 1937.41 ARCHIVIO BANCA D’ITALIA, FILIALE DI BENEVENTO, Cassa cooperativa di risparmi e presti-

ti della società operaia di Vitulano, Ispezioni alle aziende di credito, 14 aprile 1938 e 5 ottobre1938; Deliberazione dell’Assemblea dei soci, 23 ottobre 1938.

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ed in un periodo di tempo non breve», per un importo totale di poco superio-re alle 100 mila lire, a fronte di passività costituite da depositi e creditori diver-si per più di 150 mila lire42. Le operazioni di liquidazione della Cassa si chiuse-ro entro il 31 dicembre 1941, dopo aver realizzato le attività e liquidate tutte lepassività43.

Le vicende della Cassa cooperativa di risparmi e prestiti di Vitulano testi-moniano la complessità del passaggio da casse che concedevano prestiti garan-titi esclusivamente dal lavoro e dall’onestà del socio a vere e proprie «Cassedepositi e prestiti», che ampliarono la loro attività anche a persone estranee allacompagine sociale, rischiando di assumere caratteri «speculativi» più che«mutualistici»44. Il problema principale restava, infatti, la carenza di risorse euna politica di impieghi sempre più clientelare e, pertanto, caratterizzata darischi elevati.

42 V. tav. 1; ARCHIVIO BANCA D’ITALIA, FILIALE DI BENEVENTO, Cassa cooperativa di risparmie prestiti della società operaia di Vitulano, Ispezioni alle aziende di credito, 6 maggio 1939.

43 V. tavv. 1 e 2; ARCHIVIO BANCA D’ITALIA, FILIALE DI BENEVENTO, Cassa cooperativa dirisparmi e prestiti della società operaia di Vitulano, Ispezioni alle aziende di credito, 6 febbraio1942.

44 L. GREZZI FABBRI, Le società di mutuo soccorso italiane nel contesto europeo fra XIX e XXsecolo, in V. ZAMAGNI, a cura di, Povertà e innovazioni istituzionali in Italia dal Medioevo ad oggi,Bologna, 2000, p. 520.

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25

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56

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57

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58

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59

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61

El Banco de Menorca(1911 - 1952)

diJUAN HERNÁNDEZ ANDREU (UCM)

En este ensayo pretendemos mostrar un ejemplo de cómo se fue contribu-yendo a configurar la concentración bancaria en España durante el primer ter-cio del siglo XX, atendiendo a un proceso de crisis en bancos pequeños, segui-da la crisis de quiebra de la entidad, en unos casos; y en otros, de estancamien-to; lo cual conduciría, en la mayoría de los casos, a absorbimientos de estospequeños por algún gran banco del estatus quo bancario. En hipótesis, la cri-sis de los pequeños bancos habría que relacionarla con el fracaso de la indus-trialización española a finales del siglo XIX y primera mitad del siglo XX.

Me referiré, a modo de ejemplo, a dos bancos de la Isla de Menorca; so-meramente al Banco de Mahón (el cual ya analicé en otro sitio) y de modo par-ticular al Banco de Menorca. En la Isla, entre 1880 y 1911, se fundaron nume-rosos bancos1, fenómeno vinculado también con el auge agrícola, los corres-pondientes intentos de industrialización moderna y con el movimiento regene-racionista insular en lo económico, aunque también en lo educativo, ostensibleesto después del desastre de 1898. Así se habían creado el Banco de Mahón, S.A. (1882-1911)2, Banco de Ciudadela, S. A. (1887-1911), Goñalons, Carreras yCía, Sociedad Comanditaria (1889-?), Crédito Industrial Mercantil, S. A. (1890- antes de 1897), Fomento Industrial y Agrícola de Menorca, S.A. (1901-1911),Banco de Alayor, S. A. (1902-1911), Crédito Mercantil de Menorca, S. A.(1905-1954), Banco de Comercio, S. A. (1906-1911) y Banco de Ferrerías, S. A.(1908-1965). En 1922 existían además dos casas de banca: José T. Canet de

1 V. ARROYO (2002). M.A. CASASNOVAS (2003). G. TORTELLA (1994). En 1910 se concen-traban en Menorca el 13 por 100 del total de las entidades bancarias españolas. Entre 1901 y1910 se crearon en Menorca seis bancos, lo que suponía más del 20 por 100 de los creados enEspaña durante aquellos años.

2 El Banco de Mahón en fecha 24 de abril de 1885 tenía el mismo capital que el Banco deBilbao en la misma fecha. (Dirección General del Instituto Geográfico y Estadístico, 1888, 1930).

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Ciudadela y Timoner, Castell y Cía, S. en C. de Alayor. Asimismo existía la Cajade Ahorros y Monte de Piedad de Mahón.

El Banco de Mahón se había creado en 1882. Mahón disfrutó de estabili-dad económica entre 1900 y 1911, conforme a la coyuntura internacional, quefue expansiva hasta 1929; la crisis mahonesa de 1911-1914 fue insólita en elcontexto de España. En 1904 desapareció la empresa textil Industrial Mahone-sa (entonces se llamaba Fabril Mahonesa); pero en 1902 la Maquinista Naval,emplazada al lado del Arsenal, se había transformado en la Anglo Española deMotores, Gasógenos y Maquinaria en General, la cual ocupaba a unos 400 tra-bajadores. Esta empresa tuvo un mercado extendido a lo largo de toda lapenínsula y su sede social estaba en Madrid. La “Anglo” vinculó su negocio alBanco de Mahón (tenían el mismo Presidente) y las dos entidades quebraron en1911, con efectos en espiral sobre el resto del sistema financiero y la economíamenorquines, marcando el final de una década expansiva.

Los efectos sociales de aquella crisis la indican los comentarios de la pren-sa local, llena de opiniones y análisis a lo largo de los meses de junio, julio,agosto y siguientes. Se describe el impago del Banco de Mahón de los reem-bolsos a los clientes de sus propios depósitos, de la alarma social generalizadaen todo el sistema financiero, de las deudas del Banco, de los operarios de la“Anglo”que no pudieron volver al trabajo, de la llegada a Mahón del Sr. Fran-cesc Cambó en representación de la Banca Arnús para arreglar la crisis, peroque su plan fracasó, de los viajes de los empresarios mahoneses a Madrid, delcruce de telegramas, de las relaciones con el Banco de España y su sucursal dePalma; del primer intento de crear el Banco de Menorca, que de momento nopudo prosperar; de toda una multitud de esfuerzos y todos resultaron inútiles.

La prensa recogía los decretos judiciales de suspensión de pagos del Bancode Mahón y del Fomento Agrícola de Ciudadela (quebraron el Banco deMahón, el Banco de Comercio, el Banco de Alayor y el Fomento Industrial yMercantil; el Banco de Ciudadela quebraría en 1924); también hablaba de lafalta de cobro de salarios atrasados de los obreros de la “Anglo”. Y por si nofuese poco el 5 de julio de 1911 se anunciaba la venta en pública subasta de losterrenos, edificios, maquinaria y efectos que constituían la extinguida SociedadAnónima Industrial Mahonesa, fábrica de tejidos.

Los días 7 y 14 de junio, el periódico El Bien Público editaba el análisisinmediato de la crisis financiera mediante sendos escritos de Jerónimo Massa-net. Habla éste sobre todo de las causas de fondo y de largo plazo que habíanhecho que Menorca hubiese ido perdiendo alcance económico (descenso de suimportancia militar; caída del comercio colonial con Cuba y de los beneficiosque se obtenían allí gracias a los aranceles protectores...). También habla dealguna causa inmediata, “como son las producidas por la liquidación forzosaque la cartera de los bancos ha tenido que efectuar para atender a los reembol-

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sos de créditos y valores locales que los particulares exigirían de forma urgente,obligando así a las sociedades a repetir en igual forma contra sus deudores, quepor su parte se han visto en la necesidad de realizar sus bienes con notorio que-branto”. En definitiva, fracasó la industrialización moderna competitiva. (J.Hernández Andreu, 2003)3.

Aquel mismo año de 1911 se creó en la misma plaza el Banco de Menorca,que en 1951 sería absorbido por el Banco Central después de que este integra-ra en su seno el Banco Hispano Colonial. La quiebra del Banco de Mahón,como vimos, estuvo vinculada al intento fallido de industrialización moderna enla Balear menor; y el Banco de Menorca subsistió durante cuarenta años, supe-rando la crisis de 1929 y la postbélica que siguió a la guerra civil; en su largatrayectoria no logró ejercicios económicos con grandes beneficios; experimen-tando etapas de estancamiento en los años de 1930 y de 1940; pero entró sane-ado en el círculo del Banco Central, con un personal forzosamente experimen-tado en el trabajo y en el negocio bancario. Algo análogo podríamos decir delCrédito Mercantil de Menorca, creado en 1905 y absorbido por el Banesto en1954; y de otros tantos. Así, entre 1943 y 1956 fueron absorbidos el BancoComercial de Ciudadela por el Crédito Balear en 1947, la Banca Timoner Cas-tells por el Banco Hispano Americano en 1951 y el Banco Menorquín de Cré-dito (creado en 1914?) por el Banco Español de Crédito en 1952. El grannúmero de bancos existente en la Isla con un pequeño respaldo patrimonial,sometidos forzosamente a una elevada competencia entre ellos acarreaba limi-tados beneficios e invitaba a arriesgadas operaciones especulativas.

Seguidamente nos centraremos en la historia del Banco de Menorca, revi-sando los datos existentes al respecto en el Archivo histórico del Banco deEspaña. Aventuro la hipótesis de que si hubiese triunfado la industrializaciónmoderna en España, los pequeños bancos no hubiesen sido absorbidos por losgrandes; incluso no hubieran quizás quebrado el Banco de Cataluña y el Bancode Barcelona; probablemente otros bancos catalanes se hubiesen consolidado,como la Banca Arnús; y, en definitiva, no se hubiese engendrado la concentra-ción bancaria y ulteriormente el estatus quo del sistema financiero español.

El Banco de Menorca

Fracasado el intento de Francesc Cambó de rehacer el Banco de Mahón,dicho banquero procedió a la fundación del Banco de Menorca en Mahón, concapital de la Banca Arnús, casi absolutamente. El capital menorquín fue insig-

3 J. Hernández Andreu (2003).

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nificante. La escritura fue otorgada el 29 de julio de 19114. El Banco fue inscri-to en el Registro Mercantil de Palma, al tomo 10, folio 60, hoja número 362. ElBanco de Menorca, además de su sede en Mahón tendría Casa en Ciudadela yen Alayor. El capital social se fijó en un millón quinientas mil pesetas, repre-sentado por treinta mil acciones de cincuenta pesetas cada una. Al constituirsela Sociedad, se suscribieron veinte mil acciones por valor de un millón de pese-tas; las restantes diez mil por valor de quinientas mil pesetas, se pondrían encirculación cuando el Comité de Inspección lo juzgase conveniente. La BancaArnús compró 19.580 acciones; y los menorquines don Jorge T. Ladico Oliva,100; Miguel Florit y Mascaró, 100; Miguel Sintes Mercadal, 200; y José Teodo-ro Canet, 20; total, 20.000 acciones. El Presidente del Banco de Menorca, Fran-cisco P. Gambas era Director Gerente de la Banca Arnús y el Vicepresidentedel Banco de Menorca, Julio Pauchet, era Director General y más tarde Conse-jero de la Banca Arnús5.

El Banco de Menorca se constituyó como Sociedad Anónima y tenía porobjeto “dedicarse a toda clase de operaciones de Banca; bolsa, crédito, com-pras, ventas, depósitos, préstamos, giros, descuentos, cambios comisiones yemisiones.- Dichas operaciones –señalaban los Estatutos- consistirán preferen-temente en realizar giros, préstamos, descuentos, abrir cuentas corrientes con osin interés, dar o tomar cantidades a préstamo en cualquier forma o interés,comprar y vender valores por cuenta de la Sociedad o en comisión, recibirlosen depósito o cuenta corriente, depositarlos en poder de cualquier Banco,Sociedad o particular, tomar parte por cuenta propia o en comisión en cual-quiera emisión de efectos públicos o valores que hagan los Estados, provincias,Municipios, administraciones públicas o privadas, Sociedades o compañías.- Engeneral –se decía-, el objeto social se extiende a realizar las operaciones finan-cieras o de crédito más variadas y extensas de cualquiera naturaleza que sean yque se comprendan en la categoría de operaciones de Banca, Bolsa o Comerciode dinero”6.

El Banco era un instrumento para superar la crisis bancaria de 1911, con elapoyo de la Banca Arnús. Este banco fue absorbido por el Banco Central en losaños de 1940 y el Banco de Menorca sería después integrado también por elCentral en fecha de diciembre de 1951, como política de su expansión territo-rial. En 1914 persistía la crisis económica en la Isla y los directivos del Banco deMenorca traspasaron la sucursal que tenía el Banco en Ibiza al banquero AbelMatutes Torres, ya que las inversiones allí experimentaban alto riesgo7.

4 ABE, Sucursales, Palma de Mallorca, 1. 12.5 J. V. Arroyo, 2002.6 Estatutos del Banco de Menorca, 1911.7 Memoria del Banco de Menorca, ejercicio 1914, 7.

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En 1917 el capital social del Banco de Menorca se redujo a un millón, conel 50 por 100 desembolsado, representado por 30.000 acciones, de las que20.000, de a 25 pesetas una, estaban en circulación, y 10.000, de a 50 pesetasuna, que se quedaron en “cartera”, manteniéndose así hasta la integración delBanco de Menorca por el Banco Central. El Banco de Menorca quedó registra-do en el Registro de Sociedades el 21 de enero de 1920.

La capacidad de autofinanciación del Banco de Menorca era de un 23 por100 en 1935 y subió a un 24 por 100 en 1942. Ello facilitó mantener la con-fianza de los clientes y su orientación fue sobre todo comercial; así, la cartera detítulos fue poco importante, en relación a los recursos financieros del banco. Locual se refleja sobre todo a raíz de la crisis de 1927 y se intensificó en los añosde 1930, que tuvo la contrapartida de abrigar al Banco de Menorca de la crisisindustrial que fraguó en 1929 y afectó, por tanto, a los valores industriales. Losrecursos también estuvieron estancados hasta 1935; entonces estos aumentaronpor la vía del pasivo otorgado por bancos y banqueros, consecuencia de loscambios de prosperidad del Banco de Menorca.

Las acciones de la Banca Arnús, propietaria del Banco de Menorca fueronadquiriéndose en 1930-1933 por bancos catalanes; las acciones estaban enmanos de capital extranjero y la Banca Arnús quedó bajo la órbita del BancoHispano Colonial por desaparición de los dos otros socios de la operación(Banca de Cataluña y Banca López Brú).

Situación del Banco de Menorca al término de la guerra civil

Respecto a la situación del Banco de Menorca al término de la guerraCivil, disponemos de una Memoria del Gerente Sr. Camilo Hernández, defecha 22 de marzo de 1939, en la que declara al Jefe del Servicio Nacional deBanca, Moneda y Cambio del Ministerio de Hacienda, que las disponibilida-des del Banco encontradas en Caja en 9 de febrero de 1939 eran las siguien-tes (en pesetas):

Billetes Banco España legítimos 133.425,-Plata 12.403,50Talones cargo otros Bancos 153,05Niquel y calderilla 27,33 146.008,88Billetes Banco España ilegítimos 401.700,-Certificados plata 5.230,-Papel moneda del Tesoro 30,50Timbres, discos, Monedas ConsejosMunicipales de Menorca 110,02 407.070,52

553.079,49

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Asimismo se certificaba que era normal la situación de los siguientes con-ceptos:

Estado material de la cartera de efectos a corto plazo y documentos de cré-dito;

Estado material de la cartera de títulos propiedad del Banco;Libros de contabilidad desaparecidos y consecuencias sobre el conoci-

miento inmediato de los saldos activos y pasivos; ySituación material de los depósitos de títulos en custodia y sus registros.En virtud del mismo motivo y en las mismas fechas (4 de abril de 1939), la

Caja de Ahorros y Monte de Piedad de Mahón, entre sus disponibilidadeslíquidas refleja una cuenta en el Banco de Menorca, junto a otras en el Bancode España, Banco Hispano Americano y en el Crédito Mercantil de Menorca(entidad fundada en 1905 y que fue absorbida por el Banco Español de Crédi-to en 1954, para introducirse este en Menorca; con ciclos parecidos a los delBanco de Menorca, pero con mayor rentabilidad)8.

El banco de Menorca durante el decenio de 1940

Durante los años cuarenta el pasivo acreedor del Banco de Menorca expe-rimentó un alza y también crecieron las inversiones totales, sobre todo lasinversiones comerciales y los fondos públicos, no así las inversiones industria-les. El Banco de Menorca repartió un dividendo activo del 5 por 100 corres-pondiente al periodo 1 de abril de 1944 – 31 de marzo de 1945; y otro de25.000 pesetas a 31 de diciembre de 1946 (El capital más reservas a 1 de abrilde 1946 eran 533.615, 83; 5 por 100 de dicha suma se elevaba a 26.680, 79;siendo, por tanto, el dividendo activo acordado a repartir: 25.000,- pesetas).

El Director General del Banco de Menorca contestó en fecha 6 de julio de1949 al Director General de Banca y Bolsa del Ministerio de Hacienda cum-pliendo el precepto de comunicarle que el Banco durante el ejercicio de 1948no distribuyó dividendo alguno. Es muy elocuente de la marcha económico-financiera del Banco de Menorca la Memoria de dicho ejercicio, firmada por elGerente Sr. Camilo Hernández Portella: “Las características generales del ejer-cicio que se comenta han sido parecidas al anterior, sin que nos sea grato seña-lar ningún dato sobresaliente, pero sí podemos hacer constar haber cumplido lagenuina misión asignada a la Banca de estímulo a la Industria, Comercio y Agri-cultura, otorgándoles créditos, siempre dentro de la pauta prudencial que debeser nuestra guía.- Nuestra clientela ha sido objeto de las mejores atenciones,ofreciéndoles constantemente un servicio lo más completo posible en todos los

8 V. Arroyo (2002).

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aspectos de nuestras actividades.- Hemos de reconocer y así hacerlo constarcon la máxima satisfacción, que la política crediticia desarrollada no hubierasido posible llevarla a cabo sin la cooperación y ayuda eficaz que en todomomento nos viene prestando el BANCO CENTRAL, a cuya prestigiosa Enti-dad nos hallamos fuertemente vinculados y del que recibimos además, unaimportante aplicación de negocios.- Los resultados obtenidos, que se reflejanen la cuenta de Pérdidas y Ganancias, son, evidentemente satisfactorios si secomparan con los de ejercicios anteriores. Sin duda, hubieran podido incre-mentarse de no surgir la crisis aguda en nuestra Isla, que impide, tanto por laescasez de cosechas como por la contracción que nuestras industrias principa-les -calzado, bisutería, etc.,- registran en sus compradores habituales, que limi-tan sus pedidos a lo más estrictamente indispensable, que el tráfico en nuestropuerto y la actividad económica, en general, tengan las características de nor-malidad que serían apetecibles»9. Este ejercicio arrojaba un beneficio superioren un 73,4 por 100 al del año anterior y se proponía su reparto entre lossiguientes conceptos:

Reparto de beneficios del Banco de Menorca, ejercicio 1948A participación del personal 14.657,72A Impuesto Tarifa 3ª 22.541,92A Impuesto Regº 5% Ley 31-12-48 1.127,09A amortización pérdida 1936/39 59.233,37A remanente a cuenta nueva 5.083,02

TOTAL 102.643,12Fuente: Memoria del Banco de Menorca, ejercicio 1948

Quiero destacar de esta Memoria la referencia precisa a la crisis económi-ca de la Isla, general en toda España y resto de Europa; y también la señaladavinculación del Banco de Menorca a la ayuda financiera del Banco Central, locual corrobora lo anteriormente indicado al respecto y que el Banco de Menor-ca se hallaba en la antesala de ser absorbido.

El Banco de Menorca fue integrado en el Banco Central en fecha 31 dediciembre de 1951; y el 10 de diciembre de 1952, el Presidente de la ComisiónLiquidadora del Banco de Menorca, escribió a la ya mencionada Dirección Gene-ral de Banca y Bolsa del Ministerio de Hacienda respondiendo que no huboreparto de dividendo activo durante el ejercicio económico de 1950 en el banco.

Las cifras de Pérdidas y Ganancias del decenio de 1940, muestran una cri-sis en 1942, 1943 y 1944; un pequeño enderezamiento en 1945 y 1946, queexplica el por qué del reparto de un dividendo; y un alza de 1948 que señala

9 Memoria del Banco de Menorca, ejercicio de 1948.

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la ayuda e influencia del Banco Central. Los recursos totales del Banco deMenorca entre 1920 y 1950 siempre fueran netamente superiores a las inversio-nes totales como puede observarse en los gráficos 1, 2 y 3 (carecemos de datoscifrados para los años 1936-1940 y 1947). Con todo, sabemos por la Memoriaantes transcrita de las pérdidas del periodo de la guerra civil.

Años C N C D Fondo Reservas Recursos propios Pasivo acreedor Recursos totales1920 1000 500 25 525 1126 16511921 1000 500 25 525 1099 16241922 1000 500 55 555 1792 23471923 1000 500 58 558 1899 24571924 1000 500 62 562 2023 25851925 1000 500 67 567 1547 21141926 1000 500 72 572 1691 22631927 1000 500 78 578 1539 21171928 1000 500 86 586 1727 23131929 1000 500 94 594 1897 24911930 1000 500 108 608 2250 28581931 1000 500 112 612 2186 27981932 1000 500 112 612 1692 23041933 1000 500 113 613 1718 23311934 1000 500 115 615 1683 22981935 1000 500 117 617 3139 37561941 1000 500 119 619 3026 36451942 1000 500 121 621 4957 55781943 1000 500 121 621 2949 35701944 1000 500 121 621 3529 41501945 1000 500 121 621 4088 47091946 1000 500 121 621 4957 557819471948 1000 500 121 621 5066 56871949 1000 500 121 621 10542 11163

Fuente: J.V. ARROJO, BBVA (2002). Archivio Histórico Banco de España, Banca privada, C. 194.Elaboración propia. C N:Capital nominal. C D: Capital desembolsado

Banco de Menorca, Recursos Totales (1920-1949) - (En millares de pta.)

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Años E C Créditos Inv.Comercial F P Valores Industriales Cartera Titulos Inv. Total1920 491 595 1086 65 11511921 491 607 1098 65 11631922 416 707 1123 37 55 92 12151923 508 703 1211 201 57 258 14691924 528 1036 1564 149 44 193 17571925 387 915 1302 37 29 66 13681926 498 734 1232 38 38 76 13081927 221 585 806 119 53 172 9781928 424 567 991 35 180 215 12061929 475 1023 1498 28 124 152 16501930 404 888 1292 11 121 132 14241931 428 818 1246 1 100 101 13471932 545 824 1369 1 165 166 15351933 492 328 820 1 11 12 8321934 272 341 613 3 2 5 6181935 387 439 826 7 2 9 8351941 431 1271 1702 500 188 688 23901942 609 1833 2442 455 68 523 29651943 2129 16 2145 475 75 550 26951944 2151 32 2183 458 59 517 27001945 3018 47 3065 459 60 519 35841946 3201 155 3356 453 46 499 385519471948 4308 786 5094 433 57 490 55841949 6165 1418 7583 433 58 491 8074

Fuente: J.V. ARROJO, BBVA (2002). Archivio Histórico Banco de España, Banca privada, C. 194.Elaboración propia. EC: Efectos comerciales. FP: Fondos públicos.

Banco de Menorca, Recursos Totales (1920-1949) - (En millares de pta.)

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Conclusiones

He expuesto aquí un ejemplo de Banco pequeño local adquirido por unbanco del estatus quo, lo cual atribuyo a la depresión económica general ylocal, que obstaculizó la viabilidad de las pequeñas entidades financieras.

Mantengo, pues, la opinión acerca de la incapacidad financiera del Bancode Menorca para salir de un estancamiento económico, registrado en los añosanteriores y siguientes a la guerra civil; lo cual fue debido a la depresión eco-nómica interna insular a causa del fracaso de la industrialización en sentidomoderno en Menorca y por la crisis económica general de España. El Banco deMenorca, además del negocio propio de una banca mixta con predominio delactivo comercial, dispondrá en definitiva de la ayuda financiera proveniente defuera, del Banco Central, que se hizo de hecho con el Banco de Menorca en1947/1948 y lo absorbió en 1952.

Considero que con este estudio del Banco de Menorca he contribuido tam-bién a desvelar que dicho banco hubiese sido viable de modo autónomo encaso de no haberse producido la depresión industrial menorquina y la crisis delos años de 1930. Por analogía pienso que este argumento es aplicable a losotros bancos menorquines que fueron absorbidos por grandes bancos durantela primera mitad del siglo XX, impulsándose así la concentración bancaria.Además debemos tener presente que el sistema financiero menorquín había lle-gado a constituir el 13 por cien del total de las entidades bancarias españolas en1910; y que entre 1901 y 1910 se crearon en Menorca seis bancos, lo que supo-nía más del 20 por 100 de los creados en España en aquellos años; estos datos

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apoyan la representatividad de dicho sistema dentro del conjunto español. Portanto, la conclusión obtenida para el caso de Menorca en este estudio, confir-ma mi hipótesis de que la crisis industrial o el fracaso de la industrializaciónespañola provocó la concentración bancaria, o, al menos, contribuyó directa-mente a ello. Destaco de este estudio la investigación de los balances anualesdel Banco de Menorca.

FUENTES

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1 La teoria giuridica che definisce il diritto come organizzazione (istituzione) fu elaboratanei primi del Novecento in Francia da M Hauriou ed in Italia da Santi Romano. Tale tesi venivaannoverata nel concetto di “istituzionalismo”, con ciò indicando quella corrente di pensiero che– seppure non riconosciuta come scuola – ha influenzato in diverse forme studiosi quali J. R.Commons, J. M. Clark, R. G. Tugwell, W. C. Mitchell, J. Dorfman, oltre a J. K. Galbraith e C. E.Ayres. Per qualche spunto più recente, v. K. BOULDING, Ecodynamics: A New Theory of SocietalEvolution, Beverly Hills, 1978; J. MARSCHACK, Economic Theory of Teams, New Haven-London,1972.

Unternehmen an sich: la “impresa in sé”tra potere gestionalee e diritto di partecipazione

diCARMINE GALLORO

§ 1. Introduzione

Da sempre i criteri di azione dell’impresa sono stati oggetto di discussionia sfondo giuridico o economico. Secondo le teorie dell’organizzazione1, le deci-sioni dell’imprenditore mirano non solo a realizzare il massimo profitto, maanche a mantenere una struttura del patrimonio che garantisca la possibilità dicrescita, oltre alle condizioni minime di sopravvivenza nelle situazioni di incer-tezza che caratterizzano l’attività stessa.

L’argomento è particolarmente delicato, ritenuto che tale figura è la veraprotagonista del mondo economico, componendosi di altri elementi fondamen-tali quali la persona dell’imprenditore, o il complesso dei beni che formano l’a-zienda. La sua fisionomia, però, si identifica nel quid che si considera unitaria-mente nella sua attività e nella sua dinamicità, come una combinazione di attiche richiede l’organizzazione di soggetti e di mezzi destinati alla produzione oallo scambio. In questo contesto, la proprietà dei beni rappresenta stabilità esviluppo di tutte le iniziative nelle quali interviene – necessariamente - anche unfondamentale apporto soggettivo imprenditoriale, per cui l’integrazione reci-proca si dimostra irrinunciabile, soprattutto in un regime economico che si ispi-ra alla libertà.

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2 Tale definizione si trova in A. TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile, Padova, 1988, pag. 317.3 Sulla dinamica tra interesse sociale e potere di gestione, v. P. G. JAEGER, Nozione d’impre-

sa, dal codice allo statuto, Milano, 1985.4 C. M. BIANCA, Diritto civile, I, Padova, pag. 53.

Da sempre, infatti, l’impresa è stata descritta come la cellula viva nelmondo della produzione e del traffico2. La descrizione giuridica della relativafattispecie si basa sulle due componenti essenziali, l’attività e l’organizzazione,con quest’ultima in funzione strumentale rispetto alla prima3.

All’imprenditore, che procura i mezzi per l’attività economica esercitata, siriconosce tradizionalmente la funzione direttiva; ma nella realtà contemporaneaè venuto a formarsi con decisione quel processo in cui i poteri direzionali e leresponsabilità patrimoniali vanno verso forme evidenti di spersonalizzazione.Come per analogia dimostra, nell’adiacente settore del diritto del lavoro, l’af-fievolimento dell’autorità disciplinare dell’imprenditore nei confronti deidipendenti, giacché tale potere mal si concilia col principio della parità reci-proca dei soggetti privati4.

Fondamentalmente, la proprietà e l’impresa vengono concepite nel nostroordinamento come aspetto statico, la prima, ed aspetto dinamico, la seconda, delrapporto tra persona e beni. In realtà, entrambi gli istituti rappresentano quei fat-tori economici e giuridici di fondamentale importanza che, allo stesso tempo, sonoessenziali allo svolgimento dei traffici. E pertanto non è da contrapporre semplici-sticamente la proprietà, come istituto giuridico del passato, all’impresa come isti-tuto del futuro. Occorre tuttavia discernere al riguardo il potere di iniziativa, e larelativa responsabilità, dalla proprietà dei beni. La distinzione, invero, assume unparticolare significato nelle grandi società spersonalizzate, nelle quali la distinzionetra titolare anonimo dei beni – i soci – e responsabile dell’attività economica costi-tuisce un punto di qualificazione formale. È noto infatti che in tal caso il tipo diimpresa non è utilizzato allo scopo per raccogliere capitali tra il pubblico degliinvestitori, ma come mezzo idoneo a proteggere il singolo socio dalle conseguenzedella responsabilità illimitata, a fronte di una società dotata di un capitale irrisorio.

In altri casi, l’elemento personale pone in evidenza la modalità di eserciziodell’impresa da parte di un ristretto numero di attori, tutti parimenti interessa-ti nella gestione dell’attività economica. Ciò che rileva, allora, non è tanto ladimensione dell’impresa, che può essere anche notevole, né la responsabilitàlimitata, poiché i conferimenti possono essere sostanziosi; conta piuttosto l’ele-mento organizzativo della società come mezzo per ricondurre ad unità la plura-lità delle opinioni espresse e razionalizzare la distribuzione dei compiti.

Il che induce ad apprezzare sia la responsabilità in capo al titolare, perso-na fisica o giuridica, sia l’individualità dell’impresa, vivente nella dinamica eco-

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nomico-giuridica e soggetta ad oneri e diritti di partecipazioni, contribuzioni espesso anche di responsabilità. Un esempio di ciò è rappresentato dalla catego-ria delle imprese commerciali tout court (sottoposte all’obbligo di registrazio-ne), la cui precipua disciplina è diretta verso l’organismo dell’impresa anzichél’individuo il quale ne impersona la soggettività.

Sotto altro aspetto, si deve anche notare che l’evoluzione moderna dellevarie dottrine teoriche ha prospettato via via delle forme di fruizione dei beniche male si accordano con gli schemi classici. Negli odierni ordinamenti distampo liberale e pluralista, infatti, molte delle ragioni che giustificano la pro-prietà privata per la libertà della persona umana, nel rapporto con i beni per-dono il loro significato al livello dei grandi complessi economici i quali, basan-dosi sulle cennate forme societarie, richiedono una adeguata disciplina di con-trollo sui loro fini e sulle loro attività5.

La tendenza degli ultimi tempi verso forme più sociali di concezione deldiritto e dell’economia, pertanto, ha indotto i legislatori ad attenuare la rigidaimpronta individuale del diritto di proprietà, per togliere allo stesso quel carat-tere assoluto risalente alla tradizione romanistica e che ha trovato piena affer-mazione nello spirito dominante del XIX secolo6.

Ed infatti, il diritto moderno in generale è ormai orientato verso quei principidi correttezza e buona fede o, più in generale, di solidarietà e responsabilità socia-le, al punto da tralasciare la concezione essenzialmente individualistica del dirittocommerciale, caratterizzata in particolare dalla speculazione economica.

Prospettive più aperte pervengono dalle esperienze dei paesi di commonlaw, nei quali la concezione della proprietà è assai meno statica7.

5 A. BEARLE, G. MEANS, Società per azioni e proprietà privata, Torino, 1962, pagg. 209 e ss.;v. inoltre W. BRAUN, Unternehmenshandbuch Recht, Stuttgart, 2001; F. CAVAZZUTI, Capitale mono-polistico, impresa e istituzioni, Bologna, 1974; M. T. CIRENEI, Le imprese pubbliche, Milano, 1983;H. VON GERKAN, P. HOMMELHOFF, Handbuch des Kapitalersatzrechts, Köln, 2002; F. EL MAHI,Europäisches Aktiengesellschaft, Frankfurt a. M., 2004.

6 Sugli autori a favore di tale impostazione, v. A. AMATUCCI, Società e comunione, Napoli,1971; T. ASCARELLI, Corso di diritto commerciale, Milano, 1962; G. AULETTA, L’impresa e l’azien-da, Torino, 1945; G. CAMPOBASSO, Diritto commerciale.2. Diritto delle società, Torino, 1992; G.DI SABATO, Manuale delle società, Torino, 1995; F. FERRARA, La teoria giuridica dell’azienda,Firenze, 1949; F. GALGANO, L’imprenditore, Bologna, 1974; A. GRAZIANI, Diritto delle società,Napoli, 1963; V. PANUCCIO, Teoria giuridica dell’impresa, Milano, 1974; G. C. RIVOLTA, La teoriadell’impresa e gli studi di G: Oppo, in Riv. Dir. Civ., 1987, I; G. ROMANO PAVONI, Teoria dellesocietà, Milano, 1953; F. SANTORO PASSARELLI, Soggettività dell’impresa, in Impresa e società. Scrit-ti in memoria di A. Graziani, Napoli, 1942.

7 Solamente per una sintesi panoramica sull’argomento, v. R. COCKS, Foundation of theModern Bar, London, 1985; W. HOLDSWORTH, A History of English Law, London, 1942; O. W.

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§ 2 . Profili teorici dell’attività di impresa

Già agli inizi del Novecento vi era un solido orientamento che riconoscevail declino della concezione della grande impresa quale organizzazione di inte-ressi di diritto privato, in quanto essa rappresentava senza dubbio “un fattoredell’economia nazionale, appartenente alla collettività, il quale conserva, a tortoo a ragione, ancora i tratti originari di diritto privato della pura impresa lucra-tiva, ma da gran tempo in misura crescente si è posto al servizio di pubbliciinteressi e perciò si è creato una nuova ragion d’essere”8.

Tale enunciato sintetizzava gli enormi progressi dell’industria e del capitalefinanziario nel mondo dei traffici, gettando le basi di quella teoria dell’Unter-nehmen an sich (impresa in sé) che ancora oggi, sia pure in forme aggiornate ediverse, è punto di riferimento e termine di paragone di ogni riflessione sullagrande società di capitali.

In questo quadro, l’impresa perde il suo carattere di strumento esclusivo dimassimizzazione dell’utilità privata, di espressione dello sforzo creativo dell’im-prenditore, per diventare il punto di incontro di interessi che fanno capo a sog-getti o a classi sociali tradizionalmente estranei ai processi decisionali dell’im-presa. E per ciò stesso si contrappone alla teoria liberale dei diritti soggettivi,laddove la proprietà individuale dei mezzi di produzione assume quel rilievoessenziale rappresentato dal contratto, quale estrinsecazione del principio dimassima del cd. laissez faire.

Il che rispecchia quell’atteggiamento che aveva relegato per oltre un secoloi titolari di quegli interessi o nel ruolo di soggetti neutrali rispetto all’agone eco-nomico – come per lo Stato borghese dell’800 – ovvero nella comoda posizionedi ideali controparti contrattuali dell’impresa, su un assoluto piano di parità,come avviene ora per i lavoratori ed i consumatori9. La dicotomia tra istituzio-nalismo e contrattualismo, conosciuta alla dottrina commercialistica tanto euro-pea quanto nordamericana, trae origine appunto dalle fattispecie così delineate.

HOLMES, The common law, Boston, 1881; M. HORWITZ, The Transformation of American Law,Cambridge (USA), 1977; N. LUHMANN, A Sociological Theory OF Law; London, 1985; A. OGUS,Regulation: Legal Form and Economic Theory, Oxford, 1994; J. E. PENNER, The Idea of Propertyin law, Oxford, 1997; W. TWINING, Legal theory and the common law, Cambridge, 1985; C.GRAHAM, T. PROSSER, Privatizing Public Enterprises, Oxford, 1991; I. WALLERSTEIN, HistoricalCapitalism, London, 1983.

8 per una maggiore comprensione della critica alla teoria sull’organizzazione, si veda W.RATHENAU, L’economia nuova, Torino, 1967.

9 G. ALPA, Regole di mercato e disciplina del contratto, in Riv. dir. comm., 1976, I, 22; F.CALASSO, Il negozio giuridico, Milano, pag. 29 e ss; L. RAISER, Hundert Jahre deutsches Rechtsle-ben, I, Karlsruhe, 1960, pagg. 101 e ss.; S. RODOTÀ, Proprietà e industria: conflitti e tecniche dirisoluzione, in Il terribile diritto, Bologna, 1981, pagg. 135 e ss.; G. STOLFI, Teoria del negozio giu-ridico, Padova, 1961, pagg. 12 e ss.

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Il problema di fondo di tale orientamento restava, tuttavia, quello di consi-derare quali nemici dell’impresa proprio quei piccoli azionisti che, grazie al lorocontributo economico e alla fiducia riposta nell’investimento azionario, rende-vano possibile la raccolta dei capitali necessari per la creazione di grandi appa-rati produttivi. Costoro, appunto, riponevano nel dogma di una stabile ammi-nistrazione (Verwaltung), indipendente dalle mutevoli maggioranze e costituitadai grandi azionisti rappresentati nel consiglio (Vorstand), lo scopo di interessegenerale che l’impresa è chiamata a perseguire10.

Sarà la dottrina nordamericana a tentare di riequilibrare l’eccessivo potereche così viene ad essere concentrato nel consiglio stesso, attraverso la teoria deldovere fiduciario degli amministratori (directors’ fiduciary duties)11.

In questo quadro, la banca assume già agli inizi del novecento la fisionomiadi vera e propria istituzione finanziaria in Europa, oltre a rappresentare il pila-stro dello sviluppo industriale. Tale tipo di impresa, infatti, costituisce il princi-pale strumento di raccolta di fondi tra i risparmiatori per il loro investimentonelle attività produttive, rappresentando ben presto una sorta di modello dellagrande impresa, non solo in termini dimensionali, ma anche qualitativi12. Lasevera smentita di ciò si avrà all’indomani della crisi del 1929, allorché si mani-festa l’esigenza di collocare l’attività produttiva non più negli angusti limiti deldiritto privato, ma tra gli interessi precipui che lo stesso ordinamento economi-co generale si cura di garantire.

Sotto questo profilo l’esperienza italiana può dirsi esemplare, poiché nelnostro paese le ragioni connesse alla tutela del risparmio e al corretto eserciziodel credito hanno per lungo tempo fatto della banca un’impresa sui generis, acavallo tra funzione pubblica e libertà di iniziativa economica privata13.

§ 3. Confronto tra decisionismo e democraticità all’interno dell’impresa

Ancora oggi la dialettica amministratori-soci azionisti costituisce il puntochiave nella contrapposizione tra salvaguardia del potere decisionale dell’as-

10 A. BEARLE, G. MEANS, op. cit., pag. 220; P. G. JAEGER, cit., pagg. 21 e ss.11 R. MONKS, N. MINOW, The Economic Structure of Corporate Law, Cambridge (USA),

1995, pagg. 372 e ss.12 A. CIVALE, Deutsche Direktinvestitionen in Italien in den Fünfziger und Sechziger Jahren

des 20. Jahrhunderts, in Jahrbuch für Wirtschaftsgeschichte (JWG), Berlin, 2004/2, pagg. 151 e ss.;P. DARLEDER, K. O. KNOPS, H. G. BAMBERGER, Handbuch zum deutschen und europäischen Bank-recht, Wien, 2004, pagg. 135 e ss.; C. HUBER, Bankensystem – Bankenaufsicht – Recht der Banken-geschäfte. Ein Handbuch für die Praxis, Baden Baden, 2001, pag. 238.

13 P. FERRO-LUZZI, Lezioni di diritto bancario, Torino, 1995, pag. 62 e ss; R. COSTI, L’ordi-namento bancario, Bologna 1994, pag. 13 e ss. 135 e ss.

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semblea degli azionisti, di ispirazione democratico-contrattuale, e l’interessealla conservazione della stabilità e funzionalità dell’impresa, di impronta istitu-zionale14. Un esempio è significato dalla decisione di incrementare il capitalesociale, rinvenendosi nella specie innanzi tutto il cd. carattere “costituzionale”della determina, in quanto incidente sulla partecipazione del socio in misura deisuoi diritti patrimoniali e corporativi. L’aumento, infatti, impone nuovi esborsie può risolversi, laddove il diritto d’opzione non sia esercitato, in una capitisdeminutio15 dell’azionista all’interno della compagine azionaria, modificandonepeso relativo e partecipazione agli utili.

Questo profilo rimanda ancora agli anni dell’Ottocento, quando la societàper azioni era effettivamente l’affare di un gruppo di imprenditori tutti pari-menti coinvolti nell’operazione economica, pur conservando tuttora piena at-tualità nella società di capitali a partecipazione ristretta.

Al contrario, nella grande società per azioni, il reperimento dei capitalinecessari alla prosecuzione e alla espansione dell’impresa, nell’andamento cicli-co del mercato, è normalmente oggetto di valutazioni particolarmente sofistica-te. Al riguardo, nessuno meglio del consiglio di amministrazione – e, in parti-colare, di quegli amministratori direttamente investiti mediante la delega dellaconcreta conduzione dell’impresa – può individuare il momento più adatto peril compimento dell’operazione16. E ciò è tanto più vero quanto maggiori sono ledimensioni della società ed il numero dei suoi azionisti, poiché in tal casooccorre avere dimestichezza con la redazione di bilanci complessi e con l’ampia

14 Diversamente dalla teoria dell’organizzazione, il contrattualismo si basa sull’acquisizione delconsenso democraticamente espresso, mirando a tutelare la base degli azionisti e dei soci attraversola predisposizione di norme procedurali razionali e prevedibili. Il che rappresenterebbe un baluardocontro scalate e colpi di mano repentini e autoritari. Tale indirizzo teorico si fonda sulla critica del-l’organizzazione come dato a sé stante nella realtà della vita economica, distinto rispetto ai soggettiportatori di singoli interessi. Cosicché l’attività dell’impresa mira necessariamente alla propria so-pravvivenza, anziché alla tutela delle ragioni individuali, perseguendo uno scopo sociale che solo diriflesso tiene conto degli interessi dei soci. Il che è dovuto, da un lato, all’indiscriminato allargamen-to della base sociale; dall’altro, al distacco costante e crescente tra la titolarità della quote sociali e lagestione responsabile dell’impresa. I princìpi ispiratori della teoria contrattualistica sono stati ripor-tati alla luce a metà del secolo scorso da studiosi di estrazione eterogenea , quali J. Rawls, A. Schot-ter, R. Sugden e R. Dahrendorf. Alcune analisi recenti si trovano in G. FORNASIERO, Organizzazionee intuitus nelle società, Padova, 1984; A. SCHOTTER, L’economia del libero mercato, Roma, 1992.

15 La definizione è di M. GIORDANO, Crisi delle società bancarie, aumento di capitale e poteridell’assemblea: l’“Unternehmen an sich” al vaglio della Corte di Giustizia, in Foro it., 1997, IV, 131.

16 P. ABBADESSA, La gestione dell’impresa nella società per azioni, Milano, 1975, pagg. 5 e ss.;C. CALANDRA BUONAURA, Gestione dell’impresa e competenze dell’assemblea nella società per azio-ni, Milano, 1985, pagg. 142 e ss.; G. CAMPOBASSO, Diritto commerciale, cit;, pagg. 325 e ss.; G. DI

SABATO, Manuale delle società, cit., pagg. 424 e ss.; M. EISENBERG, The structure of corporation,Boston and Toronto, 1976, pag. 121; G. RAGUß, Vertrag und Haftung von Vorstandsmitgliedern,Wien, 2004, pag. 71.

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varietà di strumenti finanziari propri dell’evoluzione economica dell’apparatoproduttivo. Sicchè risulta estremamente arduo per il piccolo azionista esprime-re un parere ragionato sulla opportunità di investire risorse nuove nella societàe sulla loro destinazione, non garantendo il procedimento assembleare quellatempestività delle decisioni che spesso è uno degli elementi chiave per il suc-cesso dell’operazione.

Questa complessità ipotetica riflette, in realtà, il contrasto di fondo trametodo assembleare ed efficienza gestionale dell’impresa17. Di qui l’esigenza diritrovare il delicato compromesso nel rapporto assemblea-consiglio, lasciandosalvi i princìpi generali ma rendendo di fatto gli amministratori arbitri unicidella decisione operativa.

La tematica descritta fu invero tralasciata dal nostro codice di commerciodel 1865, per essere regolata dalla giurisprudenza a favore della delegabilità del-l’aumento. Tali problemi vennero in sèguito superati dall’art. 2443 del codicecivile del 1942, il quale, dopo aver confermato la competenza generale dell’as-semblea in punto di aumento, prevedeva esplicitamente la possibilità di unadelega agli amministratori. Nella sua originaria formulazione, tale norma sidistingueva dalla direttiva per il fatto che i poteri del consiglio erano limitatisotto molteplici profili18.

Nonostante avesse portata contenuta e carattere eccezionale, la delega nonpoteva essere data per un periodo superiore ad un anno e, inoltre, l’aumentopoteva riguardare le sole azioni ordinarie. Al riguardo, la relazione al progettopreliminare del codice n. 904 già ne metteva in evidenza la strumentalità ed effi-cienza, “soprattutto tenuto conto che un’operazione di aumento di capitale richie-de tempestività di decisione e deve perciò essere deliberata ed attuata, non solonel momento in cui è veramente necessaria per la società, ma anche, e soprattut-to, quando vi siano maggiori probabilità che vada a buon fine”19.

Allo stesso modo, la legge francese del 24 luglio 1966 n. 537 attribuiva, al 1°comma dell’art. 180, all’assemblea straordinaria la “competenza esclusiva a decide-

17 È questo il nodo fondamentale della teoria dell’impresa sviluppata da O. E. Williamson,riconosciuta sotto la dizione “discrezionalità manageriale”. Secondo questa concezione, i dirigen-ti gestiscono l’attività dell’azienda allo scopo di perseguire i loro migliori interessi attraverso ilconseguimento dei profitti che rappresentano un livello minimo accettabile. L’autonomia gestio-nale che giustifica le scelte è da riconnettersi, appunto, alla discrezionalità di chi agisce. Ritenutala sintesi dell’istituzionalismo, tale teoria è considerata ampiamente superata, in quanto concepi-ta per un mercato essenzialmente oligopolistico e, quindi, inadeguata a fronteggiare momenti ditensione economica come quello attuale. Per ulteriori riflessioni, v. O. E. WILLIAMSON, Le istitu-zioni economiche del capitalismo, Milano, 1985.

18 G. FERRI, Le società, in F. VASSALLI, Trattato di diritto civile, Torino, 1971, pag. 232; A. RUG-GIERO, Operatività delle nuove norme in materia di aumento del capitale, Firenze, 1986, pagg. 323 e ss.

19 B. QUATRARO, S. D’AMORA, Le operazioni sul capitale, Milano, 1994, pag. 171.

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re l’aumento del capitale, su proposta del consiglio di amministrazione o del diret-torio, secondo i casi”; aggiungendo, tuttavia, al 3° comma, che “l’assemblea gene-rale può delegare al consiglio o al direttorio, secondo i casi, i poteri necessari, al finedi effettuare, in una o più volte, l’aumento di capitale, di stabilirne le modalità, diconstatarne la realizzazione e di procedere alla relativa modifica dello statuto”. Illimite temporale è quello di cinque anni quale fissato poi dall’art. 18120.

Anche l’Aktiengesetz della Repubblica Federale Tedesca del 6 settembre 1965prevedeva al paragrafo 202 la possibilità della delega al Vorstand, sempre con illimite temporale dei cinque anni e con limiti sostanziali relativi al quorum necessa-rio per deliberare la delega, al numero di azioni oggetto dell’emissione, oltre allanecessità del consenso all’emissione da parte del consiglio di sorveglianza21.

Di contro, l’esperienza inglese riconosceva la competenza degli ammini-stratori nel potere di emettere azioni22. La ragione è da ricercarsi nel fatto chenella Company law l’esercizio di tale facoltà si ricollegava non tanto alla riparti-zione delle funzioni tra assemblea degli azionisti e consiglio di amministrazione,quanto piuttosto al dovere fiduciario che i directors avevano di emettere azionisolo nell’interesse della società e non for an improper purpose23.

Ed è qui che si coglie il dato tipico del diritto societario anglosassonerispetto a quello dei paesi dell’Europa continentale, giacché tende a privilegia-re il carattere manageriale della decisione a scapito dell’esercizio di tale cómpi-to secondo i dettami della concezione costituzionale.

Il diritto societario di Italia, Francia, Germania è stato infatti sempre carat-terizzato da un sistema proprietario delle società di capitali più stabile, o per lapresenza di potenti sindacati di voto stretti intorno alle famiglie storiche delcapitalismo, o per l’intervento di banche d’affari, ovvero infine tramite gliincroci azionari24. L’aumento di capitale era allora visto in termini statici, cioè dirispetto delle competenze tra organi della società; laddove gli amministratorierano espressione di maggioranze durature e precostituite, mentre gli azionistiimprenditori non avevano alcun interesse a veder ridotte le proprie prerogative.

Gli ordinamenti di common law, in quanto tendenzialmente ispirati ai princí-

20 U. LA MALFA, Aumento di capitale e delega al consiglio di amministrazione, Milano, 1984,pagg. 508 e ss.

21 W. HAPP, Aktienrecht. Handbuch – Mustertexte – Kommentar, Köln, 2004, pagg. 211 e ss.;U. HÜFFER, Aktiengerstetz. Kommentar, München, 2004, pag. 71.

22 K. HOPT, E. WYMEERSCH, European Company and Financial Law, Berlin, 1994, pag. 345;L. SEALY, Cases and Materials in Company Law, London, 1993, pagg. 340 e ss.

23 L. GOWER, Principles of Modern Company Law, London, 1992 pagg. 552 e ss.; L. SEALY,op. cit, pag. 344.

24 R. WEIGMANN, Concorrenza e mercato azionario, Milano, 1978, pag. 13; sul punto v. inol-tre: S. GRUNDMANN, Europäisches Gesellschaftsrecht, Heidelberg, 2004; H. HIRTE, EuropäischesBankrecht, Köln, 2001.

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pi di pragmatismo ed efficientismo, prevedevano al riguardo una maggiore mobi-lità degli assetti di controllo delle grandi società, con il rischio peraltro di inco-raggiare scalate temerarie. Cosicché l’aumento di capitale poteva – a seconda deicasi – essere adoperato in vista di un duplice scopo: meramente gestionale insituazioni normali, e quindi perfettamente rientrante nell’ordine delle competen-ze del consiglio; oppure “costituzionale” e di forte impatto sugli assetti proprie-tari in occasione di un take-over25, nel qual caso operava il richiamo etico ai dove-ri fiduciari, a cui si allacciava la neutralità degli amministratori.

Di talché si configurava un modello decisionale assolutamente sconosciutonel resto d’Europa, che rispecchiava al tempo stesso il mutato ordine di rap-porti nella struttura organizzativa della società per azioni26.

§ 4. La giurisprudenza della corte di giustizia sul conflitto tra norme comuni-tarie e nazionali in materia societaria

Da sempre istituzionalismo e contrattualismo sono stati i temi che hannodiviso la dottrina commercialistica continentale su natura e funzione dellasocietà di capitali, seguendo i valori sociali e politici espressi a seconda dell’e-poca storica, come se ciò riflettesse una sorta di Weltanschauung imprenditoria-le. Oggi l’orientamento diffuso è notoriamente propenso alla progressiva limi-tazione dell’intervento dello Stato nell’economia, attraverso un’actio finiumregundorum27 che ha preso le mosse in prima battuta dalla regolamentazioneantimonopolistica dell’impresa pubblica e dell’intervento dello Stato nell’eco-nomia di mercato, per giungere ad un‘applicazione sempre più rigorosa delladisciplina sugli aiuti28.

25 L. SEALY, op. cit., pagg. 291 e ss.; un’esposizione sintetica dei poteri discrezionali del con-siglio di amministrazione della società di capitali si trova in T. BAUMS, G. THOMA, Takeover Lawsin Europe, Köln, 2003; S. SCHUSTER, C. ZSCHOCKE, Takeover Law, Frankfurt a. M., 2002.

26 J . FARRAR, N. FUREY, B. HANNIGAN, Company Law, London, 1991, pagg. 552 e ss.; 27 La definizione è di M. GIORDANO, Crisi delle società bancarie, cit., pag. 147.28 La versione consolidata dell’art. 86 (ex art. 90) del Trattato CE così dispone in materia di

concorrenza fra imprese: “1. Gli Stati membri non emanano né mantengono, nei confronti delleimprese pubbliche e delle imprese cui si riconoscono diritti speciali o esclusivi, alcuna misura con-traria alle norme del presente trattato (…). 2. Le imprese incaricate della gestione di servizi di inte-resse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale sono sottoposte alle norme del pre-sente trattato, e in particolare alle regole di concorrenza, nei limiti in cui l’applicazione di tali normenon osti all’adempimento, in linea di diritto e fatto, della specifica missione loro affidata. Lo svi-luppo degli scambi non deve essere compromesso in misura contraria agli interessi della comunità.3. La Commissione vigila sull’applicazione delle disposizioni del presente articolo rivolgendo, oveoccorra, agli Stati membri, opportune direttive o decisioni”. Per un approfondimento sulla disci-plina comunitaria della concorrenza, vedasi in dottrina A. M. CALAMIA, Diritto comunitario delle

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Lo scopo è, infatti, quello di restituire alla società di capitali il ruolo distrumento quanto più possibile democratico e trasparente di un autentico libe-ro mercato, smascherando quella neutralità, spesso di facciata, che dissimula unmodello a metà tra economia assistita e monopolismo di Stato29. La scelta con-trattualista può, allora, essere approvata solo se introduce un fattore di chiarez-za in una disciplina per anni influenzata da commistioni di interessi che ne ave-vano modificato il carattere, senza peraltro sortire sostanziali vantaggi per lacollettività.

