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Giorgio Ressel · 2014. 8. 6. · 9 Sono Giulio Rapetti, capitano in congedo del Regio Esercito...

Date post: 26-Mar-2021
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Giorgio Ressel

141° Reggimento e altre storie

Racconti 2012

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Indice

141° Reggimento ……….….…………. 7

Xaveron ………………….…….…….. 50

Mördwand ……………….…….…… 119

Dov’è Oscar? …………….….……… 158

Rivali ……………………….….….… 197

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141° Reggimento

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Sono Giulio Rapetti, capitano in congedo del Regio Esercito Ita-

liano, uno che è passato attraverso due anni d‟inferno sempre in pr i-

ma linea ed è riuscito a portare a casa la pelle. Altri 650 mila italiani,

compreso mio fratello Stefano, non ce l‟hanno fatta.

Dato il clima politico attuale, con tutte queste camicie nere in ci r-

colazione, non so se vedrò mai pubblicato il presente documento, ma

ho deciso lo stesso di scriverlo. Se non altro, sarà per me uno sfogo e

fisserà come in una fotografia le emozioni e i ricordi che conservo

nella mente. E forse riuscirà anche a mitigare certe ossessioni che mi

tormentano.

Ai primi d‟aprile del 1915, quando era ormai chiaro che l‟Italia

sarebbe entrata in guerra al fianco di Francia e Inghilterra, Stefano

s‟offrì volontario in fanteria. Aveva appena diciannove anni e mezzo,

ma venne subito accettato. Noi di famiglia avevamo fatto di tutto per

dissuaderlo, ma lui era stato contagiato dalla malattia dei fanatici in-

terventisti che si riempivano la bocca di “patria, sacro suolo, terre ir-

redente, onore e gloria” e così via.

Il 23 maggio la sua tradotta per la fronte giulia giunse a Codroipo,

un paese della pianura friulana. Il giorno successivo il suo reggime n-

to attraversò il confine. Ma preferisco far descrivere a lui stesso quel

momento memorabile.

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Caro fratellone,

come avrebbe detto il grande Cesare, il dado è tratto! Alla mezza notte del 24 (ma già l‟avrai saputo leggendo i giornali) noi della Ter-za Armata siamo partiti intonando canti patriottici dagli attendamenti distanti pochi chilometri dal confine, e siamo entrati nelle amatissi-me terre irredente della Venezia Giulia. Uff, era ora! Non ne pote-vamo più di marce e riviste, di presentat-arm e di attenti-a-dest, di

“passo” e di “cadenza”. Sul confine ci siamo sfogati un po‟, dando fuoco a qualche garitta di doganieri e schiodando e poi calpestando le tabelle con l‟aquila bicipite e le immagini di Cecco Beppe. Ma non ci siamo limitati a queste bravate: abbiamo già occupato Cor-mons e il ponte di Pieris, un paesetto sulla riva sinistra dell‟Isonzo. Da qui passerà tra poco buona parte delle nostre splendide truppe. Il

morale è eccellente e tutti dicono che la guerra durerà poco: forse qualche settimana, al massimo un paio di mesi. E poi potremo dire di aver portato a compimento l‟opera iniziata dai nostri avi, gli eroi del Risorgimento. A pensarci mi vengono i brividi. Capisci adesso? Se non mi fossi offerto volontario, avrei rischiato di perdermi l‟ultima guerra patriottica, quella che completerà l‟unificazione del Paese!

Adesso ti saluto: tanti bacioni a tutti e a presto. Di‟ alla mamma di non preoccuparsi per me: andrà tutto bene, ne son certo!

Stefano

Riguardo la durata della guerra, mio fratello era stato tragicamente

ottimista: ben presto si sarebbe reso conto che le poche settimane

previste sarebbero diventate mesi, e i mesi sarebbero diventati lunghi

anni. Ma che poteva saperne Stefano? Lui non faceva altro che riferi-

re le voci che circolavano tra gli ufficiali del suo reggimento, i quali

ripetevano le convinzioni assurde e del tutto infondate che s‟erano

messi in testa tutti i capi militari: dai tenentini di prima nomina ai

generali di Corpo d‟Armata, a Cadorna (il Comandante Supremo), su

su fino a Zupelli (il Ministro della Guerra), e allo stesso Salandra (il

Capo del Governo). La prova di quanto affermo è che non ci s‟era

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neppure preoccupati d‟ordinare alle fabbriche l‟equipaggiamento i n-

vernale.

Cadorna aveva delle strane idee sul modo più efficace d‟affrontare

il nemico, e le sue teorie sull‟attacco frontale le aveva esposte in una

specie di manuale noto come “Libretto rosso” che aveva fatto sta m-

pare e distribuire in gran numero di copie a tutti i quadri

dell‟esercito. Un vero peccato che tali teorie s‟ispirassero ai metodi

napoleonici di condurre la guerra e non tenessero conto di tutte le in-

novazioni che erano state introdotte nel frattempo. Si trattava dunque

di metodi vecchi di oltre un secolo, concepiti e sperimentati quando

non esistevano né le mitragliatrici, né le bombe a mano, né i gas a-

sfissianti, né i lanciafiamme, per non parlare dei telefoni da campo,

delle automobili, dei carri armati e degli aeroplani.

Grave motivo di angustia per Cadorna e il suo fedele Stato Mag-

giore era il fatto che i chepì di panno delle truppe non fossero abba-

stanza rigidi e s‟afflosciassero sulle teste dei soldati per mancanza di

un sostegno di cartone. Questione trascurabile era invece che i nostri

fanti mancassero totalmente di elmetti protettivi di metallo. I primi

arrivarono (con parsimonia) solo verso la fine dell‟anno… Con que-

sto non intendo affermare che solamente l‟esercito italiano avesse

fatto dei gravi errori e fosse quasi del tutto impreparato al momento

dell‟entrata in guerra. Mi pare significativo, per esempio, ricordare

l‟assurda querelle scoppiata in Francia nel 1914: gli ufficiali al fronte

si erano resi conto che i pantaloni rossi dei soldati erano un po‟ trop-

po vistosi e permettevano ai cecchini tedeschi di inquadrare nei loro

mirini degli spendidi bersagli. Era stata fatta allora richiesta di sosti-

tuire tale indumento con uno equivalente grigioazzurro o grigioverde,

ma quotidiani e parlamento erano insorti scandalizzati, affermando

che “le pantalon rouge c’est la France!” e che sostituirlo con uno di

diverso colore (e quale colore!) sarebbe equivalso a perpetrare un ve-

ro e proprio oltraggio alla nazione. Ma non lasciamo fuori la Germa-

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nia da questa gara di idiozie criminali: gli Alti Comandi tedeschi,

forse in ricordo di Waterloo, pretendevano che gli ufficiali facessero

marciare le truppe verso le trincee nemiche in ranghi serrati, e

coll‟accompagnamento di trombe e tamburi. Obbedendo a tali diret-

tive, i poveri soldati del Kaiser erano stati sterminati dalle mitraglia-

trici belghe e francesi più facilmente di pecore al pascolo, ma rigoro-

samente a suon di musica.

Gravi errori dunque se n‟erano fatti, ma tutto questo accadeva nel

1914, nei primi mesi o forse solo nelle prime settimane dallo scoppio

del conflitto. Da allora all‟entrata in guerra dell‟Italia era trascorso

quasi un anno, un periodo prezioso per meditare sulle tragiche espe-

rienze degli eserciti già impegnati nei combattimenti e che avrebbe

dovuto garantire che tali errori non si sarebbero ripetuti. Ma Cadorna

che faceva? Li leggeva i giornali? Ascoltava ciò che gli riferivano gli

addetti militari italiani a Parigi e a Berlino? Si direbbe proprio di no:

o non ascoltava o non capiva. E mio fratello me lo confermò nella

sua seconda lettera.

Caro Giulio,

come va con voi? State tutti bene? Io me la passo discretamente an-

che se comincio a sentire la vostra mancanza, ma di licenza per ora

non se ne parla! Mi sono fatto parecchi amici qui, e non puoi imma-

ginare lo spirito di corpo che si crea tra le persone quando condivi-

dono gli stessi ideali, gli stessi pericoli, la stessa vita giorno e notte.

Gli austriaci si sono arroccati poco oltre il confine: hanno avuto mol-

ti mesi per preparare le loro difese e devo ammettere che hanno fatto

davvero un buon lavoro. Hanno eretto solide fortificazioni, scavato

trincee e camminamenti, steso tre file di reticolati, piazzato cannoni e

mitragliatrici in punti strategici assai ben difesi. Insomma, non sarà

proprio una passeggiata il compito che c‟aspetta. Ma li faremo slog-

giare, quei crucchi! E gli faremo assaggiare la punta delle nostre

baionette. Pur troppo difettiamo un po‟ di mitragliatrici e cannoni di

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grosso calibro, ma tutti dicono che le fabbriche su al nord stan lavo-

rando a pieno regime e che presto avremo in abbondanza tutto ciò

che ci serve. Siamo un Paese povero ma tenace, e il morale è sempre

elevato. E altrettanto lo è la voglia di vincere e di liberare i nostri

compatrioti che soffrono sotto il tallone dell‟Austria-Ungheria.

L‟altro giorno abbiamo tentato un assalto per espugnare le trincee

nemiche, che distano dalle nostre appena un centinaio di metri. Dopo

un lungo bombardamento delle nostre artiglierie (è durato più di

un‟ora), è arrivato l‟ordine d‟attacco. Siamo balzati fuori dalle trin-

cee al suono delle fanfare, coi fucili spianati e urlando “Savoia!”. Gli

austriaci hanno fatto immediatamente fuoco colle loro mitragliatrici

e molti dei nostri sono stati colpiti, ricadendo nelle trincee. Ci sono

stati dei morti, ma la maggior parte han riportato solo ferite leggere.

Nonostante quel muro di pallottole siamo andati avanti: non uno dei

nostri s‟è fermato per paura o viltà! Ma quando siamo arrivati al filo

spinato, abbiamo dovuto arrestarci. Eravamo sicuri che i tiri dei no-

stri cannoni lo avessero in gran parte distrutto e in vece, in mezzo al

fumo e alla polvere, lo abbiamo trovato ancora lì quasi intatto. E sic-

come non avevamo neanche le pinze tagliafili, ci siamo dovuti ritira-

re sotto l‟implacabile fuoco nemico. Con un po‟ di fortuna avremmo

potuto farcela, ma non importa: la prossima volta andrà sicuramente

assai meglio. Un abbraccio a tutti, e tenete duro: vinceremo noi. Vo-

stro

Stefano

Mio fratello aveva cominciato a rendersi conto che la guerra sa-

rebbe stata ben più dura e ben più lunga di quanto lui si sarebbe a-

spettato e, anche se non lo diceva chiaramente, si domandava come

fosse possibile che gli Alti Comandi non si fossero preoccupati di

fornire lui e i suoi compagni di banalissime cesoie. Ma le sorprese

non erano finite e il peggio doveva ancora venire.

Nel frattempo, nei territori dell‟isontino conquistati al nemico

s‟era diffusa una vera e propria psicosi da spie. Le popolazioni locali

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non s‟erano mostrate precisamente entusiaste dell‟occupazione ita-

liana, e in ispecie nelle zone rurali avevano dato evidenti segni di po-

ca simpatia e scarsa collaborazione col nuovo venuto. I contadini,

forse sobillati dai preti locali, non vedevano di buon occhio

gl‟italiani, e questo aveva portato a spiacevolissimi episodi di “giu-

stizia” tanto rapida quanto sommaria, con casi di fucilazione di pre-

sunti delatori e informatori degli austriaci sulla base di labili indizi.

S‟era giunti a episodi tragicomici quando il generale Cavaciocchi a-

veva ordinato che venissero ammazzati tutti i piccioni viaggiatori e

domestici esistenti nella zona e che quelli morti non potessero essere

né venduti né trasportati salvoché non fossero stati precedentemente

spennati.

La battaglia dell‟Isonzo, fatta scatenare da Cadorna il 7 luglio,

s‟era risolta in un completo fallimento. Era stata iniziata senza la ne-

cessaria preparazione e aveva mandato a morte decine di migliaia di

giovani senza che questo sacrifizio avesse portato il minimo giova-

mento. Da allora in poi, le battaglie dell‟Isonzo scatenate dal genera-

lissimo dovettero essere numerate per distinguerle (ben undici in tre

anni). Ognuna di queste avrebbe dovuto essere quella decisiva, o-

gnuna avrebbe dovuto rappresentare lo sforzo finale per assicurarsi la

vittoria e concludere la guerra. Tutte si risolsero in inutili massacri,

in vere e proprie ecatombi che immolarono centinaia di migliaia di

giovani vite al dio della stupidità e della presunzione.

Dopo il primo fallimento, Cadorna sentiva lo spettro della sconfit-

ta aleggiare sul suo capo e voleva a tutti i costi riabilitarsi agli occhi

del Paese e sopra tutto del governo. Temeva forse di essere silurato?

Probabile. La seconda offensiva dell‟Isonzo ebbe inizio il 18 luglio e

terminò il 4 agosto. Non dette risultati diversi dalla prima e il Co-

mandante Supremo si giustificò dando la colpa all‟insufficienza di

truppe, materiali, armi e munizioni. Peccato che se ne fosse reso con-

to solo dopo aver scatenato quella falcidie. Ma a quel punto una cosa

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almeno era assodata: non era opportuno prendere altre iniziative bel-

licose prima dell‟arrivo di divisioni fresche e di nuovi armamenti.

Così per due mesi abbondanti mio fratello poté tirare il fiato, anche

se doveva starsene rintanato in trincea.

Fratello caro,

rieccomi a mandarti notizie dal fronte. Le lettere che ricevo da voi

mi sono di gran conforto e ringrazio di avere qualcuno che mi scrive,

al contrario di tanti miei compagni che non ricevono mai posta.

D‟altronde, quando non si sa leggere né scrivere tutto è più difficile e

più complicato. Ma veniamo a noi. Spero che la mamma si sia rimes-

sa da quei dolori allo stomaco. Probabilmente è un fatto di nervi: lei

ne è sempre stata soggetta. E con gli altri, tutto bene? A proposito,

complimenti vivissimi per la tua laurea. Spero di non aver mai biso-

gno di un avvocato, ma in caso succedesse adesso so a chi rivolger-

mi. Quando lo fai l‟Esame di Stato? Adesso ti parlo un po‟ di me.

Nelle scorse settimane io e i miei commilitoni ce la siamo vista brut-

ta. Come avrai saputo, c‟è stata di nuovo battaglia da queste parti. E

che battaglia! Non puoi immaginare cosa significhi star sotto il tiro

del nemico qui in Carso. Non è come sulla fronte franco-tedesca: lì

ci sono vaste pianure, campi di terra coltivata e tanto fango. Qui no.

Qui ci sono sconfinate pietraie ed enormi rocce calcaree affioranti

sul terreno, e quando i proiettili delle artiglierie e le bombe a mano le

colpiscono, non si formano crateri dove è possibile ripararsi. Qui

siamo inchiodati in posizioni completamente allo scoperto, e tutte le

volte che le rocce vengono centrate dal fuoco nemico si frammenta-

no in massi, pietre, sassolini e schegge che ci ricadono addosso e

spesso ci schiacciano trasformandoci in masse informi e sanguino-

lente. Oppure franano su di noi e c‟imprigionano sotto uno strato

grigio, duro e tagliente che impedisce qualunque movimento. Il peg-

gio è che nel mio settore di fronte non facciamo il minimo progresso:

si va avanti a ondate, una due tre quattro volte, ma come il mare si

arresta contro gli scogli, così le nostre divisioni s‟infrangono contro

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la barriera insuperabile delle fortificazioni e dei reticolati austriaci.

Adesso però è passata e tutto quel che è successo poche settimane fa

sembra quasi un brutto sogno. Io sono stato beccato alla gamba da

una scheggia di shrapnel, ma la ferita è stata davvero superficiale.

Così, dopo qualche giorno nelle retrovie per rimettermi in sesto, ec-

comi di nuovo qui. E lo sai che è successo? Grazie a quella scalfittu-

ra sono stato promosso caporale. In somma, anche gli avvenimenti

più negativi possono portare qualcosa di buono. A proposito, non

dirlo alla mamma che m‟hanno ferito: sai come lei s‟impressioni fa-

cilmente. Qui la vita è una vera noia, non c‟è niente da fare tutto il

giorno tranne che aspettare e dormire. Di notte invece stiamo in

guardia contro possibili attacchi di sorpresa, ma finora non ce ne so-

no stati. Penso che gli austriaci siano più stanchi di noi e non abbiano

granché voglia di combattere. Li capisco: in fondo fanno la guerra da

dieci mesi più di noi. Ogni tanto andiamo a piazzare qualche tubo di

gelatina vicino ai loro reticolati, ma anche se ne distruggiamo un po‟,

il giorno dopo li risistemano meglio di prima. Quel che m‟ha colpito,

quando sono stato in ospedale e ho avuto occasione di scambiare

qualche parola colla gente del posto, è che a loro sembra importare

ben poco di essere “redenti”. Dicono che sotto l‟Austria-Ungheria

venivano trattati bene, in ispecie i contadini, e che non avevano al-

cun desiderio di cambiare. Ma allora, tutti quei discorsi sulle popola-

zioni succubi dello Straniero? Tutte quelle invettive contro il nemico

giurato degl‟Italiani, che li affama e li schiavizza? Gli ufficiali ci di-

cono che quelli sono contadini ignoranti, gente amorfa che non capi-

sce niente, non ha un filo d‟idealismo e pensa solo a riempire la pro-

pria pancia. Ma allora noi per chi combattiamo? Gli ufficiali ci ripe-

tono che i veri patrioti sono a Trieste, in Istria e in Dalmazia, ma in-

tanto noi siamo qua, a rischiare la pelle per gente che non ne vuol

sapere di noi. Tu che ne pensi, Giulio? Lo so che io e te siamo assai

diversi, che a te piace fare il cinico e il prammatico, mentre io sono

forse un ingenuo e un sognatore. Ma è mai possibile che tanti di noi,

quelli che si son offerti volontari, si siano illusi e ingannati fino a

questo punto? Mi sento più tosto depresso. Spero di ottenere presto

una licenza e t‟assicuro che ne sento un gran bisogno. Un grande ab-

braccio a tutti voi.

Stefano

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In autunno Cadorna si sentì in dovere di fare un nuovo tentativo

per sfondare le linee austriache, scatenando così la Terza Battaglia

dell‟Isonzo. L‟obiettivo dichiarato era la conquista di Gorizia e, se

fosse stato raggiunto, avrebbe fatto allontanare la spada di Damocle

dell‟esonero dalla testa del generalissimo. Sfortunatamente per lui e

per i tanti soldati inutilmente morti e feriti, sacrificati alla sua ambi-

zione e alla sua incapacità, tutto si risolse nell‟ennesima carneficina

organizzata, che colpì equamente entrambe le parti in lotta. A parte

ciò, nessuna significativa variazione sul controllo del territorio conte-

so ebbe luogo.

Come se la cavò stavolta Cadorna per giustificarsi? L‟ineffabile

generale pensò bene di tirare in ballo le nefaste influenze dei pacifisti

e dei neutralisti che agivano principalmente a Roma, in Parlamento,

ma anche tramite i giornali e i partiti di Sinistra, specialmente i So-

cialisti che a onor del vero avevano accettato la guerra come un male

inevitabile e nelle loro azioni politiche s‟erano attenuti alla formula

un po‟ ambigua di “non aderire né sabotare”. Secondo Cadorna, in

vece, tali personaggi avevano minato irreparabilmente il morale delle

truppe, ed era da attribuire principalmente a loro la lunga serie

d‟insuccessi e fallimenti che le armate del Regio Esercito Italiano

avevano collezionato in sei mesi di guerra.

Storie d‟industriali che s‟erano arricchiti con forniture militari

d‟assai scarsa qualità ne circolavano parecchie tra i soldati e, se bene

alcune fossero infondate o almeno esagerate, molte altre non lo erano

affatto. Non era più probabile che fossero queste vergognose specu-

lazioni a minare il morale dei militari più tosto che i discorsi di qual-

che pacifista, ivi compreso papa Benedetto XV? Ma non risulta che

Cadorna se la sia mai presa cogl‟industriali disonesti.

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Arriviamo così al primo inverno di guerra. Era ormai chiaro che la

pace era rinviata come minimo alla primavera 1916. Le armate co n-

trapposte avevano davanti a loro almeno tre mesi di calma, durante i

quali avrebbero approfittato per leccarsi le ferite e per ricostituire le

scorte di materiali e di uomini (trattati dagli Alti Comandi come stu-

pidi automi, sacrificabili senza pensarci troppo). E bisognava orga-

nizzarsi per permettere alle truppe di superare più o meno indenni i

rigori del clima invernale del Trentino, del Friuli e della Venezia-

Giulia. Già durante l‟estate gravi epidemie di tifo e colera avevano

colpito i militari schierati lungo i confini. L‟igiene era scarsa, ma a l-

meno faceva caldo. Cosa sarebbe accaduto col freddo se non si fosse

provveduto adeguatamente?

Una fase di calma assoluta era seguita a una d‟attività frenetica e

Stefano aveva adesso un sacco di tempo. Solo che non c‟era niente

da fare e una noia insopportabile era subentrata tra i reparti schierati

al fronte. Molti s‟erano dati all‟introspezione. Mio fratello, osservan-

do il modo di pensare e d‟agire di sé stesso e dei suoi commilitoni, si

stupiva di quanto erano cambiati in quei pochi mesi.

Carissimo Giulio,

come ve la passate a casa? Mi fa piacere che la mamma si sia rimes-

sa in salute. Di‟ a Francesca che le calze di lana che m‟ha mandato

sono davvero belle. Le ho provate e mi stanno perfettamente. Col

freddo e la bora che comincerà a soffiare qui, mi faranno sicuramen-

te comodo. A proposito, lo sai cos‟è la bora? È un ventaccio gelido

che soffia da nord-est, e talmente forte che certe raffiche possono

scaraventarti a terra. Mi congratulo con te per aver già trovato lavoro

come praticante. Del resto, lo sapevo già che sei in gamba. Qui la vi-

ta è una vera noia, ma è sempre meglio che vagare nella terra di nes-

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suno intontiti dalle granate e bersagliati dalle mitragliatrici, no? Vi-

sto che non ho quasi niente da fare, passo il tempo a osservare me

stesso e quelli che mi stanno intorno. E quel che vedo non mi piace

molto. Siamo assai diversi da prima, per tanti motivi. La superstizio-

ne s‟è diffusa in modo incredibile tra noi soldati. Quasi tutti portano

addosso amuleti, come cornetti di corallo, chiodi di ferro, gobbetti

d‟avorio e medagliette religiose. Ce n‟è uno, un siciliano, che tiene

sempre legato al collo un sacchetto pieno di terra del suo paese. Di-

versi altri tengono in tasca spicchi d‟aglio, perché son convinti che li

proteggeranno dal colera. E anch‟io, prima di un‟azione rischiosa, mi

sono sorpreso a recitare una formula di scongiuro. Qui diventiamo

superstiziosi anche contro voglia. Prima d‟ogni attacco gli ufficiali

fanno circolare tra noi alcool in abbondanza: vino, rum e grappa. I

miei compagni lo chiamano “benzina”, e immagino capirai perché…

Ho incominciato a bere anch‟io, proprio io che a casa non ne toccavo

mai un goccio. Strano, no? Quelli di noi che sono sposati se la pas-

sano ancor peggio degli altri, perché pensano continuamente alla

moglie a casa che magari si fa consolare da qualche imboscato. In

somma il morale è davvero basso, in ispecie tra quelli che all‟inizio

erano i più entusiasti. Diversi miei compagni, per sfuggire alla prima

linea, si sono iniettati petrolio o trementina sotto la pelle, o se la sono

ustionata con acqua bollente, o si sono legati i polsi e le caviglie per-

ché si gonfiassero. Alcuni si sono provocati delle congiuntiviti con

infusi di tabacco o semi di ricino. Se l‟ufficiale medico scopre che

l‟hai fatto a posta ti spedisce sotto processo e poi in galera per un bel

po‟ di tempo. Io non l‟ho mai fatto, ma se va avanti così… Be‟, a-

desso basta parlare di cose deprimenti. Tra le cose piacevoli c‟è una

certa casa, giù nelle retrovie, dove si è sistemata una ragazza molto

carina. Io non l‟ho ancora vista, ma quelli che ci sono stati dicono

che ha un magnifico paio di… Un vero spettacolo. Ed è tutto regola-

re, sai: ha il permesso ufficiale del Comando di Divisione. Magari

prima o poi vado a vedere com‟è. Da un po‟ di tempo qui circolano

voci di licenze invernali e siamo tutti in attesa. Non vedo l‟ora! Spe-

ro che potremo presto riabbracciarci. Saluta tutti da parte mia e dai

un grosso bacio alla mamma e a Francesca. Tuo

Stefano

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Stefano ebbe finalmente la sua licenza invernale: ben due settima-

ne da passare in famiglia, al caldo e all‟asciutto, tra le mura della ca-

sa in cui era nato, a Genova, circondato dall‟affetto dei suoi cari. Ma

Stefano non era più Stefano. E lo aveva riconosciuto lui stesso per

primo. Non che fosse molto cambiato esteriormente, e anche come

carattere a prima vista sembrava il solito fratello più piccolo, allegro

e giocherellone. Ma a ben osservarlo qualcosa di diverso c‟era. Per

esempio, il suo sguardo più calmo e distaccato, quello di chi ne ha

viste troppe e ha solo voglia di dimenticare il più in fretta possibile.

Anche quando parlava della vita in trincea si limitava a raccontare

episodi buffi e divertenti e, se era pressato dalle domande su cosa si

provava sulla linea del fuoco e come ci si sentiva a sparare a un pro-

prio simile, di solito se la cavava con qualche frase di circostanza,

magari buttata in ridere, e poi cambiava argomento. Sì, Stefano era

diverso: più taciturno e meditabondo. Più uomo, in fondo; ma che lo

fosse diventato così rapidamente faceva davvero impressione. Cam-

minando per città si rese conto di quanti ragazzi della sua età fossero

riusciti, in un modo o nell‟altro, a imboscarsi. Gli operai e

gl‟impiegati servivano nelle fabbriche e dunque niente chiamata alle

armi. Lo stesso per i tecnici e gl‟ingegneri . Quelli che partivano era-

no nella stragrande maggioranza contadini (che venivan arruolati

come soldati semplici in fanteria), e figli della piccola borghesia (che

entravano tra gli ufficiali e i sottufficiali). Ma lui come poteva lame n-

tarsi: s‟era offerto volontario, no? Un vero peccato che tra i militari

di carriera (quelli che avevano intrapreso volontariamente la profes-

sione del soldato), la maggior parte fosse riuscita a sistemarsi al sicu-

ro nei Quartier Generali, ben lontano dalle zone di combattimento.

Chi sa, forse anche questo tipo di situazioni minava il morale delle

truppe e degli ufficiali di complemento. Ma Cadorna non sembrò mai

preoccuparsene. Suo figlio Lello (Raffaele, come il nonno generale

dei bersaglieri) l‟aveva già fatto sistemare.

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Il termine di quella benedetta licenza fu per noi il momento più

doloroso. Stefano si sforzò di non far trasparire la sua angoscia,

scherzandoci su e dichiarandosi convinto che a primavera la guerra

sarebbe finita. Dunque bastava tirar avanti ancora un po‟, solo un pa-

io di mesi. E non passano in fretta otto o dieci settimane? Lo acco m-

pagnammo alla stazione e io l‟aiutai a trasportare i suoi scarsi bagagli

e una borsa con quel po‟ di cibo che la mamma era riuscita a metter

da parte per lui. Quando montò sulla sua tradotta vidi che di nascosto

e con gesto rapido si passava il fazzoletto sugli occhi, poi si sporse

dal finestrino come facevano centinaia di altri ragazzi in quel mo-

mento, spiegò quel pezzetto bianco di stoffa e lo agitò per salutarci

fin che il convoglio scomparve nell‟oscurità, sotto la pioggia batten-

te. Quella fu l‟ultima volta che vidi mio fratello.

Nella sua ultima lettera Stefano mi raccontò che era stato trasfer i-

to. Non ne sapeva il motivo ma ne era assai soddisfatto.

Caro Giulio,

finalmente buone notizie: m‟hanno fatto caporalmaggiore e adesso mi trasferiscono in Trentino, al 141° Reggimento. Tutti dicono che da quelle parti se la passano molto meglio che sulla fronte dell‟Isonzo, e non mi è certo difficile crederlo dopo ciò che ho visto quaggiù! Dicono che lì la situazione è assai più tranquilla, che quasi

non si combatte, al massimo qualche scaramuccia qua e là ma niente di più. Non è fantastico? Quasi non riesco a crederci di aver avuto tanta fortuna. Dovrei partire domani o forse posdomani. I miei com-pagni mi chiamano già imboscato e raccomandato, e mi domandano come si fa per farsi assegnare alla Prima Armata. Ma io non ho fatto proprio niente per farmi trasferire e non so davvero che cosa rispon-

dere. A parte questo, non ci sono grandi novità. Mi sono preso un brutto raffreddore che si è ben presto trasformato in bronchite. Una tosse fastidiosissima m‟ha perseguitato per parecchi giorni, ma un po‟ alla volta è calata e adesso è passata del tutto. D‟altronde come si fa a non ammalarsi: qui uno su due dei miei compagni si è preso qualcosa, alcuni hanno avuto delle brutte polmoniti, ma almeno sono

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riusciti a farsi mandare in ospedale. Forse erano addirittura contenti di essersi ammalati. Ci sono stati casi di soldati che hanno avuto un crollo mentale e hanno respirato sostanze tossiche per farsi ricovera-re. Ma adesso, se ti condannano per autolesionismo, non ti sbattono

più in galera come nei primi mesi di guerra: ti rimandano in prima linea appena sei in grado di reggerti sulle gambe. In somma qui è ve-ramente brutta e un poco mi dispiace di lasciare questi ragazzi. Con diversi di loro sono diventato molto amico, ma che ci si può fare? È la guerra. Adesso devo salutarti perché ho finito la carta. Appena possibile ti manderò il mio nuovo recapito, ma spero tanto che non

sia necessario. Chi sa, forse la guerra finisce prima. Un bacione a tut-ti e a presto. Vostro affezionato

Stefano

Quando ricevemmo questa lettera, tirammo tutti un gran sospiro di

sollievo: forse il peggio era passato e presto avremmo potuto riunirci

definitivamente a Stefano. Pur troppo le cose andarono diversamente.

Fin dai primi di marzo del 1916 era cominciato un preoccupante

ammassamento di truppe austro-ungariche nel Trentino. Il giorno 22

il Comando della Prima Armata aveva segnalato tali movimenti a

Cadorna, che però s‟era mostrato assai scettico riguardo un possibile

attacco nemico da quella direzione. Se agli austriaci l‟operazione fos-

se riuscita, sarebbero dilagati nella Pianura Padana tra Vicenza e Ve-

rona, e la Seconda e la Terza Armata italiane, schierate sulle Alpi

Giulie e lungo l‟Isonzo, avrebbero corso il gravissimo rischio di ve-

nir prese alle spalle. L‟ammassamento di uomini e materiali continuò

per tutto il mese d‟aprile. Il giorno 26 un ufficiale cecoslovacco pas-

sò le linee e rivelò al nostro Comando il piano del maresciallo Con-

rad, Capo di Stato Maggiore dell‟esercito austriaco. Ancora una volta

Cadorna non dette peso alle determinanti informazioni che gli veni-

vano servite su un piatto d‟argento: ai primi di maggio era sempre

convinto che gli austriaci non avrebbero attaccato. Quando nel pome-

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riggio del giorno 14 si scatenò un infernale fuoco di artiglieria sulle

postazioni italiane, era ormai troppo tardi per far arretrare le truppe

dalle poco difendibili linee avanzate alle posizioni di massima resi-

stenza. Il giorno successivo il XX Corpo austro-ungarico avviò

l‟attacco lungo tre direttrici tra la Val Lagarina e la Valsugana, scate-

nando quella che in seguito sarebbe divenuta famosa come la Strafe-

xpedition, la Spedizione Punitiva dell‟Italia che aveva tradito i vecchi

alleati. Le divisioni italiane schierate lungo il fronte, quantunque col-

te di sorpresa, reagirono con coraggio e determinazione bloccando in

buona parte l‟avanzata austriaca sui massicci della linea di principale

resistenza, e dando ai rinforzi il tempo di sopraggiungere. Nomi co-

me quello del monte Pasubio, di Cima Undici e Cima Dodici sono

ormai entrati nella memoria collettiva degl‟italiani in ricordo degli

sforzi eroici compiuti dai nostri fanti e alpini per resistere alla terribi-

le pressione nemica. Alcuni settori della nostra linea di difesa inevi-

tabilmente cedettero, e tra questi l‟altopiano d‟Asiago, dove il 141°

Reggimento di fanteria fu costretto a ritirarsi di fronte

all‟insostenibile bombardamento delle artiglierie e a forze di fanteria

nemica preponderanti.

Ma intanto arrivavano nuove divisioni a dar man forte agli asse-

diati e a chiudere in qualche modo le falle che s‟aprivano da ogni

parte. Arrivavano nuovo materiale, nuove munizioni e nuove bocche

da fuoco per sostituire quelle andate distrutte durante i bombarda-

menti o lasciate nelle mani degli austriaci. Il passo Buole, per

l‟indomita resistenza delle nostre truppe, venne soprannominato

“Termopili d‟Italia”. Alla fine di giugno, per la sempre più grave

emorragia di uomini e mezzi, la forza dell‟attacco austriaco si andò

pian piano spegnendo. Gli scarsi risultati ottenuti in Trentino e un

nuovo e improvviso attacco scatenato in Galizia dall‟esercito russo

decretarono il fallimento definitivo della Strafexpedition.

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Mi preme far notare che l‟offensiva russa non fu certo dovuta a un

evento casuale: fu in vece richiesta espressamente dal re Vittorio

Emanuale allo zar Nicola, quasi come un favore personale. Così si

può dire che Cadorna venne salvato, oltre che dall‟eroismo dei poveri

soldati-contadini e soldati-montanari che lui tanto disprezzava, anche

dall‟iniziativa diplomatica del re. Gli sfondamenti del nostro fronte

vennero naturamente attribuiti dal generalissimo a truppe di scarso

valore e ancor minore coraggio, e non alla sua imprevidenza, alla sua

imperizia, all‟assurdità delle sue pretese e alla sua monumentale pre-

sunzione. La presunzione di uno che nei bandi alle truppe esordiva

con: “Noi, Conte Cavaliere di Gran Croce Tenente Generale Luigi

Cadorna…”

Verso la metà di giugno di quel fatidico 1916 mia madre ricevette

una lettera dal Ministero della Guerra con la quale s‟informava la

“Distinta famiglia Rapetti” di quanto segue:

S.M. Vittorio Emanuele III, nella Sua veste di Comandante in Capo

del Regio Esercito Italiano, è addolorato di comunicare il decesso,

avvenuto in combattimento sull‟altopiano d‟Asiago, in provincia di

Belluno, il giorno 28 del mese di maggio c.a., del sergente Stefano

Rapetti, in forza presso il 141° Reggimento dell‟Armata del Trenti-

no. Nella tristissima circostanza, S.M. porge le Sue sentite condo-

glianze alla famiglia tutta pel grave lutto subìto. Sia di conforto sape-

re che il sacrifizio della vita di questo soldato in difesa del sacro suo-

lo della Patria non è stato vano, e che il suo contributo alla vittoria

finale ne renderà imperituro il ricordo nei secoli e infinita la gratitu-

dine del popolo italiano.

Appena finito di leggere, mia madre si sentì male e dovemmo

chiamare a casa il medico che le somministrò un forte sedativo, e le

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prescrisse di rimanere a letto per almeno tre giorni e di evitare anche

la minima emozione. Io e mia sorella Francesca non stavamo certo

meglio, e il tono di quella lettera, oscillante tra l‟epico e il burocrati-

co, che pareva scritta da un ragioniere innamorato dei poemi omerici

e che non diceva neanche una parola sulle precise circostanze in cui

era morto nostro fratello, mi rendeva furioso. E poi quelle frasi così

generiche e ipocritamente elogiative facevano pensare a una fredda

formula standardizzata (magari esisteva un modulo specifico con una

sigla, tipo “mod. xyz” o qualcosa di simile) che lasciava solo un po‟

di spazio per un nome, un luogo e una data.

Ripensai a un anno prima, al giorno in cui Stefano era partito, così

allegro ed entusiasta come se andasse a una festa, sicuro che la guer-

ra sarebbe finita nel giro di qualche settimana e che quella fosse

un‟occasione unica per sperimentare l‟emozione della battaglia. Pa-

reva convinto di andar a combattere come gli antichi cavalieri, con

l‟armatura luccicante e la spada che roteava e si abbatteva contro gli

scudi dei valorosi e leali avversari. Ma cosa c‟era d‟eroico nel morire

asfissiati dai gas o dilaniati da una granata lanciata quasi alla cieca da

chilometri di distanza? Perché non avevo fatto di più per fermarlo?

Perché lo avevo lasciato andare? Per molti mesi questi pensieri mi

tormentarono giorno e notte. E ancor oggi, dopo tanti anni, continua-

no a ossessionarmi.

