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GESÙ, SEGNO DI CONTRADDIZIONE E PIETRA … di... · Web viewLa missione: si lega al carisma e...

Date post: 24-Feb-2019
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GESÙ, SEGNO DI CONTRADDIZIONE E PIETRA DI INCIAMPO Premessa L’itinerario che percorremmo insieme in questa riflessione si articolerà in questo modo: 1. Innanzitutto la lettura dei testi di riferimento che, come sappiamo, costituiscono il leit-motiv del corso monografico che la Scuola di Teologia offrirà per questo anno accademico: si tratta di Lc 2,34-35 e di Rom 9,33 e 1Pt 2,8. 2. In secondo luogo l’esplicitazione kerigmatica di ciò che Gesù, segno di contraddizione e pietra d’inciampo, getta nella storia religiosa del popolo di Israele e che dovrà caratterizzare in maniera determinante l’esperienza di fede dei suoi futuri discepoli in tutte le sue dimensioni: a. Il rapporto con Dio b. Il rapporto tra loro in quanto discepoli (comunione ad intra) c. Il loro rapporto con il mondo (comunione ad extra) 3. Infine tireremo qualche conclusione, cercando di mettere a fuoco soprattutto l’atteggiamento fondamentale che le considerazioni svolte ci indicheranno a proposito nel nostro essere cristiani in dialogo con gli uomini e le donne che incontriamo sui sentieri della storia. I testi biblici Lc 2,34-35 L’evangelista Luca drammatizza la nascita di Gesù sottolineando due aspetti che i suoi discepoli non dovrebbero mai dimenticare o sottovalutare: 1. non c’è posto per lui dentro le dinamiche socio-politiche dei vari Cesare Augusto che si muovono secondo la logica del potere e del dominio, riducendo gli uomini a numeri 1 ; 1 Cf Lc 2, 1ss. -1-
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GESÙ, SEGNO DI CONTRADDIZIONE E PIETRA DI INCIAMPO

Premessa

L’itinerario che percorremmo insieme in questa riflessione si articolerà in questo modo:

1. Innanzitutto la lettura dei testi di riferimento che, come sappiamo, costituiscono il leit-motiv del corso monografico che la Scuola di Teologia offrirà per questo anno accademico: si tratta di Lc 2,34-35 e di Rom 9,33 e 1Pt 2,8.

2. In secondo luogo l’esplicitazione kerigmatica di ciò che Gesù, segno di contraddizione e pietra d’inciampo, getta nella storia religiosa del popolo di Israele e che dovrà caratterizzare in maniera determinante l’esperienza di fede dei suoi futuri discepoli in tutte le sue dimensioni:

a. Il rapporto con Diob. Il rapporto tra loro in quanto discepoli (comunione ad intra)c. Il loro rapporto con il mondo (comunione ad extra)

3. Infine tireremo qualche conclusione, cercando di mettere a fuoco soprattutto l’atteggiamento fondamentale che le considerazioni svolte ci indicheranno a proposito nel nostro essere cristiani in dialogo con gli uomini e le donne che incontriamo sui sentieri della storia.

I testi biblici

Lc 2,34-35L’evangelista Luca drammatizza la nascita di Gesù sottolineando due aspetti che i suoi discepoli non dovrebbero mai dimenticare o sottovalutare:

1. non c’è posto per lui dentro le dinamiche socio-politiche dei vari Cesare Augusto che si muovono secondo la logica del potere e del dominio, riducendo gli uomini a numeri1;

2. ma nello stesso tempo l’evento dell’incarnazione sembra totalmente sganciato da ogni riferimento religioso tipico dell’esperienza ebraica: la nascita di Gesù, a differenza di quella di Giovanni Battista, non è annunciata nel cuore del tempio, i suoi genitori non appartengono alla casta sacerdotale, il luogo del parto non è stato consacrato da qualche particolare evento storico-salvifico, i suoi primi adoratori non sono i sacerdoti o gli scribi, ma dei poveri pastori considerati dei “fuorilegge” a motivo della loro condizione itinerante che li rendeva incapaci di rispettare le norme e le prescrizioni rituali.

L’avvicinamento e l’immersione nell’esperienza religiosa ebraica è opera dei genitori che, da buoni osservanti della legge, presentano al tempio il loro figlio primogenito. Ma, ed è questo il messaggio fondamentale di Luca, Gesù in realtà non può essere assorbito dall’esperienza del popolo al quale appartiene. Non perché lo rinneghi, ma perché lo stesso suo popolo, attraverso la sua più profonda e caratterizzante esperienza religiosa che è quella profetica, nel momento stesso in cui lo accoglie nel cuore

1 Cf Lc 2, 1ss.

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del tempio lo proietta in una dimensione universale come luce per illuminare le genti e proprio per questo gloria del suo popolo Israele.

A partire da questa considerazione di fondo, proviamo a cogliere i particolari di questo straordinario affresco lucano che, naturalmente, va letto e interpretato nel contesto di tutto il racconto del cosiddetto vangelo dell’infanzia che si concluderà con lo smarrimento e il ritrovamento di Gesù adolescente nel tempio di Gerusalemme.

1. Ferma restando la centralità del bambino Gesù, emerge la figura di Simeone, uomo giusto e timorato di Dio, ispirato e guidato dallo Spirito verso l’incontro con il Messia: non è difficile cogliere in questa figura l’identità che il popolo dell’alleanza avrebbe dovuto maturare ― e in molti dei suoi membri ha realmente maturato ― se avesse corrisposto all’amore di Dio con fedeltà, così come era stato tante volte sollecitato a fare proprio dai profeti.

2. Simeone, nella sua statura simbolica, sembra assorbire totalmente Giuseppe, l’altro uomo adulto che compare sulla scena sempre in stretta correlazione con Maria e mai da solo 2. Dopo averli benedetti (Lc 2,28) Simeone si rivolge direttamente e solo a Maria facendole chiaramente intendere nella profezia che alla sua vocazione di madre di quel bambino seguirà la vocazione a diventare la sua prima discepola per condividere con lui, fino in fondo, il suo progetto d’amore e di redenzione per l’umanità. Siamo soliti pensare che la spada che trafiggerà il cuore di Maria sia legata alla croce del Figlio e al suo dolore di madre che vive intensamente e fino in fondo questa tragedia. Naturalmente è un significato pienamente legittimo. Ma nella lettura e nell’interpretazione del testo non possiamo dimenticare quello che dice la lettera agli Ebrei : “La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore” (4,12). Mi sembra, allora, che davvero la prima e fondamentale interpretazione del testo sia quella appena suggerita: Maria è chiamata a mettersi in ascolto sempre più profondo e sempre più coinvolgente della Parola che quel Figlio annuncerà durante la sua vita e questo comporterà per lei, prima fra tutti, la disponibilità a farsi carico di quella croce che Gesù chiede a ogni suo discepolo di abbracciare e di portare con lui nella realizzazione del disegno del Padre3.

3. Non va dimenticato il fatto che Luca completa il quadro della presentazione di Gesù al tempio con la profezia di un’altra donna, Anna. In realtà non si tratta di una pennellata coreografica: il fatto evoca la profezia di Gioele4. la lettura attenta del racconto lucano della nascita e dell’infanzia di Gesù, segno di contraddizione, ci offre lo spunto per riflettere come già nel mistero dell’incarnazione la donna è chiamata a riemergere dalla condizione servile e subalterna cui l’aveva condannata il dito puntato di Adamo per essere anche lei protagonista sia sotto il profilo dell’accoglienza sia sotto quello della testimonianza di quel Regno di Dio che il Cristo inaugura con la sua incarnazione, annuncia e realizza durante la sua esperienza terrena e porta a compimento nel suo mistero pasquale. Luca, potremmo dire così, ci racconta le vicende della nascita di Cristo

2 Sono tre le espressioni che fanno riferimento a Giuseppe: portarono il bambino a Gerusalemme per offrirlo al Signore (Lc 2,22); si recò al tempio; e mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per adempiere la Legge (Lc 2,27); il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui (Lc2,33).3 Un’interpretazione già avanzata da S. Ambrogio nel suo commento al vangelo di Luca e seguita da molti padri occidentali. Cf Ambrogio, In Lucam II 61, PL 15,1574)4 Gl 3,1

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mettendo in evidenza come attraverso il mistero dell’incarnazione si ricrei lo spazio antropologico originario, in cui il maschio e la femmina sono protagonisti nel rispetto della loro diversità e in piena fedeltà alla loro reciprocità essenziale. La maschilità di Cristo da una parte valorizza la maschilità degli altri protagonisti che compaiono sulla scena del racconto (Giuseppe, Zaccaria, Giovanni Battista, i pastori, Simeone) dall’altra la ridimensiona per fare spazio alla femminilità che non vi compare in maniera affatto subalterna in Maria, Elisabetta, Anna. Anzi, più è stretta la relazione tra l’umanità e il Verbo incarnato nella sua maschilità più si manifesta il recupero di quel progetto antropologico originario che l’uomo aveva mortificato con la sua ribellione al disegno di Dio: Maria diventa sua madre non in quanto moglie ma in quanto donna e Giuseppe, mano a mano, sembra ritrarsi con i suoi tradizionali diritti di capofamiglia per lasciare spazio completamente a Maria la cui femminilità si intreccerà sempre più con la maschilità del Figlio attraverso l’itinerario indicatole da Simeone che la porterà ad essere la sua prima e più fedele discepola, fino alla croce.