Gli interventi comunitari in materie quali la liberalizzazione e la privatizza-zione (da un lato), oltre alla responsabilità del produttore, le clausole abusive,la tutela dei lavoratori subordinati e soprattutto il diritto antitrust (dall’altro),dimostrano come l’Unione europea abbia superato oggi i principi istituzionali-stici per restituire centralità

1. al contratto2. al libero mercato. Il primo obiettivo è posto, naturalmente, a salvaguardia di status particola-

ri, quali quello di consumatore, dipendente, creditore, socio, con l’intento dilimitare la forza contrattuale dell’impresa nei confronti del singolo (cd. con-traente debole)30. La garanzia del libero mercato rappresenta, invece, il rispetto

imprese, Pisa, 1997; M. DE BENEDETTO, L’Autorità garante della concorrenza e del mercato, Bolo-gna, 2000; A. FRIGNANI, M. WAELBROECK, Disciplina della concorrenta nella CE, Torino, 1996; D.GOYDER, EC competition law, Oxford, 1998; G. GUGLIELMETTI, Limiti negoziali della concorren-za, Padova, 1961; V. KORAH, Competition Law of the European Community, New York, 2000; A.SANTAMARIA, Diritto commerciale comunitario, Milano, 1990; A. TRABUCCHI, Sviluppo della disci-plina comunitaria della concorrenza, in Riv. Dir. Civ., 1973, I; R. WESSELING, The Modernisationof EC Antitrust Law, Oxford, 2000; M. WOUDE, C. VAN DER JONES, E. SOLIS, EC CompetitionLaw Handbook, London, 2000.

29 In particolare v. G. ROSSI, Privatizzazioni e diritto societario, in Riv. società, 1994, pagg.385 e ss., laddove si esprime la forte critica all’introduzione da parte del legislatore italiano dellacd. golden share nel processo delle privatizzazioni, evidenziando come tale strumento esercite-rebbe le sue funzioni di controllo su società solo nominalmente privatizzate. Il che rappresenta lapalese violazione della par condicio tra gli azionisti, oltre alla lesione specifica del diritto comuni-tario, di cui la seconda direttiva in materia societaria e, prima ancora, dell’art. 44 lett. g) (ex art.54) del Trattato: “Il Consiglio e la Commissione (dell’Unione Europea) esercitano le funzioni loroattribuite (…) coordinando, nella necessaria misura e al fine di renderle equivalenti, le garanzie chesono richieste, negli Stati membri, alle società a mente dell’art. 48, secondo comma, per proteggeregli interessi tanto dei soci come dei terzi”.

30 Sullo specifico argomento, si segnala ex multis G. ALPA, Status e capacità, Bari, 1993; F.BOCCHINI, Contratti per adesione, in Saggi di diritto privato, Napoli, 1999; G. DE NOVA, Le clau-sole vessatorie, Milano, 1996; V. GIORGIANNI, L’abuso del diritto, Milano, 1963; G. GUGLIELMET-TI, I contratti normativi, Padova, 1969; U. MAJELLO, Problematiche in tema di trasparenza dellecondizioni contrattuali, 1995; E. MINERVINI, Tutela del consumatore e clausole vessatorie, Napoli,

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delle regole imposte alla molteplicità degli operatori che agiscono (reciproca-mente) nel quadro dei traffici interni ed internazionali31.

In ordine alla trasparenza delle operazioni societarie, la materia è discipli-nata nel diritto comunitario dalla seconda direttiva 13 dicembre 1976 n.77/91/CEE, e segnatamente dagli artt. 25 e 29 in attuazione dei principi di cuiall’art. 58 del Trattato32.

1999; G. PASETTI, Parità di trattamento e autonomia privata, Padova, 1970; S. PATTI, Le condizio-ni generali di contratto, Padova, 1996; V. ROPPO, Contratti standard. Autonomia e controlli nelladisciplina delle attività negoziali di impresa, Milano, 1975; U. RUFFOLO, La tutela individuale e col-lettiva del consumatore, Milano, 1979.

31 V. supra, n. 28.32 Per una lettura del combinato disposto v. HTTP://EUR-LEX.EUROPA.EU/LEXURISERV/LEXU-

RISERV.DO?URI=CELEX:31977L0091:IT:HTML: “La seconda Direttiva del Consiglio è intesa acoordinare, per renderle equivalenti, le garanzie che sono richieste, negli Stati membri, alle societàdi cui all’articolo 58, secondo comma, del Trattato, per tutelare gli interessi dei soci e dei terzi perquanto riguarda la costituzione della società per azioni, nonché la salvaguardia e le modificazioni delcapitale sociale della stessa”. In particolare, l’art. 25 dispone: “1. Gli aumenti di capitale sono deci-si dall’assemblea. Tale decisione nonché l’attuazione dell’aumento del capitale sottoscritto formanooggetto di pubblicità effettuata secondo le modalità previste dalla legislazione di ciascuno Statomembro, in conformità dell’ articolo 3 della direttiva 68/151/CEE.

2. Tuttavia, lo statuto, l’atto costitutivo o l’assemblea la cui decisione deve formare oggetto dipubblicità in conformità del paragrafo 1, possono autorizzare l’aumento del capitale sottoscritto finoa concorrenza di un importo massimo che essi stabiliscono rispettando l’importo massimo eventual-mente previsto dalla legge. Nei limiti dell’importo stabilito, l’organo della società a tal uopo auto-rizzato decide, se del caso, di aumentare il capitale sottoscritto. I poteri di quest’ultimo non possonosuperare i cinque anni e possono essere rinnovati una o più volte dall’assemblea per un periodo che,ogni volta, non può superare i cinque anni.

3. Se esistono più categorie di azioni, la decisione dell’assemblea concernente l’aumento di capita-le di cui al paragrafo 1 o l’autorizzazione di aumentare il capitale di cui al paragrafo 2 è subordinata aduna votazione separata almeno per ciascuna categoria di azionisti i cui diritti siano lesi dall’operazione.4. Il presente articolo si applica all’emissione di tutti i titoli convertibili in azioni o fornite di un dirittodi sottoscrizione di azioni, ma non alla conversione dei titoli né all’esercizio del diritto di sottoscrizio-ne”. Il successivo art. 29 della direttiva prevede: “1. Nel caso di aumento di capitale sottoscrittomediante conferimenti in denaro, le azioni devono essere offerte in opzione agli azionisti in proporzio-ne della quota di capitale rappresentata dalle loro azioni. (…). 2. Le imprese incaricate della gestione diservizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale sono sottoposte alle normedel presente trattato, e in particolare alle regole di concorrenza, nei limiti in cui l’applicazione di talinorme non osti all’adempimento, in linea di diritto e fatto, della specifica missione loro affidata. Lo svi-luppo degli scambi non deve essere compromesso in misura contraria agli interessi della comunità. 3. LaCommissione vigila sull’applicazione delle disposizioni del presente articolo rivolgendo, ove occorra, agliStati membri, opportune direttive o decisioni”. Gli Stati membri possono:

a) non applicare il paragrafo 1 alle azioni fornite di un diritto limitato di partecipazione alledistribuzioni ai sensi dell’articolo 15 e/o alla suddivisione del patrimonio sociale in caso di liquida-zione, oppure,

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Vi è da dire che l’atteggiamento della giurisprudenza europea al riguardo èparticolarmente prudente, considerato che nel conflitto tra azionisti, soci e terziinteressati nei confronti degli organi di amministrazione i giudici si guardanobene dall’interferire con decisioni “dirigiste”, orientandosi invece a favore diun’applicazione salomonica dei diritti in gioco.

Le più recenti pronunce della Corte di giustizia33 non si discostano da taleorientamento, pur pervenendo ciascuna ad affermazioni di principio di segnodiametralmente opposto.

b) permettere che quando il capitale sottoscritto di una società avente più categorie di azioni,per cui il diritto di voto o il diritto di partecipazione alla distribuzione ai sensi dell’articolo 15 o disuddivisione del patrimonio sociale in caso di liquidazione sono diversi, viene aumentato mediantel’ emissione di nuove azioni in una sola di tali categoria, gli azionisti delle altre categorie esercitinoil diritto di opzione solo dopo che gli azionisti della categoria in cui le azioni sono emesse abbianoesercitato lo stesso diritto.

3. L’offerta di sottoscrizione in opzione ed il termine entro il quale questo diritto deve essere eserci-tato formano oggetto di pubblicazione nel bollettino nazionale designato in conformità della direttiva68/151/CEE. La legislazione di uno Stato membro può tuttavia non prevedere tale pubblicazione quan-do tutte le azioni della società sono nominative. In questo caso tutti gli azionisti debbono essere informatiper iscritto. Il diritto di opzione deve essere esercitato entro un termine che non può essere inferiore aquattordici giorni a decorrere dalla pubblicazione dell’offerta o dall’invio delle lettere agli azionisti.

4. Il diritto di opzione non può essere escluso o limitato dallo statuto o dall’atto costitutivo.L’esclusione o la limitazione possono essere tuttavia decise dall’assemblea. L’organo di amministra-zione o di direzione è tenuto a presentare a tale assemblea una relazione scritta che precisi i motiviper limitare o sopprimere il diritto di opzione e giustifichi il prezzo di emissione proposto. L’assem-blea delibera secondo le regole di numero legale e di maggioranza prescritta nell’articolo 40 . La suadecisione forma oggetto di pubblicità effettuata secondo le modalità previste dalla legislazione di cia-scuno Stato membro, in conformità dell’articolo 3 della direttiva 68/151/CEE .

5. La legislazione di uno Stato membro può prevedere che lo statuto, l’atto costitutivo o l’assem-blea che delibera secondo le regole in materia di numero legale, di maggioranza e di pubblicità indicateal paragrafo 4 possono dare il potere di escludere o di limitare il diritto di opzione all’organo dellasocietà che può decidere l’aumento del capitale sottoscritto nei limiti del capitale autorizzato. Questopotere non può avere una durata superiore a quella dei poteri previsti all’articolo 25, paragrafo 2.

6. I paragrafi da 1 a 5 si applicano all’emissione di tutti i titoli convertibili in azioni o fornitidi un diritto di sottoscrizione di azioni, ma non alla conversione di tali titoli né all’esercizio del dirit-to di sottoscrizione.

7. Non vi è esclusione del diritto d’opzione ai sensi dei paragrafi 4 e 5 quando, secondo la deci-sione sull’aumento del capitale sottoscritto, le azioni sono emesse a banche o altri istituti finanziariper essere offerte agli azionisti della società in conformità dei paragrafi 1 e 3”.

33 Si tratta di due importanti decisioni inerenti fattispecie analoghe, in tema di contrasto trapotere del consiglio di amministrazione e rappresentatività dei soci. La prima è la causa C-441/93, sent. della Corte di Giustizia UE del 12 marzo 1996, Panagis Pafitis e altri contro Trape-za Kentrikis Ellados A.E. e altri, domanda di pronuncia pregiudiziale, Tribunale di Atene, Grecia;diritto delle società – direttiva 77/91/CEE – modifica del capitale di una società per azioni ban-caria – efficacia diretta dell’art. 25, n. 1, e dell’art. 29, n. 3 della direttiva – abuso di diritto, inRacc. Giur., pag. I 01347. La seconda pronuncia riguarda la causa C-373/97, sent. della Corte diGiustizia UE del 23 marzo 2000, Dionysios Diamantis contro Elliniko Dimosio e Organismos

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Nel primo caso34, il giudice europeo parte dal principio volto a garantire lacostante preminenza del diritto comunitario e rappresentato nella formula del-l’effet utile, fondata sulla interpretazione letterale, che ammette solo le eccezio-ni espressamente previste dalla direttiva, secondo il noto brocardo ubi lexvoluit, dixit. Ed in effetti, la premessa logica è che gli interessi privati dei soci –ancorché parzialmente limitati – debbono restare intatti entro i confini traccia-ti dal diritto comunitario e delimitare una sfera incomprimibile di facoltà del-l’assemblea.

L’esigenza è quella di evitare che microsistemi normativi, dominati dalprincipio di necessità interna, prendano il sopravvento sullo ius cogens delledisposizioni comunitarie.

L’articolato sviluppo della motivazione induce a considerare l’operazioneermeneutica come puramente ricognitiva di un precetto che è già inequivoca-bilmente espresso dal legislatore comunitario, giacché i giudici si limitano a rei-terare quanto prescritto dal combinato normativo.

Il che allontana l’attenzione dell’osservatore dalla ricchezza di valutazioniimplicita nella sentenza, laddove si garantisce un doppio grado di tutela dellacompetenza dell’assemblea degli azionisti in punto di decisione sull’aumento dicapitale. Il primo è interno, quale deriva dalla tradizionale articolazione dellefunzioni tra organi della società; il secondo è esterno, a tutela da eventuali inter-ferenze dell’autorità di vigilanza.

Occorre, allora, distinguere la ratio delle disposizioni menzionate nella tra-dizionale ripartizione di competenze tra assemblea degli azionisti e consiglio diamministrazione. Dopodiché è possibile scorgere la portata innovativa dellapronuncia giurisprudenziale – anche se ammantata di formalismo interpretativo

Oikonomikis Anasygkrotisis Epicheiriseon AE (OAE), domanda di pronuncia pregiudiziale, Tri-bunale di Atene – Grecia. diritto societario – seconda direttiva 77/91/CEE – società per azioni indissesto finanziario – aumento del capitale sociale disposto in via amministrativa – esercizio abu-sivo di un diritto derivante da una norma comunitaria, in Racc. Giur., pag. I 01705.

34 La causa C-441/93 prende le mosse da un ricorso sollevato innanzi il Tribunale di Atene daalcuni azionisti di una società per azioni bancaria che versa in regime di amministrazione straordi-naria. Costoro contestano, nella specie, l’aumento del capitale sociale deliberato dall’organo del-l’autorità di vigilanza in violazione della direttiva che attribuisce quel potere alla competenza esclu-siva dell’assemblea degli azionisti. La Corte UE riafferma la natura incomprimibile dell’eserciziodelle prerogative degi azionisti, anche di fronte all’imperatività della norma nazionale sugli assettisocietari, in quanto „l’art. 25 della seconda direttiva del Consiglio 13 dicembre 1976, 77/91/CEE,intesa a coordinare, per renderle equivalenti, le garanzie che sono richieste, negli Stati membri, allesocietà di cui all’art. 58, secondo comma, del Trattato, per tutelare gli interessi dei soci e dei terzi perquanto riguarda la costituzione della società per azioni, nonché la salvaguardia e le modificazioni delcapitale sociale della stessa, si oppone ad una normativa nazionale ai cui sensi il capitale di una societàper azioni bancaria che si trovi, a causa del suo indebitamento, in una situazione eccezionale può esse-re aumentato per via amministrativa e senza delibera dell’ assemblea generale“.

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– volta ad arginare l’ingerenza dell’autorità pubblica nelle società di capitale. Siricorda infatti che, prima della spinta liberista, gli aiuti di Stato nell’economia enei grandi apparati produttivi, sotto le forme più disparate, costituivano il prin-cipale strumento di politica economica nei paesi della Comunità.

Non sono mancate, peraltro, decisioni in cui i giudici europei hannomostrato un atteggiamento ben più benevolo.

Nel secondo degli orientamenti citati35, ciò che è di particolare interesse –sia pure come fictio iuris – è la scelta di “retrocedere” il diritto comunitario dafonte primaria a fonte ordinaria, consentendo agli ordinamenti nazionali a par-ticolari condizioni la regolamentazione della tutela de qua, anche in contrastocon la norma europea. Per cui a ciascuno Stato si riconosce, in pratica, il pote-re di derogare alla norma medesima, in contraddizione con lo scopo di que-st’ultima che è proprio quello di eliminare i conflitti tra i diritti nazionali e diagire in funzione nomofilattica, cioè da parametro normativo a cui tutti i paesimembri devono adeguarsi.

Alla fine la corte stabilisce la facoltà degli Stati membri di adottare estensi-vamente il provvedimento dell’autorità nazionale solo di fronte a motivi ecce-zionali, sorretti da un interesse generale superiore a quello contemplato dalladirettiva europea. Ammettendo, quindi, la deroga alla disciplina comunitaria.

35 Nella causa C 373/97, alcuni azionisti adiscono il Giudice greco, lamentando lo sfrutta-mento a scopo fraudolento da parte di altri azionisti delle clausole di diritto comunitario che con-sentono l’esercizio tardivo del diritto di opzione, nei confronti della stessa impresa di cui si èchiesto lo stato di dissesto. Di fronte alla norma nazionale che in tali casi specificamente vieta l’a-buso di diritto, la Corte UE ha dichiarato che “il diritto comunitario non osta a che i giudici nazio-nali applichino una disposizione di diritto interno che consenta loro di valutare se un diritto ricono-sciuto da una norma comunitaria venga esercitato in modo abusivo. Nell’ambito di tale valutazionenon può essere tuttavia contestato ad un azionista che si avvalga del disposto dell’art. 25, n. 1, dellaseconda direttiva del Consiglio, 13 dicembre 1976, 77/91/CEE, intesa a coordinare, per renderleequivalenti, le garanzie che sono richieste, negli Stati membri, alle società di cui all’articolo 58,secondo comma, del Trattato, per tutelare gli interessi dei soci e dei terzi per quanto riguarda lacostituzione della società per azioni, nonché la salvaguardia e le modificazioni del capitale socialedella stessa, di aver esercitato abusivamente il diritto derivante da tale norma in base al rilievo chesi tratta di un azionista di minoranza, che ha beneficiato del risanamento della società assoggettataad un regime di risanamento, che non si è avvalso del proprio diritto di prelazione, che figurava tragli azionisti che avevano chiesto l’assoggettamento della società al regime applicabile alle società insituazione di grave dissesto o che ha lasciato trascorrere un determinato lasso di tempo prima dellaproposizione dell’azione giudiziaria. Per contro, il diritto comunitario non osta a che i detti giudiciapplichino la detta disposizione del diritto interno nel caso in cui un azionista abbia optato, tra irimedi giuridici disponibili per ovviare ad una situazione determinata dalla violazione della diretti-va, per quello produttivo di un danno talmente grave ai legittimi interessi altrui da risultare mani-festamente sproporzionato“.

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Il percorso seguito, invero, non è scevro da risvolti problematici di un certorilievo, essendosi trovati i giudici a confrontare due princípi sostanzialmenteinconciliabili, peraltro in mancanza di specifica previsione normativa, e finendoper operare più o meno consapevolmente una scelta di valori che si risolve neldare la prevalenza a quello che appare più coerente con gli orientamenti politi-co-sociali attualmente espressi dall’ordinamento comunitario.

§ 5. Conclusioni

Di fronte all’alternativa tra l’interventismo istituzionalista del legislatorenazionale ed l’impronta liberista della politica europea, la Corte sembra optarea favore di quest’ultima, non esitando a forzare il dettato dell’art. 25 della diret-tiva. Da cui deriva, quale naturale corollario, l’adozione della teoria contrattua-lista della società e di una concezione strettamente privata dell’impresa.

È da sottolineare come tale operazione interpretativa richiami palesementeil modello del controllo di legittimità delle leggi, proprio dei paesi a costituzio-ne rigida36. Da cui si è voluto definire in effetti il contenuto della disposizionecomunitaria per garantirne l’interpretazione uniforme, con l’obiettivo ulterioredi verificare se risulti legittimato o meno il comportamento statale di cui sivuole contestare la compatibilità comunitaria.

La differenza rispetto al controllo nazionale delle leggi è, tuttavia, di nonpoco momento. Mentre, infatti, le costituzioni tendono ad esprimere le istanzefondamentali dello Stato-comunità, nel diritto comunitario l’articolazione e lacomplessità delle fonti portano necessariamente al frazionamento dei princípi edei valori ispiratori. Ma anche quando tali precetti rimangono inoperanti o pra-ticamente disapplicati, la loro posizione di preminenza rispetto agli ordinamen-ti nazionali non viene mai messa in discussione.

Ne consegue che la sovranità dell’assemblea degli azionisti, anche rispettoad interferenze di autorità pubbliche e sia pur limitatamente alla decisione sul-l’aumento di capitale, viene in tal modo elevata a principio gerarchicamentesuperiore, intangibile da parte degli Stati membri.

È utile riflettere sull’effetto che deriverebbe dall’applicazione degli stessiparametri nei confronti di altri tematiche cruciali, quali il risanamento dellegrandi imprese oppure le privatizzazioni delle società ad azionariato pubblico.In questo quadro la giurisprudenza comunitaria avrebbe potuto costituire unostraordinario mezzo di coercizione per il recalcitrante Stato membro, accele-

36 A. TIZZANO, La tutela dei privati nei confronti degli Stati membri dell’unione europea, inForo it., 1995, IV, 13, 17.

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rando quel processo di privatizzazione che si muove ancora con passo incertoed ancora lungi dallo svincolarsi completamente dalla partecipazione pubblica.

Se invece si porranno limiti certi all’intervento dello Stato nei meccanismidella società per azioni, ritornando al tema, potrà riaffermarsi la libertà dell’as-semblea in ordine all’aumento di capitale. Il che condurrà al ripristino della tra-dizionale connessione tra facoltà di scelta dell’azionista e rischio economico,rappresentata, appunto, dalla partecipazione al procedimento assembleare37.

A conclusione di questo, infatti, il socio che non vuole investire ulterioririsorse potrebbe trovarsi in minoranza ed essere costretto nell’alternativa traeffettuare nuovi esborsi ovvero rinunciare alla sua posizione relativa nella com-pagine azionaria.

D’altro canto, la restituzione del diritto di voto all’assemblea si inserisce nelpiù ampio contesto di un mercato del controllo delle società per azioni, cui si èispirata la direttiva comunitaria sulle offerte pubbliche di acquisto38. Ovverosia,

37 M. GIORDANO, ivi. cit., pag. 142.38 Direttiva 2004/25/CE pubblicata in GUCE n. L 142 del 30/04/2004, pagg. 0012 - 0023,

concernente le offerte pubbliche di acquisto. Tale disciplina è stata voluta per garantire il livellominimo di tutela e l’equivalenza delle garanzie per gli azionisti in tutti gli Stati membri, considera-to che fino a poco tempo fa in paesi come la Germania il modello della banca universale ha offertonon poche resistenze all’apertura nei confronti degli azionisti e dei soci riguardo il controllo sullagestione sociale, la trasferibilità delle azioni, il diritto di voto e la nomina degli amministratori, deisindaci e dei dirigenti. I primi commi della direttiva possono così sintetizzarsi: “1) Conformementeall’articolo 44, paragrafo 2, lettera g), del trattato è necessario coordinare, al fine di renderle equiva-lenti in tutta la Comunità, talune garanzie che gli Stati membri esigono dalle società disciplinate dalleleggi di uno Stato membro ed i cui titoli sono ammessi alla negoziazione su un mercato regolamentatodi uno Stato membro, per proteggere gli interessi tanto dei soci come dei terzi.

2 È necessario tutelare gli interessi dei possessori di titoli delle società disciplinate dalle leggidegli Stati membri quando dette società sono oggetto di un’offerta pubblica di acquisto, ovvero siverifica un cambiamento nel controllo di dette società, ed almeno una parte dei loro titoli è ammes-sa alla negoziazione su un mercato regolamentato di uno Stato membro.

3 È necessario creare un contesto chiaro e trasparente a livello comunitario per quanto riguar-da i problemi giuridici da risolvere nel caso di offerte pubbliche di acquisto e prevenire distorsioninei processi di ristrutturazione societaria a livello comunitario causate da diversità arbitrarie nelleculture di regolamentazione e di gestione.

4 In considerazione delle finalità di interesse pubblico perseguite dalle banche centrali degliStati membri, sembra inconcepibile che esse possano essere oggetto di un’offerta pubblica di acqui-sto. Dal momento che per ragioni storiche i titoli di alcune di queste banche centrali sono quotati suimercati regolamentati di Stati membri, è necessario escluderle espressamente dall’ambito di applica-zione della presente direttiva.

5 Ciascuno Stato membro dovrebbe designare una o più autorità competenti a vigilare sugliaspetti dell’offerta disciplinati dalla presente direttiva e ad assicurare che le parti dell’offerta rispet-tino le norme adottate ai sensi della presente direttiva. Le diverse autorità dovrebbero cooperare traloro”.

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ha un senso a condizione che la società sia scalabile, perché solo in quel caso ilvoto diventa economicamente remunerativo, per il plusvalore della partecipa-zione che emerge in occasione di un avvicendamento nel controllo della società.

Solo un autentico mercato del controllo societario può allora dare effetti-vità ai diritti dei soci, permettendo loro di intervenire sulla gestione dellasocietà, non tanto per il tramite dell’assemblea, quanto piuttosto attraverso l’e-sercizio di un diritto di voto pieno39. Da cui si dimostra il principio di demo-craticità nell’impresa di capitali, quale riferimento essenziale per ogni operazio-ne volta al superamento del blocco decisionale all’interno di pochi gruppi,peraltro soggetti di volta in volta a mutevoli e incontrollabili maggioranze. Perciò tanto, il vero problema non è la disparità di trattamento di alcuni interessia scapito di altri, quanto piuttosto il superamento della tradizionale dialetticatra contrattualismo e istituzionalismo, al fine di individuare nuovi modelli diregolamentazione dell’impresa e nuove soluzioni ai problemi dell’economiasociale.

39 P. BARCELLONA, Formazione sviluppo del diritto privato moderno, Napoli, 1987, pagg. 235e ss.; F. CAVAZZUTI, op. cit., pagg. 13 e ss.; M. T. CIRENEI, La società per azioni a partecipazionepubblica, in Trattato delle società per azioni, VIII, Torino, 1992, pagg. 82 e ss.; G. COTTINO, Dirit-to commerciale, Padova, 2000, pagg. 236 e ss.; G. DE FERRA, La circolazione delle partecipazioniazionarie, Milano, 1964, pag. 51; A. MAZZONI, Privatizzazioni e diritto antitrust: il caso italiano, inRiv. soc., 1996, pag. 32 e ss.; G. ROSSI, ivi cit., pag. 393; per una sintesi sulla dottrina straniera alriguardo si veda: A. BAUMBACH, W. HEFERMEHL, Wettbewerbsrecht, München, 2004; W. GLOY,M. LOSCHELDER, Handbuch des Wettbewerbsrechts, München, 2004; J. HERMARD, F. TERRE, P.MABILAT, Sociétés commerciales, Paris, 1974, II; R. ZÄCH, Wettbewerbsrecht der europäischenUnion, München, 1994.

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L’evoluzione del debito pubblicoe la formazione dei mercati finanziari in Italia

fra età moderna e contemporaneadi

STEFANIA MANFRELLOTTI

Introduzione

Il percorso di approfondimento e studio delle tematiche relative all’evolu-zione del debito pubblico ed alla formazione dei mercati finanziari dall’etàmoderna all’età contemporanea, iniziato, nel 2004, dal CIRSFI (Centro Interu-niversitario di Ricerca per la Storia Finanziaria Italiana), si è arricchito, nelmaggio 2006, di un altro notevole contributo: un convegno tenuto a Bergamo1,nel quale sono stati valorizzati questi importanti temi della storia finanziaria ita-liana. Nelle relazioni presentate, articolate in diverse sezioni, sono emerse lesfaccettature assunte di volta in volta dalla gestione del debito pubblico neglistati preunitari prima e nello Stato italiano poi.

Tra il basso medioevo e l’età moderna, in Italia, si sono avute diverse formedi indebitamento pubblico. Durante l’età comunale, dal 1100 al 1300, la mag-gior parte delle città dell’Italia settentrionale – tranne Genova e Venezia para-gonabili nella gestione delle proprie finanze alle grandi monarchie europee –non trovandosi a gestire deficit pubblici di grande portata, utilizzò tecniche difinanziamento elementari a breve termine caratterizzate da prestiti forzosi ovolontari elargiti, per lo più, da mercanti e banchieri. Nel Regno di Napoli enello Stato Pontificio si fece ricorso a prestiti volontari. In età post-comunale,dal 1300 al 1400, molte città continuarono a finanziare i propri deficit pubblicicon tecniche creditizie elementari, mentre città come Genova, Venezia, Firenze,Siena, Lucca e Bologna cominciarono a sperimentare forme di debito pubblicoconsolidato basate su prestiti forzosi.

1 Il Convegno si è svolto nei giorni 25-26 maggio 2006 presso la Fondazione Famiglia Leglera Brembate di Sopra (Bergamo), mentre il 27 maggio 2006 presso il Palazzo dei Contratti e delleManifestazioni a Bergamo.

II. DAI CONVEGNI DEL CIRSFI

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Al convegno sono state approfondite le tecniche di gestione del debitopubblico di alcune realtà italiane. Nel Cinquecento, sia la Repubblica Venetache il Ducato di Milano, di fronte alla crescita delle spese belliche ed ai limitidei propri sistemi fiscali, si videro costretti a ridurre il ricorso ai prestiti forzo-si e ad introdurre nuove tipologie di debito pubblico, come l’alienazione delleentrate, nel caso milanese, e l’emissione di depositi in Zecca, in quello veneto.Si trattò, in entrambi casi, di titoli emessi dallo Stato e sottoscritti liberamentedai cittadini, tra i quali riscossero molto successo perché rappresentavano uninvestimento sicuro e più redditizio di altri. Sia nel Ducato di Milano che nellaRepubblica Veneta, il debito consolidato ebbe un effetto positivo sull’economialocale, in particolare, per la redistribuzione ed il rafforzamento dei patrimonidei sottoscrittori dei titoli pubblici. In Toscana, nel 1440, la dinastia Medicea,superata una prima fase in cui si servì del debito pubblico per espandere erafforzare il suo dominio, fino al 1737, utilizzò il debito pubblico per alleviarela pressione fiscale sui cittadini e per garantirgli una migliore assistenza sociale.In Piemonte, il debito pubblico si formò molto lentamente, perché i Savoia siservirono delle imposte straordinarie pagate dalle comunità e dei finanziamentidegli alleati. Il Ducato di Parma e Piacenza, invece, nel Seicento, si finanziòmaggiormente attraverso le entrate patrimoniali basate sui beni dei duca, per lamaggior parte espropriati ai vecchi feudatari. La buona riuscita delle varie tipo-logie del debito pubblico consolidato dipese dall’ampia schiera di sottoscritto-ri, appartenenti ai diversi ceti sociali, che variava da territorio a territorio. NelDucato di Milano come nella Repubblica Veneta, le quote maggiori di titolipubblici furono acquistate dai banchieri locali e genovesi – va ricordato il ruolopredominante che i banchieri-mercanti genovesi ebbero fino alla prima metàdel Seicento nelle fiere di cambio su scala nazionale e internazionale – seguitida nobili, artigiani e donne sole. In Piemonte, tra i maggiori possessori di titolic’erano i rappresentanti del ceto borghese, i magistrati ed i neo-titolati, il cleroe la nobiltà antica. In Toscana la scena si ribaltava perché tra i maggiori sotto-scrittori figuravano la nobiltà ed il clero mentre le persone civili possedevanouna minima parte di debito pubblico.

Alle realtà dello Stato Pontificio e del Regno di Napoli sono state dedicatedue intere sezioni del convegno, nelle quali sono stati esaminati le tipologie deldebito pubblico, i sottoscrittori e le caratteristiche dei mercati finanziari.

Durante il Quattrocento, la Curia romana si finanziava con anticipazioniconcesse alla Tesoreria dei Papi dai mercanti-banchieri che non esigevano inte-ressi, traendo da queste operazioni solo la fama di mantenere rapporti con loStato Pontificio. Le prime forme di debito pubblico si ebbero a Roma con ladiffusione di titoli pubblici denominati “luoghi di monte”, che assunsero unruolo egemonico nel mercato finanziario romano rispetto alle altre forme dicredito che venivano negoziate, come i censi, i crediti fruttiferi, i prestiti su

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pegno ed i cambi. I “luoghi di monte” furono sempre gestiti in maniera effi-ciente dalla Camera Apostolica, che dava ottime garanzie nel pagamento degliinteressi e nella stabilità dei titoli. Per questi motivi furono molti i sottoscritto-ri dei titoli pubblici pontifici, sia interni allo Stato Pontificio – nobili, gruppi difinanzieri, enti religiosi o caritativi, donne – che esterni. Nel Seicento e Sette-cento, il debito pubblico pontificio non raggiunse mai livelli elevati. La situa-zione finanziaria dello Stato cambiò dalla fine del Settecento, in seguito alleoccupazioni napoleoniche che aggravarono il peso del debito pubblico, soprat-tutto in conseguenza delle ingenti spese di mantenimento dell’esercito. QuandoNapoleone, nel 1809, decise di annettere lo Stato Pontificio all’Impero france-se, furono posti in liquidazione i “luoghi di monte” causando effetti negativisulla distribuzione della ricchezza, con una maggiore penalizzazione del cetomedio, e sulla vita economico-finanziaria degli anni successivi alla restaurazionedel governo papale. Durante la dominazione francese, la Borsa romana ebbe unproprio statuto, mantenuto, in larga parte, nel successivo Codice di Commerciodello Stato Pontificio. Nella Borsa romana, i titoli più negoziati, nella primametà dell’Ottocento, furono quelli del debito pubblico consolidato. La presen-za di numerosi investitori appartenenti alla nobiltà romana, come GiovanniTorlonia, alla nobiltà genovese ed europea contribuì a rendere il mercato roma-no molto attivo in quegli anni.

Nel Regno di Napoli, la gestione del debito pubblico e, più in generale,della finanza pubblica, dal Cinquecento al Settecento, subì l’influenza delladominazione spagnola. Le modalità di emissione, conversione, consolidamentoed alienazione del debito furono impartite dagli spagnoli per garantire al megliola raccolta di finanziamenti necessari a sostenere le loro spese belliche, masoprattutto per imprimere maggiormente la loro presenza nel tessuto sociale delRegno, vista la notevole importanza ricoperta dal debito pubblico tra la popo-lazione locale. I relatori hanno analizzato vari aspetti del debito pubblico delRegno di Napoli, dall’importanza dell’arrendamento della seta, nella secondametà del Cinquecento, al rapporto fra Stato, comunità e creditori, mostrandocome i creditori ebbero un grande ascendente sulle scelte relative alla gestionedel debito pubblico grazie soprattutto alla posizione di privilegio che ricopriva-no nella società ed a Corte. Tappa fondamentale nell’evoluzione del debitopubblico, nel Regno di Napoli, fu il processo di consolidamento del debito, dal1806 al 1815, attraverso un imponete meccanismo di liquidazione, dove agliinvestitori furono date delle cedole (titoli di credito verso lo Stato), che poteva-no utilizzare per comprare una rendita, iscritta nel Gran Libro del debito pub-blico, o proprietà demaniali messe in vendita. L’esperienza del Regno di Napo-li, in tal senso, può essere paragonata a quella che si ebbe nello Stato Pontificioad opera del governo francese, che, nel 1810, liquidò i “luoghi di monte” dete-nuti dai creditori e li rimborsò con rescrizioni da poter utilizzare per comprare

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i beni patrimoniali sottratti agli enti religiosi. Figura di spicco, che contribuìalla trasformazione del debito del Regno borbonico in debito di lungo periodoe lo immise all’interno di un contesto di credito internazionale, fu Karl MayerRothschild, che stipulò, a nome della Maison de Rothschild, quattro prestiticon il governo borbonico e istituì a Napoli la quinta Maison bancaria dei Roth-schild.

Nella prima parte del convegno sono stati, quindi, affrontati molti aspettidel debito pubblico e dei mercati finanziari degli stati preunitari, evidenziandoora più approfonditamente ora meno le caratteristiche del debito e le linee dirottura o di continuità fra le varie gestioni di debito pubblico.

All’indomani dell’Unità d’Italia, nel debito pubblico nazionale confluironoi debiti di tutti gli stati preunitari che riguardavano per il 57,22% il Regno diSardegna, il 29,4% il Regno delle Due Sicilie e la parte rimanente gli altri stati.L’Italia attraversò un periodo di finanza straordinaria, che condusse ad un livel-lo di indebitamento elevato. Nei primi anni del nuovo Regno, 1/3 del debitovenne sottoscritta da investitori stranieri attratti dai maggiori saggi d’interesseofferti sui titoli pubblici italiani rispetto a quelli di altri paesi. Si stima, ad esem-pio, che una personalità di rilievo internazionale come il banchiere Charles-François Brot, da solo, o in collaborazione con la Maison de Rothschild, abbiasottoscritto una parte di debito pubblico, tra il 1861 ed il 1866, pari a 60 milio-ni di lire. Dopo un primo momento di collocamento del debito pubblico in pre-valenza all’estero e, internamente allo stato, di monetizzazione del debito attra-verso gli istituti di emissione ed i biglietti di stato, lo sviluppo delle casse dirisparmio postali e ordinarie e della Cassa Depositi e Prestiti sostenne la collo-cazione dei titoli del debito pubblico. Furono emanate norme giuridiche eregolamentari al fine di favorire gli acquisti di titoli pubblici da parte dellecasse; il finanziamento della Cassa Depositi e Prestiti al Tesoro, nel periodo1863-1913, passò dall’1 al 22%. La Cassa Centrale di Risparmio Vittorio Ema-nuele, fin dalla sua nascita nel 1861, investì la maggior parte dei propri deposi-ti in acquisizioni di rendite sul Gran Libro del debito pubblico e Buoni delTesoro. In questo modo, la Cassa, se da un lato sostenne lo Stato nel colloca-mento dei titoli e dall’altro i suoi depositanti, per le maggiori garanzie offertedai titoli pubblici, non fu in grado di fornire un appoggio idoneo allo sviluppodell’economia siciliana.

La maggior parte dei relatori intervenuti al convegno ha sottolineato l’ap-porto importante al collocamento dei titoli pubblici dato dalle istituzioni credi-tizie e da quelle pubbliche, come gli istituti di previdenza e le assicurazioni. Ciònonostante il rapporto fra Stato ed intermediari finanziari non fu sempre idil-liaco, ci furono molti alti e bassi, soprattutto durante il fascismo in quanto ledirettive del regime influenzarono le scelte in materia di gestione del debitopubblico e l’agire degli intermediari.

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Nella seconda metà del Novecento, la politica di gestione del debito pub-blico subì una forte influenza da parte del sistema bancario, ma specialmenteda parte della Banca d’Italia.

Tutto ebbe inizio dalla manovra di stabilizzazione monetaria del Ministrodel Bilancio Luigi Einaudi, del 1947, con la quale si obbligarono le banche adepositare una quota dei propri depositi presso la Banca d’Italia e ad assolverea quest’obbligo di riserva sottoscrivendo titoli del debito pubblico. Le bancheinvestivano maggiormente in titoli a breve termine, mentre i cittadini privati ele imprese investivano in titoli a lungo termine. Il mercato dei titoli pubblici siritiene efficiente principalmente quando vi è una maggiore presenza di titoli alungo termine, con tassi d’interesse più alti rispetto a quelli a breve. Menichel-la sosteneva che il debito pubblico a lungo termine serve a finanziare le spesed’investimento dello Stato, mentre il ricavato del debito pubblico a breve deveessere usato per finanziare le esigenze di Tesoreria dello Stato, senza far ricorsoall’emissione di cartamoneta. In effetti, fino alla prima metà degli anni Sessan-ta, il debito pubblico servì, sostanzialmente, a finanziare le spese in conto capi-tale. Il mercato finanziario fu dominato dalla presenza dei titoli pubblici alungo termine e la creazione di istituti di credito speciale contribuì a far cresce-re la loro quota di obbligazioni – che servirono a finanziare gli investimentipubblici – mentre i titoli azionari ricoprivano una piccola fetta del mercatofinanziario. In generale, i governanti italiani, negli anni, non sostennero la cre-scita del mercato borsistico, soprattutto perchè diedero maggiore spazio allebanche ed agli istituti di credito speciale, rispetto alle borse, nel finanziamentoalle imprese, e favorirono gli acquisti di titoli pubblici, rispetto a quelli aziona-ri, sia tra le banche che tra i cittadini privati. Dalla seconda metà degli anni Ses-santa e soprattutto negli anni Settanta, il governo, per il peggioramento dell’e-conomia italiana, incrementò la spesa pubblica per pensioni e sanità con unconseguente aggravio del debito pubblico e con pesanti ripercussioni sullafinanza degli enti locali. Furono emessi più titoli pubblici a breve termine e, nel1976, la Banca d’Italia, in seguito al cosiddetto “matrimonio” con il Tesoro, fucostretta ad acquistare tutti i titoli pubblici rimasti invenduti sul mercato. Siintensificò maggiormente il legame fra le due istituzioni con l’accrescimentodella dipendenza della Banca d’Italia dalla politica economica, ma soprattuttofu annullata la trasparenza e l’efficienza del mercato finanziario. Ad aggravarel’inefficienza del mercato finanziario fu la prevalenza di emissione di titoli abreve termine e con maggiori tassi d’interesse rispetto ai titoli a lungo termine.Anche le borse ebbero un andamento negativo, a causa della crisi economica eper la schiacciante concorrenza dei titoli pubblici a breve termine. La situazio-ne non migliorò negli anni Ottanta, quando la crescita della spesa sociale equella degli interessi sul debito provocarono l’esplosione del debito. Il “divor-zio” tra il Tesoro e la Banca d’Italia, nel 1981, premise a quest’ultima di ridur-

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re notevolmente gli acquisti di titoli pubblici, mentre il Tesoro incontrò diffi-coltà nella gestione del debito, fino ad allora sostanzialmente affidata alla Bancad’Italia. Per favorire il collocamento fra le famiglie dei titoli pubblici, il Tesoroinnalzò i saggi d’interesse, che arrivarono a superare il 20%. Le conseguenzefurono la sottrazione del risparmio dal mercato azionario e l’ulteriore aumentodel debito pubblico. Verso la fine degli anni Ottanta e maggiormente negli anniNovanta, il mercato finanziario si è avviato verso l’efficienza ed il governo hafinalmente adottato una politica di gestione del debito pubblico a favore del-l’efficienza del mercato. L’adesione dell’Italia al Trattato di Maastricht, la crea-zione di un mercato secondario dei titoli pubblici, il processo di allungamentodella vita media del debito e l’applicazione di saggi d’interesse superiori per ititoli a lungo termine hanno reso possibile intraprendere una corretta politicadi gestione del debito pubblico. Ciò nonostante, il “problema debito pubblico”permane ed è continuamente al centro di dibattiti e studi che cercano di cor-reggere gli errori di gestione e trovare soluzioni a questa disfunzione dellafinanza pubblica italiana.

Nel corso dei secoli, la corretta gestione del debito pubblico ha semprerappresentato uno degli elementi principali dello sviluppo economico di unpaese, ma non sempre la sua gestione è stata corretta. Dagli interventi presen-tati nel corso del convegno si deduce che il debito pubblico ed il mercato finan-ziario, dall’età moderna a quella contemporanea, non sono, quasi mai, statigestiti unicamente dai governanti perché questi hanno risentito, di volta involta, delle pressioni provenienti dalla dominazione straniera, dai maggiori cre-ditori, dalle istituzioni bancarie, dalla Banca d’Italia. Inevitabilmente la gestio-ne del debito pubblico è condizionata dal regime politico-istituzionale delloStato e dai rapporti che da sempre legano l’Italia al contesto internazionale eche si sono intensificati oggi con l’appartenenza all’Unione Europea. Si puòsostenere che il debito pubblico sia legato, in qualche modo, sia ad equilibriinterni, nel senso di raccolta di consenso, in quanto è più facile per i governan-ti sostenere le spese pubbliche con l’aumento del debito rispetto all’aumentodella pressione fiscale, che ad equilibri esterni, nel senso di compatibilità eco-nomiche e finanziarie imposte dal contesto internazionale al quale l’Italia nonha mai potuto sottrarsi. La gestione del debito pubblico ha influito sullo svi-luppo del mercato azionario, perché i governanti italiani hanno sempre favori-to il collocamento dei titoli pubblici rispetto a quelli azionari, causando note-voli ripercussioni sullo sviluppo dell’impresa italiana ancora troppo imperniatasu una conduzione di tipo familiare, piuttosto che su un azionariato diffuso.

Il dibattito sulle dinamiche relative al debito pubblico è stato impreziositodai contributi degli studiosi intervenuti al convegno di Bergamo, anche se moltiaspetti restano ancora da approfondire, come le numerose implicazioni che lega-no il mercato dei titoli pubblici a quello azionario, la collocazione del debito all’e-

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stero e maggiormente la dislocazione territoriale e per classi di reddito dei titoli.Sono temi che si spera possano essere affrontati da storici ed economisti.

I risultati dell’incontro di Bergamo sono stati portati al convegno degli sto-rici economici, che si è tenuto ad Helsinki nell’agosto 2006, per un confrontocon l’evoluzione del debito pubblico di altri paesi.

Ma vediamo più specificamente i contributi dei singoli partecipanti alconvegno.

I sistemi territoriali tra basso medioevo e età moderna

Luciano Pezzolo presenta una relazione sui “Debiti governativi e mercatifinanziari nell’Italia rinascimentale: fra scelta e coercizione”, nella quale esami-na le diverse forme di indebitamento che hanno caratterizzato, durante la primafase del rinascimento, da un lato, le città comunali e le repubbliche e, dall’altro,i principi e i signori. Accanto a questa analisi, Pezzolo affronta il tema dellanascita di un mercato finanziario legato ai titoli di stato, approfondendo lanatura dei loro possessori ed i legami fra debito pubblico e mercato finanziariodal punto di vista dei vincoli istituzionali, quali la credibilità, i costi di transa-zione e la reputazione.

La nobiltà, i governanti del Regno di Napoli e dello Stato Pontificio finan-ziavano i deficit pubblici col denaro proveniente da prestiti, elargiti volontaria-mente, da mercanti, banchieri, cortigiani e stranieri, cioè una classe economica-mente agiata. In queste forme di stati si poteva riscontrare un mercato finan-ziario primario, quando non c’era un debito pubblico simile a quello di ungoverno cittadino.

Anche i governi cittadini utilizzavano una forma di prestito volontario,richiedendo prestiti, generalmente per far fronte alle spese militari, ai cittadini piùfacoltosi (mercanti, banchieri, ebrei) e garantendo loro la restituzione dellesomme avute in poco tempo. Quando, nel XII secolo, tali governi si impossessa-rono dei redditi fiscali o demaniali dei signori feudali e dei vescovi, li offrironocome pegno ai loro creditori. Spesso questi prestiti non bastavano a fronteggiarele spese statali, in un periodo di forte espansione territoriale, per cui i governi cit-tadini cominciarono a richiedere anche dei prestiti forzosi. I governi stimavano ipatrimoni ed i redditi di tutti i cittadini attraverso documenti fiscali come estimie catasti, dopodichè stabilivano quanto ciascun estimato doveva prestare alloStato. Da questo sistema venivano esclusi i cittadini più poveri ed il governo,come nel caso dei prestiti volontari, si impegnava a restituire le somme avute inbreve tempo ed a garantirle con redditi fiscali che consentivano ai creditori dipercepire degli interessi. Dalla seconda metà del XIII secolo, alcuni governi cit-tadini non furono più in grado di restituire le somme prese in prestito, per cui

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convertirono il proprio debito in consolidato, creando in alcune situazioni deiveri e propri mercati secondari dei titoli di credito. Le operazioni finanziarie chederivarono dalla creazione di questi mercati si svilupparono soprattutto sulla spe-culazione sugli interessi arretrati che devono essere pagati.

Maria Ginatempo, nel suo lavoro, illustra “Il finanziamento del deficit pub-blico nelle città dell’Italia centrosettentrionale (secc. XIII-XIV)”. Nel ’900, la sto-riografia internazionale ha diffuso l’idea dell’esistenza di un vero e proprio debi-to pubblico delle città comunali risalente, per alcune di esse, al XII secolo. Secon-do la relatrice, sulla base di recenti studi è emerso che, in realtà, questa convin-zione derivava dal credere che le tecniche attuate dai grandi mercanti-banchierinel settore del credito privato, oppure presso le finanze dei re e dei principi d’Eu-ropa, erano adoperate anche dai governi delle loro città. Si presupponeva chetutte le città comunali si trovassero a gestire un debito pubblico avanzato e l’ipo-tesi che molte di esse gestivano, invece, deficit di scarso rilievo, con tecniche sem-plici non veniva presa in considerazione. Questa convinzione era diffusa ancheperché veniva estesa l’esperienza delle grandi città-stato di Genova e Venezia allerealtà comunali più piccole. Genova e Venezia potevano, nella gestione delle pro-prie finanze, essere paragonate piuttosto alle monarchie dell’epoca medievale perla loro potenza e soprattutto per le cospicue entrate doganali che possedevano.La relatrice reputa necessario effettuare una distinzione fra le forme più elemen-tari di finanziamento del deficit pubblico ed il debito pubblico permanente. Nellaprima categoria rientrano le tecniche creditizie semplici ed a breve termine, qualiprestiti forzosi sotto forma di anticipi di tassazioni o imposte camuffate, prestitisu pegno, mutui volontari a brevissima scadenza e con alti tassi d’interesse. Ildebito pubblico permanente è basato, invece, su una grande mole di prestiti dicarattere forzoso o volontario, che si contraddistinguono per l’essere sempre frut-tiferi, a lungo termine o anche irredimibili, garantiti da entrate pubbliche stabili eda uno Stato finanziariamente affidabile. Varie forme di questa tipologia di debi-to si sono diffuse negli ultimi 200-250 anni del Medioevo in alcune città europee,ed hanno simboleggiato l’esistenza nel settore pubblico di tecniche creditizie alta-mente sviluppate e di grosso impatto sulle economie dell’epoca. Ginatempo ana-lizza le diverse tipologie di finanziamento del deficit pubblico, nelle città dell’Ita-lia settentrionale, sottolineando che non in tutte e soprattutto non per tutto ilMedioevo ci sono stati casi di debito pubblico permanente, confutando in questomodo le teorie di alcuni studiosi del secolo scorso. La relatrice procede dividen-do la storia delle città italiane del basso medioevo in due periodi e ne studia lepeculiarità fiscali e finanziarie. Il primo periodo, che va dalla seconda metà del1100 ai primi anni del 1300, viene definito come piena età comunale. In questoarco temporale, le città, liberatesi dalla tutela imperiale, si imposero come città-stato indipendenti e sovrane di se stesse e dei territori rurali su cui estendevano la

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loro autorità. Diventarono i vertici di stati territoriali, sicuramente molto ricchi eben organizzati, ma che non furono contraddistinti da forme di debito pubblicopermanente. Se si escludono le città di Genova e Venezia, che comunque speri-mentarono forme di debito pubblico permanente solo nella seconda metà del1200 ed altre città sulle quali si hanno notizie incerte, si rileva che le città tosca-ne, ma anche Bergamo, Vicenza, Treviso ed altre città utilizzarono, in questoperiodo, forme molto elementari di finanziamento del deficit pubblico. Il secon-do periodo, definito età post-comunale, si estende dal 1300 al 1400, ed è caratte-rizzato da un passaggio di autorità dai comuni ai signori cittadini che privaronoquelle istituzioni del controllo della vita politica dei territori e dell’amministrazio-ne della finanza pubblica. Nel 1300, molte città vennero sottomesse ad un signo-re o ad una città più grande, perdendo la facoltà di gestire le proprie entrate e,quindi, di poter avere una stabile copertura per i prestiti atti a finanziare i proprideficit, per cui le loro pratiche creditizie e finanziarie rimasero allo stato elemen-tare del periodo precedente ed in alcuni casi addirittura regredirono. Nelle cittàdominanti (Firenze, Genova, Venezia e Siena), che reggevano degli stati regiona-li, come in quelle indipendenti (Lucca) e in quelle autonome (Ancona e Bolognanello Stato pontificio), si diffuse una particolare tipologia di debito definito con-solidato, basato su prestiti forzosi ed in parte sovrapposto alle imposte dirette.Anche in questo caso molti studiosi hanno affermato che il debito pubblico con-solidato si sviluppò nell’età dell’oro delle città-stato italiane. In realtà, se ne pos-sono trovare testimonianze solo sul finire del 1300 e non in tutte le città dellapenisola italiana, ma, per lo più, in quelle poste a capo di stati regionali che si tro-vavano a gestire situazioni finanziarie più complesse.

Luciano Palermo, nella sua relazione, tratta di “Finanza, indebitamento esviluppo economico a Roma nel Rinascimento”. Le prime forme di debito pub-blico si svilupparono a Roma, agli inizi del XVI secolo, attraverso un sistemaistituzionale ed articolato di monti del debito pubblico che si diffuse, in parti-colar modo, dalla seconda metà del sedicesimo secolo. Molti studiosi sostengo-no che Roma, rispetto agli altri stati, abbia sviluppato in ritardo un sistema didebito pubblico, ma Palermo sostiene, al contrario, che non si può parlare diritardo. Infatti, la maggior parte degli stati nazionali e regionali sia italiani cheeuropei sviluppò le prime forme di debito pubblico nel corso del XVI seco-lo, per cui, in realtà, Roma potrebbe essere definita un’antesignana, nell’uti-lizzo del debito pubblico come mezzo di finanziamento del deficit dello Stato,piuttosto che una ritardataria. Durante il XV secolo, invece, a Roma ci fu unimportante sviluppo dell’economia urbana evidenziato dalla crescita dellapopolazione, dalla struttura immobiliare cittadina, dagli scambi e dalla circola-zione monetaria. Il mancato ricorso al debito pubblico non scaturì dall’incapa-cità organizzativa della Curia romana, ma da una precisa scelta strategica. L’am-

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ministrazione civile e finanziaria della Chiesa e del suo Stato si finanziavamediante anticipazioni alla tesoreria dei papi fornite da una vasta ed efficienteschiera di mercanti-banchieri che concedevano denaro senza la richiesta di inte-ressi in cambio. La contropartita per costoro fu quella di poter accrescere lapropria credibilità in affari attraverso l’importante ruolo che essi ricoprirono, inquegli anni, presso la Curia romana.

L’Italia Centro-Settentrionale

Claudio Marsilio, nella sua relazione, descrive “La frammentazione delnetwork finanziario delle fiere di cambio genovesi (1621-1640 circa)”, illustran-doci le vicende che hanno contraddistinto le fiere di cambio gestite dai ban-chieri genovesi, durante la prima metà del Seicento. L’aspetto inedito della rela-zione sta nell’aver evidenziato che si venne a creare, negli anni Venti del XVIIsecolo, un vero e proprio “network di fiere di cambio”, fra le fiere di Piacenza,Verona e Novi, anche se le fiere di cambio genovesi ebbero un potere incontra-stato sulle altre.