Intanto la guerra continuava inarrestabile su tutti i fronti, brucian-

do la vita di centinaia di migliaia di giovani che spesso non sapevano

neppure perché combattevano. Cadorna era in difficoltà: aveva biso-

gno di un chiaro e netto successo dopo i tanti mesi di attacchi sulla

fronte dell‟Isonzo, attacchi inconcludenti dal punto di vista strategico

e dissanguanti dal punto di vista degli uomini e dei mezzi perduti. In

maggio, poi, s‟era addirittura rischiata l‟invasione e la conquista de l-

le ricche città della pianura padana, inclusa Venezia. I detrattori del

generale divenivano di giorno in giorno più numerosi, sia all‟interno

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dell‟esercito sia a livello di governo. Si doveva sostituire Cadorna, e

al più presto, ripetevano militari, politici e giornalisti. E di certo non

mancavano gli argomenti a favore di una tal decisione.

Il Comandante Supremo aveva assoluto bisogno di riportare una

grande vittoria, una vittoria che avrebbe messo a tacere tutta quella

gente, e fissò nuovamente la sua attenzione su Gorizia. L‟impresa era

ardua perché questa città era circondata da alture potentemente forti-

ficate, a ovest delle quali un altro ostacolo naturale, l‟Isonzo,

s‟opponeva alla sua conquista. Ma la crisi in Trentino andava gra-

dualmente risolvendosi, e man mano che lassù si riconquistavano le

posizioni perdute, Cadorna spostava sulla fronte giulia le truppe e i

mezzi colà non più necessari.

Il 4 d‟agosto venne lanciato un attacco diversivo sulle alture di

Monfalcone, per far credere al nemico che quello fosse il nuovo o-

biettivo degl‟italiani. Il giorno seguente brevi azioni d‟artiglieria in-

quadrarono il tiro e distolsero vieppiù l‟attenzione del nemico dal ve-

ro bersaglio dell‟attacco, che ebbe luogo il 6 d‟agosto. Un lungo

bombardamento, concentrato su pochi chilometri di fronte, con arti-

glierie e batterie di bombarde distrusse buona parte delle trincee e

delle fortificazioni austriache piazzate sul monte Sabotino e sul San

Michele e sul sistema di difesa che le collegava. A quel punto venne

lanciato l‟attacco della fanteria che travolse la residua resistenza ne-

mica e, nel giro di tre giorni, conquistò le restanti alture, quali il Po-

dgora il monte Calvario e il San Gabriele. Il giorno 9 le truppe italia-

ne entrarono da trionfatrici in Gorizia. Cadorna aveva ottenuto il suc-

cesso tanto desiderato, e questo fu probabilmente il momento di

maggior prestigio e massima popolarità del generale nel corso di tut-

ta la guerra.

Infiammato da nuova fiducia ed entusiasmo, Cadorna dette ordine

tra il 14 settembre e il 4 novembre di sferrare altre tre offensive

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sull‟Isonzo: la settima, l‟ottava e la nona battaglia, le cosiddette “tre

spallate” che avrebbero dovuto abbattere le residue difese austriache.

Ma, se bene il numero di morti e feriti fosse alto come al solito, i r i-

sultati strategici furono assai modesti. Quanti altri inutili assalti a-

vrebbe dovuto lanciare il generalissimo per capire che non era quello

il metodo per ricongiungere alla madrepatria le agognate “terre irre-

dente”? O forse la sua strategia era semplicemente quella di star a

vedere chi esauriva per primo uomini e mezzi a disposizione, come

se si trattasse di una gara tra due vetture in cui avrebbe vinto non

quella più veloce e più stabile in curva ma quella che restava per ul-

tima senza benzina?

Dopo queste ultime tre offensive, tanto sanguinose quanto inutili,

le operazioni militari contro l‟Austria vennero sospese per tutto

l‟inverno e parte della primavera seguente. Ripresero in maggio.

Data l‟enorme emorragia di truppe e ufficiali che la strategia be l-

lica di Cadorna imponeva, la chiamata alle armi di sempre nuove

classi era inevitabile. E anch‟io ricevetti in gennaio la famigerata car-

tolina-precetto. Mi presentai al Distretto Militare di Genova e, dopo

una visita medica assai sommaria, venni dichiarato abile e arruolato.

Essendo laureato in Legge venni spedito al corso allievi ufficiali di

complemento, che seguii con non eccelso profitto. Il corso normale,

che durava tre mesi, era già considerato troppo breve. Il mio fu uno

dei cosiddetti “corsi di corsa”, ossia 40 giorni a Modena e 20 alla

Porretta. Due mesi per divenire esperto schermitore e tiratore di pre-

cisione, per padroneggiare la topografia e l‟arte delle fortificazioni,

per essere illuminato sui misteri dell‟ordine sparso e dell‟attacco

frontale, e tanto altro ancora. Ma almeno, alla fine del corso avevamo

diritto a un mese intero di licenza, e quello era forse il premio da noi

più ambito. Io lo passai quasi tutto in famiglia.

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Rientrato in servizio, venni destinato al battaglione alpino “Saluz-

zo” che faceva parte della Seconda Armata, quella a cui era assegna-

to il settore di fronte che comprendeva le Alpi Carniche e le Giulie.

Così fui spedito a Plezzo, un paese situato nella conca che a ovest

tocca le pendici del monte Canin, a nord-est quelle del Grintavec e a

sud-est quelle del monte Nero. Ci si può arrivare percorrendo la stra-

da che partendo da Gorizia attraversa gli abitati di Tolmino e Capo-

retto. Proseguendo oltre Plezzo verso nord, e arrampicandosi per una

strada tutta curve e tornanti, si giunge al passo del Predil, che separa

l‟imponente Iòf di Montasio (a ovest) dal Monte Mangart (a est).

Dopo un‟altra lunga serie di tornanti, stavolta in ripida discesa, si può

scegliere se dirigersi verso Tarvisio (a nord) o Chiusaforte (a ovest).

Il mio viaggio da Genova a Plezzo fu lungo e disagevole, su car-

rozze ferroviarie sgangherate con dure panche di legno e finestrini

incastrati. Ma fu un viaggio molto interessante. Alla stazione di Me-

stre salirono un paio di fanti di ritorno ai reparti dopo una troppo

breve licenza. Uno era grande e grosso con una voce da basso, l‟altro

era uno spilungone magro con i capelli color carota. Si sedettero pro-

prio dietro di me e si misero a chiacchierare tranquillamente. Tra

un‟occhiata e l‟altra al paesaggio piatto e tranquillo che sfilava al di

là dei finestrini sporchi, io leggiucchiavo un libro sull‟Africa e le

lunghe ricerche delle sorgenti del Nilo. Quando il discorso dei due

compagni di viaggio alle mie spalle cadde sulla famigerata Strafe-

xpedition mi feci più attento. Erano veneti e parlavano nel loro dia-

letto, per cui non riuscivo a capire tutto quel che dicevano, ma quan-

do abbassarono la voce stuzzicarono ancor più la mia curiosità.

“Xe una vergogna!”, disse quello più grosso, “I ne trata come car-

ne de canon…”

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“E i vol l‟imposibile”, continuò il magro, “e se no ti xe capace de

far l‟imposibile, i te fusìla”.

“E senza proceso!”, rincarò il primo. “Un bel muro de piere, un

ploton de esecusion e adìo Momi. No i ghe pensa do volte, quela bru-

ta naja de uficiai.”

“Maledeta raza!” sibilò il magro, che non s‟era accorto di averne

uno proprio dietro di lui.

“E quei povereti del 141°? A sorte i ga tirà. A sorte! Te par che se

pol copar uno tirandolo a sorte?”

“Sì sì, me ricordo: dòdise i ghe ne ga fusilai. E anche un sotote-

nente.”

“I se maza anche tra de lori”, osservò il grosso.

Se avevo capito bene, al 141° Reggimento era stata ordinata una

decimazione. Voci del genere ne circolavano spesso tra i militari, ma

finora credevo che fossero solo dicerie prive di fondamento. Adesso

avevo invece la conferma che tali episodi erano davvero accaduti,

anche se erano stati tenuti accuratamente nascosti. Mi rivolsi ai due

fanti dicendo che avrei voluto saperne di più, perché mio fratello a-

veva prestato servizio proprio in quel reggimento.

“I nomi no li conosso, sior tenente, me dispiase”, disse il grosso

scuotendo la testa.

“Mi però conosso uno del 141°. Magari le sa dire chi iera quei do-

dici disgraziai, signor tenente”, aggiunse il suo amico. Presi nota del

nome e ringraziai. Avrei cercato di rintracciarlo e di parlargli. Se era

ancora vivo…

Arrivato a Plezzo, dopo qualche giorno ero riuscito a farmi amico

il telefonista del battaglione e gli avevo chiesto se poteva aiutarmi.

Passarono parecchie settimane senza che riuscissi a tirar fuori un ra-

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gno dal buco, poi arrivò la cattiva notizia: quel tale era stato trasferito

e non si sapeva come rintracciarlo. Dopo qualche altra settimana,

l‟amico telefonista era riuscito a scovarmi fuori il nome di un altro

del 141°. Poco dopo scoprimmo che era stato congedato per una

brutta ferita a un piede, e io non avevo certo la possibilità di andar a

trovarlo in un paesetto della provincia di Foggia. In somma, avevamo

imboccato un altro vicolo cieco.

In maggio del 1917 finì la calma che regnava da sei mesi e mezzo:

Cadorna si era deciso a scatenare l‟ennesima (la decima, per la preci-

sione) offensiva dell‟Isonzo. Fu un altro bagno di sangue che non

portò nessun risultato apprezzabile dal punto di vista strategico, ma

dette un sacco da fare ai medici e ai becchini. Alla fine del mese gli

spaventosi sacrifici di vite umane (oltre 127 mila uomini, tra morti e

feriti) portarono a modeste e del tutto sproporzionate conquiste di

territorio nemico. Ai primi di giugno gli austriaci passarono alla con-

troffensiva e si ripresero quasi tutto ciò che avevano perduto in ma g-

gio. Cadorna, non pago di questa carneficina e forse un po‟ annoiato

dell‟Isonzo, ordinò allora l‟offensiva dell‟Ortigara, una montagna del

Trentino che - quasi si seguisse un grottesco copione - venne prima

conquistata dalle truppe italiane (con l‟ennesimo massacro) e poco

dopo perduta nella controffensiva austriaca. A quel punto il morale

delle truppe italiane era a pezzi. E come avrebbe potuto non esserlo?

Il mio battaglione, su al nord, venne impegnato solo marginalmen-

te e intanto io m‟ero rassegnato a non avere altre informazioni sulla

decimazione del 141°. Del resto, perché affannarmi tanto: un colon-

nello impazzito aveva dato l‟ordine di esecuzione di dodici militari, e

Cadorna e gli altri caporioni degli Alti Comandi gliel‟avevano fatta

passare liscia per non far scoppiare lo scandalo. Probabilmente a

quell‟uomo era stato tolto il comando ed era stato spedito a casa.

Certo, troppo poco per i delitti che aveva commesso, ma che ci pote-

vo fare io?

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Alcune settimane dopo ebbi occasione di parlare con un tenente

del nostro Comando Divisionale. Mi raccontò che anche alla Brigata

Salerno, dalla quale era finalmente riuscito a farsi trasferire, era stata

applicata la pena della decimazione. Otto uomini erano stati fucilati.

Alcuni erano solo sospetti di tentativo di diserzione, gli altri erano

stati scelti a caso. E altri due fanti del 75° Reggimento, sempre e-

stratti a sorte, erano stati fucilati il 31 ottobre del 1916 per certi atti

d‟insubordinazione che s‟erano verificati il giorno precedente. In

somma quello del 141° non era un episodio isolato. Ma c‟era di più,

aggiunse il tenente. Cadorna in persona aveva emanato una circolare

in cui invitava senza mezzi termini i comandanti di divisioni, batta-

glioni, brigate e reggimenti ad applicare la decimazione ogni volta

che lo ritenessero opportuno o non ci fosse altro modo per reprimere

reati collettivi; e questo senza neanche la seccatura di chiedere il

consenso del Comando Supremo.

Adesso volevo davvero vederci chiaro e Betz, il tenente con cui

avevo stabilito una salda e istintiva intesa appena c‟eravamo cono-

sciuti, mi promise che si sarebbe occupato della faccenda. Con di-

screzione, naturalmente. Mi fece intendere che aveva già pensato a

un certo numero di conoscenti a cui avrebbe potuto chiedere infor-

mazioni. Ritornai in prima linea rinfrancato e fiducioso.

Intanto il generalissimo si stava preparando a scatenare

l‟undicesima offensiva dell‟Isonzo, quella che sarebbe divenuta fa-

mosa come la battaglia della Bainsizza, un altopiano pietroso a nord

di Gorizia. Questo, secondo Cadorna, avrebbe dovuto essere lo sfor-

zo finale, che avrebbe finalmente condotto alla vittoria e alla resa del

nemico. Ma non aveva detto così anche tutte le altre volte? Dati i

precedenti, sarebbe stato logico supporre che nessuno gli avrebbe

creduto. In vece, assurdamente, ufficiali e truppe si convinsero che

questa fosse davvero la volta decisiva. Si diffuse l‟ottimismo e il mo-

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rale dei soldati venne considerato ovunque buono, in certi reparti ad-

dirittura eccellente.

Ma i fatti smentirono presto quelle ottimistiche previsioni: le of-

fensive fallirono a Tolmino e sul Carso, mentre sulla Bainsizza i r i-

sultati, seppur positivi, furono assai modesti; e comunque la nuova

linea italiana risultò più vulnerabile della precedente. Questi miseri

successi vennero pagati con la perdita di oltre 100 mila uomini in po-

chi giorni di combattimenti e con un vero e proprio crollo psicologi-

co diffuso a tutti i livelli dell‟esercito italiano. Gli episodi

d‟insubordinazione, diserzione ed aperta ribellione si moltiplicarono,

e si sentì inneggiare sempre più spesso alla Russia, alla pace e alla

rivoluzione proletaria.

Per quanto riguarda la mia indagine personale sui fatti del 141°

Reggimento, alla fine di settembre venni avvertito da Betz che

c‟erano delle novità. Appena possibile avrei dovuto recarmi da lui,

perché doveva comunicarmi informazioni delicate che non era il caso

di discutere per telefono. Il giorno dopo, di prima mattina, mi presen-

tai al suo ufficetto, al Comando Divisionale. Ci stringemmo la mano

con calore e Betz mi fece segno di prender una sedia e

d‟accomodarmi. La sua scrivania era straripante di documenti d‟ogni

genere: pratiche personali, moduli di fonogrammi, tabelle di dati sta-

tistici, manuali dei più disparati argomenti, blocchi d‟appunti riempi-

ti a metà, e non so che altro.

“Solo un momento che finisco di riempire questi dannati moduli e

sono da te. Non hai idea di quante cartacce servono per far andar a-

vanti questa maledetta guerra. Penso che se all‟improvviso finisse la

carta contemporaneamente in tutti gli eserciti, finirebbe subito dopo

anche la guerra.” Mentre riempiva di dati un modulo in triplice copia,

Betz continuò a intrattenermi con discorsi leggeri e quasi frivoli. Ap-

parentemente era il solito compagnone che amava ridere e scherzare,

ma il modo in cui muoveva le mani e le occhiate che mi lanciava o-

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gni tanto mi davano l‟impressione che in realtà fosse imbarazzato e

forse addirittura turbato. Cominciai a innervosirmi anch‟io.

“Bene, eccomi qua tutto per te”, esclamò dopo aver riposto il mo-

dulo e le due copie nel cestino delle pratiche evase. “Prendo solo un

foglietto di appunti… vediamo, dovrebbe essere…” Dopo aver mes-

so sottosopra mezza scrivania, finalmente lo trovò e lo posò sul tavo-

lo davanti a lui. Io cercai di capire che cosa ci fosse scritto, ma era in

corsivo e tentando di leggere a rovescio non riuscivo a decifrare la

grafia. “Dunque, ci sono notizie su tuo fratello e… ”

“Mio fratello?”

“Sì, del suo periodo in forza al 141° e… ecco prima di procedere

vorrei farti alcune domande, tanto per esser sicuro di non aver preso

una cantonata. D‟accordo?”

“Forza, chiedimi pure tutto quel che vuoi”, dissi.

“Allora… il nome di battesimo è Stefano, giusto?”

“Sì, Stefano.”

“Il cognome è uguale al tuo, naturalmente.”

“Certo, è lo stesso.”

“Nato… nel novantacinque. Corrisponde?”

“Sì sì, nel novantacinque.” Man mano che rispondevo alle do-

mande di Betz e confermavo i dati in suo possesso, il suo viso

s‟incupiva.

“Era sergente, giusto? Dal marzo del Sedici…”

“Sì, esatto; era sergente. Ma non ricordo quando ebbe la promo-

zione. È importante?”

“No”, sospirò, “in effetti non è importante. È solo che… be‟, è i-

nutile far tanti giri di parole. Io, poi, non sono mai stato bravo a i n-

dorare le pillole e in questo caso… Giulio, voglio avvertirti che…

ecco, che non è una buona notizia che sto per comunicarti, perciò…”

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“Una cattiva notizia? Be‟, non riesco proprio a immaginare una

notizia peggiore di quella della sua morte. E quella l‟ho già ricevuta

molti mesi fa.”

“Lo so, ma temo che questa sia ancor peggiore… Insomma, Ste-

fano è uno dei tre sergenti che nel maggio del 1916 sono stati passati

per le armi. Dodici militari in tutto, e lui era uno di loro. Mi dispiace.

Maledizione, avrei dato non so cosa per non dovertelo dire e… Giu-

lio! Che hai? Come ti senti? Sei bianco come un lenzuolo. Vuoi un

cordiale, un caffè? Vuoi distenderti per un po‟?”

La testa mi girava e sentii un sottile senso di nausea che mi saliva

dallo stomaco e diventava sempre più forte. Sentii in gola il sapore

acido dei miei succhi gastrici. Deglutii, chiusi gli occhi e feci dei len-

ti e profondi respiri mentre stringevo con forza i braccioli della sedia.

Avevo un ronzio nelle orecchie e mi pareva di aver la testa vuota e

leggera. Andai avanti per un po‟ con i miei esercizi di rilassamento, e

intanto Betz s‟affannava con una bottiglia di brandy. Strinsi il bic-

chiere che mi porgeva e buttai giù tutto d‟un fiato il liquore che lo

riempiva a metà.

“Come va?”, domandò ancora Betz, premuroso.

“È passata. Sì, mi è passata”, ripetei. “Sto bene. Andiamo avanti.”

“Ma… sei sicuro?”

“Sì, sono sicuro. È stato estratto a sorte? Dimmelo, su. Mio fratel-

lo è stato scelto a caso?”

Betz annuì lentamente. “Sì, tutti e dodici estratti a sorte.”

“Incredibile! Arruolato volontario, sempre al fronte fin dall‟inizio

della guerra, tre citazioni al merito, una ferita, promosso sergente… e

lo hanno fucilato perché il suo nome è stato estratto a sorte. Assurdo.

Una follia. Follia pura.”

“Davvero terribile. E non è il solo caso. Forse nessuno sa esatta-

mente quanti episodi di questo genere ci sono stati. E si parla di…

atrocità, se possibile, ancor più agghiaccianti. Ho sentito di nostri

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soldati presi a cannonate e mitragliati nella terra di nessuno solo per-

ché qualcuno di loro aveva tentato di disertare… Intere compagnie

mitragliate, ti rendi conto?”

“E il comandante? Chi era il comandante del 141°? Chi è stato a

ordinare la decimazione?”

“No, senti Giulio…”

“Su, dimmelo. Avanti. Sei o non sei un amico?”

“Ma è appunto perché sono tuo amico… a che servirebbe? Solo a

rigirare il coltello nella piaga. Perché vuoi tormentarti così, Giulio?

Ormai è successo. È successo e non ci si può far più niente. Stammi a

sentire invece: adesso noi…”

“No, io penso che qualcosa si può fare. Sì, qualcosa si può fare...

Oh sì, che si può fare!”

Passato lo shock, mi sentivo incredibilmente calmo e lucido. Pro-

vavo uno strano sentimento di rabbia fredda e implacabile. Chi aveva

commesso il delitto doveva pagare. Era assai semplice. Sentii che

niente e nessuno m‟avrebbe fermato.

“Allora, Max”, scandii le parole: “se sei un vero amico, dammi

quel nome.”

“Giulio, si può sapere cosa ti frulla per la mente? Di‟ un po‟, che

ti sei messo in testa? Io non voglio che…”

“Ti prego, Max. Non farò niente d‟avventato. T‟assicuro. Dammi

solo quel nome.”

“No, io penso che sarebbe molto meglio…”

“Max! Quel nome. Ti prego.”

Sospirò. “E va bene. Ma prima voglio una solenne promessa. No,

un giuramento. Giurami che non ti metterai nei guai, che non farai

pazzie. Voglio che me lo giuri adesso.”

“Vuoi un giuramento? D‟accordo, Max: farò questo giuramento.”

Dopo una lunga pausa, mentre ci fissavamo negli occhi, dissi: “Giuro

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che non farò niente d‟avventato, che non mi metterò nei guai, e non

farò pazzie. Te lo giuro.”

“Allora, l‟ufficiale che ha comandato la decimazione è… il colon-

nello Aloisio de Giusti. È lui che ha dato l‟ordine.”

“Colonnello de Giusti. Aloisio…”

“Esatto.”

“De Giusti, eh? Hai detto proprio de Giusti?”

“Sì, de Giusti. Perché? Lo conosci?”

“Un nome davvero appropriato. De Giusti… De-Giusti!” Scoppiai

a ridere ripetendo ancora quel nome. Betz mi guardò preoccupato

scuotendo la testa, mentre io continuavo a ridere. A ridere sempre più

forte. M‟invitò a calmarmi, a ricompormi. Ma non m‟era possibile:

non riuscivo assolutamente a frenarmi. Continuai a sghignazzare fin-

ché mi vennero le lacrime. Betz si agitava sulla sedia sempre più

perplesso e preoccupato. Poi, un po‟ alla volta, le sue labbra si apr i-

rono in un sorriso; il sorriso s‟allargò sempre più e alla fine anche

lui, ripetendo con me quel beffardo cognome e quasi contro la sua

volontà, rise e rise ancora con le lacrime che gli colavano lungo le

guance.

Già ai primi di settembre circolavano vaghe voci di preparativi da

parte degli austriaci di una grande offensiva sull‟Isonzo. Il giorno 25

di quel mese, il Centro italiano d‟informazioni di Berna comunicò

che secondo le sue fonti l‟Austria stava predisponendo una grande

offensiva su due direzioni di attacco. Il 7 ottobre l‟Ufficio informa-

zioni dell‟Esercito riteneva probabile un‟offensiva nemica sul medio

Isonzo, con concorso di truppe germaniche e azioni dimostrative in

Trentino per celare le sue vere intenzioni. Ma Cadorna anche stavolta

non ci credette, tant‟è vero che il 4 ottobre partì da Udine per Villa

Camerini, nei pressi di Vicenza. Si era concesso una licenza di alcu-

ne settimane. Il generalissimo era convinto che, come negli anni pre-

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cedenti, stesse per iniziare la tradizionale lunga pausa invernale delle

operazioni militari. In più le truppe austriache, secondo le informa-

zioni disponibili, erano stanche e col morale assai basso. Il 13 ottobre

l‟Ufficio Situazione del Comando Supremo stilò un promemoria nel

quale indicava come assai probabile un‟offensiva austriaca nel setto-

re compreso tra Tolmino e Monte Santo. Il 19 ottobre Cadorna si de-

cise a tornare a Udine, sopra tutto per le continue piogge che avevano

guastato la sua vacanza. Lo stesso giorno convocò il generale Capel-

lo, responsabile della Seconda Armata, ordinandogli di rischierare le

truppe da una linea controffensiva a una strettamente difensiva.

Un‟operazione del genere, data la scarsezza a quel tempo di veicoli a

motore, avrebbe richiesto per essere completata un lavoro di almeno

due settimane. Problematico era sopra tutto lo spostamento dei pezzi

d‟artiglieria di grosso calibro. Il giorno seguente, Capello (che era

febbricitante) si recò all‟ospedale di Padova per farsi curare una ne-

frite. Nel frattempo era iniziato il rischieramento delle truppe. Quello

stesso giorno un ufficiale ceco, che aveva disertato passando le linee

italiane sul Vodil, rivelò che l‟Austria stava preparando un‟offensiva

nella conca di Tolmino, e che questa era prevista pel giorno 26. Il

giorno seguente, 21 ottobre, due ufficiali romeni disertarono passa n-

do anch‟essi le linee italiane al Vodil. Portavano con sé una copia del

piano d‟attacco al monte Merzli e precisarono che la battaglia risolu-

tiva era prevista nella conca di Plezzo. Non vennero creduti. Cadorna

ripetè più volte che secondo lui l‟Austria stava bluffando, e che in

ogni caso qualunque attacco nemico sarebbe stato contenuto e subito

respinto senza difficoltà.

Il mattino dello stesso giorno, il 21, vennero esplosi tiri

d‟inquadramento da parte delle artiglierie austriache. La cosa fina l-

mente destò qualche preoccupazione presso i comandi italiani, ma

dopo alcune ore i colpi cessarono. Questa non era una procedura

normale durante la preparazione di un‟offensiva: di solito i tiri

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d‟inquadramento andavano avanti per parecchi giorni. Anche gli a-

viatori italiani inviati a sorvolare il territorio nemico confermarono di

non aver notato alcun preoccupante movimento di truppe, ma nella

zona il tempo era cattivo e s‟alzava spesso la nebbia. Il 22 ottobre, a

mezzo giorno, venne intercettata una comunicazione telefonica ne-

mica secondo cui l‟offensiva avrebbe avuto inizio tra la notte del 23 e

il mattino del 24. Il giorno seguente un‟altra intercettazione telefoni-

ca rivelava che il bombardamento austriaco sarebbe iniziato alle 2 del

24 ottobre.

E così avvenne. Alle due del mattino si scatenò l‟inferno su tutta

la fronte giulia, in particolare tra Plezzo e Tolmino. I proiettili di

grosso calibro colpirono, oltre alle trincee italiane, anche le retrovie e

i centri di comando, distrussero buona parte delle linee di comunica-

zione e misero fuori combattimento molte postazioni d‟artiglieria. Io

mi trovavo col mio battaglione alpino sul Rombòn, un monte ben

fortificato alto poco più di 2200 metri. Alle quattro del mattino vidi

una nuvolaglia grigiastra salire dalla conca di Plezzo: i nemici ave-

vano lanciato i gas. Come seppi più tardi, un battaglione tedesco a-

veva liberato il fosgene contenuto in migliaia di bombole e le corren-

ti d‟aria s‟erano incaricate di trasportare quella micidiale sostanza

verso le linee italiane. In trenta secondi, quasi senza rendersene co n-

to, rimasero uccisi 600 soldati italiani. Noi ci salvammo solo perché

eravamo in posizione elevata e il gas, che è più pesante dell‟aria, ten-

deva a restare in basso. Tra le 8 e le 9 iniziò l‟attacco delle fanterie

nemiche che, contrariamente alle teorie militari allora in voga, non si

preoccuparono di conquistare le cime ma dilagarono nel fondo valle,

distruggendo le comunicazioni e cogliendo alle spalle interi reparti.

Per buona parte della giornata si tentò di resistere, ma le forze nemi-

che erano preponderanti e si dovette ripiegare sempre più indietro. In

più i reparti italiani erano in piena fase di rischieramento, come ordi-

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nato da Cadorna. Numerose unità, come quelle sul Monte Nero, ri-

masero isolate e, finite le munizioni, dovettero arrendersi. Nel primo

pomeriggio una colonna tedesca raggiunse Caporetto. Intorno alle 18

tutto il fronte tra Plezzo e Tolmino era praticamente in mani nemi-

che. Il generale Arrighi, comandante della 50a Divisione, avendo

perso il collegamento telefonico col Comando di Corpo d‟Armata e

avendo saputo che Caporetto e altre località eran cadute in mano al

nemico, decise di ripiegare sulla linea Monte della Guardia – Valle

Uccea. Ricevemmo dunque l‟ordine d‟abbandonare il Rombòn, a n-

che se la nostra linea di difesa non era stata minimamente danneggia-

ta dagli attacchi nemici. Ma le nostre retrovie erano già in mano agli

austriaci. Resi inservibili i pezzi d‟artiglieria, distrutto ciò che non

era possibile trasportare e caricati gli zaini con tutto quel che restava,

ripiegammo attraverso il Vallone dell‟Aquila in direzione di Sella

Prevala e poi di Monte Canin, sulla cui linea dovevamo attestarci per

resistere a oltranza agli austro-tedeschi. Marciammo nella tormenta

tutta la notte, per gole e sentieri scoscesi. All‟alba, dato che non ave-

vamo ancora raggiunto Sella Prevala, dovemmo nasconderci e sosta-

re fino all‟imbrunire per non esporci al tiro nemico.

Che cosa succedeva intanto al Comando Supremo? Alle ore 10 il

generale Capello aveva inviato a Cadorna un riassunto degli avveni-

menti della prima mattina, riassunto che non era per nulla allarmante.

Alle 12.15 Cadorna aveva telegrafato al duca d‟Aosta spiegandogli

che continuava a esser convinto che l‟attacco più massiccio si sareb-

be scatenato contro la Terza Armata, e non contro la Seconda. (A

quell‟ora, la Seconda Armata versava già in gravissime difficoltà.)

Alle 13 Cadorna dichiarava nel suo bollettino quotidiano che non

c‟era motivo alcuno di preoccupazione. Ancor alle 18 al Comando

Supremo Cadorna era tranquillo e sereno, apparentemente ignaro del

disastro che stava avvenendo. Finalmente, dopo le ore 23 del 24 ot-

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tobre, arrivarono al generalissimo le prime tragiche notizie dal fronte.

Il 25 ottobre Cadorna era ancora fiducioso di poter resistere su una

linea di fronte di poco arretrata rispetto a quella iniziale. Non sapeva

che già la sera del primo giorno di battaglia colonne di migliaia di

sbandati si dirigevano allegramente verso Cividale, convinte che la

guerra fosse ormai finita. Occupassero pure Milano e Torino, e anche

Roma, le truppe austro-tedesche: anche gl‟imboscati avrebbero pro-

vato finalmente cosa vuol dire trovarsi in prima linea! Questo era il

sentimento comune a quelle masse di sbandati, che percepivano lo

sfondamento di Caporetto come una liberazione, come la fine di un

incubo durato più di due anni.

Saccheggi e incendi si verificarono lungo le strade e nelle campa-

gne, un po‟ per lasciare “terra bruciata” agl‟invasori e un po‟ per pu-

nire le popolazioni della zona che in tutti quegli anni avevano spre-

muto come limoni i soldati italiani, cedendo loro le mercanzie a

prezzi esageratamente alti. Intanto anche la popolazione civile, a pie-

di o con carri e carretti, stava cercando di mettersi in salvo, portando

via quel che poteva, intasando le strade e i ponti, e ostacolando il

passaggio alle nostre truppe di riserva che si dirigevano in senso op-

posto verso il nemico. Il 25 ottobre le colonne di sbandati erano di-

ventate enormi. Quasi tutti i soldati avevano gettato le armi, visto che

quelli che portavano ancora il fucile venivano fermati e rispediti in

prima linea. Molti si ubriacarono, altri si vestirono da civili (anche da

donne) per sfuggire ai carabinieri. Ma gli episodi di violenza, date le

circostanze, furono assai limitati. Vi fu anche qualche fucilazione

“tanto per dar l‟esempio”, spesso senza vera necessità o per motivi di

scarsa importanza. Il 26 ottobre anche il Comando Supremo di Udine

cominciò a svuotarsi: generali, colonnelli e alti ufficiali si misero in

salvo a bordo delle loro lussuose autovetture. Il 27 ottobre Cadorna

decise la ritirata oltre il Tagliamento. A quel punto, sulle strade che

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conducevano al di là del fiume s‟erano riversati un milione di soldati

e 400 mila profughi.

Nel caos della ritirata, che secondo le raccomandazioni di Cador-

na, avrebbe dovuto essere lenta e ordinata, i reparti s‟erano sfaldati,

gli ufficiali separati dalla truppa, i militari mescolati coi civili. Ades-

so il pericolo più grave era che gli austro-tedeschi scendendo nella

pianura friulana tagliassero la strada ai reparti della Terza Armata

che, essendo stati coinvolti solo marginalmente dall‟offensiva, erano

gli unici che avrebbero potuto opporsi al nemico impedendo

l‟invasione di tutto il Veneto. Ma solo se fossero riusciti a mettersi in

salvo oltre il Tagliamento. Cadorna, anche per punire la Seconda

Armata che, secondo lui era la principale (se non unica) responsabile

del disastro, aveva disposto che questa proteggesse la ritirata della

Terza Armata, sacrificandosi se necessario per farla passare sulla riva

destra del Tagliamento. Il generalissimo aveva assegnato il ponte

della Delizia (presso Codroipo), e quelli di Madrisio, Straccis e Lati-

sana alla Terza Armata; alla Seconda aveva assegnato i ponti di Cor-

nino, Pinzano, Dignano e Bonzicco.

Come tanti altri, anch‟io ero stato separato dai miei alpini e m‟ero

aggregato al XXIV Corpo d‟Armata del generale Caviglia. A cagione

della piena del Tagliamento i ponti di Straccis e Madrisio erano i m-

praticabili e dunque i passaggi utilizzabili dalla Terza Armata erano

ridotti al minimo. Il ponte della Delizia, per la totale assenza d‟un

controllo del traffico, era spaventosamente intasato e intanto le trup-

pe austro-tedesche s‟avvicinavano. Le comunicazioni eran ormai

completamente distrutte e il generale Caviglia, che non voleva allon-

tanarsi dai suoi soldati, mi spedì al Comando Supremo per ottenere il

permesso di passare dal ponte di Latisana.

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Dopo un viaggio in macchina di due ore entrai nella sede del

Quartier Generale. Il nervosismo tra colonnelli e generali era ben e-

vidente, l‟agitazione negli uffici e l‟andirivieni di porta-messaggi e-

rano al limite del caos. Ordini e contrordini venivano lanciati a pochi

minuti di distanza l‟uno dall‟altro. Gli ufficiali sembravano presi dal

panico e si sarebbe detto che il nostro esercito fosse sull‟orlo dello

sfacelo. In effetti era proprio così. Riuscii con gran difficoltà ad atti-

rare l‟attenzione del Vice-Capo di Stato Maggiore e, in un colloquio

che col passare dei minuti sentivo sempre più inutile, gli spiegai la

situazione delle nostre truppe. Dopo dieci minuti di ulteriori chiari-

menti e precisazioni da parte mia, interrotti continuamente dall‟arrivo

di sempre nuovi portaordini, l‟alto ufficiale mi congedò in modo br u-

sco e sgarbato. Forse non aveva neppure ascoltato quel che gli stavo

dicendo o, se lo aveva fatto, non si era reso conto di quanto dramma-

tica fosse la nostra condizione. Il risultato era che non avevo ottenuto

un bel niente: il permesso di usare il ponte di Latisana c‟era stato ca-

tegoricamente e definitivamente rifiutato.

Mi stavo dirigendo sconsolato alla mia vettura e avevo già fatto

segno all‟autista di metter in moto, quando all‟improvviso lo vidi.

Cadorna, il portamento rigido e marziale, i baffoni grigi da tricheco e

la sfilza di medaglie che gli luccicavano sul petto, era lì a dieci forse

dodici metri da me, impegnato in una vivace discussione con uno dei

tanti generali del Comando Supremo. Accanto a lui un capitano del

Genio e un colonnello d‟Artiglieria.

Il momento era infine arrivato! Il momento di regolare i conti col

generalissimo per tutti gl‟innocenti che aveva fatto ammazzare. Il

momento di fargliela pagare per tutti gli omicidi che aveva ordinato,

e prima di tutto per mio fratello Stefano. Sembrava proprio che il de-

stino avesse organizzato le cose per permettermi di fare giustizia. Ero

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nel posto giusto al momento giusto: tutto dipendeva ora solo da me.

Portai la mano alla fondina del mio revolver, il modello 1889 che era

in dotazione a tutti gli ufficiali. L‟arma era carica e pronta a far fuo-

co. Slacciai la fondina e stavo per estrarre la pistola quando fui colpi-

to da un pensiero sgradevole: mi resi conto che se sparavo a Cadorna

avrei dovuto ammazzare anche gli altri tre. Quel generale forse se lo

sarebbe meritato, ma gli altri due ufficiali no: quelli non erano imbo-

scati di qualche Comando di Corpo d‟Armata, erano soldati di prima

linea, e lo si vedeva dalle divise logore e spiegazzate che avevano

toccato ben altro che sedie e scrivanie. Nella mente mi vidi impugna-

re la pistola, piegarmi su un ginocchio, tendere il braccio, prendere di

mira una delle tante medaglie che brillavano sul petto di Cadorna, e

premere il grilletto. Poi avrei sparato agli altri ufficiali prima che loro

facessero lo stesso con me. Immaginai gli uomini cadere portandosi

le mani al petto macchiato di rosso e accasciarsi a terra. Poi mi vidi

correre verso la mia vettura col motore già avviato, far scendere

l‟autista, mettermi ai comandi e partire a tutta velocità. Chi sa, forse

ce l‟avrei fatta ad allontanarmi e a mettermi in salvo approfittando

della confusione già elevata, che io avrei trasformato in caos totale.

Ma poi, dove sarei andato? Avrei dovuto abbandonare la macchina,

troppo facilmente riconoscibile; avrei dovuto procurarmi degli abiti

borghesi e tentare una lunga e difficile fuga, probabilmente verso la

Svizzera. In Italia non avrei più potuto mettere piede per tutta la vita.