4. Un processo che culminerà nel mistero della resurrezione. Non è senza significato che sarà ancora la donna (Maria di Magdala, secondo Giovanni, o alcune di loro, secondo i sinottici) che farà esperienza di questo evento che realizza in maniera definitiva il progetto salvifico e proprio per questo innesta la chiesa che nasce in una nuova dimensione dell’umano. Finalmente l’umano è liberato dai condizionamenti e dalla logica del peccato e restituito alla sua integrità originaria, caratterizzata dalla reciprocità essenziale tra il maschio e la femmina che, insieme, mantenendo la loro natura senza confusione e senza separazione, danno vita all’uomo totale (von Rad). E non è senza significato che tra queste donne non ci sia Maria: sarebbe stato troppo facile pensare che si trattasse di un privilegio riservato a lei mentre l’evento Cristo fa appello all’intera umanità perché riscopra la sua vera identità e riprenda in mano la sua storia in coerenza con la sua natura più profonda che, a immagine e somiglianza di quella divina, non può che essere amore e cioè unità nella diversità e diversità nell’unità. È questo il volto di Dio che, quel bambino, segno di contraddizione, svelerà durante la sua missione terrena e in maniera definitiva nella sua passione, morte e resurrezione.

Rom 9,33 -1Pt 2, 8Per quanto riguarda l’altra espressione cui fa riferimento il titolo del nostro corso monografico, lo ritroviamo in due passi neotestamentari: si tratta della lettera ai Romani (9,33) e della prima lettera di Pietro (2,8). È il caso di richiamarli:

a. “Che diremo dunque? Che i pagani, che non ricercavano la giustizia, hanno raggiunto la giustizia: la giustizia però che deriva dalla fede; mentre Israele, che ricercava una legge che gli desse la giustizia, non è giunto alla pratica della legge. E perché mai? Perché non la ricercava dalla fede, ma come se derivasse dalle opere. Hanno urtato così contro la pietra d’inciampo, come sta scritto: Ecco che io pongo in Sion una pietra di scandalo e un sasso d’inciampo; ma chi crede in lui non sarà deluso” (Rom 9,30-33).

b. “Stringendovi a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo. Si legge infatti nella

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Scrittura: Ecco io pongo in Sion una pietra angolare, scelta, preziosa e chi crede in essa non resterà confuso. Onore dunque a voi che credete; ma per gli increduli la pietra che i costruttori hanno scartato è divenuta la pietra angolare, sasso d’inciampo e pietra di scandalo. Loro v’inciampano perché non credono alla parola; a questo sono stati destinati” (1Pt 2,4-8).

Alcune osservazioni di fondo:

1. La centralità di Cristo risulta evidente nei due testi: la fede in lui è motivo sufficiente e determinante per avere la salvezza. Su questa base si costruisce l’identità cristiana e la chiesa della quale il discepolo di Cristo è chiamato a far parte come pietra viva

2. Ed è questo il motivo per cui Paolo invita Israele ad aprirsi alla novità di Cristo non rinnegando la sua identità e la sua cultura religiosa, ma prendendo coscienza che essa non può diventare un vestito da far indossare anche ai pagani che si aprono alla fede. Pretendendo di agire in questo modo si sminuirebbe il valore salvifico della presenza di Cristo nella storia e si creerebbero ostacoli alla sua azione redentiva destinata a tutti, dopo aver attraversato il territorio dell’esperienza religiosa del popolo ebraico non per accasarvisi in maniera definitiva. Possiamo qui già intravedere quanto sia pericolosa la tentazione di rinchiudere Cristo e il suo messaggio evangelico dentro una cultura etichettandola come cristiana ignorando o sottovalutando il fatto che Cristo è più grande di ogni cultura. La missione dei suoi discepoli non consiste perciò nell’imposizione di una cultura cristiana ma nell’annuncio di quella parola da cui nasce la fede e che, proprio attraverso questo processo, è capace di animare cristianamente ogni cultura, diventando al suo interno sale che la insapora e luce che la illumina.

3. Pietro non affronta direttamente questo problema, ma fa chiaramente intendere che l’adesione vitale a Cristo e al suo vangelo crea un nuovo tempio fatto di persone e, proprio per questo, rinnova radicalmente il sacerdozio e il culto. C’è anche qui un evidente andare oltre ciò che è stato in forza della fede in Cristo per esplorare con lui gli orizzonti di una più autentica spiritualità, anzi dell’autentica spiritualità e del vero culto gradito a Dio.

4. Cristo, sorgente determinante di salvezza, diventa sia in Paolo che in Pietro pietra di scandalo per quanti, coltivano una fede che non nasce dalla sua parola, di fatto non si stringono a Lui in un rapporto interpersonale e vitale, ma rimangono prigionieri della loro cultura religiosa e delle loro usanze con l’aggravante che presumono di elevarle a condizioni necessarie per partecipare della salvezza che Lui è venuto a realizzare. La prospettiva che questi testi spalancano davanti a noi cristiani va esattamente nella direzione opposta: si tratta, per ritornare a Luca e al vecchio Simeone, di accogliere Cristo per donarlo all’umanità intera sganciandolo dalla nostra stessa esperienza di Lui, convinti che Lui e solo Lui con il suo vangelo può fermentare la storia umana e ogni cultura rendendola capace di raccontare le meraviglie di Dio con la sua specificità e con la sua diversità. È il miracolo della Pentecoste che la chiesa è chiamata a perpetuare nel tempo e negli spazi abitati dagli uomini senza tradirne il significato più profondo consegnandolo ad un’unica lingua o assolutizzando prescrizioni e norme legate alla tradizione culturale di una sola porzione di umanità. A tale proposito mi piace riportare un brano illuminante di un rabbino ebreo: “Insistere sull’importanza della Legge orale, che non cessa di rompere, di frantumare la Legge scritta, significa insistere sulla responsabilità che gli uomini hanno ― e gli ebrei in particolare ― di rendere infinito Dio; di non contenerlo in un testo chiuso. La Torah scritta in quanto tale, senza il commento della Legge orale, non può essere il nome di Dio. Altrimenti diventa un idolo. Ciò sarebbe possibile anche se fosse l’angoscia dell’idolatria a spingerci a non rompere il significato unico a

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beneficio di nuovi e molteplici significati. La vigilanza per neutralizzare l’idolatria ci impone di non rinchiudere l’infinito nel finito, non solo in un oggetto di questo mondo ma persino in una parola” 5. Non è dunque idolatrando la nostra cultura cristiana che possiamo rendere ragione della speranza che è in noi affinché i non cristiani si aprano all’accoglienza della fede e dei nostri valori, ma percorrendo la strada che Pietro indica in questo modo: “Carissimi, io vi esorto come stranieri e pellegrini ad astenervi dai desideri della carne che fanno guerra all’anima. La vostra condotta tra i pagani sia irreprensibile, perché mentre vi calunniano come malfattori, al vedere le vostre buone opere giungano a glorificare Dio nel giorno del giudizio” (1 Pt, 2, 11s.).

L’identità cristiana e della chiesa

Alla luce di questi spunti kerigmatici, che potrebbero essere ulteriormente sviluppati e approfonditi, proviamo a tracciare e a mettere a fuoco i tratti tipici ed essenziali dell’esperienza cristiana nel rapporto con Dio, dei credenti in Cristo tra loro e infine dei cristiani con gli uomini e le donne di altre religioni o di nessuna religione.

Il rapporto con Dio Il Dio che si rivela nell’episodio della presentazione di Gesù al tempio è ancora e sempre il Dio dell’esodo: non un Dio che sacralizza l’esistente, non un Dio della conservazione o dello status quo, ma il Dio che fa del compimento delle sua promessa la porta d’accesso verso un nuovo esodo che in quel bambino avrà il suo punto di riferimento essenziale e costitutivo per dare vita a un nuovo popolo di Dio la cui identità si svilupperà sulla base dell’accoglienza che gli sarà riservata.

Un popolo che, innestandosi sull’antico Israele, non ne farà il simulacro idolatrico dell’infinito di Dio ma lo chiamerà ad aprirsi alle genti non considerandole terreno di conquista da annettere alla sua esperienza religiosa. Infatti, e questa è la grande novità, anche le genti, illuminate da colui che viene come luce per loro, saranno nella fede un riflesso di quella stessa luce che, proprio perché tale, non azzererà la loro storia specifica e peculiare. Da una parte essa ne metterà in evidenza gli aspetti positivi da far entrare nel circuito della futura esperienza ecclesiale e dall’altra gli aspetti negativi contro i quali la chiesa futura dovrà scatenare la battaglia della testimonianza, come ci ricorda Pietro, e mai quella della forza o dell’imposizione legalistica, così come fa chiaramente intendere Paolo.