Le prime forme di fiere apparvero in epoca medievale sotto forma di luo-ghi dove si scambiavano merci. Successivamente, quando furono trasferite aLione, nel XVI secolo, venne effettuata una distinzione tra fiere dove si scam-biavano merci da quelle dove si scambiava denaro. La fiere di cambio erano unmercato di credito internazionale dove, in giorni prestabiliti ed a cadenza rego-lare, era possibile procurarsi denaro a cambio e restituirlo alla fiera successiva.Nella città francese affluivano mercanti e banchieri da ogni parte d’Europa, mai più numerosi ed importanti erano gli italiani (toscani, milanesi e genovesi).Nelle fiere di Lione i mercanti-banchieri genovesi assunsero un ruolo prepon-derante, rispetto a quelli lucchesi e fiorentini, che, fino ad allora, avevanomonopolizzato il commercio del denaro in Europa. Nella seconda metà delCinquecento, le fiere di cambio furono dominate, sostanzialmente, dai genove-si che, però, sotto pressione delle autorità francesi dovettero abbandonare lefiere di Lione, per cui il Senato della Repubblica genovese istituì le fiere diBesançon e di seguito quelle di Piacenza nel 1579. Qui i genovesi erano i prin-cipali negoziatori di lettere di cambio, tanto da poter ulteriormente spostare lefiere a Novi, nel 1621, sotto l’ autorità del Senato della Repubblica di Genova.Nel 1622, i mercanti-banchieri toscani e lombardi decisero di continuare a riu-nirsi a Piacenza, grazie ai privilegi che ottenevano dai Farnese, creando una“secessione” dalle fiere di Novi. Lo stesso fecero i veneziani che, nel 1631, deci-sero di organizzare delle fiere “parallele” a Verona. Nacque, così, un network difiere concorrenti tra loro, dove soprattutto gli operatori fiorentini cercarono dicreare un mercato del credito forte, tale da poter contrastare l’egemonia dei

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genovesi. Ma, fino alla prima metà del Seicento, i genovesi restarono i padroniindiscussi delle fiere di cambio, anche perché essi erano divenuti i principalifinanziatori della Corona Spagnola, alla quale anticiparono ingenti capitali sottoforma lettere tratte da essa sulle varie piazze europee.

Giuseppe De Luca presenta una relazione dal titolo “Debito pubblico,mercato finanziario e cicli economici nel Ducato di Milano e nella Repubblicaveneta durante l’età moderna”. Nella prima metà del sedicesimo secolo, sia ilDucato di Milano che la repubblica Veneta introdussero importanti innovazio-ni all’interno del processo di raccolta di capitali per il fabbisogno statale. Sottola pressione di maggiori esigenze di denaro per coprire le spese belliche e difronte ad evidenti limiti dei propri sistemi fiscali, questi stati cominciarono aridurre il ricorso ai prestiti forzosi introducendo, come meccanismo di raccoltadi denaro, l’emissione di titoli sul mercato, che potevano essere sottoscrittivolontariamente ed erano garantiti da un determinato cespite fiscale per ilpagamento degli interessi. Questa forma di debito consolidato ebbe un buonariuscita perchè trovò un’ampia schiera di sottoscrittori che trovavano conve-niente investire i propri risparmi in titoli che potevano essere venduti o trasfe-riti per via ereditaria ed allo stesso tempo erano esenti da sequestri e tasse. DeLuca ci riferisce che il debito consolidato non influì negativamente sull’econo-mia, anzi sortì, quasi sempre, un effetto positivo sulla redistribuzione ed ilrafforzamento dei patrimoni dei sottoscrittori dei titoli pubblici; in specialmodo nel ducato di Milano il debito agì positivamente sugli investimenti pro-duttivi, andando ad integrarsi nella favorevole congiuntura economica che siverificò nel ducato nella seconda metà del sedicesimo secolo.

Quindi, De Luca analizza dettagliatamente ora le peculiarità della finanza pub-blica nel Ducato di Milano ora quelle della Repubblica Veneta, rendendo la tratta-zione più chiara mediante l’utilizzo di grafici le cui fonti, nel caso del Ducato diMilano, risalgono ai registri dei rogiti camerali dell’epoca spagnola (1535-1700).

Nel 1535, con l’inizio della dominazione spagnola, nel ducato di Milano laforma principale di finanziamento del deficit pubblico diventò l’alienazionedelle entrate non più, però, a carattere obbligatorio, bensì volontario. Si tratta-va di debito pubblico consolidato che arrecava vantaggi sia ai sottoscrittori, inquanto era più facile riscuotere dazi o altri cespiti fiscali che aspettare di rice-vere gli interessi da parte del governo centrale, sia per quest’ultimo, poichéincassava grandi quantità di denaro in cambio di cessioni di entrate piuttostomodeste. I momenti di maggiore alienazione delle entrate coincidevano con iperiodi di guerra e le continue spese belliche che doveva sostenere la Coronaspagnola era uno dei motivi principali del ricorso a questo tipo di debito pub-blico. La buona riuscita di questo debito dipese dall’elevato numero di sotto-scrittori che, peraltro, appartenevano a vari ceti sociali. Le quote maggiori di

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debito pubblico venivano sottoscritte da banchieri genovesi e locali, nobili epatriziato, ma vi erano anche numerosi artigiani, mercanti e donne sole che tro-vavano conveniente investire in acquisti di entrate che, oltre ad essere sicuri,fruttavano un interesse maggiore rispetto ad altri tipi di investimenti. Dal 1575,grazie ad una minore predisposizione di Filippo II verso i genovesi, ma soprat-tutto per l’importanza assunta dal debito pubblico nel ducato di Milano e perla fase di crescita economica che esso stava attraversando, i banchieri-cambistimilanesi organizzarono un sistema finanziario ben strutturato, favorendo ancheil miglioramento del mercato del credito pubblico. Nel secondo decennio delXVII secolo, le esigenze camerali richiedevano il reperimento di somme didenaro urgenti, per cui si preferì alienare grosse quantità di entrate presso gran-di finanzieri genovesi ed indigeni piuttosto che attendere i tempi lunghi dellavendita al pubblico. Inoltre, le difficoltà attraversate dalla hacienda milanese, inquegli anni, e la riduzione dei tassi d’interesse resero meno attraente il mercatodei titoli di stato. Ad ogni modo, nel XVII secolo, le alienazioni delle entratecostituirono, nel Ducato di Milano, ancora un’importante fonte di guadagnoper molti investitori. Quando finì l’età spagnola, il debito consolidato, formatodall’ammontare delle alienazioni, era pari a 36.782.000 di lire, al netto delleretrovendite effettuate. De Luca si interroga anche sull’effetto che lo sviluppodel debito pubblico ebbe sull’economia reale dell’epoca e sempre sulla basedello spoglio dei documenti notarili costruisce una figura in cui si evidenzia chela domanda pubblica di capitali a lungo termine e la domanda privata, nelperiodo di più intensa espansione economica (1575-1611), coesistono ed incon-trano la curva di domanda in punti diversi. Ciò significa che la domanda pub-blica non ebbe un effetto spiazzamento sulla domanda privata e, soprattutto inquesto periodo, i titoli pubblici furono usati come matrici di credito dagliimprenditori e quindi ne accrebbero le possibilità di ottenere altri capitali.

Attraverso la ricostruzione del debito pubblico veneziano, del XV e degliinizi del XVI secolo, effettuata da Luciano Pezzolo, sappiamo che esso erabasato su prestiti forzosi, ma i continui ritardi nel pagamento degli interessi e lascarsa fiducia da parte dei contribuenti condussero, nel XVI secolo, il patrizia-to al ricorso al libero mercato mediante l’emissione di depositi in Zecca. Si trat-tava di titoli emessi dallo Stato e sottoscritti liberamente, che arrecavano nume-rosi vantaggi come convenienti saggi d’interesse, possibilità di restituzione delcapitale a breve termine, esenzione fiscale e tutela dal sequestro, possibilità difarli circolare. Così come nel Ducato di Milano, anche nella Repubblica Venetai periodi di maggiore emissione di titoli coincisero con i momenti di partecipa-zione di Venezia alle guerre. Nei periodi di pace e di assestamento delle finan-ze statali, spesso, il governo veneziano liquidò il debito pubblico. Nel XVIIsecolo, la domanda di titoli pubblici registrò un notevole incremento, grazie aipiù alti saggi di remunerazione concessi, alla contemporanea scarsità di effet-

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tuare buoni investimenti nel commercio marittimo ed alla possibilità data dalgoverno spagnolo anche agli stranieri di poter sottoscrivere titoli pubblici. Allafine del XVII secolo, numerosi erano i finanzieri genovesi che possedevano,oltre ai banchieri veneziani, molti titoli redimibili appartenenti al debito pub-blico della Repubblica veneta. Anche qui il debito pubblico insieme alla rendi-ta agricola agirono positivamente sull’economia veneziana.

Le conclusioni a cui giunge De Luca a proposito dell’esperienza del debitopubblico, durante l’età moderna, nel ducato di Milano e nella Repubblica vene-ta sono che entrambi gli stati cercarono di utilizzare lo strumento del debito perraccogliere denaro da destinare alle casse dello Stato, ma anche per legare allapolitica centrale i vari ambiti dello Stato e i territori sottomessi, nel caso dellaRepubblica Veneta, e per far integrare e partecipare le elites indigene alla scel-te politiche del governo mediante la loro attiva partecipazione al processo diredistribuzione dei redditi, nel caso del Ducato di Milano.

Enrico Stumpo sviluppa una relazione su “Città, Stato e mercato finanzia-rio: il diverso ruolo del debito pubblico in Piemonte e in Toscana”, dove esa-mina e confronta i diversi ruoli assunti dal debito pubblico, nel corso dei seco-li XVII e XVIII, in Piemonte e in Toscana. Mentre in Piemonte si fece ricorsoal debito pubblico per esigenze di difesa del territorio, data la sua collocazionegeografica; in Toscana, nel XVI secolo, i Medici utilizzarono il debito pubblicoper espandere e rafforzare il loro dominio nel Granducato, successivamentefino al 1737, il debito pubblico servì a mantenere non elevata la pressione fisca-le sui cittadini ed a garantire loro forme di assistenza sociali. Con l’ausilio del-l’attenta e minuziosa analisi effettuata da J. C. Waquet, Stumpo ci mostra, daun lato, l’andamento del debito pubblico in Piemonte e Toscana, analizzandoanche i sottoscrittori, dall’altro, ci illustra il diverso peso del prelievo fiscalesulle varie comunità piemontesi e toscane.

Sulla base di una ricostruzione compiuta dal Waquet a proposito del debi-to pubblico in Toscana, dalla fine della reggenza dei Medici, si può rilevare che,agli inizi del XVIII secolo, il debito pubblico era gestito da quattro monti (ilMonte delle Graticole, il Monte di Pietà, il Monte del sale e il Monte Redimi-bile). Nel 1738, il debito pubblico era pari a 12.936.817 scudi (il dato di riferi-mento per la moneta toscana è in scudi di conto da sette lire), accumulato perla maggior parte durante i secoli XVI e XVII. Dall’analisi del Waquet emergeche la maggior parte del debito era collocata a Firenze (che deteneva il 74% deldebito), seguita dalle altre città toscane. Invece, tra possessori di titoli del debi-to, nelle prime posizioni c’erano la nobiltà ed il clero, che insieme detenevanoil 73,4% del debito, mentre le persone civili ne possedevano solo il 4,8%.

In Piemonte il debito pubblico si formò più lentamente anche perché iSavoia fecero molto ricorso ai finanziamenti degli alleati e alle imposte straor-

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dinarie pagate dalle comunità. Nel 1702, il capitale di debito pubblico era paria 17.441.246 lire, a cui bisogna aggiungere un capitale di 169.000 scudi raccol-to con la nascita del Monte della Fede, tra il 1653 e il 1668, ripartito, a diffe-renza della Toscana, in maggioranza tra borghesia, magistrati e neo-titolati,seguiti dal clero e dalla nobiltà antica.

Sia in Piemonte che in Toscana, il prelievo fiscale aveva lo scopo di pagaregli interessi sul debito pubblico. Il prelievo fiscale in Piemonte era superiore aquello in Toscana anche se complessivamente si può dire che le comunità pie-montesi avevano poche entrate proprie. In Toscana, i Medici attuarono unalegislazione fiscale che colpiva, maggiormente, le famiglie più ricche di Firenzee quelle del patriziato cittadino, che pagavano di più anche perché possedeva-no molti beni negli altri territori del granducato. Secondo il Waquet, quest’im-postazione fiscale stava a riprova della stabilità che i Medici erano riusciti acreare nel corso della loro reggenza.

Questi sono, sostanzialmente, i confronti che Stumpo, come altri studiosi,sono riusciti ad effettuare fra il Piemonte e la Toscana, non essendo ancora pos-sibile effettuare dei precisi confronti monetari sia per quanto riguarda il capitaledi debito pubblico che il prelievo fiscale, in quanto lo scudo toscano e la lira pie-montese avevano un peso ed un valore diverso. Quindi, Stumpo auspica che infuturo si giunga a quantificare il prelievo fiscale ed il debito pubblico dei vari statiitaliani, ad esempio nei secoli XVI e XVII, per poter effettuare anche confronti alivello internazionale, come in alcuni articoli ha tentato di fare Luciano Pezzolo.

Gian Luca Podestà scrive una relazione sulla “Finanza pubblica nel Duca-to di Parma e Piacenza in età farnesiana”. In quel periodo, Piacenza, in qualitàdi sede di fiere di cambio, rappresentava un importante centro finanziario assie-me a Genova. Obiettivo principale degli Asburgo era continuare ad avere ilcontrollo sulla città per poter reperire risorse finanziarie utili al governo delloro impero. Dopo anni di lotte ed alleanze, un patto fra Ottavio Farnese (figliodi Pier Luigi) e Carlo V – rafforzato dal matrimonio di Ottavio con Margheri-ta, figlia di Carlo V – sancì il ritorno di Piacenza ai Farnese. Ottavio Farnese,dopo aver riconosciuto l’autorità degli Asburgo su Parma e Piacenza, nonfidandosi delle famiglie feudali del ducato, intraprese una strategia d’azionepassata alla storia come “politica del delitto” e portata avanti, fino al 1621, dalnipote Ranuccio. Molti feudatari furono accusati – non si sa con certezza se atorto o ragione – di congiura e di conseguenza furono uccisi ed espropriati deiloro beni. Ciò consentì ai duchi di accrescere il proprio patrimonio mediante laripartizione di alcune terre espropriate ai vecchi feudatari ed allo stesso tempofu un’ottima fonte di sostegno finanziario per lo Stato, le cui entrate patrimo-niali si basarono sui beni patrimoniali del ducato, essendo le entrate fiscalidipendenti da cicli congiunturali. Nella seconda metà del Seicento, si venne a

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creare una nuova proprietà terriera, nel ducato, grazie all’assegnazione di titolie feudi a membri della nobiltà cittadina, che divenne attiva artefice dellamodernizzazione dell’agricoltura.

Lo Stato Pontificio

Francesco Colzi ci illustra “L’efficienza dei mercati finanziari in età prein-dustriale. Il sistema dei “monti” nello Stato pontificio (secc. XVI-XVII)”. NelXVI secolo, le principali piazze europee caratterizzate dai più importantimercati finanziari erano Anversa, Besançon, Genova, Piacenza e Lione. Adesse si aggiunse Roma, città particolare dal punto di vista economico e finan-ziario, perché non aveva come le altre un ben sviluppato sistema mercantile eproduttivo. Nel mercato finanziario romano operavano numerosi ed abiliinvestitori appartenenti a varie categorie sociali che contrattavano varie formedi credito come: censi, crediti fruttiferi, prestiti su pegno, cambi e titoli deldebito pubblico che col tempo divennero l’oggetto principale delle contratta-zioni nel mercato finanziario romano durante l’età moderna. All’interno delmercato finanziario pontificio, i “luoghi di monte” assolsero un importanteruolo fornendo anche un ottimo aiuto alle finanze della Curia. Colzi con que-sto lavoro intende analizzare l’efficienza del mercato dei “luoghi di monte”,nel periodo che va dal XVI al XVII secolo, secondo diverse accezioni. Innan-zitutto, cerca di vedere se il mercato dei “luoghi di monte” rispettava un’effi-cienza allocativa, cioè se all’interno di esso riuscivano ad incontrarsi doman-da ed offerta, poi cerca di riscontrare l’esistenza di un’efficienza tecnica, nelsenso di un’adeguata organizzazione e funzionalità del mercato affiancata dabassi costi di transazione ed infine esamina questo mercato dal lato dell’effi-cienza informativa, che si realizza quando i prezzi dei titoli rispecchianol’informazione disponibile consentendo agli investitori di operare con razio-nalità. Secondo Colzi, il mercato dei “luoghi di monte” a Roma poteva defi-nirsi efficiente sulla base di queste diverse accezioni, ma non si trattava, però,di un’efficienza in termini assoluti, in quanto tale mercato si adeguava soloalle esigenze degli investitori, garantendo trasparenza, bassi costi di transazio-ne e sicurezza, ed a quelle degli emittenti, assicurando loro emissioni costan-ti e corpose di capitali. Tutto questo avvenne in netto contrasto con le altreesperienze europee dell’età preindustriale.

Roberta Masini, nella sua relazione, esamina “Gli investitori nei titoli deldebito pubblico pontificio: categorie sociali, distribuzione delle quote, motivazio-ni di una scelta (XVII secolo)”. In particolare, affronta l’evoluzione dei monticamerali dalla seconda metà del XVII secolo, cioè dai cambiamenti effettuati da

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papa Alessandro VII a quelli compiuti da papa Innocenzo XI, analizzando anchegli effetti conseguenti alle riforme che quest’ultimo realizzò. Dalla seconda metàdel Seicento, i vari Papi cominciarono ad avere una maggiore consapevolezzadelle importanti implicazioni che il debito pubblico poteva avere sull’economia diuno Stato, quindi decisero diversi cambiamenti nel tentativo di rendere più effi-ciente il sistema di gestione del debito pubblico. Inoltre, furono spinti nella dire-zione di effettuare cambiamenti anche dall’esigenza di sanare le finanze pontifi-cie. Masini sottolinea che, nonostante i cambiamenti, alcune linee nella gestionedel debito rimasero costanti, come, ad esempio, durante ogni pontificato furonosempre rispettati gli impegni presi nei confronti degli investitori anche se assuntisotto un pontificato precedente. Un’altra constate fu il controllo che la CameraApostolica tenne a conservare sulla gestione del debito. Essa continuava ad esi-gere che le transazioni relative ai “luoghi di monte” avvenissero sempre in pre-senza di un funzionario della Camera Apostolica, sia per avere pieno controllodelle transazioni che per garantire la massima sicurezza agli investitori. Durante ilPontificato di Alessandro VII (1655-1667), furono attuate importanti riforme suimonti camerali per risollevare le sorti finanziarie dello Stato Pontificio. I monti diRoma furono assorbiti dai monti camerali a riprova dell’importante potere dellaCamera apostolica che, in questo modo, riuscì a far perdere peso alla componen-te municipale. Per diminuire il peso degli interessi sullo Stato Pontificio, al postodei monti vacabili fu istituito un nuovo monte, il Ristorato, che pagava un inte-resse più basso rispetto ai primi (il 4% a fronte del 10%). Ai risparmiatori fu datala possibilità di passare ai nuovi monti o di essere rimborsati del capitale dato inprestito. Sotto il Pontificato di Innocenzo XI (1676-1689) furono ancora unavolta estinti i vecchi monti e fu istituito il monte di San Pietro, per abbassare ulte-riormente il tasso d’interesse, che passò al 3%. Gli investitori poterono chiederela conversione dei propri monti con quelli nuovi o chiedere il rimborso dei vec-chi. La maggior parte di essi preferì passare al nuovo monte anche se l’interessepercepito era più basso, questo perché le garanzie offerte su questi titoli eranomigliori di quelle offerte da altri tipi di investimenti. Nel bilancio della CameraApostolica, successivo all’istituzione del nuovo monte, le uscite relative agli inte-ressi del debito pubblico, furono minori delle entrare e delle uscite complessivedello Stato, perché quasi tutti i titoli in circolazione confluirono nel monte SanPietro. Si verificò, quindi, il risanamento delle finanze dello Stato Pontificio.

Masini ha, inoltre, effettuato un’analisi quantitativa degli investitori e delladistribuzione dei titoli pubblici sul finire del Seicento, sulla base di un campionedi lettere patenti, riguardanti le nove erezioni che ci sono state del Monte San Pie-tro dal 1684 al 1689. In questa relazione, i risultati dell’ analisi sono solo accenna-ti, per maggiori dettagli si rimanda al suo libro “Il debito pubblico pontificio a fineSeicento”. I titoli erano concentrati verticalmente fra le varie classi sociali, infatti,c’era un’enorme varietà fra i possessori di titoli pubblici, che andavano dai ceti più

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alti, rappresentati da nobili, da gruppi di finanzieri, ai ceti più modesti, dove siriscontrava una buona presenza di donne. Molti titoli erano posseduti anche daenti religiosi o caritativi romani o più in generale dello Stato Pontificio. L’efficien-te gestione dei monti, la tutela e le garanzie offerte dalla Camera Apostolica agliinvestitori, avevano contribuito a diffondere una buona immagine dei monti ancheal di fuori dello Stato Pontificio, facendo sì che molti investitori stranieri si rivol-gessero sul mercato finanziario pontificio che poteva benissimamente competerecon le più importanti piazze finanziarie dell’epoca.

Fausto Piola Caselli presenta una relazione dal titolo “Le dogane di Romae il debito pubblico pontificio nel Settecento”. Egli studia l’andamento deldebito pubblico in un’ottica di lungo periodo, per cui la sua analisi parte daiprimi anni del XVII secolo ed arriva alla fine del XVIII secolo. E’particolar-mente interessante osservare lo sviluppo del debito pubblico pontificio, perchéè stato gestito con molta accuratezza e nel rispetto dei parametri dell’efficienza.Piola Caselli, nella sua ricerca, approfondisce lo sviluppo del debito pubblicosulla base di due linee direttive. La prima si snoda attraverso l’analisi dell’evo-luzione del debito pubblico alla luce dell’andamento demografico e del deprez-zamento della moneta lungo i secoli XVII e XVIII. Attraverso l’utilizzo dellefonti documentali disponibili e di coefficienti di indicizzazione, il relatore haelaborato delle serie numeriche in grammi d’argento pro capite. La secondalinea direttiva concerne l’esame dell’andamento del debito sulla base delle fontidi reperimento degli interessi (indicizzati), dando particolare rilievo al gettitodelle dogane di Roma – formato dal consumo di carne, vino e macinato – inquanto più importante rispetto agli altri cespiti. Mediante questi riferimenti,Piola Caselli ha costruito delle tabelle dalle quali sono emerse interessanti con-clusioni. Innanzitutto, il rapporto fra uscite del bilancio dello Stato Pontificio,interessi passivi e gettito delle dogane di Roma (calcolati in scudi) fu in sostan-ziale equilibrio dall’inizio del XVI secolo alla fine del XVIII e lungo questoarco di tempo anche il debito pubblico, visto dal lato degli interessi passivi (cal-colati in grammi d’’argento pro capite), ebbe uno sviluppo più o meno stabilefino a metà Settecento. Il gettito delle dogane di Roma (calcolato in grammid’argento pro capite) durante il XVII secolo ebbe un andamento crescente, ele-vato nella prima metà del Settecento (ma minore rispetto al secolo precedente),in lento calo nella seconda metà del Settecento, per poi scendere vorticosamen-te negli ultimi venti anni del secolo, in seguito all’introduzione di un nuovosistema di imposte ai confini. Piola Caselli non concorda con altri studiosi sulluogo comune che esenzioni e privilegi fiscali furono il perno del tracollo finan-ziario nello Stato Pontificio (che non si è mai avuto), perché dalla sua analisiemerge che le esenzioni, fino agli anni Settanta del Seicento, crebbero – rag-giungendo un picco del 15% del gettito doganale – e poi diminuirono attestan-

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dosi intorno al 3-4% del gettito totale. Piola Caselli, al contrario di alcuni stu-diosi, asserisce, quindi, che il debito pubblico pontificio non ha mai raggiuntolivelli tali da destare preoccupazioni gravi per le finanze dello Stato e sulla basedei dati forniti si può affermare che l’apparato finanziario pontificio è stato soli-dissimo per tutto il Seicento ed il Settecento, anche se impiantato sullo sfondodi un antico regime verso il declino economico.

Mauro Carboni, nel suo lavoro, analizza “L’evoluzione del debito pubbliconella periferia pontificia in età moderna: il caso della Legazione di Bologna”.Nella sua ricerca Carboni prende come punto di riferimento tre fattori fonda-mentali, ossia l’indebitamento complessivo, i saggi d’interesse e la tipologia deisottoscrittori del debito pubblico. Il sistema dei Monti di pubbliche prestanzeassolse ad una duplice funzione, da un lato, servì a far fronte alle esigenzefinanziarie della Legazione bolognese, dall’altro, fu utilizzato per le richieste dicontribuzioni provenienti da Roma. L’evoluzione del debito pubblico dellaLegazione di Bologna può essere divisa in due periodi. Tra il Cinquecento e laprima metà del Seicento, il sistema dei monti bolognesi fu progressivamentecaratterizzato da numerose emissioni e da elevati saggi d’interesse, per attirarequanti più investitori possibile. Dalla seconda metà del Seicento al Settecento,furono ridotte le emissioni dei Monti bolognesi e si verificò una graduale ridu-zione dei saggi d’interesse, realizzata in forma negoziata per assicurare la soste-nibilità del sistema e conservare la fiducia dei sottoscrittori. Quest’operazionedi razionalizzazione del debito pubblico della Legazione di Bologna permise ilraggiungimento di uno più efficiente e meno costoso servizio del debito. A sot-toscrivere i monti bolognesi furono soprattutto gli abitanti della città, mentre lesottoscrizioni di stranieri, per lo più genovesi, furono esigue, in quanto questierano maggiormente interessati ai “luoghi di monte” dello Stato Pontificio.

Donatella Strangio presenta una relazione su “Debito pubblico e mercatofinanziario a Roma e nello Stato pontificio tra XVIII e inizio XIX secolo: l’isti-tuzione della Borsa di Roma”. La ricostruzione viene effettuata attraverso i varicambiamenti che si sono avuti nella politica di gestione del debito pubblicosullo sfondo di numerosi avvenimenti che hanno riguardato lo Stato Pontificio,nel Settecento e nell’Ottocento, dando particolare rilievo alle vicende chevanno dalla prima occupazione francese alla restaurazione del potere papale.Oltre a ciò, la Strangio esamina l’istituzione della Borsa di Roma e, più in gene-rale, il mercato finanziario romano mettendo in risalto l’importanza assunta daititoli del debito pubblico pontificio.

I titoli del debito pubblico dello Stato Pontificio, denominati “luoghi dimonte”, nel Cinquecento e nel Seicento, furono sottoscritti da numerosi inve-stitori romani e stranieri, per l’alto grado di affidabilità garantito dalla Curia nel

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pagamento degli interessi e nella stabilità dei titoli. Solo verso la fine del Sette-cento, quando l’inflazione fece sentire i suoi effetti sugli investimenti a lungotermine, gli investitori cominciarono a guardare ai “luoghi di monte” con piùprudenza. L’occupazione da parte dei francesi dello Stato Pontificio comportòl’aggravio dei conti pubblici per le spese di mantenimento dell’esercito france-se sul suolo romano e per i diversi interventi di modifica dell’apparato ammini-strativo pontificio. Di conseguenza, furono prese delle misure per il conteni-mento del debito pubblico, fra cui il consolidamento del debito esistente e lariduzione del saggio d’interesse sui titoli pubblici. Quando fu proclamata laRepubblica Romana, nel 1798, lo stato finanziario del governo provvisorio nonnavigava in buone acque, il debito pubblico ammontava a circa 84 milioni discudi romani. Le autorità di gestione del debito pubblico decisero di sospende-re il pagamento degli interessi sul debito e furono messi in vendita i beni nazio-nali per porre rimedio al deficit di bilancio. Il processo di risanamento dellastruttura economico-amministrativa dello Stato, continuò con il ritorno delPapa. Vennero ripristinati i pagamenti degli interessi ma dal 1802 in poi, cioègli investitori non ricevettero il pagamento degli interessi del periodo in cuiesso era stato sospeso; poi furono ridotti i saggi d’interesse e dilazionati i paga-menti sugli interessi del debito. Questi provvedimenti, però, furono vanificatiperché, nel 1809, Napoleone, dopo la seconda occupazione dello Stato pontifi-cio, ne decise l’annessione all’Impero francese e ciò significò che il debito pub-blico pontificio divenne debito dell’Impero. Nel tentativo di attenuare il pesodel debito pubblico e degli interessi sulle finanze statali, il governo francese, nel1810, ridusse il valore nominale dei “luoghi di monte”, portandoli da 100 scudia 24 scudi, e liquidò i “luoghi di monte” detenuti dai sudditi dell’Impero, rim-borsandoli con “rescrizioni”, che potevano essere usate per comprare i beniimmobili sottratti agli enti religiosi. Con l’Editto del 1814, fu restaurato lo StatoPontificio e, nel 1816, attraverso il Motu Proprio furono introdotte ulteriorimodifiche nella gestione del debito pubblico. I vecchi titoli furono tramutati incartelle del nuovo debito consolidato, il saggio d’interesse sui titoli fu confer-mato al 5% ed il valore nominale dei titoli fu portato a 25 scudi.

La Strangio ci riferisce che la Borsa di Roma ebbe un proprio statuto nelperiodo di dominazione francese e che il Codice di Commercio dello StatoPontificio recepì la maggior parte delle disposizioni emanate proprio durante ilperiodo francese. In base al Codice di Commercio, la borsa di commerciovenne definita come “l’unione che ha luogo sotto l’autorità di governo deicommercianti, capitani di bastimento, agenti di cambio e sensali”. Si voleva chela Borsa di Roma, alla stregua delle altre borse della penisola italiana, fosse unaborsa pubblica, aperta ad ogni commerciante e che in essa cessasse di esistereogni tipo di privilegio o prevalenza di un gruppo rispetto ad un altro. Nel XIXsecolo, nel mercato finanziario i titoli più contrattati erano i titoli del debito

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pubblico, che comprendevano il debito consolidato romano al 5%, e per unper un periodo di tempo compresero anche i titoli relativi al “Monte di Mila-no” ed i certificati di credito infruttiferi. Tra il 1822 ed il 1848, l’andamento deldebito pubblico consolidato, nella Borsa romana, fu soggetto a fasi di espansio-ne o recessione in perfetta coincidenza con gli avvenimenti politici ed econo-mico-finanziari, durante il periodo della restaurazione. Sul finire degli anni ’50del XIX secolo, sulla piazza romana cominciarono ad essere negoziati, anchetitoli relativi alle società operanti nei settori dei servizi e delle ferrovie.

Pia Toscano, nel suo lavoro, analizza “Gli investimenti nel debito pubblicopontificio nella Roma dell’Ottocento”, soffermandosi, in particolar modo, sulperiodo che va dall’occupazione francese dello Stato Pontificio alla restaurazio-ne del governo papale. Si tratta di un periodo estremamente delicato per il mer-cato finanziario romano conseguente alla fine dell’era dei “luoghi di monte”.Oltre a ciò, la relatrice espone un quadro dettagliato sulla natura degli investi-tori nel mercato finanziario romano.

Un avvenimento importante del periodo di annessione di Roma all’Imperofrancese (1809) fu la liquidazione dei “luoghi di monte”, che, come messo in evi-denza anche dagli altri studiosi intervenuti al convegno, hanno caratterizzato lagestione del debito pubblico dal XVI secolo in poi. L’estinzione dei “luoghi dimonte” influì sulla distribuzione della ricchezza, a sfavore soprattutto del cetomedio borghese, e sulla vita economico-finanziaria degli anni successivi alla restau-razione del governo papale. Infatti, quando ciò avvenne, il governo pontificio ridi-segnò le linee di gestione del debito pubblico alla luce di ciò che poteva essereripreso dal vecchio governo papale e delle riforme introdotte dal governo france-se. Con il Motu Proprio, del 1816, non fu prevista la cancellazione della liquida-zione dei “luoghi di monte” anche se fu ripristinato il pagamento degli interessi,ma si trattò di misure fittizie per quanto concerne l’interesse dei creditori pubbli-ci. Nonostante le nuove disposizioni sulla gestione del debito pubblico, dall’anali-si condotta dalla Toscano emerge che, dal 1822 al 1831, il mercato finanziarioromano fu molto attivo, grazie alla presenza di numerosi investitori, e di conse-guenza di contrattazioni di compra-vendita, specialmente relative al debito conso-lidato pontificio (in media 175 l’anno). La maggior parte degli operatori del mer-cato finanziario romano era rappresentata da esponenti della nobiltà romana, inprimis va annoverato Giovanni Torlonia, nobile banchiere, che, in quel lasso ditempo, fece circolare nel mercato romano un capitale nominale di 500.000 scudi;poi vanno menzionati Luigi Boncompagni, Alberto Alberghetti ed Agostino Rem-picci. Fra i nobili vanno anche ricordati, da un lato, i genovesi con figure di spic-co, come Francesco Maria Lamba Doria e Nicolò Crosa e, dall’altro, esponentidella nobiltà europea come il mercante d’arte russo Nicola De Demidoff. Gli altrioperatori che si muovevano nel mercato romano erano gli istituti bancari italiani,

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quali il Banco di Santo Spirito, le banche straniere, gli enti laici, religiosi e pubbli-ci. Questi operatori contribuirono, in quegli anni, a mantenere vivo il mercatofinanziario romano.

Il Regno delle Due Sicilie

Gaetano Sabatini redige una relazione dal titolo “Nel sistema imperialespagnolo: il debito pubblico napoletano nella prima età moderna”. Egli sostie-ne che per comprendere le dinamiche relative all’andamento del debito pubbli-co e, più in generale, della finanza pubblica napoletana non si può prescinderedal considerare la dipendenza del meridione continentale dalla monarchia spa-gnola negli anni che vanno dal 1503 al 1707. Il legame tra il Regno di Napoli ela monarchia spagnola va oltre la ben nota utilizzazione del debito pubbliconapoletano per contribuire al finanziamento dei costi delle imprese militaricompiute dagli spagnoli. Il relatore delimita l’arco temporale nel quale il debi-to pubblico napoletano servì effettivamente a finanziare le spese militari dellaCorona spagnola al periodo tra il 1556 ed il 1643, che va dalla reggenza diFilippo II alla caduta del conte-duca di Olivares. In quel periodo, è stato dimo-strato che ci fu un aumento del debito, soprattutto nei primi vent’anni di regnodi Filippo IV. Il legame che c’è stato fra Napoli e la Corona spagnola, deve esse-re riferito al fatto che la finanza pubblica, in particolare la pressione fiscale e ildebito pubblico, fu articolata in base alle linee guida imposte dagli spagnoli, equesto avvenne non solo nel napoletano ma, in modi diversi, anche negli altriterritori dipendenti dalla monarchia. Un’altra sfaccettatura di questo legame siesplicitava attraverso le linee di gestione del debito pubblico che la monarchiaspagnola dettava, a proposito di modalità di emissione, conversione, consolida-mento ed alienazione del debito, in modo da rafforzare, nel tessuto sociale par-tenopeo, il consenso verso le sue strategie politiche, ciò in virtù del fatto che ildebito pubblico napoletano era molto diffuso tra le varie classi sociali del terri-torio. Sabatini pone come esempio di questi due aspetti del legame fra lamonarchia spagnola ed il Regno di Napoli, la proposta di creazione di una retedi banchi pubblici, per migliorare e centralizzare la gestione del debito pubbli-co, nata negli ambienti di corte in Spagna verso la fine del Cinquecento, maconcretizzatasi ad opera del conte-duca di Olivares nel secondo decennio delSeicento. Nel territorio napoletano, questo progetto fu presentato come un ten-tativo di trasformare il debito pubblico esistente in consolidato, solo comeminaccia per far desistere le lamentele delle classi urbane delle province difronte all’aumento della pressione fiscale.

Quindi, Sabatini ci invita a tener presente che il debito pubblico e la finanzapubblica nel napoletano furono influenzate dalla lunga dominazione spagnola.

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Teodora Iorio svolge una relazione su “Un caso specifico di gestione deldebito pubblico nel Regno di Napoli: l’arrendamento della seta nella secondametà del Cinquecento”. La relatrice sviscera un aspetto particolare del debitopubblico del Regno di Napoli, nella seconda metà del Cinquecento: quello rela-tivo alla gestione dell’arrendamento della gabella della seta divisa tra interessisia pubblici che privati. Iorio ha analizzato diversi aspetti della struttura ammi-nistrativa dell’arrendamento della seta. In primis ha esaminato, da un lato, laforma della delega a riscuotere e cioè gli aspetti relativi alle modalità delle con-cessioni dei bandi e, dall’altro, il controllo pubblico sul delegato (arrendatore).Il potere pubblico cercava di tenere sotto controllo l’arrendatore attraverso leprocedure stabilite e le verifiche effettuate dalla burocrazia vicereale. In questomodo, si poteva stabilire il gettito effettivo dell’imposta. Poi, la relatrice verifi-ca come i privati si organizzavano per la gestione della riscossione ed il rispettodegli impegni presi e descrive la natura degli arrendatori delegati, sottolinean-do che spesso si rivelavano non all’altezza delle loro mansioni. Infine, Iorio, esa-mina le classi di appartenenza dei partecipanti all’arrendamento della seta, non-ché le quote che investivano e vantaggi che ne traevano.

Alessandra Bulgarelli, nel suo lavoro, illustra “Il debito pubblico in ambitomunicipale. Stato, comunità e creditori nel Regno di Napoli tra Seicento e Sette-cento”. Fulcro della relazione è l’attenzione posta a quei soggetti istituzionali chehanno avuto un ruolo importante nella gestione del debito pubblico del Regno diNapoli nei secoli XVII e XVIII. Per la sua analisi, Bulgarelli affronta il tema deldebito pubblico delle comunità del Regno – largamente diffuso e rappresentanteil 35% della spesa complessiva – , all’interno del quale confluiva, da un lato, ildebito municipale contratto per via diretta dalle università, dall’altro, quello deri-vante dall’alienazione dell’imposta sui fuochi. Il mercato secondario relativo aldebito pubblico municipale, contratto dalle università era molto attivo per l’altafrequenza con cui svolgevano le transazioni, in particolare, tra la fine del Cinque-cento e gli inizi del Seicento, in seguito alla crisi agraria della fine del Cinquecen-to, periodo in cui si verificò un elevata domanda di censi con interessi pari, all’in-circa, all’ 8-9%, ed alla crisi finanziaria delle università. Negli anni Venti del XVIIsecolo, diminuirono l’offerta di fondi e gli interessi, in conseguenza della politicadeflazionistica attuata dal governo. Pertanto, gli investitori più deboli si ritiraro-no dal mercato sancendo una progressiva concentrazione dei titoli tra gli entiecclesiastici ed i feudatari. Per il debito inerente ai titoli collocati sui fuochi dellecomunità molti sono i contributi nella letteratura che ne analizzano i vari aspetti,come la composizione degli acquirenti.

Bulgarelli si sofferma sulle interrelazioni fra Stato, comunità e creditori,evidenziando il grosso potere di contrattazione di quest’ultimi sulle scelte nellasfera della finanza locale del governo. Diversi sono i motivi della grande

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influenza dei creditori, a partire dal denaro che possedevano, passando dalleposizioni di privilegio che ricoprivano in seno alla società ed a Corte, fino alforte spirito di gruppo che li caratterizzava e che li portava a considerarsi unvero e proprio ceto. Questi elementi facevano in modo che i creditori riuscisse-ro ad avere un enorme potere sulle scelte relative alla gestione del debito pub-blico e nello spingere il governo a farsi promotore di provvedimenti che garan-tissero, al meglio, i lori diritti sulle università e sul pagamento degli interessi suldebito. Un esempio di questo potere è dato dalla denuncia effettuata dai credi-tori fiscalari, tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento, a proposito del-l’evasione fiscale riguardante la nuova ricchezza accumulata nelle comunità delregno di Napoli.

Valentina Favarò esamina “Il debito pubblico nella Sicilia moderna: unbilancio storiografico”. Dalla sua relazione emerge la mancanza di lavori siste-matici sul debito pubblico siciliano in età moderna. Le questioni relative aldebito pubblico della Sicilia sono state trattate, per lo più, all’interno di lavoririguardanti, più in generale, la storia fiscale o l’analisi dei bilanci pubblici. Nelsuo percorso di ricerca, Favarò ha rilevato che i mercanti-banchieri genovesihanno espresso la loro influenza in materia creditizia anche sulle tipologie dicredito concesse al governo spagnolo, confermando la loro importanza. Oltre aciò la relatrice ha riscontrato un aumento del debito pubblico siciliano in con-comitanza con il coinvolgimento della Spagna alla Guerra dei Trent’anni ariprova di come il debito pubblico siciliano, ma anche quello napoletano tra il1556 ed il 1643 come ricordato da Sabatini, sia servito soprattutto a fronteggia-re i costi della difesa della monarchia spagnola.

Dagli anni Ottanta, si è riacceso un filone di studi e ricerche riguardanti ledinamiche di gestione del debito pubblico ed i processi di formazione dellaStato in età moderna, ma questi riguardano soprattutto alcune realtà italiane, inparticolar quella genovese e quella fiorentina. Secondo Favarò, bisognerebbeintensificare gli studi sul debito pubblico siciliano alla luce anche di recentilavori in tal senso per poter, da un lato, approfondire le vicende economiche,politiche e sociali della Sicilia spagnola e, dall’altro, per poter aggiungere unaltro elemento di confronto fra le varie piazze finanziarie della penisola italianain età moderna.

Ilaria Zilli analizza “Il debito pubblico del Regno di Napoli nel sec. XVIII:un bilancio storiografico”. Sull’argomento del debito pubblico del Regno diNapoli nel Settecento esiste una bibliografia più ampia di quella sul Regno diSicilia, come ha riscontrato la stessa Valentina Favarò.

Ilaria Zilli, nel suo lavoro, prende in considerazione la storiografia italiana,dalla fine del Settecento ai giorni nostri, sul tema del debito pubblico e più in

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generale della finanza pubblica del Regno di Napoli durante il diciottesimosecolo. Dalla seconda metà del Novecento, esiste un’ampia storiografia econo-mica italiana sulla finanza pubblica degli stati preunitari; il periodo di maggiorconcentrazione di scritti, come ha sostenuto Antonio Di Vittorio all’interno delsuo bilancio storiografico sulle ricerche di storia economica nella penisola ita-liana dell’età moderna, sono gli anni Settanta. Negli anni successivi, si è inten-sificato il percorso di studi sulla tematica in questione, per poi assuefarsi negliultimi anni, a causa della carenza e della dispersione delle fonti seriali disponi-bili e dalla morte di Luigi De Rosa. Sulla base dei contributi analizzati, Zilliespone il ruolo e le principali caratteristiche del debito pubblico all’internodella realtà economica e sociale meridionale nell’arco di tempo che va dalla sog-gezione del territorio alla Corona spagnola alla proclamazione di indipendenzadello Stato. Inoltre la relatrice, analizza anche la distribuzione del debito pub-blico tra i vari strati sociali del Regno di Napoli.

Maria Cristina Ermice, nel suo lavoro, ci descrive “Le origini del GranLibro del debito pubblico del Regno di Napoli e l’emergere di nuovi gruppisociali”. La relatrice ricostruisce il percorso che, negli anni dal 1806 al 1815,portò alla creazione del debito pubblico consolidato del Regno di Napoli, conla creazione del Gran Libro del debito pubblico.

Il Gran Libro è un registro nel quale venivano segnate tutte le rendite per-petue che spettavano ai creditori dello Stato, i quali possedevano entrate era-riali che furono trasferite allo Stato dal governo napoleonico. Il debito pubbli-co del Regno di Napoli scaturì da un imponente processo di liquidazione, dovei creditori ricevettero delle cedole, caratterizzate da vari titoli di credito verso loStato, contrattabili liberamente sul mercato, che potevano essere impiegate perl’acquisto di una rendita pubblica, iscritta nel Gran Libro, oppure per l’acqui-sto di proprietà demaniali poste in vendita. Il governo napoleonico adottò unapolitica di gestione del debito pubblico simile anche durante il periodo diannessione dello Stato Pontificio all’Impero, come evidenziato dai contributidella Strangio e della Toscano, attraverso la liquidazione dei “luoghi di monte”.Dall’analisi del debito consolidato, effettuata da Ermice, si rilevano le categoriesociali che sottoscrissero questa nuova forma di debito, venendosi ad inaugura-re, così, una prospettiva di indagine allargata al contesto sociale del Regno diNapoli, nei primi anni del Ottocento.

Maria Carmela Schisani scrive una relazione su “Debito pubblico e merca-to finanziario nel Mezzogiorno preunitario: la maison de Rothschild a Napoli(1821-1866)”. La relatrice esamina in particolare, il ruolo svolto, all’internodelle vicende relative al debito pubblico ed al mercato finanziario nel Mezzo-giorno preunitario, da Karl Mayer Rothschild.

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Nel 1821, il governo austriaco inviò a Napoli il banchiere ebreo-tedesco,Karl, per provvedere alle necessità finanziarie dell’esercito della Santa Alleanza,presente sul territorio per restaurare la monarchia borbonica rovesciata daimoti del 1820-21, e gestire le trattative relative al prestito a favore dei Borbone,fissato al congresso di Lubiana. Inizialmente, la permanenza di Karl a Napoli siprospettava di breve durata, ma così non fu, poiché vi rimase fino al 1863 e perdi più riuscì a creare nella città la quinta maison bancaria dei Rothschild (dopoquelle di Francoforte, Londra, Parigi e Vienna). Ben presto Karl Mayer si trovòa svolgere un ruolo di banchiere indipendente dagli austriaci, divenendo il ban-chiere di Corte dei Borbone di Napoli.

Prima che i Borbone si legassero finanziariamente a Karl Rothschild, sullabase dei dettami di Luigi de’Medici, ministro delle finanze della prima restau-razione, lo Stato non poteva dipendere finanziariamente da un unico banchie-re, per cui a contribuire al finanziamento del governo borbonico erano i nego-zianti-banchieri locali (fra cui Meuricoffre e Sorvillo, Appelt, Falconnet, For-quet, il francese Guitard ed i Torlonia di Roma), che stipularono con essodiverse convenzioni. Il debito pubblico risultava, in questo modo, frazionato edi breve periodo.

I quattro prestiti stipulati con la Maison de Rothschild, tra il 1821 ed il1824, trasformarono il debito pubblico borbonico in un debito di lungo perio-do e lo inserirono all’interno del contesto del credito internazionale. Karl, dalcanto suo, conseguì il monopolio del mercato monetario e del mercato del cre-dito del Regno di Napoli e si inserì nella vita sociale del Regno entrando a farparte del corpo dipolomatico.

La complessa e difficile ricerca effettuata da Schisani, si sofferma sulla naturadei prestiti, in quanto chiave di lettura degli avvenimenti che portarono al cam-biamento del rapporto fra Karl Rothschild e lo Stato ed alla sua strutturalizzazio-ne. La presenza di Karl nella vita finanziaria della Corte borbonica contribuì amigliorare le finanze statali ed a dare efficienza al mercato finanziario meridionalegrazie al suo prestigio ed ai legami internazionali, migliorando le prospettive futu-re del mercato. L’influenza positiva dei Rothschild a Napoli si fece sentire, in par-ticolare, intorno agli anni Trenta, con la salita al trono di Ferdinando II e l’iniziodel miglior periodo dal punto di vista economico del regno meridionale.

Rothschild contribuì, dunque, a cambiare gli equilibri del mercato finan-ziario, ma i vantaggi che vi apportò si trasformarono in un’ intensificazione del-l’asfissia e della distorsione oligopolistica del mercato, soprattutto in conse-guenza di un’economia reale ancora scarsamente sviluppata.

Nicola Ostuni sviluppa una relazione dal titolo “Lo strano caso della con-versione del debito pubblico napoletano del 1834”, dove approfondisce levicende che si crearono intorno alla proposta avanzata da Nicola De Pompeo,

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nel 1834, di convertire al 3% la rendita del Gran Libro del debito pubblico diNapoli. Il governo e la maggior parte degli intellettuali napoletani fecero diver-se congetture su questa proposta, chiedendosi, ad esempio, se questa manovrafosse stata giusta nei confronti di quei cittadini che avevano affidato i propririsparmi al governo quando ne aveva avuto bisogno, oppure quanto sarebbestato complicato effettuare il calcolo della somma da restituire a coloro cherifiutavano la conversione della rendita. Ostuni si chiede come sia possibile cheDe Pompeo abbia avanzato una proposta simile e che gli altri non sapesseroche, in realtà, la rendita era già stata convertita ventisei anni prima dal 5 al 3%.Il relatore ci rivela che siamo davanti ad una sorta di allucinazione collettiva oche comunque c’era l’intenzione di creare un’illusione per poter ottenere capi-tali a basso saggio d’interesse.

Dall’unità alla II guerra mondiale

Giuseppe Della Torre presenta una relazione su “Collocamento del debitopubblico e sistema creditizio in Italia, 1861-1914”, nella quale analizza i mecca-nismi finanziari – come la creazione di specifiche istituzioni creditizie, l’emana-zione di norme giuridiche e regolamentari, l’organizzazione tecnica e le pratichegestionali degli intermediari – che furono istituiti per favorire, nella secondametà dell’Ottocento, il collocamento dei titoli pubblici nell’economia, conte-nendo il debito estero ed il ricorso all’emissione dei cartamoneta. Il relatorestudia, nello specifico, le casse di risparmio ordinarie, le casse postali di rispar-mio, la Cassa Depositi e Prestiti e gli istituti di previdenza amministrati da que-st’ultima. La storia della Cassa Depositi e Prestiti (CDP) e delle casse postali dirisparmio (CPR), nell’arco di tempo 1863-1914, subì radicali miglioramenti gra-zie ad atti normativi, regolamentari e tecnico-organizzativi che condussero adun rafforzamento del collocamento interno del debito, in quanto agirono sullaraccolta di risparmio delle casse postali e posero dei vincoli amministrativi sugliimpieghi della CDP a favore del Tesoro. Della Torre ha, poi, esaminato il finan-ziamento della CDP al Tesoro, rilevando che, dal 1863 al 1913, crebbe dall’1 al22%. Anche a proposito dei titoli in possesso delle casse di risparmio ordina-rie, Della Torre evidenzia un aumento rispetto al debito complessivo del Teso-ro, dall’1%, degli anni Settanta dell’Ottocento, al 7%, dei primi anni del Ven-tesimo secolo, grazie alla crescita delle dimensioni dell’intermediazione e dellapropensione delle casse verso i titoli pubblici.

La ricerca è stata effettuata prendendo come punto di riferimento il debitopubblico “istituzionalizzato” del Tesoro, collocato presso casse di risparmioordinarie, le casse postali di risparmio, la Cassa Depositi e Prestiti e gli istitutidi previdenza. Il debito istituzionalizzato – concetto introdotto da Confalonie-

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ri nel 1952 e ripreso successivamente da altri autori – ebbe un ruolo importan-te, soprattutto quello attinente alla CDP.

Dopo una fase iniziale di collocamento del debito prevalentemente all’este-ro, mentre all’interno dello Stato si realizzava un’elevata monetizzazione deldebito tramite gli istituti di emissione ed i biglietti di stato, dagli anni Novantain poi lo sviluppo delle casse di risparmio postali e ordinarie e della CassaDepositi e Prestiti favorì la costruzione, all’interno dello Stato, di canali difinanziamento del debito pubblico, con un’attività di cambiamento della mone-ta scritturale, bancaria e postale, in titoli di pubblici.

Giuseppe Conti scrive una relazione dal titolo “Il pendolo del debito pub-blico tra politica interna e relazioni internazionali (1861-2000)”. Le dimensionie le caratteristiche che il debito pubblico italiano è andato assumendo dallametà degli anni Sessanta del secolo scorso, hanno destato l’attenzione di moltistudiosi (Zamagni, Alesina, De Cecco, Fausto), che, soprattutto dalla metà deglianni Ottanta – quando il debito cominciava ad arrivare a livelli da economia diguerra in tempi di pace – hanno riesaminato il debito pubblico sulla base dialcuni aspetti come la sua sostenibilità e conversione.

Conti, nel suo lavoro, affronta la sostenibilità del debito pubblico dall’U-nità d’Italia ad oggi, prendendo come punto di riferimento lo schema di Pasi-netti-Sylos Labini. La sua analisi procede sulla base di due considerazioni: laprima è che l’andamento del debito pubblico influenza gli equilibri macroeco-nomici e la seconda è che il suo peso può essere riversato, a seconda delle cir-costanze, sulla stabilità “interna” o su quella “esterna” di un paese. SecondoConti, sul debito influiscono motivazioni legate al consenso politico o meglio alconsenso fiscale. L’elevato livello del debito pubblico dipende dalle spese soste-nute dallo Stato, ma dipende anche dal fatto che i governanti – Tesoro, consi-glio dei ministri ed altri organismi – preferiscono sostenere la spesa pubblicafacendo lievitare il debito pubblico piuttosto che innalzando l’imposizionefiscale, la quale influirebbe negativamente sul consenso politico. Questo avvie-ne anche perché l’operato dei governanti è condizionato dal regime politico edistituzionale, dalla banca centrale, dalle parti sociali e da vari organizzazioni dirappresentanza degli interessi. Comunque, le scelte effettuate dai governantisono state, quasi sempre, suffragate da realtà economiche e sociali oggettive opresunte tali e la crescita del debito pubblico ha avuto dei limiti. Questi limitisono stati avvertiti attraverso gli equilibri “esterni” esplicitati dai differenzialinei saggi d’interesse, dall’andamento del cambio e della bilancia dei pagamentie dal credito estero del paese. La pendolarità del debito pubblico tra equilibri“interni” ed “esterni”, riportata da Conti, si riferisce al fatto che il debito ita-liano si muove tra esigenze di raccolta di consenso politico a livello nazionale ecompatibilità economiche e finanziarie imposte dal contesto internazionale, dal

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quale l’economia italiana non ha potuto, quasi mai, sganciarsi. L’aspetto origi-nale del lavoro di Conti sta nel considerare le dinamiche del debito pubblicolegate alla ricerca di recupero e perdita del consenso e della crisi fiscale, laten-te o imminente, nelle relazioni tra Stato e società civile.

Angelo Moioli redige una relazione su “Charles-François Brot e il debitopubblico italiano dopo l’Unità”. Nella seconda metà dell’Ottocento, si è avuto,in Italia, un ventennio di finanza straordinaria che ha portato ad un livello diindebitamento pubblico molto elevato. Un ruolo fondamentale nel processo dicrescita del debito, come evidenziato da molti studiosi – Zamagni, Felloni, DeCecco – è stato ricoperto dagli investitori stranieri, almeno fino all’ introduzio-ne del corso forzoso, del 1866. Il debito pubblico italiano, in quel periodo, erasottoscritto all’estero per 1/3 del totale e la ragione di ciò risiedeva negli altirendimenti offerti dai titoli italiani, tra il 7 e il 9% negli anni Sessanta, rispettoa quelli degli altri stati come l’Inghilterra (il 3% sul debito consolidato). Quin-di, prima dell’Unità d’Italia e maggiormente dopo, si era creato tra gli investi-tori stranieri una sorta di competizione il cui traguardo era “un voyage au paysdu deficit”.

