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Getsemani

Date post: 26-Jul-2015
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di Paolo Selmi, agosto 2012Gli ulivi del Salento
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Getsemani Mi trovo a Veglie, ma potrei essere ovunque nel raggio di centinaia di chilometri. Oggi niente mare, il sole volge al tramonto e ho appena trovato un varco, fra le pietre del muretto di cinta che costeggia la provinciale, dove lasciare l’auto. Scendo e mi congedo da un temporaneo compagno di viaggio, giunto anch’egli qui per lo stesso motivo: d’ora in avanti, è e resta una questione personale. A tracolla, la macchina è carica, sin da prima della partenza: su questi sali d’argento ora gravano tutte le mie aspettative, nell’arduo compito di imprigionare quanto di meglio saprò passare loro di questa esperienza. Mi addentro e mi tuffo nel frinire insistente delle cicale, seppellendo a poco a poco il rumore del traffico di rientro dalle spiagge. Pochi passi ancora, quasi un’anticamera, fatta di tronchi verdi e sottili, ed eccomi di fronte al primo gigante. Nella mia babele mentale, la memoria di esperienze analoghe, persino brandelli di appunti scolastici sulla fede animistica e sul rapporto fra divinità e natura, si scontrano con gli inutili ammonimenti del mio essere razionale, a non cedere a quell’effetto di straniamento che normalmente si verifica in me ogni volta che percorro questi sentieri. È quest’ultimo ad avere ancora il sopravvento, e cerco di restarvi ancorato: apprezzo e ammiro ciò che, nei secoli, questo essere vivente è
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Getsemani

Mi trovo a Veglie, ma potrei essere ovunque nel raggio di centinaia di

chilometri. Oggi niente mare, il sole volge al tramonto e ho appena trovato un varco,

fra le pietre del muretto di cinta che costeggia la provinciale, dove lasciare l’auto.

Scendo e mi congedo da un temporaneo compagno di viaggio, giunto anch’egli qui

per lo stesso motivo: d’ora in avanti, è e resta una questione personale. A tracolla, la

macchina è carica, sin da prima della partenza: su questi sali d’argento ora gravano

tutte le mie aspettative, nell’arduo compito di imprigionare quanto di meglio saprò

passare loro di questa esperienza.

Mi addentro e mi tuffo nel frinire insistente delle cicale, seppellendo a poco a

poco il rumore del traffico di rientro dalle spiagge. Pochi passi ancora, quasi

un’anticamera, fatta di tronchi verdi e sottili, ed eccomi di fronte al primo gigante.

Nella mia babele mentale, la memoria di esperienze analoghe, persino brandelli

di appunti scolastici sulla fede animistica e sul rapporto fra divinità e natura, si

scontrano con gli inutili ammonimenti del mio essere razionale, a non cedere a

quell’effetto di straniamento che normalmente si verifica in me ogni volta che

percorro questi sentieri. È quest’ultimo ad avere ancora il sopravvento, e cerco di

restarvi ancorato: apprezzo e ammiro ciò che, nei secoli, questo essere vivente è

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riuscito a diventare, le sue nodosità irregolari, i segni del tempo e delle malattie che

lo hanno deformato, ma non ucciso, scatto qualche foto e proseguo.

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Indugio e mi volto: il muretto a secco è ormai una striscia lontana, vedo

scintillare qualche tetto di macchina che passa, emergendo qua e là da una fitta rete di

foglie e frutti ancora acerbi. Un attimo, e subito devo ritornare con l’occhio sui miei

passi, che si appoggiano incerti ora sulla nuda roccia, ora sulla morbida terra rossa,

ora su mucchi di rami e foglie secche non ancora bruciati.