È su questa radicale novità che la presenza nella storia di quel bambino diventerà inquietante, non lasciando adito a soluzione di comodo o di compromesso: o la resurrezione o la rovina di molti in Israele. È in gioco l’identità del cristiano che non può essere una cosa e il suo opposto. Si tratta delle fondamenta di quell’edificio spirituale di cui parla Pietro. A questo livello ci troviamo inesorabilmente di fronte alla logica dell’aut… aut… che una falsa e drammatica concezione di Dio, della sua chiesa e della missione che è chiamata a compiere da una parte ha sostituito con una mal concepita logica dell’et… et… dall’altra ha spostato su piani assolutamente periferici pretendendo di farli diventare centrali e determinanti. A leggere attentamente la storia della chiesa, ci si accorge come l’et… et… si è imposto nel rapporto con realtà che

5 M-A. Ouaknin, Le dieci parole, EP, Milano 20033, pp. 50-51

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sono assolutamente a fondamento dell’identità cristiana facendone perdere la caratura evangelica e salvifica e riducendole a gesti e riti poco significativi e affatto incisivi nella vita dei più. Mentre ― come logica conseguenza ― l’aut… aut è stato coniugato con convinzioni, prese di posizione e interventi canonici che il tempo e una più profonda riflessione teologica e pastorale hanno minato alla base per la loro incongruenza con il messaggio evangelico. A tale proposito e a titolo di esempio e di conferma con quanto appena detto mi pare opportuno offrire qualche concreto riferimento.

1. Per quanto riguarda l’et… et…: il terzo precetto della chiesa del catechismo di Pio X recita: Confessarsi almeno una volta l’anno, e comunicarsi alla Pasqua di Risurrezione, ciascuno alla propria parrocchia6. È evidente come questo precetto si discosti totalmente da ciò che l’Eucarestia è secondo l’espressa volontà di Cristo: “Prendete e mangiate…. Prendete e bevetene tutti…”. L’Eucarestia è fatta per essere mangiata e bevuta, non per essere osservata e neppure, in prima istanza, adorata. Ma come si fa a mangiarla e berla quando non ci sono le condizioni? L’apostolo Paolo scrive ai Corinzi: “Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna. È per questo che tra voi ci sono molti ammalati e infermi, e un buon numero sono morti. Se però ci esaminassimo attentamente da noi stessi, non saremmo giudicati; quando poi siamo giudicati dal Signore, veniamo ammoniti per non esser condannati insieme con questo mondo” (1 Cor 11, 28-32). È davvero triste osservare come nel tempo questo richiamo di Paolo che ha una valenza evangelica, esistenziale e profetica sia stato soffocato da una meschinità giuridica che ha sminuito il vero significato dell’Eucarestia per il cristiano e per la chiesa. Paolo, infatti, basandosi sul presupposto fondamentale che Cristo non è venuto a premiare i buoni, ma a salvare i peccatori, ricorda ai Corinzi che è proprio l’eucarestia la sorgente di questa salvezza e che il cattivo rapporto con essa, che come sappiamo per Paolo, consiste soprattutto nella mancanza d’amore e nella divisione tra i cristiani, genera comunità dove l’infermità morale e spirituale abbonda e, in molti casi, si trasforma inesorabilmente in morte. La ricetta di Paolo non è quella di salvaguardare l’eucarestia dalla contaminazione morale dei cristiani di Corinto indegni di celebrarla raccomandando loro di non mangiarla e di non berla, ma di richiamarli ad esaminare attentamente e profondamente la loro vita per mangiarla e berla con un animo rinnovato e disponibile a concretizzarne il significato nei loro rapporti reciproci. All’epidemia morale dei Corinzi, il medico Paolo non risponde dicendo di non prendere la medicina che guarisce e salva, ma di prenderla rispettando le condizioni che la rendono efficace. Esattamente l’opposto di quello che si è fatto nel tempo così come testimonia il catechismo di Pio X e la prassi invalsa di celebrare la Santa Messa anche senza la partecipazione dei cristiani al banchetto eucaristico. O addirittura impedendo loro di partecipare a quel banchetto. Quando questa consuetudine comincia ad affermarsi (guarda caso, siamo nel IV secolo, quando la chiesa si intreccia con il potere e la sua logica!) si levano le voci dei padri a mettere in guardia dal pericolo insisto in questa prassi. Giovanni Crisostomo, ad esempio, lamenta: “Invano ogni giorno si celebra il sacrificio; invano ogni giorno stiamo all’altare: nessuno viene alla comunione”7. Sant’Ambrogio: “Se questo è pane quotidiano, perché lo prendi a distanza di un anno, come usano fare i greci in

6 Pio X, Catechismo maggiore, n. 4747 Cit. in AA.VV. (a cura), Eucarestia. Teologia e storia della celebrazione, Marietti, 1983, p. 81

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Oriente?”8. Sulla questione, sotto la spinta anche della riforma luterana, intervenne anche il Concilio di Trento, lasciando tuttavia praticamente insoluto il problema9. Oggi, a partire dal Concilio Vaticano II, si registra un forte recupero nella frequentazione della mensa eucaristica da parte di tanti cristiani, ma dobbiamo riconoscere che certamente non è dovuto nella maggior parte dei casi ad una vera presa di coscienza del fatto che essa è fons et culmen di tutta la vita cristiana come ripete più volte il Concilio stesso. Purtroppo la logica dell’et… et… ha prodotto danni ingenti nel rapporto di ogni cristiano con l’eucarestia: l’eccessiva preoccupazione nel correggere gli errori di grammatica o magari di sintassi ci ha fatto perdere di vista la preoccupazione fondamentale che avremmo dovuto avere affinché non si andasse fuori tema. L’eucarestia non è il premio dei buoni che, se fossero tali non avrebbero bisogno di essa, ma è l’aiuto per i deboli che proprio perché tali hanno bisogno di essere sostenuti nel loro cammino e rialzati quando dovessero inciampare e cadere. In questa prospettiva, profondamente evangelica, non può accostarsi ad essa chi, coscientemente e volutamente va fuori tema e cioè decide di camminare al di fuori di quel comandamento che Gesù propone ai suoi discepoli come il segno distintivo del loro essere e del loro operare: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti

8 Cit. in ibidem. 9 II progressivo allontanamento dall’Eucarestia come cena del Signore a favore di una teologia sacramentaria che vedeva in essa quasi esclusivamente l’aspetto sacrificale, i cui benefici potevano essere prodotti e ricevuti anche con la sola comunione spirituale, ha favorito le posizioni luterane che rimproverano appunto l’assenza del popolo alla mensa eucaristia. Purtroppo il Concilio di Trento perde l’occasione di riproporre con forza e decisione l’autentica tradizione della chiesa quest’aspetto fondamentale ed essenziale del sacramento che costituisce la fonte e il culmine della vita cristiana, come dirà il Vaticano II. A tale proposito basti leggere quanto viene detto nel suo Dottrina e canoni sul sacrificio della messa: “Il sacrosanto sinodo desidererebbe certo che in ogni messa i fedeli presenti si comunicassero non solo spiritualmente, mediante il desiderio, ma anche col ricevere sacramentalmente l’eucarestia, per ricevere da questo Santissimo sacrificio un frutto più abbondante . Tuttavia, se ciò non sempre avviene, non per questo il concilio condanna come private e illecite quelle messe nelle quali solo il sacerdote si comunica sacramentalmente, ma le approva e le raccomanda, perché anche quelle messe devono essere considerate come veramente comuni, sia perché il popolo in esse si comunica spiritualmente, sia perché sono celebrate dal pubblico ministro della chiesa, non solo per se, ma anche per tutti i fedeli che appartengono al corpo di Cristo” (DS, 1747). L’approfondimento di questi aspetti li lasciamo alla nostra scuola di teologia. Sia sufficiente nella prospettiva di questa relazione aver messo in evidenza come il rapporto con l’eucarestia si è sviluppato inserendo nell’esperienza ecclesiale un et... et... che non è evangelicamente coerente. Ed è questo il problema: la pastorale della chiesa non può non realizzarsi nel rispetto di questo principio e nella considerazione che, nel momento stesso in cui incontri sul tuo cammino una persona, una realtà, una storia tu devi essere particolarmente attento all’ascolto e dunque aperto anche ad inserire nella tua esperienza di fede e di chiesa tutto ciò che di positivo quell’incontro può suscitare sia per quanto riguarda lo sviluppo del tuo pensiero teologico sia per quanto riguarda la prassi e l’esperienza quotidiana. Ma tutto questo deve avvenire in piena coerenza con il vangelo altrimenti quello che viene inserito diventa deleterio. Il riferimento all’eucarestia, così come abbiamo constatato, ci fa comprendere che ciò che è stato introdotto nella concezione teologica del sacramento e nella sua pratica ecclesiale, purtroppo, ha fatto perdere di vista l’aspetto determinante ed essenziale che Cristo stesso nell’istituirla ha descritto e proposto con assoluta chiarezza. Ci sarebbe da osservare come anche il fatto che nella nostra comunità cristiana a lungo andare sia invalso l’uso di comunicare il popolo di Dio solo con il segno sacramentale del pane non corrisponde all’esplicita volontà di Cristo e al valore simbolico dei due segni che lui ha voluto consegnare alla sua chiesa. Un grande liturgista che ho avuto la fortuna di conoscere personalmente e di ascoltare in diverse occasioni dice: “La comunione sotto le due specie non è la comunione di festa. Non è una concessione; è diritto di Dio. Purtroppo nella chiesa la conoscenza del diritto di Dio ancora non c’è; c’è ancora il diritto degli uomini che si permettono di dare concessioni su quello che Dio ha dato a tutti! Il Signore ha dato a tutti il pane a mangiare e il vino a bere. Per la paura che si versi una goccia del sangue di Cristo noi impediamo di portare a compimento totale il sacramento pasquale il quale è fatto di due parti e non si può cambiare ciò che Cristo ha fatto. La paura impedisce di capire. Nella chiesa è stata dimenticata l’importanza simbolica del sangue (basta pensare alla festa del “Corpus Domini”): i due aspetti della Pasqua ― liberazione e alleanza ― significati rispettivamente dal pane e dal vino, sono distinti ma non separati. Siamo nel campo della simbologia: una simbologia reale, nel senso di realtà simbolica” (S. Marsili, I Sacramenti segni del mistero di Cristo, dispense ad uso privato).

