Date post: | 26-Jul-2015 |
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Getsemani
Mi trovo a Veglie, ma potrei essere ovunque nel raggio di centinaia di
chilometri. Oggi niente mare, il sole volge al tramonto e ho appena trovato un varco,
fra le pietre del muretto di cinta che costeggia la provinciale, dove lasciare l’auto.
Scendo e mi congedo da un temporaneo compagno di viaggio, giunto anch’egli qui
per lo stesso motivo: d’ora in avanti, è e resta una questione personale. A tracolla, la
macchina è carica, sin da prima della partenza: su questi sali d’argento ora gravano
tutte le mie aspettative, nell’arduo compito di imprigionare quanto di meglio saprò
passare loro di questa esperienza.
Mi addentro e mi tuffo nel frinire insistente delle cicale, seppellendo a poco a
poco il rumore del traffico di rientro dalle spiagge. Pochi passi ancora, quasi
un’anticamera, fatta di tronchi verdi e sottili, ed eccomi di fronte al primo gigante.
Nella mia babele mentale, la memoria di esperienze analoghe, persino brandelli
di appunti scolastici sulla fede animistica e sul rapporto fra divinità e natura, si
scontrano con gli inutili ammonimenti del mio essere razionale, a non cedere a
quell’effetto di straniamento che normalmente si verifica in me ogni volta che
percorro questi sentieri. È quest’ultimo ad avere ancora il sopravvento, e cerco di
restarvi ancorato: apprezzo e ammiro ciò che, nei secoli, questo essere vivente è
riuscito a diventare, le sue nodosità irregolari, i segni del tempo e delle malattie che
lo hanno deformato, ma non ucciso, scatto qualche foto e proseguo.
Indugio e mi volto: il muretto a secco è ormai una striscia lontana, vedo
scintillare qualche tetto di macchina che passa, emergendo qua e là da una fitta rete di
foglie e frutti ancora acerbi. Un attimo, e subito devo ritornare con l’occhio sui miei
passi, che si appoggiano incerti ora sulla nuda roccia, ora sulla morbida terra rossa,
ora su mucchi di rami e foglie secche non ancora bruciati.
Tentennando su quale direzione intraprendere, seguo con lo sguardo il ritmo
delle distanze e degli ampi cerchi che l’uomo disegna intorno a ogni gigante, tenendo
pulito il terreno e preparandolo per la futura raccolta. È un mondo irregolare, privo di
facili prospettive, così diverso dalle mie abitudini visive, sia dalla fitta barriera, quasi
gotica nella sua verticalità, dei monti e dei boschi incolti, che dalle linearità
orizzontali dei filari di pioppi, degli argini e dei solchi che per chilometri si
inseguono, unendosi perfettamente all’orizzonte; tuttavia mi accorgo come, anche in
questo caso, ogni distanza, ogni materiale, ogni intervento dell’uomo, si fondi alla
perfezione nella natura circostante: interventi ingegnosi, frutto non del caso ma di
consapevoli geometrie, costruite giustapponendo principi essenziali di occupazione,
distribuzione e riempimento spaziale, divengono aperta testimonianza di un sapere
antico, che ancora avrebbe molto da dire sul rapporto fra attività produttive e
territorio, economia e gestione delle risorse, riproduzione delle stesse e loro consumo,
in un contesto invece generalizzato di appropriazione, sfruttamento e abbandono. Il
cemento è selvaggio, ma altrettanto selvaggio è l’acciaio delle installazioni, vecchie e
nuove, “pesanti” o “ecologiche”, laddove continua ad avvenire senza rispetto di
alcuna proporzione o pianificazione, così come senza nessuna socializzazione della
ricchezza prodotta.
Questi e altri pensieri si intrecciano e si agitano, alla ricerca di un’impossibile
linearità di cause e conseguenze, mentre una dolce, ma intensa luce laterale mi
avvolge e mi riporta ancora alla realtà concreta, michelangiolesca, di queste immense
sculture a cielo aperto.
È questo il momento in cui ogni minima rugosità, ogni incisione a rilievo
amplifica il proprio spessore, lunghe ombre azzerano distanze e segnano i contorni di
questo gigantesco mosaico: è questo il momento in cui anche lo spazio si riempie di
un’atmosfera densa, a tratti palpabile. Mi appresto a consegnare alla borsa da viaggio
anche questo rullino e, l’ultimo assalto del sole che muore, mi costringe ancora una
volta ad abbassare lo sguardo.
Infinitamente grande e infinitamente piccolo si toccano, mentre i miei pochi
lustri si incrociano con i secoli di questi saggi, sacerdoti di un’antica religione estinta:
quanti momenti come questo nel corso della loro vita, così come quanti piccoli Caino
riconobbero, sotto le diverse casacche, borbonica, sabauda, fascista o padronale, nel
gesto di calpestare il proprio simile. Nolite conformari huic saeculo ... D’intorno,
s’alza un fruscio di foglie, agitate dal lieve vento serale che, pian piano, ammutolisce
anche le cicale.
Belle parole! Va bene, non per niente siete foglie dure, che non cadono mai,
neppure d’inverno, nemmeno ai meno quindici del nord più rigido, ma noi siamo di
un’altra razza, quella che la prima folata di vento fa cadere anche d’estate. Che ne
sapete voi? Del lavoro che non c’è, e quando c’è non sai mai per quanto? E della
casa? E di metter in piedi anche solo un abbozzo, una parvenza, di famiglia? Ma si,
cosa me la prendo a fare... alla fine siete precari pure voi.
Sì, proprio voi, che avete resistito ai secoli, oggi vi ritrovate inermi di fronte al
piccolo uomo, che è pure “paesano vostro” e che, in virtù di questo, si sente in pieno
diritto di fare di voi ciò che più gli aggrada, appoggiandosi a manovalanza che, per
trenta denari, fosse anche per risolvere i propri – temporanei – problemi, si presta a
fare il lavoro sporco con una tanica di benzina; oppure, per salvare le apparenze, vi
marchia con una grossa X, vi rapa a zero e, ben sapendo che non ce la farete, vi
strappa e vi molla un po’ più in là, per far spazio a una rotonda; o ancora, questa volta
però con le dovute cautele, vi accarezza le radici coi denti della sua pala, per
destinarvi a soddisfare il capriccio esotico di qualche agiato committente foresto.
... sed reformamini in novitate sensus vestri. Il vento continua ad agitare le
foglie. È vero, i filosofi hanno interpretato il mondo, ciò che conta è trasformarlo, lo
diceva anche qualcun altro, un po’ più tardi: ma non è facile. Nell’orto degli ulivi è
già sera, e ogni sensazione si è fatta pensiero, inquietudine, preghiera.