Moioli racconta le vicende legate ad uno dei più rilevanti personaggi diquesto viaggio, Charles-François Brot, noto banchiere di origini svizzere vissu-to in Italia. Brot, all’età di ventiquattro anni, arrivò a Milano ed entrò a farparte della maison bancaria Ulrich & C., partecipando con un capitale di 200mila franchi (che divennero 300 mila). La sua prima esperienza con il debito –cercare prestiti presso le più importanti case bancarie internazionali come Lon-dra, Parigi, dietro garanzie reali – si rivelò un insuccesso, ma gli diede l’oppor-tunità di entrare in contatto con la ristretta cerchia di finanzieri milanesi esoprattutto di conoscere il barone James de Rothschild. Costui, nel 1853, inca-ricò Brot, in qualità di corrispondente della maison de Rothschild, di gestire letrattative relative ad un prestito a favore del governo piemontese. Sempre perconto della Maison de Rothschild, Brot si trovò a far parte, nel 1856, del pro-getto per la costituzione della “Banca Commerciale di Milano per la Lombar-dia”, che, però, non andò a buon fine. Nonostante le sue partecipazioni a pro-getti ed operazioni in vari settori finanziari – Brot, come uomo dei Rothschildamministrava anche le società ferroviarie dell’Alta Italia – non perse mai il suointeresse per gli impieghi nel debito pubblico. Scrisse anche delle importantimemorie con lo scopo di stabilire la quota di debito attribuibile alla Lombar-dia, alla luce della sua annessione al regno, tanto che le sue proposte furonoriprese nel trattato di pace di Zurigo. Per quanto riguarda, invece, il viaggio diBrot nel “pays en deficit” risulta che da solo, o in collaborazione con i Roth-schild, arrivò a sottoscrivere un capitale di debito pubblico, dal 1861 al 1866,pari a 60 milioni. A questo punto, però, per James Rothschild, Brot stava diven-

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tando un personaggio scomodo e bisognava liberarsene. Questo non significò lasua completa uscita dalla Maison de Rothschild, ma solamente la sua estromis-sione dagli affari relativi al debito pubblico del Regno d’Italia. La prima dimo-strazione di ciò fu che, innanzi alla Commissione d’inchiesta parlamentare sulcorso forzoso, Brot assunse una posizione contraria a quella dei Rothschild.

Moioli rileva i tratti salienti di un abile protagonista della storia del debitopubblico dei primi anni del neonato Stato italiano, mettendo in risalto, cosìcome hanno fatto gli altri studiosi intervenuti al convegno, l’influenza avutadagli investitori stranieri nelle vicende del debito pubblico italiano.

Isabella Frescura illustra, nella sua relazione, la nascita e lo sviluppo de “LaCassa Centrale di Risparmio Vittorio Emanuele per le Province Siciliane e l’al-locazione dei risparmi in Sicilia tra Ottocento e Novecento”, sottolineandol’importante ruolo svolto dalla Cassa nel processo di allocazione dei risparmi ininvestimenti di titoli del debito pubblico.

La prima proposta di istituire una cassa di risparmio in Sicilia fu avanzatadal direttore del Dipartimento delle Finanze del Ministero luogotenenziale,Giuseppe Bongiardino, al fine di sostenere la Tesoreria Siciliana nel pagamentodegli interessi sul debito pubblico – aumentato, come negli altri stati italiani, inconseguenza dei moti del 1848 – e non per scopi di filantropia. L’urgenza direperimento di risorse finanziarie non consentì la buona riuscita di questa pro-posta, poiché si preferì negoziare prestiti con la Maison de Rothschild di Napo-li. Alla vigilia della costituzione del Regno d’Italia, il Ministro per gli Affari diSicilia, Giovanni Cassisi, pensò all’istituzione di casse di risparmio come istitu-ti aggregati alle casse di sconto, ma gli eventi del 1860 impedirono al governoborbonico di portare a termine questo progetto. Finalmente, nel 1861, nacque,con scopi previdenziali e moralizzatori, la Cassa Centrale di Risparmio VittorioEmanuele per le Province Siciliane, dotata di un capitale di partenza pari a42.500 lire. Coloro che depositarono i propri risparmi nella Cassa apparteneva-no, grosso modo, a tutte le classi sociali: possidenti, artigiani, ecclesiastici, stu-denti. Le somme depositate venivano investite in acquisizioni di rendite sulGran Libro del Debito pubblico e Buoni del Tesoro. Lo sconto di cambialiebbe inizio nel 1864. I primi anni di operato della Cassa siciliana non furonoincoraggianti a causa di un minore afflusso di risparmi rispetto alle previsioni,data la scarsità dei redditi delle persone meno ricche per le quali la Cassa erastata creata. L’introduzione del corso forzoso, i moti insurrezionali e l’epidemiadi colera influirono negativamente sulla raccolta di risparmi. La situazionemigliorò dal 1871 fino al 1886. Nel 1893, la crisi economico-finanziaria cheportò al crollo di molte banche, incluse le due più importanti casse di risparmiosiciliane, costrinse la Cassa Vittorio Emanuele a svalutare il proprio portafogliotitoli. Agli inizi del Novecento e dopo la prima guerra mondiale, la Cassa sici-

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liana continuò ad investire, soprattutto, in titoli dello stato e Buoni del Tesoro,che nel 1919 ricoprivano il 71% del totale dei suoi impieghi finanziari.

In conclusione, fin dalla sua nascita, la Cassa siciliana investì in titoli deldebito pubblico piuttosto che in prestiti per lo sviluppo dell’agricoltura dell’i-sola. Questa politica di investimenti se, da un lato, tutelò al meglio i depositan-ti e gli amministratori, dall’altro, non fu di grande aiuto allo sviluppo dell’eco-nomia siciliana.

Stefano Baia Curioni ed Angelo Riva affrontano il tema de “La negozia-zione della rendita nelle borse italiane all’epoca giolittiana”, al fine di studia-re gli effetti della diffusione dell’informazione sul comportamento italianodella rendita finanziaria nelle borse di Genova e Milano. La quotazione dellarendita viene comparata, da un lato, a quella di altre tipologie di titoli a red-dito variabile, quotati in contemporanea nelle borse di Genova e Milano e,dall’altro, alla sua evoluzione nella Borsa di Parigi. Le conclusioni a cui giun-gono i due relatori mettono in mostra una specificità della rendita rispettoagli altri titoli e si contrappongono ad alcune previsioni delle teorie economi-che considerate.

Alla luce dell’analisi dei modelli di mercato, si rileva che la riduzione delleasimmetrie informative fra gli operatori del mercato, qualora consentisse dilimitare i problemi legati alla selezione avversa degli operatori, permetterebbeuna più elevata efficienza delle istituzioni borsistiche. La riduzione di problemilegati alla selezione avversa porta alla diminuzione dello spread ed all’aumentodella liquidità del mercato, che genera conseguenze positive sulle funzioni diallocazione delle risorse e di fissazione delle quotazioni. L’informazione giungeagli operatori di mercato attraverso due vie, ossia la rete di telecomunicazionied il sistema di negoziazioni. Il processo di messa in opera di questi due fattoriviene spiegato attraverso gli strumenti della nuova economia politica e l’utilizzodi fonti archivistiche. La rete di telecomunicazioni dà la possibilità agli opera-tori di mercato di procurarsi informazioni sulla condotta degli altri mercati. Lacondivisione di informazioni, a costi e a tempi decrescenti, riducendo le asim-metrie informative, consente l’integrazione dei mercati. L’impatto del progressotecnologico sull’integrazione dei mercati viene analizzato, osservando l’anda-mento dei differenziali relativi nei prezzi quotati, lo stesso giorno, nelle varieborse. Anche l’organizzazione del sistema di negoziazione può permettere aitraders di ottenere informazioni sul comportamento degli operatori di mercatoin cui si trovano, in relazione alla trasparenza del processo di diffusione degliordini e dei prezzi, precedenti e successivi alle transazioni. I relatori esaminanole conseguenze della trasparenza dei sistemi di negoziazione delle borse diMilano, Genova e Parigi sulla liquidità della rendita e degli altri titoli presi inconsiderazione.

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Enrico Camilleri scrive una relazione dal titolo “La Banca Commerciale ita-liana e l’intermediazione finanziaria a Palermo nei primi anni del ’900”. In quelperiodo, la Comit, come altri istituti di credito, sostenne sempre gli istituti diemissione, ed in particolare la Banca d’Italia, nel collocamento di alcuni grandiprestiti pubblici, anche se non effettuò acquisti di notevoli dimensioni. Neiprimi anni di attività, la Comit acquistò una quantità di titoli pubblici piuttostocontenuta rispetto ai totali di bilancio ma pari al 30% del totale delle parteci-pazioni. L’acquisto di titoli pubblici ebbe per la banca da un lato, la funzione diriequilibrare il portafoglio impieghi, soprattutto con l’aumento delle operazionirischiose, come i riporti o le speculazioni sui titoli di borsa, dall’altro, la fun-zione di fornire un’opportunità di guadagno sull’attività di intermediazione,specialmente in periodi di instabilità. Camilleri sottolinea come, in quegli anni,la Comit ebbe un ruolo molto importante, a Palermo, nel collocamento e nelladistribuzione dei titoli del debito pubblico di enti locali o di istituti, come iconsorzi di bonifica. Questi titoli venivano considerati di prima categoria, siaper la redditività che per la rischiosità. Fin dal 1904, le obbligazioni del Comu-ne e della Provincia di Palermo erano nel portafoglio titoli della banca e frutta-rono buoni rendimenti.

Giuseppe Mastromatteo, nella sua relazione, descrive “Il classamento deldebito pubblico: una interpretazione del periodo tra le due guerre alla lucedelle relazioni con le politiche economiche e monetarie italiane”. Il relatoresostiene che il classamento dei titoli pubblici, presso le istituzioni creditizie, èun’importante chiave d’indagine, sia dal punto di vista delle scelte delle politi-che del debito pubblico, effettuate in Italia, che, più in generale, delle scelte dipolitica economica e monetaria. La collocazione del debito fluttuante e dei tito-li del debito di natura patrimoniale presso le istituzioni pubbliche o creditizie,ha sempre dato al Tesoro una maggiore sicurezza. Negli anni, si formò un “cir-cuito del Tesoro” costituito dalla Cassa Depositi e Prestiti, dagli altri istituti diprevidenza amministrati dalla CDP e dagli istituti di previdenza e dalle assicu-razioni. Ciò nonostante, non sempre i rapporti fra Stato ed intermediari credi-tori sono stati lineari e costanti nel tempo. Infatti, Mastromatteo mette in evi-denza l’evoluzione degli esiti positivi e negativi della gestione del debito pub-blico e della politica monetaria nell’ottica dei rapporti con il sistema di inter-mediazione che garantiva la collocazione dei titoli. Quest’indagine avviene sullosfondo del regime fascista, che, con le sue direttive ideologiche, condizionòpesantemente il rapporto fra scelte di politica di gestione del debito pubblico,ma anche quelle economiche e monetarie, e l’operato degli intermediari chespesso dovettero sottoscrivere titoli o fare scelte di portafoglio obbligate. Lediverse fasi di questo rapporto vengono analizzato in tre parti: nella prima vienetrattato il finanziamento estero della prima guerra mondiale e delle negoziazio-

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ni di Volpi con gli Usa e la Gran Bretagna, nel 1926; nella seconda si esaminala tendenza, dal 1926 al 1936, ad indirizzare la collocazione dei titoli pubblicipresso la CDP e gli altri istituti previdenziali; nella terza vengono raccontate ledifficoltà di gestione del circuito monetario a causa dell’espansione coloniale edel finanziamento delle guerre, dal 1936 al 1943. Mastromatteo si interrogaanche su quanto la dipendenza delle scelte di politica di gestione del debitopubblico e degli indirizzi monetari dalle scelte politiche del regime fasciataabbia influito negativamente, in termini di efficienza, sui vari obiettivi che ilgoverno si prefiggeva.

La seconda metà del ’900

Francesco Balletta, nel suo lavoro, espone le dinamiche relative a “Merca-to finanziario, istituzioni e debito pubblico in Italia nella seconda metà delNovecento”. Balletta sottolinea il legame che c’è stato, negli ultimi cin-quant’anni del Ventesimo secolo, fra la gestione del debito pubblico e l’anda-mento del mercato azionario in Italia, mettendo in evidenza come istituzioni,quali il Tesoro e la Banca d’Italia, hanno preferito puntare sullo sviluppo delmercato dei titoli pubblici rispetto a quello dei titoli azionari, contribuendo adingessare il mercato azionario italiano.

Il relatore definisce le caratteristiche del mercato finanziario italiano, allaluce dei periodi di efficienza ed inefficienza che l’hanno riguardato negli anni.Un mercato può essere ritenuto efficiente quando al suo interno si scambianogli stessi prodotti o comunque prodotti simili; mentre un mercato è stabilequanto è più ampio e globale possibile. Il mercato dei titoli pubblici è efficien-te quando i titoli a lungo termine prevalgono su quelli a breve e di conseguen-za i saggi d’interesse dei primi sono superiori a quelli dei secondi, per invoglia-re i risparmiatori ad investire in titoli a lungo termine. Le emissioni dovrebbe-ro tener conto delle caratteristiche del mercato ed i titoli dovrebbero essere col-locati, prevalentemente, fra i risparmiatori privati. Infine, il mercato dei titolipubblici dovrebbe essere libero dai condizionamenti della Banca d’Italia e dellealtre banche. Si può parlare di mercato azionario efficiente, invece, quando c’èun’ampia disponibilità di azioni ed il mercato è ampio (non come quello italia-no frazionato in 10 borse), quando le operazioni di borsa non vengono tassatee quando esiste un efficace controllo pubblico che impedisce le operazioni spe-culative.

Nel periodo 1945-1970, il mercato dei titoli pubblici fu efficiente, in quan-to il governo perseguì, sostanzialmente, una politica di equilibrio del bilanciodello Stato e furono emessi maggiormente titoli a lungo termine, acquistati,soprattutto, dall’economia (privati, famiglie ed imprese). Conseguentemente,

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anche il mercato azionario fu efficiente, grazie alla crescita economica, alladistribuzione di alti dividendi ed alla rimozione di alcuni intralci alle contratta-zioni di borsa.

Dal 1971 al 1991, la crisi che attraversò l’economia e l’aumento del debitopubblico (per la crescita della spesa pubblica corrente per pensioni e sanità)concorsero a rendere il mercato dei titoli pubblici inefficiente. A ciò si aggiun-sero la prevalenza di emissioni di titoli pubblici a breve termine e con più altisaggi d’interesse rispetto ai titoli a lungo termine, gli acquisti di titoli effettuatiin prevalenza dalle banche ed il “matrimonio” fra il Tesoro e la Banca d’Italia,dove quest’ultima fu obbligata, dal 1976, ad acquistare i titoli rimasti invendu-ti sul mercato. Anche il mercato azionario fu inefficiente, poco trasparente esottoposto alla volatilità delle azioni a causa della crisi economica, della man-canza di un controllo efficace sulle operazioni speculative e della concorrenzadei titoli pubblici a breve termine.

Nel periodo dal 1992-2000, il mercato dei titoli pubblici si è avviato, nuo-vamente, verso una situazione di efficienza, in seguito al “divorzio” tra il Teso-ro e la Banca d’Italia, che ha posto fine all’obbligo per la banca centrale diacquistare i titoli che il Tesoro non riusciva a collocare sul mercato, ed all’ade-sione italiana agli accordi di Maastricht, che hanno imposto ai governanti lariduzione del disavanzo del bilancio statale e del debito pubblico (che, però,tuttora resta troppo elevato). I governatori della Banca d’Italia, Ciampi e Fazio,hanno effettuato interventi importanti al fine di rendere il mercato dei titolipubblici più efficiente. Sono stati emessi più titoli a lungo termine (BTP) emeno titoli a breve termine (BOT), capovolgendo la situazione degli anni Set-tanta ed Ottanta, i saggi d’interesse dei titoli a lungo termine sono stati resi piùelevati rispetto a quelli dei titoli a breve termine, dei depositi bancari e delrisparmio postale.

Fra il 1996 ed il 2000, sono stati compiuti interventi significativi ancheall’interno del processo di riassetto del mercato azionario, che ne hanno aumen-tato la liquidità e la trasparenza delle transazioni. Hanno influito positivamentesulla ripresa dell’efficienza del mercato azionario anche l’integrazione tra lepiazze azionarie europee, conseguente all’avvio del processo di unificazionedella moneta europea e l’allungamento della vita media dei titoli pubblici.

Domenicoantonio Fausto, nella sua relazione, illustra “Il debito pubblicodell’Italia repubblicana”. Il relatore compie una rassegna sulle modalità dicopertura dell’indebitamento dello Stato, poi si sofferma su come il problemadel debito pubblico è stato affrontato dalla Banca d’Italia, mettendo in eviden-za il pensiero dei governatori della banca centrale attraverso l’analisi delle rela-zioni annuali. Fausto individua tre periodi di finanziamento del debito pubbli-co, dove si alterna l’utilizzo di strumenti a breve ed a lungo termine. Nel perio-

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do 1953-1996, inizialmente, in presenza di un sostanziale equilibrio della finan-za pubblica, il fabbisogno statale è stato coperto con il ricorso a titoli a lungotermine (BTP); successivamente, in una fase di grossa instabilità economica e diforte inflazione, lo Stato è ricorso a titoli a breve termine (BOT), anche perchéi risparmiatori, in periodi di inflazione, tendono a sottoscrivere titoli a breve ameno che non ci siano saggi d’interesse elevati sui titoli a lungo termine; infine,tornata la stabilità, è stato nuovamente utilizzato l’indebitamento a lungo ter-mine.

Il primo governatore dell’istituto di emissione dell’Italia repubblicana fuLuigi Einaudi, il quale entrò in carica nel 1945 e si dimise nel 1947, quando funominato ministro del Bilancio del governo De Gasperi. Einaudi, nella suaprima relazione del 1946, definì la buona riuscita del prestito Soleri “un plebi-scito dei risparmiatori a favore dell’Italia risorta” e manifestò piena fiducia nellafutura collocazione del prestito della Ricostruzione fra i risparmiatori italiani.Fausto definisce Einaudi un prekeynesiano, in quanto per costui era indifferen-te se a finanziare il bilancio dello Stato fossero le imposte dirette o indirettementre per i keynesiani c’era una profonda differenza nell’impatto sul pubblicodelle due tipologie di imposte. Successore di Einaudi fu Menichella che rimasegovernatore fino al 1960. Nella relazione del 1954, Menichella rivelò una visio-ne positiva dell’intervento dello Stato nell’economia, sostenendo che se l’Italia,in quegli anni, stava vivendo un’importante fase di sviluppo economico eramerito dello Stato, che eliminava gli ostacoli al processo di sviluppo. Pertanto,fattori come l’aumento del disavanzo pubblico o del deficit della bilancia deipagamenti erano gli effetti negativi che bisognava pagare se si voleva uno svi-luppo economico. Nelle relazioni dal 1955 al 1960, sullo sfondo di un mutatocontesto internazionale, Menichella assunse una posizione più cauta ed ortodos-sa, ritenendo più importante portare il bilancio pubblico in pareggio, allinean-dosi alla visione dei governanti italiani che, per tutti gli anni Cinquanta, ebberocome obiettivo l’equilibrio del bilancio pubblico. Dal 1960 al 1975, fu governa-tore Guido Carli, che mise in pratica, nel 1963, la stretta creditizia per frenarel’inflazione, visto che i governanti italiani tardavano ad agire per arginare il pro-blema. Secondo Fausto, Carli è un perfetto keynesiano, perché, per esempio,nelle sue relazioni del 1967 e del 1972, accusò il governo prima di aver effet-tuato, a torto, una politica di contenimento della domanda interna, ottenendoscarsi risultati dal punto di vista del reddito e dell’occupazione, poi di non averattuato una maggiore spesa pubblica in presenza di elevate risorse monetarie.Con Baffi come governatore della Banca d’Italia, dal 1975 al 1979, la bancacentrale sottolineò che si era in presenza di un problema di capacità di crescitaeconomica e di un eccessivo ricorso al risparmio privato. Ciampi, governatoredella Banca d’Italia fino al 1993, assunse, nelle sue relazioni, una pozione deci-samente antikeynesiana. I suoi discorsi si ispirarono alla stabilità ed alla neces-

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sità di ridurre il disavanzo del bilancio pubblico. Con il governatorato di Fazio,concluso nel 2005, abbiamo assistito, grazie all’adesione dell’Italia a Maastricht,alla riduzione del disavanzo del bilancio dello Stato e dell’onere del debito pub-blico.

Salvatore La Francesca relaziona su “Sistema bancario e mercato obbliga-zionario in Italia nella seconda metà del Novecento”. Negli anni Cinquanta, l’e-quilibrio dell’attività bancaria e del sistema finanziario permise l’afflusso sicuroe costante di risparmio verso il settore privato. Le richieste di credito venivanosoddisfatte dagli istituti di credito ordinario, ma anche dagli istituti di creditospeciale, che, negli anni, occuparono un ruolo importante sul mercato obbliga-zionario per il finanziamento delle imprese, assieme al rafforzamento del capi-tale d’impresa ed all’autofinanziamento. Negli anni Sessanta, i finanziamentidegli istituti di credito speciale e delle sezioni speciali degli istituti di credito didiritto pubblico diventarono maggiori degli aumenti di capitali e delle emissio-ni di obbligazioni delle imprese. Ciò sta a significare che il sistema creditiziopartecipò in maniera impropria ai processi di industrializzazione con la conse-guenza che, alla fine degli anni Sessanta, ci fu un ulteriore sviluppo del merca-to obbligazionario con l’inizio della “doppia intermediazione” bancaria. Ilgoverno accentuò la politica di sostegno dei titoli pubblici, ma l’aumento deisaggi d’interesse comportò, nel 1969, un calo delle quotazioni e la riduzionedella domanda di titoli da parte del pubblico. Negli anni Ottanta, nacquero ipresupposti per la creazione di nuovi mercati finanziari. Si verificarono cam-biamenti nei volumi, nella composizione e nella tipologia delle attività finanzia-rie ed al contempo nel mercato finanziario, che fu caratterizzato da grandidimensioni e da varie forme di indicizzazione. Negli anni Novanta, cambiò ilruolo degli intermediari finanziari (anche se ancora appartenenti al ramo ban-cario) ed il risparmio fu orientato verso le società di gestione del risparmio, perlo più di origine bancaria, e quindi, direttamente o indirettamente indirizzatoverso forme di titolarizzazione globalizzata.

Alla luce di questi cambiamenti, La Francesca sostiene la necessità diaumentare la tutela del risparmio in ogni sua destinazione.

Pietro Cafaro presenta una relazione su “Medio Credito Lombardo, mer-cato finanziario e debito pubblico (1954-1990)”. Egli sostiene che, in Italia, esi-sta un sistema economico “bancocentrico” anomalo, a causa della mancanza diuna banca universale e della presenza di un sistema specializzato rigido conse-guente alla legge bancaria del 1936. Ciò non significa che un sistema banco-centrico anomalo sia meno efficiente degli altri, almeno in alcune fasi della suastoria, se inquadrato nell’ottica del Medio Credito Lombardo, al contrario essoè stato efficiente. Il Medio Credito Lombardo forniva finanziamenti alle picco-

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le e medie imprese (PMI) della Lombardia, le quali, assieme alle altre PMI ita-liane, non potevano accedere al mercato e, quindi, potevano solo autofinanziar-si o ricevere finanziamenti dagli istituti di credito speciale. Tra i fornitori difondi alle PMI c’erano i risparmiatori, i medio crediti, le banche partecipanti alMedio Credito Lombardo e lo Stato, che agiva attraverso il Medio Credito Cen-trale, ente finanziatore dei mediocrediti regionali. Questi ultimi utilizzavano,principalmente, la pratica finanziaria della doppia intermediazione, che Cafarodefinisce interna al sistema dei mediocrediti ed alle banche partecipanti. Si trat-tava di una modalità di azione che rendeva il sistema di finanziamento più effi-ciente, perché le banche sostenevano costi più limitati in quanto il Medio Cre-dito Regionale si occupava sia di vagliare i fidi che i piani industriali, ed agen-do sul territorio riusciva anche a superare le asimmetrie informative. Alla dop-pia intermediazione si aggiunsero anche l’intervento diretto ed indiretto delloStato tramite le agevolazioni fiscali e, con la legge Colombo del 1959, l’inter-vento del Medio Credito Centrale.

Cafaro ricostruisce la storia del Medio Credito Lombardo. Negli anni chevanno dal 1954 al 1959, prevalse la pratica della doppia intermediazione realiz-zata attraverso l’apertura al credito o la sottoscrizione delle obbligazioni delMedio Credito Lombardo da parte della maggiore banca partecipante, la Cari-plo. In questo periodo, furono poche le agevolazioni mediate dall’istituto. Nelperiodo 1959-1970, si assistette ad un rapido passaggio da una cospicua pre-senza di agevolazioni ad un ritiro delle agevolazioni statali, dovuto ad un cam-biamento nella programmazione dello Stato che dirottò i finanziamento verso leindustrie del Mezzogiorno – negando un appoggio finanziario alle PMI delNord che proprio in quegli anni stavano cercando di introdursi nei mercatiinternazionali soprattutto quelli dell’est europeo – dando origine ad una “que-stione settentrionale”. Si fece ricorso, quindi, alla doppia intermediazione.Negli anni ’70, in seguito ad una più alta remunerazione dei titoli a breverispetto a quelli a lungo termine, insieme ai vincoli di portafoglio, subentrò l’in-termediazione esterna, per cui anche le banche esterne al Medio Credito Lom-bardo ed agli altri medio crediti regionali furono costrette a comprarne le ob-bligazioni. Negli anni ’80, pian piano che i vincoli di portafoglio per le bancheandarono a scemare, il Medio Credito Lombardo emise certificati di depositoda collocare tra i risparmiatori, inserendosi, così, anch’esso nel processo di rin-novamento del mercato finanziario italiano.

Silvana Cassar e Salvo Creaco analizzano “Il debito pubblico locale dallacaduta del fascismo alla riforma tributaria”. Con l’Unità d’Italia fu adottato unsistema istituzionale e finanziario accentrato sulla base di motivazioni sia finan-ziarie, relative alle difficoltà attraversate dal bilancio statale, sia politiche, inquanto bisognava creare una nazione stabile ed unita. Fra i provvedimenti adot-

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tati in materia di finanza locale, tra il 1861 ed il 1865, il più rappresentativodella scelta accentratrice fu la legge 2248/1865, che introdusse la prima norma-tiva comunale e provinciale dello Stato italiano. Nonostante il sistema finanzia-rio derivante da questa legge fosse stato definito lineare sotto molti profili avevain se molte imperfezioni, che si riversarono sulla finanza locale, sulla quale ven-nero scaricati diversi oneri legati alle esigenze di porre rimedio al costante dis-sesto della finanza nazionale. I costi più alti di questo sistema tributario veniva-no sostenuti dai comuni più piccoli, che si trovavano ad affrontare le stessetipologie di spese di quelli più ricchi. Negli anni, furono avanzate molte propo-ste di modifica in materia di finanza comunale e provinciale e furono approva-te leggi che, però, non risolsero i problemi legati alla gestione finanziaria loca-le. Gli interventi legislativi attuati, durante il periodo fascista, non fecero cherafforzare il potere del governo centrale, provocando un peggioramento dellasituazione finanziaria degli enti locali.

Nel secondo dopoguerra, l’Assemblea Costituente nominò una Commis-sione di esperti col compito di analizzare i problemi relativi alla finanza locale.La Commissione, dopo aver rilevato la presenza di numerose lacune nel sistemadi finanza locale – come l’eccessiva uniformità e rigidità delle norme, la presen-za di una molteplicità di tributi non coordinati tra loro –, formulò alcune con-siderazione sulle principali misure da adottare per risolvere il dissesto finanzia-rio degli enti locali. Tuttavia, i suggerimenti avanzati dalla Commissione nonfurono tenuti in considerazione. I provvedimenti legislativi sulla finanza localeebbero una natura provvisoria, disorganica e frammentaria. La mancanza diuna modifica dell’ordinamento finanziario-organizzativo degli enti localiaggravò la loro situazione di disagio, causando, nel corso degli anni, la crescitadei disavanzi di bilancio affiancati dall’impoverimento delle risorse. Le spesedegli enti locali crebbero, soprattutto, per l’effetto dell’incremento delle spesestatali dagli anni Sessanta in poi, con l’adozione, da parte del governo, di unapolitica di stampo keynesiano. Lo stato impose agli enti locali molti oneri, comequelli legati al malfunzionamento della Cassa Depositi e Prestiti, senza contem-plarne la copertura finanziaria.

Alessandro Missale esamina “La gestione del debito pubblico dal dopo-guerra ad oggi”, rilevando che fu caratterizzata, nel corso degli anni, da unalternarsi di scelte tra politiche atte a creare un mercato dei titoli o ad evitarlo,oppure atte a favorire il mercato o a batterlo. Dopo un lungo e difficile proces-so, rispetto agli altri paesi, in Italia, la politica di gestione del debito pubblico afavore del mercato ha prevalso sull’altra.

Negli anni Settanta, la politica di gestione del debito pubblico agì nelladirezione di evitare il mercato puntando maggiormente ai finanziamenti dellaBanca d’Italia, che, nel 1976 possedeva il 55% dei titoli di Stato. Nel 1977, il

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finanziamento della Banca d’Italia si ridusse ed i titoli vennero collocati mag-giormente presso le famiglie e le banche, ma il mercato dei titoli era inefficien-te a causa della prevalenza di titoli a breve e medio termine (BOT e CCT) suquelli a lungo termine e l’ipotesi di creazione di un mercato secondario si allon-tanava sempre più.

Negli anni Ottanta, non ci fu la creazione di un mercato secondario per ladifficoltà di emettere titoli a tasso fisso ed a lunga scadenza a causa della scarsacredibilità della politica monetaria. Il Tesoro, in seguito al “divorzio” con laBanca d’Italia, che ridusse i suoi acquisti di titoli pubblici, si vide costretto adaumentare i saggi d’interesse sui titoli e ad emettere CCT a tasso variabile perottenere maggiori finanziamenti da parte della banche e soprattutto delle fami-glie, ma anche per allungare la vita media del debito. L’aumento della quota didebito in possesso alle famiglie (dal 28% nel 1879 al 55% nel 1989) rappre-sentava per il Tesoro una fonte stabile e continua di finanziamento; ma allo stes-so tempo, il debito pubblico cominciava a crescere notevolmente. Alla finedegli anni Ottanta, la gestione del debito pubblico si indirizzò verso una politi-ca di apertura al mercato. Nel 1988, venne istituito il Mercato Telematico deititoli di Stato per migliorare il mercato secondario.

Dal 1993 al 1998, ci fu una prevalenza della politica di gestione del debitotendente a favorire il mercato, ma permanevano pesanti pressioni per un usostrategico del debito con lo scopo di battere il mercato. Le pressioni che deri-vavano, da un lato, dalle autorità fiscali per il debito a breve termine ed in valu-ta, dall’altro, dalla Banca d’Italia per segnalare la politica monetaria, vennerorespinte dai gestori del debito pubblico, ma questi scoprirono gli strumentiderivati che permisero la divisione tra la gestione della liquidità e quella delrischio. Nel 1994, venne attuata la riforma del mercato secondario e venne per-seguito l’obiettivo dell’allungamento della vita media dei titoli pubblici, congrandi emissioni di BTP, la cui quota, nel 1998, era del 43% del debito com-plessivo. Dal 1999 ad oggi, l’Italia, sulla scia della diminuzione dei saggi d’inte-resse e delle proporzioni del debito che ne hanno aumentato la liquidità, haadottato, definitivamente, una politica del debito a favore del mercato. Attual-mente la struttura del debito pubblico italiano è simile a quella di altri paesi,con una predominanza di titoli a lungo termine (60 %) e la prevalenza di sot-toscrittori stranieri.

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III. Centro Interuniversitario di Ricerca per la Storia FinanziariaItaliana (CIRSFI)

Relazione sull’attività nel 2005

Quarto esercizio (gennaio 2005/dicembre 2005)

Nel corso del quarto esercizio, come da Statuto, si è proceduto al rinnovo delConsiglio scientifico e della carica di Direttore per il triennio 2005-2008. Ad ecce-zione dell’unità di ricerca costituita presso l’Università degli Studi di Genova che,a causa del pensionamento del prof. Giuseppe Felloni, ha nominato suo responsa-bile scientifico il prof. Marco Doria, le altre unità di ricerca hanno riconfermato iprecedenti responsabili. Il nuovo Consiglio – composto dal Prof. Francesco Bal-letta, dal Prof. Giuseppe Bracco, dal Prof. Giuseppe Conti, dal Prof. AlbertoCova, dal Prof. Ennio De Simone, dal Prof. Marco Doria, dal Prof. Giulio Feni-cia, dal Prof. Vincenzo Giura, dal Prof. Salvatore La Francesca, dal Prof. AndreaLeonardi, dal Prof. Angelo Moioli, dal Prof. Paolo Pecorari, dal Prof. Fausto PiolaCaselli, dal Prof. Mario Rizzo, dal Prof. Gaetano Sabatini, e dal Prof. EnricoStumpo – ha a sua volta riconfermato, all’unanimità, direttore del Centro il Prof.Angelo Moioli, responsabile dell’Unità di ricerca presso il Dipartimento di Storiadella società e delle istituzioni, che ha designato come nuovo segretario il prof.Giuseppe De Luca, che già ricopriva questa funzione.

Durante il 2005 il Consiglio Scientifico ha approvato l’adesione a titolo perso-nale del prof. Carlo Travaglini dell’Università Roma 3 all’unità di ricerca costituitapresso il Dipartimento di Storia della società e delle istituzioni dell’Università deglistudi di Milano.

Alla chiusura del presente esercizio, mentre è ancora in corso la ratificadell’adesione dell’unità di ricerca formatasi presso il Dipartimento di Economiae storia del territorio dell’Università degli Studi di Chieti-Pescara, che avevadesignato come responsabile il prematuramente scomparso prof. MassimoCostantini, il Cirsfi risulta effettivamente composto di 16 unità di ricerca, ripar-tite fra 15 atenei, per un totale di 73 studiosi.

Anche quest’anno, tre sono state le linee principali attraverso cui il Centroha perseguito i propri obiettivi istituzionali.

La prima – intesa alla promozione e alla diffusione delle informazioni edegli strumenti di supporto alla ricerca – si è estrinsecata attraverso il migliora-mento e l’aggiornamento del sito Web, che ha acquisito un dominio diretto

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(www.cirsfi.it), affittato presso un provider privato. Il lavoro di inserimento dinuovi titoli nella Bibliografia di storia della finanza on line è stato condotto conregolarità e la banca dati conta ora oltre 7.500 riferimenti.

La “Rivista di storia finanziaria” – che è pubblicata dall’Unità di ricerca di Na-poli (Dipartimento di Analisi) e che, nella sua versione on line (www.delpt.unina.it-/stof/index.html), costituisce uno dei links principali del sito – ha editato i numeri 14e 15, ospitando alcune delle relazioni presentate al seminario Cirsfi di Cassino del-l’anno passato, già dedicato – come pure quello di quest’anno - al confronto e alladiscussione su temi del debito pubblico e della formazione dei mercati finanziari inItalia. In particolare nel numero 15 sono state pubblicate quelle di F. Colzi, Mercatofinanziario e debito pubblico a Roma in età moderna, di R. Artoni, Note sul debito pub-blico italiano dal 1885 al 2001, di D. Fausto Lineamenti dell’evoluzione del debito pub-blico in Italia (1861-1961), e gli interventi alla tavola rotonda conclusiva di F. Balletta,Modelli di interazione fra debito pubblico e mercati finanziari , di F. Piola Caselli, Notesul debito pubblico nello Stato Pontificio (secoli XVI-XVIII), e di G. Di Taranto, Finan-ze e debito pubblico in Italia tra età moderna e con-temporanea.

Nella seconda direzione – finalizzata a promuovere il dibattito scientifico –il Cirsfi ha organizzato nelle giornate del 7 e 8 ottobre 2005 il consueto semi-nario annuale, finalizzato quest’anno alla preparazione dell’omonimo Convegnointernazionale dedicato a Debito pubblico e formazione dei mercati finanziari inItalia fra età moderna e contemporanea, programmato per il 25-27 maggio 2006,presso la Fondazione Famiglia Legler di Brembate di Sopra (BG), come reso-conto di un progetto PRIN 2003 che ha visto coinvolti colleghi delle universitàdegli studi di Milano, Venezia, Pisa, Cassino e Palermo. I risultati di questocongresso verranno poi presentati nella Session 112 - Government Debts andFinancial Markets in Europe, 16th-20th Centuries - dell’IEHC di Helsinki, 21-25 Agosto 2006, di cui lo stesso Cirsfi è stato promotore.

L’incontro, ospitato presso l’usuale sede della Facoltà di Economiadell’Università degli Studi di Cassino, è stato aperto dal prof. Antonio Di Vittorio,presidente della Società Italiana degli Storici dell’Economia, che ha testimoniato ilpatrocinio della SISE e ha presentato il volume di Maria Cristina Ermice sulle Ori-gini del gran libro del Debito pubblico del Regno di Napoli e l’emergere di nuovigruppi sociali. Sotto la presidenza del prof. Di Vittorio, Giuseppe De Luca ha pre-sentato le direzioni di ricerca dell’unità milanese: la prima su Debito pubblico, mer-cato finanziario e cicli economici nello Stato di Milano fra età spagnola e dominazio-ne francese, la seconda centrata sull’analisi delle reti di credito fra Svizzera e Lom-bardia a ridosso dell’Unità, attraverso la ricostruzione della traiettoria professiona-le del ginevrino Charles-François Brot. Lungo la prima direzione De Luca hamesso in messo in evidenza l’interesse nell’utilizzo di una fonte quale quella deirogiti camerali (conservati presso l’Archivio di stato di Milano) che ha consentito

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di ricostruire le alienazioni delle entrate dello stato milanese, permettendo nonsolo di cogliere la consistenza e l’andamento del debito pubblico della Lombardiaspagnola, ma di investigarne anche la circolazione e il collegamento positivo conl’economia reale. Per quanto attiene alla seconda linea di ricerca, l’accento è statoposto sulla funzione del grande finanziere e banchiere ginevrino Brot nella defini-zione e strutturazione di un sistema finanziario locale, caratterizzato da un retico-lo informale particolarmente resiliente rispetto alle necessità e alle congiunturedell’economia lombarda durante i decenni centrali del XIX secolo.

Per il gruppo di ricerca di Cassino, Fausto Piola Caselli ha presentato l’Evo-luzione del debito pubblico dello Stato pontificio e gettito delle dogane di Roma neisecoli XVII-XVIII, ricostruendo il panorama generale sul lungo periodo con parti-colare attenzione all’entità reale del debito, all’entità dei rimborsi (che segnala unmomento di floridezza delle casse dello Stato), agli scopi delle emissioni, all’anda-mento dei tassi reali di interesse, che hanno una evoluzione molto complessa, edalle procedure, alle tecniche che fanno riferimento alla normativa giuridica dellacircolazione dei titoli del reddito pubblico. Piola Caselli ha puntato quindi sulmodo in cui si finanzia, almeno in parte, il debito pubblico dello Stato della Chie-sa, coprendo un amplissimo lasso di tempo che va dagli anni del 1220 circa finoall’inizio dell’Ottocento.

Maria Carmela Schisani, dell’unità di Napoli, ha invece mostrato l’importan-za del Mercato finanziario, istituzioni e debito pubblico nel Mezzogiorno preunitarioattraverso i prestiti Rothschild stipulati tra il 1821 e il 1824, all’indomani del noni-mestre costituzionale che aveva portato a Napoli l’esercito austriaco per la restau-razione del potere assoluto dei Borbone. L’attenzione della Schisani si è soprattut-to concentrata sulla ricostruzione dell’attività di Karl Mayer (1788-1855) a Napo-li, il fratello “meno studiato” della famiglia, a partire proprio dal 1821, data delprimo prestito ai Borbone che, stipulato su pressioni di Metternich e a totalerischio dei Rotschild, ha di fatto vincolato lo Stato meridionale ad un patto di pre-lazione sui nuovi prestiti. Investigare l’attività di un personaggio come Karl Mayer,definito dalla Schisani “banchiere della corona”, ha permesso di cogliere variaspetti e sfaccettature del mercato finanziario napoletano.

Spunti molto interessanti ha presentato anche la proposta che GiuseppeConti e Carlo Brambilla hanno illustrato per l’unità di ricerca di Pisa. Nella rela-zione Rischio paese, debiti privati e pubblici ed architetture finanziarie in alcune eco-nomie industriali tra XIX e XX secolo hanno individuato gli stimoli per investigareil rischio di chi investiva dall’estero in Italia e viceversa. L’interesse degli studiosi siè rivolto alla valutazione della misura del rischio, espresso come rapporto diffe-renziale dei tassi di interesse rispetto quelli prevalenti sui mercati esteri, così daincidere sulla difficoltà di darsi un’organizzazione creditizia, e spronare a darsi unavalida organizzazione per muovere il risparmio verso le attività produttive. L’o-biettivo è in sostanza quello di analizzare il rapporto tra l’andamento dell’econo-

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mia reale e quello dell’economia finanziaria, e soprattutto come si costruivanodelle istituzioni in grado di intervenire sulla riduzione dell’apprezzamento delrischio. Giuseppe Della Torre, che fa parte della medesima unità, si è concentratoinvece su Debito pubblico, mercato finanziario e intermediari creditizi in Italia(1820-1914), evidenziando il rapporto tra il debito pubblico italiano e lo sviluppodel sistema creditizio fra l’unificazione e la prima guerra mondiale. Punto nodaledella sua ricerca quello di “approfondire gli interventi normativi ed istituzionaliche le autorità di politica economica hanno posto in essere per costruire il circui-to interno di finanziamento in grado di passare da un debito collocato prevalente-mente all’estero ad uno collocato prevalentemente in Italia”.

L’intervento di Salvatore La Francesca, dell’unità di Palermo, ha interessa-to il Sistema bancario e allocazione del risparmio in Italia nella seconda metà del‘900. Lo studioso ha però inteso sottolineare alcuni aspetti specifici del sistemabancario considerando la banca prevalentemente come mercato obbligaziona-rio, e sviluppando precipuamente l’aspetto della formazione e determinazionedei flussi di risparmio, soprattutto per gli anni ’70 e ’80 del Novecento. La lineache La Francesca ha privilegiato è stata quella della formazione del risparmio inrelazione alle dimensioni delle banche, ai mercati di riferimento, alle dimensio-ni delle aziende sovvenzionate ed ai settori di destinazione. Enrico Camilleri,della stessa unità, ha invece posto al centro del suo lavoro La Banca commercia-le italiana a Palermo nei primi anni del ’900, puntando ad individuare le moda-lità con cui il finanziamento dello sviluppo economico degli inizi del Novecen-to abbia funzionato in Italia e nel meridione, analizzando nello specifico il casodella Sicilia. Partendo dall’esperienza della sede della Banca Commerciale diPalermo il ricercatore ha focalizzato la sua attenzione su di una precisa docu-mentazione quale quella delle relazioni ai bilanci dei Consigli di Amministra-zione e degli inventari della filiale palermitana. Le conclusioni giungono a valo-rizzare la funzione surrogatoria della banca rispetto al mercato finanziario.

Francesco Balletta, dell’unità di ricerca di Napoli, ha completato le relazionidei partecipanti al progetto PRIN con un intervento intitolato Mercato finanziario,istituzioni e debito pubblico in Italia nella seconda metà del ‘900. Il relatore parten-do dall’assunto che la Banca d’Italia e il sistema bancario abbiano creato un mer-cato finanziario di fatto bloccato, dopo aver chiarito che intende riferirsi al debitopubblico nella sua accezione di lungo termine e aver sostenuto la necessità che ildebito sia collocato sul mercato (riconoscendo alle banche la sola funzione di faci-litare l’intermediazione sia nel mercato azionario che in quello dei titoli pubblici),delinea l’importanza della funzione di un personaggio come Marcello Soleri, “ilprimo ad essersi cimentato nel debito pubblico”, il primo che nel 1945 volle ildebito pubblico, ovvero il prestito. Balletta attraverso il rapporto di Soleri con laBanca d’Italia e con il supporto di un consistente apparato di dati ripercorre le fasisalienti del mercato finanziario dal primo dopoguerra fino agli anni novanta del

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secolo scorso. Le conclusioni presentate da Balletta individuano un miglioramen-to dell’indebitamento solo con il 1981, quando si realizza il cosiddetto divorzio traBanca d’Italia e Tesoro, per arrivare al 1993 quando ha termine anche l’obbligodel Tesoro di tenere il conto corrente con la banca centrale.

La giornata di studio è terminata con l’intervento di Gianni Toniolo che hatratto delle considerazioni conclusive su questa sessione, evidenziando la neces-sità di perseguire un carattere di omogeneità fra i diversi stimoli presentati,nonostante le tematiche – di carattere economico, sociale ed istituzionale – cheil debito pubblico è in grado di evocare siano molteplici. In particolare Tonio-lo ha sostenuto come la linea prospettata, che intende esaminare il rapporto fradebito pubblico ed efficienza dei mercati, pur non essendo l’unica delle chiavidi lettura che sia possibile individuare, abbia dei caratteri distintivi e di novità.

La mattinata della seconda giornata – come ormai è tradizione – si è articola-ta nella discussione, guidata da Giuseppe Felloni, dei progetti di ricerca avviati dagiovani studiosi nell’ambito della storia finanziaria italiana. Il progetto di MarioAcerra incentrato sull’industria conserviera campana nel periodo 1900-1950, purnon tralasciando l’importanza dei colossi industriali (Cirio e Del Gaizo-Santarsie-ro), intende approfondire il mondo delle società minori, investigandone oltre la“vita” societaria, anche la struttura finanziaria, arrivando in ultima analisi a trac-ciare una mappatura delle zone di produzione e approvvigionamento delle mate-rie prime. Stefano Agnoletto (Il meccanismo dell’appalto per l’esazione delle entra-te fiscal:. il caso del dazio della mercanzia e della ferma generale del sale nello statodi Milano tra fine Seicento e primo Settecento) vuole ricostruire il meccanismo del-l’esazione dei dazi e dei monopoli a Milano tra la fine del XVII e l’inizio del XVIIIsecolo. Attraverso l’utilizzo delle fonti relative agli appalti delle “Ferma Generaledel Sale” e del “Dazio della Mercanzia”, le due principali entrate camerali delDucato, lo studioso si prefigge di indagare il meccanismo contrattuale posto inatto, così da individuare le razionalità fiscali che lo giustificavano, con l’obiettivodi proporre una riflessione sulle modalità di regolazione dell’intera attività econo-mica descritta nei capitolati. Maurizio Romano vuole approfondire un aspettolegato all’interventismo asburgico in età teresiana. Il suo progetto è incentrato sullafigura del regio Ducal Magistrato camerale, la cui creazione portava a compimen-to il lungo processo di riconduzione in regia dei tributi indiretti, fino alla totaleavocazione al controllo statale di tale vitale risorsa per le finanze regie. Il progettodi Andrea Strambio De Castillia (Centro per la Cultura d’Impresa, Milano), Per unrepertorio delle fonti documentarie conservate presso le ex sedi di borsa, si inseriscein un più ampio lavoro di ricerca che nel corso degli ultimi dieci anni ha avutocome obiettivo principale quello di non disperdere ed anzi valorizzare le fonti chepermettessero la ricostruzione dell’evoluzione delle borse italiane. Con questa stes-sa finalità la ricerca in corso ha lo scopo di rilevare la disponibilità di fonti docu-mentarie di interesse per la ricostruzione della storia delle Borse valori italiane

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negli ultimi due secoli. Le piazze presso cui è condotta la ricerca sono le nove sedidi Borsa al 1991, con l’esclusione di Milano. L’esito della ricerca prevede la crea-zione di alcuni sintetici rapporti informativi che forniranno, città per città, un elen-co delle risorse documentarie disponibili presso i principali archivi; mentre gliambiti d’indagine saranno: le origini istituzionali del mercato, la composizionedegli organi locali di autogoverno, le dimensioni dl mercato in termini di interme-diari attivi, in termini di numero di titoli e di quantità scambiate, le sedi del mer-cato e l’iconografia. Giuseppe Telesca intende sviluppare una biografia su Giusep-pe Toeplitz, cercando di supplire in parte ad un vuoto storiografico, che permette-rebbe di meglio evidenziare alcuni aspetti del lavoro del banchiere.

Nella terza direzione – volta alla promozione di effettivi programmi di ricerca– è continuato e si è positivamente concluso il lavoro di coordinamento, che hatrovato una tappa importante anche nel seminario di Cassino, fra alcune unità delCirsfi e studiosi di università estere al fine di definire una proposta di sessione peril prossimo Convegno internazionale di Helsinki. È infatti stata approvata la Ses-sion 112 - Government Debts and Financial Markets in Europe, 16th-20th Centuries- dell’IEHC di Helsinki, 21-25 Agosto 2006, di cui lo stesso Cirsfi è stato promo-tore nella persona del prof. Fausto Piola Caselli insieme a Pierre-Cyrille Haut-coeur (Università di Parigi I Panthéon-Sorbonne), Micheal North (Università diErnst-Moniz-Arndt), e José Ignacio Andrés Ucendo (Università dei Paesi Baschi).

totaleavanzo

1394,00600,00500,00

2494,0076,2

169,20900,001020,00

445,0044,252417,20

n. 7 contributi da 200 euro cadauno da parte di unità dairicerca Cirsfin. 2 contributi da 300 euro da parte di unità di ricerca Cirsfin. 1 contributo da 500 euro da parte di unità di ricerca CirsfiAcquisto dominio sito CIRSFI annuale presso YK2 HostingGestione software bibliografia sito CIRSFIErogazione n. 6 borse di studio (rimborsi) giovani studiosi –seminario Cassino 2005Rimborso n. 3 studiosi Cassino 2005Spese e bolli c/c (dal giugno 2005)

Rendiconto finanziario CIRSFI - Esercizio gennaio 2005-dicembre 2005

Conto CIRSFI Università di Cassino 195,50 Conto CIRSFI Università dell’Aquila 200,00Conto CIRSFI Università di Genova 200,00Conto CIRSFI Università Cattolica 300,00Conto CIRSFI Università di Palermo 200,00Conto CIRSFI Università di Pavia 200,00Conto CIRSFI Università di Bari 200,00Dipartimento Università di Milano 500,00Dipartimento Università diverse: Napoli 447,67

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IV. RECENSIONI

F. BALLETTA, Mercato finanziario, istituzioni e debito pubblico in Italia nella secondametà del Novecento, Dipartimento di Analisi dei processi economico-sociali, lin-guistici, produttivi e territoriali dell’Università di Napoli Federico II, Napoli 2006.

Il volume di Francesco Balletta, pubblicato nella Collana di Studi, Atti e Documen-ti dell’ISI (Istituto Italiano per la Storia delle Imprese) ed edito dal Dipartimento di Ana-lisi dei processi economico-sociali, linguistici, produttivi e territoriali della Università diNapoli “Federico II”, parte dal legame che c’è stato, negli ultimi cinquant’anni del Ven-tesimo secolo, fra la gestione del debito pubblico e l’andamento del mercato azionario inItalia, mettendo in evidenza come istituzioni, quali il Tesoro e la Banca d’Italia, hannopreferito puntare allo sviluppo del mercato dei titoli pubblici rispetto a quello dei titoliazionari, contribuendo ad ingessare il mercato mobiliare italiano.

L’autore definisce le caratteristiche del mercato finanziario italiano alla luce deiperiodi di efficienza ed inefficienza che l’hanno riguardato negli anni. Un mercato puòessere ritenuto efficiente quando, al suo interno, si scambiano gli stessi prodotti ocomunque prodotti simili; mentre un mercato è stabile quando è più ampio e globalepossibile. Il mercato dei titoli pubblici è efficiente quando i titoli a lungo termine pre-valgono su quelli a breve e di conseguenza i saggi di interesse dei primi sono superioria quelli dei secondi, per invogliare i risparmiatori ad investire in titoli a lungo termine.Le emissioni dovrebbero tenere conto delle caratteristiche del mercato ed i titolidovrebbero essere collocati, prevalentemente, fra i risparmiatori privati. Infine, il mer-cato dei titoli pubblici dovrebbe essere libero dai condizionamenti della Banca d’Italiae delle altre banche. Si può parlare di mercato azionario efficiente, invece, quando c’èun’elevata disponibilità di azioni ed il mercato è ampio (non come quello italiano fra-zionato in 10 borse), quando le operazioni di borsa non vengono tassate e quando esi-ste un efficace controllo pubblico che impedisce le operazioni speculative.

Il lavoro si divide in quattro parti. La I parte, Mercato finanziario e debito pubbli-co in Italia fra ricostruzione e miracolo economico (1946-1962), costituisce un’analisi ditipo introduttiva al problema del debito pubblico. Esso, costituito dai titoli collocati sulmercato, dai titoli in possesso dalla Banca d’Italia, e dallo scoperto di c/c di tesoreriache lo Stato detiene presso la stessa banca, rappresenta lo strumento ordinario utilizza-to dal governo per finanziare il deficit di bilancio.

Lo studio parte dalla constatazione che l’eccessivo e incontrollato aumento deldebito pubblico è stato uno dei principali problemi dell’economia del nostro Paese, eche con la ricostruzione economica avviata nel secondo dopoguerra, si è assistita ad unacrescita esponenziale della spesa pubblica, alla quale si accompagnava un bilancio sta-

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tale in forte disavanzo. Conseguentemente, anche il rapporto debito pubblico/prodot-to interno lordo, che misura la stabilità finanziaria del paese, è aumentato fino a rag-giungere livelli insostenibili.

Da questi presupposti che hanno messo in crisi la struttura finanziaria dello Stato,e influenzata negativamente l’economia italiana, l’Autore passa all’esame delle manovrecorrettive di politica economica; la copertura del deficit di bilancio impone, inevitabil-mente, il ricorso statale all’indebitamento, e il problema va risolto riequilibrando i contipubblici e frenando lo sviluppo evolutivo della spesa pubblica attraverso obiettivi comela diminuzione della spesa pubblica, l’aumento delle privatizzazioni, la politica di incen-tivazione degli investimenti, nonché maggiori garanzie di trasparenza per i risparmiato-ri.

L’Autore evidenzia altresì, le caratteristiche del mercato finanziario, con riferimen-to all’economia italiana, durante e dopo la seconda guerra mondiale, ricostruendo l’an-damento del debito pubblico italiano a partire dal periodo della ricostruzione fino almiracolo economico, definito “l’età dell’oro dell’economia italiana”, perché furono annidurante i quali il Paese assisté ad una forte crescita della produzione industriale (pari al160%), e alla creazione di due milioni di nuovi posti di lavoro.