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dipendono tutta la Legge e i Profeti”(Mt 22,38-40). La precettistica e il prevalere del moralismo legalistico ha finito per porre sullo stesso piano il “mangiar carne il venerdì” e la mancanza d’amore nei confronti degli altri o addirittura l’avere il cuore pieno di odio e di rancore anche all’interno del proprio nucleo familiare. Per questo, ed è vita vissuta, nelle nostre comunità cristiane è diventato del tutto normale accostarsi alla comunione senza la consapevolezza che, come ci ricorda Paolo, se anche si compiono i gesti religiosi più significativi o addirittura eclatanti, quando manca la carità siamo cembali che tintinnano, siamo un nulla e niente ci giova (cf 1 Cor 13).

2. E vengo alla logica dell’aut… aut…. Il vangelo, a differenza di quanto a volte viene fatto credere, si gioca tutto su questa logica: o sì o no. O si sceglie Cristo e si accetta di seguirlo alle sue condizioni oppure non si può essere suoi discepoli. È impressionante come oggi l’aggettivo cristiano ― e ancor più l’aggettivo cattolico ― sia sulla bocca di tutti, usato e abusato a difesa di idee e di posizioni socio-politiche che sono all’opposto di quanto il vangelo chiede a coloro che si dicono discepoli di Cristo. Tutto questo senza che ci sia una presa di posizione chiara e precisa della chiesa salvo quando si toccano temi e problemi che mettono in discussione non il vangelo ma la sua dottrina o talvolta la sua pretesa di voler condizionare le leggi dello stato non confessionale con i suoi principi rivedibili e perfettibili. E che i suoi principi siano rivedibili e perfettibili lo dimostra proprio l’uso dell’aut… aut… rispetto a verità proclamate solennemente e poi rivedute e corrette alla luce di una maggiore conoscenza della Parola di Dio e nel rispetto di quella dinamica che la chiesa non potrà mai cancellare perché affermata da Cristo stesso: la verità non sarà mai un dato posseduto, ma sarà sempre da ricercare e da conquistare. La verità, infatti, è Dio stesso nel suo mistero: la rivelazione, ci ricorda W. Kasper nel suo Il Dio di Gesù Cristo10, è sempre e comunque la rivelazione della sua misteriosità e questo significa che non c’è dottrina che lo possa contenere in maniera definitiva. Due soli esempi per comprendere come, se mal applicata, la logica dell’aut… aut… ci porta decisamente lontano dal vangelo e come la chiesa, guidata dallo Spirito che la conduce alla verità tutta intera, non può far a meno di rivedere e correggere posizioni date per assolute.

3. Afferma il Concilio Lateranense IV (1215): “Una, inoltre, è la Chiesa universale dei fedeli, fuori della quale nessuno assolutamente si salva”11. Si tratta del famoso principio extra ecclesiam nulla salus affermato la prima volta da Cipriano di Cartagine. La posizione del concilio Vaticano II è decisamente diversa. Infatti dopo aver ricordato che “fondandosi sulla Scrittura e sulla Tradizione… questa chiesa pellegrinante nel mondo è necessaria alla salvezza” e che “soltanto Cristo è il mediatore e la via della salvezza; e lui si rende presente a noi nel suo corpo che è la chiesa”12 non esita ad affermare: “Coloro che non hanno ancora accolto il Vangelo, sono ordinati al popolo di Dio in vari modi. In primo luogo quel popolo che ha ricevuto le alleanze e le promesse e dal quale è nato Cristo secondo la carne (cf. Rm 9,4-5): popolo carissimo in virtù dell’elezione e a motivo dei suoi padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono senza pentimento (cf. Rm 11,28-29). Ma il disegno di salvezza abbraccia anche coloro che riconoscono il Creatore, e tra questi in primo luogo i musulmani che professano di tenere la fede di Abramo e adorano con noi il Dio unico, misericordioso, giudice degli uomini nell’ultimo giorno. Dio non è lontano nemmeno da

10 W.Kasper, Il Dio di Gesù Cristo, Queriniana, Brescia 20088 11 DS, 80212 LG, n. 14

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coloro che cercano un Dio ignoto nelle ombre e sotto le immagini, perché Dio dà a tutti vita, respiro e ogni altra cosa (cf. At 17,25-28), e come salvatore vuole che tutti gli uomini siano salvati (cf. 1Tm 2,4). Infatti coloro che ignorano il Vangelo di Cristo e la sua chiesa senza loro colpa, ma cercano sinceramente Dio, e sotto l’influsso della grazia si sforzano di compiere fattivamente la volontà di Dio conosciuta attraverso il dettame della coscienza, costoro possono conseguire la salvezza. Anche a coloro che senza colpa personale non sono ancora arrivati ad una conoscenza esplicita di Dio, ma si sforzano, non senza la grazia divina, di condurre una vita retta, la provvidenza divina non rifiuta gli aiuti necessari alla salvezza. Infatti tutto ciò che di buono e di vero si trova presso di loro, la chiesa lo considera come una preparazione evangelica, come un dono concesso da colui che illumina ogni uomo, perché abbia finalmente la vita”13. Decisamente questa posizione del Vaticano II è più vicina alla descrizione del giudizio universale che troviamo nel vangelo di Matteo di quella di Cipriano di Cartagine e del Concilio Lateranense. L’aut… aut… (o dentro o fuori) è stato, come si vede applicato, fuori contesto: lo possiamo spiegare con ragioni storiche14, ma crolla di fronte a quelle evangeliche.

4. E vengo ad un esempio più vicino a noi. Uno degli errori condannati dal Sillabo viene espresso in questi termini: “Ogni uomo è libero di abbracciare e professare la religione che, guidato dal lume della ragione, ciascuno avrà ritenuto vera”15. Il Concilio Vaticano II afferma solennemente: “…la persona umana ha diritto alla libertà religiosa. Tale libertà consiste in questo, che tutti gli uomini devono essere immuni dalla coercizione da parte sia di singoli, sia di gruppi sociali e di qualsivoglia potestà umana, e in modo tale che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, di agire in conformità alla sua coscienza, privatamente o pubblicamente, in forma individuale o associata. Inoltre dichiara che il diritto alla libertà religiosa si fonda realmente sulla dignità stessa della persona umana, quale si conosce sia dalla parola rivelata di Dio, sia dalla stessa ragione. Questo diritto della persona umana alla libertà religiosa deve essere riconosciuto nell’ordinamento giuridico della società e diventare diritto civile”16. Anche qui si nota come il ricorso all’aut… aut… sia stato quanto meno improvvido e certamente non ha favorito quello spirito di dialogo che avrebbe potuto disarmare tanti animi e favorire la crescita di una società più umana nel rispetto della diversità di ciascuno in una prospettiva di comunione e di solidarietà. Ma soprattutto appare chiaro che poco o nulla ha a che vedere con il vangelo che, a proposito di libertà, non lascia adito a dubbi se è vero come è vero che l’esperienza che Cristo propone si lega indissolubilmente a quel se vuoi che dovremmo riprendere seriamente in considerazione non solo nella nostra riflessione teologica, ma anche nella nostra prassi pastorale. L’effetto slavina che si verifica alla conclusione di ogni nostro