E c‟era un‟altra considerazione da fare: uccidere il Comandante in

Capo dell‟esercito italiano proprio quando gli austriaci stavano occu-

pando il Friuli e la Carnia, e le nostre divisioni prese dal panico si ri-

tiravano in disordine abbandonando depositi e magazzini d‟armi,

munizioni e vettovaglie nelle mani del nemico, che effetto avrebbe

avuto sulle truppe ancora in grado di combattere e d‟opporsi agli in-

vasori? Catastrofico, evidentemente. E io ero pronto ad assumermi

una tal responsabilità? Nelle mie mani era la vita di centinaia di mi-

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gliaia di persone e il destino di tutto il Veneto, forse dell‟Italia inte-

ra…

Sentivo il metallo freddo dell‟impugnatura a contatto col palmo

della mano. Nessuno stava badando a me, nessuno s‟era accorto della

mia presenza: ero uno dei tanti ufficiali e graduati che correvano di

qua e di là, come formiche impazzite, con in mano la trascrizione a

macchina di una comunicazione telefonica o una cartella piena di

mappe e grafici. La pistola era ancora infilata nella fondina ma avevo

tolto la sicura. Nella mia mente turbinavano decine di pensieri e sen-

timenti diversi, che si scontravano, si mescolavano e s‟annullavano

reciprocamente. Che fare? Un caporalmaggiore era arrivato con un

modulo telegrafico in mano, aveva salutato in modo marziale i quat-

tro ufficiali e ora stava porgendo il foglio a Cadorna. Poteva essere

una comunicazione vitale, forse una richiesta pressante o la notizia di

un pericolo imminente… Presi la mia decisione: rimisi la sicura, rial-

lacciai la fondina e m‟allontanai rapidamente da quel gruppetto di uf-

ficiali, senza più guardarmi indietro. Montai in macchina e diedi or-

dine all‟autista di tornare da Caviglia.

Avevo fatto grazia della vita a Cadorna. Perché non l‟avevo giu-

stiziato? Avevo preso la mia decisione basandomi solamente sulla

logica e il raziocinio? No. Le considerazioni razionali ebbero sicu-

ramente il loro peso ma, dopo averci riflettuto molte volte, sono arri-

vato alla conclusione che non furono decisive in quel momento. Cre-

do invece che sia stato sopra tutto un istinto atavico a guidare le mie

azioni: il tabù secondo cui uccidere i membri del proprio clan è una

colpa grave. È in fondo l‟istinto su cui si basa la nostra società:

l‟istinto della solidarietà con gli altri esseri umani, che ha permesso

ai primi ominidi della savana africana di affrontare animali feroci,

pur disponendo solo di pietre e bastoni, perché erano in tanti ed erano

uniti dallo stesso obiettivo: sopravvivere. Invece chi uccideva un

membro della sua tribù veniva scacciato, espulso dal gruppo. E in

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quell‟ambiente un individuo solo, isolato, non aveva la minima pos-

sibilità di sopravvivere: bandirlo dal suo clan equivaleva a conda n-

narlo a morte. A me sarebbe accaduto qualcosa di simile, tranne che

in questo caso mi sarei bandito da solo. E io non me la sentivo

d‟abbandonare per sempre famiglia, amici, lavoro e tutto il resto.

D‟altro canto ero anche un soldato, e i soldati sono addestrati a ucc i-

dere altri esseri umani. Ma in realtà lo fanno sopra tutto per non esse-

re a loro volta ammazzati. Uccidere a sangue freddo un uomo disar-

mato, mentre lo si guarda negli occhi, non è impresa da tutti. Può far-

lo un sicario a pagamento, uno che considera l‟omicidio un lavoro

come un altro. Può farlo solo chi dispone di una dose quasi patologi-

ca di insensibilità, un individuo che non prova niente per i suoi simi-

li. E io non ce l‟ho, non l‟ho mai avuta questa insensibilità.

Quando avevo avuto nelle mie mani la vita di Cadorna, era stata

una somma di motivi razionali, ma anche di sentimenti ed emozioni

ancestrali a farmi agire come avevo agito; e a distanza di parecchi

anni posso dire di non aver rimpianti. Durante il viaggio di ritorno

non pensai più a quel che era - o piuttosto non era - successo. In

quelle due ore io ero concentrato su un solo obiettivo: mettere in sal-

vo le truppe, portarle oltre il Tagliamento prima dell‟arrivo degli au-

striaci. Ma come?

Quando comunicai a Caviglia la risposta del Comando Supremo,

lui sibilò idioti! tra i denti. Per dieci minuti camminò su e giù pel

piazzale cercando una soluzione, un‟idea che gli permettesse di r i-

spettare gli ordini e contemporaneamente gli facesse mettere in salvo

i suoi soldati. Intanto al ponte della Delizia la situazione era ancor

peggiorata: i profughi civili erano diventati una vera fiumana e da

quella parte era semplicemente impossibile passare. Il generale, sem-

pre più adirato e preoccupato, continuava nel suo avanti-indietro ti-

rando fuori dal taschino l‟orologio quasi a ogni minuto. Era rimasto

ben poco tempo utile e bisognava prendere una decisione. Caviglia si

trovava di fronte a un tipico problema di “botte piena e moglie ubria-

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ca”. Ma alla fine cosa contava di più: il rispetto degli ordini, per

quanto assurdi, o il dovere di un comandante nei confronti dei suoi

sottoposti? Il generale si fermò e disse sottovoce: “Al diavolo Cador-

na e tutti i suoi tirapiedi!” Disobbedendo volontariamente agli ordini

ricevuti, comandò di far muovere le truppe in direzione del ponte di

Latisana. Ci arrivammo alcune ore dopo. Quando lo vedemmo, non

potevamo credere ai nostri occhi: il ponte era completamente sgom-

bro.

Fu così che Cadorna, uomo spietato e sanguinario e ufficiale

sciocco e incompetente, rimase in vita senza mai sapere quanto vici-

no era stato per pochi secondi alla morte. Una fine che sarebbe stata

fin troppo rapida e indolore per punirlo come meritava.

In seguito venni a sapere che il colonnello Aloisio de Giusti, quel-

lo che nel 1916 aveva ordinato la decimazione del 141° Reggimento,

era morto. Il 24 ottobre 1917, quando le truppe austro-tedesche erano

quasi alle porte di Caporetto, e il ponte di ferro sull‟Isonzo stava per

essere fatto saltare, de Giusti s‟era piazzato all‟imboccatura, a gambe

larghe con la pistola d‟ordinanza in pugno, sbarrando il passaggio

alle truppe e gridando: “Indietro! Indietro! Di qui non si passa, vi-

gliacchi!” In tutto il settore tra Plezzo e Tolmino il fronte era ormai

crollato e qualunque residua difesa su quella linea era ormai inconce-

pibile. Erano trascorse da poco le due del pomeriggio, ma faceva già

scuro e una nebbiolina fitta avvolgeva tutta la zona. Sulla riva sini-

stra del fiume era ammassata una gran quantità di truppe italiane. Per

tentar di contenere l‟urto nemico non avevano altra scelta che ritirarsi

su una linea di fronte arretrata. Per farlo dovevano varcare l‟Isonzo.

E subito. Le sole altre possibilità erano sacrificarsi inutilmente o ar-

rendersi al nemico. De Giusti, sconvolto e impazzito, era sempre lì

deciso a bloccare il passaggio ai suoi soldati. Il capitano del Genio

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che aveva fatto minare il ponte gridò: “Entro mezz‟ora questo ponte

deve saltare!” Nella massa dei militi in attesa alcuni parlottavano fi t-

to e gesticolavano, altri bestemmiavano e maledicevano il colonnel-

lo, qualcuno tra i più giovani piangeva in silenzio. Un sergente di

fanteria, bloccato cogli altri sulla riva, imbracciò il fucile, mise la

pallottola in canna, prese attentamente la mira da una distanza di ve n-

ti metri e sparò. Il colonnello venne colpito di striscio a una gamba,

barcollò ma non cadde a terra. Alzò la pistola e mirò verso il punto

da cui era partito il colpo. Fra le truppe cadde un profondo silenzio.

Prima che potesse premere il grilletto, sette otto o forse più fucili

modello 91 spararono contemporaneamente. De Giusti venne scara-

ventato a terra da quella salva di proiettili e rimase immobile fulmi-

nato, in una pozza di sangue che s‟allargò lentamente sul terreno. Si

sentirono degli applausi e degli evviva! Poi le truppe si misero in

marcia transitando in file ordinate lungo il ponte di ferro, aprendosi

solo nel punto in cui giaceva il cadavere del colonnello e subito dopo

ricomponendosi. Venticinque minuti più tardi, quando tutti i soldati

erano passati e s‟erano messi in salvo, il ponte di ferro veniva fatto

saltare con un potente esplosivo.

Il 6 novembre 1917 il quasi sconosciuto generale Armando Diaz

venne nominato Capo di Stato Maggiore del Regio Esercito Italiano,

sostituendo a tutti gli effetti il generalissimo. Ma Cadorna, ancora

una volta, riuscì a cadere in piedi: venne incaricato di rappresentare

l‟Italia nel Consiglio Superiore Interalleato, un organismo con fun-

zioni essenzialmente diplomatiche, che avrebbe avuto un ruolo i m-

portante nelle trattative di pace del 1918.

L‟anno seguente, 1919, venne istituita una Commissione

d‟Inchiesta per far luce sui motivi e sulle responsabilità della rotta di

Caporetto. Anche in tale circostanza Cadorna riuscì a scapolarla sca-

ricando le colpe in parte sui suoi sottoposti, come il generale Capello

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che aveva comandato la Seconda Armata (quella che avrebbe dovuto

resistere all‟assalto austro-germanico nel settore di Caporetto), e il

generale Pietro Badoglio (che inspiegabilmente non aveva fatto me t-

tere in azione l‟artiglieria ed era fuggito vergognosamente di fronte al

nemico), e in parte scaricandole sulla propaganda disfattista che, se-

condo lui, il governo non era riuscito a eliminare, e infine accusando

alcuni reparti che, sempre secondo lui, si sarebbero accordati col ne-

mico per tradire vilmente la patria (accuse mai provate).

Nonostante le fondate denunce di Cadorna, la carriera militare di

Badoglio non subì in fondo gravi ripercussioni. Si disse che era pro-

tetto in alto loco, forse addirittura da Orlando, il Capo del Governo in

quel tempo.

Siamo nel 1924. Qualche giorno fa Mussolini ha conferito a Luigi

Cadorna il titolo di Maresciallo di Campo. Quest‟atto sancisce il pie-

no apprezzamento ufficiale dello Stato al generalissimo per la sua

conduzione delle operazioni militari nella Grande Guerra. Splendida

conclusione d‟una brillante carriera militare.

Ma giustizia e verità che cosa sono? Solo patetiche illusioni

d‟ingenui idealisti, magari di quei volontari della prima ora che si sa-

crificarono in nome di patria, libertà e onore? E si può premiare

qualcuno che ha mandato a morte inutilmente oltre mezzo milione di

connazionali? Evidentemente sì, se un regime ha bisogno di eroi che

ne puntellino le basi traballanti. In questo caso si tratta di un falso e-

roe, qualcuno che come minimo si sarebbe dovuto sbattere in galera.

Ma che importa se è un incapace e un criminale? Basta non farlo sa-

pere al popolo.

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Xaveron

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DOPO AVER CHIUSO a chiave, per l‟ultima volta, la robusta porta

d‟accesso alla lanterna, dopo aver accarezzato con lo sguardo le

spesse vetrate e la grigia cupola di pietra il cui bordo – eredità

dell‟epoca Liberty – è circondato da un elegante merletto di foglie

d‟acanto traforate, dopo essersi impresso nella mente l‟ultima imma-

gine delle sovrastrutture di metallo (le scalette d‟acciaio e la gabbia

parafulmini), dopo aver lasciato che i suoi occhi si riempiano ancora

di quel blu profondo e di quell‟azzurro intenso attraversato dai plac i-

di voli dei gabbiani, dopo aver sbattuto un paio di volte le palpebre

per rimettere a fuoco lo sguardo, finalmente Hervé aggancia con uno

scatto il grosso moschettone alla sua imbragatura, passa con gesto

rapido il dorso della mano sugli occhi umidi e alza il braccio destro

al cielo. Il pugno è chiuso. Per l‟elicottero che si libra sopra la sua te-

sta, quel gesto è il consenso a riavvolgere il cavo d‟acciaio e a issare

a bordo l‟ultimo guardiano di Xaveron. Ma quel gesto – quel pugno

chiuso senza un grido, senza una sola parola – è anche l‟espressione

della rabbia impotente di un uomo che sta dicendo addio per sempre

al suo enfer.

Il verricellista, in bilico fuori dalla carlinga, manovra con fredda

efficienza il motore elettrico. Il cavo si arrotola intorno al tamburo e,

nel rumore assordante, Hervé sale veloce ruotando un poco su sé

stesso. Dalla piccola vedetta bianca e blu del Servizio Phares et bali-

ses e da un battello più grande che ospita qualche autorità, giornalisti

e operatori della TV si assiste allo spettacolo un po‟ incongruo di

quell‟uomo barbuto in tuta rosso fuoco, elmetto bianco di sicurezza e

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sandali di cuoio ai piedi che viene sollevato in cielo appeso a un cavo

a una cinquantina di metri dalla superficie del mare. Arrivato in ci-

ma, Hervé appoggia i piedi sul pattino sinistro del carrello

d‟atterraggio, afferra la mano che gli viene tesa, si solleva ancora un

poco fino al bordo della cabina e finalmente si ritrova al sicuro

all‟interno dell‟Eurocopter EC 145. Una volta che tutti sono a bordo,

ben ancorati ai sedili, e che il portellone è stato chiuso e bloccato,

l‟elicottero rosso e giallo della Sécurité Civile accelera bruscamente,

esegue una stretta virata e si dirige veloce verso la terraferma.

Hervé ha gli occhi chiusi e il cuore gonfio. L‟ultimo faro di Fran-

cia in mare aperto è appena stato privato per sempre della presenza

umana: d‟ora in poi sarà telecontrollato e telemanovrato da un co m-

puter del Centro di Créac‟h, nell‟isola di Ouessant.

Con i suoi 49 metri di altezza, il faro di Xaveron ha una portata di

19 miglia. Un lampo lungo e uno breve ogni 24 secondi, luce bianca

e rossa a settori. I pavimenti intarsiati, le pareti rivestite di quercia e

il mobilio originale dei primi del 900 gli hanno guadagnato il so-

prannome di Palace. Cilindrico, situato a sud-est dell‟isola di Oues-

sant, venne costruito tra il 1905 e il 1913 su uno scoglio isolato in

mezzo al mare (un enfer, mentre quelli eretti su di un‟isola sono dei

purgatoire, e quelli sulla terraforma ovviamente dei paradis). Quat-

tro enormi pilastri alti una dozzina di metri, circondati da un robusto

muraglione di blocchi di pietra grigia, formano la struttura portante

della sua base, una specie di enorme tamburo. Sopra di essa, una

piattaforma con un robusto parapetto di metallo lungo tutto il bordo e

al centro il grosso cilindro leggermente rastremato del faro vero e

proprio nel quale finora hanno abitato e lavorato i guardiani, o me-

glio i contrôleurs come vengono denominati nei documenti ufficiali.

Alla sommità del cilindro, una svasatura forma la base sulla quale è

fissata la lanterna: un cilindro di vetro e acciaio del diametro di ci n-

que metri, coperto da un‟elegante cupola di pietra. Al suo interno

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ruota il sistema di specchi di Fresnel. Tutto il complesso è poi ulte-

riormente protetto da un‟armatura d‟acciaio che funge anche da sup-

porto per le antenne radio e per le pale eoliche le quali producono la

corrente elettrica necessaria al funzionamento del faro. Innovazione,

questa, relativamente recente visto che fino al 1972 per generare i

lampi di segnalazione era utilizzato il petrolio.

Hervé e Jean-Michel, i due guardiani titolari, temevano che prima

o poi sarebbe accaduto anche a loro. Ma il lungo intervallo di tempo

trascorso dall‟automazione dell‟ultimo faro li aveva fatti sperare che

la serie fosse finita e che Xaveron sarebbe stato risparmiato.

All‟inizio del progetto speravano ancora, credevano che almeno a l-

cuni sarebbero rimasti presidiati. Erano convinti che per quelli situati

nei punti chiave della costa tutto sarebbe rimasto più o meno come ai

vecchi tempi, perché – secondo loro – nulla può sostituire una pre-

senza umana attenta e costante; e certamente non delle apparecchia-

ture elettroniche.

Ma il Centro non la pensava affatto così e ha deciso che dal pro-

getto nazionale di automazione non doveva restarne fuori neppure

uno. I tecnici dei Phares et balises hanno avviato la serie nel ‟90 con

Ar-Men, l‟enfer più duro di tutti. Molto più piccolo di Xaveron e al-

trettanto difficile da rifornire via mare. Da quel momento in poi nes-

suno è stato risparmiato: prima è stata la volta di La Jument nel „91,

poi in rapida sequenza Pierres Noires nel ‟92 e Four nel ‟93 e, dopo

un intervallo un po‟ più lungo, La Vieille (nel ‟95)… Così tutti gli

enfer della costa nord-ovest, tranne uno, erano entrati nella rete di te-

lecontrollo del Centro Regionale di Creac‟h d‟Ouessant. Ora, con

Xaveron, il progetto è giunto al suo compimento.

LA “SOLITAIRE DU FIGARO” è una regata d‟altura in quattro tappe

che si svolge tutti gli anni nel periodo fine luglio-metà agosto. Vi

partecipano barche a vela monotipo pilotate dai migliori specialisti

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francesi, ma numerosi sono anche i velisti stranieri che vi sono attira-

ti. Il campo di gara è quello della costa atlantica della Francia con

tappe nei porti spagnoli che si affacciano sul golfo di Biscaglia, nei

porti inglesi sulla Manica e in quelli del sud dell‟Irlanda. Il percorso,

che cambia ogni anno, ha una lunghezza variabile tra le 1500 e le

2000 miglia marine. La corsa è aperta a tutti, professionisti e diletta n-

ti, ma per guadagnarsi il diritto di parteciparvi bisogna ottenere dei

buoni piazzamenti in almeno una di queste regate: la Transat AG2R

in coppia da Lorient a Saint Barthélemy o la Solo Generali in solita-

rio tra Porto Leucate e Porquerolles. La prima è una traversata atlan-

tica con partenza dal porto bretone di Lorient e arrivo in un‟isoletta

dei Caraibi a est di Portorico; la seconda è la traversata del Golfo del

Leone da una cittadina vicino a Narbona a un‟isoletta della Costa

Azzurra nei pressi di Tolone. Per chi non è in grado di partecipare né

all‟una né all‟altra di queste due prove, sono disponibili altre quattro

regate minori: il Trofeo Vendée Les Sables, la Coppa d‟Antioche, la

Transmanche e la Solitaria del Mare d‟Iroise.

Il monotipo adottato dalla “Solitaire du Figaro” è il Bénéteau II,

un classico monoscafo a deriva fissa lungo 10,10 metri, largo 3,43,

pesante tre tonnellate e con una superficie velica di 63,6 mq. L‟unico

albero è fissato in posizione centrale e la dotazione di vele è la solita:

randa, fiocco, genoa e spinnaker. La sua carena molto larga favori-

sce le alte velocità e la stabilità alle andature portanti anche col pilo-

ta automatico; al contempo la rigidità delle vele lo rende adatto an-

che alle andature di bolina. Qualunque modifica, sia dello scafo sia

delle attrezzature di bordo, è rigorosamente vietata, visto che lo sco-

po di questo tipo di gare è mettere a confronto non le barche ma gli

uomini.

Il percorso scelto per la Solitaire di quest‟anno è abbastanza insolito

e viene considerato dagli specialisti “tecnico e difficile”, più adatto a

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degli sprinter che a dei maratoneti. I più competitivi rimpiangono a n-

che la mancanza di una tappa in Irlanda, il cui vento teso ha sempre

permesso ai migliori di emergere facilmente. La lunghezza totale è di

1476 miglia che si devono coprire in dieci giorni e dieci notti di na-

vigazione. Per varie ragioni gli organizzatori hanno scelto di abbre-

viare la durata della corsa, che di solito è sui 12-13 giorni.

Il luogo di partenza sarà Cherbourg, porto marittimo e militare

all‟estremità della penisola di Cotentin, che dalla Normandia si pro-

tende verso nord nel canale della Manica. Usciti dalla baia, i concor-

renti orienteranno la prua verso il sud dell‟Inghilterra, e precisamente

sulla boa Royal Sovereign (al largo del faro di Eastbourne), che dop-

pieranno in senso antiorario. Quindi, seguendo la costa al largo di

Brighton e Worthing, raggiungeranno il giorno seguente Portsmouth,

scalo di arrivo della prima tappa. Solo 160 miglia, da percorrere fa-

cendo ben attenzione al traffico marittimo particolarmente denso in

quella zona.

La seconda tappa, con partenza il 30 luglio, prevede un percorso

di 463 miglia. La prima metà si svolgerà lungo la costa sudoccidenta-

le dell‟Inghilterra; poi, dopo il doppiaggio del faro di Wolf Rock, si-

tuato nelle vicinanze delle isole Scilly, si punterà verso sud passando

al largo della Bretagna fino a raggiungere Saint-Gilles-Croix-de-Vie,

porto della Vandea e sede dei cantieri Bénéteau. Giorno di arrivo

previsto, il 2 agosto.

Il 5 agosto inizierà la terza tappa di 537 miglia. I concorrenti ri-

percorreranno per una breve distanza, ma in direzione contraria, il

tratto di mare compreso tra Saint-Gilles e Quiberon, dove vireranno

verso sud-ovest in direzione della Spagna, fino a giungere a poca di-

stanza dalla città di La Coruña, che ospita il faro più antico al mondo

ancora in attività; una lapide ricorda che venne edificato sotto

l‟imperatore Traiano, ma secondo la leggenda fu costruito da Ercole

(che si era occupato anche di colonne, ma molto più a sud). I Figari-

stes doppieranno in senso antiorario la boa Burela e, dopo un ultimo

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tratto lungo la costa cantabrica, approderanno a Gijon. E questa sarà

la decima volta in trentacinque edizioni che il porto delle Asturie ver-

rà toccato dai Solitaires. Arrivo previsto, domenica 8 agosto. Questa

sarà la tappa più lunga e includerà il tratto più ampio di mare aperto,

visto che si attraverserà il golfo di Biscaglia.

Partenza dell‟ultima tappa, il giorno 11 agosto. Bisognerà coprire

316 miglia, nuovamente attraverso il golfo di Biscaglia ma in senso

opposto. Al termine i Figaristes toccheranno Quiberon, in Bretagna,

porto di approdo finale. Arrivo previsto il 13 agosto. Due giorni dopo

si consacrerà il vincitore della Solitaire 2004.

Tra i campioni di regate oceaniche, hanno annunciato la loro par-

tecipazione tutti i vincitori delle ultime edizioni della Solitaire, così

Armel Le Cléac‟h, Kito (Christophe) de Pavant, Eric Drouglazet, Pa-

scal Bidégorry, Dominic Vittet e Marc Emig; in generale, molti i pro-

fessionisti della vela da competizione a livello mondiale, come Mi-

chel Desjoyeaux, Jérémie Beyou, Gildas Morvan e Charles Caudre-

lier. Non manca la presenza femminile e numerosi sono anche i de-

buttanti, i bizuth. Tra essi Yann Hinault, promettente diciannovenne

nel cui palmarès sono inclusi un quarto posto alla Generali Méditer-

ranée, un quinto posto al Trophée Jules Verne in maxi-catamarano,

un altro quinto alla Course de Falaises (Le Havre – Inghilterra – Le

Havre) e infine un piazzamento al settimo posto nell‟ultima Nationa-

le Figaro-Bénéteau con equipaggio.

Come quasi tutti i professionisti delle regate, Yann ha mosso i

suoi “primi passi” a dieci anni a bordo di un Optimist, un battellino

per bambini lungo due metri e trenta, che somiglia più a un armadio

privo di ante che a una barca, ma ha il pregio di essere molto stabile,

facile da manovrare e poco costoso. In seguito è passato al Topper,

lungo 3,34 m, anche questo dotato della sola randa, ma che ha tutta-

via molto più l‟aspetto di una “vera” barca. Poi è passato via via a

scafi sempre più impegnativi, come il Flying Junior e il Laser. Il 470,

che richiede due uomini d‟equipaggio, è stato la sua prima barca do-

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tata anche di fiocco. Partecipando ai famosi corsi dei Glénans, oltre a

perfezionare la tecnica, ha avuto modo di stringere numerose amici-

zie e pian piano è stato arruolato in equipaggi sempre più competiti-

vi.

Da oltre un anno frequenta regolarmente il Centro di addestramen-

to “Finistère Course au Large” di Port-la-Forêt, considerato una spe-

cie di università della vela. Qui ha lavorato soprattutto alle manovre

in solitario a bordo del Figaro-Bénéteau, ha seguito con attenzione i

corsi di meteorologia, si è allenato a livello fisico e mentale, e ha po-

tuto confrontarsi con gli altri allievi in prove di navigazione specifi-

che per questo tipo di barca.

Yann si sente in gran forma e pronto come mai prima d‟ora per

una regata. Sente che con un po‟ di fortuna potrebbe ottenere un

buon piazzamento e forse anche di più… Tra i suoi avversari ci sono

skipper tra i più forti al mondo, gente che ha navigato su ogni tipo di

barca, dai sandolini ai trimarani oceanici, dai winsurf agli scafi s u-

per-tecnologici della Coppa America, gente che ha partecipato ad

almeno una Olimpiade e ha vinto la Solitaire almeno una volta. Molti

di loro hanno il doppio dell‟età di Yann, e un‟esperienza in propor-

zione. Ma ogni edizione della Figaro – dice Yann – è una gara a sé,

non confrontabile con le precedenti perché troppe sono le variazioni

sia del percorso sia della meteorologia. Perciò l‟esperienza acquisita

nelle precedenti edizioni di questa regata conta fino a un certo punto

e tutto può succedere. Lui ha una forte carica agonistica ed è disposto

anche a correre dei rischi superiori agli altri pur di ottenere un grande

risultato. In fondo, si parte ad armi pari e molto dipende dalle scelte

fatte lungo il percorso, dalla resistenza fisica, dalla concentrazione e

dalla volontà di vincere. E Yann è convinto che la sua è sicuramente

superiore a quella di un quarantenne già carico di allori e magari con

la responsabilità di una famiglia e dei figli piccoli.

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HERVÉ E JEAN-MICHEL – che i colleghi hanno soprannominato per

scherzo Grognon (Brontolone), dato che è un vero bonaccione, non si

lamenta mai ed ha un‟invidiabile capacità di adattamento – non po-

trebbero essere più diversi uno dall‟altro. Hervé, sempre in movi-

mento, sempre in attività, è uno che non sa starsene tranquillo, e se

non c‟è niente da fare, se tutto funziona alla perfezione, allora

s‟inventa lui qualcosa. Se la cava bene in un sacco di campi: elettrici-

tà, idraulica, falegnameria, metallurgia… forse le sue riparazioni non

sarebbero considerate impeccabili nella loro esecuzione da uno spe-

cialista del settore, ma in genere funzionano bene e durano per un bel

po‟ senza che lui debba rimetterci le mani. Quando lavora, canterella

o parla o si arrabbia, anche se non c‟è nessuno ad ascoltarlo. Una

condizione questa che, considerata la sua professione, è più la regola

che l‟eccezione. Per un tipo come lui che ha bisogno di avere sempre

qualcuno con cui chiacchierare o magari litigare, è ben strano aver

scelto quel lavoro, uno dei più solitari che si possa immaginare. Ma

Hervé ha trovato ugualmente modo di stringere innumerevoli amici-

zie, anche laggiù in quel posto così isolato. È infatti un appassionato

radioamatore e la sua sigla, KY735, è conosciuta nei punti più dispa-

rati del globo terrestre. Del resto, l‟altezza del suo enfer e tutto lo

spazio libero che ha intorno hanno facilitato in misura notevolissima

i collegamenti col resto del mondo.

Ma un motivo specifico che gli ha fatto scegliere questo lavoro

c‟è, e dunque la regola secondo la quale non si diventa per caso

guardiani di un faro vale anche, e soprattutto, per Hervé. La sua è

stata una decisione meditata e dolorosa, e risale a molti anni prima

quando era capitano a bordo di un peschereccio d‟alto mare.

NEL TARDO AUTUNNO del 1987 l‟area d‟attività del battello di

Hervé, l‟Épervier II, era il Nord Atlantico tra le Färöer e l‟Islanda. Si

pescavano tonni e soprattutto merluzzi, che all‟epoca non erano a n-

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cora stati dichiarati “specie in pericolo”. In quel periodo l‟Atlantico

era parecchio agitato ma Hervé e gli undici uomini del suo equipa g-

gio erano abituati a lavorare in condizioni difficili, e l‟Épervier era

robusto e costruito apposta per navigare in acque burrascose. Per

cinque giorni di fila avevano ballato sul peschereccio come sulle

montagne russe (forza da 4 a 5), ma nella serata del 16 novembre,

quando le stive erano ormai cariche e ci si accingeva a rientrare a

Brest, il mare raggiunse forza 7 con una preoccupante tendenza ad

ulteriore aumento. Erano condizioni pericolose anche per il solido

scafo e i potenti motori dell‟Épervier. Hervé, seriamente preoccupato

per l‟integrità del battello, rimase alla ruota del timone per tutto il

giorno e tutta la notte, che fu lunga e sfibrante. All‟alba, quando la

stanchezza gli rendeva difficile anche tenere aperti gli occhi, il baro-

metro indicò il primo aumento della pressione dopo molti giorni di

bassa; l‟ultimo bollettino meteo trasmesso dalla radio confermò che

la forte perturbazione degli ultimi giorni stava finalmente esaurendo-

si. Un po‟ a malincuore, decise dunque di lasciare il comando del

battello nelle mani esperte di Jean-Loup, il suo secondo, e andò a di-

stendersi nella sua brandina con l‟intenzione di concedersi un paio

d‟ore di sonno. Ma Hervé, pensando che il peggio fosse passato, era

stato troppo ottimista: l‟Atlantico aveva in serbo per i ragazzi di

Brest ancora qualche colpo di coda. Era passata appena mezz‟ora dal

momento in cui aveva ceduto il comando, quando un‟improvvisa on-

da anomala si avventò sull‟Épervier, colpendolo come un violentis-

simo schiaffo. Jean-Loup, che non se l‟aspettava, non ebbe neanche

il tempo di afferrarsi a qualcosa di solido, cadde sul ponte e andò a

sbattere contro lo spigolo metallico di alcune apparecchiature elet-

troniche di bordo. Oltre a numerose contusioni ed escoriazioni al

fianco destro e alla gamba, si procurò un lungo taglio al braccio poco

sotto la spalla. Il sangue cominciò a scorrere sotto la cerata gialla e il

pesante maglione, e Jean-Loup non potè far altro che chiamare il

giovane nostromo a sostituirlo per i quattro o cinque minuti necessari

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a farsi medicare nella piccola infermeria di bordo. Appena una qui n-

dicina di secondi dopo che il ragazzo aveva preso in mano il timone,

una seconda onda anomala, ancor più alta e potente di quella che

l‟aveva preceduta, si avvicinò in diagonale all’Épervier. Stavolta il

ragazzo la vide per tempo ma si impaurì e, invece di virare in modo

da affrontare l‟onda di prua, girò il timone nella direzione opposta.

L‟onda colpì il battello in piena fiancata e lo fece inclinare a tribordo

di oltre 45 gradi. Tre uomini che erano sul ponte di poppa a rinforza-

re gli ormeggi di alcuni barili e a fissare il braccio dell‟argano che si

era liberato, si trovarono all‟improvviso senza un ponte sotto i piedi e

finirono fuori bordo. Dato che sull‟Épervier il regolamento marittimo

era preso molto sul serio, tutti e tre i marinai erano assicurati al bat-

tello con imbraghi e cime di sicurezza, e questa precauzione in co n-

dizioni normali sarebbe bastata a salvarli. Hervé nel frattempo era

corso sul ponte di comando e si era precipitato in cabina di pilotag-

gio. Dovette staccare a forza dal timone il ragazzo, che era paralizza-

to dalla paura, con gli occhi sbarrati e la bocca stupida mente aperta.

Prese il suo posto ed eseguì appena in tempo le manovre che salva-

rono il peschereccio da un affondamento ormai certo.

Dopo un tempo che parve lunghissimo, l‟Épervier con fatica si

raddrizzò, scaricando tonnellate d‟acqua dagli ombrinali. Sul ponte,

malgrado le difficoltà di operare in pieno fortunale, i tre uomini ca-

duti in mare furono recuperati dai loro compagni nel giro di pochi

minuti. Ma non fu sufficiente: la tragedia aveva ormai colpito

l‟equipaggio dell‟Épervier. Per due pescatori non c‟era più niente da

fare: erano annegati. Il terzo, che si chiamava Victor, era ancora vivo

ma aveva ricevuto dei colpi terribili alla testa e lo svenimento iniziale

si era successivamente trasformato in coma. Senza cure adeguate il

coma sarebbe divenuto irreversibile e a quel punto la morte fisica sa-

rebbe stata l‟unica – e forse preferibile – alternativa alla morte cere-

brale. La sola chance di salvare Victor era quella di trasportarlo entro

un‟ora in un ospedale ben attrezzato, cosa che si sarebbe potuta fare

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solo per mezzo di un elicottero. Ma il destino aveva deciso diversa-

mente: nonostante le previsioni, il cattivo tempo continuò per tutta la

giornata e impedì agli elicotteri di soccorso di alzarsi in volo. Le po-

che cure possibili a bordo dell‟Épervier vennero praticate a Victor

con disperata tenacia, ma non furono sufficienti. Morì sette ore dopo

l‟incidente. Hervé, che assistette impotente alla sua fine e in seguito

si presentò a casa della giovane moglie per informarla di quanto era

accaduto, si considerò l‟unico responsabile della morte dei tre uomini

e decise che, una volta sbarcato a Brest, non avrebbe mai più coma n-

dato una nave, un peschereccio o un qualunque battello.

Mantenne la parola e qualche mese più tardi si fece assumere tra il

personale dei Phares et balises. Dopo aver frequentato con profitto

numerosi corsi di specializzazione e dopo aver affiancato un guar-

diano esperto in un paradis per un tirocinio di tre mesi, venne ritenu-

to perfettamente idoneo all‟incarico di contrôleur e venne decisa la

sua prima destinazione, l‟enfer di Pierres Noires, dove sarebbe rima-

sto per tre anni.

IL 27 LUGLIO a Cherbourg l‟atmosfera è elettrica, di attesa impa-

ziente come quando si aspetta che scoppi un temporale. I tendoni

bianchi del “Circo Solitaire” sono stati piantati da diversi giorni, gli

striscioni “Le Figaro” in verde e bianco sono stati piazzati a coprire

tutti gli spazi possibili, mentre le bandiere giallo e marrone con altri

“Figaro” sventolano dalla cima di alti pennoni. I moltissimi appas-

sionati provenienti da tutta la Francia e anche dall‟estero si aggirano

tra le innumerevoli bancarelle che espongono ogni genere di merca n-

zia e le banconote nelle loro tasche sembrano implorarli di finire in

altre mani il più presto possibile. Al porto dalla prima mattina i tec-

nici non hanno smesso un attimo di prendersi cura delle Bénéteau,

anche se tutto quello che si può fare per renderle ancora più competi-

tive, veloci e sicure è già stato fatto da tempo: dall‟applicazione della

pittura antiscivolo sul ponte a quella antivegetativa sulla chiglia, dal-

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la messa a punto del timone a quella del pilota automatico, dalla veri-

fica della giusta curvatura dell‟albero al controllo della tensione degli

stralli, dal corretto ingrassaggio degli ingranaggi dei winch alla ver i-

fica del funzionamento delle luci di navigazione, rossa e verde da-

vanti e bianca dietro. Ma l‟ennesimo controllo e la regolazione

dell‟ultimissimo minuto danno ai tecnici e ai concorrenti

l‟impressione che nulla sia stato tralasciato per garantire che la loro

barca renderà al cento per cento.

Le previsioni di Météo France per la zona della Manica non sono

entusiasmanti:

BOLLETTINO COSTIERO PER UN‟AMPIEZZA DI 20

MIGLIA TRA LA BAIA DELLA SOMME E IL CAPO

DELLA HAGUE (VELOCITA MEDIA DEL VENTO

IN FORZA BEAUFORT) ORIGINE METEO-FRANCE

LE HAVRE.

MARTEDI 27 LUGLIO 2004 A 11H30 LEGALI.

1 – NESSUN COLPO DI VENTO IN CORSO NE PRE-

VISTO.

2 – SITUAZIONE GENERALE :

FLUSSO DA OVEST, NORD-OVEST MODERATO,

GENERATO DALL‟ANTICICLONE DI 1030 HPA

SUL CENTRO ATLANTICO.

3 – PREVISIONI PER QUESTO POMERIGGIO E LA

NOTTE :

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.VENTO : PROVENIENTE DA OVEST FORZA DA 2

A 3, POI DA NORD-OVEST FORZA DA 3 A 5 A FINE

GIORNATA. IN ATTENUAZIONE NEL CORSO

DELLA NOTTATA FORZA DA 3 A 4.

.MARE : CALMO, LOCALMENTE POCO AGITATO

QUESTA NOTTE.

.CIELO : DA POCO NUVOLOSO A COPERTO CON

POSSIBILI LOCALI BANCHI DI NEBBIA NEL COR-

SO DELLA NOTTATA.

.VISI : DA 4 A 9 MIGLIA, RIDOTTA LOCALMENTE

DURANTE LA NOTTE.