Nella II parte, Crisi del mercato finanziario e struttura della finanza statale (1963-1970), l’osservazione si sposta sulla crisi che investì il mercato finanziario negli anni Ses-santa e sui provvedimenti adottati per fronteggiare la questione del risanamento deiconti pubblici, dall’adozione della politica di restrizione del credito da parte dellaBanca d’Italia, alla considerazione delle motivazioni-base del mancato sviluppo delmercato azionario rispetto al mercato finanziario.

Nella III parte del saggio, Disavanzi strutturali, contenimento del debito pubblico efinanziamenti della Banca d’Italia (1971-1980), l’analisi si sposta verso la politica mone-taria perseguita dalla Banca d’Italia nei primi anni Settanta e sulle scelte politiche voltead influenzare la politica sociale del governo. Lo studio sottolinea l’aumento del deficitdi bilancio che seguì quello delle spese sociali e dei salari non compensato dalle entra-te, e la svalutazione monetaria operata dal governo per bloccare l’esodo dei capitaliall’estero, che non frenò l’inflazione, né ebbe effetti positivi sulla drastica riduzionedelle operazioni borsistiche.

Nella IV ed ultima parte, Balletta esamina la politica del governo italiano direttaalla contrazione del debito pubblico, le misure correttive imposte dal Trattato di Maa-stricht, ed infine, la svolta istituzionale decretata dal “divorzio” fra il Ministero delTesoro e la Banca d’Italia. Infatti, nel 1976, in virtù di un accordo siglato tra il Ministe-ro del Tesoro e la Banca d’Italia per correggere la politica fiscale dello Stato, la Bancad’Italia si obbligò ad acquistare le quote dei titoli del debito pubblico che il governonon riusciva a collocare sul mercato.

Assodato che l’aumento del debito pubblico comporta conseguenze nefaste perl’economia di un paese e rende indispensabile l’attuazione di provvedimenti economicifinalizzati alla sua riduzione, si ha che l’interpretazione dello spinoso problema del cre-scente debito pubblico italiano, sia prima che dopo il Trattato di Maastricht e l’istitu-zione della Banca Centrale Europea, impone soluzioni che trovano applicazione neimeccanismi politici e fiscali dello Stato.

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Lo studioso illustra la tendenza del fenomeno, dal 1945 al 2000, partendo dallapolitica del prestito lanciata, alla fine della guerra, dal ministro del Tesoro del governoBonomi, Marcello Soleri, il quale fu l’artefice del “prestito della liberazione”, costituitoda buoni del tesoro quinquennali al saggio del 5% e ad un prezzo di 97,5 lire per ogni100 lire di valore nominale. Esso fruttò la raccolta di 106 miliardi di lire ed ottenne unapartecipazione del 70% dei risparmiatori privati. Il successo avuto dal prestito dimo-strò che lo Stato, per esigenze finanziarie, poteva attingere anche dal risparmio privatoe non solo dalla Banca d’Italia o da altri istituti di credito come era sempre avvenuto.Infatti, alla fine del 1946, durante il secondo governo di De Gasperi, fu emesso unsecondo prestito, il “prestito della ricostruzione”.

Con il “divorzio”Tesoro-Banca d’Italia, la banca si liberò dal vincolo e potè decide-re in autonomia le quote di titoli da acquistare e la politica monetaria da perseguire. Il suonuovo ruolo fu quello di tenere sotto controllo la stabilità monetaria e ridurre l’inflazio-ne. I risultati furono la progressiva trasformazione della struttura dei titoli, che da brevetermine diventarono titoli a lungo termine, e l’inversione di tendenza nel rapporto di col-locamento degli stessi, in quanto le maggiori quote di titoli del debito pubblico furonosottoscritte dal libero mercato. Inoltre, l’aumento del saggio di interesse sottrasse i rispar-miatori dagli investimenti in titoli azionari che fruttavano dividendi incerti.

Purtroppo, anche se le nuove caratteristiche assunte dal mercato del debito pub-blico ne migliorarono l’efficienza e la trasparenza, l’obiettivo di ridurre il disavanzopubblico non fu raggiunto a causa delle scelte politiche del governo che, temendo diperdere consensi elettorali, preferì inasprire la pressione fiscale, fino al punto da doverricorrere ad un intervento esterno: l’adesione al Trattato di Maastricht.

Il 7 febbraio 1992, con il Trattato di Maastricht, l’Italia, per una scelta politica delgoverno di centrosinistra, entrò a far parte dei paesi aderenti all’Unione MonetariaEuropea. Il Trattato impose a questi paesi l’osservanza di certi “criteri di convergenza”:il rapporto deficit pubblico/Pil doveva contenersi entro il limite massimo del 3%; iltasso di inflazione non doveva superare l’1,5% della media dei tassi di inflazione mini-mi degli altri paesi dell’UE; il rapporto debito pubblico/Pil non doveva superare il60%, o perlomeno, come recitava l’accordo, ciascun Paese doveva dimostrare la pro-pria capacità a tenerlo sotto controllo. Con l’adesione al Trattato, la spesa pubblica ita-liana si ridusse, così come progressivamente e lentamente diminuì l’emissione dei titolidel debito pubblico, finché, nel 1996, il nostro Paese raggiunse il parametro del 3% nelrapporto debito pubblico /Pil così come era stato prefissato dal Trattato.

Con questa ricerca, l’Autore ha ricostruito le vicende del debito pubblico in Italianella seconda metà del Novecento, fornendoci un valido contributo per l’approfondi-mento della sua dinamica evolutiva nell’arco di cinquant’anni. Con rigore scientifico,Balletta ha mostrato in successione di tempo i principali eventi economici italiani, non-ché i provvedimenti di politica monetaria restrittiva operati dai governatori succedutisialla Banca d’Italia per il contenimento del processo inflazionistico, passando dall’esamedelle cicliche fasi di congiuntura sfavorevole e le crisi finanziarie degli anni Settanta,che determinarono un intervento dello Stato nell’economia di stampo Keynesiano, alridimensionamento del debito pubblico che caratterizzò gli anni Ottanta, fino a giun-gere nei primi anni Novanta, alle manovre restrittive di politica fiscale dirette a far rien-

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trare il disavanzo pubblico entro i rigidi limiti imposti, nel 1992, ai paesi dell’UnioneEuropea, dal Trattato di Maastricht.

La specificità del lavoro consta nella complessa raccolta dei dati numerici, che nonsi limita a una mera esposizione di cifre, ma rappresenta l’elaborazione argomentata delproblema e l’analisi delle cause che lo hanno determinato, sottolineando, in primopiano, i rimedi “studiati” e realizzati per determinarne il “rientro”, nonché, sempre allaluce di queste serie di dati, alla rilevazione dei risultati conseguiti dal punto di vista eco-nomico e finanziario.

Il lavoro di Francesco Balletta si colloca in un filone di studi che per l’autore è tutt’al-tro che nuovo. Peraltro, esso si inserisce in un percorso di ricerca iniziato già da tempo, mache va affinandosi progressivamente, sia per il metodo utilizzato, sia per l’attenta letturacritica dei documenti che hanno permesso di analizzare gli aspetti significativi e complessiche hanno caratterizzato il panorama economico italiano. Il tema dell’indebitamento delloStato così come è stato documentato dall’Autore, risulta di facile comprensione anche peril lettore non specialista della materia, in quanto il pregevole contributo è arricchito ditavole e grafici esplicativi, i cui dati sono stati estratti da Mediobanca, Istat, e dagli Annalidell’Economia Italiana. Per questa ricerca è stata utilizzata una ricca ed aggiornata biblio-grafia, fonti storiografiche in gran parte inedite, come le Relazioni del Ministero del Teso-ro e le Adunanze generali ordinarie dei partecipanti della Banca d’Italia degli anni 1946-2003, nonché un’accurata selezione di articoli di riviste economiche e finanziarie.

FRANCA PIROLO

F. LUCARELLI, La città e le periferie, Cangiano Grafica srl, Napoli, 2006.

Pur avendo ormai dimestichezza con l’autore, (ho recensito Scene dall’Amazzoniae Belém Realoded), ho trovato difficile inquadrare “La città nella periferia”; complessigli scenari in un gioco di specchi talora deformanti, di autocitazioni spiazzanti. È evi-dente come si intenda tracciare il consuntivo di ricerche che coprono oltre un venten-nio, effettuate anche in paesi così lontani, ma (per lui) così vicini; di qui il ritorno a temipiù volte presenti, beni culturali, ambiente, centri storici, visti questa volta nella pro-spettiva di sguardi incrociati tra Brasile, Francia, Italia; in un disegno organico inteso acoglierne le radici della globalizzazione (Così lontano, così vicino).

Due raffinati e colti Stati europei, entrambi centri culturali nevralgici, incrociaticon il “Paese dell’eterno domani”, il colosso che reca in sé le gemme, ma anche le stig-mate della colonizzazione (La terra dell’abbondanza).

L’Autore, attraversando due secoli di cultura e di arte, ricerca segnali che li acco-munino, nei Convegni, nelle Dichiarazioni (o Carte), nelle Convenzioni; successiva-mente nel ruolo dell’ONU e dell’UNESCO. Ritrova comuni riscontri nelle legislazioninazionali che riflettono nevralgici momenti partecipativi dei rispettivi Paesi. Sguardoprivilegiato la Lista del Patrimonio Mondiale UNESCO che Lucarelli individua qualecatarsi dell’unità di valori sociali e culturali, unificazione di quelle radici comuni su cuisi fonda l’umanità. Il che lo porta con assoluta disinvoltura a mixare lo studio di venti

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secoli di Napoli con i destini culturali di una città, Belém, distante 12mila chilometri,che ha vissuto l’apogeo culturale nell’arco di soli due secoli, XVIII, XIX.

Il primo sguardo incrociato è offerto dal grande scrittore brasiliano Jórge Amado.Allora solo ventenne, al suo esordio letterario ne Il Paese del Carnevale, sulla nave, diritorno in Brasile dall’esperienza di studio a Parigi, rappresenta efficacemente (nel col-loquio che segue) il dramma di questo Paese eternamente alle soglie di fortune poten-zialmente raggiungibili, sempre proteso ancor oggi verso traguardi alla sua portata;obiettivi nel tempo (nel secolo passato e nei secoli trascorsi) costantemente rinviati, senon falliti (è, forse, sempre la speranza a rifiutare il fallimento?).

Dal testo: “Il senatore, con l’autorità che gli dà la sua posizione, riprende la con-versazione: «il Brasile è il Paese con il più grande avvenire del mondo intero!», «Ve-rissimo!» esclama un giovane appena aggregato al gruppo. «Lei ha appena dato l’esat-ta definizione del Brasile» (sorriso vanitoso del senatore). «Il Brasile è il Paese Verdeper antonomasia, proiettato nel futuro, speranzoso, peccato che non sia mai andatooltre. Voi vecchi brasiliani che già foste, così come i giovani che sono attualmente lasperanza della patria, sognate il futuro: entro cent’anni il Brasile sarà il primo Paese delmondo e vi garantisco che anche quell’odioso cronista Pedro Vaz de Caminha, usò esat-tamente questa stessa frase quando Cabral, perfettamente per caso, si imbattè nel paeseche era venuto a scoprire»”.

Nella seconda parte del lavoro (che risponde al titolo “La città nella periferia”) l’in-treccio da lineare diviene complesso; all’indagine apparentemente elitaria sui beni arti-stico-culturali e sull’ambiente, si sovrappongono (Così lontano e così vicino) le immagi-ni disumanizzate delle tristi periferie, arduo campo di battaglia intellettuale per unumanista-giurista che ne tenti la messa in scena (Crimini invisibili).

Per l’Autore il tempo (Nel corso del tempo), quello interiore che scandisce la realtà,(Lo stato dello cose), il passato e la sua evocazione vengono vissuti in un anelito di solida-rietà sociale in cui il consenso sociale dovrebbe rendere possibile un presente meno dolo-roso o perlomeno un futuro vissuto secondo le regole del mondo civile (lo stato delle cose):tutte queste tematiche sono raccontate attraverso un complesso incastro tra la solidarietàumana (costruita anche attraverso episodi minimalisti) e la tragedia classica. L’indaginemuta così, prospettiva, diviene romanzo-verità in cui l’autore veste i panni di protagonista,girando in presa diretta la discesa agli inferi nelle periferie. Egli introduce le tematica delmondo delle periferie, richiamando, dal suo Il romanzo gotico, inserti di Orwell, Asimov eK. Dick e Gibson: “metropoli sovraffollate, controllate da teppisti; agglomerati urbani doveè concreto, in ogni momento il rischio di incontrare il proprio assassinio, dove scienza e tec-nica dichiarano il loro fallimento”. Visioni sulfuree delle periferie del XXI secolo.

Ecco Lucarelli vagare con perfetto agio di studioso e viaggiatore dalla suburranapoletana di Scampia (le tristemente note Vele di Secondigliano) a Saint-Denise (quar-tiere operaio parigino dove è esplosa la recente contestazione); alle “ Vele” francesidella Corneuve e Sarcelles, laddove “geniali” architetti vollero risolvere il problemasociale degli emarginati verticalizzando le soluzioni edilizie, creando un loggione perLes enfantes du paradis (Al di là delle nuvole). Nelle periferie brasiliane, dalla Rociña(300.000 disadattati), che paradossalmente giustificano le favelas tumorali di Rio deJaneiro o di San Paolo per la vicinanza alla terra dell’abbondanza (esemplare l’immagi-

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ne del luminoso Hotel Sheraton di Rio, ; ai corticos ed alle palafitte di Belém (Fino allafine del mondo), da Marituba a Tucunduba (200.000 abitanti) sul Rio delle Amazzoni.

Nell’ottica di dar soluzione a problematiche sociali e di sovrapopolazione urbana lecittà nuove del Novecento, quelle realizzate in Italia dal regime fascista e quelle volute daDe Gaulle trent’anni dopo (cinque le pontine, cinque le villes nouvelles). Giudica occasio-ni perdute degli anni Settanta (post-contestazione) i piani di recupero italiani (cui farannoseguito i 20.000 alloggi post-terremoto delle periferie napoletane) e le BNH Brasiliane;ovvero le ZAC parigine (zones d’aménagement concértée), che dimostrano, per altro, comein quegli anni, alla consapevolezza degli scempi della pianificazione urbanistica del decen-nio precedente, il Brasile, la Francia, l’Italia si siano fatalisticamente arresi.

L’autore ci conduce così con piglio sicuro alla Ricerca del tempo perduto dalla gene-razione di architetti e urbanisti del Novecento; ed ancor più alla indifferenza o colpe-vole compiacenza di quelli che si affacciano al nuovo secolo. L’autore si chiede perchéla contestazione della fine degli anni Sessanta, che privilegiava la dignità umana ed ildiritto alla città vivibile non abbia lasciato che macerie morali. Egli ritiene che la conte-stazione, come la rabbia, si manifesta violentemente, ma basta attendere l’attimo che siplachi per addomesticarla e ricondurla alla “ragione”, ancor più facilmente.

Da queste visioni delle tristi periferie, che designano sempre la sua discesa all’inferno,Lucarelli appare sempre emotivamente coinvolto, al di là di quanto comporterebbe il suoruolo di giurista, ciò perché si crea una simbiosi con i luoghi e gli esseri umani che ne vivo-no l’emarginazione. Esseri umani legati fra loro nella realtà del dolore e, tuttavia, quasi pre-destinati, vittime dell’ignoto, isolati nel loro intimo fluire del tempo, stranieri (non solo pernazionalità) gli uni agli altri, alla ricerca della dignità perduta. L’autore, come in un deliriovisionario, attende proprio da colui che è “straniero al mondo delle regole” la possibilità difar coincidere il tempo di dentro (l’anima), con il tempo di fuori (la speranza).

Certo è che egli partecipa emotivamente in prima persona alle scene che descrive, dive-nendone di volta in volta protagonista. È come se accanto ad ogni presenza cammini sem-pre un’ombra incombente, è l’autore che ne scruta i passi, lo segue senza perderlo mai divista. Sono storie narrate due volte, studiate dall’autore e da lui rivissute in presa diretta. DaThomas Elliot (Terra desolata) «Chi è l’altro che sempre mi cammina accanto? Se conto,sono soltanto io. Ma quando guardo innanzi a me lungo la strada bianca c’è sempre un altroche mi cammina accanto, che scivola ravvolto in un ammanto buio, incappucciato».

Eppure Lucarelli é consapevole che nelle periferie vivono le radici sociali che nonmuoiono, che sopravvivono agli alberi pur scheletriti; in esse vi è il DNA del popolo edè in questo che vede la speranza del domani: profumi, odori, rumori, sapori (non sem-pre necessariamente gradevoli); il modo di vivere le necessità domestiche ( i modestipanni colorati che “ornano” le facciate); musica, canti, tradizioni, costumi, artigianato(dai Casali di Napoli al Presepe; dal mercato di Belém al Cirio de Nazaré).

Sotto la superficie naturalistica del racconto convivono la visionarietà, il senso delmistero, la tensione simbolica di personaggi che aspettano sempre qualcosa o qualcuno.In questo l’autore non si sottrae alla sua personale discesa agli inferi, connotando di veri-smo un’analisi che poteva freddamente concludersi. Non a caso la “rappresentazione” sichiude con la Gente di Belém (Anatomia di un’anima), le cui storie di periferia narranovicende disperate (L’uovo del serpente) che svelano quanto di ignoto, morboso, misterio-

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so (ma eternamente umano) può nascondersi sotto la tranquilla maschera di persone onello scenario di luoghi ed ambienti. Queste anime perse racchiuse e consumate entro laloro stessa storia sono, forse, la spia di un segreto che ci tocca tutti (Persona).

A ben vedere la intitolazione dei paragrafi nasconde sovente uno stretto legame intel-lettivo con due grandi registri, Ingmar Bergman e Wim Wenders di cui vengono utilizzatii titoli per enfatizzare il contesto. La spiegazione è nel fatto che si tratta di registi le cui nar-razioni nascono dai luoghi, così come dai luoghi nascono i refrain di Lucarelli: emblemati-ca l’isola di Farö (e il Faron brasiliano), il rifugio ispiratore dei personaggi di Bergman,muti nel loro silenzio alla ricerca irrisolta di un rapporto umano; ovvero i paesaggi sconfi-nati ed i vasti orizzonti di un mondo spoglio, quasi privo di presenze umane, dei desertiamericani e australiani di Wenders. Visioni che scardinano le logiche del paesaggio, la nor-male scala delle cose, regalando sguardi contemplativi, momenti di assoluta ricchezza visi-va. Qui il richiamo al Wim Wenders fotografo che riprende le antiche case coloniali del-l’Avana o le facciate ad Huston, Berlino e Gerusalemme, rivelando, osservatore attento estupito, momenti di assoluta ricchezza visiva attraverso le immagini più nascoste dellanostra cultura universale, che l’autore riutilizza in chiave prospettica nell’immenso verdedella foresta, nel culto della sua biodiversità (il corredor).

Qual è la linea d’ombra che separa lo “scritto” di una indagine scientifica dalromanzo? Lucarelli lo affronta utilizzando all’interno della ricerca tre elementi: la sto-ria, i personaggi, l’immaginario nonché “l’elemento aggiunto”.

Il punto di partenza è sempre il medesimo: l’interrogativo sul «come e perchénascono le storie» , dove il termine storia viene inteso cautelativamente nel senso piùampio, comprensivo della materia orale quanto, e forse più, di quella scritta.

Ma il concetto di «totalità» ha a che fare anche più direttamente con i materiali e lastruttura di ogni singolo romanzo. Prima ancora della consapevolezza critica, l’Autore è«spinto dall’istinto» a prediligere le macchine narrative: «totalità, complessi che, grazie aduna struttura audace, arbitraria ma convincente, diano l’illusione di sintetizzare il reale, diriassumere la vita» . Moltiplicare le prospettive attraverso cui un evento viene narrato è,allora, il metodo base per mostrare e sintetizzare la molteplicità, un metodo relativizzante,che annulla le pretese totalitarie di ogni discorso univoco che aspiri a rappresentare inte-gralmente la realtà. La vita, la verità sono relative e varianti, riassumerle significa adden-trarsi in questa molteplicità. Ma non soltanto di ciò si tratta. La vita è composta anche diillusione, di immaginario. Sogni, desideri, frustrazioni. Il vertice dell’ambizione totalizzan-te è l’inclusione dell’elemento immaginario del reale nella rappresentazione.

La vita, come una partita a dadi, è disordinata, informe, casuale, L’arte la trasfigu-ra e trasforma dandole ordine secondo i canoni di ciò che Vargas Llosa definisce 1’«elemento aggiunto»: «E l’elemento aggiunto, il riordinamento del reale, a conferireautonomia a un mondo romanzesco e a permettergli di competere criticamente colmondo reale». Gli elementi di ordine che non compaiono nella realtà — nota l’autore— sono evidentemente percepiti dal lettore sulla base della propria personale esperien-za e quindi variano da individuo a individuo, da epoca a epoca.

Magistralmente incanalata nella forma teatrale, questa tecnica mette in moto uncomplesso meccanismo conoscitivo e comunicativo, che parte dall’introspezione perandare alla ricerca di quel rapporto col mondo, senza il quale qualsiasi conquista intel-

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lettuale può trasformarsi in tentazione, peccato di orgoglio, colpa che comporta inevi-tabilmente l’espiazione nella solitudine, nella morte.

Partendo dalla calvinistica sfiducia di fondo nell’umanità, l’A. dimostra di possedereuna sensibilità straordinariamente sintonizzata sulla lunghezza d’onda del peccato: egliavverte il fruscio del serpente anche nel paesaggio più sereno e le insidie s’addensanominacciose proprio attorno ai personaggi più innocenti. Ma come artista, intuisce ancheche l’unico riscatto possibile al dato ineludibile della condizione umana consiste nello sfrut-tare la sua universale pervasività per estrarne il massimo di informazioni che gettino lucesul funzionamento dell’animo umano; per esercitare dunque, fino in fondo, quell’istintoconoscitivo che è alla base dell’arrogante irrequietezza che ci ha esiliato dall’Eden. Se daun lato la tentazione di isolarsi in posizione di altera superiorità incomberà su tutti i per-sonaggi che, a vario titolo, incarneranno il ricorrente tema faustiano, l’A. ne sarà redentoproprio dallo sforzo di comunicare i risultati della ricerca attraverso l’atto del raccontare,equivalente laico della confessione.

Ma la Redenzione, attraverso la parola narrata, nasconde anch’essa l’estrema e tor-mentata sensibilità del pericolo, l’ombra che rende conflittuale persino il rapporto coni propri strumenti espressivi: le parole e i simboli non sono elementi neutri, bensì sonopartecipi delle ambiguità connaturate di chi le adopera o manipola, caricandosi dipotenzialità mai univoche e distinte, proprio come i moti dell’animo o le forze dell’uni-verso che tentano di descrivere.

Il limite strumentale, per la consapevolezza con cui viene adoperato, si trasformaperciò in forma, in quanto carica di tensione dinamica l’argomento affrontato. È ovvioche tra i prezzi da pagare per questa consapevolezza sono compresi certi irrigidimentistilistici, una naturalezza di dizione sempre ricercata e raramente raggiunta, proprioperché l’esasperato impegno etico e conoscitivo con cui viene perseguita ne frusta fatal-mente la spontaneità. Il dolore provocato dai colpi di sonda vibrati con sottile perizianelle pieghe più nascoste dell’animo umano lascia cicatrici visibili. Ma ecco che il raffi-nato processo della scrittura le trasforma in ornamenti, in artefatti espressivi che, conduplice movimento, affinano di simboli le allegorie e fissano le metafore naturali inemblemi. Se a volte si ha l’impressione che lo scrittore predisponga i suoi personaggicome pezzi di scacchiera per una solenne partita metafisica, l’analisi più attenta dei det-tagli e della posta in gioco rivela il calore e la simpatia umana di cui essi sono investiti.

Chiudendo l’introduzione, mi è sorto un dubbio, che mi fosse sfuggito qualcosache l’Autore volesse trasmetterci nel sottotitolo, Così lontano, così vicino?

Si trattava forse del suo ultimo gioco a nascondersi, il trompe l’oeil, la “falsaprofondità”, per sviare il messaggio. Perché così lontano, così vicino? Faraway. So close!(titolo di un noto film di Wim Wenders) è emblematico della distanza tra la città e laperiferia, che è pur parte della città. Ovvero, come scrive Lucarelli, “la periferia iniziadove la città finisce” (così vicino); mentre la distanza “reale” (così lontano) rappresentail degrado morale e l’emarginazione socio-economica di Scampia, Corvale, Corneuve,Sarcelles, Rociña, Tucunduba: da Napoli a Roma, Parigi, Rio de Janeiro, Belém.

Così lontano, oltre seimila miglia dall’Europa, è il Brasile, eppur nell’immaginariodell’interprete, così vicine le periferie europee e le favelas brasiliane, che l’autore vuolecongiungere con un filo sottile, forse illusorio, di solidarietà umana.

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In verità, l’inizio del XXI secolo ci ha disilluso, in quanto la problematica dell’e-dilizia popolare tende a scomparire dall’ottica politica delle Nazioni dal Nord al Suddel mondo. Sembra che il politico intenda oscurare il problema, isolando le periferie,anche in piena bufera di contestazioni. In Italia la svendita degli alloggi popolaridestinata al solo risanamento del disastrato bilancio statale (negli anni ’90 le venditaimponeva il reimpiego per nuove costruzioni popolari). In Brasile l’obiettivo norma-tivo si arresta alla sola usucapione delle favelas, mentre vien meno il ruolo del BancoNazionale dell’Abitazione (BHN). Manca completamente in entrambe un disegnoorganico di recupero sociale delle periferie, apparentemente destinate alla definitivaemarginazione.

In definitiva, un racconto cinematografico: struttura inizialmente sgemba, folgora-zioni che seminano indizi, poi corsa magnetica verso il finale. Lucido e sorprendente,abile nel giocare con i grandi pensieri e la storia come fossero biglie di vetro, Lucarellichiama alla riflessione anche con apparentemente scarne battute che coinvolgono sem-pre la “memoria” del lettore.

HENRIQUE LUCIO (OTHER) VASCONCELOS

M.G. RIENZO, Banchieri- imprenditori nel mezzogiorno, La Banca di Calabria, DonzelliEditore, Roma 2004

Il volume si propone di analizzare il profilo dei “ Banchieri- Imprenditori”, cheritroviamo nell’Ottocento nel mezzogiorno d’Italia, attraverso la storia della Banca diCalabria.

Si tratta di una lettura dal basso dello sviluppo economico del Mezzogiorno, da cuiemerge l’immagine di una realtà economica più complessa, in cui le peculiarità del con-testo territoriale si fondono con l’efficienza di un sistema di relazioni familiari, indiriz-zato al sostegno dei settori economici più legati al territorio, assumendo una specificaed autonoma identità.

L’autrice, in questo volume, segue, in parallelo, quattro percorsi d’analisi, quellodella storia della Banca di Calabria come impresa, quello del rapporto territorio-imprenditorialità, quello dell’organizzazione creditizia delle economie periferiche equello sulle caratteristiche familiari e sulle attitudini imprenditoriali del ristretto grup-po di azionisti fondatori della banca.

Per quanto riguarda il primo percorso, l’autrice ci parla della costituzione dellaBanca di Calabria, sorta, a Napoli, sotto forma di società anonima il 7 Ottobre del 1910,evidenziando la composizione della partecipazione azionaria, da cui si evince l’articola-zione del gruppo dirigente intorno a due classi sociali, aristocrazia ed alta borghesia, edil ruolo centrale svolto dalla famiglia Quintieri. È proprio ai capitali dei Quintieri edalla clientela selezionata, scelta nel contesto relazionale costituitosi attorno alla famiglia,che si deve la solidità patrimoniale di questa banca. Il presidente della banca d’elite,retta da un gruppo ristretto di soci, era Luigi Quintieri, azionista di maggioranza,proprietario e redditiere della ricca borghesia fondiaria del casentino. Il direttore, Gio-

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vanni Astarita, suo amico e collaboratore, apparteneva al mondo dell’imprenditoriaarmatoriale della penisola sorrentina. Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, da unlato, la flessione della rendita fondiaria e dall’altro, la più ampia concorrenza cui gliambienti armatoriali sorrentini si trovarono esposti, costituirono per gli azionisti unforte stimolo alla realizzazione dell’impresa bancaria. L’importanza degli azionisti fon-datori, all’interno della storia della Banca di Calabria, porta l’autrice a delineare unbreve percorso imprenditoriale di ognuno di loro ed a dedicare un paragrafo alla sele-zione del personale, scelto nell’ambito del sistema di relazioni dei soci fondatori, adimostrazione del fatto che l’identità sociale rappresentava uno degli elementi cardinedell’impresa.

Per quanto riguarda il secondo aspetto, il rapporto territorio- imprenditorialità, èstudiato ripartendo l’intero periodo di riferimento, 1910-1939, in quattro fasi principa-li di cesura economica che segnarono pesantemente l’economia ed il sistema creditiziomeridionale: 1)1910- 1913; 2) 1914- 18; 3)1919-25; 4)1926-39;

Il primo decennio del nuovo secolo si aprì con una fase espansiva del ciclo econo-mico internazionale, che favorì progressi nel settore agricolo ed un aumento della pro-duzione e del reddito. In questo periodo, l’aumentato ricorso al credito nel settoreindustriale e commerciale mutò la composizione del sistema bancario nazionale, favo-rendo l’apertura di numerosi sportelli locali e la nascita di molte società ordinarie dicredito, legate al finanziamento delle attività economiche emergenti. Le leggi specialiemanate, in questi anni, per il mezzogiorno d’Italia, non diedero i risultati sperati,facendo crollare le speranze di quanti attendevano una rinascita civile ed economicadelle regioni meridionali.

Nel periodo 1910-13, per la Banca di Calabria il periodo dell’esordio, fu elaboratoun programma operativo che, per un verso, rilevava le risorse esistenti sul territorio, eper un altro, consentiva all’istituto di affermarsi nel più breve tempo possibile. Nel1912, la scarsezza di denaro e le frequenti oscillazioni dei cambi limitarono il lavoro indivisa estera, le anticipazioni su merci e le operazioni di sconto, ma non fermarono iprogetti di espansione della Banca di Calabria che aprì, in quell’anno, una succursale aPiano di Sorrento ed una filiale a Cosenza. Nella penisola sorrentina, l’attività dellabanca era sostenuta dalla rete di relazioni di Giovanni Astarita, costituta da imprendi-tori e armatori, impegnati nel commercio, nell’industria elettrica e dei servizi.

Dal 1914, si annunciava una fase recessiva, in cui erano più evidenti i limiti dellaLegge per Napoli del 1904, che non era riuscita a favorire l’integrazione della strutturaindustriale di base nelle città oggetto del programma. Alla mobilitazione industrialebellica reagirono gli esponenti della struttura produttiva industriale e manifatturiera,che criticarono gli interventi governativi orientati soltanto a sostegno delle grandi realtàindustriali. L’industria di base, nel Mezzogiorno, fu esclusa dal circuito dei finanziamen-ti statali e fu sostenuta solo dagli esigui capitali delle piccole banche locali. La situazio-ne si aggravò con la fine della guerra, la necessità di una rapida conversione portò,infatti, al crollo di molte imprese e si annunciarono gravi difficoltà per gli istituti di cre-dito che ne erano coinvolti. La politica finanziaria attuata nel Mezzogiorno dalle grandibanche commerciali e l’insediamento in città di nuove istituzioni finanziarie accentua-rono la stretta creditizia e la concorrenza a livello locale, costringendo gli istituti più

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deboli a fusioni o ad avventure speculative che spesso si conclusero con dei dissesti.Crollarono, definitivamente, le speranze di rafforzare il blocco meridionale, vale a direil progetto di costruire una solida organizzazione creditizia locale.

Dal 1925, si accentuò il processo di trasformazione dello Stato liberale in unoStato accentrato, furono poste le premesse politiche del regime totalitario e il fascismofinì per condizionare i rapporti di produzione in un rigido sistema di potere. Dopoalcuni vani interventi sul mercato dei cambi per stabilizzare il corso della lira, si giunse,nel 1926, al varo di due importanti provvedimenti di politica monetaria e creditizia. Ilprimo provvedimento conferì alla Banca d’Italia il monopolio dell’emissione e l’eserci-zio della vigilanza sugli istituti di credito, ponendo le basi per la Legge Bancaria del1936. Il secondo provvedimento, quello della rivalutazione della lira, a “ quota novan-ta” produsse una serie di disagi, tra cui la restrizione della circolazione, la contrazionedel credito, la diminuzione delle esportazioni e della produzione e la conseguentedisoccupazione.

La struttura creditizia napoletana, dopo “quota novanta” subì profondi sconvolgi-menti per le scelte di politica deflazionistica del regime e per le manovre di concentra-zione bancaria, che portarono al tracollo molte banche locali. Il cambiamento più cla-moroso fu la perdita del diritto di emissione da parte del Banco di Napoli. Definito Isti-tuto di Diritto Pubblico, mantenne il servizio di credito agrario e fondiario ed il servi-zio delle rimesse degli emigrati continuando anche sotto la gestione di Giuseppe Fri-gnani a svolgere un ruolo preponderante nel sistema creditizio meridionale. Nel corsodel 1929 ai disastrosi effetti di quota novanta si aggiunsero quelli della crisi del 1929,che provocarono una riduzione della raccolta del risparmio ed una restrizione del cre-dito. Nonostante la crisi, la Banca di Calabria era valutata positivamente dagli Ispettoridella Banca d’Italia, per l’andamento della sua attività e per la sua buona amministra-zione contabile, i cui meriti erano attribuiti al presidente Quintieri.

La nascita dell’Iri nel 1933 e la legge bancaria del 1936 sancirono un cambiamen-to sulla scena creditizia nazionale e meridionale scindendo i legami che ancora esisteva-no tra banche ed industrie ed avviando, anche a Napoli, una nuova fase espansiva.

Il terzo percorso di analisi è svolto in linea con la recente attenzione prestata dallastoriografia ai rapporti tra strutture creditizie e sviluppo delle economie periferiche, etraccia un percorso delle fasi più significative della costituzione del sistema bancariolocale in relazione agli sviluppi dell’economia nazionale. Le caratteristiche dell’orga-nizzazione creditizia locale hanno rivelato l’esistenza di una fitta trama di relazioniche connotava l’azionariato della maggior parte delle società bancarie, le quali dive-nivano strumenti di controllo per il mantenimento del potere dei gruppi industrialipiù forti. Di qui il protagonismo di alcuni banchieri-imprenditori, che, attraverso lamediazione del risconto, assunsero il controllo del sistema. Nella prima decade delNovecento, la facile ammissione al risconto presso gli istituti di credito principali indus-se la maggior parte delle banche popolari a trasformarsi in anonime, accrescendo ilpotere dei banchieri-imprenditori, che aumentavano il proprio prestigio con questomeccanismo. Questi ultimi per combattere la concorrenza delle banche settentrionali edi quelle nazionali rivestivano un ruolo di mediazione tra la politica economica statalee gli orientamenti dell’economia locale, indirizzando i capitali verso le opportunità

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offerte di volta in volta dalla congiuntura. Anche l’organizzazione creditizia locale riflet-teva la divaricazione esistente nel sistema economico tra le grandi banche d’affari delNord, che sostenevano le politiche statali per il Mezzogiorno, e le banche locali.

Nella prospettiva del quarto percorso, l’esempio della Banca di Calabria, rappre-senta l’evoluzione di un tradizionale modello economico e culturale e del ceto che lorappresenta. Le sorti stesse della Banca sono legate alla famiglia Quintieri, che riesce acostituire una fitta rete di clientela selezionata, grazie alle proprie relazioni sociali.

La storia di una banca può essere affrontata in vario modo, l’autrice di questovolume ci parla della banca attraverso i suoi protagonisti, i banchieri-imprenditori, lafamiglia Quintieri e quella Astarita in particolare, ma anche tutti gli altri azionisti dimaggioranza. La ricerca non analizza l’intera storia della banca (1910-1980), ma si sof-ferma su un singolo periodo che va del 1910, anno di costituzione della banca, al 1939.Il periodo preso in analisi è un periodo ricco di avvenimenti significativi, sia per quan-to riguarda gli eventi storici che lo attraversano, la prima guerra mondiale e la crisi del1929, ad esempio, sia per quanto riguarda i cambiamenti che hanno interessato il set-tore bancario, con la legge del 1926 e dieci anni più tardi con quella del 1936, ed è inte-ressante notare come la banca abbia superato indenne tutti i periodi di crisi, grazie adun’attività flessibile e diversificata. Alla base di ogni scelta sulle politiche di investi-mento, sull’apertura di nuovi sportelli o di nuove sedi, sulla scelta della clientela e sullastessa scelta del personale da impiegare nella banca, c’è sempre l’abile regia di LuigiQuintieri, che proprio grazie alla sua preparazione culturale e professionale, alla suaconoscenza delle opportunità congiunturali, alla sua consapevolezza della necessità dimantenere un portafoglio diversificato e alla sua abilità nel selezionare sfere di attivitàche offrano profitti sicuri, evitò alla Banca di Calabria situazioni di pericolo in periodidi crisi. La storia della famiglia Quintieri ci mostra come alcuni grandi rappresentantidell’economia meridionale avessero iniziato a disinvestire, in maniera massiccia dallaterra, già prima della definitiva crisi dell’economia agraria meridionale, dopo la secon-da guerra mondiale. La relativa autonomia economica e finanziaria di questi esponentidel possesso fondiario consentì loro di tenere le distanze dal regime fascista, guada-gnandosi, attraverso la mancata partecipazione ad un prestito imposto dal fascismo, iltitolo di liberali sovversivi, e di mantenere, allo stesso tempo, strette relazioni con laBanca d’Italia e gli ambienti finanziari nazionali.

LAURA STORCHI

E. CONZE, G. CORNI, P. POMBENI (a cura di), Alcide De Gasperi: un percorso europeo.Società editrice il Mulino, Bologna, 2005.

La monografia curata da Conze, Corni e Pombeni è in grado di affascinare già daltitolo sia i cittadini italiani che quelli europei. È suddivisa in settori e scritta da diversiautori ed è il risultato del convegno internazionale di studi “Alcide De Gasperi: unastoria europea” tenuto a Trento, dal 18 al 20 marzo 2004, che non rappresenta né labiografia né la storiografia dello statista, anche perché la sua vita, sia professionale che

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umana, piena di vicissitudini è stata complessa al punto che nessun autore si è mai volu-to cimentare in tale operazione, se non in modo parziale e con l’ausilio della primoge-nita del protagonista. Ogni italiano ha sentito, almeno una volta, nominare De Gasperinella sua vita, e questo volume rappresenta un ottimo inizio, a mio avviso, per capirecosa è significato e significa per noi europei aver avuto un politico della sua levatura.

La prima parte della monografia è un’introduzione, un riepilogo della vita pubbli-ca e politica dello statista più famoso d’Italia. Pombeni e Corni hanno rilevato le gran-di capacità di analisi di De Gasperi: quanto sia stato un grande uomo di governo ingrado di trasformare situazioni transitorie e/o anche di crisi in situazioni stabili e digrande rilevanza storica. Raccontano anche di quando, da consigliere comunale, propo-se la legge elettorale proporzionale nel 1911, divenuta legge nel 1914. Entra nel Parla-mento Italiano per la prima volta, come presidente del gruppo parlamentare dei popo-lari, diventa per la prima volta Ministro degli Esteri del governo di Ferruccio Parri,mentre il suo primo governo porta la data del 10 dicembre 1945. De Gasperi è semprestato un patriota, ma anche “troppo cattolico”, a detta dei suoi avversari, e, per la suafede religiosa, con Don Sturzo fonda il Partito Popolare Italiano, in cui fa confluire ilPartito Popolare Trentino. Ma è anche un uomo che ha molto sofferto a livello politi-co, in quanto, con l’avvento del fascismo, si ritrovò senza lavoro, e solo, nel 1929, siimpiegò nella biblioteca Vaticana. Dal 1933 al 1938, collaborò con “La quindicinaInternazionale” firmando gli articoli con uno pseudonimo. A conflitto mondiale termi-nato, l’obiettivo di De Gasperi fu quello di risollevare l’immagine dell’Italia a livellointernazionale, e soprattutto di “unificare” l’Europa col fine di rendere i singoli statipiù forti a livello mondiale, impegnandosi, profusamente, sia per la Comunità Europeadi Difesa che per la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio.

Micheal Wedekind si è occupato della borghesia e del liberalismo in Trentino, nel-l’ultimo periodo della monarchia asburgica (1866-1915), analizzando lo sviluppo, ilposizionamento, il ruolo e l’azione del milieu borghese - liberale. L’autore approfondi-sce diverse tematiche, quali il fenomeno demografico legato alla migrazione, l’impren-ditoria e il processo di industrializzazione, senza trascurare né l’aspetto del turismo néil quadro politico globale che si era configurato fino ad allora. Sul quadro politicocomunale si è soffermato maggiormente l’autore, spiegando l’autonomia conquistatadagli stati austriaci a scapito dell’autonomia territoriale. Un altro approfondimento èstato effettuato sulle associazioni presenti nel distretto politico d Trento, distinguendotra le associazioni professionali di settore, di categoria e sindacali, culturali e di ricrea-zione, associazioni socio-caritative, associazioni di “difesa nazionale”, associazioniecclesiastico - religiose, associazioni politiche, associazioni economiche, dichiarandoche tutte le associazioni erano dirette e/o formate da membri della grande borghesia, eche il mondo contadino ne era escluso.

Maddalena Guiotto si è soffermata sulla vita di De Gasperi quale giovane leaderpolitico fra Trento e Vienna, con una formazione politico – culturale ben diversa daipolitici italiani del tempo, con punti di vista differenti, non solo per la politica naziona-le, anzi, soprattutto per la visione diversa della politica internazionale. L’autrice sottoli-nea con forza il ruolo di mediatore (anche grazie al suo lavoro di giornalista) avuto daDe Gasperi tra il mondo italiano e quello germanico, in quanto italiano di nascita, in

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territorio italiano, ma in una provincia a maggioranza tedesca. Non mancano le sueriflessioni sull’ambiente, in cui De Gasperi cresceva umanamente e politicamente:ambiente universitario laico, dove i cristiani cattolici cominciarono a riunirsi inassociazioni universitarie. Dal 1900 al 1905, il giovane politico frequentò l’univer-sità di Vienna, città creativa e innovativa sotto tutti i punti di vista, che gli diede lapossibilità di attuare la sua attività di mediazione con la città di Trieste. Un altromotivo che rafforzò questa attività fu la sua amicizia (durata fino alla morte di DeGasperi) con Friedrich Funder, prima semplice giornalista, poi caporedattore edirettore della testata giornalistica “Reichpost”. In modo molto semplice, la Guiot-to analizza la vita di De Gasperi dividendola in fasi storiche, nei ruoli rivestiti, qualistudente universitario cattolico, giornalista, giovane politico prima e parlamentare aVienna poi, senza tralasciare il fondamentale ruolo ricoperto di statista di rilevanzainternazionale.

Con l’avvento del fascismo, Alcide De Gasperi entrò come bibliotecario allaBiblioteca Vaticana. Questo aspetto della sua vita, durato ben quattordici anni, che disolito viene trascurato, viene raccontato da Alberto Melloni, che ha firmato questasezione. La Biblioteca Vaticana era in grado di garantire almeno un pezzo di pane agliantifascisti che vi si rifugiavano, dove De Gasperi entrò anche grazie alla sua amiciziacon Giordani. Nel frattempo, però, non smise la sua attività di giornalista, scrivendoper il giornale vaticano sotto pseudonimo. L’autore ha alcune volte aiutato lo statista,mentre altre non ha evitato di mettergli i bastoni tra le ruote della sua attività di pub-blicista, facendo capire che non c’era una solidarietà impenetrabile. Bisogna aspettare il1943, perchè De Gasperi riprendesse il suo lavoro in politica.

Anche Guido Formigoni si sofferma su De Gasperi e il Vaticano, questa volta peròviene trattato il commento dello statista sull’“Europa vista dal Vaticano” in ambito diuna politica internazionale. Formigoni fa rilevare come De Gasperi non si soffermò maisull’attività politica della nazione in senso stretto, ma solo sulla politica internazionalesvolta dall’Italia e dal Vaticano, analizzando tutto con un certo distacco, ma senza tra-lasciare il richiamo alla necessità di combattere il pericolo di nuove religioni politichesecolari, che occupassero in modo totalitario lo spazio sociale.

Sara Lorenzini si è occupata dell’impegno di De Gasperi per un’Europa unita, esa-minando sia l’attività dello statista in senso stretto, sia la sua storiografia. Fondamenta-le fu il discorso tenuto al Consiglio d’Europa, nel dicembre del 1951, dove discusse diuna “sovrastruttura” che non risultasse inutile. Viene più volte sottolineato come DeGasperi sia il “padre” dell’Unione Europea, proprio in quanto riteneva che l’Europaavesse come caratteristica principale quella di essere un esempio di moralità internazio-nale. De Gasperi pensava ad un’Europa unita attraverso la costituzione di istituzionisopranazionali, in modo da assumere un ruolo di mediazione tra est ed ovest, senza pre-scindere dall’identità di ogni singolo stato europeo. Il grande rammarico di Alcide DeGasperi, raccontato dalla figlia Maria Romana, fu quello di morire senza essere riuscitoa vedere la realizzazione del suo sogno.

“Konrad Adenauer e l’Europa” è il titolo del capitolo scritto da Tim Geiger, dovevengono riassunti, in modo breve ma efficace, i tre “stili” di vita del primo cancellieredella Repubblica Federale. L’autore ha suddiviso il lavoro in quattro paragrafi, nel

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primo fa riferimento agli orientamenti politico – europei, prima e dopo il 1945, facen-do notare che Adenauer aveva pensato, già a partire dagli anni ‘20, ad un’Europa unita,dando il proprio consenso alla Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio. Il secon-do paragrafo è dedicato alla funzione dell’Europa nella visione politica di Adenauer,spiegando come l’Europa unita poteva raggiungere obiettivi più ambiziosi e di maggio-re rilevanza rispetto alla somma degli obiettivi dei singoli paesi. In particolare, si sotto-linea come l’Europa potesse essere un baluardo contro il comunismo (e quindi control’Unione Sovietica), e contro il nazionalismo; si spiega poi la dimensione atlantica nelconcetto europeo di Adenauer. Infine l’Europa viene vista come risposta a problemispecificamente tedeschi. Il terzo paragrafo è dedicato al concetto geografico di Europaper Adenauer, e cioè la delimitazione cristiana contro la “Russia Sovietica”. Adenauer,così come De Gasperi, vedeva l’unione atlantica ed europea come conseguenza storicanecessaria della catastrofe, dal momento che l’eccessivo nazionalismo dei loro popoliaveva rovesciato gli assetti del continente. Il quarto paragrafo è un elenco delle fasidella politica europea di Adenauer: la fase federativa, la fase intergovernativa-sovrana-zionale, 1955-1958; la fase “gollista”.

Il penultimo contributo, di Urlich Lappenküper, è dedicato a Robert Schuman el’unificazione europea. Lappenküper raggruppa Adenauer, Schuman e De Gasperi inquanto si distinsero nella schiera dei “padri dell’Europa”. L’autore fa una carrellatasulla vita di Schuman dividendo in paragrafi: gli anni della giovinezza, in Germania, l’i-nizio della carriera politica; si arriva poi ad un quadro generale con un paragrafo dedi-cato alla Germania in quanto problema centrale, e la distensione dei rapporti franco-tedeschi. Nel quinto paragrafo, Schuman viene definito il “padre dell’Europa”. Nelsesto, l’autore fa una distinzione netta tra “mito e realtà”.

L’ultima relazione è di Eckart Conze, “Al di là di miti e leggende. Il posto di Alci-de De Gasperi nella storia europea” riassume la biografia dello statista come uomopolitico che ha “inventato” il continente Europa, e il suo rapporto con gli altri “padridell’Europa” (Schuman ed Adenauer). L’autore fa cenno ai diversi testi sia su DeGasperi che su Schuman ed Adenauer. Questo ultimo capitolo mette in luce (così comeFormigoni e Lorenzini) come De Gasperi abbia fortemente voluto l’Europa unita, sottoforma di federazione, e come anche gli Stati Uniti appoggiavano questa tesi, in quantoloro non temevano per la loro supremazia a livello mondiale e vedevano l’Europa unitacome una sorta di ponte tra l’oriente e l’occidente. Inizialmente, l’Europa si vedevaunita onde evitare le debolezze dei singoli paesi a livello mondiale, senza pensare aduna vera e propria integrazione tra i diversi stati, e proprio i tre “padri” dell’Europahanno più volte fatto risaltare la funzionalità economica e politica dell’integrazionepolitica. Conze arriva ai giorni nostri, interrogandosi su chi abbia preso il posto dei tre“europesti” convinti, facendo i nomi di Berlusconi e di Rutelli, anche se l’autore stessoammette, che si rifanno al pensiero degasperiano in modo totalmente diverso. Infine,Conze dice la sua chiaramente quando afferma che uno studioso non si può avvicinaread una biografia di De Gasperi se non si comprende, principalmente, quanto egli siastato fondamentale per l’Unione Europea.

WANDA MACRÌ

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P. PECORARI (a cura di), L’Italia economica. Tempi e fenomeni del cambiamento (1861-2000), Padova, Cedam, 2005 .

Questo libro si presenta come una fruibile quanto aggiornata sintesi storiograficadel periodo compreso tra la proclamazione del Regno e l’Italia di oggi. Gli autori deicapitoli che compongono il volume, Paolo Pecorari, che ne è pure il curatore, FredianoBof e Andrea Cafarelli, sono docenti dell’Università di Udine.

L’attenzione alle politiche economiche attuate dalla classe dirigente si accompagnaa puntuali riferimenti alle dottrine e ai dibattiti a esse sottese, come ad esempio, a fine‘800, al magistero sociale della Chiesa (da Leone XIII fino a Giuseppe Toniolo); delpari non manca, nell’ambito dell’economia fascista, un’analisi dell’ideologia del corpo-rativismo. Vanno inoltre segnalati opportuni riferimenti alla storia sociale nelle sueintersezioni con la storia economica (si pensi alla “questione sociale” o alla “questionemeridionale”). Nondimeno il taglio metodologico del lavoro privilegia l’analisi dei cam-biamenti economici, con particolare riguardo all’evoluzione delle strutture produttive edel sistema bancario e monetario.

Paolo Pecorari ricostruisce le vicende dello Stato unitario a partire dall’adozione diun sistema amministrativo accentrato, ispirato al modello napoleonico. Prende poi inesame le scelte liberiste della Destra storica che, nell’ambito della divisione internazio-nale del lavoro, privilegiò lo sviluppo agricolo dell’Italia e le sue “industrie naturali”;con la Sinistra storica si arrivò, poi, alla scelta del protezionismo e dell’“industriali-smo”, mentre nel frattempo (1883) si era tornati alla convertibilità metallica (il corsoforzoso era stato introdotto nel 1866). Gli anni Ottanta videro susseguirsi la crisi agra-ria e la speculazione edilizia, sfociata nella grande crisi bancaria dei primi anni Novan-ta, dalla quale si uscì con la nascita della Banca d’Italia (1893) e delle banche miste.Spiccano, nella ricostruzione della politica economica e finanziaria di questa fase, lefigure di Sidney Sonnino e Luigi Luzzatti, quest’ultimo favorevole a una “restaurazionedelle forze economiche nazionali” (pp. 61-64).

Andrea Cafarelli ripercorre l’età giolittiana, periodo in cui avvenne, secondo un’ac-creditata tesi storiografica, il ‘decollo’ industriale dell’Italia, pur persistendo antichetare, tra cui il basso livello dei consumi, indice di un benessere non ancora diffuso. Lafavorevole congiuntura economica di inizio secolo fu arrestata dalla grave crisi interna-zionale del 1907, che determinò il crollo della domanda, la contrazione dei prezzi e deilivelli occupazionali e le iniziali difficoltà per le banche miste (in primis, la Società ban-caria italiana). In ogni caso, secondo le valutazioni dell’autore, il Paese resse bene allacrisi, in parte proprio per il basso livello della domanda interna, in parte per le posteattive della bilancia dei pagamenti, tra le quali le rimesse degli emigrati e il contributoofferto dal turismo d’élite (p. 94).

Il periodo che va dalla Grande guerra alla fine del secondo conflitto mondiale èoggetto dell’analisi di Frediano Bof, che delinea efficacemente il quadro geopolitico edeconomico mondiale in cui venne a iscriversi l’economia italiana dell’epoca. Le econo-mie europee di quegli anni furono pesantemente condizionate, per un verso, dalle ripa-razioni di guerra imposte dal trattato di Versailles alla Germania, dall’altro ai comples-si problemi legati ai debiti di guerra interalleati.

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Questa fase, inoltre, è scandita dal ruolo crescente della mano pubblica, giacché fula Grande guerra a segnare l’avvento, istituzionalizzato all’indomani della crisi del 1929,dello Stato interventista in economia, scardinando così dalle fondamenta l’ideologiaottocentesca del laisser-faire. L’aumento incontrollato della spesa pubblica e l’iperinfla-zione afflissero nel primo dopoguerra la Germania e l’Austria, ma non ne fu indenneneppure l’Italia, dove la crisi ormai irreversibile dello Stato liberale e i conflitti socialidel “biennio rosso” (1919-20) crearono le premesse per l’avvento del fascismo.

L’autore, in particolare, sottolinea l’ambiguità delle dottrine e delle politiche eco-nomiche fasciste: a una fase di “liberismo autoritario” in sostanziale continuità con lepolitiche precedenti e al servizio degli interessi industriali minacciati dall’occupazionedelle fabbriche (1920), seguì, dal 1925, una politica dirigistica, destinata a rafforzarsicon la “grande depressione” dei primi anni Trenta, durante la quale il regime diede vitaallo “Stato banchiere e imprenditore” con la conseguente creazione di un’economiamista. Frediano Bof, infine, illustra acutamente lo iato tra la dottrina del fascismo e lesue applicazioni pratiche: in effetti trovarono solo parziale applicazione al sistema eco-nomico le trasformazioni propugnate dal regime, il cui corporativismo non riuscì a tra-dursi in un’effettiva terza via alternativa al capitalismo e al socialismo. Si giunse, così, altracollo economico della guerra, all’inefficiente politica dei razionamenti, all’iperinfla-zione e al collasso della produzione e dei redditi, fino allo smembramento dello Stato,con un Regno del sud connotato da un’economia più fragile di quella della Repubblicasociale italiana (sotto il cui controllo era, del resto, il “triangolo industriale”).

Alla fine della guerra si gettarono le basi di un nuovo ordine internazionale, fondatosugli accordi di Bretton Woods (1944) e sull’istituzione di un sistema di cooperazionemonetaria che ebbe i suoi capisaldi istituzionali nel Fondo monetario internazionale e nellaBanca mondiale. Lo sviluppo del commercio internazionale, poi, fu affidato al Gatt (Gene-ral Agreement on Tariffs and Trade), ora Wto (World Trade Organization).