13 Idem, n. 1614 “Ci fu un tempo”, scrive Küng, “quello dei padri della chiesa, e soprattutto dall’alta patristica, in cui la Ecclesia catholica coincideva in estensione abbastanza esattamente con il mondo, con il mondo allora conosciuto. In tutto l’’ecumene’, su ‘tutta la terra abitata’ la chiesa era a casa sua; potrebbe perfino sembrare che per lungo tempo il mondo sia stato cristiano. Data questa prospettiva geografica limitata, fu più facile formulare un assioma come ‘fuori della chiesa non c’è salvezza’” ?. Al di là delle possibili spiegazioni di questo assioma, occorre riconoscere che “l’assolutismo tipicamente ecclesiastico ha reso il cristianesimo invulnerabile, immutabile ed aggressivo. Il concilio di Firenze (1442), richiamandosi a Cipriano e ad Origene, definiva il principio del’ ‘Extra ecclesiam nulla salus’ (...). La chiesa romana, che a quel tempo era anche chiesa imperiale, è invece la chiesa della salvezza. Questa dichiarazione era preceduta e sarà poi seguita dalle crociate, dalle guerre contro gli Albigesi e dalle persecuzioni politiche delle categorie di persone sopra citate. Soltanto cinquecento anni più tardi, con il concilio Vaticano II, la chiesa cattolica assumerà un atteggiamento diverso” (cit. in L. Blasetti, Dio è amore… anche in teologia, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2009, pp. 219-220)15 DS, 2915 16 DH, n. 2

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itinerario di Iniziazione cristiana e che vede i cresimati abbandonare in massa la chiesa non è azzardato considerarlo come il prodotto inevitabile di un cristianesimo imposto, forzato, obbligato (la tradizione, la cultura dominante, la famiglia, le usanze locali…) e non scelto liberamente e consapevolmente.

Mi pare abbastanza per tirare qualche conclusione su questo aspetto. Il Dio che emerge fin da subito nell’impatto di Cristo, segno di contraddizione e pietra di inciampo, con la storia dell’uomo, ha un’identità e un volto ben preciso:

1. Non entra nella storia per rimanere prigioniero dentro una cultura o un’esperienza religiosa, ma per liberare gli uomini dalle prigionie, compresa e soprattutto quella religiosa, che a motivo del loro egoismo ha deturpato e continua a deturpare il vero volto dell’uomo, pensato e voluto a sua immagine in quanto maschio e femmina. Da qui l’invito a ricreare lo spazio antropologico nel pieno rispetto di quella dinamica comunionale che non uccide la diversità ma la valorizza in un reciproco scambio e in un reciproco arricchimento.

2. Entra nella storia come luce che avvolge l’intera umanità non per abbagliarla ma per illuminarla con la sua presenza affettiva ed effettiva. Inoltre fa subito comprendere a coloro che lo accolgono che la loro gloria dipende proprio dalla capacità non solo di non ostacolare con i loro baluardi culturali e religiosi la diffusione di questa luce ma di farsene segno e strumento senza cadere nella presunzione di essere loro la sorgente della luce. A tale proposito il Concilio Vaticano II ci racconta la chiesa voluta e pensata da Dio attraverso la missione redentrice del Cristo e il dono dello Spirito in quello straordinario documento che è la Lumen gentium. Molti, di fatto, fermandosi solo al titolo dimenticano che queste due parole sono riferite a Cristo e non alla chiesa17.

3. E’ il Dio che intende riappropriarsi della sua libertà d’azione invitando coloro che lo accolgono al pieno rispetto della logica dell’aut… aut… e dell’et… et… non sulla base della loro esperienza religiosa elevata a criterio di giudizio e di valutazione, ma esclusivamente sulla base dei criteri e degli orizzonti esperienziali che si fondano e si alimentano della sua parola. Non è un Dio a cui far indossare ogni vestito, ma non è neppure il Dio che accetta di indossarne uno solo, confezionato da qualche sarto presuntuoso che rivendica diritti di primogenitura che, come ben sappiamo, appartengono solo a quel Figlio primogenito che ha mandato a portare a compimento in maniera definitiva il suo progetto d’amore.

4. Ed è un Dio che chiama alla conversione avvertendo che non si può accoglierlo senza la disponibilità a cambiare i pensieri del cuore (sic) pena la rovina di molti in Israele prima, nella chiesa poi.

Il rapporto dei cristiani tra loroQuest’ultima osservazione ci proietta decisamente sul terreno del rapporto che l’autentico discepolo deve avere nei confronti degli altri discepoli. Per comprenderne l’importanza dobbiamo partire da una costatazione che ritengo drammatica e sconvolgente insieme: ancora oggi, nel 2010, le nostre comunità cristiane sono abitate da tantissime persone che non hanno nessuna familiarità con la Parola di Dio. Vale

17“La luce delle genti è Cristo; e questo santo sinodo, riunito nello Spirito Santo, desidera ardentemente illuminare tutti gli uomini con la luce di Cristo che si riflette sul volto della chiesa, annunciando il Vangelo ad ogni creatura (cf. Mc 16,15)” (LG n. 1)

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ancora l’osservazione ironica di Paul Claudel quando diceva che i cattolici hanno tale e tanto rispetto della Bibbia che, per paura di sciuparla, non la aprono mai. Lutero e il suo sola Scriptura fa sentire ancora il suo peso alimentando, nei fatti, una stupida e meschina reazione che ci porta ancora a credere che la formazione cristiana debba passare più attraverso i sentieri dell’indottrinamento che dell’evangelizzazione. “La nostra gente, quasi dovunque, continua a chiedere il battesimo, la comunione e la cresima per i propri figli, vuole celebrare il matrimonio in chiesa ed esige la sepoltura religiosa. Ma quanti sono consapevoli degli impegni di vita cristiana, che questi riti sacri presuppongono e coinvolgono? Le feste si rinnovano con puntualità e solennità, secondo antiche consuetudini: i segni religiosi sono ancora presenti e dominanti nel panorama di un popolo, che da circa due millenni si gloria del nome cristiano, ma si può sempre dire che tutto questo nasca da un profondo ‘senso religioso’, da un’autentica ‘fede’ cristiana?” 18: sono parole scritte dai nostri vescovi nel 1971. Il dramma sta nel fatto che sono più attuali che mai e questo dovrebbe inquietare chi ama veramente la chiesa di Gesù Cristo. Più avanti lo stesso documento ci fa comprendere il motivo della situazione appena descritta: “Per il dono della fede l’uomo si incontra personalmente con Dio: col medesimo Dio che, prima, ha parlato a tutti gli uomini attraverso la creazione e, più tardi, ha rivolto loro il suo universale messaggio di salvezza. Questo messaggio Iddio lo ha manifestato in modi diversi, attraverso i profeti, soprattutto per mezzo del Figlio, la sua eterna Parola fatta carne (cf. Eb 1,1-2; Gv 1,14). La fede, dunque, presuppone la Parola di Dio, il suo annuncio e il suo ascolto; di essa continuamente si nutre. È come un dialogo meraviglioso, sempre aperto, tra il credente ed il suo Dio. Attraverso la fede e i sacramenti della fede, che realizzano il piano di salvezza di Dio, l’uomo è ammesso alla comunione di vita e di amore con lui. Il credente è, per vocazione, uditore della Parola che il Padre dice in Gesù. Ascolta per comprendere ed accogliere l’invito attuale di salvezza che egli ci rivolge, per lasciarsi guidare dallo Spirito e per vivere, seguendo Cristo, la vita nuova che il Padre gli dona in lui. Modo di pensare e di volere, sentimenti, mentalità, carattere, stile di vita, tutto l’uomo è coinvolto nell’atto vitale della fede, col quale si affida a Dio e ne accetta in Cristo la testimonianza definitiva”19.

Il peccato originale sta nel fatto che nella chiesa si è snaturata la natura del credente: uditore della Parola che il Padre dice in Gesù. Questo è il motivo per cui sembra diluirsi o svanire del tutto ciò che i vescovi affermano: “Modo di pensare e di volere, sentimenti, mentalità, carattere, stile di vita, tutto l’uomo è coinvolto nell’atto vitale della fede, col quale si affida a Dio e ne accetta in Cristo la testimonianza definitiva”.

La situazione attuale appare ancora più grave perché si è ormai sgretolato l’edifico del cosiddetto catecumenato sociale in forza del quale, all’interno di una società religiosamente omogenea quale era quella occidentale e italiana in particolare, di fatto si era cristiani per cittadinanza e non per scelta personale. Franco Garelli, qualche anno fa, ci parlava della religione dello scenario osservando: “Sul palcoscenico della propria vita l’individuo può agire secondo un copione profano, può avere come criterio di riferimento valori ed orientamenti che non si raccordano necessariamente a principi religiosi. La vita quotidiana può essere scandita sulla lunghezza d’onda di attese contingenti, su prospettive che non rimandano ad un riferimento trascendente”20. Prendere coscienza di questa realtà in maniera intelligente non dovrebbe spingerci, come purtroppo spesso avviene nei nostri ambienti cattolici e clericali, a rimpiangere il passato ma a renderci conto che, come ci avverte ancora Garelli, “una religione che mantiene 18 CEI, Vivere la fede oggi, 04-04-1971, n. 219 Idem, n.1420 F.GARELLI, La religione dello scenario, Il Mulino, Bologna 1986, p. 25

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validità per la maggioranza della popolazione non può non essere esente da ambiguità, da contraddizioni, da processi di sfinimento e da perdita di significatività. La persistenza della religione nell’attuale società sembra determinarsi a scapito della identità religiosa stessa”21.