4 – PREVISIONI PER MERCOLEDI 28 :

.VENTO : DA NORD-EST FORZA DA 3 A 4, LO-

CALMENTE FORZA 2 VERSO IL NORD COTENTIN

NEL POMERIGGIO.

.MARE : DA POCO AGITATO A MOSSO.

.CIELO : MOLTO NUVOLOSO CON SCHIARITE

NEL POMERIGGIO.

.VISI : DA 2 A 5 MIGLIA, IN AUMENTO.

5 – TENDENZA ULTERIORE :

GIOVEDI 29 LUGLIO : VENTO DA NORD FORZA

DA 3 A 4.

6 – OSSERVAZIONI A 09H :

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.CAPO DELLA HAGUE : CIELO COPERTO CON

DEBOLI PRECIPITAZIONI, NORD-NORD-OVEST 10

NODI, MARE CALMO, VISI DA 2 A 5 MIGLIA, 1017

HPA.

.BARFLEUR : CIELO COPERTO CON ACQUERU-

GIOLA, OVEST-NORD-OVEST 07 NODI, MARE

CALMO, VISI DA 2 A 5 MIGLIA.

.PORT EN BESSIN : CIELO MOLTO NUVOLOSO,

NORD-OVEST 06 NODI, MARE CALMO, VISI DA 1

A 2 MIGLIA, 1017 HPA.

.LA HEVE : CIELO COPERTO, OVEST-SUD-OVEST

06 NODI, MARE CALMO, VISI DA 2 A 5 MIGLIA,

1017 HPA.

.ANTIFER : CIELO COPERTO, OVEST-SUD-OVEST

05 NODI, MARE CALMO, VISI SUP A 5 MIGLIA.

.DIEPPE : CIELO MOLTO NUVOLOSO, SUD-OVEST

04 NODI, MARE CALMO, VISI DA 2 A 5 MIGLIA,

1016 HPA.

FINE=

Alle ore 15 in punto le quarantotto barche della Solitaire du Figa-

ro sono schierate sulla linea di partenza oltre la diga foranea che pro-

tegge la petite rade e la grande rade di Cherbourg. Gli scafi dalle ve-

le multicolori, gonfiate dal vento e con i nomi degli sponsor ben in

vista, sono pronti alla partenza. Fanno pensare ai cavalli di un gran

premio, scalpitanti ai box in attesa della tromba che darà il via, con i

fantini che fanno del loro meglio per trattenerli, ma senza tirare trop-

po le briglie. Il grosso battello a motore della giuria piazzato in posi-

zione strategica di fianco alla boa interna sta eseguendo gli ultimi

controlli. Poi uno scambio di frasi tra i giudici, dei cenni del capo,

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qualcuno che trasmette con la radio portatile VHF, ancora qualche

istante di attesa ed ecco finalmente la salva del cannoncino che si e-

spande lentamente nell‟aria e sembra paralizzare per un attimo tutti i

presenti: la corsa è cominciata!

DIVERSAMENTE da Hervé, Grognon è un tipo calmo e riflessivo,

taciturno e flemmatico, quasi imperturbabile. Grande amante della

lettura, divora i volumi di storia medievale ed è un appassionato di re

Artù e dei suoi Cavalieri. Assai raramente alza la voce e nessuno ri-

corda di averlo mai visto davvero fuori di sé. Si adatta senza difficol-

tà alle più varie situazioni, a condizione di avere una buona scorta di

libri e di mantenere contatti regolari con la sua famiglia, alla quale è

molto attaccato e che è composta da Yvette, sua moglie, e dai due fi-

gli adolescenti, Chantal e Lucien. Ciò che spesso rende Grognon

strano agli occhi degli altri è il suo modo distaccato e addirittura i m-

personale di vedere le cose, anche quelle che lo riguardano diretta-

mente, come se fosse lo spettatore di un film: interessato e curioso sì

ma poco coinvolto emotivamente. Almeno in apparenza. Sembra as-

sistere agli avvenimenti senza cercare di interpretarli e di inserirli in

un quadro logico e coerente; senza tentare di ricavarne un significato

includendoli in una catena di cause ed effetti. La sua frase favorita è

tot capita tot sententiae ovvero “è impossibile trovare due persone

che la pensino esattamente allo stesso modo”. Forse questo suo co m-

portamento esprime inconsapevolmente il desiderio di rimanere al di

fuori, di starsene in disparte, di assistere senza dover partecipare.

Oppure è la conseguenza del suo modo di vedere il mondo: talmente

strano, complicato e imprevedibile che è inutile tentare di capirlo. Si

può solo subirlo o goderlo, a seconda delle circostanze. Grognon ge-

neralmente viene giudicato uno che fa il proprio lavoro con coscien-

za e competenza, ma non ha ambizione né capacità di comando. Lui

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lo sa e lo accetta serenamente: è una di quelle rare persone che non

subiscono il fascino del potere.

Di Hervé dicono invece che è un leader naturale, uno che vorresti

avere al tuo fianco quando la situazione è difficile. E leader lui lo è

stato davvero e per parecchi anni, come capitano di peschereccio.

D‟altra parte la sua vena polemica e delle reazioni spesso eccessive

gli hanno alienato più volte utili amicizie. Quanto alla famiglia, ha

divorziato dalla moglie quando il loro figlio aveva sette anni. A lei

non andavano a genio i lunghi turni al faro: due settimane in mare,

una a terra, un‟altra in mare e infine una di nuovo a terra, e poi il c i-

clo ricominciava. Lei avrebbe voluto per suo marito un orario da im-

piegato: dalle nove di mattina alle cinque di sera e il fine settimana

sempre libero. Questo e altri motivi di disaccordo hanno portato infi-

ne alla loro separazione. Il figlio, che adesso ha diciannove anni, non

vede più Hervé da quando lui se n‟è andato. In generale, le amicizie e

le relazioni di Hervé sono piuttosto superficiali e forse è proprio lui a

volerle tenere in questa condizione, a non volerle trasformare in

qualcosa di più solido e coinvolgente.

Oltre alle tante differenze di gusti e di caratteri, c‟è però una cosa

che indiscutibilmente unisce Hervé e Grognon: è la passione per il

mare, per gli spazi aperti, per quel senso di libertà che si prova a vi-

vere immersi nella natura. Albe e tramonti, aria fresca e salmastra,

onde placide che s‟infrangono contro gli scogli e il rumore ritmico e

appena percepibile del diesel di un peschereccio che naviga tranquil-

lamente. Ma l‟oceano Atlantico, il loro ambiente di lavoro, assume a

volte un aspetto ben diverso, e a Hervé e Grognon piace anche il sen-

so di rispetto misto a timore nei confronti della Natura, che li afferra

quando assistono allo scatenarsi delle sue forze più terribili,

all‟esplosione di violenza delle tempeste che si accaniscono contro il

loro unico rifugio, senza la cui protezione non sarebbero in grado di

sopravvivere più di qualche minuto. E forse amano quel mestiere an-

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che perché gli permette di starsene alla larga da una società che è

cambiata troppo nel giro di pochi anni e che spesso trovano difficile

riuscire a capire.

YANN si è trovato una buona posizione, il suo genoa si tende e si

gonfia nella brezza pomeridiana, la barca acquista velocità e cerca di

aprirsi la strada in un caos di scafi che sembrano non aver ancora de-

ciso da che parte puntare la prua: quarantotto sono tanti… due battel-

li si toccano sul fianco, urla e proteste da entrambi gli skipper ma

niente di grave, la gara prosegue. Tra le barche di testa altre urla e un

pugno alzato: qualcuno non ha rispettato le regole di ingaggio o forse

qualcun altro è troppo nervoso. Infatti la bandiera rossa di protesta

non viene esposta dal concorrente che credeva di aver subito un tor-

to. In una regata dove la posta è tanto alta, il nervosismo all‟avvio è

normale; tuttavia è difficile che dei professionisti corrano volonta-

riamente il rischio di essere penalizzati dalla giuria, adesso che si è

appena agli inizi, compromettendo così la propria gara. Il vento a 6

nodi, come spesso accade sulla Manica, soffia da sud-ovest e Yann è

già pronto a issare lo spinnaker, ma preferisce aspettare di trovarsi

più al largo perché ci sono troppi battelli di spettatori intorno e non

vuole arrischiare incidenti. Chiude il sacco che contiene lo spi e che

ha legato al pulpito di prua, e torna a poppa nel pozzetto. Troppo tar-

di si accorge che il sacco, mal chiuso, ha lasciato scivolar fuori la ve-

la. La barca è fortemente inclinata a destra e Yann vede con coster-

nazione il suo spi cadere fuori bordo. In acqua la grande vela, gonfia-

ta dalla corrente della corsa, si apre scivola sotto la chiglia e si arro-

tola intorno alla pala del timone. A Yann vengono in mente le sue r i-

flessioni sui decenni di esperienza di navigazione: a Eric questo non

sarebbe successo, per non parlare di Armel e Kito… Ma c‟è una cosa

che ha imparato alla perfezione, ed è che non si deve sprecare tempo

e concentrazione a darsi dello stupido o a commiserarsi, perché que-

sto è il modo migliore per perdere ogni chance residua di un buon

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piazzamento. Mettere da parte il come e il perché dell‟errore com-

messo, non è questo il momento di analizzare. C‟è un problema e bi-

sogna risolverlo al più presto e nel miglior modo possibile. Non per-

dersi d‟animo, non pensare alla sfortuna né alla propria inettitudine.

Quel che è accaduto dovrà essere per lui uno sprone in più per dare il

meglio di sé nel resto della corsa. Ma è più facile a dirsi che a farsi.

Perde un quarto d‟ora abbondante nel tentativo di liberare lo spi,

mentre gli altri concorrenti si allontanano sempre più. Alla fine, sen-

za sapere neanche lui come ha fatto, riesce a sciogliere quel maledet-

to garbuglio e salpa la vela. Ma tutte quelle manovre per liberarla

hanno prodotto un grosso strappo proprio al centro dello spinnaker,

che adesso è inutilizzabile. Fortunatamente dispone di un piccolo spi

di riserva, lo issa rapidamente e lo fissa al tangone (un boma sussi-

diario per questo tipo di vela). Ormai è chiaro che la prima tappa è

compromessa: non potrà tenere il passo degli altri, ma spera almeno

di limitare i danni e di non restare troppo indietro. Si rifarà nelle

prossime tre tappe.

Puntata la prua sulla boa Royal Sovereign, al largo di Beachy

Head nel Sussex, può dedicarsi a ricucire lo strappo dello spi. Se non

riesce a sistemare la vela entro un‟ora, non gli servirà più che alla

prossima tappa, perché una volta doppiata Royal Sovereign comince-

rà il tratto di bolina o eventualmente di traverso e lo spi potrà buttarlo

nel gavone di prora fino alla prossima tappa che inizierà appena fra

diversi giorni. Il problema è che non può semplicemente mettere in

funzione il timone a vento e andarsene sottocoperta a lavorare con

ago e filo e nastro fermastrappi, perché la Manica è uno dei mari più

trafficati del mondo: 90 mila navi all‟anno in direzione est-ovest e

130 traversate nord-sud ogni giorno, dalle superpetroliere ai fuori-

bordo da 10 CV, dai traghetti ai catamarani, dalle navi da crociera alle

barche a vela carrellabili. In più la forma a imbuto della Manica e il

gioco di venti, maree e correnti è tale che bisogna eseguire continue

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correzioni alla velatura per ottenere il massimo della spinta e della

velocità.

Si è messo a piovere. Le ore passano lente ma Yann non ha tempo

di annoiarsi e dopo essere riuscito a riparare e montare lo spi ha la

soddisfazione di veder gradualmente diminuire la distanza che lo se-

para dalle ultime barche. Alle 8 di sera ha finalmente raggiunto i più

ritardatari. La pioggia è cessata ma anche il vento è diminuito e ades-

so soffia a non più di 4 nodi. Tra un po‟ farà scuro. Yann non ha per

niente sonno, sente ancora fortissima la tensione della gara e non rie-

sce a perdonarsi l‟errore della partenza. A mezzanotte, quando si è

già lasciato alle spalle quattro concorrenti, il vento ha ripreso a sof-

fiare più forte. La navigazione non è affatto faticosa dato che il mare

continua a restare calmo. Mangia un panino e beve tè caldo da un

termos. Deve solo stare attento alle luci delle navi che incontra, e so-

no parecchie. La Manica è un po‟ come una strada: bisogna tenere la

destra. Infatti le autorità marittime hanno fissato al largo delle coste

inglesi il principale asse di scorrimento est-ovest; mentre quello o-

vest-est, parallelo al primo, è stato stabilito al largo delle coste fran-

cesi. Alle 3 il Bénéteau di Yann ha raggiunto e superato altri due

concorrenti, ma la fatica comincia a farsi sentire e lui avverte che i

riflessi e la concentrazione stanno calando.

Sulle reazioni psico-fisiche dei partecipanti alla Solitaire sono sta-

ti compiuti dei veri e propri studi scientifici, con tanto di elettrodi

fissati al cuoio capelluto dei velisti e di registrazione delle funzioni

vitali eseguite da un apparecchio portatile fissato all‟addome per tut-

ta la durata di ciascuna tappa. I dati raccolti sono risultati molto inte-

ressanti. Si è scoperto per esempio che su quattro giorni di naviga-

zione ininterrotta i concorrenti dormono in media 220 minuti, ossia

55 minuti ogni 24 ore. La gran parte si concede dei periodi di sonno

continuo di soli 20 minuti, ma questi sembrano sufficienti per man-

tenerli in un discreto stato di forma, dato che includono (anche se in

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forma concentrata) tutti gli stadi di una normale notte di sonno.

Yann, che ha letto con attenzione le relazioni di questi studi, si è e-

sercitato nelle tecniche di rilassamento che permettono di addormen-

tarsi più rapidamente. Sa che i momenti consigliati per dormire sono

la fine della notte e il primo pomeriggio.

Si risveglia poco dopo le 5, l‟imbiancarsi del cielo è il segno

che il giorno sta per iniziare. Ma non è un gran chè come giorno: il

vento è calato di nuovo e c‟è una nebbiolina fastidiosa che aumenta

ulteriormente l‟umidità dell‟aria. Yann controlla sul GPS la sua po-

sizione. La corrente lo ha fatto scarrocciare un poco. Decide alcune

piccole correzioni e controlla la posizione dei suoi rivali. Sembra che

nel suo sonnellino abbia perso una o forse due posizioni, ma è prati-

camente inevitabile e prima o poi succederà anche agli altri. Poco

dopo le 6 avvista finalmente la Royal Sovereign e poco lontano ecco

il faro a strisce bianche e rosse di Beachy Head, non lontano da Ea-

stbourne. Con la sua forma particolare ricorda vagamente una ca m-

pana molto allungata. Sullo sfondo le famose Seven Sisters, sette

candide scogliere di gesso a picco sul mare, con i prati di un verde

intenso che ne sfiorano il bordo e la grigia spiaggia sassosa che ap-

pare e scompare a seconda della marea. Il faro di Beachy Head ha la

particolarità che con l‟alta marea risulta isolato in mezzo al mare,

mentre con la bassa è collegato alla terraferma. Dunque conviene

passarlo a distanza di sicurezza. La virata stretta di Yann gli fa recu-

perare una posizione. Adesso dovrà navigare per un lungo tratto più

o meno parallelo alla costa, passando davanti a Newhaven, Brighton,

Shoreham, Worthing, Littlehampton, Bognor Regis e il promontorio

di Selsey Bill, per approdare finalmente a Portsmouth. Si avvicina

alla riva per sfruttare la brezza di monte del primo mattino, quella

che spira quando a terra la temperatura è più bassa che in mare. Cor-

rerà il rischio di incagliarsi su scogli sommersi, ma chi non risica…

tanto più che le pareti a picco favoriscono ancor più la brezza di terra

e di conseguenza lui può adottare un‟andatura al traverso e in qua l-

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che tratto anche al lasco. Si sta avvicinando ad altre due barche che

navigano più al largo e quindi ricevono meno spinta dal vento: a

quanto sembra la sua scelta sta pagando.

Lentamente scorrono i centri abitati della costa: il villaggio di

Newhaven un po‟ isolato e, a poca distanza, senza soluzione di con-

tinuità, tutte le altre popolose e vivaci cittadine turistiche che si al-

lungano su un tratto di costa del Sussex completamente piatto. Gli

edifici in prima fila sul lungomare sono separati dalle acque della

Manica da solo pochi metri di spiaggia sabbiosa, e i tanti pontili sono

protèsi verso la Francia, la cui costa si distingue senza difficoltà nel-

le giornate limpide. Numerose le barche di appassionati che salutano

i Solitaires. Il Bénéteau di Yann fila regolare ma, inevitabilmente, il

vento che lo ha aiutato a recuperare parecchie posizioni sta calando.

La costa alta e rocciosa è finita e col passare delle ore anche la diffe-

renza di temperatura tra il mare e la terra va diminuendo, e così si at-

tenua sempre più l‟effetto brezza di monte.

Verso le cinque di sera i primi concorrenti doppiano il promonto-

rio di Selsey Bill ed entrano nel Solent, il braccio di mare che separa

l‟isola di Wight dalla terraferma. Wight è proprio davanti, allineata

alla sua prua, e Portsmouth è chiaramente in vista a una decina di

miglia. Si punta su Nab Tower, una torre a pianta circolare eretta nel

1918 nelle vicinanze di Wight, poi si vira di qualche grado a nord-

ovest in direzione di Portsmouth. Per i Figaristes la corrente di ma-

rea è stata favorevole, regalando un nodo e mezzo di spinta supple-

mentare dalle prime ore del mattino fin quasi all‟approdo a Por-

tsmouth. Il vincitore di tappa, Kito de Pavant, ha fermato il cronome-

tro sul traguardo alle 18:48; l‟ultimo concorrente è arrivato diverse

ore dopo. Yann si piazza al ventinovesimo posto quando sono le

21:32 e, considerato quel che è accaduto alla partenza di Cherbourg,

è abbastanza soddisfatto. Ha recuperato una ventina di posizioni e

questo gli sembra un successo notevole, anche perché lui è un bizuth,

un debuttante, alla Solitaire du Figaro.

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Ma un tale risultato non è certo casuale. La preparazione della re-

gata è cominciata per lui molti mesi fa e per parecchie settimane

prima della partenza ha passato notti in bianco a studiare nel detta-

glio le carte Imray di tutto il Sud Inghilterra che riportano, in seg-

menti orari, la direzione e la velocità delle correnti. L‟Almanacco

Nautico Macmillan, un corposo volume di oltre 900 pagine, che for-

nisce indicazioni sulle correnti e le maree di tutte le isole britanniche,

oltre a dettagliate informazioni nautiche su centinaia di porti, è stato

il suo secondo prezioso testo di studio. Adesso Yann e i suoi avversa-

ri hanno due giorni per rifarsi del cibo mangiato a bordo: potranno

permettersi pasti regolari seduti a una vera tavola generosamente im-

bandita, e avranno due notti intere per recuperare il sonno perduto.

Ma la tensione resta sempre alta, e nessuno dei concorrenti riesce a

nasconderlo. Le battute, gli scherzi e le risate sono tutti un po‟ forza-

ti.

TÉLÉBREST è il nome, non particolarmente originale, della televi-

sione che ha il suo pubblico principalmente nel Finistère (dal latino

finis terrae) e più in generale nella Bretagna, una regione molto par-

ticolare della Francia, non solo dal punto di vista geografico ma a n-

che per la lingua che vi si parla, il bretone. Non un dialetto ma una

lingua vera e propria, di origine celtica come le lingue degli Scozze-

si, dei Gallesi e degli Irlandesi. Il bretone ha dunque un‟origine anti-

chissima ed è praticamente incomprensibile a chi si esprime nel fran-

cese dei parigini, perché le radici delle sue parole non hanno niente

in comune col latino. Nonostante ciò, la Francia si rifiuta testarda-

mente di riconoscere i Bretoni come minoranza autoctona e di co n-

cedere loro anche quel poco di autonomia politica che la Corsica si è

conquistata a prezzo di dure lotte.

Come per tutte le TV del suo genere, TéléBrest ha il suo punto di

forza nelle trasmissioni che si occupano di affari locali; sono quelle

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che ottengono il maggior indice di ascolto e che di conseguenza sono

le più farcite di pubblicità, specialmente di aziende che operano in

Bretagna. Lo strumento comunicativo preferito da TéléBrest – ma u-

tilizzato con successo da innumerevoli TV – è il talkshow, impiegato

come “collante” tra una bordata pubblicitaria e la successiva. Il suo

obiettivo è raggiunto se riesce ad ancorare il pubblico alla trasmis-

sione nonostante le frequenti interruzioni e gli fa dimenticare la vo-

glia di esplorare altri sentieri, forse più promettenti, di un etere ormai

affollatissimo.

Come sperimentato e ormai assodato nel corso di lunghi anni,

l‟argomento principe, quanto ad attrazione, è il sesso in tutte le sue

forme, manifestazioni e varianti. Sembra che la gente non si stanchi

mai di storie che in un modo o nell‟altro riguardano il sesso. L‟ha

scoperto la pubblicità che reclamizza qualunque pacco di biscotti, vi-

aggio turistico o servizio bancario con immagini di ragazze più o

meno allusive; se ne sono rese conto anche le più seriose riviste di

politica, economia e affari internazionali che sbattono sulle loro co-

pertine immagini degne di Playboy e Penthouse; lo sanno da sempre

(ovviamente) le riviste di pettegolezzi, che vivono per una metà di

notizie riguardanti sesso, matrimoni, fidanzamenti, rotture e divorzi,

e per l‟altra metà di voci e indiscrezioni sugli alti e bassi di salute dei

personaggi pubblici. Di conseguenza, l‟argomento sesso è ormai usa-

to e abusato da tutte le TV, pubbliche e private, nazionali e locali, per

tentare di sollevare il loro indice di ascolto e possibilmente (ma non è

essenziale) anche quello di gradimento.

La conseguenza di tutto ciò è stata un‟inflazione di erotismo più o

meno soft a tutte le ore, per tutti i gusti e per tutte le età. Perciò a Té-

léBrest la parola d‟ordine è adesso “differenziare” il pal insesto, “di-

stinguersi” dalla massa, offrire “alternative”. Non fosse stato per

questa nuova politica aziendale, una vicenda come quella del faro di

Xaveron sarebbe passata del tutto inosservata. Ma la storia ha avuto

una certa eco anche a livello nazionale, visto che se ne sono occupati

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giornali come Le Figaro e Le Monde con articoli lunghi e corredati

di fotografie del faro. In più è una faccenda locale che riguarda la na-

vigazione e più in generale la marineria. Tutti argomenti, questi, che

suscitano vivo interesse in una popolazione molto orgogliosa delle

sue tradizioni marinare.

Ispirato forse da “USA Today”, il talkshow d‟attualità di Télé-

Brest è stato battezzato “Breizh Hiziv” (“Bretagna Oggi”). È ambien-

tato nello studio più grande di cui dispone la TV, e si svolge alla pre-

senza di un folto pubblico. Gli scenografi hanno ricostruito la tipica

piazzetta di un villaggio della costa bretone: finte pietre lastricate, e-

difici grigi di cartapesta sullo sfondo, tra i quali si possono ricono-

scere una piccola libreria (col tipico cartello “Si acquistano libri usa-

ti” e l‟insegna formata da un paio di remi incrociati a cui è sovrappo-

sta un‟ancora, sopra la quale è fissato un salvagente bianco e rosso

con la scritta “Librairie maritime”), un negozio di attrezzature marit-

time e per la pesca (rotoli di gomene a vivaci colori, una bussola su

sospensione cardanica montata in una cassa di ottone, reti da pesca di

colore verde chiaro e bianco, maglie e maglioni bianchi e blu a righe

orizzontali, ami e galleggianti), e al centro l‟immancabile “Cafè du

port” con i suoi tavolini e le seggiole caratteristici di questo tipo di

locali, posti quasi al centro della piazzetta, e ai quali vengono fatti

accomodare gli ospiti della trasmissione. Marc Arval, il conduttore

dello show, interpreta la parte del patron del café, che fermandosi di

volta in volta a questo o quel tavolino, chiede agli “avventori” i loro

pareri sull‟argomento della puntata. Vecchio volpone della TV, Arval

è riuscito nel corso di diversi anni a riunire un più che discreto nume-

ro di telespettatori affezionati, che non perdono una sola puntata del

suo show. Per una TV locale il suo indice di ascolto è notevole, tanto

che fa concorrenza ai canali di TéléFrance 1 2 e 3, la televisione na-

zionale francese. Merito di questo successo la sua capacità di imme-

desimarsi nei gusti del pubblico medio, la puntigliosità con cui si do-

cumenta sugli argomenti che vengono discussi di volta in volta, e in-

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fine la fama che si è fatto di serietà e onestà professionale. Nelle sue

trasmissioni evita sempre di scodinzolare ai potenti che ospita, siano

anche ministri della République, ma non li attacca neanche gratuita-

mente per dimostrare che non ne è intimorito. E questo stile piace al

suo pubblico che continua a crescere. “L‟ha detto Arval” è il soste-

gno implicito a qualunque tesi, anche la più strampalata, nelle di-

scussioni tra amici al bar e tra colleghi in ufficio, e testimonia il pre-

stigio che il teleconduttore si è conquistato in buona parte della Bre-

tagna.

Per mettere su il “talk” su Xaveron, Arval si è dato da fare parec-

chio e ha invitato un bel po‟ di gente. Hervé e Jean-Michel, come ex

contrôleurs titolari, sono naturalmente gli ospiti d‟onore. Arval li ha

piazzati a un tavolino sulla sinistra e li ha forniti ciascuno di un bel

bicchiere di chouchen, bevanda ottenuta dalla fermentazione di una

soluzione di miele in acqua, più nota come idromele. In realtà si trat-

ta di acqua colorata, perché Arval non vuole correre il rischio che i

suoi ospiti si ubriachino in piena “diretta”, e comunque lo chouchen

non è mai piaciuto a nessuno dei due. Hervé, con la sua barba brizzo-

lata, il maglione e i pantaloni blu scuro, e i soliti sandali ha l‟aspetto

del “perfetto guardiano del faro”; Grognon ha un‟aria più del tipo

“padre di famiglia”, con cardigan blu, pantaloni grigi e mocassini ne-

ri; per l‟occasione ha indossato una delle tre cravatte che possiede,

quella a righe gialle e blu. Dopo averli presentati e aver brevemente

illustrato il progetto che il Centro di controllo regionale di Creac‟h

d‟Ouessant sta realizzando con gli enfer della Bretagna, si rivolge a

Jean-Michel.

«Mi dicono che lei ha un temibile soprannome: Grognon. Bene, se

vuol tenergli fede e protestare contro qualcuno, ora si trova nel posto

giusto. “Bretagna Oggi” ha una tradizione di cui noi, che la realiz-

ziamo di giorno in giorno, siamo molto orgogliosi: qui non si censura

nessuno e si ascoltano le ragioni di tutti. A lei la parola.» Sollecitato

dall‟assistente di studio, il pubblico si produce in un applauso che

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dura oltre una decina di secondi a sostegno delle parole dell‟anchor-

man.

Jean-Michel sorride ma prima che inizi a parlare interviene Hervé.

«Lo chiamiamo Grognon, è vero. Ma si tratta di uno scherzo, lo

chiamiamo così perché è un tipo che non si lamenta mai. Be‟… quasi

mai. Jean-Michel è uno a cui non piace rompere inutilmente le pa...

oh, volevo dire… insomma, non sono abituato a parlare alla tv. Sape-

te com‟è, noi guardiani dei fari siamo gente semplice, abituata alla

solitudine, all‟isolamento e… be‟, se mi scappasse qualche parolac-

cia…»

«Tranquillo, Hervé: qui è tra amici e può dire quello che vuole. E

lei, Grognon, non sia timido. Coraggio.»

«Allora, come giustamente diceva il mio collega Hervé, io sono

uno che non ama brontolare, ma stasera penso proprio che mi leverò

un peso che ho sullo stomaco da un po‟ di tempo.»

Arval è soddisfatto, le cose si stanno mettendo bene. «Intende dire

che non condivide le decisioni del Centro di Creac‟h?»

«Proprio così. Ma non siamo solo noi guardiani a pensarla in que-

sto modo, non siamo solo noi a essere convinti che, con questa ope-

razione, si sta facendo un grosso errore. Molte altre persone la pen-

sano così: marinai, pescatori, tecnici… molte, molte persone.

D‟altronde, tot capita tot sententiae. Dico bene?»

Arval lo guarda stupito per un attimo, poi annuisce. «Certo certo.

Tot capita…» Si sposta a un tavolino sulla destra, al quale sono sedu-

ti un uomo elegante, in abito grigio e cravatta blu a pois bianchi, con

l‟aria del manager, e una giovane donna bionda e attraente, vestita in

modo più sportivo. «Prima di farle spiegare le sue ragioni, caro Gro-

gnon, vorrei far intervenire monsieur Roger Hinault, che è a capo del

progetto di automazione degli enfer – li chiamate così, no? - di Bre-

tagna. Come mai questa decisione?»

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«Sì, li chiamiamo enfer. E vorrei proprio partire da questo nomi-

gnolo che, quantunque scherzoso, non riesce a nascondere

un‟evidente verità.»

«E qual è questa verità?» lo stimola Arval.

«La verità è che per i nostri controllori lavorare in un faro come

Xaveron è pericoloso.»

«Perché?»

«Perché la combinazione della forza delle correnti, della variazio-

ne ciclica di marea e della conformazione del fondo marino, è tale

che non permette l‟approdo al faro della vedetta che deve consegnare

i viveri, i pezzi di ricambio e il combustibile, e costringe quindi il no-

stro personale a un trasbordo assai macchinoso dei colli per mezzo di

cavi e paranchi. In più, obbliga il guardiano che deve dare il cambio

al collega a farsi issare sul faro seduto a cavalcioni di una specie di

pallone di plastica. »

«Un pallone?»

«Sì, un grosso sacco che viene agganciato a un cavo d‟acciaio ste-

so tra il battello e la cima del faro. Il cavo viene filato dal ponte del

battello e avvolto intorno a un tamburo metallico che si trova sul faro

e…»

«Intende dire, monsieur Hinault, che per raggiungere il faro di

Xaveron i nostri due guardiani devono fare una specie di numero da

circo degno di un trapezista?» domanda meravigliato Arval, che in

realtà sa benissimo quel che succede, avendo assistito quella stessa

mattina a un filmato che mostra dall‟inizio alla fine come si svolge

tutta l‟operazione.

«Quel che posso dire è che questo… procedimento, oltre a essere

pericoloso, attualmente è anche vietato dai regolamenti dell‟Unione

Europea» risponde Hinault in tono neutro.

«Hervé!» chiama il teleconduttore «è così che stanno le cose? Lei

che mi dice?»

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Hervé si stringe nelle spalle. «Che le posso dire? La prima volta

che mi hanno spedito sul faro con questo sistema è stato emoziona n-

te, e non nego che qualche brivido lungo la schiena l‟ho sentito. Ma

già la seconda volta mi ha fatto assai meno effetto, e dalla quarta o

quinta volta in poi è stato come se l‟avessi fatto per anni.»

«Insomma, niente di eccezionale: quasi una passeggiata» suggeri-

sce Arval.

«Tranne che col mare grosso» interviene Hinault. «Si balla parec-

chio in quel caso…»

«Ma, incidenti… ce ne sono stati, Grognon?»

«Incidenti? Be‟, come in tutti quei lavori che contengono una cer-

ta quota di rischio. Come per gli operai edili o per i camionisti o per i

pescatori o i sommozzatori… ma niente di veramente grave, comun-

que.»

«È stata solo questione di fortuna. Non vorreste mica andare avan-

ti così finché ci scappa il morto per cambiare sistema, no?» si intro-

mette Hinault.

«E poi c‟è la questione del regolamento UE» rammenta Arval.

«Non è poi così difficile cambiare sistema. Possiamo fare come

gli Inglesi» propone Hervé.

«E come fanno gli Inglesi?»

«Usano gli elicotteri. Basta costruire una piattaforma in cima al

faro, sopra la lanterna. Certo non donerà all‟estetica di Xaveron, ma

risolverà il problema.»

«Roger!»

«Una piattaforma? Tecnicamente è possibile, ma i costi non sa-

ranno certo bassi. E quando il tempo è cattivo, l‟elicottero non può

neanche alzarsi in volo sulla terraferma. Figurarsi se può atterrare su

una minuscola piattaforma in mezzo al mare!»

«A proposito di costi… oltre alle questioni di sicurezza che ab-

biamo discusso finora, sono forse i costi del personale che vi hanno

spinto a realizzare questo progetto d‟automazione?»

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Hinault non apre bocca per alcuni secondi, come se stesse riflet-

tendo sulla miglior risposta da dare. In realtà vuol aumentare la te n-

sione e concentrare su di lui tutta l‟attenzione del pubblico, perché

quello che sta per iniziare è un discorsetto che ha provato e riprovato

molte volte davanti allo specchio del bagno. «Devo ricordare agli

spettatori che noi siamo un ente pubblico, più precisamente facciamo

parte della Divisione “Fari e boe da segnalazione”, che a sua volta

dipende dalla “Direzione degli Affari Marittimi e della Gente di Ma-

re”. Come per tutti gli enti pubblici, i fondi a nostra disposizione ci

arrivano dalle tasse che pagano i cittadini, e uno dei nostri doveri è

quello di gestire al meglio tali fondi, che peraltro non sono molto ab-

bondanti… ma questa è un‟altra faccenda. Il punto è che, se possia-

mo realizzare dei risparmi mantenendo il livello del servizio fornito

finora e in più riducendo grandemente i rischi e – non dimentichia-

molo – i disagi quotidiani del personale, non vedo ragione per…»

«Lei ha citato il “livello del servizio” intendendo, suppongo, che il

faro continuerà il suo lavoro di segnalazione a navi e battelli in me z-

zo all‟oceano anche senza la presenza umana. In che modo verrà at-

tuato tutto questo?»

«Prima di scendere nei dettagli, vorrei chiarire che

l‟automatizzazione dei fari non è una novità per noi. In effetti, in

Francia i fari automatizzati esistono ormai da diversi anni.»

«Anche il faro di Dunkerque, mi sembra.»

«Infatti. Questo faro gode di un‟automatizzazione spinta che nel

tempo si è dimostrata molto affidabile. L‟accensione della lanterna è

automatica e segue un calendario ufficiale. In caso di scarsa lumino-

sità, dovuta per esempio a delle nubi, una cellula fotoelettrica invia

un messaggio all‟apparecchiatura di controllo che provvede ad ac-

cendere la lampada in anticipo. In questo caso scatta anche un te m-

porizzatore per evitare che il faro rimanga acceso quando non è più

necessario.»

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«Ma immagino che accendere un faro non è come accendere la lu-

ce a casa nostra…»

«Naturalmente no. La procedura è un po‟ più complessa: solleva-

mento della saracinesca di protezione della sezione ottica, avvio della

rotazione e accensione della lampada.»

Arval annuisce impercettibilmente un paio di volte come se pon-

derasse la risposta che ha ricevuto, quindi si rivolge nuovamente a

Hinault. «Allora io mi domando: nello sfortunato caso di un guasto

alle apparecchiature, considerato che nel faro non ci sarà nessuno a

intervenire, quanto tempo ci vorrà per risolvere il problema?»

«Sono lieto di rispondere a questa domanda, perché mi permette

di rassicurare i telespettatori che abbiamo preso tutte le precauzioni

del caso.»

«Ce le illustri, Roger.»

«Tanto per cominciare, gran parte delle apparecchiature che finora

hanno fatto funzionare il faro saranno ridondanti, nel senso che se

dovesse guastarsi un componente, nel giro di pochi secondi subentre-

rà un componente gemello per svolgere il medesimo compito.»

«Intende dire che il faro non interromperà neanche per un istante

il suo funzionamento?»

«Sì, ma non basta: entro qualche ora una squadra sarà inviata a ri-

parare o sostituire il componente guasto che il computer al centro di

Ouessant ci avrà segnalato.»

«Si direbbe un sistema valido. Lei che ne pensa, amico Gro-

gnon?»

Jean-Michel scuote il capo. «Sulla carta sarà anche valido, ma io e

Hervé ne abbiamo viste troppe: guasti multipli, a catena, in cascata…

problemi che solo un operatore sul posto poteva risolvere in tempi

ragionevoli.»

«E poi, se il tempo è cattivo – come molto spesso succede a Xave-

ron – la squadra resta bloccata a terra. E questo può durare per giorni

e giorni. E allora, che si fa?» aggiunge Hervé.

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«I nostri amici sembrano dei veri pessimisti, ma forse sono solo

delle persone realiste e la loro lunga esperienza magari indurrebbe a

una maggiore cautela, con tutti questi automatismi. Purtroppo, dob-

biamo interrompere questo interessantissimo dibattito per un breve

stacco pubblicitario. Solo pochi secondi. Bernard – il nostro regista e

capo supremo – mi sta dando lo stop. Ok, Bernard, forza con la ré-

clame.» Arval guarda direttamente la telecamera che lo sta inqua-

drando e, rivolto al pubblico a casa, aggiunge: «E voi non andate via,

mi raccomando. La parte più interessante deve ancora venire. Restate

con noi.» Con questa raccomandazione esce dallo studio per prender-

si un caffè veloce e farsi dare una sistematina al trucco. Come quasi

tutti i suoi colleghi, l‟anchor-man di TéléBrest è un vero “Narciso”.