Tentennando su quale direzione intraprendere, seguo con lo sguardo il ritmo

delle distanze e degli ampi cerchi che l’uomo disegna intorno a ogni gigante, tenendo

pulito il terreno e preparandolo per la futura raccolta. È un mondo irregolare, privo di

facili prospettive, così diverso dalle mie abitudini visive, sia dalla fitta barriera, quasi

gotica nella sua verticalità, dei monti e dei boschi incolti, che dalle linearità

orizzontali dei filari di pioppi, degli argini e dei solchi che per chilometri si

inseguono, unendosi perfettamente all’orizzonte; tuttavia mi accorgo come, anche in

questo caso, ogni distanza, ogni materiale, ogni intervento dell’uomo, si fondi alla

perfezione nella natura circostante: interventi ingegnosi, frutto non del caso ma di

consapevoli geometrie, costruite giustapponendo principi essenziali di occupazione,

distribuzione e riempimento spaziale, divengono aperta testimonianza di un sapere

antico, che ancora avrebbe molto da dire sul rapporto fra attività produttive e

territorio, economia e gestione delle risorse, riproduzione delle stesse e loro consumo,

in un contesto invece generalizzato di appropriazione, sfruttamento e abbandono. Il

cemento è selvaggio, ma altrettanto selvaggio è l’acciaio delle installazioni, vecchie e

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nuove, “pesanti” o “ecologiche”, laddove continua ad avvenire senza rispetto di

alcuna proporzione o pianificazione, così come senza nessuna socializzazione della

ricchezza prodotta.

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Questi e altri pensieri si intrecciano e si agitano, alla ricerca di un’impossibile

linearità di cause e conseguenze, mentre una dolce, ma intensa luce laterale mi

avvolge e mi riporta ancora alla realtà concreta, michelangiolesca, di queste immense

sculture a cielo aperto.

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È questo il momento in cui ogni minima rugosità, ogni incisione a rilievo

amplifica il proprio spessore, lunghe ombre azzerano distanze e segnano i contorni di

questo gigantesco mosaico: è questo il momento in cui anche lo spazio si riempie di

un’atmosfera densa, a tratti palpabile. Mi appresto a consegnare alla borsa da viaggio

anche questo rullino e, l’ultimo assalto del sole che muore, mi costringe ancora una

volta ad abbassare lo sguardo.

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Infinitamente grande e infinitamente piccolo si toccano, mentre i miei pochi

lustri si incrociano con i secoli di questi saggi, sacerdoti di un’antica religione estinta:

quanti momenti come questo nel corso della loro vita, così come quanti piccoli Caino

riconobbero, sotto le diverse casacche, borbonica, sabauda, fascista o padronale, nel

gesto di calpestare il proprio simile. Nolite conformari huic saeculo ... D’intorno,

s’alza un fruscio di foglie, agitate dal lieve vento serale che, pian piano, ammutolisce

anche le cicale.

Belle parole! Va bene, non per niente siete foglie dure, che non cadono mai,

neppure d’inverno, nemmeno ai meno quindici del nord più rigido, ma noi siamo di

un’altra razza, quella che la prima folata di vento fa cadere anche d’estate. Che ne

sapete voi? Del lavoro che non c’è, e quando c’è non sai mai per quanto? E della

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casa? E di metter in piedi anche solo un abbozzo, una parvenza, di famiglia? Ma si,

cosa me la prendo a fare... alla fine siete precari pure voi.

Sì, proprio voi, che avete resistito ai secoli, oggi vi ritrovate inermi di fronte al

piccolo uomo, che è pure “paesano vostro” e che, in virtù di questo, si sente in pieno

diritto di fare di voi ciò che più gli aggrada, appoggiandosi a manovalanza che, per

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trenta denari, fosse anche per risolvere i propri – temporanei – problemi, si presta a

fare il lavoro sporco con una tanica di benzina; oppure, per salvare le apparenze, vi

marchia con una grossa X, vi rapa a zero e, ben sapendo che non ce la farete, vi

strappa e vi molla un po’ più in là, per far spazio a una rotonda; o ancora, questa volta

però con le dovute cautele, vi accarezza le radici coi denti della sua pala, per

destinarvi a soddisfare il capriccio esotico di qualche agiato committente foresto.

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... sed reformamini in novitate sensus vestri. Il vento continua ad agitare le

foglie. È vero, i filosofi hanno interpretato il mondo, ciò che conta è trasformarlo, lo

diceva anche qualcun altro, un po’ più tardi: ma non è facile. Nell’orto degli ulivi è

già sera, e ogni sensazione si è fatta pensiero, inquietudine, preghiera.


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