La strada che si spalanca davanti a noi è di una limpidezza cristallina: non più l’indottrinamento, ma l’evangelizzazione. La differenza è radicale: l’indottrinamento tende a limitare i confini della libertà della persona cui è destinato, l’evangelizzazione invece richiede come prima, fondamentale e determinante condizione proprio la libertà dell’uomo: se vuoi, vieni e seguimi. L’indottrinamento punta alla testa presumendo di raggiungere il cuore, senza riuscirci quasi mai; l’evangelizzazione punta al cuore ed è sicuro che quando ci si innamora di una realtà scatta il desiderio di conoscerla sempre meglio. Per questo Cristo, segno di contraddizione e pietra di inciampo, è venuto perché cambino i pensieri del cuore.

Fides ex auditu (Rom 10,17): questa è la fede che salva proprio perché cambia il cuore di chi l’accoglie aprendolo alla comunione con Dio e di conseguenza alla comunione con quanti vivono la stessa esperienza. È la fede che Cristo ha richiesto e raccomandato solennemente nel suo testamento spirituale. Prima della sua passione, morte e resurrezione, sembra quasi invocare i suoi discepoli con i gesti e con la preghiera rivolta al Padre di non tradirla mai rinnegando il comandamento dell’amore e la disponibilità al servizio che rendono i suoi discepoli segni visibili della sua presenza nella storia e testimoni credibili dell’efficacia salvifica del vangelo. Basti ricordare il gesto della lavanda dei piedi22 e quel siano una cosa sola23 che Gesù ripete più volte indicando la sua comunione con il Padre come punto di riferimento di questa dinamica comunionale. I primi discepoli avevano ben compreso questo messaggio e certamente l’impegno a realizzarlo era al primo posto nella loro esperienza quotidiana se è vero quello che Luca ci riporta nei famosi sommari degli Atti: “Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno”(At 2,44s); “La moltitudine di coloro che eran venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune”(At 4,32).

Possiamo tracciare, sintetizzando, alcuni punti salienti e, direi determinanti, a proposito di quello che dovrebbe essere il rapporto dei cristiani tra di loro, accogliendo realmente e non solo a parole Cristo come segno di contraddizione e pietra di inciampo:

1. Alla base di tutto ci deve essere la fede biblica, evangelica, che è essenzialmente scoperta, ascolto, accoglienza e rapporto vitale con Cristo: si tratta di un vero e proprio rapporto d’amore e di fiducia che nasce dal cuore e si sviluppa attraverso una conoscenza che, in prospettiva biblica, non è mai solo teorica o dottrinale, ma sempre anche e soprattutto esperienziale.

2. La sorgente da cui scaturisce questa fede è la Parola e ciò significa che il processo formativo del cristiano non può che essere un itinerario di autentica evangelizzazione e catechesi. Solo al suo interno il momento celebrativo diventa conferma solenne della propria scelta personale e della consapevolezza dell’aspetto essenzialmente ecclesiale della fede accolta e professata: dalla chiesa, nella chiesa e per la chiesa affinché con il contributo di tutti essa possa essere sempre più e sempre meglio il segno e lo strumento dell’amore di Dio per l’umanità intera.

21 Idem, p. 4122 Gv 13,1ss.23 Gv 17

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3. Sulla comunione che nasce dalla fede si fonda l’agire del cristiano che non è assolutamente concepibile come l’agire di un individuo che sceglie, parla e opera come un a se stante dimenticando che in quel suo scegliere, agire e parlare c’è e deve manifestarsi quel noi che è la chiesa alla quale ha aderito consapevolmente e responsabilmente. Non esiste e non può esistere un agire cristiano che non sia nell’ordine della testimonianza o della missione. Due realtà sulla quali dobbiamo riflettere senza fare confusione.

a. La testimonianza: si lega indissolubilmente, e quindi vale per tutti, al battesimo. La potremmo esprimere in questo modo: ogni battezzato, coerentemente al sacramento ricevuto, è chiamato ad agire da cristiano in ogni ambiente, cercando di essere sale e luce nel rispetto di tutti e confidando che attraverso la sua testimonianza coerente e coraggiosa qualcuno possa condividerne i valori e gli obiettivi.

b. La missione: si lega al carisma e quindi a quella vocazione particolare che non annulla né sostituisce quella battesimale, comune a tutti, ma la arricchisce per il bene della chiesa e per il servizio al mondo di quei doni dello Spirito che Dio offre gratuitamente secondo il suo disegno e la sua volontà. In questa prospettiva non si agisce più solo da cristiani ma in quanto cristiani e l’obiettivo esplicito e trasparente è proprio quello di annunciare il vangelo ad ogni creatura così come Cristo Risorto raccomanda ai suoi apostoli.

Bisogna evitare di confondere queste due realtà. Purtroppo si ha l’impressione, oggi più che mai, che troppi cristiani, soprattutto in Italia, pretendono di agire in quanto cristiani senza agire da cristiani. Inoltre, e questo risulta sconcertante sia ad intra che ad extra, i cristiani nel confrontarsi su idee e progetti appaiono molto più tifosi dei loro leaders religiosi, culturali e politici che non testimoni, anche nello stile, del vangelo. Come se il definirsi cristiani o cattolici fosse solo e semplicemente un accessorio e non il tratto fondamentale della loro identità. Con la tragicomica conseguenza che ciò che affermano e pretendono da chi non la pensa come loro viene immediatamente aggiustato, accantonato o corredato da surreali giustificazioni quando riguarda appunto il loro leader o il capo del partito.

I cristiani nel loro rapporto con gli altriE veniamo al rapporto dei cristiani con gli altri. Mi limiterò a poche essenziali osservazioni, confidando sul fatto che quanto ho cercato di dire finora ha già in qualche modo offerto spunti di riflessione al riguardo. Qualche hanno fa pubblicai un libro dal titolo emblematico: Quando la chiesa ha paura24. La tesi di fondo: la paura, alla luce del vangelo, nasce dalla mancanza o dalla debolezza della fede e dal conseguente ripiegamento su se stessi dimenticando che la chiesa è di Dio, anche quando sembra che le tempeste della storia siano tanto potenti da poterla affogare. Ma questo non deve spingerci verso l’estremo opposto: troppi cristiani, infatti, pensano che la chiesa sia una sorta di invincibile armata chiamata ad attraversare i mari della storia per affermare la sua potenza e per imporre agli altri il suo credo, con le buone o le cattive. Dire che è di Dio, in una prospettiva di autentica fede, significa fare i conti con la sua volontà e il suo progetto e, perciò, stare dentro la storia secondo le indicazioni che egli stesso ha dettato nel mistero della rivelazione che culmina nell’evento Cristo e nel dono dello Spirto.