30 LUGLIO. Comincia la seconda tappa della Solitaire: da Por-

tsmouth a Saint-Gilles-Croix-de-Vie. Sono 463 miglia, divisibili ide-

almente in tre diversi segmenti. Il primo tratto, da Portsmouth a Wolf

Rock, è un percorso di 191 miglia lungo le coste dell‟Inghilterra Sud-

Occidentale fino al famoso faro che, doppiato in senso antiorario, se-

gna l‟inizio del secondo tratto di 117 miglia tutto in mare aperto fino

a l‟île de Sein, al largo della Bretagna. Si attraversa la Manica al suo

imbocco, e dunque nel punto più ampio. Le ultime 155 miglia si cor-

reranno tutte lungo le coste francesi fino a Saint-Gilles, in Vandea.

Stavolta la partenza di Yann è buona e già dopo qualche miglio

riesce a piazzarsi all‟undicesimo posto, subito dopo i grandi che ha n-

no vinto la Solitaire almeno una volta nella loro carriera. Il vento sof-

fia sui sette nodi, ma il cielo è plumbeo e una nebbiolina limita la vi-

sibilità a meno di un miglio. Niente di grave se a bordo si ha una

buona strumentazione elettronica, ma questo renderà difficile con-

trollare la posizione e la rotta degli avversari. Dopo Wolf Rock pro-

babilmente ognuno farà gara a sé, con la nebbia che lo isola dagli al-

tri e che certo aumenterà andando verso sud. Intanto davanti agli oc-

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chi dei concorrenti sfilano le coste del Dorset. Subito dopo la parten-

za da Portsmouth hanno imboccato il braccio sudoccidentale del So-

lent, un ampio canale dalle correnti anomale. Il Solent ha una reputa-

zione di venti piuttosto forti e imprevedibili, ma esiste anche

un‟ampia documentazione su di esso. Nella prima mattina il vento

soffia da nord-ovest, obbligando i Solitaires a un‟andatura di bolina

stretta con bordi frequenti per risalire il vento. Col passare delle ore il

vento passa a soffiare in prevalenza da sud-ovest. Per garantirsi la

massima spinta gli aggiustamenti delle vele devono essere quasi co n-

tinui, ma questo non è un problema per i concorrenti, visto che sono

ancora freschi e i due giorni di riposo gli hanno fatto recuperare le

energie consumate nella prima tappa. Quando avvistano i Needles,

una serie di roccioni verticali e appuntiti stranamente messi in fila

lungo una linea retta, i concorrenti sanno di aver raggiunto l‟uscita

dal Solent e l‟ingresso in mare aperto. All‟estremità dei Needles un

tozzo faro, con in cima la piattaforma per gli elicotteri, saluta il pas-

saggio dei Figaristes. In lontananza si distingue appena il promonto-

rio di Anvil Point. Proseguendo si alternano paesaggi diversissimi,

dalle spiagge sabbiose della baia di Bournemouth alle falesie di Da n-

cing Ledge, pareti di roccia tra il grigio e il nocciola a picco sul ma-

re, poi di nuovo le coste basse di Fortuneswell e quindi le spiagge di

ciottoli dell‟isola di Portland, per tornare nuovamente alle coste alte e

aspre di Kimmeridge Bay, mentre quelle di Lulworth seppure alte

sono di un candore abbagliante. Poi il placido porticciolo di Lyme

Regis e le sabbie di Poole, e poi Swanage, altro porticciolo con una

varietà incredibile di coste, e ancora West Bay con la sua incredibile,

altissima muraglia di rocce color ocra a picco su una spiaggia di sas-

solini tondeggianti.

L‟attraversamento dell‟ampia baia di Lyme avviene di notte. I

Bénéteau si sono sgranati in una lunga fila irregolare, un “trenino”, e

Yann resiste al dodicesimo posto. Il vento è aumentato ma è anche

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divenuto ancor più variabile nella direzione da cui spira e nella forza.

Da un po‟ di tempo il mare ha cominciato ad agitarsi e ora si balla

parecchio. Per Yann è un buon segno: nelle difficoltà – pensa – pre-

valgono i migliori e i più preparati. E lui è convinto di essere tra que-

sti. Ora sono le coste del Devon a sfilare alla sua destra, ma non gli

sembrano gran chè diverse da quelle del Dorset, anzi per essere esatti

non ci vede proprio nessuna differenza.

Numerose le cittadine lungo la costa. Molte sono famosi centri tu-

ristici come Torquay, altre meno note come Paignton e Dartmouth.

Una volta doppiato il capo di Start Point, è visibile in lontananza il

porto di Plymouth. Ma il vento è molto calato: adesso spira a meno

di un nodo, e la corrente è contraria. Per non venir trascinati indietro,

i Figaristes non possono far altro che gettare l‟ancora su un fondo

che varia tra i venti e i sessanta metri. Questa strana situazione dura

per oltre due ore mettendo a dura prova la pazienza dei concorrenti.

Ma agitarsi è inutile, non resta che rassegnarsi e attendere. Al mo-

mento giusto, i primi a salpare l‟ancora otterranno un vantaggio che

quelli rimasti indietro potrebbero pagar caro a fine tappa. Dunque,

attesa sì ma vigile. Finalmente cessa la corrente contraria e nei qua-

rantotto monotipi si assiste a uno sbracciarsi ai winch e a un agitarsi

furibondo per far presto, più presto di tutti gli altri a levare gli or-

meggi. Lentamente la corsa riprende.

Alle prime luci dell‟alba Yann passa accanto al faro di Eddystone,

una slanciata torre di 51 metri che risale al 1882 ed è stata costruita

su un mucchietto di scogli in mezzo al mare, a quattordici miglia dal-

la costa. La notte è stata lunga e laboriosa, e Yann comincia a risenti-

re della fatica accumulata. Ha dormito poco e male per via degli sbal-

lottamenti continui e si domanda se riuscirà a resistere fino alla fine

della tappa, visto che non ne ha coperto neppure un terzo. La solitu-

dine si fa sentire a livello psicologico e una crescente inquietudine

comincia a serpeggiare dentro di lui. Per la prima volta si domanda

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se non si è impegnato in un‟impresa troppo ardua per le sue capacità.

Ma lo scoramento tipico delle ultime ore della notte, quando la sta n-

chezza è al massimo livello, diminuisce fino a scomparire quando i

primi raggi di sole si fanno strada tra le nuvole. Il tempo migliora, la

pressione è nettamente in aumento, ma il vento continua a essere

contrario causando un ritardo di molte ore sulla tabella di marcia

prevista dagli organizzatori e su quello che in gergo viene chiamato

ETA, ovvero “tempo stimato di arrivo”. Un caffè forte – pensa Yann –

lo rimetterà in sesto. La Cornovaglia è ormai raggiunta, adesso si

tratta di far rotta su Lizard Point, il punto più a sud dell‟Inghilterra, e

poi di passare tra Land‟s End, estremo lembo occidentale della Cor-

novaglia, e il faro di Wolf Rock. Le ore scorrono veloci perché c‟è

sempre qualcosa da fare a bordo. La mattinata trascorre in un susse-

guirsi di bordi per risalire il vento. È quell‟andatura a zigzag che fa

perdere un sacco di tempo. Verso l‟una Yann si concede una pausa

per un pranzo veloce. Poco dopo, dal bollettino ricevuto via radio,

scopre di essere risalito in decima posizione. Tutti stanno parlando di

lui: sembra che questa performance di un bizuth abbia fatto molta

impressione. Passa il pomeriggio senza che si verifichino eventi di

rilievo, scende la sera e ricomincia la parte notturna della regata. I

Figaristes dividono il proprio tempo tra la regolazione delle vele, la

consultazione degli strumenti di bordo, la verifica della posizione al

tavolo di carteggio, e il tentativo di prevedere le condizioni meteo

delle prossime ore. Queste previsioni determineranno la scelta della

rotta e della tattica di gara da seguire e, se si riveleranno sbagliate,

comprometteranno la tappa e forse tutta la regata. In distanza sfilano

davanti agli occhi dei concorrenti le luci tremolanti della costa.

Ed ecco finalmente alle 5:15 di mattina Wolf Rock, uno dei pas-

saggi chiave della Solitaire 2004. La forma tipica dei fari inglesi, i-

dentica a quella di Eddystone, compare come un miraggio alla vista

di Yann. A otto miglia al largo di Land‟s End, dei bassi scogli che

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spuntano dal mare sono il culmine di una parete di roccia che con

una forte pendenza scende fino a 70 metri di profondità. Qui da oltre

un secolo Wolf Rock sfida le onde dell‟Atlantico. In lontananza il

profilo delle isole Scilly avvolte dalla solita nebbiolina. Decisa virata

verso Ouessant in direzione sud-est e comincia il secondo tratto,

l‟attraversamento della Manica che, una volta completato, porterà i

Solitaires a passare al largo delle infide coste della Bretagna.

TERMINATA l‟estenuante pausa pubblicitaria, riprende la trasmis-

sione in studio con l‟applauso di rito. Arval fa un breve riassunto di

quanto è stato detto fino a quel momento a beneficio di chi si è sinto-

nizzato solo ora e riprende dall‟ultima domanda.

«Monsieur Hinault, che si fa se una tempesta blocca a terra la

squadra della manutenzione?»

Hinault sorride serafico. «Certo, tutto può accadere. Può darsi che

un giorno io vinca il primo premio alla Lotteria Nazionale e che

quello stesso giorno un fulmine mi colpisca mentre cammino in mez-

zo agli Champs Elysées… ma quante sono le probabilità di una simi-

le combinazione? Io dico: molto molto poche… anzi, trascurabili. Si-

curamente trascurabili. Per questo non me ne preoccupo. E poi c‟è

un‟altra cosa da tenere bene a mente: i fari non hanno più

l‟importanza che avevano una volta nella navigazione. Le navi e gli

yacht da crociera, e perfino le piccole barche a vela da 6-7 metri di-

spongono ormai di molti ausilii alla navigazione: radar, sonar, il

nuovo Loran C e soprattutto il GPS. Si tratta di uno strumento ormai

ben collaudato, molto preciso e molto sicuro.»

«Se non erro abbiamo in studio una vera esperta in GPS. È tempo

di farla intervenire, no?» Arval si avvicina sorridente alla giovane

donna seduta di fronte a Hinault. «Mademoiselle Solange de Mati-

gnon, il braccio destro del nostro amico Roger, giusto?»

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Hinault sorride a sua volta annuendo. «Solange è un ingegnere e-

lettronico ed è la nostra esperta in telecomunicazioni.»

«Solange – permette che la chiami così? – vorrebbe illustrarci le

straordinarie capacità del GPS? È davvero arduo stare al passo con

tutte queste diavolerie elettroniche, e ne spuntano di nuove in conti-

nuazione... Prego, a lei la parola.»

Come le è stato insegnato, Solange si rivolge alla telecamera che

la sta inquadrando in quel momento, si sistema un ciuffo di capelli

sulla fronte, si schiarisce la voce e attacca col suo discorsetto. «Bene,

tanto per cominciare la sigla GPS significa “Sistema di Posizionamen-

to Globale”. È stato inventato dagli Americani – che ne hanno la

completa gestione – e si è diffuso soprattutto negli ultimi dieci anni,

anche se i primissimi apparecchi risalgono agli anni Settanta.»

«Secoli fa, si direbbe, visto il progresso incredibile

dell‟elettronica.»

«Infatti. Il sistema GPS risponde con estrema precisione a una do-

manda che l‟uomo si pone da sempre, e cioè “In che punto della Ter-

ra mi trovo?” Per svolgere il suo compito il GPS si avvale di tre sotto-

sistemi: il primo è una costellazione di 24 satelliti orbitanti intorno

alla Terra a un‟altezza di oltre 20 mila chilometri; il secondo sottos i-

stema è costituito da cinque stazioni di controllo al suolo, posizionate

più meno lungo l‟equatore; infine, il terzo sottosistema è l‟insieme di

tutte quelle macchine o persone dotate di un ricevitore GPS che gene-

ralmente sono chiamate “utenti”.»

«Insomma, se io mi compero uno di quegli apparecchietti che si

vedono nei centri commerciali o nei negozi di attrezzature marittime

o magari mi prendo un‟auto nuova con tutti gli ultimi optional dispo-

nibili, divento un utente di GPS?»

«Certamente.»

«E come funziona questo GPS? Senza addentrarsi ovviamente nei

dettagli più tecnici.»

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«Ecco, per poter rilevare la propria posizione in un certo istante,

un apparecchio GPS ha bisogno di ricevere segnali contemporanea-

mente da almeno quattro satelliti. Cinque sono ancora meglio. Una

volta identificati i satelliti che hanno spedito i segnali, e sapendo in

base a delle tavole numeriche dove tali satelliti si trovano in quel

preciso momento e quanto tempo hanno impiegato i segnali per arri-

vare al nostro apparecchio, è semplice individuare la nostra posizio-

ne: sarà quella corrispondente al punto in cui si incrociano i segnali

ricevuti.»

«Detto così, sembra quasi banale» osserva Arval. «Ma immagino

che ci saranno un sacco di calcoli da fare da parte del… processore –

si dice così? – del nostro GPS. Però, cara Solange, mi viene un dub-

bio: e se per qualche motivo i satelliti non si trovassero dove ci aspet-

tiamo che siano? Questo sballerebbe tutto, no?»

Solange sorride. Essere al centro dell‟attenzione le piace e, dopo

l‟imbarazzo delle prime frasi, si sente molto più tranquilla e rilassata.

«Sì, può accadere. E questo è uno dei motivi per cui esistono le sta-

zioni a terra cui accennavo prima: servono a “tracciare” in continua-

zione la posizione dei satelliti e a prevederne il relativo percorso nel-

le successive 24 ore. Tali informazioni vengono inviate dalle stazioni

di controllo ai satelliti, che le acquisiscono e a loro volta le spedisco-

no ai vari utenti sparsi a ogni angolo del mondo. Inoltre le stazioni di

controllo provvedono a calibrare i precisissimi orologi atomici che si

trovano a bordo di ciascun satellite.»

«In modo da inviare i loro segnali esattamente agli istanti previ-

sti» aggiunge Hinault. «Il che permette di conoscere con estrema

precisione quanto tempo hanno impiegato detti segnali per giungere

agli utenti. E quindi che distanza hanno percorso, in base a una se m-

plice formula di fisica da terza liceo.»

«Ma i satelliti… lei ha detto che ne servono almeno quattro, giu-

sto?»

«Sì, almeno quattro.»

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«Ora, ammettiamo che io mi trovi in mezzo a un bosco e che so-

pra la mia testa ci sia un tetto di rami e foglie che non mi lascia in-

travedere neanche un pezzetto di cielo. Come se la caverebbe il mio

GPS?»

«Purtroppo non è possibile utilizzare il GPS al chiuso e potrebbe

essere difficoltoso ricevere i segnali dai satelliti anche nei centri ur-

bani e nella fitta boscaglia. È un limite della tecnologia attuale» a m-

mette Solange.

«Capisco. Ma torniamo ai nostri fari. Qualche altra domanda da

parte dei nostri amici guardiani?» sollecita Arval.

Hervé solleva un dito per attirare l‟attenzione. «Io ho una doma n-

da: cosa si fa se manca la corrente elettrica nel faro?»

Hinault sorride soddisfatto. «Questo è uno dei casi che abbiamo

considerato con più attenzione. Nell‟eventualità di una panne della

corrente elettrica fornita dalle apparecchiature eoliche, interviene a u-

tomaticamente un gruppo elettrogeno che fornisce l‟energia necessa-

ria.»

«Come negli ospedali?» domanda Arval.

«Esattamente.»

«E quanto a lungo può funzionare questo gruppo elettrogeno?»

domanda Grognon.

«Alcune ore, più o meno.»

«Sembra che ricadiamo nel caso del componente guasto» osserva

Arval.

«No, un momento. Non è così che funzionano le cose. Noi abbia-

mo steso un piano di interventi programmati, degli interventi che

hanno lo scopo di scoprire in anticipo l‟eventuale degrado delle ap-

parecchiature e di provvedere per riportarle alla perfetta efficienza.»

«Come i “tagliandi” per le auto» suggerisce Arval.

«Se vogliamo chiamarli così…»

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«Io non credo che i “tagliandi” – come li chiamate voi – possano

prevenire tutti problemi. No, non credo proprio» dichiara Hervé

scuotendo il capo.

«E io sono d‟accordo con lui» aggiunge Grognon. «E poi, potreb-

bero guastarsi proprio le apparecchiature automatiche, no? Quelle

che comandano l‟accensione e lo spegnimento del faro…»

«In tal caso possiamo intervenire direttamente da terra, dal Centro

di Creac‟h, inviando dei comandi a distanza attraverso delle normali

linee telefoniche» spiega pazientemente Hinault.

«Insomma, sembra tutto previsto… o quasi» dice Arval sorriden-

do. «Ma abbiamo con noi ancora un ospite, la cui opinione vorrem-

mo conoscere. Finora abbiano sentito cosa ne pensano gli “addetti ai

lavori”, diciamo così. Adesso vorremmo sentire il punto di vista di

un “utente” dei fari.» Arval si avvicina a un tavolino posto un po‟ i n-

dietro rispetto a quello dei guardiani e dei responsabili di Creac‟h. Vi

è seduto un uomo sulla cinquantina, dalla barba biondo scuro che in-

cornicia un viso rugoso, tipico di chi vive molto all‟aperto. L‟uomo

indossa la sua migliore divisa blu scuro con i bottoni dorati e i gallo-

ni di capitano, una camicia candida e una cravatta nera. «Eccolo qua»

annuncia Arval con enfasi. «Un vero lupo di mare, giusto mon capi-

tain? Bene, vi presento il capitano Ferret che, con la sua portacontai-

ner da 50 mila tonnellate, ha navigato per i mari di tutto il mondo.

Un uomo che ha un sacco di storie da raccontarci, probabilmente

molte più di quelle che ci consente il tempo a nostra disposizione.

Ma adesso dovremo – ahimè – interrompere per qualche minuto di

pubblicità. Amici, giù le mani dal telecomando se volete conoscere

questo straordinario personaggio. A tra poco, solo un paio di minu-

ti...»

TRATTO CENTRALE della seconda tappa della Solitaire. La zona al

largo dell‟isola di Ouessant, in pieno Atlantico, è una delle più traffi-

cate al mondo: vi passano circa 150 navi al giorno e di conseguenza è

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stato studiato un “dispositivo di separazione del traffico marittimo”

che comprende quattro zone interdette alla navigazione e tre vie

d‟acqua così suddivise: la via più esterna larga 5 miglia nautiche è

assegnata al traffico in direzione sud, quella centrale pure di 5 miglia

è riservata alla navigazione in direzione nord. Sono separate l‟una

dall‟altra da una zona interdetta anch‟essa di 5 miglia. A est di queste

due vie d‟acqua si trovano altre due zone interdette, la prima di 12

miglia e la seconda di 10. Tra queste due zone una stretta via d‟acqua

a doppio senso larga due sole miglia marine è stata assegnata al ca-

botaggio e al trasporto di prodotti poco pericolosi. È questa la via che

i velisti dovrebbero percorrere fino all‟île de Sein, per poi iniziare

l‟ultimo tratto di 155 miglia che li farà approdare a Saint-Gilles, se-

condo traguardo della Solitaire.

Ma Yann ha altre idee in proposito. Sa bene di non essere in grado

di battere i suoi migliori avversari in una regata a contatto: a parità di

imbarcazione hanno troppa esperienza per farsi superare da un raga z-

zino di 19 anni alla sua prima prova in questa gara. Per chi ha voglia

di rischiare, come nel caso di Yann, esiste però una possibilità con-

creta di portarsi in testa. Si tratta di prendere una scorciatoia, passan-

do tra Ouessant e la terraferma. Seguendo i fari disseminati lungo il

percorso, si può ridurre il tragitto di diverse miglia e a volte basta

guadagnare pochi minuti per portarsi in testa al gruppo.

Nell‟edizione 2003 il vincitore e il secondo arrivato al traguardo fi-

nale, dopo oltre 1600 miglia di navigazione, furono incredibilmente

separati da soli 13 secondi.

Per passare dalle acque della Manica, partendo da Wolf Rock, a

quelle del mare d‟Iroise che bagna le coste bretoni vi sono diverse

possibilità. Oltre alla rotta esterna, quella che passa a ovest dell‟isola

di Ouessant, si può passare per il canale del Four e il Raz de Sein. Si

tratta di percorsi delicati sia per l‟insidia di scogliere sommerse che

provocano effetti locali difficili da prevedere – come mulinelli, mar-

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mitte sugli alti fondali, correnti trasversali nei passi, controcorrenti

dietro gli isolotti – sia per la forza della corrente che può raggiungere

i cinque o sei nodi.

Ma la rotta che può fornire la massima spinta è quella che passa

per il canale del Fromveur, un tratto lungo cinque miglia tra i fari di

La Jument e Xaveron, al centro del quale la corrente raggiunge i no-

ve nodi. Sfortunatamente questa rotta è anche la più pericolosa e con

vento e corrente contrari non è navigabile. Superfluo precisare che i

naufragi che si sono prodotti in queste acque nel corso dei secoli so-

no innumerevoli. E naturalmente per ottenere un vantaggio in regata

navigando verso sud bisogna che la corrente sia favorevole, il che

accade solo col riflusso della marea; mentre nella fase di alta marea

la corrente ha direzione esattamente opposta.

Yann ha tenuto conto di tutti questi parametri, ha fatto le sue valu-

tazioni e si è convinto che il Fromveur è la scelta che può dargli la

vittoria nella seconda tappa della Solitaire. Facendosi guidare dai fari

di Xaveron, Molène, Pierres Noires e infine la Vieille può arrivare

all‟altezza dell‟isola di Sein prima degli altri e cominciare in testa

l‟ultimo tratto puntando su Eckmühl e poi dritto fino a Saint-Gilles.

Sarebbe fantastico per Yann essere il vincitore della seconda tappa…

AL CENTRO di Controllo di Ouessant intanto stanno arrivando no-

tizie preoccupanti. Il NOAA (National Oceanic and Atmospheric

Administration) americano aveva lanciato un preavviso dodici ore fa

e adesso è arrivata la conferma: sulla superficie solare sono apparse

alcune macchie di vaste dimensioni. Le misurazioni effettuate da

numerosi osservatorî astronomici rivelano un‟intensa attività magne-

tica, specialmente da parte di una macchia solare grande quanto i

pianeti Giove e Saturno messi insieme. Queste macchie vengono

causate da gigantesche esplosioni sulla superficie del Sole, il cui e f-

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fetto più rilevante sulla Terra è una tempesta magnetica. In particola-

re, questa che si è da poco scatenata è stata classificata di livello G5,

il massimo della scala. Le conseguenze per la salute umana sono pra-

ticamente irrilevanti, a meno che non ci si trovi nello spazio o negli

strati più alti dell‟atmosfera; ma le conseguenze nelle telecomunica-

zioni sono estremamente gravi: potrebbero paralizzare completame n-

te le trasmissioni di radio e tv e i telefoni cellulari.

Da Colorado Springs, stazione master del sistema di controllo del-

la rete di satelliti NAVSTAR GPS, arriva una notizia ancora peggiore:

per preservare l‟integrità dei satelliti orbitanti intorno al la Terra

dall‟influenza della tempesta magnetica, è stata presa una grave de-

cisione: “spegnerli” per 12 ore. È stata una scelta difficile che, per la

durata del blackout imposto, non ha precedenti, ma il rischio di dan-

neggiare i delicatissimi (e costosissimi) circuiti elettronici dei satelli-

ti è troppo elevato. Questo significa che non sarà più possibile affi-

darsi ai ricevitori GPS per ottenere informazioni sulla propria posi-

zione geografica; significa che tecnologicamente si torna indietro di

almeno 50 anni, perché anche i meno sofisticati sistemi LORAN basati

a terra sono stati messi fuori combattimento, utilizzando anch‟essi le

onde elettromagnetiche. Perfino la bussola potrebbe dare informa-

zioni poco attendibili, e in queste condizioni si è costretti a navigare

a vista, rilevando punti noti lungo la costa e confrontandoli con la

carta nautica di quella particolare zona, insomma più o meno come si

faceva nel medioevo.

Mancano poche ore al passaggio dei velisti al largo della Bretagna

e l‟oscurità è ormai calata. Che fare? Scatta una serie di febbrili tele-

fonate tra Ouessant e la sede centrale del Servizio fari e fanali a Pari-

gi, e tra questo e il Ministero della Marina, la Direzione del Figaro

che organizza la regata, i vari sponsor, e la Bénéteau che fornisce le

imbarcazioni. Le barche sono disperse in una vasta area della Manica

ed è notte. Se si decidesse di interrompere la corsa, come fare per av-

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vertire i Solitaires, visto che ormai non si può più fare affidamento

né sulla radio né sul radar? E poi cosa dovrebbero fare? Entrare nel

porto più vicino? Ma quale? E se non disponessero delle carte adatte

con le indicazioni dei fondali, delle secche, degli scogli, dei passaggi

di entrata nel porto?

Le discussioni continuano a lungo facendo perdere tempo prezio-

so. Alla fine, visto che comunque non sarebbe possibile avvertire tut-

ti i concorrenti, si decide di… non fare niente. In mare, si sa,

l‟ultimo a decidere è sempre il capitano; in questo caso, lo skipper.

Chi non se la sentirà di proseguire in situazione di blackout delle te-

lecomunicazioni potrà sempre mettersi alla cappa e attendere la luce

del giorno; gli altri potranno continuare confidando nella loro abilità

di marinai all‟antica. In fondo si tratta di gente abituata a traversate

oceaniche, gente che ne ha viste di tutti i colori e che sicuramente ha

sperimentato anche dei guasti agli apparecchi radio con tutte le co n-

seguenze del caso. Esattamente come in questo momento. Per pru-

denza si decide comunque di allertare i mezzi aeronavali di soccorso

e vengono richiamati in servizio tutti gli uomini disponibili.

L‟ENNESIMO inutile applauso – un rituale a cui nessuna trasmis-

sione TV di questo genere rinuncia – segna la ripresa del talkshow.

Arval spiega che il capitano Ferret attraversa gli oceani da più di

trent‟anni e che da undici è comandante. La sua nave, la Iannis Papa-

kis, batte bandiera greca e fa la linea Brest-Fremantle (in Australia).

In questo momento è ferma in bacino di carenaggio a Saint-Malo per

i periodici lavori di manutenzione e questo ha permesso a Ferret di

partecipare alla trasmissione.

«Allora, capitano Ferret, che ne pensa dei fari automatizzati?»

vuol sapere Arval.

Ferret è uno che se la prende calma e non si preoccupa dei tempi

frenetici delle TV commerciali. E poi adesso che ha la parola vuole

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approfittarne per dire la sua prendendosi tutto il tempo che gli serve.

«Be‟, da quando ero cadetto sono passati un bel po‟ di anni e un sac-

co di cose sono cambiate… anche per noi marinai. Quando ho co-

minciato a navigare io, per fare il punto si usavano ancora il crono-

metro e il sestante, e nelle trasmissioni radio usavamo l‟alfabeto

Morse. Se andiamo avanti così, chiuderanno anche i fari. Nel senso

che li spegneranno proprio!»

«Ma lei pensa che siano ancora utili? »

«Naturale. Vede, tutti questi nuovi sistemi: GPS, LORAN e tutto il

resto, sono utilissimi, come no, nessuno si sogna di metterlo in di-

scussione, neanche noi della “vecchia guardia”… ma non possiamo

contare solo su quelli.»

«Perché?»

«Perché sarebbe come investire tutto il proprio capitale nelle azio-

ni di un‟unica azienda. Non che io sia pratico di investimenti… Ma

se quella fallisce? Se abbiamo puntato tutto su una particolare società

che prometteva miracoli, e lei va a gambe all‟aria… be‟, abbiamo

perso tutto, non le sembra?»

«Intende dire che i fari, per voi marinai, sono ancora importanti?»

«Sicuro. Dobbiamo poter contare sui fari, specialmente nei mo-

menti critici, quando c‟è un fortunale in atto. Lo sa che vuol dire af-

frontare una tempesta forza 10? Io ci sono passato e le assicuro che

non è per niente piacevole. In quei momenti si è sballottati come dei

tappi di sughero. Devi cercare di tenere la nave in rotta, ma devi a n-

che stare attento a non prendere le onde di traverso perché se il carico

non è assicurato alla perfezione, se dei container si staccano dagli

ancoraggi e si muovono sul ponte possono squilibrare la nave, farla

inclinare da un lato fino a rovesciarla. Così, sei maledettamente pre-

occupato per il tuo carico… e per il tuo equipaggio, ben inteso. Io

non ho mai perso un uomo e non voglio rischiare neanche adesso.

Allora, questo bellissimo GPS ti indica la tua posizione e anche la rot-

ta da seguire, comunica col computer di bordo e gli dice come mano-

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vrare il timone, i motori e tutto il resto. E tu sei lì a controllare che

tutto fili liscio. Ma se in tutti questi marchingegni elettronici qualco-

sa non funziona come dovrebbe e tu non hai un sicuro punto di rife-

rimento a terra, che diavolo fai? Ti resta solo una cosa da fare: prega-

re. Perché sei fregato e non puoi fare nient‟altro. Sei veramente fre-

gato e lo sai.»

«Ma i fari ci sono, e nessuno ha intenzione di spegnerli!» inter-

viene Hinault stizzito.

«Certo, ci sono i fari. Ma se durante una tempesta un‟onda fracas-

sa gli specchi? Se c‟è un cortocircuito e scoppia un incendio nel faro

e non c‟è nessuno a spegnerlo? Badate che onde alte fino alla cima di

un faro, lì a Finistère, io le ho viste con questi occhi. Sono lo spetta-

colo più spaventoso a cui ho mai assistito. Insomma, quel che voglio

dire è che i fari servono soprattutto nelle emergenze ed è proprio nel-

le emergenze che rischiano maggiormente di guastarsi. E cosa pensa-

te di fare, voi a Creac‟h, con i vostri telecontrolli se un enfer si gua-

sta durante una tempesta forza 10? Che pensate di fare, eh?»

L‟intervento del capitano Ferret, e in particolare le sue ultime fra-

si, ha l‟effetto di raggelare lo studio televisivo. Hinault replica de-

bolmente, appoggiandosi a dati statistici, che tempeste del genere e-

vocato da Ferret sono estremamente rare. Grognon ribatte che nel

1952 il guardiano-capo di Xaveron rimase bloccato nel faro dal catti-

vo tempo per ben 49 giorni. Nel ‟67 una tempesta durò senza un a t-

timo di requie per oltre 23 ore e si temette per l‟integrità del faro. In

dicembre dell‟89 una nuova tempesta devastò la cucina e danneggiò

il portone d‟ingresso... Quanto a citazioni storiche, nessuno è in gra-

do di battere Grognon.

Solange de Matignon, chiamata in causa da Arval, non può far al-

tro che ammettere che nello scenario dipinto da Ferret le possibilità

di un intervento tempestivo da parte di una squadra di emergenza in

partenza da terra sono praticamente nulle. Le opinioni degli ultimi

ospiti presenti in studio non vengono quasi ascoltate dagli spettatori,

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nella cui mente riecheggiano le parole ammonitrici del capitano. I sa-

luti di rito con gli interminabili titoli di coda concludono la trasmis-

sione. Arval è soddisfatto: è sicuro di aver fatto centro anche stavol-

ta.

DALLA TRASMISSIONE TV sono trascorse parecchie settimane. Her-

vé e Grognon le hanno tristemente passate in una sorta di ferie forza-

te, in un limbo di cui non intravedono la conclusione e che li preoc-

cupa sempre di più. Nel frattempo la burocrazia si è messa lentame n-

te e faticosamente in moto per trovare una sistemazione ai due ex

guardiani. Al momento, di posti in altri fari non ce ne sono, neanche

in poco eccitanti paradis, e date le particolari competenze dei due,

non si sa proprio come impiegarli. Tanto più che sono ampiamente

oltre i quaranta e con titoli di studio alquanto modesti. A livello diret-

tivo si è convinti che ormai hanno ben poco da offrire al Servizio fari

e fanali: troppo vecchi e troppo poco “scolarizzati” per poterli ric i-

clare, anche con dei corsi ad hoc. Se invece che uomini fossero delle

macchine o delle navi, sarebbero già stati mandati alla demolizione.

Ma essendo uomini ed avendo dei diritti, Hervé e Grognon non

possono essere smantellati. Ed è così che tutto quello che si vedono

offrire è un modesto lavoro a tavolino: archivisti aggiunti alla sede di

Brest del Servizio nazionale fari e fanali. Un impiego che è più una

comoda (?) sistemazione in attesa del pensionamento che un lavoro

vero e proprio. Niente più aria aperta, niente più grandi spazi; solo

locali angusti, scartoffie e vecchi computer (gli scarti degli altri uffi-

ci). A nessuno dei due piace questa proposta. E come potrebbe? Ma

Grognon ha una famiglia da mantenere e in più è sempre stato il più

adattabile dei due. Ci pensa su e alla fine accetta, anche se a malin-

cuore. Hervé, benché sconsigliato da tutti, presenta le dimissioni dal

Servizio e se ne va sbattendo la porta. Tipico di lui, commentano i

colleghi alzando le spalle. Qualche settimana dopo, accetta l‟offerta

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di un amico e riprende il suo vecchio lavoro di pescatore. Al momen-

to Hervé vive in due camere di una modesta ma dignitosa pensione

sull‟isola di Ouessant.

AL CROSS CORSEN non c‟è mai stata tanta agitazione come in que-

ste ore. Il blackout contemporaneo di radio, radar, GPS e telefoni cel-

lulari è una situazione che finora non si era mai presentata. E nessuno

sa come gestirla, sempre ammesso che esista un modo per farlo. Si

spera che le decine di navi che stanno percorrendo i rails al largo di

Ouessant siano state tutte avvisate in tempo e abbiano deciso di fer-

marsi in attesa che l‟emergenza finisca, ma se qualche capitano deci-

desse nonostante tutto di proseguire? Per fortuna le condizioni del

mare sono discrete e il vento non supera i dieci nodi. Ma se peggio-

rasse nessuno osa pensare a quel che potrebbe accadere, e che è già

accaduto in passato. Nel 1978 in seguito a un‟avaria del timone e a

due tentativi falliti di traino, la petroliera Amoco Cadiz finì sugli

scogli di Portsall e riversò in mare il suo carico di 227 mila tonnellate

di greggio. Il petrolio andò a coprire 360 chilometri di coste, da Brest

a Saint-Brieuc: la più grande marea nera mai vista al mondo. Il 1999

fu l‟anno del naufragio di un‟altra petroliera, l‟Erika. Stavolta la tra-

gedia di una nuova marea nera di 10 mila tonnella di petrolio venne

evitata per un soffio.

Verso le dieci di sera viene riportato da alcuni pescatori che la lu-

ce del faro di Xaveron è spenta. La conferma avviene poco dopo. È

l‟emergenza nell‟emergenza. Si sa che alcune barche della Solitaire

du Figaro hanno deciso di passare per il canale di Fromveur. Le pri-

me sono attese fra poco più di tre ore. Nuove consultazioni frenetiche

tra CROSS Corsen, Brest e Parigi. C‟è una sola cosa da fare: deve in-

tervenire un elicottero dotato di verricello che porti un tecnico elet-

tromeccanico sopra Xaveron e lo cali in cima al faro appeso a un ca-

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vo d‟acciaio. Si può usare un Super Frelon della Base

dell‟Aeronautica Navale di Lanvéoc-Poulmic. Solo gli equipaggi del-

la BAN sono abilitati per questo tipo di missione, e quelli di Lanvéoc-

Poulmic, situata una decina di chilometri a sud di Brest, sono quelli

più a portata di mano. Per gli uomini della BAN questo tipo di opera-

zioni è quasi ordinaria amministrazione, dato che vengono freque n-

temente impiegati per recuperare equipaggi di navi e di battelli in a-

varia. La difficoltà supplementare stavolta sarà costituita dal fatto

che dovranno rinunciare all‟impiego di apparecchiature di telecomu-

nicazione e telerilevamento. Tutta l‟operazione dovrà svolgersi a vi-

sta, e di notte non sarà così semplice.

Ma quale tecnico può individuare e riparare il guasto in così breve

tempo, alla luce di una torcia elettrica, in un vecchio faro in mezzo al

mare? Dev‟essere qualcuno che lo conosce come le sue tasche, che

saprebbe trovare l‟avaria anche a tentoni e riuscirebbe a eliminarla in

qualche decina di minuti o anche meno. Solo due sono le persone in

grado di compiere questo miracolo.

Roger Hinault ha bisogno di calare un tecnico su Xaveron, uno

che gli risolva il guasto al faro in un tempo record, prima che i Figa-

ristes imbocchino il canale di Fromveur. Sa che molto probabilmente

da Hervé otterrebbe solo uno sprezzante rifiuto e decide di chiamare

Grognon direttamente a casa sua a Brest. Dopo qualche squillo a

vuoto risponde la segreteria telefonica. La voce registrata di una ra-

gazzina lo informa in tono allegro: “Siamo tutti in vacanza a Maior-

ca.” Precisa che ci staranno per due settimane, ma “se volete potete

lasciarci un messaggio dopo il bip. Ciao!”

«Perfetto!» pensa Hinault. «Adesso non ho scelta. Devo per forza

chiedere aiuto a Hervé. E trovare il modo di convincerlo a collabora-

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re non sarà una cosa facile…» Dopo un rapido giro di telefonate e

numerosi tentativi a vuoto, lo trova finalmente al Ty Korn, un pub

che fa anche servizio di ristorante e offre specialità a base di pesce e

frutti di mare. Non c‟è tempo per i convenevoli: Roger Hinault gli

spiega rapidamente la situazione e ciò che vuole da lui. Dopo un lun-

go silenzio teso arriva la replica di Hervé:

«Così adesso siete nei guai. Avete deciso che i guardiani dei fari

non servono più, avete installato tutte le vostre meravigliose e infal-

libili apparecchiature elettroniche e ora, guarda un po‟, vi siete accor-

ti che possono anche guastarsi e che se al faro non c‟è nessuno e la

luce si spegne siete nei guai. In un mare di guai.»