Il secondo dopoguerra, dalla ricostruzione al “miracolo economico”, è ben illustratoda Paolo Pecorari, che dedica particolare attenzione agli orientamenti di politica economi-ca, dal liberismo di Alcide De Gasperi e della Destra moderata alle proposte della Sinistrariformatrice. In questa fase la ripresa fu legata soprattutto alle sovvenzioni e alle aperture dilinee di credito da parte degli Usa attraverso il Piano Marshall. Prevalse l’idea di utilizzaretali aiuti anzitutto per accrescere le riserve della banca centrale, onde favorire la stabilizza-zione monetaria, e solo in seconda battuta per la ricostruzione industriale. L’età degasperia-na è interpretata nelle sue complesse sfaccettature: della “politica economica temperata”,alla vivace ‘stagione riformistica’ (ci si riferisce, in particolare, all’istituzione della Cassa delMezzogiorno, alla riforma agraria, al Piano case, agli incentivi all’industrializzazione). L’au-tore sottolinea inoltre i contributi giunti, soprattutto da ambienti cattolici (si pensi a Fanfa-ni, Vanoni, Saraceno), alla cultura della programmazione economica e la svolta pianificatri-ce con cui non s’intese sostituire lo Stato al mercato, ma orientare parte degli investimentipubblici e privati verso obiettivi d’interesse collettivo. In questo senso la valorizzazione del-l’Iri, l’istituzione dell’Eni e la nazionalizzazione dell’industria elettrica (Enel) furono ele-menti di una forte espansione economica che subì una battuta d’arresto solo nel 1963.

Nel ricostruire il periodo successivo, Andrea Cafarelli richiama la pregnanteespressione di “stagione delle occasioni mancate” attribuita agli anni ’60, poiché,

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“facendo convergere le attenzioni sui problemi della stabilizzazione, non si seppe inpari tempo cogliere l’opportunità di rilanciare il processo di sviluppo economico e dirisolvere o attenuare alcuni squilibri storici nazionali” (p. 234). La fase successiva al“miracolo economico” fu segnata da notevoli contraddizioni: si registrarono importan-ti ristrutturazioni industriali, per cui molti comparti vissero una stagione di discretavivacità, ma lo shock salariale del 1969, l’abbandono del sistema monetario di BrettonWoods e la crisi petrolifera del 1973, cui va aggiunta la crescente concorrenza delle“tigri asiatiche”, determinarono condizioni di stagflazione tali da far segnare nel 1975,per la prima volta nel dopoguerra, una crescita reale negativa. Prendendo in esame glianni ’70, l’autore si sofferma opportunamente sulle vicende politiche relative all’ever-sione e alla cosiddetta “strategia della tensione”, che si tentò di fronteggiare con la for-mazione dei governi di unità nazionale. Soltanto nel 1983 si aprì una decennale faseespansiva, nel corso della quale però il progressivo ampliarsi del welfare portò fuoricontrollo la spesa pubblica. Alla crisi del 1992-93, che fu pure crisi politica e anzitutto‘morale’, si è risposto, anche alla luce dei vincoli derivanti dall’adesione al trattato diMaastricht (1992) e nella prospettiva dell’ingresso nell’area dell’euro, con una rigorosapolitica di risanamento dei conti pubblici e con l’avvio delle privatizzazioni.

In breve, il volume offre, nell’articolazione interna dei saggi che lo costituiscono,un quadro ricco e variegato, accessibile anche ai non specialisti, che fa emergere la com-plessità delle vicende storico-economiche dell’Italia unita e le grandi trasformazioniavvenute. A fronte di un numero ridotto di note a piè di pagina, non mancano tuttavia,per eventuali approfondimenti, ampie e aggiornate indicazioni bibliografiche.

OLINDO DE NAPOLI

L. INCISA DI CAMERANA, Il grande esodo, Corbaccio, Milano 2003.

La migrazione non è tema transitorio o occasionale. Costituisce uno degli elemen-ti che formano lo scenario di transizione di millennio. Nessuno dei 190 stati del mondone è estraneo. “I circuiti delle migrazioni avvolgono il globo a tela di ragno, con com-plesse ramificazioni e innumerevoli intersezioni. Per questo la mappa odierna dellemigrazioni è multipolare” – si legge in apertura del Rapporto 2003 sulle Migrazioni“Managing Migration. Challenger and responses for people on the move” dell’IOM, l’Or-ganizzazione mondiale che ha sede in Ginevra. È questo un dato completamente nuovoma non sorprendente dell’epoca della globalizzazione. La migrazione è, d’altro canto,tema che attraversa trasversalmente i punti chiave della nostra convivenza civile, l’ideadell’identità nazionale, la concezione della democrazia e dei suoi confini, la collocazio-ne geopolitica di un paese e il suo sviluppo. Ed è tema che si è imposto di prepotenzanel dibattito pubblico, mentre a livello accademico ha acquisito una legittimazione chelo pone a buon diritto accanto ai fenomeni classici del commercio, della macroecono-mia e dello sviluppo. Lo studio delle sue cause e delle sue conseguenze ha acquistatouna crescente centralità come campo di ricerca delle scienze sociali quali economia,scienze politiche e relazioni internazionali.

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In questo nuovo contesto, il libro che Incisa di Camerana ha dedicato nel 2003 alfenomeno delle migrazioni italiane nel corso della storia e alla sua valenza culturale, appa-re di estrema attualità e meritevole di essere riproposto all’attenzione degli studiosi. Lavisione d’insieme che Incisa di Camerana offre del grande esodo che l’Italia ha vissuto comepaese di emigranti, risponde, infatti, all’interesse suscitato, di riflesso, dalle migrazioni dioggi a quelle di ieri. Ed il primo pregio del volume è proprio quello di costituire la primastoria di lungo periodo dell’emigrazione italiana. Un secondo tratto originale è lo stile dellibro, un saggio di sociologia storica che deve molto alla figura professionale dell’autore:quella di diplomatico, che lo ha portato ad agire in una posizione privilegiata nel crinale trale due Italie, quella degli italiani in Italia e quella degli italiani fuori d’Italia. Incisa diCamerana inizia, infatti, la sua carriera alla fine degli anni ’50 a Le Havre, in Normandia:qui assiste all’ultima fase dell’emigrazione di massa “quando bruciavano ancora le feritedella Seconda guerra mondiale e arrivavano dal Veneto, non ancora opulento, gli stagiona-li per la raccolta delle barbabietole e occorreva trovar posto sia ai connazionali che giun-gevano senza contratto di lavoro sia ai pieds noirs italiani espulsi dalla Tunisia”. Subitodopo è in Brasile, quando nel paese “si registravano le traversie postume di un esperimen-to anacronistico di colonizzazione agricola su vasta scala, dove accanto all’onnipotenza del-l’élite industriale di San Paolo c’era la miseria dei falliti insabbiati nelle favelas.” Nel 1972è a Roma alla Direzione Generale dell’Emigrazione, nel periodo in cui i rientri compensa-vano gli espatri e “un’Italia benestante si comportava ancora da infelice”. Tra gli anni Set-tanta e l’inizio dei Novanta è in Inghilterra Argentina e Venezuela, allorché, “esaurito ilfenomeno, le nostre collettività si erano assestate e stabilizzate e andavano ‘amministrate’,quando in molti emigranti, in seguito alle difficoltà insorte nel paese che li accoglieva, c’erail rimpianto di una scommessa sbagliata e si delineava la prospettiva di numerosi rimpatri.”L’autore si è, dunque, avvalso di una conoscenza diretta degli italiani all’estero e nella ste-sura del libro ha potuto avvalersi di numerosi contatti diretti con personalità di successo diorigine italiana.

Il grande esodo descrive, dunque, con stile originale ed avvincente la vita degli emi-grati italiani dall’Estremo Oriente all’America. Il volume è in controtendenza con altristudi che presentano la drammaticità dell’emigrazione. In tal senso, il libro è comple-mentare al saggio di Gian Antonio Stella, L’orda, dal provocatorio sottotitolo Quandogli albanesi eravamo noi, che mostra l’altra faccia dell’emigrazione italiana: quella in cuiaccusavano gli italiani emigrati di essere tutti criminali, si proibiva loro di mandare ifigli alle scuole dei bianchi in Luisiana, si rinfacciava di avere esportato la mafia e siricordava ai nostri emigrati che quasi la metà dei carcerati di New York era italiana. L’a-dozione di una prospettiva di lungo periodo permette, infatti, a Incisa di Camerana diridimensionare lo stereotipo negativo dell’emigrante che ha caratterizzato parte dellanostra emigrazione: quello dell’emigrante straccione. La scelta è piuttosto quella dimettere in rilievo i milioni di italiani che hanno dato il meglio di sé nel mondo e di sot-tolinearne, al contempo, l’importante ruolo di collegamento tra i paesi di acoglienza el’Italia. Due le intuizioni di fondo. La prima è che “la storia degli italiani fuori d’Italianon è meno continua e ricca della storia degli italiani in Italia” e che, anzi, nei “momen-ti della decadenza e della tragedia, la continuità dell’identità nazionale sia stata mante-nuta più dagli italiani all’estero che in casa”. Un esempio tra gli altri è la coscienza della

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sopravvivenza dell’Italia all’indomani dell’8 settembre 1943 ed i comportamenti conse-guenti degli italiani residenti a New York o a Buenos Aires. Altro esempio dello spes-sore dell’identità nazionale degli emigrati è rintracciabile nell’ottica “unitaria” di chi sitrova all’estero per cui, fuori dell’Italia, settentrionali e meridionali si ritrovano italiani.

La seconda intuizione sviluppata dall’autore è la “vocazione cosmopolita, globaledegli italiani”, che caratterizza, nel corso della storia, l’emigrazione italiana rispetto a quel-la di altri paesi. Per Incisa di Camerana “l’Italia è paese di mare e ha sempre accettato lasfida del mare. L’evasione dalla terraferma è una vocazione.” Per questo l’Italia nasce glo-bale: è il modello genovese. Il secondo impero italiano è l’impero del mare, o gli imperidelle repubbliche marinare, con la riconquista del mediterraneo. “La formula imperiale diGenova e in minor misura di Pisa prevede due scacchieri: uno interno, la metropoli e unoesterno, le colonie dei propri mercanti. È il primo modello d’inserimento dei cittadini all’e-stero in un disegno strategico omogeneo. Grazie a questo schema Genova diventerà quel-la che Fernand Braudel chiamerà una économie monde, uno Stato globale, un impero senzaterritorio”. E ancora: “Il suo tumultuoso gioco politico interno non avrà riflessi negativisulle sue collettività all’estero, una rete che va dal Mediterraneo orientale a Malaga e poi aSiviglia a Nord, a Londra, a Southampton e a Bruges a Sud fino al Nord Africa. La suaforza è il sentimento di solidarietà e di lealtà delle collettività genovesi all’estero.”

Sulla base di questo schema interpretativo l’autore ripercorre la storia della nostraemigrazione individuandone l’evoluzione: dalla grande emigrazione mercantile, dallafine del Medioevo al Rinascimento, che rappresentò una prima esperienza di globaliz-zazione; all’emigrazione di élites tra la fine del Rinascimento e l’Ottocento, costituita damercanti, poeti, banchieri, artisti, consiglieri di principi, spose di sovrani, segretari diStato, esuli politici; all’esodo di massa, dal 1861 al 1914, che diffuse stereotipi e pre-giudizi diversi da quelli che avevano segnato l’immagine dell’Italia all’estero. Si ebbepoi l’emigrazione “mista”, tra il 1945 e il 1970, quando partirono operai e tecnici, mina-tori e imprenditori, proletari e borghesi per giungere, infine, all’emigrazione recente eattuale. Quest’ultima, quasi a chiudere un cerchio, è nuovamente formata da èlites: pro-fessionisti, ricercatori e via dicendo che si inseriscono direttamente nelle università, nelmondo della ricerca, del design e della moda e che vivono l’emigrazione non come unascelta definitiva ma come una sorta di pendolarismo su scala internazionale. Una emi-grazione, dunque, che ha subito molte evoluzioni nel tempo ma che costituisce unacomponente essenziale della civiltà italiana. Di più: Incisa di Camerana, afferma lanecessità, in un momento di crisi della coscienza nazionale come l’attuale, di conosceree recuperare l’immagine della coscienza nazionale di cui sono stati depositari gli emi-grati italiani. Le acute riflessioni sulla natura del fenomeno e sulle sue relazioni con larealtà italiana, assieme al risalto dato ad una folla di personaggi piccoli e grandi descrit-ti con le indubbie qualità letterarie dell’autore, rendono, in definitiva, questo volumeuna preziosa e insostituibile “testimonianza su un passato che abbiamo accantonatocome un ricordo sgradevole, ma anche una relazione sulla realtà, nient’affatto desolan-te, che è stata prodotta da questa storia e che offre una piattaforma straordinaria allageopolitica di oggi”.

ALESSANDRO GNAVI

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L’industria chimica italiana del Novecento (a cura di Geoffrey J. Pizzorni), Franco Ange-li, Milano, 2006.

Il volume curato da Geoffrey J. Pizzorni raccoglie gli atti del convegno internazio-nale “L’industria chimica italiana del Novecento: tra successi, crisi e nuove prospettivedi sviluppo” tenutosi a Milano nel maggio 2004. Il simposio ha inteso offrire una rico-struzione aggiornata e approfondita delle vicende del settore chimico italiano a livellonazionale ed internazionale nonché interrogarsi, alla luce dell’esperienza passata, sullapossibilità di un ripresa dell’industria chimica italiana, quale fattore decisivo per ilrilancio industriale nel nostro paese. A questo compito sono stato chiamati storici ita-liani e stranieri assieme a protagonisti del settore chimico. La pubblicazione degli attidel simposio è dunque di grande rilevanza, data l’eccezionalità della vicenda dell’indu-stria chimica italiana. Dopo avere acquisito nel giro di pochi decenni un cospicuo patri-monio di conoscenze tecniche e di realizzazioni, a partire dagli anni Settanta del Nove-cento, ha conosciuto un altrettanto rapido e drastico ridimensionamento. Assieme altracollo della Montedison, che era ascesa a livello delle maggiori imprese chimichemondiali, si è assistito – come notano Angelo Moioli e Giorgio Petroni nell’introduzio-ne – allo smantellamento del più grande apparato di ricerca applicata mai realizzato inItalia “con pesanti ripercussioni non solo sulle potenzialità di sviluppo dello stessocomparto chimico, ma anche dell’intero apparato industriale italiano, posto che la ricer-ca scientifica in questa direzione rappresentava ormai dovunque un fattore strategico aifini dell’innovazione dei processi produttivi.” I contributi rifluiti nel volume, cui siaccennerà qui di seguito, rispondono, dunque, all’esigenza di avviare una più approfon-dita ricerca storica, su un tema che sino ad oggi ha trovato un’attenzione limitata ecomunque non adeguata all’importanza che il settore chimico continua a rivestire nellastoria economica europea e mondiale.

Il volume, con l’accurato saggio di Peter Hertner sulle ragioni che hanno portatoal primato dell’industria chimica tedesca tra le due guerre e quello di ampio respiro diRaymond Stokes sullo sviluppo internazionale dell’industria chimica dal 1945 ad oggi,consente di collocare le vicende italiane in un più ampio quadro di riferimento.

I primi sviluppi della chimica italiana sino alla seconda guerra mondiale sono statiricostruiti da Geoffrey Pizzorni. Lo studioso ripercorre analiticamente le fasi della rapi-da ascesa della chimica italiana, che giunge a ricoprire, alla vigilia di quel conflitto,posizioni ragguardevoli nelle graduatorie internazionali. Al tempo stesso evidenzia peròcome si sia rimasti “colpevolmente indietro rispetto alle nazioni più avanzate” nel nonessere riusciti a creare una struttura settoriale maggiormente concentrata e nel non avercostruito un solido rapporto tra ricerca e industria.

All’efficacia della politica economica e della politica industriale quali elementifondamentali del dinamismo dell’industria chimica italiana dagli anni tra le due guerrea quelli del “miracolo economico” sono, invece, dedicate le pagine di Rolf Petri. Que-sti constata come “le fondamenta per il contributo dinamico dell’industria chimica al‘miracolo economico’ si cominciassero a mettere sin dagli anni Trenta.” A suo giudizio,con la politica autarchica si fa strada quella “sostanziale consonanza tra obiettivi politi-ci e obiettivi aziendali almeno delle imprese più grandi” che ritroveremo anche nel

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periodo della ricostruzione e negli anni Cinquanta. A partire dagli anni Trenta, infatti,il protezionismo si coniugherebbe con il trasferimento di nuova tecnologia e con ilrafforzamento della ricerca chimica pubblica e privata. Ed ancora negli anni Cinquanta– nota Petri – “i rapporti tra i maggiori protagonisti venivano non di rado definiti insede politica e con il metodo della mediazione neo-corporativa anziché tramite anonimirapporti di mercato.” Con l’Eni di Enrico Mattei, infine, l’intervento dello Stato nonsolo sarebbe persistito ma si sarebbe rafforzato. Con l’aiuto di questi strumenti la gran-de industria chimica avrebbe, dunque, saputo cogliere le inaudite opportunità di cre-scita offerte in quegli anni dalla dinamica della domanda e dalla reintegrazione dei mer-cati internazionali.

Tale sinergia tra iniziativa privata e pubblica è stata esemplificata da un protagoni-sta del settore come Gino Pagano, che ha ricostruito le vicende dell’Anic, AzendaNazionale Idrogenerazione Combustibili, da lui presieduta, che venne costituita nel1936 dalla Montecatini in joint-venture con l’Agip e l’Aipa e che realizzò gli impiantipetrolchimici d’avanguardia di Ravenna e Pisticci.

Nel quadro del rapida crescita del settore petrolchimico mondiale, Angelo Maioliha documentato l’evoluzione della chimica italiana degli idrocarburi tra gli anni Cin-quanta e Settanta. Da un lato la sua relazione mette in luce il decisivo impulso fornitoallo sviluppo del settore da grandi imprese come Montecatini, Eni ed Edison; dall’altro,delinea i precoci elementi di debolezza e di difficoltà del settore nel mantenersi al passocon la nuova frontiera tecnologica che i principali gruppi stranieri andavano definendo.All’origine vi sarebbe “un’assimilazione ancora troppo incompleta della complessitàdelle relazioni sistematiche implicite nella moderna industria petrolchimica.” Da qui, lacarenza di sinergie tra il settore energetico e quello chimico nonché “l’assenza di unadeguato coordinamento tra il mondo della ricerca, quello della produzione chimica-industriale, le imprese utilizzatrici e le autorità politiche responsabili della politica eco-nomica.”

Sulla crisi dell’industria chimica negli anni ’70 si è invece soffermata Vera Zamagniche ha ben chiarito come questa non sia attribuibile allo shock petrolifero. Dal suointervento emerge piuttosto un complesso quadro di concause: eccesso di capacità pro-duttive della chimica di base a seguito delle politiche di sviluppo del Mezzogiorno; maanche il livello di indebitamento del tutto eccezionale dell’impero di Rovelli dovuto alleadduzioni con cui era stato costruito; o ancora, il grave contrasto tra Eni e Montedison;ed infine, gli errati interventi istituzionali, quali i pareri di conformità del Cipe nel legit-timare presso le banche decisioni di finanziamento, indipendentemente dalle garanziaofferte. E qui la Zamagni individua l’ambiguità in cui si dibatteva parte della classe diri-gente del nostro paese, che ignorava quanto la Montedison fosse l’unico grande grup-po chimico capace di competere sul piano internazionale.

L’epilogo di questa vicenda è il “lungo addio” dell’industria chimica italiana, comesottolineato da Giorgio Petroni e Ivo Dormio, la cui tesi di fondo è che “nel periodoimmediatamente precedente la nascita della Montedison, e nei primi anni della sua con-duzione, fossero già presenti i germi della grave malattia” che ha portato al declino del-l’intero settore: dalle errate diversificazioni produttive; a inconciliabili culture tecnico-organizzative che avevano accompagnato la fusione tra Edison e Montecatini; sino alle

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pesanti interferenze politiche a favore di risultati economici di breve periodo a discapi-to di virtuosi percorsi d’innovazione. Ciò avrebbe reso marginali gli importanti risulta-ti della ricerca applicata in Italia di metà Novecento.

A tali processi chimici innovativi è dedicata la rassegna di Italo Pasquon e Ales-sandra Beretta che prendono in esame il contributo di Fauser alla chimica dell’azoto,quello di De Nora ai processi elettrochimici e quello di Natta nel campo dei polimeri.

Sull’importanza strategica del rapporto tra ricerca e industria si sono soffermatianche due protagonisti del settore quali Umberto Colombo e Giuseppe Lanzavecchia.A fronte di una ricerca italiana e soprattutto della Montedison particolarmente avanza-te ed in grado di consentire al settore di rimanere tra i principali attori internazionali,ci si sarebbe però scontrati con esiti rinunciatari, dovuti al rifiuto incontrato nei verticidi questa grande azienda nazionale. L’incapacità d’innovare nonostante i successi dellaricerca sarebbe, quindi, ascrivibile a questa linea di condotta imprenditoriale che avreb-be la meglio ancora oggi e che, timorosa delle nuove frontiere della chimica, si volge-rebbe alle scelte del passato.

Ed è proprio la carenza di cultura industriale a tornare in primo piano nell’inter-vento di Sergio Cavallone come una delle principali cause del declino dell’industria chi-mica nazionale. Al centro della sua analisi vi sono la Montedison e le distorsioni dellecommistioni tra pubblico e privato. Lo studioso si rifà all’ingresso nella compagineazionaria Montedison dell’Eni, fulcro delle “partecipazioni statali” nell’industria e, perdi più, suo principale concorrente. Questa anomalo intreccio tra pubblico e privatosarebbe quindi degenerato in una cultura industriale tesa a scaricare su altri i rischi diimpresa, a non farsi carico di iniziative “incerte e costose” come la ricerca applicata, perprivilegiare progetti politici apparentemente meno onerosi, che avrebbero portato ilsettore all’agonia.

Fin qui le pagine dedicate alla ricostruzione storica; seguono e completano il volu-me gli interventi della tavola rotonda su “Potenzialità e nuove direttrici d’impegno dellachimica italiana” che ha concluso il simposio di studio mettendo a confronto economi-sti, storici e operatori del settore come Angelo Caloia, Luigi Cerreti, Rosario Alessan-drello, Franco Amatori, Vittorio Maglia e Francesco Traina. La pubblicazione degli attiappare dunque particolarmente opportuna “in un momento come questo in cui l’inte-ra compagine dell’industria italiana sta attraversando una fase molto delicata di ristrut-turazione, dalla quale emerge una preoccupante perdita di competitività che non puòessere ricondotta alla scomparsa di quel patrimonio tecnologico e culturale” rappresen-tato dall’industria chimica italiana.

ALESSANDRO GNAVI

J. D. SACHS, La fine della povertà, Mondadori, Milano, 2005.

Jeffrey Sachs è uno dei principali economisti a livello mondiale: direttore del-l’Earth Institute della Columbia University e consigliere speciale del segretario genera-le delle Nazioni Unite Kofi Annan, è stato consulente economico di diversi governi e

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istituzioni internazionali. Non stupisce dunque che il suo ultimo libro, di caratteredivulgativo, The End of Povertà, (I edizione novembre 2005), tradotto in Italia dallaMondatori, abbia suscitato un ampio dibattito, suscitando tanto commenti positiviquanto critici. L’obiettivo del libro è ambizioso: “vuole contribuire a mostrare la stradaverso un futuro di pace e di prosperità, fondato su una precisa conoscenza di come ilmondo è arrivato al punto in cui si trova oggi e di come, nei prossimi venti anni, lanostra generazione può mobilitare le proprie capacità per eliminare quel che resta dellapovertà estrema”. Testo di riferimento per l’economia dello sviluppo, espone le tesi difondo su dati ed esperienze, senza preclusioni ideologiche, utilizzando sia Adam Smithche Keynes. Ma anche testo di riferimento per quanti, fautori e contrari, si confrontanoi temi legati alla globalizzazione. Il volume spiega bene come la riduzione della povertàpassi obbligatoriamente per il mercato e l’apertura agli scambi internazionali, capaci diinstaurare processi virtuosi; nondimeno, con una molteplicità di esempi, dimostraquanto la sola l’apertura di un’economia al mondo possa anche tradursi in nuova emar-ginazione. La tesi di fondo sviluppa, quindi, la necessità di una globalizzazione illumi-nata, non del consolidamento dei confini nazionali. E quando il mercato da solo non èin grado di far intraprendere la via verso la prosperità, la via indicata è comunque quel-la del rafforzamento dell’integrazione economica internazionale e del multilateralismo,attraverso, ad esempio, un aumento massiccio degli aiuti internazionali o la riduzionedelle barriere doganali dei paesi ricchi. Nella appassionata e rigorosa analisi di Sachsrifluisce la sua pluriennale ricerca accademica ma anche e soprattutto una conoscenzadiretta dei problemi. L’autore negli ultimi decenni si è, infatti, impegnato nella lottaall’iperinflazione e nella transizione all’economia di mercato di paesi ex comunisti afianco di capi di Stato, ministri delle finanze e della sanità in decine di paesi come Boli-via, Polonia, Cina, Russia, India e in numerosi Stati africani; ha, inoltre, diretto il comi-tato che ha redatto i cosiddetti Obiettivi di sviluppo per il millennio presentati dall’O-NU nel 2000 ed adottati da tutti i paesi membri delle Nazioni Unite. Ora, con questolibro, illustra le sue strategie per eliminare la povertà estrema entro il 2025.

L’autore parte dalla constatazione che John Maynard Keynes, riflettendo sulla disa-strosa situazione creatasi con la grande depressione, tenne, nel 1930, una conferenzadal titolo: Le possibilità economiche dei nostri nipoti. In un epoca di marcate difficoltàeconomiche, immaginava che i suoi nipoti negli ultimi anni del Novecento avrebberovisto la fine della povertà in Gran Bretagna e negli altri paesi industriali. Keynes pone-va l’accento sulle possibilità offerte dalla scienza e dalla tecnologia, e sulle capacità delprogresso economico di stimolare una “crescita economica duratura a un tasso di cre-scita composto: una crescita sufficiente a risolvere l’annoso ‘problema economico’ diavere abbastanza da mangiare e un reddito sufficiente a soddisfare gli altri bisogni fon-damentali.” Sachs nota che ai nostri giorni nei Paesi ricchi la povertà estrema non esi-ste più mentre sta scomparendo anche da quelli a reddito medio. Facendo, dunque,appello alla stessa logica di Keynes, asserisce che “si può porre termine alla povertàestrema ben prima che nascano i nostri nipoti, ovvero nel nostro tempo. Secondo l’au-tore le risorse dei Paesi ricchi e l’immenso patrimonio delle conoscenze accumulate,assieme alla progressiva riduzione delle aree che necessitano di aiuto per uscire dall’in-digenza, rendono possibile la fine della povertà entro il 2025.

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Lo sviluppo per Sachs è inteso come “modernizzazione”, ossia “come il progressi-vo passaggio da un’agricoltura di sussistenza a un’industrializzazione leggera e all’urba-nizzazione, e poi ai servizi ad alta tecnologia.” Riprendendo alcune ipotesi avanzatedagli storici dell’economia sulle condizioni che hanno permesso la rivoluzione indu-striale in Inghilterra, disegna una mappa concettuale della crescita economica degli ulti-mi duecento anni a livello mondiale. Afferma che il vantaggio della Gran Bretagnarisultava dalla combinazione di fattori sociali, politici e geografici: società relativamen-te libera e politicamente stabile; dinamicità del pensiero scientifico; posizione geografi-ca propizia al commercio; agricoltura produttiva e disponibilità di fonti di energia. Lamancata combinazione di tali fattori in altre parti del mondo – aggiunge - ha ritardatoil loro ingresso nell’epoca della moderna crescita economica, lasciandone sino ad oggiescluse le più svantaggiate. Pur rifuggendo dal determinismo, l’economista individuanella geografia fisica e nella localizzazione delle attività economiche l’influenza piùprofonda sulle possibilità di sviluppo di un Paese. In tale prospettiva, l’autore analizzala diffusione della crescita economica moderna lungo tre linee principali. La primaandava dall’Inghilterra alle sue colonie in Nord America, Australia e Nuova Zelanda,dove il clima temperato permise lo stabilirsi di attività agricole ed economiche simili aquelle della Gran Bretagna. La seconda partì dai Paesi dell’Europa Nord occidentaleche si affacciano sull’Oceano Atlantico e beneficiarono, per questo, dell’espansione deitraffici commerciali con le Americhe e l’Asia; essi, inoltre, godettero di una maggioredisponibilità di risorse naturali e di condizioni sociali e politiche post-feudali, oltre chedi una minore esposizione a malattie endemiche tipiche dei climi tropicali. L’ultimadirettrice portò la crescita economica dall’Europa all’America Latina, all’Africa e all’A-sia: si è trattato qui di un processo tumultuoso, caratterizzato da oppressione coloniale,scelte politiche sbagliate, quali protezionismo e statalismo, e segnato da problematichederivanti da barriere geografiche in una concomitanza di problemi rappresentati daclima, produzione alimentare, malattie, risorse energetiche, topografia e lontananza daimercati mondiali.

In questa chiave, Sachs spiega l’attuale tragica situazione africana, riconducibileall’isolamento geografico, alle malattie e alla vulnerabilità di fronte agli shock climatici,causa di carestie ed epidemie, in un sovrapporsi di fattori che impediscono di accumu-lare e reinvestire per il sovrappiù. L’Africa - nota inoltre - ha pochi fiumi navigabili, e,pur essendo il secondo continente per grandezza, è quello con il minor perimetrocostiero; rari sono, infine, i punti adatti alla creazione di porti: condizioni, tutte, alta-mente sfavorevoli al commercio. Queste situazioni disagiate si perpetuano tramite le“trappole della povertà”: la lotta quotidiana per alimentarsi impedisce di accumularecapitale per costruire strade o acquistare medicine e zanzariere per contrastare la mala-ria, mentre i governi locali sono latitanti. Così non c’è margine da investire per il futu-ro e la povertà, letteralmente, intrappola. Secondo Sachs l’aiuto internazionale deve,quindi, concentrarsi prioritariamente contro queste trappole. Dire che l’Africa ha biso-gno di commercio e non di aiuti è, a suo avviso, falso. L’Africa ha bisogno di commer-cio e di aiuti. Qui l’autore trae una lezione di carattere generale: la povertà estrema nonè eliminabile introducendo buone prassi di governo, politiche di sacrifici sociali o ulte-riori riforme liberiste; le soluzioni interne devono essere accompagnate e spesso prece-

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dute dall’aiuto internazionale. Alla base delle idee di Sachs non vi sono formule omodelli inediti, ma un rovesciamento della prospettiva con cui si analizzano i problemidello sviluppo: la crescita economica non è un presupposto per affermare i diritti civilie politici e per offrire alle persone servizi che permettano loro di curarsi e istruirsi; alcontrario, lo strumento fondamentale per realizzare la crescita economica risiede pro-prio nel migliorare la produttività dell’agricoltura di sussistenza, l’alimentazione, il livel-lo medio di scolarizzazione e della salute pubblica, nonché delle infrastrutture di base.Si tratta, dunque, di aiutare i Paesi più poveri -nei quali la percentuale dei poveri estre-mi supera il 25% della popolazione- ad operare investimenti concreti e di base. TaliPaesi dovrebbero ricevere aiuti continuativi per uno due decenni nella misura di circa60 dollari annui pro capite, per un flusso pari al 20 - 30% del loro prodotto internolordo. Si permetterebbe così ai Paesi riceventi di conquistare stabilmente i primi gradi-ni della scala dello sviluppo. Quest’ultimo, secondo Sachs, una volta avviato, è in gene-rale in grado di procedere autonomamente, poiché “i fattori positivi tendono a influen-zarsi l’un l’altro a ogni successivo passo: uno stock di capitale più consistente, una mag-giore specializzazione, una tecnologia più avanzata, un tasso di fertilità più contenuto.”In tale prospettiva l’autore, mentre auspica che si ridefiniscano priorità ed obiettivi del-l’aiuto allo sviluppo, non risparmia critiche alla metodologia schematica del Fondomonetario e della Banca mondiale, che obbligano a stringere la cinghia anche chi nondispone di una cinghia perché troppo povero. Il limite – commenta - risiede nella con-suetudine di prescrivere una gamma di strumenti estremamente sofisticati della teoriaeconomica senza una conoscenza diretta dei paesi in cui vengono applicati. Di fronte aquesta inadeguata prassi dell’economia dello sviluppo, propone pertanto un nuovometodo, definito “economia clinica”: occorre comportarsi come i medici, che con rigo-re, analisi e pragmatismo, prima di somministrare una cura, valutano le conseguenze,elaborano una diagnosi differenziata, verificano prima le condizioni più probabili, poiquelle più complesse. Gli economisti, insomma, dovrebbero fare come i dottori: “Sesenti rumore di zoccoli, prima pensa a un cavallo e poi a una zebra”. Detto ciò, Sachschiede ai governi dei Paesi ricchi ed alle agenzie internazionali un improrogabile maminimo sforzo: sarebbe sufficiente che il modo ricco mantenesse la promessa di desti-nare allo sviluppo lo 0, 7% del proprio Pil. D’altra parte, argomenta l’economista,“Quasi tutte le nazioni, a un certo punto della loro storia, hanno ricevuto un aiuto: gliStati Uniti hanno ricevuto aiuto dalla Francia durante la guerra d’indipendenza; Euro-pa e Giappone hanno goduto di massicci aiuti americani dopo la seconda guerra mon-diale; lo stesso è accaduto alla Corea del Sud, dieci anni dopo; Israele ha ricevutoingenti aiuti economici dagli Stati Uniti; la Germania e la Polonia hanno visto cancella-ta una parte del loro debito.” E conclude: “Dovremmo guardarci dai nostri estremi dimoralismo ed evitare di ripetere ai paesi poveri, alle società in crisi, alle popolazioni piùvulnerabili di risolvere da soli i propri problemi.”

Per Sachs, la povertà, come l’ambiente, è un problema globale. Per questo c’èbisogno di risposte globali di cui tutti, ma soprattutto i paesi ricchi, si devono far cari-co. È un imperativo morale. Ma non solo: è anche una priorità politica ed economica.A proposito degli Stati Uniti, l’autore rileva che dopo l’11 settembre si sono concentra-ti unicamente nella lotta al terrorismo: hanno stanziato 450 miliardi di dollari per spese

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1 La ricerca è stata condotta all’interno della disciplina di Storia della finanza d’impresa e deimercati finanziari, materia di insegnamento del docente unitamente a quella di Storia economicada cui ha avuto origine e dalla quale si è elevata ad autonomo insegnamento accademico.

2 Dell’irrilevanza della moneta e delle istituzioni finanziarie nei processi di sviluppo econo-mico si è occupata la scuola monetarista della seconda metà dell’Ottocento che trovava tra le ideedi Hume, Say e Coase i suoi capisaldi; diversamente argomentava la contrapposta corrente dipensiero dei mercantilisti (Petty, Law, Cantillon) che nel Novecento troverà in Schumpeter eKeynes illustri adepti.

militari e solo 15 miliardi di dollari “per sconfiggere le sofferenze dei più poveri, per-sone che vivono in società destabilizzate dalla povertà estrema e che diventano perciòfocolai di fermento sociale, violenza e addirittura terrorismo globale”. Ecco il punto:Sachs avverte che in un mondo integrato l’esistenza di queste aree di indigenza non solorappresenta una freno alla crescita globale, ma anche il possibile innesco di gravi crisi,se non la minaccia alla stessa sicurezza dei paesi del benessere.

ALESSANDRO GNAVI

M. FORNASARI, Finanza d’impresa e sistemi finanziari, Giappichelli, Torino, 2006.

Il volume di M. Fornasari si inserisce in quel percorso di studi di natura storico-finanziaria1 di cui il professore della Facoltà di Economia di Forlì, nel corso degli anni,si è fatto stimato interprete; articolate ed accurate ricostruzioni della storia del creditoe della banca in età moderna e contemporanea, sono frutto delle sue ricerche.

Analizzare gli eventi finanziari che hanno accompagnato e supportato lo sviluppoeconomico dei paesi occidentali per convogliarli e compararli ai processi di finanziariz-zazione delle economie di mercato degli ultimi decenni, è il fine e l’estrema ratio del-l’autore: una sequenza di indagini e di riflessioni sulle peculiari modalità con cui, neidiversi paesi, si sono formate le istituzioni finanziarie.

Dietro la tradizionale contrapposizione tra sistemi finanziari orientati al mercato esistemi che invece esaltano il ruolo degli intermediari creditizi, si cela il diverso radica-mento delle istituzioni: le strutture di governo delle società, con mezzi e modalità diffe-renti, hanno tentato ripetuti interventi per regolare il settore finanziario, instabile edimprevedibile, ed hanno finanziato lo sviluppo e la crescita produttiva dell’industrializ-zazione in età moderna.

Seguendo questo approccio, l’autore vuole dimostrare il ruolo attivo svolto dallafinanza sull’economia reale: l’infondatezza di una concezione che attribuisce alla finan-za una funzione neutra o di mero adattamento all’economia, appare la conclusioneobbligatoria cui viene condotto il lettore2.

L’autore avvia il percorso d’indagine dal basso Medioevo. La sua è una ricerca dicircostanze che, avvicendandosi e concatenandosi, possano ricostruire la plurisecolarestoria delle istituzioni su cui poggiano i moderni sistemi finanziari; allo stesso tempo siravvisa l’intento di individuare, man mano che si presentano sulla scena della storia

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3 Secondo Fornasari: “Il rapporto tra debiti e mezzi propri, vale a dire la struttura della capi-talizzazione dell’impresa o rapporto di leva, appare una funzione non solo di variabili di breve perio-do (il reddito atteso, il livello dei tassi di interesse e così via) ma anche di fattori istituzionali ingrado di far sentire i propri effetti sul medio e lungo periodo”. Inversamente, a generare innovazio-ni sui sistemi istituzionali vi sono, secondo l’autore, quelli che la teoria economica definisce “stan-dard esogeni”:le innovazioni tecnologiche sviluppate dalle imprese, la loro corporate governance, ilmiglioramento delle modalità e dei mezzi di comunicazione (sono solo alcuni dei principali fat-tori tratti dal volume di J.Barron Baskin, P.J. Miranti jr., Storia della finanza d’impresa).

economica occidentale, gli effetti che fattori istituzionali ed ambientali hanno generatosulla struttura di finanziamento delle imprese3.

Il saggio parte dalla disamina delle innovazioni istituzionali nel commercio medieva-le dell’Europa mediterranea e nord-occidentale. In ambito giuridico, tra l’XI e XII sec.,emersero le due fondamentali innovazioni del notariato, che garantì l’efficacia dei con-tratti e contribuì a ridurre l’incertezza nelle transazioni commerciali, e dello ius mercato-rum, anticipatore dell’odierno diritto commerciale, con finalità di disciplinare la costitu-zione delle società commerciali, il loro fallimento e la contabilità obbligatoria. Il sistemamonetario in uso era di tipo dicotomico e vedeva una moneta metallica, con un valoreintrinseco corrispondente alla quantità di fino in essa contenuta ed uno estrinseco o lega-le attribuito ad essa dall’autorità, accanto ad una moneta di conto, la lira o libbra, nonbattuta. Le città-stato italiane, Venezia e Genova, per la necessità di disporre di unamoneta forte non soggetta a svalutazione, coniarono dapprima i “grossi”, multipli dell’o-riginario “denaro” carolingio e, da metà Duecento, monete d’oro, rispettivamente ducatoe genoino: un regime bimetallico dove le monete pregiate, per la loro stabilità, venivanoimpiegate nei commerci internazionali e quelle di scarso pregio per gli scambi quotidiani.Sebbene il credito e le pratiche creditizie fossero attanagliate da pregiudizi morali e reli-giosi, riuscirono a svilupparsi forme istituzionali anticipatrici della banca moderna; i primia svolgerle furono i mercanti, tra essi primeggiavano quelli italiani, i c.d. “lombardi”: ini-ziarono con le operazioni di cambio per poi passare all’accettazione dei depositi, ai giro-conto, alla concessione di prestiti ad interesse ed alla creazione di veri strumenti creditiziquali la lettera di cambio e quella di fiera. Accanto all’impresa individuale, nei grandi cen-tri portuali italiani apparve una struttura organizzativa più complessa, la commenda osocietas, impostata sulla suddivisione della gestione degli affari tipica della modernasocietà in accomandita; il suo declino iniziò nel XIV sec. quando un esempio precoce dicapitalismo familiare, o di primordiale società in nome collettivo, faceva il suo ingresso: lacompagnia. La crisi del Trecento ebbe gravi ripercussioni sulle maggiori compagnie com-merciali e bancarie italiane. Nel Quattrocento prese nuovamente slancio la società inaccomandita che trovò codificazione commerciale in numerose città e che vide nel Bancodei Medici di Firenze, con le sue filiali giuridicamente autonome, la più celebre potenzafinanziaria foriera di una moderna holding.

La società per azioni fece la sua apparizione solo in età moderna. Le s.p.a. delbasso medioevo (come ad es. la Casa di San Giorgio) non possono definirsi dichiarata-mente tali per il motivo precipuo di possedere azioni non cedibili e non negoziabili sulmercato: sorgeranno alla fine del Cinquecento, quando, per l’espansione coloniale nelle

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4 Funzione precipua dei banchi pubblici era quella di raccogliere il risparmio per convo-gliarlo verso i prestiti allo Stato. La loro creazione si ha sin dal XV sec., col Banco di Barcellonae con quello di S. Giorgio di Genova, ma iniziarono ad espandersi con maggiore celerità, a par-tire dagli Stati della penisola italiana, dalla metà del Cinquecento.

5 Le country banks, banche di provincia, pur concedendo credito a breve termine, ebberol’importante compito di stabilire nessi di collegamento tra il centro londinese e le periferie: irisparmi, per lo più delle comunità rurali, venivano trasferiti nelle mani dei bill brokers, agenti dicambio, e da essi agli imprenditori delle nascenti zone industriali attraverso lo sconto cambiario.

6 Il mercato azionario continuava ad essere dominato dalla contrattazione di titoli del debi-to pubblico a causa principalmente delle guerre napoleoniche e degli ostacoli alla costituzione disocietà per azioni dovuti al Buble Act del 1720.

Indie Orientali ed Occidentali, le grandi compagnie commerciali di Olanda, Inghilter-ra e Francia cominciarono a raccogliere denaro tra i risparmiatori emettendo azioni condiritto ad un dividendo annuo sugli utili e negoziabili sui nascenti mercati finanziari;furono le azioni delle compagnie commerciali e le obbligazioni statali a dar vita, nelXVII sec., ai mercati finanziari pubblici. Esperienze precedenti possono farsi risalirealle fiere medievali, ma la prima borsa moderna, dove i beni venivano scambiati senzaessere realmente presenti, fu quella fondata, nel 1531, ad Anversa. Punto strategico peril commercio coloniale portoghese, Anversa raggiunse posizioni di primato nel mercatomonetario e cambiario; un modello di borsa che ispirò quelle sorte successivamente edin particolare quella di Amsterdam che, aperta nel 1609, ne offuscò la stessa suprema-zia. La Borsa di Amsterdam si contraddistinse per le complesse e raffinate transazionifinanziarie: tecniche di copertura dei rischi che ridiedero fiducia ai risparmiatori redu-ci di quella che fu definita come la “prima bolla speculativa della storia” provocata, nel1637, dalla c.d. “mania dei tulipani”. Dal 1680, i mutamenti politici europei portaronoall’emergere di Londra come principale centro finanziario e alla fondazione, nel 1694,della Banca d’Inghilterra. Il modello al quale si ispirarono i fondatori della Banca diInghilterra fu, con molta probabilità, il Banco Giro di Venezia, un banco pubblico4

creato nel 1619 attraverso il quale il debito dello Stato poteva trovare circolazione alloscoperto (c.d. circolazione fiduciaria); si trattava dunque di obbligazioni governativeche funzionavano alla stregua delle “fedi di credito” emesse dai banchi pubblici napo-letani. In questi ultimi due casi si può collocare la nascita della moneta bancaria: laBanca d’Inghilterra fu creata con l’intento di finanziare il governo inglese alla continuaricerca di risorse per contrastare la rivalità militare francese. La lievitazione del debitopubblico inglese non si limitò al solo collocamento sulla borsa londinese ma si spinsefino alla sua conversione in azioni: si trattava della c.d. “pratica dell’innesto” che fuall’origine del crack borsistico inglese del 1720 e, pochi mesi prima, di quello franceseavvenuto per il fallimento del sistema di John Law. Se la fiducia nella finanza pubblicainglese si restaurò grazie al sostegno della Banca d’Inghilterra, in Francia, al contrario,fu tale l’avversione verso la carta moneta da portare alla sostituzione, tra Sette ed Otto-cento, del notariato al sistema bancario.

Secondo l’autore, in quel periodo, gli intermediari finanziari5 ed il mercato deicapitali6 svolsero un ruolo modesto nel finanziamento alle imprese inglesi: il carattere

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7 Sono due indicatori economici individuati dall’economista americano R.W. Goldsmith peranalizzare la finanziarizzazione dei sistemi economici. Il FIR (Financial Interrelation Ratio) indi-ca il grado di diffusione degli strumenti finanziari ed è dato dal rapporto tra le Attività finanzia-rie sul Pil a prezzi correnti; il FIN (Financial Intermedation Ratio) è indicatore dell’importanzaassunta dagli intermediari in un determinato sistema finanziario essendo calcolato come rappor-to tra le Attività degli intermediari finanziari e le Passività del sistema.

spontaneo e la gradualità della prima rivoluzione industriale permisero alle loro neces-sità di finanziamento di trovare appagamento attraverso risorse familiari e reinvesti-mento dei profitti, autofinanziamento. Con l’intensificarsi della produzione, però, leesigenze di finanziamento si moltiplicarono così, affinchè le società per azioni si potes-sero moltiplicare, si abolì il Buble Act. L’intento fu colto in primis dalle società ferro-viarie. Dagli anni venti dell’Ottocento, le iniziative ferroviarie, che godevano del soste-gno governativo, iniziarono ad attrarre i risparmi di tutti i ceti sociali, una speculazioneche trovò tragico epilogo nel 1847: una gigantesca somma di denaro venne distrutta ela causa va ricondotta principalmente alla scarsa presenza delle banche nel collocamen-to dei titoli. Negli interventi correttivi, disposti successivamente, si possono individua-re alcune fra le più moderne forme di conduzione manageriale che servirono a fornireal mondo occidentale un modello di funzionamento del capitalismo industriale che néil mercato mobiliare né le banche furono in grado di finanziare in modo efficiente: ildeposito annuale dei bilanci, l’obbligo di divulgazione delle informazioni finanziarie, lariduzione delle asimmetrie informative, la responsabilità limitata, l’integrazione tra mer-cati finanziari, la nascita delle azioni privilegiate. Il settore industriale inglese si conso-lidò ma, a fine Ottocento, perse la sua posizione di leadership mondiale; l’inadeguatez-za del sistema finanziario inglese si manifestò alla vigilia della Grande Guerra e si ina-sprì con la crisi del 1929. Difficoltà, quelle della struttura industriale inglese, che per-durarono fino a quando nuove opportunità di recupero si intravidero, nei primi anniOttanta, con le politiche neoliberiste del governo Thatcher.

Nel proseguo della sua trattazione, Fornasari si rifà all’andamento assunto dal FIRe dal FIN7 tra Ottocento e Novecento nei principali paesi industrializzati. Le differen-ti forme di finanziarizzazione di quel periodo furono l’effetto della duplice posizioneassunta nei sistemi finanziari: una, più conservativa, tipica del sistema giapponese, ger-manico ed italiano, vedeva le istituzioni bancarie dominare i mercati; l’altra, più traspa-rente, efficiente e concorrenziale, assegnava un ruolo attivo al mercato nei sistemi sta-tunitensi ed inglesi. Una contrapposizione che vedeva i monetaristi sostenere la supe-riorità dei sistemi orientati al mercato, affermazione rafforzata dal teorema di Modi-gliani-Miller del 1958, definito pure corollario della teoria monetarista, in cui si dichia-rava la naturale prevaricazione dei mercati più efficienti e trasparenti sulle banche. Didiverso avviso è l’autore che, nel rapporto banche e mercati, ritrova una relazione dicomplementarità e non di succedaneità.

Caso esemplare di sistema finanziario orientato al mercato appare quello statuni-tense tra Ottocento e Novecento. In un periodo contrassegnato da una grande depres-sione, da una sanguinosa guerra civile, ma anche da una proficua seconda rivoluzioneindustriale, gli Stati Uniti d’America vissero dapprima la formazione di trusts e poi di

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floride società finanziarie, le holdings. Giunte al loro culmine negli anni Venti del Nove-cento, le holdings indussero a modificare la forma organizzativa delle imprese portandoalla separazione della proprietà dalla gestione; la domanda di finanziamento si indi-rizzò, principalmente, al mercato dei capitali e, da quel momento, la forma organizzati-va privilegiata sarà quella della s.p.a. con azioni quotate alla borsa di New York. Sigiunge a quello che viene definito “orientamento al mercato”, ovvero, uno sviluppoimpetuoso dei mercati finanziari che decreta il successo di investment strust e brokers.L’euforia finanziaria degli anni Venti si trasformò in speculazione conclusasi, tristemen-te, con il crollo di Wall Street nel 1929. Inevitabili furono i c.d. Securities Acts, regolevolte a disciplinare i rapporti tra società ed azionisti, e la nascita della SEC (SecuritiesExchange Commission) al fine di controllare e monitorare il mercato azionario.

Dal secondo dopoguerra e fino all’inizio degli anni Settanta, il capitalismo indu-striale americano fu dominato dalle “imprese chiave” o center firms. Caratterizzate daun’accentuata integrazione verticale e da una inclinazione oligopolistica, le impresechiavi scontarono gli effetti delle politiche di regolazione avviate all’inizio degli anniTrenta: di fronte ad un sistema bancario incapace di garantire adeguato sostegno finan-ziario alle imprese e ad un mercato azionario in lenta ripresa, il management aziendaledovette ricorrere all’autofinanziamento, alle emissioni obbligazionarie ed al mercatodell’eurodollaro; queste misure furono necessarie fino a quando i progressi nelle fontiinformative e nella standardizzazione della contabilità non portarono ad una ripresa delmercato finanziario. I benefici effetti della teoria keynesiana sulle imprese chiavi termi-narono quando, a seguito della crisi degli anni Settanta, si passò da una politica di rego-lamentazione ad una di deregolamentazione o deregulation: voluta dall’amministrazionereaganiana, la liberalizzazione investì il mercato finanziario, il settore bancario e la poli-tica fiscale; condizioni che giovarono al consolidamento tra imprese, anche tra quellecon differenti attività produttive, e che portarono alla formazione delle società conglo-merate, ovvero gruppi di imprese che riuscirono a dominare il mercato fino alla finedegli anni Settanta, quando, per le difficoltà connesse ad una gestione sinergica, furonosostituite dalle Leverage Buy-Outs (LBO). Gli LBO ed i relativi junk bonds, appariro-no attraenti per l’altezza degli interessi corrisposti e per il loro rimborso puntuale a sca-denza, ma, nel 1987, per il sopraggiungere di fattori che ne rallentavano lo smobilizzo,su di essi si scatenò il pubblico discredito; sarà la globalizzazione degli anni Novanta,con l’esplosione della New Economy, ad assicurare la crescita inarrestabile dell’econo-mia americana e ad alimentare nuovi fenomeni speculativi fino al tragico epilogo del2000 per i clamorosi scandali di frode finanziaria.

L’autore analizza altresì i fattori che hanno portato all’adozione di sistemi finanzia-ri dominati dalla presenza degli istituti di credito. Il primo paese a passare in rassegnaè la Germania. La frammentazione politico-istituzionale di inizio Ottocento, si dimo-strò un forte ostacolo alla creazione di una robusta economia di mercato. Essenziale ful’azione svolta dai banchieri privati e dalle società bancarie per azioni nel drenare ilrisparmio verso i settori produttivi, in particolare verso quello minerario, mentre orga-nismi creditizi minori, per lo più a base cooperativa, contribuirono a diffondere il cre-dito tra i ceti agricoli e urbani. La“via bancaria allo sviluppo”, come si esprime l’autore,si mostrerà essenziale al finanziamento del nascente apparato industriale germanico,

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almeno fino a quando l’unificazione del 1871 non determinò il superamento della suaarretratezza economica. Lo sviluppo economico si arrestò con la “Grande Depressio-ne”. Come reazione alla caduta dei prezzi, le imprese adottarono la via dei cartelli, tro-vando sostegno in quegli istituti di credito misto (tra le principali, le c.d. “4D”) che,oltre alla concessione del credito mobiliare, ne acquistavano i pacchetti azionari condi-zionandone le scelte manageriali attraverso la loro massiccia presenza all’interno deiConsigli dei supervisori. Paradossalmente, sul finire dell’Ottocento, il sostegno dellebanche miste finì per avvantaggiare quelle imprese che trovavano nel reinvestimentodei profitti, l’autofinanziamento, motivo di emancipazione; tra le due guerre mondialila tendenza si invertì e furono le stesse imprese ad assorbire gli istituti finanziatori. Ilruolo di sostegno delle banche all’economia del paese non terminò; all’indomani dellaprima guerra mondiale, essenziale fu il loro sostegno alla finanza pubblica e durante ilpotere nazista furono all’apice del processo di arianizzazione delle imprese ebraiche. Lacentralità dell’azione svolta dagli intermediari finanziari nel finanziamento al sistemaeconomico tedesco, viene mantenuta anche durante il secondo dopoguerra e la debo-lezza del mercato dei capitali è il motivo di questo suo perpetrarsi.

Come in quello tedesco, anche nel sistema finanziario giapponese le banche occu-parono una posizione dominante nel finanziamento del sistema produttivo. Alla finedell’Ottocento, il sistema bancario, ed in particolare la Banca del Giappone creata sumodello delle banche centrali europee, avviò un lungo processo d’industrializzazioneche portò il Giappone ad emergere sugli altri paesi del Pacifico. Le banche erano pre-senti negli zaibatsu, gruppi finanziari nelle mani di grandi famiglie, alle quali fornivanoliquidità sopperendo alla debolezza del mercato interno; fondamentali si rivelarono, traOttocento e Novecento, nell’intessere prepotenti espansioni coloniali. Lo smantella-mento degli zaibatsu divenne il principale obiettivo delle forze di occupazione alla finedella seconda guerra mondiale; la speranza della creazione di un sistema di mercato fallìnei primi anni Cinquanta e gli zaibatsu riemersero attraverso forme di integrazione ver-ticale ed orizzontale tra imprese denominandosi keiretsu. Attraverso il sistema dellabanca principale (main bank system), quasi tutte le imprese giapponesi, grandi e picco-le, si dotarono di una banca finanziatrice di riferimento; il fenomeno contribuì alla for-midabile crescita economica giapponese degli anni Sessanta ma non poté fronteggiaregli sconvolgimenti segnati dallo shock petrolifero di quegli anni. La riorganizzazioneproduttiva orientata al mercato degli anni Ottanta, il toyotismo, riuscì ad apportarestraordinari risultati all’economia giapponese, ma la secolare dipendenza delle impresealle banche restò immutata e si palesò, con drammatici effetti, negli anni Novanta conil crollo della borsa di Tokio.