24 L. Blasetti, Quando la chiesa ha paura, Borla, Roma 1983.

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Per evitare il rischio di cedere alla tentazione dell’onnipotenza, l’unica strada da percorrere è quella di una di una fede profondamente e genuinamente biblica. E qui ci può aiutare il richiamo a quanto dice Simeone a Maria prendendo tra le braccia il bambino Gesù: “Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele”. La vicenda storica di questo bambino ci racconta di una forte opposizione al suo messaggio da parte degli uomini di religione che tentano in ogni modo di imprigionarlo dentro i loro schemi dottrinali e cultuali. Lo accolgono, invece, coloro che hanno fede in lui e intrattengono con lui un rapporto interpersonale. Dopo la sua resurrezione la chiesa nascente si trova ad affrontare il problema del suo incontro con il mondo pagano. Anche in questo caso fanno sentire la loro voce coloro che pensano di dover imprigionare l’azione potente dello Spirito dentro gli angusti limiti della religione intesa come espressione concreta della fede professata. E qui occorre un chiarimento: fede e religione non sono la stessa cosa. La religione è, appunto, l’espressione visibile e concreta della fede attraverso quei riti che non solo la esprimono ma la consolidano e la alimentano. Non c’è fede senza religione, ma non c’è religione che possa raccontare tutto il mistero di Dio dal momento che riti, parole e gesti sono sempre contestualizzati dentro una particolare cultura che finisce per essere anche una sorta di involucro che lo condiziona e ne impedisce l’espressione di tutte le sue potenzialità. Dio, per fare un esempio di immediata comprensione, parla tutte le lingue e presumere che lui debba parlare solo in latino con i membri della sua chiesa, così come si è fatto nel passato, significa perdere la possibilità di arricchirsi della ricchezza espressiva, simbolica e poetica che ogni lingua e ogni linguaggio contiene. Inoltre c’è da dire anche che purtroppo può esistere una religione senza fede: esteriormente parole e gesti sono identici a quelli della fede, ma è facile comprendere che io posso farmi un segno di croce non come espressione della fede ma della bestemmia o della superstizione. Tornando alla chiesa nascente, per fortuna Dio suscita Paolo e non è senza significato che provenga da quel mondo religioso che si era opposto decisamente a Gesù di Nazareth. Paolo mette in campo la sua fede e così facendo afferma il principio che dovrebbe essere alla base dell’agire cristiano nei confronti degli uomini e delle donne che, per comando esplicito di Gesù, sono destinatari dell’annuncio evangelico: non è la religione che deve dire ciò che è e ciò che non è fede, ma è la luce della fede che deve spingere gli uomini religiosi a verificare fino a che punto sono in sintonia con la Parola di Dio. In altre parole: non è il modo di tradurre in esperienza religiosa la propria professione di fede che deve determinare e condizionare in tutto e per tutto la risposta di coloro che nell’ascolto del vangelo si aprono anche loro all’accoglienza di Cristo. Proviamo a immaginare per un attimo cosa sarebbe stato della chiesa se avessero prevalso coloro che pretendevano di imporre anche ai pagani convertiti la circoncisione e le usanze giudaiche. È drammatico pensare come la prima grande lezione che la chiesa nascente propone a proposito dei criteri di lettura e di soluzione dei problemi che inevitabilmente sarebbero nati nell’impatto con nuove culture e nuove epoche storiche, sia ancora oggi disattesa da tanti cosiddetti conservatori. Chi pensa o pretende di imprigionare Dio dentro gli angusti spazi delle proprie usanze religiose o delle proprie formule dottrinali nega quell’infinito di Dio che, incontrato nella fede, da vita, nello Spirito e nella varietà dei suoi donni, alla molteplicità dei linguaggi e delle forme religiose senza mandare in frantumi ciò che essenziale e qualificante nella specificità dell’esperienza cristiana. Non sarebbe male per costoro andarsi e rileggere la parabola dei talenti (Mt 25, 14-29 e Lc 19, 12-27) che condanna senza ombra di dubbio coloro che si limitano a conservare il dono di Dio senza il coraggio umile e servizievole di gettarsi nella mischia per investirlo sul terreno della storia per il loro bene e per il bene di tutti.

Nella realizzazione di questo impegno, dobbiamo maturare sempre più la convinzione che se i cristiani muovono ciascuno dalla propria religione (di popolo, di campanile o di gruppo) non si incontreranno mai e

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tanto meno potranno incontrare chi non appartiene al loro mondo. Se invece si muoveranno sotto la spinta della fede alimentata dalla Parola di Dio, senza nessuna paura, attraverseranno le strade del mondo non con lo spirito dei crociati o dei conquistadores ma esclusivamente per raccontare l’amore di Dio con il suo stesso stile e con il suo stesso linguaggio. Questo richiede alcune condizioni:

1. Innanzitutto il rispetto della libertà dell’uomo: anzi il primo compito del cristiano è proprio quello di impegnarsi per creare le condizioni della libertà attraverso quella che la chiesa del post-concilio ha chiamato promozione umana considerandola parte integrante dell’evangelizzazione25. Il cristiano sa che l’autentica fede si innesta su una scelta di libertà e, proprio per questo, la sua fondamentale preoccupazione è che tutti gli uomini siano immuni da ogni tipo di coercizione e siano rispettati nei loro diritti e nella loro dignità26. A questo ci chiama quello che Gesù rispose a coloro che gli chiedevano se fosse lecito o no pagare le tasse a Cesare. Osservando l’immagine dell’imperatore impressa sulla moneta Gesù dice: “Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” (cf Mt 22, 15-22). La Parola di Dio ci ricorda che l’uomo è fatto a immagine di Dio: dunque nessun Cesare al mondo potrà mai appropriarsi dei suoi diritti inviolabili e della sua dignità riducendolo a schiavo o strumento del suo potere. Naturalmente nello svolgimento di questo compito la chiesa userà le armi che Dio stesso le ha messo in mano: la testimonianza e la missione, svolte con quella parresia che caratterizzava la vita della prima comunità cristiana. Dovrebbe forse insegnarci qualcosa il fatto che quando la chiesa agiva solo con la forza della Parola di Dio senza cercare appoggi politici e senza scendere a compromessi ha seminato sul terreno della storia quei principi che sono pian piano penetrati nel cuore e nella mentalità dell’umanità trasformando radicalmente il volto della storia. Né possiamo dimenticare che la stessa chiesa ha misconosciuto o rinnegato quei principi anche al suo interno quando si è lasciata abbagliare dalla logica del potere dimenticando quella dell’amore e del servizio. Oggi più che mai, alla luce della lezione che ci viene anche dalla storia, dobbiamo riscoprire e attuare il primo e fondamentale compito che ogni cristiano e la chiesa nel suo insieme debbono portare avanti: prima di fare il cristiano bisogna fare l’uomo, partendo sempre dalle sue condizioni reali e dando risposta alle domande che pone. È quanto riafferma il Concilio Vaticano II quando ci ricorda che “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore”27. D’altra parte come può un cristiano dimenticare che anche lui, come tutti, sarà giudicato non su quante persone avrà convertito a Cristo, ma innanzitutto e soprattutto su un pezzo di pane, un bicchiere d’acqua, un vestito dati o negati a chi ne ha bisogno28?

2. Che questo sia il primo compito del cristiano e della chiesa ce lo fa comprendere Gesù stesso, segno di contraddizione e pietra di inciampo, quando prima di iniziare la sua missione terrena ci trasporta nel deserto per dirci qual è il male che dobbiamo sfidare e vincere con la forza della Parola. Si tratta, seguendo l’ordine che segue Luca nel raccontarci le tentazioni (4,1ss.), del materialismo, del potere e della falsa religiosità. Sono, come si può ben comprendere, intrecciate strettamente tra

25 Cf CEI, Evangelizzazione e promozione umana, 197526 Il Concilio riafferma con forza questa verità soprattutto nella Dignitatis humanae, la dichiarazione sulla libertà religiosa. 27 GS, n. 128 Cf Mt 25, 31-46

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loro e, insieme, costituiscono la radice della disumanizzazione della storia generando carnefici colpevoli e vittime innocenti, producendo conflitti di inaudita violenza e criminalità di ogni genere, avvelenando sul nascere la vita delle nuove generazioni offuscando l’orizzonte degli ideali e della speranza, atrofizzando i cuori innamorati e seminando odi e rancori perfino tra genitori e figli e tra fratelli.

Infine un’ultima osservazione: è evidente che il cristiano che agisce nella storia degli uomini non può non coltivare la speranza che tutti, anche quelli che non credono in Lui, vivano secondo la morale che scaturisce dal vangelo. Ma, come già abbiamo avuto modo di ricordare, da questa speranza non può derivare la logica sempre perversa dell’imposizione. La morale del cristiano è la morale dell’uomo nuovo che si lascia invadere dalla presenza e dall’azione dello Spirito, così come ci ricorda l’apostolo Paolo quando scrive: “Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. E se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto a causa del peccato, ma lo spirito è vita a causa della giustificazione. E se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi” (Rom 8,9-11). Due considerazioni:

1. Chi ritiene che il passaggio dall’uomo vecchio all’uomo nuovo possa avvenire anche con la forza della legge dimentica che “Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge” (Gal 3,13). La logica di Paolo che è logica evangelica è molto chiara: la legge può tutt’al più mettere a nudo la tua miseria, farti capire che sei condizionato dal male, quando non diventa essa stessa sorgente di male vincolandoti a precetti impossibili molto amati da quei moralisti che preparano pesanti fardelli per metterli sulle spalle degli altri senza toccarli neppure con un dito (cf Mt 23,1-4). Ma la legge non può farti diventare buono, perché la bontà nasce dai pensieri del cuore. Si diventa buoni per convinzione non per obbedienza ad una legge. Sta scritto nel DNA dell’uomo fin da quando, come ci racconta la Genesi, Dio lo ha voluto e creato non per collocarlo in un giardino zoologico ma indicandogli la strada che, liberamente e responsabilmente, avrebbe dovuto seguire per non trasformarlo in un campo di battaglia. Venendo all’oggi questo significa che se vogliamo realmente dare un volto nuovo alla nostra storia dobbiamo preoccuparci che coloro che formiamo cristianamente e ricevono i sacramenti della fede siano messi in condizione di comportarsi coerentemente, altrimenti diventiamo sì segno di contraddizione ma non per illuminare ma per confondere la mente e il cuore degli altri. Come può essere credibile una chiesa che impegna se stessa affinché lo stato faccia leggi di suo gradimento per impedire che si violi la sacralità del matrimonio o della vita quando neppure coloro che lei stessa ha allevato si dimostrano capaci di rispettarla?