«Senti Hervé, probabilmente hai tutte le ragioni del mondo, ma

adesso siamo in emergenza e io non ho tempo di stare a discutere.

Ho bisogno di una tua risposta. Adesso. Dunque, te lo chiedo di nuo-

vo: sei disposto ad aiutarci? »

«Prima rispondi tu a me. La mia domanda è molto semplice: per-

ché? Perché dovrei farlo?»

Hinault sospira ma pensa “mantieni la calma”. «Potrei elencarti

almeno una decina di motivi diversi per cui dovresti farlo. Non vo-

glio tirare in ballo la precettazione: è un sistema per obbligare la ge n-

te a fare qualcosa che non mi è mai piaciuto, e comunque non ab-

biamo tempo di cercare un giudice, spiegargli tutta la faccenda e a-

spettare che firmi tutte le maledette carte che servono in questi casi.

Non voglio neanche allettarti con la promessa di un premio sosta n-

zioso o con gli articoli di giornale che ti descriverebbero come un e-

roe, perché so che non sei una persona avida e che non te ne frega

niente di diventare famoso. Ti dico solo che, senza il tuo aiuto, delle

persone potrebbero morire: i ragazzi della Solitaire stanno navigando

verso Saint-Gilles e alcuni di loro passeranno per il Fromveur…»

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«Vuoi dire quei giovanotti pieni di soldi che invece di lavorare si

fanno le traversate oceaniche in barca a vela? Sai quanto devo sgob-

bare io per prendere meno di un decimo di quello che guadagna quel-

la gente in una sola regata? Lo fanno per sport, per divertimento.

Nessuno li ha obbligati. Dovrei rischiare la vita per loro?»

«Hervé, sta‟ a sentire: tra quei ragazzi potrebbe esserci anche…»

«Anche chi?»

«Anche tuo figlio. Prima di partire mi ha confidato che…»

«Cosa? Yann partecipa alla Solitaire? Ma è un ragazzino, ha solo

diciannove anni. Come hai fatto a permetterglielo?»

«Yann è in gamba. Fa regate da dieci anni e sei stato proprio tu a

spingerlo a cominciare. Tu gli hai insegnato le manovre di base e...

Comunque, quando mi ha confidato cosa voleva fare, ho cercato di

convincerlo a prendere la rotta esterna, al largo di Ouessant. Del re-

sto è quello che faranno quasi tutti gli altri. Ma sai bene com‟è Yann,

sai quant‟è testardo. Quando si mette in testa una cosa… chissà da

chi avrà preso, eh?»

«Sicché ha deciso di passare per il Fromveur? »

«Voleva fare la rotta interna perché è la più breve e, se le condi-

zioni delle correnti sono favorevoli, è anche la più veloce, lo sanno

tutti. Solo che è anche la più rischiosa. In questo momento potrebbe

essere all‟imbocco del canale o magari già dentro. » Una breve pa u-

sa, mentre Hervé digerisce la notizia, poi: «Non sto cercando di i m-

brogliarti: è la verità! Allora che mi rispondi?»

«Manda qualcuno a prendermi. Sono pronto. Ma finita questa sto-

ria…»

«Ne riparleremo quando sarà finita.»

YANN è ormai vicino all‟imbocco del canale Fromveur che separa

l‟isola di Ouessant da quella di Molène, ed è arrivato al momento

giusto. Proprio come aveva previsto. L‟unica seccatura è che da al-

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cune ore non riesce più a ricevere i bollettini di MétéoFrance e che il

suo GPS sta dando i numeri, cosa che finora non era mai accaduta.

Curiosa questa concomitanza di eventi, anche se non gli sembra che

la sua radio sia veramente guasta, piuttosto c‟è un sacco di interfe-

renze, un crepitare continuo che copre tutte le comunicazioni su ogni

banda di frequenza. Ed è strano, pensa, visto che di notte la ricezione

è sempre migliore che di giorno. Comunque non è molto preoccupa-

to, perché quelle acque, quelle secche, quelle coste e quegli scogli li

conosce a fondo: lui è nato proprio da quelle parti. E poi a Ouessant

dagli anni ‟80 ci sono una torre radar di 72 metri di altezza alla punta

Corsen e un CROSS (centro regionale operativo di sorveglianza e

soccorso), uno dei cinque presenti lungo le coste francesi, che gesti-

sce il traffico marittimo dal Mont Saint-Michel alla Punta di Pen-

marc‟h, e che mantiene la sorveglianza radio e radar 24 ore su 24. I

disturbi radio saranno sicuramente momentanei.

Yann individua facilmente a tribordo il faro dello Stiff, anch‟esso

dotato di apparecchiature radar e in contatto permanente col CROSS

Corsen. È situato sulla sommità dell‟impressionante falesia che porta

lo stesso nome ed è il punto culminante dell‟isola. Adesso dovrebbe

apparire all‟orizzonte anche il secondo punto di riferimento, Xave-

ron. La luce bianca di quello storico faro dovrebbe apparire a babor-

do, ma invece c‟è la completa oscurità. Com‟è possibile? Se vede lo

Stiff, come mai non vede anche Xaveron? Yann comincia ad avere

dei dubbi, comincia a temere di aver sbagliato rotta, di essere molto

lontano da dove pensava di essere; e forse anche le indicazioni della

bussola, che tra l‟altro da qualche tempo gli appare assai instabile,

non sono attendibili. Il vento sta rinforzando e lui sta per iniziare una

gimkana tra gli scogli del mare d‟Iroise, senza l‟aiuto del GPS e della

radio, e con una bussola che sta dando i numeri. Ed è notte. I punti di

riferimento lungo le coste non corrispondono a quelli segnati sulla

sua carta. Quello che ha identificato come faro dello Stiff è verame n-

te tale, o magari è quello di Creac‟h a ovest, o quello del Four a est?

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Comincia ad aver paura. No, nervi a posto! Non deve cedere al pani-

co. Deve agire con logica e raziocinio. Sulla mensola accanto alla ra-

dio VHF trova il suo almanacco della Bretagna. Lo sfoglia rapidamen-

te finché arriva alla pagina dello Stiff: due lampi rossi ogni venti se-

condi, portata 24 miglia. Sì, corrisponde. Dunque dev‟essere proprio

lo Stiff quello che vede alla sua destra. Ma allora come mai non

scorge la luce di Xaveron? Il suo ciclo, che si ripete ogni ventiquattro

secondi, è di due lampi lunghi e uno breve; se si rileva una luce rossa

in un settore ampio 131°, si sa di stare navigando in una zona perico-

losa. La portata è di 19 miglia per il bianco e di 8 per il rosso. Ma

Yann non vede né il bianco né il rosso. Perché?

COSTRUITA nel 1920 sulle terre appartenute ai baroni di Poulmic,

di cui porta le insegne, la base aeronavale di Lanvéoc-Poulmic è la

più occidentale del territorio metropolitano francese. Sui 303 ettari

della sua superficie totale trovano posto la pista principale in ceme n-

to di 1123 metri di lunghezza, orientata 060°-240°, e una secondaria

in erba di 650 metri, orientata 130°-310°. Nonostante sia assai pros-

sima al mare, la base si trova a 90 metri d‟altezza.

Hervé vi è stato appena depositato da un elicottero leggero partito

da Ouessant. Esperienza non nuova per lui, ma che in questo caso

non ha potuto gustare come avrebbe fatto in condizioni normali. I

suoi pensieri sono tutti concentrati su Yann, un figlio che non vede

da anni e non sa bene neanche quale aspetto abbia adesso. Un raga z-

zo che in questo momento potrebbe rischiare di finire sugli scogli,

sfasciare il suo costoso giocattolo e annegare travolto dalle onde o

risucchiato dalle correnti micidiali del Fromveur.

Ma non c‟è tempo per questi pensieri cupi: Hervé viene scortato

direttamente in sala vestizione. Indossata la tuta stagna, obbligatoria

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per tutti i sorvoli marittimi, passa in sala briefing dove riceve delle

brevi spiegazioni su come si svolgerà la missione. Poi, a bordo di un

pullmino, di corsa verso il Super Frelon che è fermo a inizio pista.

Attorno a esso intravede i tecnici di terra che si stanno dando da fare

negli ultimi preparativi e con i rifornimenti. Nell‟oscurità della notte

Hervé distingue a malapena il profilo del grosso elicottero, ed è solo

quando lui e il resto dell‟equipaggio lo raggiungono che si rende con-

to della sua imponenza. Bastano poche misure per darne un‟idea suf-

ficientemente precisa: lunghezza 23,03 metri, diametro del rotore

principale 18,90, altezza 6,76. Le sei pale del rotore principale sono

spinte da tre turbine da 1570 CV ciascuna. L‟equipaggio standard è

formato da pilota, copilota, verricellista, meccanico, sommozzatore,

medico e infermiere. Può trasportare fino a 27 uomini o 15 feriti in

barella.

L‟equipaggiamento di Hervé viene completato da un gilet di sal-

vataggio, un‟imbragatura e un casco. I serbatoi del Super Frelon

hanno imbarcato due tonnellate di carburante, per un volo previsto di

un‟ora e trenta al massimo. I soliti controlli delle apparecchiature d i-

cono ok, le turbine vengono avviate in rapida sequenza, la velocità

del rotore aumenta e diviene assordante il rumore dei motori e delle

pale che tagliano l‟aria. Con una breve, gracchiante comunicazione la

torre dà l‟autorizzazione al decollo. Un piccolo strappo e sono subito

a qualche decina di metri da terra. Il grosso elicottero si libra per un

momento sul posto, poi vira verso ovest e prende la direzione del fa-

ro di Xaveron. L‟altezza sul livello dell‟oceano viene mantenuta a

cento metri, la velocità a centosessanta chilometri orari. La radio

funziona male e in certi momenti non funziona per niente, così come

il radar di bordo, ma pilota e copilota sono dotati di visori notturni,

che intensificano la luce proveniente dal quarto di luna e da qualche

stella: non è come pilotare di giorno, ma sono di grande aiuto. Senza

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i visori e con le apparecchiature elettroniche fuori uso la missione sa-

rebbe semplicemente impossibile.

Se volare di notte non è mai facile, in questo caso le difficoltà so-

no più che raddoppiate. Nonostante la grande esperienza e

l‟eccellente preparazione tecnica dei piloti, e malgrado l‟aiuto dei v i-

sori, attraverso i quali il paesaggio circostante appare colorato di ver-

de e di bianco, ci vuole quasi mezz‟ora per individuare l‟obiettivo

nell‟oscurità. Una volta raggiunto Xaveron, il Super Frelon si piazza

in volo statico a cinque metri sopra le sue antenne radio. L‟impianto

parafulmini circonda come una gabbia la cupola contenente le appa-

recchiature d‟illuminazione, gli specchi di Fresnel e i meccanismi di

rotazione. La piattaforma che sostiene la cupola è circondata da

un‟antiquata merlatura di modo che tutto l‟insieme ricorda molto da

vicino la torre di un castello medievale. Non c‟è tempo da perdere:

l‟imbragatura di Hervé viene agganciata con un moschettone al cavo

d‟acciaio del verricello elettrico. Un ultimo controllo e il portello la-

terale viene fatto scorrere all‟indietro e bloccato. Sotto di lui una ses-

santina di metri di vuoto nell‟oscurità quasi completa. A Hervé se m-

bra di essere attirato da una forza misteriosa in un buco senza fondo,

una voragine vorticante. Prova una sensazione strana, mai avuta pri-

ma in vita sua. Si sente come sdoppiato: da una parte c‟è l‟uomo che

non ha mai amato molto volare e che ha le vertigini già quando guar-

da in giù da una decina di metri d‟altezza; dall‟altra c‟è il padre che

teme per la vita di suo figlio, e l‟ex capitano che è ancora tormentato

dal ricordo di Victor, e non vuole altri morti sulla coscienza. C‟è una

gran confusione nella sua testa. E c‟è tutta quella gente che si è mo-

bilitata per lui: si aspettano che rimetta in funzione Xaveron, che fac-

cia quello che non sarebbe stato necessario se laggiù a Parigi non a-

vessero deciso di automatizzare tutti i maledetti fari di Francia. Il

verricellista gli posa una mano sulla spalla. È già il momento? Hervé

sente che non ce la farà mai. Grognon… lui non ha mai avuto pro-

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blemi di vertigini. Perché non hanno chiamato lui? Ma non è più

tempo di farsi domande inutili, Hervé si accorge di stare scendendo

lentamente verso la piattaforma. C‟è del vento in quota, otto o nove

nodi, e l‟ex guardiano del faro dondola un po‟ mentre viene calato.

Ha gli occhi chiusi e il cuore batte così forte che gli fa male il petto.

Una luce all‟improvviso. Il copilota ha acceso il potente proiettore

che si trova sotto la pancia dell‟elicottero e adesso tutta l‟area del fa-

ro è illuminata a giorno. Hervé spalanca gli occhi giusto in tempo per

distinguere una sbarra di ferro e aggrapparvisi. Non riesce quasi a

crederci ma ce l‟ha fatta, è arrivato tutto intero in cima al faro di Xa-

veron. Posa i piedi sull‟ampio parapetto di pietra e scende con pr u-

denza all‟interno. Si era fatto tirar su chissà quante volte dal battello,

ma quello era niente in confronto a farsi calare di notte da un elicot-

tero. Apre il moschettone, si sgancia dal cavo e si mette all‟opera. Sa

che non c‟è molto tempo a disposizione. Estrae da una tasca una po-

tente torcia elettrica, la punta sul pilota dell‟elicottero e fa il segnale

convenuto per confermare che tutto è andato bene, poi esamina gli

impianti della piattaforma e illumina l‟interno della cupola. Trovare

la causa dell‟avaria è facile. Umidità e salsedine hanno lavorato be-

ne: parecchi degli elementi della gabbia parafulmini sono molto da n-

neggiati, corrosi e smangiati dalla ruggine. Gli ultimi temporali estivi

le hanno dato il colpo di grazia, dopodiché le delicate apparecchiatu-

re della cupola sono rimaste del tutto prive di protezione. Hervé pun-

ta la torcia all‟interno e illumina numerosi segni di bruciature e anne-

rimenti. È un miracolo che un incendio non abbia distrutto tutto, o

forse l‟impianto di estinzione automatica è entrato in funzione ed è

riuscito a spegnere le fiamme. Di certo non ha potuto impedire che le

apparecchiature venissero irreparabilmente danneggiate. Là dentro

dev‟essere sostituito praticamente tutto. A tentare delle riparazioni

provvisorie neanche pensarci.

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Hervé si aspettava qualcosa del genere e ha pensato che l‟unico

modo sicuro per far riaccendere il faro di Xaveron fosse quello di in-

stallare un generatore portatile, che avrebbe lavorato per tutta la not-

te. Poi, al sorgere dell‟alba dovrà iniziare il lungo e complesso inter-

vento per sostituire gli apparecchi distrutti, sempre che siano dispo-

nibili tutti i pezzi di ricambio. Ma l‟emergenza è adesso, finché è

notte e finché non passa la tempesta elettromagnetica. Dopo sarà tut-

to più semplice e meno urgente. Hervé fa con la torcia il secondo se-

gnale convenuto. Lassù hanno capito: ragazzi in gamba quelli di

Poulmic… All‟interno della carlinga un generatore portatile viene

piazzato nella robusta rete color arancione che si usa per trasferire

oggetti ingombranti tra terra ed elicottero. La rete viene agganciata al

cavo del verricello e sollevata, poi il braccio del verricello ruota

all‟infuori e il carico scende verso Hervé. Sono passati oltre dieci

minuti e lui ne ha ancora venti per piazzare l‟impianto di illumina-

zione provvisorio, collegarlo al generatore, programmare il timer,

accendere il piccolo motore a scoppio, controllare che tutto funzioni

ed essere recuperato dall‟elicottero. Il carico scende lentamente e ar-

riva all‟altezza del parapetto merlato. Hervé si sporge per afferrare la

rete e la tira all‟interno. Il verricellista fila di un altro metro il cavo

d‟acciaio, fino a posarlo delicatamente sulla piattaforma del faro.

Hervé sgancia la rete, estrae il generatore e i due proiettori e comin-

cia a lavorare. I minuti passano veloci, troppo veloci. Trasporta uno

ad uno i componenti nella cupola. Piazza il proiettore principale poi

il secondario, quello schermato di rosso, che copre più o meno la zo-

na pericolosa di 131°. Programma il timer in modo che si stabilisca il

ciclo di luce e oscurità caratteristico di Xaveron. Collega il tutto al

generatore e preme il pulsante di accensione del piccolo motore a

scoppio, che scaricherà il gas combusto all‟esterno per mezzo di un

tubo. Il motore si avvia al secondo tentativo ed entra tranquillamente

a regime. Incredibilmente tutto sembra funzionare a dovere. Hervé

controlla per una trentina di secondi la sua opera, ma non ha neanche

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il tempo di congratularsi con sé stesso che è già tempo di andarsene.

È oltre il limite massimo di almeno cinque minuti e lassù

sull‟elicottero gli stanno dicendo di sbrigarsi a risalire.

YANN sta scrutando disperatamente l‟orizzonte davanti alla sua

prua, ma la luce di Xaveron non appare ancora. Che cosa è successo?

Ormai deve per forza essere alla sua portata. Passano lentamente i

secondi, poi i minuti. Sente una sensazione di gelo crescere e diffo n-

dersi dentro di lui. Ha solo diciannove anni e un‟esperienza limitata

di navigazione notturna. Non si è mai trovato veramente in una situa-

zione di pericolo, non ha mai provato l‟impressione di stare rischian-

do la vita. La paura è una cosa nuova per lui: è la sensazione che hai

perso il controllo, che tutto ti sfugge di mano e che non sai cosa fare.

Una volta tutti i veri marinai sapevano trovare la rotta se guendo le

stelle. Adesso, col GPS e tutto il resto, è tutto molto più facile, fin

troppo. E se un sistema elettronico va in crisi, diventa davvero diffi-

cile farvi fronte per chi sta navigando in una piccola barca. Adesso

poi che è partita anche la radio e che la bussola sta dando i numeri…

La verità è che si è cacciato in una trappola. Perché ha scelto quella

rotta? Perché non ha preso quella esterna, molto molto più sicura? Ha

voluto fare il furbo, ha pensato di essere più in gamba di gente che ha

venti anni di esperienza più di lui e che ha navigato in tutti i mari e

gli oceani del mondo.

La randa e il fiocco stanno sbatacchiando, hanno perso il vento. Il

suo Bénéteau sta rallentando. Yann era talmente concentrato a scru-

tare il mare davanti a lui che ha dimenticato di regolare le vele. Se

perde velocità, perde anche il controllo sulla rotta e allora il mare può

farlo andare dove vuole lui… Qualche rapida manovra e la velocità

torna ad aumentare. Il mare è mosso, si salta un po‟. Niente di preoc-

cupante, ma è un‟altra piccola difficoltà che si aggiunge alle altre.

Come se ce ne fosse bisogno. Il tempo continua a scorrere, e dove si

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dovrebbe trovare Xaveron c‟è sempre il buio completo. Se non è a n-

dato completamente fuori rotta, allora c‟è solo una spiegazione pos-

sibile: il faro è guasto, ha avuto un‟avaria e tutti i sistemi di controllo

sono saltati. Se là ci fosse stato Hervé, tutto questo non sarebbe ac-

caduto. Yann non gli ha mai perdonato di aver lasciato lui e sua ma-

dre quando aveva appena sette anni. Quando accadde, giurò che non

avrebbe avuto mai più rapporti di alcun genere con suo padre. E fino-

ra è andata proprio così: non l‟ha mai più rivisto, non gli ha scritto e

si è sempre rifiutato di parlargli, anche per telefono. Sapeva perfe t-

tamente dov‟era e cosa faceva per vivere, ma per lui Hervé era come

se fosse morto.

Quanto vorrebbe rivederlo adesso! Vorrebbe stringergli la mano,

magari abbracciarlo… in questo momento si sente molti anni meno

di quelli che ha realmente, ha paura e non c‟è nessuno a rassicurarlo,

a dargli quell‟aiuto di cui sente disperatamente bisogno. Roger Hi-

nault è stato un buon patrigno, si è preso cura di lui e di sua madre.

Grazie a lui Yann ha vissuto un‟infanzia e una giovinezza serene. Ha

un sacco di motivi per essergli affezionato, per volergli bene… ma

un padre è un‟altra cosa e adesso Yann, per la prima volta nella sua

vita, sente uno struggente desiderio di rivederlo, di stare con lui, di

parlargli e ascoltarlo, insomma di conoscerlo e di recuperare tutti

quegli anni persi soprattutto per colpa sua, per averlo voluto conside-

rare come un nemico e un traditore. Ma se riuscirà a cavarsela… ehi!

Cosa succede? Laggiù, dov‟era il buio più completo, si è accesa una

luce rossa. Possibile che sia Xaveron? Yann conta febbrilmente i se-

condi. Sì, corrisponde: è Xaveron, deve essere Xaveron! Ma allora

sta navigando nel settore pericoloso. Proprio dove non avrebbe dovu-

to trovarsi. Deve correggere immediatamente la rotta prima di finire

sulle secche o sugli scogli. Poche manovre convulse al timone, le ve-

le riallineate, e il lento scorrere dei secondi. Rosso… rosso… ros-

so… no, bianco! È uscito dal settore pericoloso, sta navigando nella

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direzione giusta. Chissà, forse riesce a recuperare il tempo perduto,

forse può ancora conquistare un discreto piazzamento all‟arrivo a

Saint-Gilles. Chissà dove si trovano i suoi avversari? Dove saranno

Armel, Kito, Eric, Pascal, Dominic, Marc e… Ma che diavolo! Si è

spento di nuovo. Xaveron – quel maledetto faro – è di nuovo scom-

parso! «Che stanno facendo laggiù? Vogliono proprio farmi sfasciare

la barca sugli scogli!»

CHE DIAVOLO è successo al generatore? – si domanda Hervé.

All‟improvviso il motore ha tossicchiato, ha perso colpi, si è sforzato

di continuare a girare ma è stato inutile: si è spento e non si è r iacce-

so più. Hervé lo fissa con costernazione. Tutto funzionava regolar-

mente fino a un attimo fa, perché si è spento? Intanto il copilota fa

segno a Hervé che non possono più aspettare, devono ripartire subi-

to, altrimenti non avranno carburante a sufficienza neanche per rag-

giungere la terraferma. Hervé segnala ok. Per un breve momento la

sua radio portatile funziona e ha il tempo di dire all‟elicottero: «Io

resto qui, venite a recuperarmi domattina.» L‟ultimo messaggio dal

Super Frelon è: ok, in bocca al lupo! Quindi si allontana rapido verso

est e in pochi secondi viene inghiottito dall‟oscurità dell‟oceano. U-

nico riferimento le luci di posizione che pulsano sempre più debol-

mente fino a sparire anch‟esse. Ora Hervé è solo, ma questa non è

una novità per lui. Forse è già troppo tardi, ma non intende arrender-

si: deve scoprire perché il motore si è spento. Rientra nella cupola,

controlla tutti i collegamenti, i cavi elettrici, il timer, i tubi… tutto

sembra a posto… no, un momento: manca il tubo che porta aria fre-

sca al carburatore dall‟esterno! Il motore ha consumato tutto

l‟ossigeno che c‟era nella cupola e poi, inevitabilmente, si è spento.

Sì, è quello il problema. Come un idiota si è scordato di attaccare al

filtro dell‟aria il tubo che pesca all‟esterno l‟aria fresca. Un momento

dopo, il motore ha ripreso a funzionare regolarmente e i proiettori si

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accendono e si spengono con perfetto sincronismo. Naturalmente la

portata è minore di quella dell‟impianto originale – forse una decina

di miglia, forse qualcosa di meno – ma è quanto basta per evitare che

chi sta navigando in quella strana notte vada a sfracellarsi sugli sco-

gli.

XAVERON si è riacceso. I suoi lampi bianchi invitano i marinai a

orientare la barra verso di lui; quelli rossi ammoniscono “stai r i-

schiando grosso, cambia rotta prima che sia troppo tardi”. C‟è Hervé

a controllare che tutto fili liscio e non smetterà fino all‟alba. Yann

saprà il nome di chi lo ha tirato fuori dai guai solo all‟arrivo a Saint-

Gilles, dai giornalisti. Con l‟aiuto del faro riesce a passare il From-

veur senza danni, ma il tempo che ha perduto alla sua ricerca non po-

trà più recuperarlo. Alla fine della seconda tappa della Solitaire si ri-

trova appena cinque posti più avanti di quando era partito da Por-

tsmouth ed era ventinovesimo in classifica. L‟idea era buona, il per-

corso che aveva scelto richiedeva audacia e sangue freddo. Yann sa-

peva di potercela fare perché quelle acque le conosce assai bene. Ma

il diavolo ci ha messo la coda e quelli che hanno scelto una rotta più

lunga e tranquilla sono stati premiati. È una dura lezione che il ra-

gazzo non dimenticherà.

DELLA VICENDA del giovane Hinault e di suo padre Hervé, ex con-

trôleur del faro di Xaveron, si sono impadroniti i giornalisti. Le ri-

chieste di interviste sono talmente numerose che Yann non ha il tem-

po di concederle a tutti: ci sono ancora due tappe da coprire e lui è

deciso a dare battaglia sino alla fine. La sua partecipazione a uno

“speciale” sulla vicenda dell‟attraversamento del Fromveur viene r i-

chiesta anche dalla TV nazionale, e quella non è certo una richiesta

che un ragazzo ambizioso come lui possa rifiutare. Viene organizzato

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anche l‟incontro tra Yann e suo padre, Hervé. L‟abbraccio in diretta

sembra uno dei tanti a cui si assiste regolarmente in trasmissioni

strappacore, quelle dove i buoni sentimenti e le sdolcinature vengono

riversati a fiumi sui telespettatori più ingenui, che credono che ciò

che appare su uno schermo sia tutto vero e reale.

Stavolta però è diverso. Questa è una di quelle rare occasioni in

cui l‟abbraccio è sincero, le emozioni non sono costruite a tavolino e

gli occhi non sono umidi grazie a qualche goccia di glicerina, ma a

causa di lacrime genuine. Hervé esce dagli studi televisivi con un

braccio intorno alle spalle di Yann, che ha ancora negli occhi le im-

magini del suo naufragio sfiorato e nel cuore l‟emozione di aver r i-

trovato un padre.

Nella terza tappa di 537 miglia, Saint-Gilles – Belle-Île – Boa Bu-

rela – Gijón, Yann è concentratissimo e pieno di energie, e riesce ad

arrivare tra i primi dieci al faro dei Birvideax, a nord di Belle-Île. È

uno dei passaggi chiave della Solitaire di quest‟anno e va doppiato in

senso antiorario. Poi non ci sono particolari problemi di rotta: si trat-

ta di trovare il miglior compromesso tra il percorso più breve e le più

favorevoli condizioni meteo, quelle con venti tesi e costanti che

spingono nella giusta direzione fino alla boa Burela a nord-ovest del-

la Coruña, che andrà doppiata anche questa in senso antiorario.

Un‟area di bassa pressione nel Nord Atlantico promette però tempo

cattivo per almeno metà gara. All‟arrivo sotto la costa spagnola il

tempo dovrebbe migliorare, e allora fino a Gijón si adotteranno le so-

lite tecniche che sfruttano le brezze. La tappa è la più lunga di tutte,

ma sulla carta è anche la più facile. I Solitaires navigheranno a con-

tatto, tenendosi d‟occhio costantemente, spiando ogni regolazione di

vele e ogni variazione di rotta degli avversari. Lo stress sarà alto.

Tutte le apparecchiature elettroniche hanno ripreso a funzionare re-

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golarmente e questo darà un valido aiuto ai concorrenti, specialmente

nella lunga traversata del golfo di Biscaglia.

Dopo un primo tratto piacevole in cui spira un leggero vento da

est-sud-est, arriva da ovest la perturbazione. Era attesa e tutti sono

preparati ad affrontarla, ma è dura. La seconda, massacrante parte

della tappa si svolge sotto una pioggia che scroscia senza pietà e un

vento a raffiche che cambia di continuo direzione. Qui si tratta di re-

sistere, di non mollare, lottando contro la stanchezza che può far

commettere gravi errori. In effetti, alcuni concorrenti sono costretti al

ritiro per aver disalberato o per aver strappato il genoa. Avvicinando-

si alle coste spagnole il tempo finalmente migliora e i Figaristes pos-

sono tirare il fiato, per un po‟. Alla virata della boa Burela si porta

nettamente in testa Charles Caudrelier. Il lungo percorso sotto costa

che segue è estremamente tattico e bastano differenze minime di re-

golazione dello spi e piccole variazioni nella distanza dalla terrafer-

ma per incrementare ulteriormente o veder svanire del tutto il van-

taggio accumulato. Si fila a quasi 20 nodi, con vento in poppa prove-

niente da ovest. Le Bénéteau tengono bene il mare anche a questa ve-

locità, si tratta solo di fare attenzione a non squarciare lo spi , che sta

sopportando uno sforzo al limite della sua resistenza. Il finale, che si

gioca tra Kito de Pavant e Charles Caudrelier, è estremamente incer-

to. I due si alternano al comando ogni pochi minuti, cercando ciascu-

no di portar via il vento all‟avversario, poi Kito commette un piccolo

errore dovuto probabilmente a un brevissimo colpo di sonno. Pochi

secondi di torpore per la fatica accumulata che bastano a Caudrelier

per spuntarla e tagliare per primo la linea d‟arrivo della terza tappa.

All‟arrivo a Gijón Yann si ritrova quindicesimo in classifica gene-

rale. La sua risalita dall‟abisso, in cui era ritornato dopo la sfortunata

seconda tappa ha del miracoloso. Yann è molto soddisfatto.

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La quarta e ultima tappa, di 316 miglia, prevede una seconda tra-

versata del golfo di Biscaglia quasi in senso contrario alla preceden-

te. Si parte da Gijón e, dopo un lungo tratto in mare aperto, arrivati a

pochissima distanza dalla costa francese, si doppia l‟île de Groix in

senso orario, si torna indietro per un breve tratto e si doppia per la

seconda volta Belle-Île in senso antiorario; a questo punto si punta su

Quiberon, che è il porto di arrivo finale della Solitaire. La prima lun-

ga parte del percorso presenta gli stessi problemi della precedente

traversata in mare aperto, problemi enfatizzati dalla consapevolezza

che chi sarà primo a Quiberon in classifica generale, sarà il vincitore

della regata 2004. Dunque stress al massimo, abbinato alla stanche z-

za accumulata nelle tappe precedenti. Gli anziani sono favoriti per la

loro esperienza, ma i giovani recuperano più in fretta le energie spe-

se. Yann, psicologicamente carico per le posizioni guadagnate e per

le sue vicende familiari, si sente in ottima forma e pensa di poter

competere con i migliori, i suoi eroi di quando aveva quattordici an-

ni. Adesso sta regatando con loro, e non è un sogno!

Ma neanche in quest‟ultima tappa il tempo è dalla parte dei Soli-

taires: una nuova vasta area di bassa pressione sull‟Atlantico genera

condizioni meteo molto perturbate. Il vento soffia a oltre venticinque

nodi prevalentemente da ovest-sud-ovest e cambia spesso direzione.

Il mare è agitato con onde abbondantemente oltre i due metri

d‟altezza, ma almeno non piove. Nel complesso niente di veramente

pericoloso, al punto da far decidere al comitato di gara la sospensio-

ne della tappa, ma abbastanza per rendere la vita difficile ai concor-

renti, specialmente di quelli con meno esperienza o più predisposi-

zione al mal di mare. A Yann quel tipo di onde non fa paura: ne ha

viste di ben peggiori nel mare d‟Iroise, uno dei più agitati del mon-

do. Segue invece attentamente ciò che fanno Kito, Armel e Pascal.

Con gli spinnaker gonfi come palloni multicolori, i tre hanno già

preso una buona distanza dagli inseguitori e adesso si spiano a vi-

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cenda. Sanno che la vittoria se la giocheranno loro tre. La velocità

delle barche è sui 13-14 nodi e il vento continua ad aumentare. A

metà corsa il vento raggiunge i 46 nodi. Quelli che hanno il coraggio

– o l‟incoscienza – di tener su lo spi anche in queste condizioni, rie-

scono a toccare i 25 nodi di velocità. Ma basta un niente per farlo e-

splodere e tagliarsi fuori all‟istante dalla gara. Ed è quello che acca-

de anche a un campione come Jérémie Beyou. Il suo spi non resiste a

una raffica particolarmente forte e si straccia in più punti come un

vecchio lenzuolo. Il tempo di sostituirlo con quello di riserva, e Be-

you è già molto indietro rispetto ai primi. Sarà una tappa a tempo di

record o una tappa con un record di ritiri. Al doppiaggio dell‟île de

Groix, quando ricompare il sole, è in testa Kito. A Belle-Île passa

davanti a tutti Pascal. Ma è Armel Le Cléac‟h che alla fine beffa en-

trambi tagliando per primo il traguardo di Port Haliguen nella baia di

Quiberon. Kito de Pavant arriva trentotto secondi dopo, e Pascal Bi-

dégorry undici secondi dopo Kito. Un finale di regata spettacolare

come pochi, che entusiasma gli appassionati in mare in attesa dei

concorrenti sulle loro barche. Numeroso e competente anche il pub-

blico a terra. La giornata limpida, il vento teso e l‟incer tezza fino

all‟ultimo sul vincitore di tappa hanno regalato agli spettatori un fi-

nale come raramente si è visto. Dalla somma dei tempi parziali, vin-

citore della trentacinquesima edizione della Figaro-Bénéteau risulta

essere Kito de Pavant, che batte Armel Le Cléac‟h di un‟inezia: ap-

pena un minuto e tredici secondi. Terzo Eric Drouglazet a tre minuti

e tre secondi dal vincitore. Pascal è solo quarto, andrà meglio la

prossima volta… Dunque la bouteille ad Armel, che festeggia la vit-

toria di tappa con un‟esplosione di schiuma dalla sua Magnum Dom

Perignon, e a Kito la classifica generale. È lui che sarà incoronato roi

de la Solitaire 2004. Ma è solo un anticipo perché la cerimonia uffi-

ciale di premiazione avverrà nella serata del 15 agosto. E dato che gli

organizzatori non sono avari di premi e riconscimenti, ce ne saranno

un po‟ per tutti, dal Grand Prix Aigle di classifica generale, al Bouée

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Radio France, al Record Bell & Ross, al Record Argos, e altri anco-

ra.

Yann conquista la nona piazza, e per un bizuth arrivare entro i

primi dieci a soli 19 anni è un‟impresa notevolissima. Tutti gli esper-

ti pronosticano per lui una carriera piena di successi. Così, un po‟ per

la sua spettacolare rimonta, un po‟ per la vicenda del Fromveur e per

suo padre, il vero personaggio della regata di quest‟anno non è Kito,

il vincitore, ma Yann Hinault, un ragazzo che alla sua prima parteci-

pazione alla Solitaire è giunto nono, a un‟ora e sedici minuti dal pri-

mo classificato.

Quanto a Hervé, è diventato un personaggio popolare quasi come

suo figlio. Il talkshow a cui ha partecipato a TéléBrest è stato ritra-

smesso su France 2 e ormai la sua storia è conosciuta in tutta la na-

zione. Le sue critiche alla politica di automatizzazione dei fari fran-

cesi arrivano lontano, fino a Parigi, alla “Direzione degli Affari Ma-

rittimi e della Gente di Mare” e ancora più in alto, al Ministero della

Marina, dove si è particolarmente sensibili agli umori della “maggio-

ranza silenziosa” abilmente pilotata dai media televisivi.

Quattro settimane dopo la fine della Solitaire, in settembre, il Mi-

nistero della Marina decide di creare una nuova figura giuridica alla

Divisione Fari e Fanali: un Ispettore generale con ampi poteri giuri-

sdizionali che faccia da collegamento tra gli “Affari marittimi”, la

Protezione Civile e la BAN, e tenga sotto stretto controllo lo stato di

operatività dei fari automatizzati, specialmente i purgatoire e gli en-

fer. Il posto di ispettore per la zona di Brest è stato offerto a Hervé.

Si potrebbe anzi dire che è stato creato apposta per lui. E un tale ri-

conoscimento delle sue capacità e della sua esperienza potrebbero

perfino fargli decidere di rinunciare al vecchio, ma sempre amato,

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mestiere di pescatore. Ha promesso che ci penserà su, e molto seria-

mente.

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Mördwand

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(Dalla prima pagina della “Tribune de Genève”:) Grindelwald, 28

giugno. Un altro lutto nel mondo dell'alpinismo, la “parete assass i-

na” ha colpito ancora. La vittima questa volta è Lucien Grognard,

nostro concittadino di 23 anni. Neo-ingegnere laureatosi alla presti-

giosa École Polytechnique di Parigi, il giovane intendeva festeggia-

re la brillante conclusione dei suoi studi con una scalata memorabi-

le. Partito insieme a tre amici da Alpiglen, era giunto quasi a metà

dell'impegnativa ascensione quando un masso, staccatosi poco so-

pra il Secondo Nevaio della Parete Nord, lo ha colpito con estrema

violenza alla testa ponendo tragicamente fine alla sua vita. I soccor-

ritori, benché partiti a tempo di record, nulla hanno potuto per sal-

vare lo sfortunato alpinista che è giunto ormai esanime all'ospedale

di Interlaken. I particolari nelle pagine interne...