Un caso intermedio viene definito dall’autore quello della Francia tra Ottocento eNovecento; come dimostrano i dati relativi all’andamento del FIN, in tale periodomeno incalzante fu il ruolo delle istituzioni finanziarie e creditizie nel processo di indu-strializzazione. La nascita, nel 1852, del Crédit Mobilier, che godeva dell’appoggio diNapoleone III, si dimostrò decisiva per il sostegno finanziario delle grandi società, inmisura particolare per quelle operanti nel settore ferroviario e mercantile, e divennemotivo di emulazione per altri istituti di credito che si proiettarono all’esclusivo svilup-po industriale (il Crédit Industriel et Commercial nel 1859, il Crédit Lyonnais nel 1863,

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la Société Générale nel 1864); le eccessive immobilizzazioni in investimenti rischiosifurono all’origine della chiusura del Crédit, nel 1867, mentre la sconfitta militareimpartita dalla Prussia, con le sue considerevoli ripercussioni sul sistema industriale, siriflesse sulle altre banche miste che, per questo, scelsero di trasformarsi in banche dideposito. Tra fine Ottocento ed inizio Novecento, nuovi organismi assunsero il ruolo difinanziatori delle imprese, fra esse si distinsero la Banque de Paris et Pay-Bas (Paribas) ela Banque de l’Union Parisienne, le c.d. grandi banche d’affari; l’accesso al credito deglioperatori minori fu garantito dalle nascenti banques populaires. Tutte le fragilità delsistema bancario francese emersero con le difficoltà causate dal primo conflitto mon-diale e con la crisi del 1929: le imprese furono costrette a finanziarsi in misura crescen-te sul mercato mobiliare e, principalmente, a ricorrere all’autofinanziamento. Una rigi-da disciplina creditizia, alla fine della seconda guerra mondiale, portò alla nazionalizza-zione dei principali istituti di credito e ad una suddivisione dei compiti tra banche dideposito e banche di investimento; il ruolo di finanziatrici riprenderà, a partire daglianni Settanta, quando le banche francesi, venendo nuovamente coinvolte nelle attivitàdelle imprese, si porranno in sostituzione di buona parte dell’autofinanziamento fino adallora operato.

Il discorso sul sistema finanziario italiano si colloca in una plurisecolare tradizionebancocentrica cominciata, fin dal Medioevo, con le banche private e i banchi pubblici,per poi giungere alla creazione di più moderni istituti bancari privati negli stati pre-uni-tari. La ragione alla base dell’eccessiva ingerenza degli intermediari bancari nel finan-ziamento del sistema economico italiano va attribuita ad una struttura borsistica graci-le: sino agli inizi del Novecento, una pluralità di mercati mobiliari, scarsamente inte-grati, sintomo della frammentazione politica pre-unitaria, dove a dominare erano i tito-li del debito pubblico in grado di spiazzare il finanziamento imprenditoriale. Nel siste-ma bancario post-unitario, banche di emissione e sconto affiancavano banchieri privatied istituti di credito mobiliare; sino agli anni Trenta del Novecento, furono le banchemiste, le casse di risparmio e le banche popolari a dominare il finanziamento industria-le. Si può analizzare questa tendenza attraverso una suddivisione in due poli, quellodelle banche di emissione e delle banche private e quello degli istituti di risparmio ebanche popolari; per essi G. Conti ha individuato una duplice logica operativa di finan-ziamento delle imprese la cui sintesi viene riportata nel testo. Nel primo polo, forte fuil sostegno dei sei istituti di emissione, che fino alla legge bancaria del 1893 godetterodel privilegio di emissione, alle attività produttive; gli istituti di credito ordinario simostrarono, inizialmente, estranei al finanziamento industriale, ma furono, successiva-mente, coinvolte dalle iniziative delle società immobiliari fino alla disastrosa crisi edili-zia degli anni Novanta che determinò il loro fallimento e la loro sostituzione con le ban-che miste tedesche. Il secondo polo si mostrò decisivo nell’indirizzare risorse verso ini-ziative minori: entrambe di origine tedesca ed animate, rispettivamente, da intenti filan-tropici e cooperativistici, le casse di risparmio e le banche popolari ottennero la fiduciadelle comunità locali e delle amministrazioni pubbliche. Quanto alle grandi banchemiste menzionate, fondamentale fu il loro apporto nel sostenere le operazioni di ricapi-talizzazione, fusione ed emissione di azioni delle imprese; la tecnica del riporto, checonsentiva l’acquisto temporaneo di quelle azioni che non trovavano collocamento sul

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8 Gli istituti di credito speciale allora operanti erano: l’IMI, l’ICIPU, il CREDIOP, l’ISVEI-MER, le sezioni autonome degli Istituti di credito di diritto pubblico (ad es. la sezione Creditoindustriale della BNL) e gli altri istituti di credito industriale di natura privatistici.

mercato, consentì loro di rafforzare il controllo sulle società finanziate. La crisi econo-mica e finanziaria del 1907 rivelò i rischi di liquidità delle banche miste; la Banca d’I-talia promosse la formazione di un consorzio di banche, così, nel 1914, per iniziativadelle banche d’emissione e di alcune casse di risparmio, nacque il CSVI (ConsorzioSovvenzioni su Valori Industriali) come canale alternativo alle banche miste nel finan-ziamento industriale. Un’altra crisi, quella del primo dopoguerra, accentuò la concor-renza tra le grandi banche, inducendole ad assumere rischi ancora maggiori nellesocietà cui erano legate; a rimetterci furono la BIS, trascinata dal fallimento dell’Ansal-do, ed il Banco di Roma, salvato prodigiosamente dal CSVI. Ad aggravare la già diffi-cile situazione si inserì il crollo borsistico del 1925 (la conseguenza delle misure atte acontenere le speculazioni approvate dal ministro De Stefani) e la politica deflazionisti-ca del 1926, la c.d. quota novanta. I provvedimenti adottati dal governo fascista, comerimedio alla situazione creatasi, vennero contenuti in una complessa legge bancariaemanata nel 1926. Si instaurò con essa un vero e proprio dirigismo nel settore crediti-zio che trovò consolidamento con l’ulteriore legge bancaria del 1936 che, emessa afronte della crisi degli anni Trenta, determinò anche la fine della banca mista. Le BINo, volendo, le tre ex-banche miste, ritrovatesi a praticare il credito a breve termine, ten-tarono di affiancare gli istituti di credito speciale8 nel finanziamento industriale, crean-do un’istituzione autonoma: Mediobanca. Superata la crisi degli anni Trenta, Menichel-la, l’allora governatore della Banca d’Italia, in perfetta armonia con il suo predecessoreStringher, si mostrò a favore dell’espansione delle banche minori, in particolare dellecooperative e delle casse di risparmio; questa propensione fu eseguita, prima, dall’I-spettorato, che limitò l’apertura degli sportelli delle banche maggiori a beneficio degliistituti locali, e poi dal CICR, che, dopo la seconda guerra mondiale, lo sostituì. Gliincentivi a favore delle banche locali, voluti dal governo centrista, conferirono alle cassedi risparmio la gestione dei fondi speciali per il credito agevolato alle piccole e medieimprese e portarono alla loro definitiva trasformazione, unitamente a quella delle ban-che popolari, in aziende di credito a tutti gli effetti. L’autore rileva il grande sostegnosvolto da queste due ultime per lo sviluppo del sistema industriale italiano del secondodopoguerra: il principio della specializzazione, sancito dalla legge bancaria del 1936,veniva applicato soprattutto dalle banche maggiori, le banche minori operavano senzalimiti divenendo una sorta di banche miste locali. Il dualismo bancario spinse le impre-se a mettere in concorrenza gli istituti e a ricorrere alla c.d. tecnica del multiaffidamen-to, inoltre, le agevolazioni a pioggia, distribuite scelleratamente dallo Stato attraversogli istituti di credito speciale di diritto pubblico, resero sempre meno attraente il lorofinanziamento attraverso strumenti azionari ed obbligazionari; la disaffezione verso laborsa si inasprì, nel 1962, con la nazionalizzazione delle società elettriche e perduròanche in seguito alla crisi petrolifera del 1973, quando il ricorso all’indebitamento ban-cario si impennò. A soluzione del “declino del capitale di rischio”, come lo definisce

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l’autore, intervenne, negli anni Settanta, l’allora governatore della Banca d’Italia, GuidoCarli, che propose la conversione di una parte del credito bancario in capitale dirischio; Ciampi, negli anni Ottanta, si mosse sulla scia del suo predecessore e favorì,oltre alla concorrenza tra le banche, il c.d. “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia. Ildefinitivo crollo della legge bancaria del 1936 si ha, nel 1992, con l’introduzione dellabanca universale e, nello stesso anno, iniziano le trasformazioni delle imprese pubblichein società per azioni secondo il piano di riassetto delle partecipazioni statali varato dalgoverno Amato. A conclusione della sua disamina, l’autore rileva come la proprietàbancocentrica del sistema italiano sia ancora fortissima, a differenza di quello tedescodove il debito bancario, nel corso di un decennio, si è drasticamente ridotto: gli effettinegativi di una simile posizione si sono rivelati tragicamente con le recenti vicende diCirio e Parmalat.

ROSA CARROTTA

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G. ALBERGONI, I mestieri delle lettere tra istituzioni e mercato. Vivere e scrivere a Mila-no nella prima metà dell’Ottocento, Franco Angeli, Milano, 2006.

Il volume ricostruisce, attraverso una molteplicità di percorsi individuali, le traiettorieprofessionali dei protagonisti del mondo letterario milanese della Repubblica italiana(1802) al Quarantotto. Si mette così in evidenza come i letterati, sospesi tra la fine delmecenatismo e l’inadeguatezza del mercato editoriale, pur in espansione, siano costretti adintraprendere strategie professionali ancora dipendenti, in larga misura, dalla mano pub-blica, laica ed ecclesiastica. Con dovizia di esempi concreti e una fitta trama di vicende bio-grafiche, l’autore fornisce un quadro ricco e variegato della realtà pubblicistica dell’epoca,analizzando in particolare il filo rosso che lega i percorsi individuali allo “spazio pubblico”,investendo le dimensioni più diverse, dalla scrittura alla politica. Servendosi di un metodointerdisciplinare che abbraccia storia, sociologia e statistica, lo studio varia il punto diosservazione allo scopo di integrare diversi piani di analisi: la prima parte del volume, chesi avvale di una inedita rielaborazione quantitativa, si integra così con le due parti restantinelle quali prevale una più accurata ricostruzione delle biografie dei protagonisti del sotto-bosco letterario milanese, popolato da impiegati e insegnanti alla ricerca del “posto” e da“magri razzolatori di carte” al servizio degli editori.

Alberto Borioni e il suo tempo. Atti del Convegno del 2 dicembre 2005, GEI – GruppoEditoriale Informazione, Jesi, 2006.

Alberto Borioni, uomo della cultura e della scuola, personaggio illuminato e distraordinario respiro sociale e politico, è stato una delle personalità più significative del-l’antifascismo e del socialismo marchigiano. Indice del volume: P. R. FANESI: AlbertoBorioni: dalla cultura azionista alla militanza socialista; M. SEVERINI: Alberto Borioni: unsindaco del primo centro – sinistra; F. CHIAPPARONO – M. MORONI: La Cassa di Rispar-mio di Jesi negli anni della presidenza Borioni (1980-1994).

A. AMOROSO, Parlano i centenari. Vita e valori della gente molisana nel Novecento,Cosmo Iannone Editore, Isernia, 2005.

Questo libro è il risultato di quanto la ricerca sul campo sui centenari ha fornito allaricercatrice, che non si è risparmiata nel raccogliere ogni minima notizia di ogni singolo

1 Questa rubrica, curata da Felice Fiorentino, raccoglie la presentazione, pubblicata sulretro della copertina, dei libri di nuova edizione.

V. DALLA COPERTINA

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intervistato: il commento e l’analisi sociologica sono il compimento di un percorso criticoche solo una grande professionista amante della sua gente, come Angela Amoroso, pote-va realizzare. Lo studio nasce dalla volontà di tratteggiare, partendo da un’indagine ditipo qualitativo (socio – psicologica), un secolo nella provincia di Campobasso. Ma, aldilàdei contenuti di segno strettamente storico e antropologico, l’intenzione è stata quella dievidenziare, attraverso la ricostruzione dell’itinerario della vita di un campione di perso-ne che ha vissuto da protagonista tutto il Novecento come, in quale misura e con qualiconseguenze un secolo, caratterizzato da una forte accelerazione nei mutamenti sociali,economici e dei costumi, abbia influenzato un popolo particolarmente forte e coeso sulpiano della cultura e delle tradizioni, come quello molisano. L’analisi dell’intervista “esi-stenziale” e “culturale – sociologica” è spesso accompagnata da citazioni di brani di inter-viste a supporto vivo di quanto asserito e ad ogni intervistato è dedicato, in chiusura delvolume, un ritratto personale, che arricchisce la parte più strettamente saggistica col colo-re del racconto. Il lavoro della Amoroso rappresenta un modello di ricerca sociologicacapace di descrivere le condizioni di vita, la cultura e i valori della gente del Molise vis-suta a cavallo di due secoli, dalla fine dell’Ottocento a tutto il Novecento. È la realtà deinostri padri che si legge come un racconto.

ARTIGIANCASSA, Rapporto sul credito e sulla ricchezza finanziaria delle imprese artigiane,Edizione 2005, Istituto Nazionale per la Comunicazione, Roma, 2006.

Artigiancassa ha saputo dare al “Rapporto” una identità che va al di là del suovalore puramente scientifico, fornendo di volta in volta spunti di riflessione e creandospazi di discussione e di approfondimento. Questo perché il “Rapporto”, di anno inanno, ha continuamente affinato i propri contenuti, trasformandosi da semplice “qua-derno di appunti” ad opera di consultazione e conoscenza, da conservare e utilizzare;numerosissime sono le citazioni da esso tratte che, in questi dieci anni, abbiamo trova-to in dichiarazioni, articoli, studi, ecc. Per la decima edizione, abbiamo rivisto anche laveste grafica del volume, dando maggiore risalto alle parti di commento testuale, cheora accompagnano le tabelle e i grafici cui si riferiscono; abbiamo aumentato lo spaziodedicato ai dati regionali, che riscuotono un grande interesse, e, più in generale, cisiamo sforzati di adottare soluzioni tali da consentire una fruizione più immediata del“Rapporto”.

F. ASSANTE – M. DE LUCA – G. MUTO – S. DE MAJO – R. PARISI (a cura di), Ferrovie etranvie in Campania. Dalla Napoli – Portici alla Metropolitana regionale, GianniniEditore, Napoli, 2006.

Indice del volume: A. RIZZARDI: Presentazione; E. CASCETTA: Prefazione; F.ASSANTE – M. DE LUCA – G. MUTO: Introduzione; S. DE MAJO: Dalla Bayard alla Diret-tissima. Storia della rivoluzione ferroviaria in Campania. 1830 – 1927; D. CIRELLA: Perun’analisi quantitativa del movimento ferroviario in Campania. 1861 – 1930; L. CIULLO:

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I protagonisti delle prime ferrovie complementari campane: uomini e società anonime; F.ASSANTE: Per una storia dei trasporti urbani a Napoli: municipalizzazione e potere delcapitale straniero; A. FERRANTE: Tra passato e futuro. Il ruolo dell’Ente Autonomo Vol-turno nel settore dei trasporti; P. LACONTE – A. MUSSO: Mobilità e trasporti nelle cittàeuropee; M. DE LUCA – B. DISCEPOLO: L’evoluzione dell’assetto dell’area napoletana e losviluppo dei trasporti nella seconda metà del Novecento; D. MAZZAMURRO – A. NUZZO-LO: Scenari futuri della rete ferroviaria in Campania; R. MERCURIO – L. MOSCHERA: L’in-dustria ferrotranviaria a Napoli e in Campania; C. FRANCO: La Campania verso il prima-to del trasporto collettivo. Schede e materiali: D. CIRELLA: Una famiglia di pionieri: iMelisurgo; R. PARISI: Paesaggi ferroviari – Gallerie – I ponti ferroviari – Le locomotive –Architettura ferroviaria: le stazioni; F. VIOLA: Le stazioni di Napoli Centrale – Le Offici-ne Ferroviarie di Napoli – Prospettive e strategie per il riuso delle ferrovie dismesse inCampania; G. SALVIETTI: Il treno dell’unità d’Italia – Il tetracielo De Santo – Vaporieraaddio!; Indice dei nomi; Indice delle linee e delle tratte; Indice delle società.

P.F. ASSO – S. NEROZZI, Storia dell’ABI. L’Associazione Bancaria Italiana 1944 – 1972,Bancaria Editrice, Roma, 2006.

Nel settembre 1945, a pochi mesi dalla Liberazione e dopo una intensa opera dipreparazione iniziata in clandestinità durante l’occupazione e la guerra, viene fondata aRoma l’Associazione Bancaria Italiana. Quali ragioni hanno motivato la nascita dell’A-BI e quali finalità hanno ispirato la sua azione nel secondo dopoguerra? Quale ruolo hasvolto l’ABI nel processo di sviluppo del Paese? In quali direzioni essa ha cercato difavorire il cambiamento e la modernizzazione del sistema bancario e quali assetti, pras-si, interessi consolidati essa ha invece cercato di difendere? Quali servizi l’ABI è statain grado di fornire all’universo delle associate? Quale contributo essa ha dato alla cre-scita e alla diffusione della cultura bancaria ed economica in Italia? Sono queste alcunedelle domande sollevate dal volume Storia dell’ABI 1944 – 1972 di Pier Francesco Assoe Sebastiano Nerozzi. I due autori esaminano le vicende dell’ABI dal secondo dopo-guerra agli anni Settanta, periodo coincidente con la presidenza di Stefano Siglienti.Grazie al ricorso ad un’ampia serie di fonti inedite, in gran parte conservate nell’Archi-vio Storico dell’ABI, il volume costituisce un contributo originale alla conoscenza dellevicende politiche ed economiche del nostro Paese negli anni della Ricostruzione e delmiracolo economico.

ASSOCIAZIONE STUDI E RICERCHE PER IL MEZZOGIORNO, L’internazionalizzazione delleimprese e dei distretti meridionali del nuovo scenario di competizione globale: il casodella Campania, Alfredo Guida Editore, Napoli, 2006.

Il Rapporto, realizzato congiuntamente dall’Associazione Studi e Ricerche per ilMezzogiorno e dall’Istituto Affari Internazionali, prende in esame le dinamiche diinternazionalizzazione dei sistemi produttivi campani. Il Rapporto offre una disamina

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delle tendenze di medio e lungo periodo delle esportazioni campane e della loro spe-cializzazione settoriale, analizza i processi di internazionalizzazione produttiva e lenuove forme di presenza internazionale delle imprese campane, ed infine presenta irisultati di due indagini sul campo realizzate nei distretti regionali della concia e delleconserve.

L. BALDISSARA (a cura di), Democrazia e conflitto. Il sindacato e il consolidamento dellademocrazia negli anni Cinquanta (Italia, Emilia – Romagna), Franco Angeli, Mila-no, 2006.

Tra gli anni Quaranta e i Cinquanta la giovane democrazia repubblicana muovei propri incerti passi nel contesto di una difficile situazione economica e di una sem-pre più aspra contrapposizione di schieramenti interni ed internazionali. Le relazionitra lavoratori e imprenditori, tra sindacato e governo, costituiscono un terreno su cuiricostruire e misurare le caratteristiche e le modalità del processo di democratizzazio-ne della società e dello Stato dell’Italia postfascista. I lavoratori italiani, e in partico-lare la classe operaia di fabbrica, avevano garantito un contributo determinante allacrisi di regime del fascismo, e tra il 1943 e il 1945 avevano nutrito speranze di rinno-vamento della società italiana. Negli anni della Costituente avevano riaffermato conforza la volontà di vedere riconosciuti i propri diritti di cittadinanza politica e socia-le, avevano rivendicato con decisione la propria legittimazione a partecipare alle scel-te di governo della società, alla costruzione di un democrazia non solo formale, mapienamente realizzata in campo politico e sociale. Nel giro di pochi anni queste aspi-razioni si scontrano con una diversa concezione di democrazia, dalle ascendenze poli-tiche e culturali lontane. Riemergono alla fine degli anni Quaranta i tratti di unavisione gerarchica dei rapporti di lavoro e venata di sfumature neocorporative sulpiano politico – istituzionale, che nega la piena legittimità del conflitto sociale e delleistanze di democratizzazione provenienti dal movimento operaio. Nella prima metàdegli anni Cinquanta ciò condurrà ad un aspro conflitto, con costi sociali e umanigravosi: migliaia di licenziamenti, scontri nelle piazze con vittime, indurimento dellecondizioni di vita e lavoro. D’altro canto, ciò spingerà alla formulazione di ipotesi di“democrazia protetta” e a ventilare la possibilità di una limitazione dei diritti politicie sindacali sanciti nella Costituzione. Il volume, restituendo queste vicende alla lorocomplessità storica, garantisce materiali e riflessioni che riconducono gli anni Cin-quanta alla storia del paese.

G.P. BARBETTA – F. MAGGIO, Non profit. Il nuovo volto della società civile, Il Mulino,Bologna, 2002.

Un fatturato che sfiora ormai i 40 miliardi di Euro, quasi 700 mila occupati, oltre220 mila organizzazioni attive negli ambiti più svariati (assistenza, istruzione, ambiente,sanità, cultura, ricerca scientifica, sviluppo economico), una tipologia giuridica che spa-

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zia dalle organizzazioni di volontariato alle cooperative sociali, dalle fondazioni alleorganizzazioni non governative, dalle associazioni di promozione sociale ai comitati: è ilsettore non profit, altrimenti definito terzo settore, privato sociale, economia civile,terzo sistema, ecc. Un settore che, come già da tempo a livello internazionale, anche inItalia va acquisendo un peso sempre più rilevante. Questo volume fornisce una panora-mica del variegato continente non profit, della sua evoluzione e dei suoi rapporti con lasocietà civile.

A. BASSI, Principi generali della riforma delle società cooperative, Giuffré Editore, Mila-no, 2004.

Indice del volume: Capitolo Primo: Il Governo è delegato ad adottare la riformaorganica delle società cooperative …: 1. Breve presentazione della riforma. I prece-denti, 2. Il mutamento di prospettive della legge di delega 3 ottobre 2001, n. 366, 3.Le soluzioni del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 6, 4. La ragione per la qualela riforma delle cooperative è stata accolta con favore. Necessità di uno studio deisuoi principi generali; Capitolo Secondo: … Novellando ove possibile le disposizionidel codice civile: 1. Il riscatto del valore scientifico degli studi sulla mutualità, 2. Larivalutazione della centralità del codice dopo sessanta anni di leggi speciali. La fugadal codice, 3. A proposito di fughe dal codice: il caso delle banche di credito coope-rativo, delle banche popolari e dei consorzi agrari; Capitolo Terzo: La riforma è ispi-rata ai seguenti principi generali …: 1. Ampliare gli ambiti dell’autonomia statutaria,2. “Favorendo il perseguimento dello scopo mutualistico e valorizzandone i relativiistituti”. Le non facili scelte tra diritti dei soci, interessi della società e aspirazioni delmovimento cooperativo; Capitolo Quarto: … Assicurare il perseguimento dello scopomutualistico: 1. La nuova definizione della società cooperativa, 2. Scopo mutualisticodei soci e funzione sociale della società, 3. Il controllo sul rispetto dello scopo mutua-listico e della funzione sociale. La eliminazione del controllo giudiziario, 4. (Segue): iconflitti interni tra soci e società visti attraverso la più recente giurisprudenza con-tenziosa, 5. (Segue): la parità di trattamento e la mutualità “diseguale” della Cassa-zione, 6. Finalmente i ristorni!, 7. Il collegamento tra contratto di società e contrattodi scambio mutualistico dopo la riforma. In particolare, la sorte dei rapporti mutua-listici in caso di recesso ed esclusione del socio; Capitolo Quinto: ... Prevedere normeche favoriscano l’apertura della compagine sociale: 1. Scopo mutualistico e variabilitàdel capitale, 2. Alcune riflessioni sulla variabilità del capitale; Capitolo Sesto: …Disciplinare la cooperazione costituzionalmente riconosciuta: 1. La unitarietà delladisciplina e il significato di questa espressione, 2. La mutualità “di sistema”: una cate-goria scientificamente inesatta e praticamente pericolosa, 3. La unitarietà e le odiernediverse possibilità di gradazioni della mutualità: le cooperative a “mutualità pura”, 4.Le cooperative “a mutualità prevalente”, 5. Le cooperative “diverse”, 6. Lo scopo dilucro nelle cooperative dopo la riforma, 7. (Segue): i finanziatori, 8. (Segue): le riser-ve e la loro distribuzione, 9. Il problema delle agevolazioni, 10. Il non semplice dirit-to transitorio.

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C. BERMOND, Riccardo Gualino finanziere e imprenditore. Un protagonista dell’economiaitaliana del Novecento, Centro Studi Piemontesi, Torino, 2005.

Indice del volume: Introduzione; Fonti archivistiche; Abbreviazioni; 1. Il debuttonegli affari in Italia e in Europa e le prime difficoltà finanziarie, 1905 – 1914; 2. Il rien-tro in campo imprenditoriale con lo sfruttamento delle opportunità belliche, 1914 – 1922;3. Un quinquennio di successi negli anni di consolidamento del regime fascista, 1922 –1926; 4. L’inizio del declino in seguito alla rivalutazione della lira, 1926 – 1929; 5. Il tra-collo della Banca agricola italiana al manifestarsi della grande crisi, 1929 – 1931; 6. L’ar-resto, il confino e lo smembramento del gruppo, 1931 – 1934; 7. Un lascito di rilievo almondo bancario e industriale; 8. Il nuovo rientro nel mondo degli affari tra fascismo erepubblica, 1934 – 1964; 9. Il collezionismo, il mecenatismo e la promozione di attivitàartistiche e culturali; Conclusioni; Appendice documentaria; Bibliografia; Indici.

M. BIANCO, L’industria italiana. Numeri, peculiarità, politiche della nostra economiaindustriale, Il Mulino, Bologna, 2003.

Quale è lo stato di salute dell’industria in Italia? Quali quote di mercato detienenell’economia globale? Come risponde alle sfide della concorrenza internazionale?Dopo alcuni cenni storici e dati quantitativi, il volume disegna le caratteristiche delnostro peculiare modello di sviluppo e ne discute i vincoli e le opportunità: la preva-lenza della piccola impresa e dei distretti, la specializzazione produttiva e geografica, idivari territoriali, la proprietà e il controllo delle imprese in un capitalismo a conduzio-ne familiare. L’ultima parte del libro è dedicata all’impatto della new economy sulleimprese italiane e alle politiche industriali – relative a infrastrutture, finanza, diritto del-l’impresa, concorrenza – che sono perseguibili nel nuovo quadro europeo.

P. BINI – A.M. FUSCO (a cura di), Umberto Ricci (1879-1946). Economista militante euomo combattivo, Edizioni Polistampa, Firenze, 2004.

Quella di Umberto Ricci è una figura di intellettuale che si staglia nel panoramanovecentesco degli studi di economia per la sua vigoria scientifica e per la combattivitàdimostrata nel campo delle ideologie e delle decisioni politiche. In questo libro noveautori ricostruiscono i vari aspetti della sua ricca personalità di studioso e di uomo civil-mente impegnato. Oltre a quelle dei curatori, gli scritti che qui compaiono portano lefirme di Luigino Bruni (Università di Milano-Bicocca), Domenico da Empoli (Univer-sità La Sapienza di Roma), Domenicantonio Fausto (Università di Napoli “FedericoII”), Guglielmo Forges Davanzati (Università di Lecce), Aldo Montesano (Università L.Bocconi di Milano), Riccardo Realfonzo (Università del Sannio), Gianfranco Tusset(Università di Padova). Essi hanno messo in luce ora l’acutezza dello specialista, ora laforza dissacrante di chi non rinunciò mai a fare della libertà di pensiero e di espressio-ne – anche durante il regime fascista, ricevendone dure sanzioni – una irrinunciabile

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conquista. Delle molteplici problematiche tra cui Ricci si lasciò attrarre nella sua vita dieconomista, in questo volume vengono trattate le più rilevanti: il rapporto tra economiapura ed economia applicata; l’analisi dell’equilibrio economico e della domanda; lanatura del capitale; la relazione risparmio – moneta – ciclo; la finanza pubblica; le sta-tistiche internazionali; la politica economica e il ruolo da lui svolto come economicadviser al fine di fissare le regole e approssimare gli ideali dell’economia di mercato.Liberale in politica, marginalista in economia, egli si è di continuo scontrato con orien-tamenti divergenti dai suoi, spesso rimanendo isolato. Ma la sua versatilità, da unaparte, la forte tempra scientifica, dall’altra, ne hanno fatto un personaggio dalla ricor-rente attualità, che avvince e appassiona. Di qui, le ragioni di fondo di una ricerca digruppo che consegna a questo libro i suoi esiti più significativi.

A. BON, Abbiate fede … il domani sarà meraviglioso, Edizioni Progetto Cultura, 2003.

Questa autobiografia, scritta con stile semplice e delicato, narra della vita di unragazzo che ha avuto il coraggio di ricorrere al prisma analitico per conoscere la propriacomplessità …. Credo che siffatte esperienze costituiscano un importante esempio eduno sprone per tutti noi ….

A. BONOLDI – A. LEONARDI (a cura di), La rinascita economica dell’Europa. Il pianoMarshall e l’area alpina, Franco Angeli, Milano, 2006.

Oggi gli storici concordano ampiamente sul fatto che le scelte politiche ed econo-miche degli anni dell’immediato secondo dopoguerra siano state decisive nel porre lebasi per lo straordinario sviluppo delle società occidentali. Uno degli interventi piùsignificativi in questo senso fu senz’altro il piano Marshall, o European Recovery Pro-gram, grazie al quale gli Stati Uniti contribuirono alla ripresa delle economie europeestremate dal conflitto, offrendo un significativo impulso sia alla rivitalizzazione degliscambi internazionali sia alla formazione delle istituzioni comunitarie europee. Anche lediverse regioni alpine furono coinvolte in questo processo, con tempi, modalità e accen-ti peculiari. Di ciò si intende dare ragione nel presente volume, che si apre con unaparte introduttiva sulla natura e sul funzionamento del piano e sulle traiettorie di svi-luppo dell’area alpina, cui fa seguito la presentazione di alcune fonti di particolare inte-resse per lo studio del periodo. Ampio spazio viene poi riservato a una serie di saggi,che analizzano diversi aspetti della ripresa economica nelle regioni alpine. Si tratta delrisultato di un confronto tra studiosi francesi, svizzeri, austriaci e italiani, che si inseri-sce in un programma di collaborazione storiografica avviato presso la Facoltà di Eco-nomia dell’Università degli Studi di Trento da oltre un decennio.

L. CANNARI – S. CHIRI – M. OMICCIOLI (a cura di), Imprese o intermediari? Aspettifinanziari e commerciali del credito tra imprese in Italia, Il Mulino, Bologna, 2005.

Il pagamento dilazionato è di gran lunga la modalità più frequente di regolazionedelle transazioni commerciali in Italia. Termini di credito contrattuali e ritardi nei paga-menti sono tra i più lunghi in Europa. Nei bilanci delle imprese italiane l’importo dei

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debiti versi i fornitori supera quello del debito a breve termine verso le banche. D’altraparte, i crediti nei confronti dei clienti costituiscono una delle più importanti forme digaranzia utilizzate dalle imprese per ottenere credito bancario a breve scadenza; sono lamateria prima delle operazioni di factoring. L’ampia diffusione del credito commercia-le rappresenta una spia dell’arretratezza e dell’inefficienza del sistema finanziario?Oppure è influenzata dalle caratteristiche strutturali del nostro sistema produttivo? Ein che misura influenza a sua volta i rapporti tra banche e imprese e le modalità di tra-smissione della politica monetaria? L’inefficienza della giustizia civile, infine, gioca afavore del credito bancario o di quello commerciale? I lavori presentati in questo volu-me si propongono di rispondere a tali domande, analizzando i motivi e le conseguenzedell’ampio ricorso al credito commerciale nella realtà italiana.

M.L. CAVALCANTI, Competitività territoriale: la Campania. Le radici e il domani. Econo-mia, Alfredo Guida Editore, Napoli, 2006.

Nel volume la storia dell’economia campana dall’unità d’Italia ai giorni nostri siincentra su due grandi questioni: la costruzione, nel tempo di un’identità regionale chein origine non esisteva e che può dirsi, seppur parzialmente, raggiunta, e il “destinoindustriale” di Napoli. Su questo secondo tema, dopo avere esposto le tappe fonda-mentali dello sviluppo industriale napoletano, l’autrice conclude che il “destino indu-striale” fu un progetto esogeno, frutto di scelte esterne o dell’intervento statale e cheper tale motivo non si è radicato al territorio né ha mostrato capacità autopropulsive.Anche perché le maggiori iniziative della borghesia napoletana hanno sempre privile-giato l’intermediazione commerciale e finanziaria. Ciò vale per la grande industria, nonper la piccola che ha antiche tradizioni e che mostra ancora grande vitalità. In conclu-sione: la progettazione del futuro non può prescindere dalla conoscenza del passato checi trasmette il monito di tutelare, promuovere e potenziare le risorse umane e la cultu-ra incamerate nelle competenze presenti.

CESIT (CENTRO STUDI E RICERCHE SISTEMI DI TRASPORTO COLLETTIVO), Le capacità e lecompetenze dell’industria ferrotranviaria della provincia di Napoli, Editoriale Scien-tifica, Napoli, 2005.

Il presente volume riporta i risultati di una ricerca condotta dal Cesit e finanziatadall’Unione degli Industriali della Provincia di Napoli e dalla Camera di Commercio diNapoli sul comparto dell’industria ferrotranviaria in Campania, una delle realtà pro-duttive più rilevanti del sistema economico regionale. L’analisi, che ha avuto un approc-cio empirico – applicativo, è stata diretta alla rilevazione delle caratteristiche dell’indu-stria ferrotranviaria nella provincia di Napoli ed alla verifica della struttura, delle dina-miche e delle problematiche strategiche ed operative del settore, con particolare atten-zione ai fenomeni connessi alla innovazione tecnologica e di mercato. La ricerca inten-de fornire un contributo conoscitivo utile alla più chiara definizione di nuove strategie

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di sviluppo industriale, allo scopo di evidenziare le opportunità di creazione di collega-menti tra le realtà produttive esistenti, soprattutto per la realizzazione di sinergie traoperatori di diversa dimensione. Lo studio è stato coordinato da Riccardo Mercurio eda Stefano Consiglio ed ha visto la partecipazione di Paolo De Vita, Luigi Moschera eMario Pezzillo.

C. CIANCIO, Fiere, mercati e vie di comunicazione. La legislazione napoleonica nel Regnodi Napoli (1806 – 1815), Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2006.

Questo studio ricostruisce i provvedimenti adottati dai governi di Giuseppe Bona-parte e Gioacchino Murat in materia di raduni commerciali, nel convincimento che unarealistica politica di promozione del commercio interno, oltre alla istituzione di nuovefiere e mercati, si dovesse associare al potenziamento delle vie di comunicazione e delleinfrastrutture necessarie ad inserire i nuovi raduni in un circuito efficace di scambi edoccasioni di nuovi traffici. L’indagine trova un suo spazio di originalità nell’uso dellefonti documentarie reperite presso gli Archivi di Napoli e Parigi. Nell’ampio contestodegli studi sul Mezzogiorno, il saggio si colloca trasversalmente agli ambiti del diritto edell’economia, mettendo in relazione gli obiettivi economici dei Napoleonidi con glistrumenti giuridici da loro impiegati.

M.L. CICALESE – A. MUSI (a cura di), L’Italia delle cento città. Dalla dominazione spa-gnola all’unità nazionale, Franco Angeli, Milano, 2005.

Il rapporto Nord – Sud nell’Italia moderna e contemporanea è stato affrontatodalla storiografia seguendo vari metodi di indagine e collegando secondo prospettivediverse i dati. Nei saggi che qui si pubblicano, nati come relazioni per due seminari, equindi snelli nell’apparato critico, agili nella rapidità del discorso, pur nel rispetto diuna metodologia storicamente rigorosa, il problema è stato trattato in due modi diver-si. Da un lato ci si è riferiti all’Italia delle cento città, partendo dal momento e dallefigure della prima costruzione dell’identità nazionale dopo l’Unità per arrivare agli inizidel periodo repubblicano. Dall’altro è stato realizzato un confronto tra il Ducato diMilano e il Regno di Napoli nell’Italia spagnola, focalizzando l’attenzione sulle duecategorie di sistema imperiale e sottosistema Italia. Il dibattito storiografico che emergepertanto dall’insieme di questi studi rivela un incontro tra Milano e il Mezzogiorno, maanche tra Milano e il resto del mondo, sui versanti della storiografia politica, istituzio-nale, economica e sociale.

M. CIOTTI, Economie del mare. Costruzioni navali, commercio, navigazione e pesca nellaMarca meridionale in età moderna, Quaderni di “Proposte e Ricerche”, Ancona,2005.

Sulla scorta di un’ampia documentazione archivistica, l’autrice ripercorre le tappedi sviluppo economico e sociale delle comunità della costa meridionale della Marca,

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attraverso l’analisi delle trasformazioni delle tecniche di navigazione e di pesca tra XVIIe XVIII secolo. In tale direzione, l’osservatorio delle costruzioni navali e dei traffici,nonché le evoluzioni e le modifiche intervenute nel corso dell’età moderna nelle tipolo-gie di naviglio, grazie ai proficui interscambi tecnici, culturali e commerciali con altrerealtà adriatiche, rappresentano una prospettiva privilegiata per delineare il compositoquadro delle economie di costa e, in esse, il ruolo avuto dal mare quale principale fat-tore di sviluppo nel processo di specializzazione e crescita dei centri marittimi dellaMarca meridionale. Sarà, infatti, nel corso del Settecento con la ripresa dei traffici com-merciali e dietro la spinta di molteplici sollecitazioni, prime fra tutte quelle derivantidall’incremento demografico, che i centri della fascia costiera si trasformeranno in poliaggreganti della popolazione in esubero che muove dalle campagne e dai centri collina-ri e montani. Con l’aumento demografico cresce proporzionalmente anche la domandadi beni alimentari che spinge a forzare la produzione agricola nelle campagne e solleci-ta lo sviluppo di altre produzioni primarie come la pesca. Lo studio analizza i fattoritecnici, demografici e socioeconomici che furono alla base della crescita economicadelle comunità rivierasche e dello sviluppo delle attività marittime legate al commerciodei prodotti agricoli e alla produzione alieutica. Ma sarà soprattutto nel settore tradi-zionalmente marginale dell’economia marittima, interessato nella seconda metà delXVIII secolo da profonde trasformazioni tecniche, economiche e sociali, destinate acaratterizzarne a lungo la struttura produttiva, che larga parte della popolazione costie-ra troverà redditi ed occupazione non disponibili altrove.

G. CUCINOTTA – L. NIERI, Le assicurazioni. La gestione del rischio in un’economiamoderna, Il Mulino, Bologna, 2005.

La nostra casa può essere danneggiata, la nostra auto può essere rubata, noi stessipossiamo involontariamente causare danni ad altri o rimanere vittime di incidenti o dimalattie: l’incertezza e il rischio costituiscono una componente imprescindibile dellanostra vita. Ma quale comportamento possono adottare i singoli individui e le imprese difronte al rischio? Questo volume ci aiuta a capire la funzione delle assicurazioni in unasocietà moderna: RC auto, assicurazioni sulla vita e contro i danni fanno ormai parte dellanostra vita quotidiana e ci consentono di ridurre le incertezze e di attenuare l’entità deirischi a cui siamo di continuo esposti. Ma quali sono le coperture assicurative disponibilinel mercato, come operano le imprese di assicurazione, come stabiliscono il prezzo di unapolizza e l’entità dell’indennizzo, quali sono le loro strategie di investimento? E da chi ecome sono regolamentate? Un quadro d’insieme, con luci e ombre, utile per tutti coloroche desiderano comprendere il funzionamento del settore assicurativo.

B. CURLI (a cura di), Donne imprenditrici nella storia dell’Umbria. Ipotesi e percorsi diricerca, Franco Angeli, Milano, 2005.

Il volume ha l’obiettivo di valorizzare la dimensione regionale dello sviluppo dell’im-prenditorialità femminile in prospettiva storica, proponendo ipotesi e materiali che riguar-

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dano il contesto dell’Umbria. Si tratta di prime, originali, indicazioni di ricerca su un tema– la storia dell’imprenditoria delle donne – ancora largamente inesplorato. Facendo ricor-so a metodologie, competenze e fonti diverse (archivi pubblici, di famiglie e di persone,archivi di impresa e delle camere di commercio, carte sui fallimenti del Tribunale, dati del-l’Anagrafe, interviste biografiche, censimenti demografici e industriali oltre a stampa, opu-scoli, materiale fotografico e pubblicitario) il volume ricostruisce storicamente l’imprendi-toria delle donne nella regione a seconda dei settori, della dimensione e della tipologia diimpresa, di temi storiografici dibattuti: il rapporto tra famiglia e impresa, il passaggio dallaproprietà della terra alla “imprenditorialità” nell’industria e nei servizi, il rapporto tra “cul-ture” di impresa, tradizioni e “identità” produttive locali e trasformazioni del territorioumbro in epoca contemporanea, l’associazionismo imprenditoriale femminile. Sono staticosì valorizzati, tra l’altro, figure di imprenditrici significative e percorsi di formazione diun “sapere fare” femminile, in diversi settori e aree del territorio regionale che offrono unaprima misura della potenzialità in termini di temi, suggestioni e spunti di ricerca che unostudio storico sulle donne imprenditrici comporta.

M. DE LUCIA, Industrie, agricoltura e credito nello sviluppo economico della Svizzera(1800 – 1940), Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2005.

Il testo ripercorre l’andamento dell’economia svizzera per oltre un secolo, cioèdagli inizi della rivoluzione industriale dei primi decenni dell’Ottocento, fino alla vigi-lia della seconda guerra mondiale. Durante tale periodo la produzione industriale sviz-zera aumentò notevolmente ed attivò importanti flussi di scambio con l’Europa ed ilresto del mondo. Le tradizionali manifatture del settore tessile, di quello metallurgico emeccanico, di quello dell’orologeria si andarono sviluppando grazie alla buon disponi-bilità di capitale, alla qualificazione della manodopera ed all’innovazione tecnologica. Atale tipo di sviluppo si unì quello del settore lattiero – caseario, con l’esportazione dellatte, del burro, dei formaggi e del prodotti cioccolatieri. Durante il periodo considera-to, inoltre, la diffusione e poi la più organica distribuzione delle nuove fonti di energiacome il gas, i derivati del petrolio e naturalmente l’energia elettrica si estese a quasi tuttii settori produttivi e riuscì a garantire un più alto grado di sviluppo, sia nelle lavorazio-ni tradizionali che in quelle maggiormente innovative. La forte dinamica delle vie dicomunicazione terrestri, ferroviarie, lacustri ed aeronautiche permise poi ai cantonisvizzeri di mantenere in vita e sviluppare le vie del traffico e del commercio interno edestero. L’ammodernamento poi dei mezzi di trasporto diede forte impulso al movimen-to dei viaggiatori e alla promozione delle attività turistiche, contribuendo così al gene-rale miglioramento delle condizioni di vita e del benessere della popolazione.

L. DE ROSA, Il Banco di Napoli tra fascismo e guerra (1926-1943), Tipolitografia “I.Farella S.N.C.”, Napoli, 2005.

Indice del volume: Capitolo Primo: La transizione da istituto di emissione a istitutodi credito ordinario. Da Nicola Miraglia a Luigi Pace: 1. I progressi della gestione Mira-glia; 2. La crisi economica degli anni 1925 – 1926; 3. Istituto di credito di diritto pub-

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blico; 4. Il Comm. Pace Commissario straordinario al Banco; 5. Il Comm. Pace e Mira-glia; 6. Il Collegio commissariale; 7. La diminuzione dei depositi; 8. Il Fondo per la pro-pulsione economica; 9. La persistenza della crisi; 10. La crisi industriale e il Banco; 11.L’espansione territoriale come strumento per aumentare i depositi; 12. Nuovi tipi didepositi e aumento del tasso d’interesse; 13. Nuovi tipi di impieghi; 14. Trasferimenti didirigenti e aumento di redditività delle filiali; 15. Nuovo Statuto del Banco e nuovoorganico; 16. I limiti all’operato del Collegio commissariale; 17. Un bilancio dellagestione commissariale. Capitolo II: Nomina di Frignani a direttore generale e riorganiz-zazione del Banco (1927-1929): 1. Il controllo del Sottosegretario Frignani (1927-1929);2. Per la nomina del Direttore generale; 3. Frignani Direttore generale; 4. La redistri-buzione del personale direttivo; 5. La trasformazione degli uffici; 6. La preparazionedel Regolamento; 7. Verso una nuova pianta organica; 8. La crisi della “quota novanta”;9. Il ruolo del Banco secondo Mussolini e secondo Frignani; 10. Alla ricerca di mag-giori disponibilità; 11. L’espansione in Puglia; 12. L’espansione in Campania e ancoranella Puglia; 13. L’espansione in Basilicata, Calabria, Abruzzi e Molise; 14. L’espansio-ne al di fuori del Mezzogiorno continentale; 15. Rinvio del completamento della retedelle agenzie; 16. La concentrazione di casse di risparmio ordinario nel Mezzogiorno;17. La situazione creditizia provinciale; 18. Le casse assorbite dalla Cassa del Banco.Capitolo III: Frignani e la crisi della “quota novanta”: 1. L’aumento della gamma delleoperazioni; 2. Volpi e Frignani; 3. La riunione con i direttori delle filiali; 4. Il lavoronelle filiali; 5. La riorganizzazione delle filiali; 6. Il conto “stralcio”; 7. Le ManifattureCotoniere Meridionali (M.C.M.); 8. Le Officine Ferroviarie Meridionali; 9. Altre perdi-te nello “Stralcio”; 10. Concordati e sistemazioni di società; 11. Il Fondo di propulsio-ne; 12. Il Credito ai comuni; 13. L’acquisizione della Gazzetta del Mezzogiorno; 14.L’acquisizione de Il Mattino. Capitolo IV: Alla vigilia della grande crisi: 1. La costituzio-ne dell’amministrazione ordinaria; 2. La ripresa del 1928-1929; 3. L’eredità della “quotanovanta”; 4. L’espansione territoriale del Banco e della sua Cassa di Risparmio; 5.Sostegno alle attività economiche meridionali; 6. La crisi delle banche toscane; 7. LaBanca Popolare di Campobasso; 8. La riorganizzazione del Credito agrario; 9. Il Bancoe il credito agrario; 10. Il finanziamento dell’edilizia abitativa; 11. La costituzione dellaBanca Agricola Commerciale del Mezzogiorno; 12. Le filiali negli Stati Uniti; 13. L’isti-tuzione della filiale di Buenos Aires; 14. Il governo e le partecipazioni del Banco. Capi-tolo V: La grande crisi (1929-1934): 1. Frignani e la crisi dell’economia mondiale; 2. LaBanca Agricola Italiana (BAI); 3. La crisi si aggrava; 4. Provvedimenti a favore dell’a-gricoltura; 5. Provvedimenti a favore delle attività industriali; 6. Il mercato dei capitali;7. Il tasso di sconto e la scarsità di impieghi; 8. Il Banco e il cartello bancario; 9. LaCassa di risparmio; 10. Il credito agrario e la crisi; 11. Il finanziamento della proprietàrustica e urbana; 12. L’assorbimento della Cassa di Risparmio Salernitana e del Montedi Pietà di Cagliari; 13. Il Fondo di propulsione economica e la crisi; 14. La crisi e lefiliali americane del Banco; 15. La filiale di Buenos Aires; 16. Le rimesse degli emigra-ti; 17. L’espansione territoriale del Banco; 18. La crisi nel Banco. Capitolo VI: Tra unaguerra e l’altra (1935-1940): 1. La nascita della Corporazione della previdenza e del cre-dito; 2. La rappresentanza del Banco a Roma e la Cassa di Risparmio; 3. La Sezione dicredito agrario; 4. Il credito agrario di miglioramento; 5. La liquidazione dell’Agricom;

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6. Dopo l’Agricom, altri incorporamenti nel Banco; 7. I fondi di svalutazione delle per-dite derivanti dagli assorbimenti di enti e dalle partecipazioni; 8. Le perdite delle filialiamericane; 9. L’assorbimento della Banca di Sicilia Trust Co.; 10. Le Trusties nel Banco,la congiuntura e la guerra; 11. La filiale di Buenos Aires; 12. La fine del F.P.E. e lanascita dell’Isveimer; 13. Il Banco tra la guerra di Abissinia e la vigilia della 2a guerramondiale; 14. Il Banco e la guerra civile spagnola. Capitolo VII: L’epilogo (1940-1943):1. La non belligeranza e la partecipazione al conflitto mondiale; 2. La Società deiMagazzini Generali; 3. Il Banco e l’industria; 4. Le limitazioni alle concessioni di mutuifondiari; 5. L’inflazione; 6. L’insediamento nell’Africa orientale; 7. Il Banco e l’Albania;8. Il Banco e la Dalmazia; 9. Le Trust Co. di New Yorh e Chicago; 10. Il banco e i gior-nali napoletani; 11. L’espansione territoriale interna; 12. Filiali del Banco al posto dellepiccole banche; 13. L’aumento del personale; 14. L’uscita di scena di Frignani; 15. Epi-logo.

A. FANFANI, Cattolicesimo e protestantesimo nella formazione storica del capitalismo,Marsilio, Venezia, 2005.

Questo magistrale scritto del 1934 è una indagine approfondita sul formarsi dellasocietà capitalistica. Fanfani contesta la tesi weberiana: il capitalismo è il frutto di rivol-gimenti economici intervenuti tra la fine del Medioevo e l’inizio del Rinascimento chealterano il generale atteggiamento verso la ricchezza, piuttosto che il risultato del piùtardo affermarsi del calvinismo. L’autore dimostra, in sostanza, che la sola fede religio-sa non fu decisiva per il decollo economico dei singoli paesi. E sostiene che le formaassunte dal capitalismo nella sua attuazione storica non sono compatibili con una cor-retta concezione cristiana delle attività economiche. Fanfani riconosce la superioritàdello spirito capitalistico nel campo della produzione, ma ritenendolo inadatto a deter-minare una equa distribuzione della ricchezza ne propone una profonda riforma secon-do i principi della dottrina sociale della chiesa. Non più edito in Italia dopo la secondaedizione del 1944, Cattolicesimo e protestantesimo viene periodicamente ripubblicatonegli Stati Uniti dove continua a suscitare un intenso e talvolta aspro dibattito, di cui sidà conto nell’Appendice al volume che raccoglie i saggi introduttivi alle due più recen-ti ristampe americane.

G. FELLONI, Genova e la storia della finanza: una serie di primati?, Banco di San Gior-gio, Genova, 2005.

Indice del volume: Prefazione; Presentazione; Introduzione; Scheda n. 1: Il debitopubblico; Scheda n. 2: I titoli di stato; Scheda n. 3: Le riforme del debito pubblico; Schedan. 4: La Casa di San Giorgio: uno stato nello stato; Scheda n. 5: Lo sconto delle cedole deititoli pubblici; Scheda n. 6: Il rimborso del debito pubblico mediante i fondi di ammorta-mento; Scheda n. 7: La partita doppia e la contabilità dello Stato; Scheda n. 8: La lotteria eil sorteggio delle cariche pubbliche; Scheda n. 9: La stanza di compensazione; Scheda n. 10:

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La tutela del capitale finanziario e le “sapientissime” leggi di Genova; Scheda n. 11: L’Ar-chivio del Banco di San Giorgio: una miniera di fonti per la storia finanziaria (e non solo).

A. FIORI, Poveri, opere pie e assistenza. Dall’Unità al fascismo, Edizioni Studium, Roma,2005.

Questo volume intende dare un contributo per la storia dei poveri e dell’assistenzanell’Italia postunitaria. Due capitoli sono dedicati alla “mentalità” con la quale la classedirigente affrontò il problema, impressionante per le sue dimensioni, dei mendicanti e deivagabondi. Gli altri focalizzano alcuni momenti significativi del passaggio dell’antico siste-ma della beneficenza all’assistenza pubblica e, quindi, della trasformazione delle Opere Piein “moderne” istituzioni. Questo importante tema storiografico (la nascita dello “Statosociale” è una novità fondamentale dello Stato contemporaneo) finora non è stato adegua-tamente approfondito ed è stato trattato, in alcuni casi, con preconcetti ideologici. L’auto-re ha cercato di analizzare, più che i dibattiti, l’applicazione concreta delle leggi, mostran-do, sulla base della documentazione conservata nell’Archivio Centrale dello Stato, come leinnovazioni, in particolare quelle di Crispi, anche se animate da uno spirito di “razionaliz-zazione” della beneficenza, finissero per fornire sia ai partiti “costituzionali” sia a quellidella Sinistra democratica e socialista un “campo” da occupare con i propri uomini. Tantoda rendere lecita la domanda se i cambiamenti nelle amministrazioni delle Opere Pieabbiano portato a un reale miglioramento della drammatica condizione dei poveri.

FONDAZIONE VERA NOCENTINI, Lavoro e sindacato nella storia contemporanea, EdizioniLavoro, Roma, 2005.

Quale rilevanza hanno il lavoro e il sindacato nell’insegnamento della storia delNovecento? L’ipotesi – al centro di un seminario svoltosi a Torino, riportato in questovolume – è che si tratti di temi alquanto trascurati. Nella scuola italiana si accenna alsindacato studiando la rivoluzione industriale, la nascita del movimento socialista e delcattolicesimo sociale, l’avvento del fascismo. Qualche ulteriore cenno viene fatto negliistituti in cui si studia diritto ed economia. Anche i rappresentanti sindacali non sempreconoscono a sufficienza la storia contemporanea e quella del movimento sindacale. Ledifferenti modalità con cui si affrontano questi temi mettono spesso in risalto la diffi-coltà di una ricostruzione storica che non sia vissuta come un racconto lontano, avulsodalle scelte e dai problemi del presente. Il seminario su “L’insegnamento della stoia dellavoro e del movimento sindacale nel Novecento” – che ha riunito docenti universitari,storici, insegnanti e formatori sindacali – ha proposto, a partire dalle pratiche didatti-che in uso, una riflessione utile ad avviare la progettazione di percorsi e di strumentiefficaci per dare adeguato rilievo, nell’insegnamento della storia del Novecento, allastoria del lavoro e del sindacato. La conoscenza di questi temi, come dimostra anche ildibattito politico attuale, è infatti fondamentale per orientarsi nella contemporaneità,comprendente i cambiamenti, esercitare il diritto di cittadinanza.