2. La seconda osservazione: guai a mettere limiti e confini all’azione dello Spirito che , come il vento, “soffia dove vuole” (Gv 3,8). Questo significa che al di là dei confini della chiesa e della sua concreta azione missionaria, ci possono essere uomini e donne capaci di far morire le opere della carne e di vivere secondo lo Spirito. Siamo nella logica del regno di Dio che Cristo è venuto a rendere definitivamente presente nella storia e di cui la chiesa è segno e strumento. Dio, sia nella prospettiva del progetto creativo sia in quella del progetto redentivo, arriva sempre prima della chiesa nel cuore dell’uomo e dentro le trame della sua storia. Ogni uomo e ogni donna, infatti, restano sempre una parola pronunciata da Dio e sono già redenti attraverso la morte di Gesù che offre la sua vita in riscatto per tutti. Sotto la spinta della fede che non può dimenticare o sottovalutare i suoi pilastri

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sgretolandoli con dottrine e teorie superficiali, tipo quella dell’extra ecclesiam nulla salus, il cristiano e la chiesa percorrono le strade del mondo illuminate da quel vangelo che ricorda che il mondo è pieno di buoni samaritani da prendere a modelli di vita, anche se non hanno il dono della fede e magari non sono disponibili ad aprirsi all’accoglienza esplicita del vangelo stesso. Per questo la missione della chiesa, chiamata ad annunciare il vangelo a tutti i popoli con la speranza che qualcuno ascolti e lo accolga, dovrebbe anche in questo seguire l’esempio di quel segno di contraddizione e di quella pietra di inciampo che Dio ci ha donato in Cristo suo Figlio. Non dovrebbe essere senza significato il fatto che Lui, prima di avventurarsi nella sua missione evangelizzatrice, ha passato trent’anni nel silenzio della sua casa e, nell’immediato, se ne è andato per quaranta giorni nel deserto a pregare e meditare per mettersi in perfetta sintonia con la volontà del Padre. Non sarebbe male che la chiesa, prima di parlare per raccontare la sua verità, si mettesse in ascolto per comprendere fino a che punto l’azione dello Spirito abbia inciso nella vita delle persone che incontra e fosse disponibile a rivedere le sue verità alla luce di quelle sorprese che Dio semina a piene mani nel cuore dell’uomo al di fuori dei confini della chiesa e per il bene della stessa chiesa.

ConclusioneBenedetto XVI apre la sua enciclica Caritas in veritate dicendo: “La carità nella verità, di cui Gesù Cristo s’è fatto testimone con la sua vita terrena e, soprattutto, con la sua morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera. L’amore — « caritas » — è una forza straordinaria, che spinge le persone a impegnarsi con coraggio e generosità nel campo della giustizia e della pace. È una forza che ha la sua origine in Dio, Amore eterno e Verità assoluta. Ciascuno trova il suo bene aderendo al progetto che Dio ha su di lui, per realizzarlo in pienezza: in tale progetto infatti egli trova la sua verità ed è aderendo a tale verità che egli diventa libero (cfr Gv 8,32 ). Difendere la verità, proporla con umiltà e convinzione e testimoniarla nella vita sono pertanto forme esigenti e insostituibili di carità. Questa, infatti, ‘si compiace della verità’ (1 Cor 13,6 )”29. Il problema è proprio questo: coniugare la carità con la verità. Infatti, impastati come siamo di cultura di provenienza filosofica e scarsamente biblica, molti, anche nella chiesa, sono portati a pensare che la verità sia un concetto, un’idea, una dottrina e che, chi la possiede, ha in qualche modo l’obbligo di difenderla e di imporla a tutti i costi. Ma Benetto XVI ci ricorda che Dio è “verità assoluta” . Inoltre, poco più avanti, afferma: “Gesù Cristo purifica e libera dalle nostre povertà umane la ricerca dell’amore e della verità e ci svela in pienezza l’iniziativa di amore e il progetto di vita vera che Dio ha preparato per noi. In Cristo, la carità nella verità diventa il Volto della sua Persona, una vocazione per noi ad amare i nostri fratelli nella verità del suo progetto. Egli stesso, infatti, è la Verità (cfr Gv 14,6 )”30. Queste indicazioni, prese in seria considerazioni, ci obbligano a qualche immediata conclusione:

1. Se la Verità è Dio, nessuno può arrogarsi il diritto di possederla tutta intera dentro gli schemi culturali e dottrinali che elabora per parlare di Lui e con Lui

2. Se la Verità è Cristo, dobbiamo fare riferimento a Lui per comprendere come si propone, come si accoglie e come si testimonia. In quello stesso riferimento a Giovanni, citato da Benedetto XVI, Gesù stesso dice si sé: “Io sono la via, la verità e la vita”. Appare evidente che la verità che Cristo propone ai suoi discepoli non è una dottrina da imparare ma una via da percorrere. Quella via è Lui

29 Benedetto XVI, Caritas in veritate, n. 1 30 Ibidem

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stesso. Ci insegna ogni virgola del vangelo che i suoi discepoli non sono scolaretti seduti sui banchi di scuola per imparare qualche idea, nozione o concetto su Dio, ma seguaci che percorrono la strada da lui tracciata stando bene attenti a mettere i loro piedi sulle orme lasciate da Lui.

D’altra parte sarà lo stesso Gesù ad avvertire i discepoli che la sua chiesa non sarebbe mai diventata la cassaforte per custodire una verità racchiusa totalmente in qualche concetto e da diffondere in maniera scolastica, ma una comunità di cercatori della verità che, nell’approfondimento e nella memoria del già dato, si proietteranno, sotto la guida dello Spirito verso la verità tutta intera31.

Ho scritto nel mio Dio è amore… anche un teologia: “Il cammino della chiesa, lo aveva proclamato Gesù stesso prima della sua passione e morte, sarebbe stato un cammino di perenne esplorazione della verità tutta intera, sotto la guida di quello che lui chiama il Paraclito, l’Assistente. E così è stato, fin dai suoi primi passi. La verità è tutta nelle mani della chiesa, ma nello stesso tempo è tutta intera oltre ogni suo passo, ogni conquista, ogni meta raggiunta. Il non ancora non ha i caratteri di un futuro che prima o poi sarà raggiunto su questa terra, perché per la chiesa di Cristo la condizione del cammino, dell’esilio, del pellegrinaggio sarà sempre quella descritta dall’apostolo Paolo, quando dice: ‘finché abitiamo nel corpo siamo in esilio lontano dal Signore, camminiamo nella fede e non ancora in visione’(2 Cor 5,6s). La chiesa per questo non potrà mai celebrare la liturgia del totale svelamento del mistero di Dio e del suo amore fino a quando, nella liturgia celeste, l’Agnello stesso, l’unico degno in cielo, sulla terra e sotto terra, aprirà il libro e toglierà i suoi sette sigilli (cf. Ap 5), perché solo allora la chiesa e i cristiani potranno finalmente sapere ciò che realmente sono dal momento che vedranno Dio così come egli è (cf. 1 Gv 3,1-3)”32.

W. Banjamin, davanti ad un quadro di Paul Klee che si intitola Angelus Novus e che rappresenta un angelo che è in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo con gli occhi spalancati, la bocca aperta e le ali distese, lo interpreta come l’angelo della storia. Con il viso rivolto al passato, egli vede accumularsi davanti a sé le macerie della storia e vorrebbe trattenersi per destare i morti e ricomporre ciò che è stato infranto. Ma un vento impetuoso gli impedisce di chiudere le ali e lo spinge irresistibilmente verso il futuro. Correggendo, dal nostro punto di vista la visione pessimistica di Benjamin, mi pare che questa immagine descriva bene quello che dovrebbe essere l’atteggiamento del cristiano e della chiesa: guardando il passato, anche nei suoi aspetti negativi, bisogna lasciarsi trasportare dal vento dello Spirito verso il futuro senza presumere di prendere in mano la storia umana come se la sua redenzione dipendesse da noi e non da Dio.

E concludo con un breve pensiero di E. Bloch, un autore che affronteremo anche nel nostro corso monografico: “Una strada diritta parte dalle origini e tenta di liberarsi dai vecchiumi che ancor stentatamente sopravvivono, pesanti e nello stesso tempo senza pensieri”33. È quanto continua a raccontarci Cristo Gesù anche oggi segno di contraddizione e pietra d’inciampo che inquieta innanzitutto i suoi discepoli e la sua chiesa: ritornare alle origini per liberarci del vecchiume che ci appesantisce e per, finalmente, avere nel cuore pensieri capaci di cambiare la nostra vita e il volto della storia.

31 Cf Gv 1632 L. Blasetti, Dio è amore… anche in teologia, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2009, p. 17033 E. Bloch, Ateismo nel cristianesimo, Feltrinelli, Milano 19836, p. 25

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