“Nordwand” (Parete Nord) e “Mördwand” (Parete Assassina).

Un gioco di parole macabro e sinistro, ma pienamente giustificato

dalla fama della Nord dell‟Eiger. Non occorre essere appassionati

di alpinismo per sapere che quella montagna dell‟Oberland Berne-

se si colloca fra le “Top Ten” nella classifica delle pareti più mac-

chiate di sangue. Sangue degli scalatori di mezza Europa, di ame-

ricani e perfino di qualche giapponese. Una parete lugubre e cru-

dele, se può aver senso parlare di “crudeltà” quando ci si riferisce

a un pezzo di roccia. Eppure, la Nord dell‟Eiger ha sempre eserci-

tato un‟attrazione irresistibile sui migliori rocciatori e ghiacciatori

del continente. Uomini che – una volta compiute le più dure e im-

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pegnative scalate delle Alpi – sentono di non poter più ignorare la

sfida di quella parete di calcare, neve e ghiaccio che si innalza ver-

so il cielo per milleottocento interminabili metri.

Tecnicamente non è la parete più impegnativa: in questo è ab-

bondantemente superata dallo Sperone Walker (milleduecento me-

tri di dislivello con una pendenza media di cinquantacinque gradi),

e dal Pilastro Sud-Ovest del Dru, come anche dalla Parete Est di

un imponente obelisco noto come Grand Capucin. Walker, Dru,

Grand Capucin: tutti nel Massiccio del Monte Bianco. E questi so-

no solo alcuni esempi.

Ma allora cos‟è che rende la Nord dell‟Eiger tanto spaventosa e

certamente unica nel suo genere? Cos‟è che ha fatto dire ai pochi,

grandissimi alpinisti che l‟hanno vinta: mai più su questa parete!

Si tratta forse dei sortilegi di una strega? O delle maledizioni di

qualche divinità sanguinaria?

No, niente di tutto questo. La spiegazione è assai più banale e

concreta, e non richiede di scomodare Anubi, né Zeus, né Thor, né

Tezcatlipoca. Ciò che gela il sangue nelle vene degli alpinisti che

tentano l‟ascensione dell‟Eiger sono le improvvise slavine che

possono strapparti dalla parete dopo aver staccato, uno dopo

l‟altro, tre quattro cinque sei chiodi ben piantati nella roccia; sono

le nebbie fittissime che danno l‟impressione di essere immersi in

un oceano di ovatta e rendono impossibile l‟orientamento; sono le

cadute quasi continue di pietre e massi che possono fracassarti il

cranio anche se indossi il più robusto dei caschetti; sono i selvaggi

temporali da notte di Walpurga, durante i quali l‟elettricità è tanto

intensa nell‟aria che si sentono i capelli rizzarsi in testa e sembra

di essere circondati da uno sciame di vespe inferocite. Non si può

capire che cosa significhi trovarsi in mezzo a un temporale

sull‟Eiger se non si sono visti i fulmini zigzagare in cerca delle

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punte di chiodi, ramponi e piccozze per scaricarvi la loro inconte-

nibile energia. E se si è stati tanto fortunati da scampare al perico-

lo della folgorazione, si dovranno pur sempre sopportare le gelide

notti in parete, esposti alla pioggia, al vento, alla neve e alla gran-

dine; e si dovranno superare canaloni ghiacciati e autentiche ca-

scate d‟acqua gelida; ostacoli di fronte ai quali spesso deve ritirar-

si anche l'équipe più attrezzata, preparata e decisa.

Qual era dunque la molla che ci aveva catapultati fin lassù, io e

mio fratello Roland? Non era il desiderio di fama e ricchezza –

che d‟altronde ben pochi arrampicatori hanno ottenuto. Magari

una certa notorietà nei circoli ristretti degli alpinisti e qualche raro

articolo sui quotidiani (quasi mai in prima pagina), ma in quanto a

ricchezza… E poi, in qualunque campo dell‟attività umana gli u-

nici che si ricordano sono i primi: i primi sbarcati in un nuovo

continente, i primi lanciati nello spazio, i primi ad aver sbriciolato

il muro del minuto nei cento metri crawl, i primi ad aver realizzato

la fissione di un nucleo di uranio… sempre solamente i primi.

Nel caso della Nord dell‟Eiger, i primi erano stati Heckmair,

Harrer, Kasparek e Vörg nel lontano luglio del 1938. E non par-

liamo poi della prima ascensione in assoluto, quella lungo la Pare-

te Ovest che risale nientemeno che al 1858. A che scopo dunque

rischiare le nostre vite su quell‟incubo gelido e strapiombante?

Lo scopo c‟era. E aveva ben poco a che fare con lo sport alpini-

stico. Il nostro obiettivo – mio e di Roland – era quello di ristabili-

re la giustizia.

Tutto era cominciato con un trafiletto apparentemente di nessu-

na importanza comparso sullo “Sport” di Zurigo. Il testo era il se-

guente:

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L’Eiger restituisce due delle sue numerose vittime?

Kleine Scheidegg, 11 luglio. Sembrerebbe di sì, almeno secon-do le dichiarazioni del pilota e del passeggero di un piccolo ve-livolo da turismo. Due giorni fa mr. Peter Haston, cittadino bri-tannico, ha noleggiato il Cessna di proprietà di Christian Gei-ger, di Wengen, con l‟intenzione di ammirare dall‟alto, ma sen-

za sottoporsi agli sforzi e ai rischi di un‟arrampicata, lo spetta-colo delle nostre splendide montagne. Decollati alle 9.30 di una bella mattina di sole, hanno sorvolato dapprima la Jungfrau e il Mönch, quindi si sono diretti verso l‟Eiger. Giunti poco sotto la famosa “Traversata degli dèi” - un ripidissimo nevaio che gene-ralmente gli alpinisti percorrono in diagonale e prestando atten-

zione a ogni singolo passo - Geiger e Haston hanno intravisto sotto il manto ghiacciato due sagome scure e allungate. Secondo quanto hanno dichiarato alla Polizia Cantonale, non c'è il mini-mo dubbio: ciò che hanno scorto sono i poveri resti di due sca-latori, probabilmente strappati alla vita da una valanga e rimasti colà sepolti per chissà quanti anni. Purtroppo la distanza a cui si

trovavano al momento del‟individuazione dei “corpi” era supe-riore ai cento metri e la visibilità in quel momento non era delle migliori, dato che buona parte dell‟Eiger era avvolta dalle nubi. A Kleine Scheidegg e nelle località vicine il racconto ha destato notevole interesse, tanto che diversi aerei si sono levati in volo e hanno sorvolato ieri e ieri l‟altro la zona del presunto avvista-

mento. Nessuno è però riuscito a localizzare nuovamente le due sagome misteriose, e non si sono quindi potute confermare le dichiarazioni di Geiger e Haston. Che si sia trattato di un abba-glio? In questo momento qualunque risposta costituirebbe un azzardo. Comunque, visto che da almeno sei anni non si lamen-tano sparizioni di alpinisti in quella zona, la Polizia appare scar-

samente interessata a compiere ulteriori indagini. La stessa linea di comportamento è stata adottata dall‟Associazione delle Gui-de di Grindelwald, dalla Commissione Guide di Berna e dal Club Alpino Svizzero, che dichiarano: “Le attuali indicazioni, troppo scarse, e l‟area troppo vasta e pericolosa non giustifica-no, a nostro parere, l‟organizzazione di una difficile operazione

di recupero. Ma se nei prossimi giorni dovessero ripetersi gli avvistamenti dei due „corpi‟, siamo pronti a fornire alle Autorità tutto l‟aiuto possibile sotto forma di uomini e mezzi.” In con-clusione, gentili lettori, se quelle che sono state scorte dal picco-lo Cessna sono davvero le salme di due sfortunati alpinisti, allo-

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ra non sembrano destinate a trovare entro breve termine una se-poltura cristiana.

Queste le parole dell‟articoletto. Nei giorni seguenti non vi era-

no stati ulteriori sviluppi e così lo “Sport” e i suoi lettori avevano

perso rapidamente interesse alla vicenda. Dopo un po‟, tutto era

stato dimenticato. Ma non da noi. Io e Roland avevamo buone ra-

gioni per ritenere che gli occupanti del Cessna non fossero stati

tratti in inganno da ombre o riflessi sulla neve e che le sagome di

due corpi congelati fossero state effettivamente individuate.

Come mai tanta sicurezza? Perché, più o meno in quella zona,

ventidue anni prima tre membri della cordata di cui faceva parte

anche nostro padre, in seguito a eventi drammatici, erano stati dati

per dispersi. Le ricerche allora non avevano dato alcun esito, e do-

po un paio di settimane erano state abbandonate. Ma i corpi erano

lì, da qualche parte. Dovevano essere lì. Lui ne era convinto e noi

avevamo un‟opinione troppo alta di nostro padre, come uomo e

come alpinista, per dubitare del suo giudizio. Così, adesso erava-

mo sul terrazzino poco prima dell‟attacco della “Traversata Hin-

terstoisser”.

Due giorni prima, sui pascoli di Alpiglen a poco più di mille-

seicento metri di quota, avevamo piantato la nostra tenda a iglù. Il

primo giorno lo avevamo passato a familiarizzare col percorso da

seguire e a studiare eventuali varianti e possibili vie di fuga, nel

caso che la situazione fosse diventata critica. Avuta dall‟Ufficio

Meteo la conferma che per almeno tre giorni ci sarebbe stata alta

pressione con tempo buono e ottima visibilità, nel pomeriggio a-

vevamo trasportato due sacchi di attrezzatura il più in alto possibi-

le, alla nicchia del primo bivacco. Poi eravamo ridiscesi per passa-

re la notte in tenda, una sistemazione decisamente più confortevo-

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le di quel bivacco all‟addiaccio. Avevamo con noi la migliore at-

trezzatura disponibile: scarponi ben imbottiti internamente e con

un perfetto isolamento esterno, ramponi a dodici punte ad aggan-

cio rapido, sacchi a pelo ultraleggeri in piuma d‟oca, giubbotti im-

permeabili a più strati, corde da sessanta metri estremamente resi-

stenti ma leggerissime, piccozze a becca regolabile e impugnatura

anatomica, eccetera eccetera. Insomma, il meglio che offriva il

mercato. Con quella roba, forse, molti alpinisti del passato si sa-

rebbero salvati.

Ma perché mai non passare la notte in albergo? Roland e io a-

vremmo potuto prendere alloggio alla Kleine Scheidegg, dove sa-

remmo stati assai più comodi e sicuramente avremmo riposato

meglio. Ma non volevamo attirare l‟attenzione su di noi. La salita

che stavamo per iniziare era dettata da motivi assai diversi da

quelli che spingono normalmente gli alpinisti: l‟obiettivo per noi

non era quello di raggiungere la vetta e non volevamo che dei cu-

riosi mettessero il naso in quelle che erano invece motivazioni del

tutto private. Una questione di famiglia, insomma. Naturalmente,

non avremmo potuto mantenere a lungo il segreto, visto che prima

o poi il cannocchiale a settantadue ingrandimenti dell‟albergo ci

avrebbe individuati in parete. Ma avremmo evitato domande e in-

terviste imbarazzanti e quel rivangare il passato che tanto piace ai

giornalisti e che per noi sarebbe stato solo fonte di dolore e imba-

razzo.

All‟una ci eravamo alzati e avevamo fatto colazione. Era una

bella notte di luna e l‟aria era quasi tiepida. Avevamo controllato

ancora una volta il materiale negli zaini per essere sicuri di non

dimenticare niente, ce li eravamo caricati in spalla e lentamente

avevamo raggiunto la base della parete, a 2100 metri. Alla luce

delle torce fissate sui caschetti avevamo attaccato alla destra del

Primo Pilastro seguendo l‟itinerario classico. Eravamo saliti per

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tre tiri di corda sfruttando un sistema di fessure e camini e quindi

ci eravamo diretti a destra fino a raggiungere un nevaio. Poi salen-

do a zigzag per una serie di cenge eravamo sbucati ai piedi del Pi-

lastro Fessurato, dove il giorno prima avevamo depositato i due

zaini supplementari. Ci eravamo concessi una breve sosta. Ave-

vamo mangiato un pezzetto di cioccolata, buttato giù qualche sor-

so d‟acqua e finito di riempire gli zaini con le attrezzature che a-

vevamo lasciato nei sacchi. Roland, che era il secondo di cordata,

doveva sobbarcarsi buona parte del peso; in compenso io ero ap-

pesantito da un bel mazzo di chiodi, dai moschettoni, dai rinvii,

dal martello, dai friends e dai nuts appesi all‟imbrago, e questo

senza contare i numerosi cordini che avevo a tracolla e lo zaino

pieno a metà.

Dal Pilastro Fessurato avevamo risalito una costola rocciosa fi-

no alla Nicchia del Bivacco. Stavolta, grazie al gelo notturno, era-

vamo scampati alle scariche di pietre e ai frammenti di ghiaccio e

adesso eravamo ai piedi della Parete Verticale. Cento difficili me-

tri per raggiungere il Primo Nevaio. Fino ad ora si era trattato di

pura routine, ma da questo momento in poi si cominciava a fare

sul serio e bisognava restare sempre legati in cordata. Control-

lammo i “nodi delle guide” fissati all'asola centrale dell'imbrago,

stringemmo il sottogola del caschetto e Roland passò il nodo bar-

caiolo nel moschettone a pera per farmi sicura. Era il più giovane e

il più impaziente.

« Be', che ci aspetta adesso? » domandò.

« Dritti su per un tiro di corda; poi traversiamo a destra finché

non troviamo un pilastro. Sopra c‟è una specie di protuberanza: è

l‟attacco della Fessura Difficile. »

« Il quinto? »

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« Esatto, il quinto grado. Bisognerà piantare qualche chiodo,

ma sono solo ventiquattro-venticinque metri. Una volta usciti, si

imbocca un canale. Breve anche questo, venti metri al massimo. »

« E la Hinterstoisser quando comincia? »

« Quando sbuchiamo fuori dal canale, ci sono ancora quattro

tiri di corda, verso sinistra in diagonale. Al termine c'è lo spiazzo

da cui inizia la Traversata. Ne abbiamo ancora per un bel po‟ pr i-

ma di arrivarci. L'importante è che non sia troppo ghiacciata. Tutto

ok? »

« In gran forma. E tu? Magari potremmo tentare di arrivare in

vetta in giornata, eh? »

« Non è per quello che siamo qui, l‟hai dimenticato? »

« Okay okay, Erich. Niente prediche. Ma non sarebbe bello ar-

rivare in cima? E spazzeremmo via tutte quelle voci… Pensa che

soddisfazione. »

« Be‟, vedremo come si mettono le cose. »

“Tutte quelle voci…” Ne eravamo ossessionati fin da piccoli:

un incubo che durava da vent‟anni. Quando da ragazzini passava-

mo le vacanze in montagna, prima o poi capitava sempre il mo-

mento in cui qualcuno voleva sapere: non siete per caso parenti di

quel Brandler, quel tale alpinista e himalaista? E quando noi con-

fermavamo che sì, eravamo suoi parenti, quel tale insisteva: era-

vamo forse suoi nipoti o magari cugini di secondo grado? A quel

punto, gli confidavamo con un gran sorriso che eravamo i suoi due

figli. Questo accadeva le prime volte.

Poi cambiammo. Per un certo periodo dicemmo che eravamo

parenti molto alla lontana; in seguito, ci rifiutammo di ammettere

anche quel tenue legame con Manfred Brandler. Parenti noi? Ma

no, si trattava di una pura e semplice omonimia: nessun legame

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con quel tale alpinista. Mai conosciuto e mai visto, neanche in fo-

tografia.

Il fatto è che quegli sguardi non riuscivamo più a sopportarli.

Non erano sguardi di simpatia, e men che meno di solidarietà.

Quelli che la gente ci lanciava contro erano gli sguardi destinati ai

figli di chi è stato in galera. Erano le occhiate maligne di chi mette

in mostra tutta la sua curiosità morbosa e tutto il suo dannato, ipo-

crita compatimento. “Poverini! Eppure sembrava una famiglia così

a posto! Non se lo meritano proprio un padre così!”

Con questo non voglio dire che ci vergognavamo di nostro pa-

dre, al contrario! Come potevamo credere, infatti, che si fosse

comportato da vigliacco un uomo che sul Nanga Parbat, a ottomila

metri di quota, aveva ceduto al compagno la sua bombola di ossi-

geno? Quanti avrebbero fatto altrettanto in uguali circostanze?

Ben pochi. Eppure lui l‟aveva fatto.

Il suo compagno aveva cominciato a utilizzare troppo presto la

scorta di ossigeno e se l‟era succhiata tutta fino all‟ultima moleco-

la. Privarsi dell‟ossigeno a quell‟altezza vuol dire mettere vera-

mente a rischio la vita, ma nostro padre non aveva esitato un istan-

te. E tutto questo era chiaramente visibile nelle numerose foto

scattate in vetta. Fotografie che, insieme alla relazione scritta, era-

no state presentate all‟ÖAV (il Club Alpino Austriaco) come do-

cumentazione ufficiale della spedizione. La validità

dell‟ascensione era stata pienamente riconosciuta e formalmente

registrata. Ma tutto questo era accaduto qualche anno prima della

tragedia dell‟Eiger, e in seguito nessuno aveva più mostrato di r i-

cordarsene. C‟è da stupirsi? No, se è vero che “solo le cattive noti-

zie fanno vendere i giornali”. E chi se ne frega se uno ha sempre

avuto una condotta irreprensibile. Meglio ancora: la notizia farà

più colpo!

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Perciò se ci rifiutavamo di ammettere che eravamo i figli di

Manfred Brandler non era per vergogna, né per mancanza di co-

raggio. Era solo perché non sopportavamo i compatimenti; era

perché volevamo troncare quei discorsi il più presto possibile e

volevamo evitare a nostro padre altri dolori e altre umiliazioni.

Roland, che di noi due era il più piccolo, era indubbiamente quello

che più soffriva di questa situazione. E la mancanza di nostra ma-

dre, morta quando lui aveva poco più di un anno, aveva ulterior-

mente peggiorato le cose.

A parte i brividi che sentivamo ogni volta che un sasso ci sfio-

rava nella sua caduta, all'inizio tutto procedette come ci aspetta-

vamo. Dopo un paio d'ore eravamo sbucati indenni in cima al pri-

mo salto di roccia: cento metri faticosi e impegnativi. Una decina

di minuti di sosta ed eravamo pronti a superare la Traversata Hin-

terstoisser. Le condizioni meteo continuavano a essere dalla nostra

parte e bisognava approfittarne il più possibile. Roland mi fece un

sorriso d'incoraggiamento e partii. C'era da percorrere una diago-

nale ascendente: quaranta metri su una strettissima cengia di roc-

cia. Procedetti senza fretta, provando e riprovando appigli e ap-

poggi. Raggiunta l'estremità opposta, mi sistemai su una piazzola

per far sicura a Roland.

Lui sembrava non prendere troppo sul serio le difficoltà

dell'Eiger e procedeva fin troppo veloce e sicuro. « Rallenta! »

gridai. « Stai andando troppo… » Neanche il tempo di finire la

frase, che lui aveva già perso l‟appoggio del piede destro. Quasi

contemporaneamente aveva ceduto anche il sinistro e Roland si

era fatto almeno cinque metri di volo.

« Tutto a posto? »

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« Tutto bene » aveva risposto allegramente, dondolando nel

vuoto.

Ma per me non era affatto “tutto bene”. Non potevamo permet-

terci stupidi errori, non potevamo rischiare che andasse tutto a

monte: la posta era troppo alta. « Accidenti a te! Vuoi darmi ascol-

to o no? Non stiamo facendo una gara a chi arriva prima in vetta!

»

« Lo so, lo so. Ma tanto mi facevi sicura, no? »

« Oh certo, ma non ho intenzione di trasportarti su di peso. E se

ti sloghi una caviglia o peggio… Non ho intenzione di rinunciare

per un maledetto, stupido incidente dovuto alla tua foga, chiaro? »

« D‟accordo, fratellino, non lo faccio più. »

Il resto della sua traversata non aveva causato sorprese. Quando

fummo di nuovo riuniti, mi venne in mente che forse sarebbe stato

più prudente lasciare una corda fissa sulla Hinterstoisser, casomai

fossimo stati costretti a tornare indietro. La reazione di Roland era

stata vivace: « Be‟, potevi pensarci prima. Me lo dici adesso che

siamo passati tutti e due? Per tornare indietro, fissare la corda e r i-

attraversare perdiamo almeno due ore. Vale la pena? » Aveva ra-

gione. Ormai era andata così e decidemmo di proseguire confi-

dando nella buona sorte.

Dalla piazzola risalimmo per venti metri una fessura verticale e

arrivammo felicemente al cosiddetto Nido di Rondine.

« Ancora una breve traversata a sinistra e arriviamo all‟inizio

del Primo Nevaio. Stanco? »

Roland scosse la testa. « No, sto benissimo. »

Completammo la piccola traversata e ci ritrovammo ai piedi del

nevaio. Ma quale nevaio? C'erano solo lisce lastre di roccia, senza

appigli né appoggi. Tutta la neve e il ghiaccio che Kasparek e

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compagni avevano dovuto attraversare nel '38 erano scomparsi. Al

loro posto c'erano adesso solo delle placche infide e scivolose,

senza neanche una fessura in cui piantare un chiodo. Ci avrebbero

fatto perdere un sacco di tempo, questo era sicuro. « Che diavolo è

successo? È tutto cambiato! » dissi.

Roland si era portato dietro anche la relazione di Waschak e

Forstenlechner, che nel 1950 avevano compiuto un'ascensione re-

cord. Diciotto ore filate: partenza e arrivo in giornata senza nean-

che un bivacco. Spiegò i fogli e cominciò a leggere. « Senti un po'

qua, Erich: “La conformazione di quello che è conosciuto come

Primo Nevaio in questi dodici anni è stata completamente sconvol-

ta: la neve e il ghiaccio sono scomparsi in buona parte e al loro

posto sono affiorate numerose placche di roccia liscia e ripida,

senza fessure in cui piantare dei chiodi, senza appigli né appoggi.

Procedere con cautela, eventualmente aggirare a destra.” » Proprio

così, una lunga distesa di placche lisce e compatte che non offr i-

vano alcuna possibilità di ancoraggio. Secondo Kasparek, avrem-

mo dovuto tagliare verso sinistra, ma adesso quel percorso era

davvero troppo rischioso. E per evitare le placche eravamo costret-

ti a compiere un ampio giro a destra per poi tornare indietro. A-

vremmo perso un bel po' di tempo, ma non c'era scelta.

Avevamo attraversato più o meno la metà di quella distesa di

placche, che cominciarono le scariche di pietre. Ce n'erano per tut-

ti i gusti: grandi, piccole, medie… Saltavano, rimbalzavano e

schizzavano in tutte le direzioni. E quando sbattevano come palle

di cannone contro la roccia, l'aria tutt'intorno si riempiva di un o-

dore di zolfo acre e pungente. Il rumore era tanto assordante che

non si riusciva a sentirsi neanche urlando.

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Adottammo la tecnica detta “Stop & Go”: quando le scariche

erano più forti ci fermavamo, cercando un minimo di riparo e stu-

diando le traiettorie per tentare d'indovinare da che parte sarebbero

andate le pietre. Non appena l'ondata era passata, riprendevamo la

marcia camminando il più velocemente possibile.

Ci mettemmo quasi due ore, ma ce la cavammo senza grossi

danni: solo dei sassolini ci colpirono al tronco e alle gambe e

qualcuno rimbalzò con un tonfo sonoro contro i nostri caschetti

che si comportavano come delle campane. Finalmente raggiun-

gemmo la base rocciosa che segnava il limite superiore dell'ex ne-

vaio. Da qui bisognava salire su una paretina di quarto grado e poi

imboccare il Budello di Ghiaccio. Sopra ci aspettava il Secondo

Nevaio.

Roland sbatté gli scarponi uno contro l'altro per staccare la neve

che si era accumulata sotto i ramponi e alzò lo sguardo. La parete,

scura e gocciolante, dominava su di noi. « Quante lunghezze di

corda? »

« Due dovrebbero bastare, secondo il buon Kasparek. Ma la sua

relazione… mah, non so quanto ci possamo fidare. Quel che è si-

curo è che dobbiamo fare tutto il possibile per arrivare al Bivacco

della Morte. Lì possiamo passare la notte relativamente tranquilli,

al riparo dalle pietre e dai pezzi di ghiaccio. »

Roland sorrise. « Non so perché, ma quel nome… »

« Non ti ispira molta fiducia. »

« Infatti. »

Scrollai le spalle. « Le montagne sono piene di posti dai nomi

macabri. »

« Lo so, lo so, Erich. Ma questa non è una montagna qualun-

que: è l'Eiger! »

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Avanzai verso sinistra, e quando valutai di aver percorso una

quindicina di metri, mi fermai. Da lì avremmo dovuto salire verti-

calmente la roccia per una dozzina di metri fino a una sosta, poi

ritornare a destra in diagonale per infilarci nel Budello. Ma la pa-

rete era rivestita di ghiaccio e io non me la sentivo di farla scalare

a Roland, anche se l'avrebbe fatto da secondo di cordata. Pur es-

sendo un ottimo alpinista su roccia, aveva ben poca pratica di ar-

rampicate su ghiaccio e, in ogni caso, quel tratto sarebbe stato as-

sai impegnativo anche per un esperto. No, imboccare il Budello e

seguirlo fino in fondo era la scelta migliore.

Facemmo così e arrivammo tutti interi alla base del Secondo

Nevaio, una distesa di ghiaccio grigiastro disseminata di pietre e

massi con una pendenza di 55 gradi. Adesso avevamo due possibi-

lità. La prima era quella di salire lungo la linea di massima pen-

denza finché non raggiungevamo le rocce; a quel punto avremmo

traversato a sinistra. Questo voleva dire almeno dieci lunghezze di

corda da coprire su terreno pericoloso. L'altra scelta possibile era

quella di traversare subito a sinistra. Una volta arrivati a una qua-

rantina di metri dalla rientranza della parete, avremmo trovato un

tetto nel quale era stato piantato un chiodo con anello. A quel pun-

to bisognava superare un breve strapiombo e raggiungere una cen-

gia, quindici metri più su. Certo, in questo modo saremmo stati più

al riparo dalle scariche, ma scalare lo strapiombo voleva dire af-

frontare un quinto grado. Qual era la strada migliore? Alla fine ci

decidemmo per lo strapiombo: anche se impegnativo, era pur

sempre più controllabile di una decina di sassi che ti piovono ad-

dosso contemporaneamente.

Arrivati al tetto, cercammo il chiodo con l'anello. Era importan-

te perché da lì avremmo dovuto arrampicare per una quindicina di

metri verso sinistra. Ma dov‟era quel maledetto chiodo? Guar-

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dammo in su e in giù, avanzammo e ritornammo indietro. Niente.

Dov'era il dannato chiodo? Si era forse staccato?

Quelle vane e demoralizzanti ricerche ci rubarono un'ora ab-

bondante.

« Erich, i casi sono due: o il chiodo si è staccato o abbiamo

sbagliato strada. Non vedo altre possibilità. »

« All‟inizio del Secondo Nevaio eravamo perfettamente “in rot-

ta”, e infatti i riferimenti di cui parla Kasparek li abbiamo trovati

tutti. Giusto? »

« Giusto. Allora? »

« Forse siamo andati troppo avanti, o forse troppo poco … non

lo so. »

« Che dice di preciso la relazione? »

« È nel tascone centrale, in basso. Prendila. » Roland la tirò

fuori dallo zaino e me la passò. La rileggemmo con calma. C‟era

quella precisa indicazione: arrivare fino a quaranta metri dalla ri-

entranza della roccia, quaranta esatti. Noi quanti metri avevamo

fatto?

Guardai la lunga traccia leggermente a S che avevamo lasciato.

« Per me sono di più: almeno cinquanta, forse sessanta. Tu che ne

dici? »

Roland annuì: « Sessanta, più o meno. »

Sì, di certo eravamo andati troppo avanti. Decidemmo di torna-

re indietro contando i passi. Fare un movimento sbagliato voleva

dire caduta quasi sicura col rischio di trascinare con sé anche il

proprio compagno. Procedemmo stando attenti che i ramponi e la

piccozza facessero ben presa. E finalmente, ecco il vero tetto. Sul-

la roccia c'erano anche i segni inconfondibili di martellate, ma del

chiodo neanche l'ombra. Intanto, nuvoloni scuri carichi di pioggia

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stavano accumulandosi un centinaio di metri sopra di noi. Si mise

a soffiare il vento e l'aria cominciò a caricarsi di elettricità.

Pensai che quello era davvero il momento perfetto per un bel

temporale, adesso che dovevamo affrontare il quinto grado. Se riu-

scivamo a superare lo strapiombo prima della pioggia (o forse del-

la grandine), poi sarebbe stato facile. Tre lunghezze di corda –

prima in orizzontale e poi in leggera salita – e raggiungevamo la

cresta detta Ferro da Stiro. Era parecchio esposta alle scariche, ma

a quel punto un solo tiro di corda ci avrebbe separati dal Bivacco

della Morte, che era la nostra meta per la giornata. Se invece re-

stavamo dove eravamo adesso, non avremmo avuto alcun riparo e

neanche lo spazio sufficiente per starcene seduti. Questo voleva

dire passare la notte legati in parete senza neanche la possibilità di

scaldare col fornelletto qualcosa da mettere nello stomaco.

« Solo quindici metri. Tentiamo? » domandai. Tentammo.

Piantai cinque chiodi e in un paio di punti ci aiutammo con del-

le staffe. Fu una faccenda più lunga del previsto, ma per fortuna

cominciò a piovere fitto solo quando ero a soli tre metri dalla cen-

gia. Dopo una decina di minuti arrivò anche Roland, bagnato fra-

dicio. In fondo, ci era andata bene. La traversata fino in cresta e

l'ultimo tiro di corda furono senza storia, a parte la fatica e il fred-

do che ci presero all'improvviso e alcuni sassi che caddero abba-

stanza lontano da noi. Niente di grave, stringemmo i denti e avan-

zammo in mezzo alla neve molliccia finché non raggiungemmo il

riparo del Bivacco. Erano solo le cinque di sera e con tempo buo-

no avremmo potuto continuare almeno per un altro paio d'ore, for-

se anche tre. Ma per quella giornata era tempo di fermarsi. Ci si-

stemammo per la notte; Roland scaldò ettolitri di tè che bevemmo

entrambi con avidità e sorbimmo una minestrina a cui aggiun-

gemmo pezzetti di pemmican per renderla più energetica. A causa

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delle nuvole – dei cumuli grigi che non promettevano niente di

buono – l'oscurità calò rapidamente. Ma almeno non pioveva. Ci

chiudemmo nei nostri sacchi a pelo e ci scambiammo le impres-

sioni della giornata. Ci sentivamo bene ed eravamo soddisfatti del-

la quota raggiunta. Roland si addormentò quasi subito; io invece

non riuscivo a prender sonno. L'idea che trascorrevamo la notte

nello stesso luogo in cui mio padre e i suoi tre compagni avevano

bivaccato venti anni prima mi procurava un miscuglio di strane

sensazioni. Da una parte malinconia e nostalgia, dall'altra eccita-

zione per quello che ci aspettava l'indomani, e poi rabbia e dolore

per tutte le infamie che erano state dette e scritte. Non riuscivo a

scacciarlo dalla mente il titolo di quell'articolo, il “pezzo di crona-

ca” che aveva avvelenato la vita di mio padre e lo aveva condan-

nato a una prematura scomparsa. La cosa strana era che quel testo

lo avevo letto una sola volta, eppure era bastato perché frasi, sin-

gole parole, perfino virgole e punti esclamativi mi si imprimessero

per sempre nella mente. Lo sapevo a memoria e avrei potuto reci-

tarlo come una poesia di Goethe o di Heine.

Principianti: alla larga dall’Eiger!

Grindelwald, 2 agosto. Tre morti e un sopravvissuto per

miracolo che al momento è ricoverato all'ospedale di Inter-

laken. Questo il tragico bilancio dell'ultimo tentivo di sca-

lata estrema. Manfred Brandler è il nome del superstite, e

può considerarsi "amato dagli dèi" se non ha fatto la fine

dei suoi giovani compagni: Hermann Voog, Luis Gribek e

Walter Schlömmer. Il primo, colpito alla testa da una gros-

sa pietra, è deceduto in seguito alle ferite; gli altri due, feri-

ti anch‟essi, sono morti qualche giorno dopo per congela-

mento.

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Che i principianti debbano stare alla larga dalla Parete

Nord dell'Eiger sembrerebbe un concetto ovvio e scontato,

come dire: solo chi sa pilotare può mettersi ai comandi di

un velivolo. Ma evidentemente non tutti la pensano così.

Non si spiegherebbe altrimenti l'impressionante sequenza

di errori e leggerezze che questa cordata di giovani alpini-

sti viennesi – decisa a scalare l'Eiger per la strada più diffi-

cile – ha accumulato nel suo vano tentativo. Errori dovuti

essenzialmente a mancanza di esperienza in arrampicata e

a mancanza di preparazione (sia fisica che psicologica). E

leggerezze dimostrate nella scelta dell'equipaggiamento

(del tutto inadeguato), nell'ignoranza delle norme di pru-

denza più elementari e nella sottovalutazione dei bollettini

meteorologici. Forse i nostri lettori penseranno che siamo

ingenerosi verso chi ha pagato i suoi sbagli con la vita.

Forse penseranno che stiamo dando un giudizio troppo se-

vero, ma possiamo assicurarli che non è così. Il nostro in-

tento è solamente quello di impedire che nuovi, tragici a-

nelli allunghino la catena di disgrazie che hanno avuto

l‟Eiger come palcoscenico negli ultimi venti anni. Non vo-

gliamo che altre giovani vite siano immolate alla sciocca

ambizione di arrivare in vetta a una montagna.

Ma è ora di passare ai fatti. Ecco in breve la cronaca

della scalata:

– 28 luglio. Partiti da Alpiglen nelle prime ore del mattino,

i quattro viennesi procedono spediti, superano senza grosse

difficoltà gli ostacoli del tratto inferiore e a fine giornata,

giunti a metà strada, trascorrono la notte al cosiddetto “Bi-

vacco della Morte”.

– 29 luglio. Il tempo tiene ancora. All'alba i quattro si ri-

mettono in marcia. Superano il Terzo Nevaio, la Rampa, il

Colatoio Ghiacciato, lo Strapiombo e un altro piccolo ne-

vaio. Arrivano così al terrazzino che si trova poco prima

della Fessura Difficile. È di nuovo ora di fermarsi. La

giornata è stata faticosa, ma tutti pensano che il peggio sia

alle loro spalle. Domani saranno in vetta.

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– 30 luglio. Finora il bel tempo li ha assistiti, ma da adesso

in poi non sarà più così. Si alza un vento forte e gelido, e

poco dopo comincia a cadere la pioggia mista a neve. È

una vera tormenta e loro sono in parete a tremila metri di

quota. Potrebbero ritirarsi e nessuno gliene farebbe una

colpa, anzi verrebbe lodato il loro buonsenso. Invece i

viennesi decidono di continuare nonostante tutto. Le nubi

avvolgono completamente l'Eiger e la visibilità si riduce

drasticamente. Brandler, che fa da capocordata, sbaglia

strada. Dopo essere avanzati per un bel tratto in mezzo a

mille difficoltà, giungono a un punto dal quale è assoluta-

mente impossibile proseguire: devono tornare indietro. Ac-

cade la prima disgrazia: Voog viene colpito al capo da una

grossa pietra, perde i sensi e cade. Ma per fortuna il chiodo

a cui è assicurato resiste. I suoi compagni lo recuperano e

gli prestano le prime cure. Le ore passano, ma il colpo alla

testa – pur attenuato dal caschetto – è stato tremendo e le

sue condizioni peggiorano. Si decide allora di bivaccare su

un terrazzino di fortuna. Qui, nei sacchi a pelo e riparati al-

la meno peggio da teli impermeabili, i quattro viennesi tra-

scorrono la terza gelida notte.

– 31 luglio. I viveri (previsti per quattro giorni) comincia-

no a scarseggiare. Voog ha la febbre alta, i periodi di deli-

rio sono sempre più lunghi e quelli di lucidità durano solo

pochi minuti. Si decide di ridiscendere calando Voog come

un sacco. Ma Brandler sbaglia strada per la seconda volta.

Devono ritornare sui loro passi perdendo ore preziose. A

causa della stanchezza accumulata, Schlömmer cade ma-

lamente. Si storce una caviglia, che in breve si gonfia come

un pallone. Non può più camminare. Il tempo continua a

essere brutto: tira vento e il nevischio ghiaccia il viso e si

infila dentro i vestiti. In tutta la giornata hanno perso solo

150 metri di quota. Trovano una piccola cengia in cui si-

stemarsi per la notte.

– 1° agosto. È la volta di Gribek. La notte è stata la più ge-

lida di tutte ed egli, nonostante i guanti, si ritrova ora con

un principio di congelamento alle mani. Sono rigide come

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pezzi di legno e non si riesce in alcun modo a riattivargli la

circolazione. Le condizioni meteo sono migliorate ed è

perfino ricomparso il sole. È a questo punto (e ci addolora

doverlo riferire) che avviene il fatto più vergognoso. Bran-

dler è l'unico dei quattro a essere ancora in discrete condi-

zioni, ma invece di assistere e curare i suoi compagni, de-

cide di abbandonarli. Percorre a ritroso la strada fatta fino a

quel momento e, aiutato dalla fortuna, giunge infine alla

“finestra” della Stazione Eigerwand, l'apertura nella roccia

della galleria ferroviaria della Jungfrau. Viene recuperato

allo stremo delle forze. Avverte i suoi salvatori dei compa-

gni in pericolo, ma ormai sono quasi le nove di sera: è sce-

sa l'oscurità ed è troppo tardi per avviare un'operazione di

soccorso.