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A.M. FUSCO, I libri di “Economia italiana”. Cose, uomini, idee, Editoriale Scientifica,Napoli, 2006.

Questo volume raccoglie quaranta scritti pubblicati, negli ultimi vent’anni e più, su“Economia italiana”, rivista edita da Capitalia: frammenti di pensiero, su molteplicitematiche, stimolati dalla lettura di altrettanti libri. Raggruppati per argomento e distri-buiti in tre sezioni, a loro volta divise ciascuna in due parti, detti scritti, aventi a variotitolo attinenza, diretta o indiretta, con la nostra economia, vengono offerti al lettoreperché, scorrendoli, sia indotto a meditare su ciò di cui in essi si discorre: “cose”riguardanti l’ieri e l’oggi, “uomini” protagonisti nel campo degli studi e dell’azione,“idee” offerte a mo’ di stimolo a meglio riflettere per più proficuamente operare. Tuttoun mondo sul quale è sembrato che non guastasse tornare: vuoi perché non c’è vicen-da, antica o recente, che non si presti a venire ripensata; vuoi perché ‘exemplis disci-mus’, ed esempi di nobili figure in queste pagine non mancano; vuoi perché il pensie-ro, mai contento di sé, progredisce grazie al confronto delle idee, idee qui avanzate dastudiosi portatori di curiosità e bisogni degni di ogni attenzione.

R. GARRUCCIO (a cura di), Le grida. Memoria, epica, narrazione della Borsa di Milano(1945-1995), Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2004.

Questo libro è uno strumento di indagine. Non è una storia della Borsa di Milanoné tanto meno della borsa italiana tout court, è una raccolta di nuove fonti ed è l’edi-zione critica e strutturata per temi di una serie di testimonianze che sono altrettantimateriali di ricerca originali sulle forme storiche assunte nel tempo dal mercato. Cia-scuna voce appartiene ad un testimone diretto. Individualmente, ognuno raccontacome ha vissuto e pensato, in un segmento più o meno lungo della propria vita lavora-tiva, il proprio operare sul parterre di Piazza degli Affari per realizzare ogni giorno, fac-cia a faccia, le contrattazioni di borsa, cioè lo scambio di azioni, obbligazioni e altristrumenti finanziari. Collettivamente, le testimonianze ricoprono un arco temporale diquasi cinquant’anni e rappresentano un interessante stimolo a discutere della costru-zione dei “quadri sociali della memoria”: nel loro insieme infatti contribuiscono a ren-dere che cosa ha significato, per un’intera comunità degli affari, assistere al rapido dis-solvimento di un mercato fisico e all’eclisse delle sue regole tra il 1991 – quando i primicinque titoli italiani sono stati inseriti nel circuito telematico – e il 1994 – quando ilprocesso si è completato. Nel suo insieme si è trattato del dissolvimento del quadro diregole organizzative e disciplinari che vigevano sostanzialmente immutate da quandoerano state fissate dalla prima organica legge regolante la borsa (la legge 272 del 23marzo 1913). Ma in quel quinquennio matura ben più di questo, un’epocale trasforma-zione della divisione internazionale del lavoro, il fenomeno che chiamiamo “globalizza-zione”: un’estensione dell’economia di mercato che ha eroso molti precedenti sistemi direlazioni e i loro apparati di sicurezza, ridisegnando i confini tra insiders e outsiders.Del resto la stessa sparizione delle grida milanesi fa parte di un più ampio processo discala planetaria che ha finito per confinare quelle pratiche arcane di gesti e voci solo in

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qualche mercato di derivati e di commodities. Con il nostro lavoro abbiamo voluto rac-cogliere e documentare i mondi simbolici degli operatori della vecchia borsa, la lorocultura come capacità condivisa di rappresentare se stessi, l’elaborazione soggettiva diuna divisione sociale del lavoro passata, la narrazione delle pratiche di scambio cometraccia dell’operare della persona e della sua capacità di produrre significato, di trova-re giustificazione morale al proprio operato. Non abbiamo in mente una operazione di“museificazione” della memoria, ma l’analisi dell’agire del mercato come convivenza diforme diverse di scambio, compresenti nello stesso tempo.

M.C. GIANNINI, L’oro e la tiara. La costruzione dello spazio fiscale italiano della SantaSede (1560 – 1620), Il Mulino, Bologna, 2003.

Il volume analizza l’esercizio della fiscalità papale tra XVI e XVII secolo nei con-fronti del clero delle diverse realtà territoriali italiane attraverso lo studio delle decime,tasse imposte da Roma sulle entrate ecclesiastiche. Grazie a un’ampia documentazionearchivistica, viene messa in luce la progressiva affermazione del ruolo del Ponteficequale unica autorità legittima a tassare il clero della Penisola, all’interno di un processoche rappresentò la risposta a sollecitazioni di ordine politico e finanziario originate,nella seconda metà del Cinquecento, dal nuovo scenario internazionale delle guerre direligione e dei conflitti con l’impero ottomano. Per sostenere le iniziative belliche deisovrani cattolici, la Santa Sede fece infatti ampio ricorso al circuito della fiscalità eccle-siastica. Seguendo da vicino le vicende che in tale prospettiva coinvolsero il Granduca-to di Toscana, la Repubblica di Venezia, il Ducato di Savoia, lo Stato di Milano e ilRegno di Napoli, l’autore illustra con chiarezza la progressiva definizione dello spaziofiscale italiano della Santa Sede, nel quale beni e rendite del clero erano sottratti inbuona misura al controllo dei sovrani.

A. GIGLIOBIANCO, Via Nazionale. Banca d’Italia e classe dirigente. Cento anni di storia,Donzelli Editore, Roma, 2006.

Mentre nella maggior parte dei paesi industriali le banche centrali sono rimasteconfinate in un ruolo esecutivo rispetto alle grandi scelte della politica economica, laBanca d’Italia ha conquistato un posto di rilievo nel dibattito e non di rado nelle sceltedi indirizzo, anche al di fuori dell’ambito monetario. Analizzando i percorsi di carriera,le coordinate intellettuali, le reti di relazione, le decisioni cruciali dei banchieri centralidel passato, da Stringher a Menichella, da Einaudi a Carli, da Baffi a Ciampi, l’autoresvela le origini della supremazia di questa istituzione nel sistema economico italiano, eal tempo stesso mostra la peculiare funzione di collegamento che i governatori hannosvolto fra i vari segmenti delle nostre frammentate élites: politici, industriali, banchieri,amministratori, scienziati. Attraverso le storie di vita dei protagonisti – si pensi solo aEinaudi e a Ciampi, e al loro approdo da Via Nazionale al Quirinale – si ripercorrono,da un punto di vista originale, temi di storia intellettuale, di storia economica, di storia

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delle istituzioni, dalla fine dell’Ottocento fino al dibattito sulla moneta unica europea.Discorrendo delle origini sociali e ideali dei governatori, di come alcuni abbiano assun-to ruoli di primo piano nella politica e nell’amministrazione, l’autore ci induce a riflet-tere sul problema più generale della formazione e del ricambio della classe dirigente ita-liana.

V. GUADAGNO, Cento anni di storia ferroviaria: i dirigenti, l’azienda, il paese (1905 –2005), Assidifer Federmanager, Roma, 2005.

Indice del volume: Presentazione; Introduzione; Prefazione; 1. Verso l’aziendaFerrovie dello Stato: 1.1. La problematica definizione della dirigenza, 1.2. Le ferrovie nel-l’Ottocento preunitario ed i suoi dirigenti, 1.3. Le Grandi Reti e lo sviluppo organizzati-vo, 1.4. Le convenzioni, 1.5. I compiti della dirigenza all’epoca delle Convenzioni; 2.L’amministrazione statale: 2.1. La statizzazione, 2.2. La legge 22 aprile 1905, n. 137 el’amministrazione autonoma delle FS, 2.3. La nuova dirigenza delle FS, 2.4. Organici epiramide delle qualifiche, 2.5. Le FS dall’amministrazione di Bianchi a De Corné, 2.6. Laspinta di Bianchi e della nuova dirigenza, 2.7. La dirigenza e l’organizzazione ferroviaria;3. La gerarchia ferroviaria: 3.1. La dirigenza e il pubblico impiego, 3.2. La rete FS deglianni Venti, 3.3. L’organizzazione ferroviaria nel dopoguerra, 3.4. La rete dal 1930 al 1939:diffusione della trazione elettrica e delle littorine, 3.5. L’ordinamento statsle secondo ilprogetto De Stefani, 3.6. L’organizzazione ferroviaria del commissario Torre, 3.7. La diri-genza dell’ing. Oddone, 3.8. La dirigenza dell’ing. Velani, 3.9. Il ruolo della dirigenza frale due guerre; 4. Tra ricostruzione e ripresa economica: 4.1. Il dopoguerra: il nuovo climapolitico e la ricostruzione, 4.2. Gli anni Cinquanta, 4.3. Traffici e bilanci, 4.4. Il fattorelavoro, 4.5. La concorrenza, 4.6. La dirigenza, 4.7. La dirigenza organizzata, 5. La piani-ficazione ferroviaria: 5.1. I favolosi anni Sessanta e i cruenti anni Settanta, 5.2. Il pianodecennale e il riordinamento dei Servizi, 5.3. Dal piano ponte al P.I.S., 5.4. Il managementferroviario nelle riforme degli anni Settanta, 5.5. I rilevanti risultati della dirigenza nelpotenziamento delle infrastrutture, 5.6. L’ammodernamento nei mezzi di trazione (1963 –1985), 5.7. I traffici viaggiatori e merci, 5.8. Dirigenza e organizzazione aziendale neiprimi anni Ottanta; 6. Verso il privato: 6.1. La dirigenza pubblica, 6.2. Nasce l’Ente, 6.3.Il commissariamento dell’Ente, 6.4. Nascita della FS s.p.a., 6.5. La Dirigenza di fine seco-lo, 6.6. Le ferrovie di fine secolo: l’era Cimoli, 6.7. I primi anni del nuovo millennio, 6.8.Verso il futuro; Cronistoria; Indice delle abbreviazioni, sigle ed acronimi; Indice deinomi di persona; Bibliografia nel testo: 1. Fonti, 2. Studi.

R.L. HEILBRONER, Il capitalismo del XXI secolo, Bruno Mondadori, Milano, 2006.

Quali prospettive offre il capitalismo nell’immediato futuro? Continuerà a essere ilsistema economico che domina incontrastato il mondo? Manterrà le caratteristiche concui l’abbiamo fino a oggi conosciuto? E soprattutto, sono attendibili previsioni di que-sto genere? Per comprendere le strutture profonde dei sistemi economici in generale e

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del capitalismo in particolare è necessario considerare come costruzioni sociali, politi-che e morali storicamente determinate. Alla base della riflessione che Heilbroner – ungrande outsider del pensiero economico – offre nel suo Capitalismo del XXI secolo c’èlo stesso convincimento. Il titolo, però, non deve ingannare: quello che Heilbroner cioffre non è un’azzardata profezia sul futuro, né un’analisi meccanicistica sul destinoeconomico del nostro pianeta, ma una riflessione lucida e acuta che, spaziando dagliscenari passati proposti da alcuni grandi pensatori della storia all’indagine delle dina-miche del sistema di mercato, ci permette di acquistare quella capacità di visione pro-spettica che sola può aiutarci nella comprensione e nella lettura delle trasformazionieconomiche e sociali del mondo contemporaneo.

A. LEONARDI, Collaborare per competere. Il percorso imprenditoriale delle Cantine Mez-zacorona, Il Mulino, Bologna, 2005.

Il volume analizza il tragitto storico delle Cantine Mezzacorona, impresa coopera-tiva attiva ormai da un secolo nella Piana Rotaliana. Qui la cooperazione ha assunto concrescente consapevolezza il compito di aggregare la stragrande maggioranza dei viticol-tori locali. Se inizialmente l’obiettivo che si prefiggeva era semplicemente quello dirazionalizzare le scelte produttive e commerciali dei singoli soci viticoltori, in seguito lasua area di intervento si è allargata, fino ad assurgere al ruolo di promotrice della qua-lità totale e di garante di un controllo diffuso di ogni fase della produzione e del marke-ting del prodotto enologico. Attraverso un’analisi condotta con i criteri della “businesshistory”, l’autore ha esaminato proprio la progressiva affermazione del concetto di qua-lità totale. Al centro del suo interesse non c’è solo la produzione viticolo – enologicarotaliana e trentina, ma anche e soprattutto il significato dell’azione cooperativa, nellungo tragitto di razionalizzazione, affinamento e maturazione degli operatori agricolilocali. La cooperazione ha saputo farsi interprete delle esigenze espresse dai viticoltorirotaliani, animati dalla volontà di perseguire condizioni di vita sempre più dignitose econsone al mutare degli equilibri sociali dell’ultimo secolo. La costante attenzione neiconfronti dei processi innovativi emerge nel volume come una sorta di filo conduttore,capace di attraversare l’operato secolare della cooperazione viticolo – enologica locale.Tale sensibilità ha recentemente consentito alla cooperativa rotaliana di imboccare stra-de di assoluta novità. Proprio a Mezzacorona, infatti, per rispondere alle nuove sfide diuna società globalizzata, negli ultimi anni, si sono elaborati progetti organizzativi capa-ci di proporre una nuova stagione di sviluppo cooperativo.

G. LOMBARDO, L’Istituto Mobiliare Italiano. Modello istituzionale e indirizzi operativi:1931-1936, Il Mulino, Bologna, 1998.

L’Istituto Mobiliare Italiano fu creato nel dicembre 1931, nel cuore della grandecrisi, con una ricca gamma di strumenti che lo configuravano come un intermediario ditipo nuovo nell’ordinamento creditizio italiano. La sua nascita creò nell’establishment

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finanziario – industriale che gravitava attorno alla maggiore banca del tempo, la Com-merciale, l’attesa di un salvataggio che perpetuasse, a spese del pubblico risparmio, gliequilibri allora esistenti. Il salvataggio non venne. Al contrario, l’IMI introdusse nellatradizione bancaria italiana un metodo di selezione del credito che postulava chiarezzanei programmi e trasparenza nella struttura finanziaria di impresa. Si rivelò un metodomaieutico di un nuovo assetto nel controllo di grandi banche e imprese, trasferito allo-ra e rimasto per oltre un sessantennio affidato ad una tecnocrazia di Stato. Allora l’IMIfu – per scelta dei suoi dirigenti – il promotore di un mercato dei titoli mobiliari fon-dato rulla reputazione degli emittenti. L’Istituto affronta oggi, dopo avere portato apiena maturità le potenzialità e le scelte delle origini, una nuova mutazione. E’ natura-le che esso abbia contestualmente deciso di trasformare in memoria cognitiva il lungo espesso drammatico itinerario che lo ha condotto a partecipare a pieno titolo alla mon-dializzazione dei mercati finanziari.

G. LOMBARDO, L’Istituto Mobiliare Italiano. II. Centralità per la ricostruzione: 1945-1954, Il Mulino, Bologna, 2000.

L’IMI riemerse dalla seconda guerra mondiale piuttosto malconcio. Ridotto a 9uomini, concluse il decennio della ricostruzione con un organico di 250 persone e unvolume di finanziamenti triplo di quello realizzato nel primo decennio di vita pre – bel-lico. Affidato a Stefano Siglienti, uomo di sicura fedeltà ai valori democratici, che seppeadattare regole statutarie e azione agli obiettivi della politica economica dei governirepubblicani, l’IMI si reinventò un ruolo centrale nella finanza per la ricostruzione. Ilpassaggio chiave e nient’affato scontato di quella mutazione fu la gestione del prestitodella Export Import Bank di Washington. Il primo concesso da una istituzione pubbli-ca statunitense al governo italiano come risultato del viaggio negli USA di De Gasperinel gennaio del 1947. L’ottimo risultato raggiunto con la gestione di quel prestitomeritò all’Istituto l’affidamento delle operazioni del Piano Marshall volte all’ammoder-namento dell’apparato industriale. Da quell’esperienza l’IMI trasse le energie profes-sionali, le relazioni privilegiate con le imprese, i contatti con le gradi banche straniere,il grande spessore patrimoniale che nel prosieguo ne avrebbero assicurato lo sviluppo.Si venne così formando quello specifico del sistema creditizio italiano che significò farebanca per l’industria, caratterizzato da relazioni banca – impresa fondate su indaginiistruttorie che costituivano un momento di verifica per tutto il mercato del credito del-l’affidabilità dei piani di sviluppo delle imprese.

F. LUCARELLI, La città e le periferie, Cangiano Grafica srl, Napoli, 2006

Faraway, so close; so close, faraway; così vicini; così vicini così lontani, si intreccianoe simboleggiano ad un tempo la comune aggregazione urbana (periferia, cioè intorno alcentro) e l’incolmabile distanza socio – economica che separa le periferie dalla città. L’im-magine della copertina è per me emblematica di un ricordo letterario, vissuto anni addie-

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tro, rivisitando quello che Manuel Scorza (Rullo di tamburi per Rancas) volle rappresenta-re attraverso il Recinto: quel muro che la multinazionale nord-americana, Cerro PascoCorporation, tracciò sugli altopiani andini brutalmente dividendo pascoli, separando paesie case, addirittura attraversando cimiteri. Sullo sfondo la sequenza gotica del Settimo sigil-lo (celebre film di Ingmar Bergman), con la morte che trascina l’ignara umanità.

R. MOLESTI (a cura di), Economia e ecologia, IPEM Edizioni, Pisa, 1995.

In questo volume – a cura di Romano Molesti – sono pubblicati alcuni tra i saggipiù significativi apparsi nei primi quindici anni di vita della rivista “Economia eAmbiente”. Sono così riportati scritti di illustri scienziati, economisti e ambientalisti divari paesi, tra cui Ilya Prigogine, Barry Commoner, Kenneth Boulding, N. Georgescu-Roegen. Nei saggi del volume si afferma, tra l’altro, che non possiamo continuare adimpiegare le risorse ai ritmi attuali. Occorre un nuovo modello di sviluppo con cui dareun diverso fondamento all’economia, nel senso di quella che N. Georgescu – Roegendefinisce “bioeconomia”. Di fronte alla crisi dell’ambiente e all’esaurimento delle risor-se, è necessario gettare le basi per un approccio ispirato alle scienze della vita, cercan-do di adottare tecnologie che eliminano l’inquinamento alla radice. Per il raggiungi-mento di tali obiettivi, il volume mette in evidenza il ruolo fondamentale che dovràrivestire l’educazione ambientale.

R. MOLESTI (a cura di), Giuseppe Toniolo il pensiero e l’opera, Franco Angeli, Milano, 2005.

Se la cultura laica non ha mai dimostrato particolare interesse per l’opera di Giusep-pe Toniolo, anche la cultura cattolica non ha sempre messo adeguatamente in luce i con-tributi di tale autore. In realtà, come crediamo dimostri la raccolta di saggi contenuta nelpresente volume, possiamo affermare che, accanto a parti del pensiero tonioliano, che oggirisultano indubbiamente datate, ve ne sono altre di notevole rilievo, che giustificano un’in-dagine a tutto campo sull’opera dell’autore. Da segnalare al riguardo i contributi delToniolo sul concetto di società organica, sulla democrazia, sul partecipazionismo. Pure rile-vanti sono gli apporti da lui offerti nel campo della storiografia economica, specie perquanto riguarda il periodo medioevale. Un autore, dunque, che merita di essere riscoper-to, nella consapevolezza che alcune delle questioni da lui trattate possono offrire ancoraoggi spunti e suggerimenti di notevole interesse. Il volume raccoglie saggi dei maggiori stu-diosi dell’opera del Toniolo, pubblicati, nel corso degli ultimi quarant’anni, sulla Rivista“Studi economici e sociali” del Centro Studi “G. Toniolo” di Pisa.

R. MUSETTI, I Fabbricotti. Il volto di una dinastia del marmo tra ’700 e ’900 a Carrara,Franco Angeli, Milano, 2005.

Nella trama narrativa e sistematica di questo saggio protagonista è la famiglia deiFabbricotti, casato simbolo della borghesia ottocentesca del marmo di Carrara che, nel-

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l’arco di centocinquant’anni, dal 1770 al 1930, abbandona le dipendenze economiche econtrattuali di capicava per assumere il pieno dominio sul commercio mondiale deimarmi. La vicenda, che ha pochi eguali nel panorama economico industriale italianomoderno, è arricchita dallo studio di fonti del tutto inedite: dalle carte di un preziosoarchivio familiare, specchio anche delle nuove sensibilità femminili, alle serie di centi-naia di contratti notarili, conservati negli archivi, che scandiscono, come in uno sparti-to, il formarsi di strategie industriali, di grandi proiezioni e conquiste commerciali, dimanovre finanziarie messe in atto dal casato nello scenario della società del marmo. Madietro questa storia di famiglia, giunta al tramonto definitivo nel 1933, lo sguardo del-l’Autore è rivolto ad arricchire la conoscenza dei complessi caratteri del capitalismo ita-liano partendo da una delle tante periferie, da una regione ad elevata specializzazione,come è la regione marmifera, da sempre aperta e sensibile ai grandi mercati mondiali.Vengono avanzate nuove linee interpretative rispetto a un capitalismo che si sviluppaconservando forme economiche premoderne, a una classe borghese che mutua codicidal ceto nobiliare settecentesco, a imprenditori che contribuiscono a costruire il fasci-smo mussoliniano fin dal 1920, alla crisi del 1929, alle grandi ristrutturazioni economi-che finanziarie della politica del fascismo degli anni 1934 – 1935.

Napoli est: una missione possibile, n. 2, Centro Studi Unione Industriali Napoli, Napo-li, 2006.

Il Centro Studi dell’Unione Industriali di Napoli svolge, di intesa con il presiden-te e i vice presidenti, nel quadro degli obiettivi dell’unione, un’attività scientifica e siste-matica di indagine, analisi e ricerche su argomenti di carattere economico, sociologicoe tecnico. Tale attività è intesa a dare all’Unione una più approfondita e anticipata capa-cità di conoscenza, di interpretazione e previsione dei fenomeni generali di sviluppo amedio – lungo termine. Il Centro Studi presta consulenza tecnica agli organi dell’Unio-ne sui particolari argomenti ad esso sottoposti, e su invito del presidente dell’Unione,anche ai gruppi, sezioni e associazioni di categoria. Il Centro Studi realizza, infine: studisull’evoluzione socio – economica del territorio metropolitano; indagine e approfondi-menti su tematiche di interesse produttivo; approfondimenti ed elaborazioni di ipotesiprogettuali per iniziative strategiche dell’Unione; azioni di supporto alla progettazionedi iniziative economiche e finanziarie (ambiente, formazione, territorio, export) d’inte-sa con le aree tecniche di competenza.

M. OTTOLINO, L’agricoltura in Italia negli anni del corso forzoso, Cacucci Editore, Bari, 2005.

Indice del volume: Tra proclamazione e cessazione del corso forzoso: 1. Legge 1maggio 1866 e prime proposte di abolizione del corso forzoso; 2. I risultati dei lavoridella Commissione di inchiesta sul corso forzoso; 3. Dalla legge bancaria del 1874 all’a-bolizione del corso forzoso. L’attività del Ministero di Agricoltura, Industria e Commer-cio: 1. Vicende del Ministero tra costituzioni e soppressioni; 2. Attribuzioni e bilanci

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definitivi di previsione della spesa. La produzione agraria e il corso forzoso: 1. Il dibatti-to sulle statistiche agrarie; L’andamento dei principali prodotti agricoli. Il commercioestero dei prodotti agricoli e il corso forzoso: 1. L’andamento delle importazioni e delleesportazioni; Analisi del valore delle importazioni e delle esportazioni.

L. PAGANETTO – P.L. SCANDIZZO, La Banca mondiale e l’Italia: dalla ricostruzione allosviluppo, Il Mulino, Bologna, 2000.

Nata nell’estate del 1944, in una Parigi ancora occupata dai nazisti, la Banca mondia-le aveva lo scopo di contribuire alla ricostruzione delle capacità produttive distrutte dallaguerra. Il problema che fin dall’inizio si pose fu quello di indirizzare gli aiuti direttamenteai gruppi sociali a reddito più basso, soprattutto nelle vaste zone rurali dei paesi in via disviluppo. Questo volume affronta la complessa questione del ruolo della Banca mondiale– divenuta col tempo anche un’importante centro di elaborazione teorica – attraverso un’a-nalisi delle strategie di crescita e di cooperazione allo sviluppo di essa perseguite, in termi-ni di promozione e sostegno ai processi di crescita, valorizzazione delle risorse locali e ridu-zione delle disparità. In particolare, gli autori concentrano l’attenzione sugli interventi dellaBanca mondiale in Italia nel dopoguerra e nelle fasi successive di sviluppo. L’ultima partedel libro è dedicata alla partnership tra la Banca mondiale e il nostro paese per un inter-vento efficace in relazione alla lotta alla povertà nelle economie in via di sviluppo.

P. PECORARI, Storie di moneta e di banca, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti,Venezia, 2006.

Il volume illustra aspetti significativi del sistema monetario e bancario italiano, mezzoin relazione con coeve esperienze europee tra Otto e Novecento: le mutuazioni schulzianenella genesi e negli sviluppi delle banche popolari: la forza attrattiva dei modelli di ‘bancacentrale’ belga e olandese sugli istituti di emissione in Italia dopo l’Unità: la transizionetedesca al metro aureo negli anni in cui l’argento comincia a deprezzarsi, aprendo la stra-da alla crisi del bimetallismo; le implicazioni internazionali e le relative conseguenze endo-gene del ritorno alla convertibilità metallica dopo il 1881-83; gli interessi policentrici (eco-nomici ed extraeconomici) operanti nell’abolizione della riscontrata; le divergenze inter-pretative e valutative tra Henri Germain, presidente del Crédit Lyonnais , e Luigi Luzzattisull’andamento del cambio estero in Spagna e nei paesi a circolazione monetaria cartaceaforzata; i problemi della variazione del tasso ufficiale di sconto in Italia nel 1910; il modusoperandi della Banca Nazionale di Romania e la ‘lezione’ della Banca d’Italia.

F. PETRINI, Il liberismo a una dimensione. La Confindustria e l’integrazione europea1947-1957, Franco Angeli, Milano, 2005.

La politica estera di uno Stato è il prodotto non solo di fattori strutturali e dei con-dizionamenti imposti dal sistema internazionale, ma anche della dialettica di soggetti

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politici, economici e sociali interni. Il volume si propone di analizzare, sulla scorta diun’attenta disamina di fonti primarie e secondarie, l’influenza esercitata dalla Confin-dustria sul processo di adesione dell’Italia alla costruzione europea nel corso degli anniCinquanta. Il decennio fu caratterizzato, da un lato, dal consolidarsi di uno stretto rap-porto politico tra la massima organizzazione di rappresentanza del padronato e i gover-ni centristi, dall’altro dalla nascita, attraverso un processo per prove ed errori, delleprime comunità sovranazionali e del grande mercato europeo. In che misura e secondoquali priorità gli industriali privati riuscirono a condizionare le modalità di inserimentodell’economia italiana nel regionalismo europeo? La posizione degli industriali italianirispetto ai problemi posti dalla interdipendenza economica dell’Europa occidentale fusoggetta ad un cambiamento lento, ma sostanziale. Partendo da una posizione che sifaceva scudo di un liberismo sui generis, assai intransigente contro qualsiasi tipo diinterventismo statale e nel rifiutare ogni ipotesi di creazione di autorità sovranazionalidotate di poteri di regolazione dei mercati, ma molto più malleabile in tema di prote-zionismo e di intese dirette tra aziende e settori produttivi, si approdò alla fine deldecennio all’accettazione, sia pure prudente e condizionata, dell’integrazione come l’u-nico schema che avrebbe potuto garantire l’abbattimento delle barriere che ostacolava-no il commercio intereuropeo. In tale modo si assicurava l’accesso ai mercati esteri, rite-nuto vitale per lo sviluppo dell’industria nella penisola, conciliando l’apertura del mer-cato interno alla concorrenza straniera con le esigenze di protezione molto sentite dalarghe parti dell’economia italiana.

L. PEZZOLO, Una finanza d’Ancien Régime. La Repubblica Veneta tra XV e XVIII seco-lo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2006.

Il volume esamina l’andamento della finanza pubblica veneziana dalla costituzionedello stato territoriale nel XV secolo sino alla caduta nel 1797. Dalla ricerca, che coniu-ga un approccio quantitativo con quello più squisitamente qualitativo, emergono alcu-ni caratteri tipici della finanza d’Ancien Régime, quali l’assenza di una vera e propriapolitica finanziaria di lungo periodo e la pesante influenza esercitata dagli impegni bel-lici. Il caso della Repubblica di Venezia viene altresì posto a confronto con le finanze dialtri stati, allo scopo di evidenziarne analogie e differenze. Da un lato la struttura costi-tuzionale veneziana fu in grado di rafforzare la credibilità delle istituzioni finanziarie,ma, dall’altro lato, la scarsa propensione del ceto dirigente a modificare gli equilibri dipotere comportò nel lungo periodo l’atrofia del sistema fisco – finanziario.

Phénix, Gan, Groupama. Storia, ricordi e immagini, 1881-2006, Centoventicinque anni dipresenza in Italia, Palombi Editori, Roma, 2006.

Indice del volume: D. BRIGNONE: Dal Phénix di Genova a Groupama Assicura-zioni: 1881-1900: le origini; 1900-1942: avvio e consolidamento della società a Roma;1942-1968: ricostruzione ed espansione; 1968-2006: tempi moderni. Da Phénix Soleil

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a Gan a Groupama. L. Mescolini (a cura di): La Compagnia raccontata: I testimoni; Ilreclutamento dei dipendenti; Il reclutamento degli agenti; La Compagnia: caratteri-stiche e valori. R. Pioppini (a cura di): La Compagnia illustrata: Marchi & loghi; L’im-magine della sicurezza; Un dialogo sempre aperto; Dalla réclame all’advertising; Ilvalore della continuità; Dicono di noi; Anni da sfogliare; Lavorare informati; I nume-ri raccontano.

G. J. PIZZORNI (a cura di), L’industria chimica italiana nel Novecento, Franco Angeli,Milano, 2006.

Le vicende dell’industria chimica italiana nel Novecento rappresentano senza dub-bio un evento straordinario nella storia industriale del nostro Paese. Il progressivo ridi-mensionamento del settore chimico nazionale, fatto registrare a partire dagli anni Set-tanta, non solo è coinciso con la dissoluzione di quel grande patrimonio di conoscenzetecniche e culturali che lo caratterizzava, ma ha anche privato il nostro Paese di unsostegno fondamentale per la sua crescita economica. In questa prospettiva, la doloro-sa scomparsa della “grande chimica” italiana, solo in parte compensata dalle perfor-mances di alcune medie imprese di successo, finisce per assumere una scottante attua-lità e offre, al tempo stesso, un interessante contributo all’interno del dibattito sul sup-posto declino del nostro sistema industriale. Il volume raccoglie sia i contributi di sto-rici italiani e stranieri sia le testimonianze di alcuni protagonisti del settore che si sonoconfrontati nel corso del convegno internazionale, tenutosi a Milano, “L’industria chi-mica italiana nel Novecento: tra successi, crisi e nuove prospettive di sviluppo”.

M.S. ROLLANDI, Istruzione e sviluppo nella Liguria marittima (1815 – 1921), Brigati,Genova, 2005.

Indice del volume: Capitolo I – Istruzione ed economia marittima: Premessa; 1. Ilquadro normativo; 2. Gli interventi di fine secolo; 3. La riforma del 1917; 4. Il casoligure. Capitolo II – L’istruzione marittima nel capoluogo ligure: 1. Le scuole tecnichedella Camera di Commercio; 2. Il Regio Istituto di Marina Mercantile; 3. Un livellosuperiore di studi; 4. Gli studenti; 5. Gli esami di licenza; 6. Termina la subalternitàrispetto all’Istituto tecnico; Appendice. Capitolo III – Camogli, evoluzione di un antivoborgo marinaro: 1. Camogli per la navigazione è come la succursale di Genova; 2. Crisidella marina velica e difficoltà dell’Istituto; 3. L’assestamento dell’Istituto; 4. Gli stu-denti; 5. I licenziati; Appendice. Capitolo IV – La formazione di un polo marittimo indu-striale nel Ponente: 1. Il maestro di nautica Federico Federici; 2. Molti progetti, nessu-na realizzazione; 3. La scuola del professor Francesco Prato; 4. Il “pareggiamento”della Scuola di nautica; 5. Nasce il “Leon Pancaldo”; 6. Crisi e contrazione delle iscri-zioni; 7. Gli studenti; 8. I licenziati. Capitolo V – L’altra Liguria: 1. Il Ponente: a) SanRemo, b) Oneglia e Porto Maurizio; 2. Il Levante: a) Recco, b) Rapallo, c) Chiavari, d)La Spezia.

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R. ROSSI, Matteo De Augustinis tra cultura ed economia, Editoriale Scientifica, Napoli,2005.

Indice del volume: Capitolo I: 1. Il quadro politico; 2. L’economia come scienza“sociale”; 3. Economia e diritto. Capitolo II: 1. Economia e istruzione; 2. L’approfondi-mento teorico. Appendice I: Articoli di Matteo de Augustinis; Appendice II: Lezioni dieconomia sociale di Matteo De Augustinis per Emilio suo figlio; Appendice III: Recen-sioni di Matteo De Augustinis.

E. SAVINO, “Lo Stato moderno”. Mario Boneschi e gli azionisti milanesi, Franco Angeli,Milano, 2005.

“Lo Stato moderno”, rivista di critica politica economica e sociale nata a Milano nelluglio 1944 per opera di un gruppo di esponenti del Partito d’azione e vissuta ai primi mesidel 1949, è al centro dell’attenzione di questo volume. Le pagine introduttive sono dedi-cate alla eredità politica e ideale del quindicinale di Paggi e suggeriscono alcune riflessionisui contributi della storiografia alla conoscenza del filone liberalsocialista. Il saggio chesegue è un appassionato racconto delle vicende e delle idee dei protagonisti che hanno ani-mato le colonne della rivista: Mario Paggi, l’austero e carismatico direttore, e poi il gruppodegli amici fidati che lo circondavano: Antonio Basso, colto e attento interprete della poli-tica internazionale; Mario Boneschi, radicale voltairiano, studioso di Cattaneo; GiulianoPischel, socialista eretico trentino, traduttore e interprete di Marx; Arrigo Cajumi, polemi-sta di razza e fine conoscitore della letteratura francese, e poi gli altri: Vittorio AlbasiniScrosati, Cesare Cabibbe, Emiliano Zazo e Gaetano Baldacci, siciliano irruente e genero-so, che a Milano nel pieno della guerra aveva fondato la casa editrice Gentile e stampato larivista di Paggi fin dal primo numero clandestino. A questi amici di vecchia data, fin dal1944 si aggiungevano gli studiosi che lavoravano all’Ispi (Istituto per gli studi di politicainternazionale): Enrico Bonomi, Giovanni Lovisetti, Bruno Pagani, Silvio Pozzani, EnricoSerra. Nel volume sono raccolti anche gli indici de “Lo Stato Moderno”, che danno unquadro completo dei contributi di redattori e collaboratori al dibattito sui temi dellademocrazia, dello Stato di diritto, dell’ordine internazionale. Sfilano così nomi che a variotitolo hanno segnato la storia del pensiero politico contemporaneo – Mario Albertini,Achille Battaglia, Riccardo Bauer, Norberto Bobblio, Franco Cingano, Ernesto Rossi,Luigi Salvatorelli, Gaetano Salvemini, Cesare Spellanzon – e altri protagonisti del dibattitoche negli anni della Costituente hanno aiutato la rifondazione della democrazia in Italia.Arricchiscono il volume tre scritti posteriori di Mario Boneschi, un personaggio che erastato magna pars nella redazione della rivista e che impersona il grillo parlante della storia,o meglio delle storie che si intrecciano in queste pagine.

F. SBRANA, Portare l’Italia nel mondo. L’IMI e il credito all’esportazione 1950 – 1991, IlMulino, Bologna, 2006.

Nello sviluppo economico dell’Italia c’è un elemento che lega insieme l’attivitàdegli istituti di credito, delle imprese più attive sui mercati internazionali e delle istitu-

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zioni coinvolte nella politica economica estera. E’ il credito all’esportazione, strumentofinanziario di grande complessità e duttilità, introdotto nella legislazione all’inizio deglianni Cinquanta e rivelatosi in breve tempo un importante volano di sviluppo. Questovolume ne ricostruisce quarant’anni di utilizzo attraverso la storia dell’Istituto Mobilia-re Italiano, che fu in prima linea nel promuovere le operazioni di credito all’esporta-zione, tanto da farne un punto di forza della propria attività. L’IMI lo utilizzò per favo-rire la costruzione di un efficiente “sistema Paese”: finanziò la fornitura di impiantiindustriali e grandi lavori all’estero, si fece promotore di iniziative commerciali insiemealle industrie pubbliche e private, creò un’ampia rete di relazioni internazionali chefavorirono la promozione estera delle imprese italiane; contribuì anche alla elaborazio-ne della legislazione e supportò i governi della Repubblica nelle scelte di politica esteraeconomica. Nel libro vengono ricostruite vicende industriali e finanziarie, storie diuomini e idee, relazioni economiche e politiche costruite dall’Italia con paesi in via disviluppo e stati socialisti. Fatti relativamente poco noti, utili per comprendere meglio losviluppo dell’economia italiana negli ultimi cinquant’anni.

T.C. SCHELLING, La strategia del conflitto, Bruno Mondadori, Milano, 2006.

Come hanno fatto USA e URSS a gestire per cinquant’anni un equilibrio del terrorebasato sulla reciproca minaccia della guerra atomica? Come fanno due automobilisti che siavvicinano a un incrocio a decidere chi debba passare per primo? Perché un bambino cheha fatto una cosa che non avrebbe dovuto fare evita di incrociare lo sguardo dei genitori?Quali sono i meccanismi che si attivano in situazioni estreme come un sequestro, un allar-me di attacco atomico, un tentativo di rapina a mano armata? Coniugando rigore e ironia,Thomas C. Schelling – premio Nobel 2005 per l’economia – mostra come le funzioni dellafiducia, della promessa, della minaccia, della deterrenza, della rappresaglia, del bluff, del-l’impegno si combinano con le forme della comunicazione, le strutture dell’informazione,i sistemi legali di volta in volta in gioco, svelando così i meccanismi interni che governanole situazioni di conflitto, dalle più quotidiane come l’educazione dei figli alle più generali,come le condizioni per una pace mondiale. La strategia del conflitto, dunque, “non con-cerne l’applicazione efficiente della forza, ma l’utilizzo di una forza potenziale. Si riferiscenon tanto a nemici che si detestano vicendevolmente, ma piuttosto a partner che non sifidano l’uno dell’altro o sono in reciproco disaccordo. Riguarda non tanto la suddivisionedi vantaggi o perdite tra due partecipanti, quanto la possibilità che certi risultati, piuttostoche altri, sino peggiori o migliori per entrambi […]. Studiare la strategia del conflitto signi-fica accettare il presupposto che la maggior parte delle situazioni conflittuali sino essen-zialmente situazioni contrattuali”.

G. SCHLITZER, Il Fondo Monetario Internazionale. L’istituzione posta a guardia della sta-bilità monetaria e finanziaria internazionale, Il Mulino, Bologna, 2000.

Da Seattle in poi le organizzazioni internazionali nate dagli accordi di BrettonWoods del 1944 – Fondo Monetario Internazionale (FMI), Banca Mondiale, Organiz-

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zazione Mondiale del Commercio – sono state oggetto di grandi contestazioni. Alcunimovimenti di protesta si battono per l’abolizione dell’FMI, considerato l’alfiere dellaglobalizzazione e, quindi, il principale accusato. Ma cosa è l’FMI? Di che cosa si occu-pa? In che cosa si differenzia dalle altre due organizzazioni? Partendo dai principi ispi-ratori del nuovo ordine economico concordato a Bretton Woods, questo volume, ripre-sentato in edizione aggiornata, ci illustra con chiarezza il ruolo cruciale che l’FMI hasvolto, in oltre cinquant’anni di storia, per promuovere la crescita e la stabilità finan-ziaria dell’economia mondiale. Esamina infine la funzione che l’FMI ha avuto nellagestione delle recenti crisi finanziarie internazionali.

M. SIGNORE, Lo sguardo della responsabilità. Politica, economia e tecnica per un antro-pocentrismo relazionale, Edizioni Studium, Roma, 2006.

Perché lo sguardo si faccia gravido di responsabilità abbisogna di un ricaricosemantico, magari appropriandosi della ragione di un “vedere”, di per sé ricco di sensoe di potenzialità significanti. Certo, guardare non è ancora vedere. Ma proprio per que-sto vogliamo smascherare la presunta e, a volte, colpevole distrazione dello sguardo,immettendolo immediatamente, e comunque senza soluzione di continuità, in quell’at-to del “vedere” che non consente più di autosospendersi di fronte alla realtà e coinvol-ge irrimediabilmente nel bene e nel male, obbligandoci ad una presa di posizione, quin-di ad un’assunzione di responsabilità. In questa prospettiva, guardare senza vederediviene una fuga insostenibile, una perdita secca dell’opportunità tutta umana, benchéscomoda, che ci è proposta, in ogni momento della nostra esistenza, di riprenderci ilsenso della storia (la vita, la bellezza, la polis, la fede, la natura, la scienza, l’amore),oltre ogni colpevole leggerezza dello sguardo. Da qui la necessità di rileggere alcuni“luoghi” (politica, economia e tecnica) in cui si esercita la responsabilità, ma anche,prioritariamente, di riprendere senza pregiudizio una riflessione sul soggetto, che forsenon è morto, ma, pur oscurato in una situazione di “complessità”, appare sempre piùdeterminato a non perdere il controllo della e ad orientare la costruzione di un mondooggi non più “centrato”, ma frantumato in una molteplicità che produce crisi. Scenarionuovo, nel quale il soggetto è alla ricerca di una centralità non più egemonica, ma rela-zionata, dialogante, responsabilmente impegnata a muoversi in una realtà non più sem-plificabile o riducibile. Si tratta di uno scenario che mette a dura prova la ragionemoderna con i suoi prodotti e invoca un’analisi spregiudicata dei paradigmi e dei loroesiti entro la prospettiva della “complessità”.

S. SIGNORI – G. RUSCONI – M. DORIGATTI (a cura di), Etica e finanza. Persona, impresee società, Franco Angeli, Milano, 2005.

Etica e finanza: due mondi spesso considerati lontani, a volte in antitesi. Eppuremai come in questo tempo il bisogno di contemperare valori morali ed interessi econo-mico – finanziari risulta indispensabile. Per conciliare etica e finanza risulta fondamen-

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tale risalire alle origini e all’essenza dell’attività finanziaria, al ruolo ed alla funzione diimpulso che essa svolge nelle economie moderne, ma anche ai suoi fondamenti etici emorali: si apre quindi un ambito di indagine ampio e variegato. Il volume, il quartodella Collana “Persona, Imprese e Società”, si propone di offrire numerosi spunti diriflessione su differenti aspetti del tema: dai fondamenti morali dell’etica della finanza edel denaro, alla responsabilità sociale degli intermediari finanziari, dalla trasparenza neicontratti bancari e assicurativi, all’accesso al credito quale diritto e opportunità perogni categoria di soggetto economico, dai fondi etici alla microfinanza. Il contributo distudiosi, accademici e operatori del settore, italiani e internazionali, è sicura garanzia diuna ricca e completa visione dei temi trattati.

L.F. SIGNORINI – I. VISCO, L’economia italiana. I numeri, le politiche e i problemi di unagrande economia industriale integrata nell’area dell’Euro, Il Mulino, Bologna, 2002.

Dal 1° gennaio 2002, tre anni dopo l’adozione di una unica moneta, l’Euro è fisica-mente in circolazione in dodici paesi europei. Per l’Italia riuscire a partecipare all’unionemonetaria sin dall’inizio, raggiungendo gli obiettivi di Maastricht, ha rappresentato unnotevole successo, ma anche una difficile sfida per gli anni a venire. Questo libro, intera-mente aggiornato nella terza edizione, si offre come un sintetico atlante ragionato dellecondizioni economiche dell’Italia; racconta il cammino che ha portato il nostro paese dallainstabilità e dai conflitti degli anni ’70 ai ritrovati equilibri macroeconomici della fine deglianni ’90; discute i maggiori nodi ancora irrisolti del nostro sviluppo economico e conside-ra le prospettive e i rischi attuali, nel contesto europeo e globale.

F. SPINELLI, La moneta dall’oro all’Euro. Un viaggio fra storia e teoria, ETAS, Milano, 1999.

Che cosa è la moneta? Quali funzioni svolge nel sistema economico? Come si è pas-sati dalle merci – moneta delle società primitive alla moneta metallica e alla carta - mone-ta? E che cosa rimane della moneta, nell’attuale fase caratterizzata dalla smaterializzazione,cioè dalla ritirata del biglietto e dall’affermarsi della moneta elettronica? Queste sono soloalcune delle domande a cui risponde il libro di Spinelli. E si tratta di domande attuali, per-ché legate alla realtà concreta. Il ruolo che la moneta svolge nel processo economico è oggi,sul piano pratico, sempre più diffusamente percepito, anche dal grande pubblico non spe-cialista. I passaggi alla moneta unica europea e alla moneta elettronica sono del restoprofonde trasformazioni, che toccano da vicino, nella vita quotidiana, ciascuno di noi. Sulpiano della teoria, viceversa, si stanno affermando scuole di pensiero che non riconosconoalcun ruolo alla moneta nel processo economico o che, disconoscendone la funzione fon-damentale di mezzo di scambio, la riducono a mera unità di misura o a semplice strumen-to di trasferimento di valore nel tempo. In questo stridente contrasto tra teoria e praticamonetaria è insito il pericolo di errori fondamentali, e che in parte conseguono dall’igno-ranza degli insegnamenti racchiusi nei primi passi della storia antica e universale dellamoneta e delle conclusioni alle quali conduce una riflessione di fondo sulle funzioni della

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stessa. Questo volume intende, da un lato, contrastare una perdita di memoria storica sem-pre più macroscopica – ma sempre meno giustificata – in una fase di rapida definizione del‘nuovo’ monetario e, dall’altro, riaprire quella riflessione di fondo.

E. STRANGIO, I conti economici nazionali. Istruzioni per l’uso per i non addetti ai lavori,Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2006.

L’entrata in vigore dell’Euro e il quasi concomitante accadimento di fatti economi-ci straordinari, quali il default delle obbligazioni di grossi gruppi industriali privati ita-liani e stranieri, hanno prodotto un interessamento del tutto nuovo della gente comunenei confronti della macroeconomia e del suo governo. La finalità di questo lavoro èquella di produrre una disamina dei principali “conti nazionali” e di fornire utili ele-menti di interpretazione dei dati contenuti e della terminologia usata per denominaregli stessi; cercando, nei limiti del possibile, senza negligere qualche sporadica disserta-zione didattica, di prediligere il fine di dare indicazioni elementari per i non addetti ailavori per la comprensione di detti conti e indurli, per chi ne senta la necessità, ai suc-cessivi approfondimenti.

G. VIGO (a cura di), Le lezioni della storia. Letture Carlo M. Cipolla 2001-2005, Il Muli-no, Bologna, 2005.

Indice del volume: G. Vigo: Presentazione; D.S. Landes: Carlo M. Cipolla, uomo rina-scimentale e storico globale; P. Mathias: Energia e rivoluzione industriale; L.L. Cavalli –Sforza: La rivoluzione agricola dell’età neolitica; P. Rossi: Dedalo e il labirinto: l’uomo, lanatura, le macchine, P.S. Labini: Storia e teoria economica: due casi degni di riflessione.

G. ZALIN, Dalla bottega alla fabbrica. La fenomenologia industriale nelle province venetetra ‘500 e ‘900, Libreria Universitaria Editrice, Verona, 2005.

Indice del volume: Premessa alla terza edizione: le suggestioni dei recenti contributi;Introduzione: Le origini dell’industria a Venezia. 1. Seguendo le relazioni dei rettori vene-ziani. Manifatture e politica industriale nella Lombardia Orientale: La singolarità dell’Ol-tremincio nell’ambito dello stato veneto; Telai da lana e filatoi da seta nelle valli bergama-sche; Le alterne vicende della metallurgia e dell’armeria nel bresciano; Refe e carta alle origi-ni della “prosperità” salodiana. 2. Tra serre, opifici e fucine. Le tipiche attività di produzio-ne e di trasformazione nella Riviera Benacense: Premessa; Una singolare “industria” agrico-la: il giardino gardesano; Uno sguardo al settore tessile: il primato del linificio; Cartiere e car-tai a Toscolano e a Maderno; Carbonaie, magli e “fuochi” – La lavorazione dei metalli nellaRiviera superiore; Una economia in funzione dell’esportazione – L’atteggiamento di Venezia.3. Città e territorio: la differente evoluzione dell’apparato manifatturiero vicentino nel Seie Settecento: Organizzazione politico – amministrativa e consistenza demografica; Un distret-

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to indirizzato verso le creazioni di pregio: il bassanese; Il declino dell’arte della lana a Vicen-za e l’ascesa della “fabbrica da panni alti” in Schio e nel Pedemonte; L’avventura del setificionella città di Vicenza: a) le vicende del Cinque e Seicento; L’avventura del setificio nella cittàdi Vicenza: b) caduta e ripresa nel Settecento – Il ruolo del territorio; Il “residuo industriale”al di fuori del tessile. Considerazioni sulla vita delle corporazioni (fraglie). 4. L’artigianatoveronese tra Sette e Ottocento. Il passaggio dal “vincoliamo” alla “libertà”: Uno sguardoalle manifatture tradizionali alla fine del dominio veneto; Le arti minori ed i limiti impostidal consumo interno; Le manifatture maggiori ed i loro legami con il commercio estero; Dopola pace di Presburgo: i trattati con i regni tedeschi per la “riapertura” della via atesina; Larecessione serica e la stasi dell’apparato manifatturiero negli anni terminali del regno italico.5. Fattori localizzativi e caratteri originali degli insediamenti produttivi nel Veneto dallametà dell’800 alla Grande Guerra: Materiali per la storia dell’industria. Alle origini dellafabbrica accentrata; Il periodo delle frontiere aperte: a) le attività trasformatrici delle materieprime e dei prodotti agrari; Il periodo delle frontiere aperte: b) ombre e luci nei tessili, diffi-coltà nella meccanica e nella cantieristica; La aree al margine del sistema: il basso Polesine eil montano Bellunese; L’afflusso di capitali e di imprenditori “esterni” a Venezia e la creazio-ne di un apparato industriale moderno. L’”enclave” trevigiana; Nel Veneto centro – occiden-tale: il primato del Vicentino. Difficoltà nel Veronese e qualche recupero nel Padovano; L’in-dustria elettrica e le sue proiezioni regionali. La crescita dell’apparato manifatturiero nelprimo Novecento. 6. La tradizione e l’innovazione. Setificio e cotonificio in Friuli dalladominazione veneta al secondo conflitto mondiale: Vicende territoriali e quadro geofisicodella Patria – Dinamica del popolamento; Utilizzo di risorse locali e attività di trasformazio-ne in epoca veneta – I primi passi del setificio e l’affermazione delle telerie carniche; La solamanifattura in espansione nel primo Ottocento: la bachisericoltura; Alle origini del sistema difabbrica a Pordenone e a Udine – Nascita ed espansione del cotonificio; Caratteri e vicendedell’industria friulana nel periodo compreso tra le due guerre mondiali – Brevi considerazio-ni. 7. Il Momento della distruzione e il momento della rinascita. La società veneta tra guer-ra e dopoguerra (1914 – 1922): Dalla pace alla guerra. Il problema dei profughi e della loroassistenza; L’entità delle perdite materiali, l’intervento del genio militare e il lento ritornodegli sfollati; Comitato governativo e Commissariato nell’opera del Ministero per le terre libe-rate. L’attività delle cooperative di lavoro; I piani di rinascita: dalle strutture portuali alle lineeferroviarie. La situazione nelle aree tradizionali; La questione del bestiame andato perduto.Approvvigionamento dalla Germania e smistamento all’interno della regione; Il ruolo svoltodall’Istituto federale di credito per il risorgimento delle Venezie; “E’ tornato nel Veneto l’im-pero della legge comune”. Verso la restaurazione finanziaria. Indice dei luoghi e dei toponi-mi. Indice dei nomi, delle ditte e degli autori.

D. ZANETTI, Bernardo Sacco. La vita materiale di un umanista pavese, Tipografia PI-MEEditrice S.R.L., Pavia, 2006.

Indice del volume: Bernardo Sacco e il suo libro di spese; La “famiglia”; Il patrimo-nio e i redditi; Il tenore di vita; L’uomo di fronte alle calamità.

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VI. LIBRI RICEVUTI

G. ALBERGONI, I mestieri delle lettere tra istituzioni e mercato. Vivere e scrivere a Mila-no nella prima metà dell’Ottocento, Franco Angeli, Milano, 2006.

Alberto Borioni e il suo tempo. Atti del Convegno del 2 dicembre 2005, GEI – GruppoEditoriale Informazione, Jesi, 2006.

A. AMOROSO, Parlano i centenari. Vita e valori della gente molisana nel Novecento,Cosmo Iannone Editore, Isernia, 2005.

ARTIGIANCASSA, Rapporto sul credito e sulla ricchezza finanziaria delle imprese artigiane,Edizione 2005, Istituto Nazionale per la Comunicazione, Roma, 2006.

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G. VIGO (a cura di), Le lezioni della storia. Letture Carlo M. Cipolla 2001-2005, Il Muli-no, Bologna, 2005.

G. ZALIN, Dalla bottega alla fabbrica. La fenomenologia industriale nelle province venetetra ’500 e ’900, Libreria Universitaria Editrice, Verona, 2005.

D. ZANETTI, Bernardo Sacco. La vita materiale di un umanista pavese, Tipografia PI-MEEditrice S.R.L., Pavia, 2006.

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FINITO DI STAMPARE NEL MESE DI OTTOBRE MMVI

NELLO STABILIMENTO «ARTE TIPOGRAFICA» S.A.S.S. BIAGIO DEI LIBRAI - NAPOLI


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