– 2 agosto. Il tempo è splendido come non lo si vedeva da

settimane. Neppure una nube offusca la parete e un aereo

decolla per sorvolare il punto indicato da Brandler. L'appa-

recchio esegue numerosi passaggi vicino alla parete che,

con un potente binocolo, viene esaminata metro per metro.

Ma dei tre viennesi non c'è traccia. Sono precipitati? Sono

stati investiti da una slavina? Non si sa. Di certo, non sono

ridiscesi a valle da soli. Nel primo pomeriggio qualcuno al-

la Kleine Scheidegg giura di aver visto tre corpi immobili

al base di un nevaio, ma non c'è neppure il tempo di andare

a controllare, che una slavina si stacca dal cosiddetto “Ra-

gno”, il gigantesco nevaio situato poco sotto la vetta

dell'Eiger. Un'enorme massa di neve ricopre ora – gelido

sepolcro – i corpi degli sfortunati alpinisti. Dato che le

possibilità di recuperare le tre salme sono praticamente

nulle, sarà probabilmente questa la loro tomba definitiva.

Che altro dire, amici lettori? I fatti parlano da soli, e fin

troppo chiaramente! Aggiungiamo solo che Manfred Bran-

dler è tuttora sotto shock e che le sue poche dichiarazioni

appaiono confuse, incomplete e contraddittorie. Alle fami-

glie degli scomparsi indirizziamo le nostre più sentite con-

doglianze e la nostra personale convinzione (se può essere

di conforto) che questo triplice sacrificio non è avvenuto

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invano, ma che al contrario sarà di monito per le genera-

zioni future.

Prima dell'alba ero già in movimento. Avevo dormito male e

avevo fatto sogni poco piacevoli. Ero felice che la notte fosse fini-

ta e prima delle cinque ero uscito dal sacco. L'aria gelata mi aveva

costretto a imbacuccarmi in fretta e furia. Avevo tirato fuori dallo

zaino l'attrezzatura di arrampicata e avevo riposto buona parte del

materiale da bivacco. Poi avevo messo a scaldare il tè.

Far colazione a tremila metri in una giornata limpida vuol dire

assistere a uno dei più belli spettacoli che la natura possa offrire:

le cime illuminate di rosa dai primi raggi di sole, il blu scuro del

cielo e la vista che spazia per un centinaio di chilometri; nelle valli

una nebbiolina che lentamente si dirada. Roland era ancora pro-

fondamente addormentato e dall'espressione che aveva in volto pa-

reva quasi che riposasse a casa nel suo vecchio letto di ottone. Al-

cuni robusti scossoni e aprì gli occhi. Per un istante non si rese

conto di dove diavolo si trovasse, poi sorrise allegro.

« Erich, come va? Passata bene la notte? »

« Non bene quanto te, direi. Avevo un po' d'insonnia e mi sono

svegliato tre o quattro volte. » Lui invece aveva fatto tutto un son-

no: otto ore filate.

Alle sei attaccammo il Terzo Nevaio. Vista la pendenza di ses-

santa gradi, era una traversata da compiere con grande cautela. Mi

sentivo ancora infreddolito ed ero rigido nei movimenti. Roland

invece sembrava perfettamente a suo agio e traversò senza la mi-

nima esitazione. Dopo mezz'ora eravamo entrambi dall'altra parte

e avevamo raggiunto il primo sperone di roccia. Adesso potevamo

tirare il fiato sul tratto successivo in leggera discesa. Poi avremmo

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affrontato la lunga Rampa che portava al Camino con cascata

d'acqua. Se ci andava bene, la cascata l'avremmo trovata ghiaccia-

ta, altrimenti dovevamo rassegnarci a una doccia gelata.

« Cinque tiri per arrivare in cima alla rampa? » domandò Ro-

land.

« Esatto. E ci sono dei brutti passaggi, secondo Kasparek. »

« Difficoltà? »

« È un IV. Coraggio, lassù troveremo un buon posto per fare

una sosta. »

Andò tutto liscio. Solo che per quegli interminabili cinque tiri

di corda ci mettemmo più di due ore. Proseguimmo per un camino

con relativa cascata gelida. Ci bagnammo parecchio, ma non c'e-

rano alternative: bisognava per forza passare di là. Almeno, non

era tanto lungo (solo una lunghezza di corda); ma definire la sua

difficoltà IV+ era davvero troppo ottimistico. Per Roland si tratta-

va di un V secco, io lo giudicai un V-. In ogni caso, un tratto deci-

samente impegnativo. Traversammo in orizzontale per due metri

fino a uno spigolo che risalimmo per dieci metri. Questo, Kaspa-

rek lo definiva V-; per me era un V puro, come minimo. Arrivato

in cima trovai un bel terrazzino, ottimo per sostare e tirare il fiato.

Mi lasciai cadere a terra di peso, piantai un chiodo in una fessura,

vi passai il moschettone e agganciai la corda con un mezzo barca-

iolo. Diedi un paio di strappi robusti: era il segnale per Roland che

ero in sicura e che lui poteva liberare la corda. La recuperai velo-

cemente e, quando fu ben tesa, lui si avviò per raggiungermi. A-

vanzava lentamente, a fatica. Roland era giovane e robusto, ma

venti chili di peso sulle spalle non sono uno scherzo e quando si

deve scalare un quinto grado, sembra di averne quaranta addosso.

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Proseguimmo per un colatoio: quindici metri di ghiaccio duro e

compatto. Valutai se indossare i ramponi o se affidarmi solo alla

piccozza. La pendenza non era eccessiva e per fissare i ramponi

avrei perso un bel po' di tempo. Avrei dovuto levarmi i guanti, e le

mani a contatto col metallo avrebbero perso sensibilità in brevis-

simo tempo. Poi per riattivare la circolazione ci sarebbe voluta al-

meno mezz'ora. Decisi che per stavolta avrei lasciato perdere i

ramponi. Con la piccozza mi scavai degli scalini in cui infilare la

punta degli scarponi e sbucai in cima al colatoio abbastanza age-

volmente, più di quanto mi sarei aspettato. Poi fu la volta di Ro-

land, che mi raggiunse senza difficoltà.

Eravamo alla base dello Strapiombo di Ghiaccio e la stanchezza

cominciava a farsi sentire. Io ero piegato in avanti con la schiena

curva e le mani appoggiate sulle ginocchia e facevo lunghi respiri

per mandare nei polmoni più ossigeno che potevo. Dietro di me

sentivo Roland, anche lui col fiatone. Mi mise una mano sulla

spalla. Io mi girai verso di lui. « Che c'è? »

Lui fece un cenno con la testa. « Dritti su per lo strapiombo o lo

aggiriamo? »

« Io direi di aggirare a sinistra. Ci metteremo più tempo, ma è

più sicuro sulla roccia. D'accordo? »

« Sì, per me va bene. Dovrebbe esserci un chiodo, no? »

« Già, basta che non sia come l'altra volta. »

Trovammo il chiodo e ne saggiammo la resistenza: sembrava

reggere. Il tratto era un IV+. Roland mi fece sicura e io cominciai

a salire. La roccia era buona, anche se friabile in certi punti, e ci

misi meno del previsto ad arrivare all'inizio del nevaio che era la

nostra meta. Era là infatti che, secondo me, si trovavano i corpi di

Voog, Gribek e Schlömmer. Erano quasi le dieci di mattina e ave-

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vamo davanti a noi un bel po' di ore di luce, ma non c'era tempo da

perdere se volevamo ridiscendere in giornata. Tanto più che si sta-

va alzando un venticello freddo che non prometteva niente di buo-

no.

Il nevaio aveva una forma ad otto, con la metà superiore netta-

mente più in pendenza di quella inferiore. Una piccola gola al cen-

tro formava la strozzatura dell'otto. La superficie da esaminare non

era molto estesa e pensai che, male che andasse, non ci avremmo

messo più di tre ore per completare il lavoro. Dagli zaini estra-

emmo un mazzo di asticelle cave di plastica lunghe sessanta cen-

timetri. Le avvitammo assieme e realizzammo due sonde di tre

metri ciascuna, del tipo di quelle usate per le valanghe. Decidem-

mo di partire da metà nevaio e di esaminare strisce orizzontali di

terreno larghe un metro. Se non avessimo trovato niente saremmo

passati alla striscia successiva. L'intenzione era quella di compiere

una ricerca metodica, in modo da impiegare il minimo tempo pos-

sibile. Cominciammo. Io da sinistra e Roland da destra. Era un la-

voro noioso che comportava una notevole fatica. La neve era dura

e compatta e, nonostante la punta d'acciaio, l'asta faticava a scen-

dere in profondità. Dopo il primo mezzo metro, bisognava usare

parecchia forza per affondarla. Ma potevamo trovare i corpi da un

momento all'altro, se solo la fortuna ci avesse dato una mano.

Trascorse un'ora, poi due, poi tre. Niente, non avevamo trovato

il più piccolo oggetto che incoraggiasse le nostre ricerche. Nulla

che ci dicesse: siete sulla strada giusta. Eravamo stanchi e sfidu-

ciati. Possibile che i corpi si trovassero nella metà superiore del

nevaio? Data la sua pendenza non sembrava probabile, ma i fatti

finora mi avevano dato torto. Poteva anche darsi che i tre metri

delle nostre sonde non fossero sufficienti e che i corpi si trovasse-

ro ancora più in profondità, ma in quel caso com'era possibile che

fossero stati avvistati dal Cessna?

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« Pausa pranzo? » fece Roland.

« Ottima idea. Stavo per dirlo » risposi. Era l'una passata e, ol-

tre che di mangiare qualcosa e di tirare il fiato, avevamo bisogno

di chiarirci le idee. Com'era possibile che non avessimo trovato i

corpi? Avevamo sbagliato posto? Mi pareva impossibile. Prima di

imbarcarmi in quell'avventura, ero riuscito a scambiare due chiac-

chiere sia con Haston che con Geiger, e le descrizioni che loro mi

avevano dato del luogo dell'avvistamento corrispondevano in ogni

particolare a quello in cui ci trovavamo in quel momento. La quota

corrispondeva, l'orientamento anche, e la caratteristica forma a ot-

to del nevaio era inconfondibile. Non potevano essercene due i-

dentici sulla stessa montagna!

Attaccò a piovere: grosse gocce di pioggia mista a grandine

che, rimbalzando sui nostri caschetti, producevano il rumore di

sassolini che cadono su una tavola di teak. La pioggia aumentò ra-

pidamente di intensità e grosse nubi blu e violacee si raccolsero in

pochi minuti sopra le nostre teste. Tra un po' sarebbero cominciati

i tuoni e i lampi. Prendemmo gli zaini e tutto il resto e andammo a

ripararci sotto una grossa sporgenza di roccia, una cinquantina di

metri a destra del nevaio. Eravamo abbastanza al riparo da pioggia

e vento, ma erano i fulmini che mi preoccupavano. Allontanammo

da noi le piccozze, i chiodi, i ramponi e tutti gli oggetti appuntiti

che avrebbero potuto attirare le scariche elettriche. Ci sedemmo

all'indiana sulle nostre corde e incrociammo le dita. Non serve a

niente ma ti fa sentire meglio. Visto che eravamo immobilizzati,

tanto valeva occupare il tempo pranzando. Mangiammo il solito

pemmican e della frutta secca, e ci dissetammo con del tè. L'ac-

qua, che bolliva in un tempo brevissimo, ce la procurammo come

al solito facendo sciogliere della neve. Cominciarono i fulmini, ma

per il momento cadevano piuttosto lontano da noi. Lampi, crepitii

ed esplosioni improvvise. Ogni volta che un fulmine lo attraversa-

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va, il cielo pareva spaccarsi come un vetro colpito da un sasso.

Uno zigzag biancazzurro e poi la ramificazione improvvisa della

folgore che faceva pensare a un albero capovolto. Ci guardammo

senza parlare. « Se almeno quelle nubi violacee se ne stessero alla

larga… » mormorò Roland, con un tono tra la richiesta e la pre-

ghiera. All'improvviso un boato terrificante, seguito da un rombo

basso e prolungato, sembrò voler spaccare in due la montagna.

Quando l'eco del tuono si spense percepimmo un altro rombo,

molto meno forte del precedente ma inconfondibile: il rumore di

una slavina. Era lo strato superficiale del nevaio che si staccava e

scivolava verso valle a velocità sempre più alta e trascinava con sé

anche parte della neve della metà inferiore dell'otto. Dopo una

quarantina di minuti, all'improvviso come era cominciato, il tem-

porale finì. Nel cielo si aprì uno squarcio di azzurro che rapida-

mente si allargò, mentre le nubi residue venivano spazzate via dai

forti venti in quota.

Una macchia scura era comparsa proprio al centro del nevaio.

All'inizio pensammo che potesse trattarsi di una delle tante pietre

trascinate giù dalla forza della slavina, ma non era così. Aveva l'a-

spetto di un oggetto nero, piatto, a forma di un piccolo disco. Av-

vicinandomi, notai delle grosse scanalature regolari che si irradia-

vano dal centro e che mi fecero pensare ai raggi di una ruota. Il so-

le riverberava sulla neve e abbagliava per l'intensità e per i riflessi

della superficie candida. Indossammo degli occhiali dalle lenti

molto scure e quando arrivammo a qualche metro di distanza

dall'oggetto che aveva attirato la nostra attenzione, ci rendemmo

conto di che cosa si trattava. Roland lo capì un istante prima di

me.

« È un tacco! Il tacco di uno scarpone! » disse eccitato.

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Facemmo di corsa gli ultimi metri saltando e affondando nella

neve, e alla fine quasi tuffandoci su quel pezzo di gomma nera.

Ma non era solo un tacco: prima emerse la suola intera, poi la to-

maia di un grosso scarpone di pelle di colore bruno, e poi della

stoffa color grigio scuro, gelata e dura come un pezzo di roccia.

Scavammo con foga affondando le mani e liberando quell'oggetto

dalla neve come avrebbe fatto un cane per disseppellire un osso.

In pochi minuti lo riportammo alla luce. Era il cadavere di un

uomo girato a faccia in giù, le gambe piegate e le ginocchia strette

contro il petto. Quando si sta per essere investiti da una slavina, gli

esperti consigliano di muovere braccia e gambe per cercare di gal-

leggiare sulla neve, esattamente come se si nuotasse. Forse lui non

lo sapeva. O forse non ne aveva avuto la forza ed era stato som-

merso dalla slavina. Allora si era raggomitolato in posizione fetale

per tentare di mantenere una sacca d'aria attorno al naso e alla

bocca e per rallentare il più possibile la fuga di calore dal proprio

corpo. Una volta che il movimento della neve si è arrestato, e se lo

strato che si è accumulato sulla propria testa non è troppo profon-

do, si riesce talvolta a scavare un passaggio fino alla superficie.

Sempre che là sotto, nel buio totale, non si perda l'orientamento e

si riesca a capire in quale direzione bisogna scavare.

Lo girammo delicatamente e vedemmo la pelle arrossata, i ca-

pelli scuri, folti e spettinati, gli occhi che parevano fissarci, il naso

leggermente gonfio, le labbra socchiuse come se stessero per dire

qualcosa, e i denti candidi e regolari. Penso che quell'immagine

rimarrà per sempre scolpita nella mia mente. La faccia aveva un

aspetto talmente naturale da far pensare che la vita avesse abban-

donato il corpo di quel giovane – che pareva esattamente della no-

stra età – non più di pochi minuti prima.

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Ma non era così. Il tipo di abiti che indossava e l'attrezzatura di

cui era dotato indicavano chiaramente che doveva essere rimasto

sepolto là sotto, in quella tomba di ghiaccio, per almeno vent'anni.

Sulla schiena portava ancora lo zaino di tipo militare. Grigioverde,

con fibbie e cinghiette invece delle cerniere lampo; e con dei lacci

annodati a mano al posto di quelli bloccati da fermi di plastica, a

molla e pulsante, che noi usavamo ormai da anni. Probabilmente

quell'attrezzatura doveva essere già vecchia quando il giovane a-

veva iniziato la sua avventura sull'Eiger.

Ma di chi era quel corpo? Roland aprì lo zaino e ne svuotò il

contenuto sulla neve: calzettoni di riserva, cordini, un mazzo di

chiodi, un maglione blu, una scatoletta di carne, una bussola, un

coltellino multiuso, la custodia di una macchina fotografica, una

carta dettagliata dell'Oberland bernese, una matita e… un quader-

netto. Si trattava di un semplice quaderno scolastico con fogli a

quadretti trattenuti al centro da punti metallici. Sulla copertina,

l'immagine di una vettura antica che riconobbi all'istante: una Ford

nera Modello T. Le pagine erano piene di appunti e annotazioni. E

sulla prima facciata, una data e un nome: Luis Gribek! Avevamo

trovato il diario di uno dei quattro componenti la spedizione a cui

aveva partecipato nostro padre, venti anni prima.

Prima di cominciare a leggere, lo sfogliai per vedere quante pa-

gine fossero state riempite. Era impressionante osservare come la

scrittura, che fino a metà quaderno era chiara e nitida, da quel pun-

to in avanti diventava sempre più incerta e tremolante. Nelle ulti-

me tre facciate erano stati tracciati degli scarabocchi quasi incom-

prensibili. Gribek doveva aver fatto una fatica tremenda a scrivere

le ultime righe: la sua mano doveva essere quasi inservibile, con-

gelata e insensibile come un pezzo di legno d'abete. Eppure in quei

pochi appunti illeggibili poteva celarsi la chiave che avrebbe spie-

gato il come e il perché di tutto quel che era accaduto a nostro pa-

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dre e ai suoi tre compagni. Una spiegazione che nostro padre, ter-

ribilmente provato da quella spaventosa esperienza, non era stato

in grado di dare alle autorità durante l'inchiesta seguita alla disgra-

zia.

Quando era giunto alla “finestra” della stazione Eigerwand era

ormai esausto e sul punto di crollare per la fatica fisica e mentale

che aveva sopportato nelle ultime ore. In qualche modo si era tra-

scinato fin lì dal nevaio che si trova sopra lo Strapiombo di Ghiac-

cio, in una notte gelida spazzata da venti che tagliavano la pelle

come lame di coltello e da una bufera di neve che limitava la visi-

bilità a non più di due o tre metri. Questa straordinaria impresa l'a-

veva portata a termine da solo, consapevole che la vita dei suoi tre

compagni dipendeva da lui, dalla rapidità con cui i soccorsi sareb-

bero arrivati. Aveva spiegato la situazione agli addetti di Eiger-

wand e aveva raccomandato di fare presto, il più presto possibile.

Poi, una volta riscaldatosi e dopo un pasto caldo, si era addormen-

tato e non si era risvegliato che trentadue ore dopo. A quel punto

la tragedia si era compiuta. E quando lui avrebbe dovuto risponde-

re alle tante domande degli uomini del Soccorso, dei poliziotti, dei

medici e dei giornalisti, si era reso conto che non ricordava più.

Non esattamente, almeno. Molti degli spaventosi ricordi delle sue

ultime ore sulla Mördwand erano stati cancellati, come se la mente

di Manfred Brandler avesse voluto difendersi da qualcosa di trop-

po doloroso, da qualcosa che lui non era in grado di sopportare.

All'inizio aveva pensato che si trattasse solo di una situazione

temporanea e che nel giro di pochi giorni o al massimo di qualche

settimana quelle lacune si sarebbero colmate e tutti i particolari di

quella maledetta ascensione sarebbero riaffiorati alla sua coscien-

za. E lui avrebbe potuto soddisfare tutti i “come”, i “quando” e i

“perché”.

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Passarono giorni, settimane e mesi, ma ciò che nostro padre a-

veva sperato non accadde. I suoi ricordi di quei giorni sull'Eiger

erano sempre vaghi, nebbiosi, indistinti… Nella sua mente qualco-

sa si era inceppato, ma tutti – o quasi tutti – si erano convinti che

lui in realtà sapesse fin troppo bene che cosa era accaduto. Solo

che non aveva alcuna voglia di raccontarlo. Evidentemente perché

aveva delle gravi colpe da nascondere. Quale altro motivo avrebbe

potuto esserci?

Il diario di Gribek

28 luglio ore 2.15 - Partiamo da Alpiglen. Tempo buono.

Hermann è in testa, poi Manfred, io e Walter. Attacchiamo

dal Primo Pilastro, serie di fessure e camini (semplici),

breve sosta al nevaio, serie di cenge, Pilastro Fessurato.

Sosta di quindici minuti. Nicchia del Bivacco, qualche sca-

rica di pietre e pezzi di ghiaccio. Hermann fa un salto per

scansare una grossa pietra, scivola e cade su una roccia

appuntita. Grosso strappo sulla schiena al suo giaccone az-

zurro. Ormai inutilizzabile. Manfred ne ha uno di riserva

nello zaino, ma è un po' piccolo per Hermann. Gli cede il

suo e indossa l'altro.

Questa era un'informazione molto interessante. Nostro padre a-

veva dato a Voog il suo giubbotto imbottito – quello rosso che usa-

va sempre in montagna – e lui ne aveva indossato un altro. Guarda

caso, il giubbotto di riserva era azzurro. Così la gente che alla Klei-

ne Scheidegg osservava i quattro alpinisti col cannocchiale, e che

aveva visto il primo di cordata con un giubbotto rosso, si era con-

vinta che fosse nostro padre a guidare il gruppo, mentre invece in

testa era sempre Voog. E quindi, quando più su avevano sbagliato

strada, la responsabilità era da attribuire soprattutto a Voog.

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Parete Verticale. Dritti per un tiro, poi a destra. Altro pila-

stro e inizio della Fessura Difficile (V). Perdiamo un po' di

tempo, dobbiamo abbandonare un chiodo. Canale; quattro

tiri di corda in diagonale verso sinistra. Grande spiazzo:

qui inizia la Hinterstoisser. Cengia strettissima. Lasciamo

una corda fissa per eventuale ritirata (incrocio le dita). Ni-

do di Rondine. Ancora un traverso a sinistra e finalmente

il Primo Nevaio. Alla fine del nevaio, breve parete (IV) e

poi il Budello di Ghiaccio. Siamo al Secondo Nevaio,

tempo buono e tutto procede bene. Dieci tiri di corda per

attraversarlo (non finisce mai!), poi superiamo il Ferro da

Stiro e siamo al Bivacco della Morte. Stanchi ma soddi-

sfatti, ci sistemiamo per la notte. Ceniamo verso le 19, poi

Walter tira fuori un'armonica a bocca: gli avanza ancora

fiato per suonarla!

29 luglio. Tempo sempre buono. Abbiamo passato una

notte discreta. Io ho dormito come un sasso per tre ore di

fila, poi dormiveglia fino alle 5.30. Panorama mozzafiato.

Rapida colazione e alle 6 siamo in marcia. Terzo Nevaio,

nessun problema. Sperone di roccia, poi leggera discesa; la

Rampa (5 tiri, IV). Breve Camino (IV+). Brutto passaggio

su uno spigolo (V-). Il Couloir ghiacciato ci fa perdere pa-

recchio tempo. Strapiombo di Ghiaccio (IV+). Lo saliamo

direttamente. Sbaglio! Conveniva aggirarlo a sinistra su

roccia. Piccolo Nevaio. Bel terrazzino prima della Fessura

Difficile. Ci fermiamo per la notte. Siamo piuttosto prova-

ti, ma ormai manca poco! Cena intorno alle 20, poi ci riti-

riamo nei sacchi e ci proteggiamo con i teli impermeabili.

Temperatura molto rigida.

30 luglio. Brutta sorpresa: ci svegliamo in mezzo a una

bufera di pioggia mista a nevischio. Vento forte. Ci con-

sultiamo tra noi su cosa fare. Manfred vorrebbe tornare in-

dietro; Walter e Hermann vogliono proseguire lo stesso. Io

non so con chi schierarmi; alla fine voto per andare avanti.

(Spero di non dovermene pentire). Attacchiamo la Fessura

Difficile (V, roccia friabile). È dura ma ce la facciamo.

Traversata degli Dèi (III). Nebbia fittissima. È maledetta-

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mente difficile orientarsi, ma Hermann continua a essere

fiducioso. Siamo all'ultimo grande nevaio: il Ragno. Ci te-

niamo su una gobba al centro. Risaliamo verso sinistra

puntando verso un couloir. Arriviamo a un salto di roccia

nera (15 metri, V). Proseguiamo lentamente, Hermann de-

ve piantare parecchi chiodi. Pieghiamo leggermente a sini-

stra. La salita si fa sempre più difficile, non si vede quasi

niente. La neve e il vento sono aumentati. Arriviamo a un

cul de sac: impossibile proseguire! Hermann e Walter si

mettono a discutere. Io e Manfred cerchiamo di calmarli.

Dopo mezz'ora di discussioni, decidiamo di tornare sui no-

stri passi: non c'è altro da fare. Avanziamo con cautela.

Walter è colpito alla testa da una grossa pietra che rimbal-

za e gli schiaccia la mano destra. Cade nel vuoto, ma gra-

zie al Cielo il chiodo e la corda resistono allo strappo. Lo

recuperiamo a fatica. Tamponiamo il sangue e riusciamo a

farlo rinvenire, ma la ferita è brutta e ha una mano inutiliz-

zabile. Decidiamo di tornare al terrazzino di questa notte.

Walter non può camminare e dobbiamo calarlo di peso. È

un calvario: ci mettiamo il resto della giornata per fare un

centinaio di metri. Per fortuna, troviamo un terrazzino de-

cente. Walter ha la febbre alta e delira per tutta la notte.

31 luglio. Tempo sempre pessimo. Walter sembra essersi

un po' ripreso. Decidiamo di tentare di arrivare alla fine-

stra della Eigerwand. Hermann fa di tutto per tener alto il

morale. Ci è rimasto anche poco da mangiare. Sciogliamo

della neve e ci prepariamo del tè bollente. Ci sentiamo su-

bito meglio, ma fa un freddo terribile. Scendiamo calando

Walter il più delicatamente possibile. Hermann si dà da fa-

re per cercare la via di discesa migliore. (Probabilmente si

sente responsabile di quel che è successo). Scendiamo

pianissimo: a questo ritmo ci vorranno dieci giorni per ar-

rivare alla Eigerwand. Sbagliamo strada parecchie volte.

Troppo tempo sprecato! Comincio ad avere paura che non

ce la faremo. Verso le sei e mezzo di sera, Hermann cade

malamente e si storce una caviglia. Forse è addirittura frat-

turata. Siamo tutti stanchissimi. Ci accampiamo alla meno

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peggio su un terrazzino, agganciati alla parete con chiodi e

cordini. Diamo fondo alle ultime riserve di cibo.

1° agosto. Questa è stata la peggiore notte della mia vita.

Ho un principio di congelamento a mani e piedi. Faccio fa-

tica anche a tenere in mano la matita. Hermann non ce la

fa più a camminare e anche io ho grossi problemi. Man-

fred è il più in forma di tutti: è l'unico che può andare a

chiamare i soccorsi. Lui non è d'accordo e vorrebbe restare

con noi, ma a che servirebbe? Alla fine lo convinciamo.

Spero solo che i soccorsi arrivino in tempo, non so se Wal-

ter ce la farà a superare un'altra gelida notte in parete.

Manfred parte alle otto, la nebbia si è un po' diradata e ha

smesso di nevicare. A mezzogiorno Hermann propone di

spostarsi un po' più giù: ha trovato un bello spiazzo ripara-

to, ma è sotto un nevaio. Non so se sia una buona idea, pe-

rò qui siamo terribilmente esposti al vento. Alla fine Her-

mann mi convince: traslochiamo, armi e bagagli.

Così, adesso sapevamo che cosa era successo e su chi ricadevano

le maggiori responsabilità di quella tragedia. Adesso tante cose si

chiarivano. Erano dovuti passare venti anni, ma alla fine la verità

era saltata fuori. Si usa dire che “il tempo è galantuomo”; per me e

Roland, questa ne era stata la dimostrazione più evidente.

Ora però sorgeva un problema. Un problema a cui non avevo

minimamente pensato quando era iniziata la nostra scalata dell'Ei-

ger, ma che adesso mi era divenuto improvvisamente e dolorosa-

mente chiaro: quali sarebbero state le conseguenze se avessimo de-

ciso di rendere pubblico quel documento? Che cosa sarebbe succes-

so se avessimo mostrato alla stampa, alle autorità e ai soci dell'ÖAV

il diario di Luis Gribek? Ovviamente, nostro padre sarebbe stato

completamente riabilitato. Ma a che prezzo? Farlo significava ria-

prire vecchie ferite e, soprattutto, causare un grande dolore alla fa-

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miglia di Hermann Voog. Famiglia alla quale eravamo molto legati

fin da piccoli e che aveva fatto tutto il possibile per difendere nostro

padre dalle accuse che gli erano state lanciate. Accuse false, certo.

Ma allora ben pochi lo credevano e nessuno sarebbe stato in grado

di dimostrarlo. Loro, i Voog, erano stati solidali con nostro padre e

premurosi con noi. Di più: per me e mio fratello erano stati una se-

conda famiglia. Avevamo dell'affetto per loro, oltre a una grande

stima e a un'amicizia che non volevamo distruggere. Che fare dun-

que?

Esposi i miei dubbi e le mie preoccupazioni a Roland, e alla fine

ammisi: « Io non me la sento. E tu? » Lui mi fissò negli occhi, poi

abbassò le palpebre e scosse la testa. Non avremmo più avuto il co-

raggio di guardare in faccia Anita, Ulrich e Katia, i tre figli di Her-

mann Voog, né Klara, la sua vedova. Nostro padre ormai non c'era

più ed erano passati oltre venti anni da quei fatti. Era andata così, e

– per quanto ci riguardava – nessuno avrebbe mai saputo dalle no-

stre bocche quel che avevamo scoperto. Non restava che distruggere

la prova, la testimonianza postuma di Luis Gribek.

Il quadernetto prese fuoco in un attimo, e in meno di un minuto

si trasformò in un mucchietto di cenere che un refolo di vento si in-

caricò di disperdere in tutte le direzioni. Dopo questa operazione –

un piccolo rito – ci sentimmo molto più leggeri e perfino allegri.

Adesso avevamo ancora l'ultimo compito da portare a termine. A

nostro padre era stata negata la soddisfazione di vincere la terribile

Mördwand, ma noi ce l'avremmo fatta. Per lui.

Risalimmo il couloir con un leggero arco a destra per due lun-

ghezze di corda. Arrivammo a una fessura di quarzo bianco e la r i-

salimmo lungo uno strapiombo di quaranta metri (un bel IV+). Con-

tinuammo su placche lisce a sinistra, fino a imboccare un canale

non molto profondo. Raggiungemmo un comodo punto di sosta, e

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da lì ci spostammo a sinistra finché raggiungemmo un terrazzo. Ora

bisognava calarsi in corda doppia fino a raggiungere una cengia. Un

po' sopra la cengia c'era un canale ghiacciato. Lo imboccammo e

proseguimmo per quattro (o forse cinque) tiri di corda, finché rag-

giungemmo una piccola cresta. La aggirammo a destra e conti-

nuammo per altre quattro lunghezze su roccia. Eravamo arrivati al

tratto che separa la parete nord da quella nordest. Non restava che

proseguire ancora a destra verso la famosa cresta Mittellegi. Man

mano che salivamo, la pendenza diminuiva e le nostre gambe si

muovevano come se avessero avuto una volontà propria. Più ci av-

vicinavamo, più allungavamo il passo. E più leggeri ci sentivamo.

Sul tratto finale mi sembrava quasi di volare.

Infine la vetta! Fu un momento magico, uno di quei momenti che

restano impressi per sempre nella memoria di un alpinista. E se que-

sto è vero per gli altri, a maggior ragione lo era per noi due, consi-

derati tutti i fatti e le persone che ci avrebbero legati per sempre alla

Parete Nord dell'Eiger.

I corpi di tre alpinisti ritrovati sull’Eiger

(Dalla “Tribune de Genève”:) Kleine Scheidegg, 21 luglio.

Erich e Roland Brandler, due giovani alpinisti viennesi, hanno

vissuto un paio di giorni fa una macabra avventura. Nella loro

ascensione per la conquista (riuscita) della difficilissima parete

nord dell'Eiger, in un nevaio si sono imbattuti nei corpi di tre lo-

ro sfortunati colleghi, che a quanto sembra hanno trovato la

morte più di venti anni fa. Si tratta di Hermann Voog, Luis Gri-

bek e Walter Schlömmer. La cosa strana è che Erich e Roland

sono i figli di Manfred Brandler, il quarto scalatore del gruppo e

l'unico che, in circostanze drammatiche, riuscì allora a salvarsi.

Ma c'è di più. Quando gli uomini del Soccorso Alpino hanno

aperto lo zaino di uno dei tre, e precisamente quello di Hermann

Voog, vi hanno ritrovato un foglio di carta che riporta una stra-

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na dichiarazione. La trascriviamo integralmente, così come ci è

stata riferita: “Se non dovessi sopravvivere finché i soccorsi ci

raggiungeranno, voglio che si sappia questo: solo io sono il re-

sponsabile di tutto quanto è accaduto. Nessun altro deve esserne

incolpato. Chiedo perdono ai miei compagni, alle famiglie e a-

gli amici.” La vedova e i figli hanno confermato che la firma

posta in calce al foglio è senza alcun dubbio quella di Hermann

Voog. Naturalmente, il nostro giornale si impegna a far luce su

questa misteriosa vicenda e a chiarire il significato delle strane,

ultime parole dello sfortunato alpinista. Nei prossimi giorni,

gentili lettori, certamente ne saprete di più.

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Dov’è Oscar?

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La tana

Laggiù, da qualche parte, era nascosto Oscar.

Forse aveva trovato rifugio nella soffitta di una casupola abba n-

donata, una di quelle bicocche semidiroccate che erano state tirate su

cento anni prima con legname di recupero e blocchi di pietra legati

con un po‟ di malta; casupole che (chissà come) resistevano ancora

in piedi sui ripidi fianchi del colle.

O magari si trovava in uno dei capannoni che cadevano a pezzi, a

qualche decina di metri dalla linea ferroviaria. Quelli con tutti i vetri

rotti che si vedevano là in fondo, accanto ai moli deserti del porto

vecchio; magazzini del secolo scorso, ormai regno incontrastato di

topi e scarafaggi.

Ma poteva anche darsi che Oscar si fosse rintanato in uno di quei

vecchi stabili malandati a uno o due piani, dalle piccole finestre qua-

drate e dai tetti a due spioventi rivestiti di tegole rosse sbreccate.

Molti di quegli edifici erano abbandonati da anni.

O forse si era rifugiato in una delle palazzine moderne di vetro e

acciaio costruite alle pendici dell‟altopiano, dove i quartieri semiper i-

ferici si tramutavano gradualmente in sobborghi e i vigneti terrazzati

contendevano lo spazio alla pietra, al cemento e all‟asfalto.

Oppure - perché no? - Oscar se ne stava al sicuro in una delle ville

della ricca borghesia che, a monte e a valle, affiancavano la strada

costiera panoramica; la statale 14 che in meno di tre ore, con un a m-

pio arco verso ovest e attraversando paesetti e paesotti del Basso

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Friuli e del Veneto, portava fino a Venezia.

Sì, Oscar era lì da qualche parte. Ma dove?

Ross Jellicoe schiacciò il mozzicone di sigaretta contro la grossa

pietra marrone e grigia del parapetto in cima al torrione. Numerose

scintille sprizzarono contro la mano e sulla parte inferiore della giac-

ca blu scuro del completo tropical. Ross imprecò tra sé e si spazzolò

il tessuto con gesti rapidi e nervosi. L‟aria calda e umida stagnava

sulla città, ma lassù tra i merli del castello era resa sopportabile da

una brezza sottile che soffiava dal mare.

Per l‟ennesima volta Jellicoe si domandò perché mai proprio lui

era stato scelto per una missione che l'agente del posto, il “residente”,

avrebbe assolto assai meglio e più rapidamente. Era uno che cono-

sceva a fondo il territorio e conosceva la gente che popolava quella

strana città. Sì, strana città e strana gente. Facevano un gran va nto

della loro italianità… eppure dell‟Italiano classico - quello da carto-

lina illustrata (pizza e mandolino) - avevano poco o nulla.

C‟era il porto, naturalmente, e i cantieri navali. La sua posizione

all'estremità settentrionale dell'Adriatico, e il fatto che avesse i fon-

dali più alti del golfo, avevano fatto sotto l'Austria la sua fortuna. E

dove c‟è un porto - osservava Moratti - si incontra gente di tutto il

mondo. Non solo marinai. Anche gente che, sbarcata in città con

l‟idea di farsi un giro e divertirsi un po', decide di fermarsi per qual-

che mese o qualche anno, o magari per sempre. Ce n'erano stati tanti

che avevano deciso di mettervi radici; per lavoro, perché avevano

trovato l‟anima gemella o semplicemente perché il posto gli piaceva.

E così per secoli, commercianti, agenti marittimi, armatori, capitani,

marinai, cuochi, mozzi, ingegneri, tecnici navali, maestri d'ascia e

gente in cerca di fortuna si erano mescolati agli abitanti originari, che

erano soprattutto pescatori e contadini. Ma questa città non era solo

un porto di mare, era anche il punto di incontro - o piuttosto di scon-

tro - di civiltà molto diverse. Civiltà latina da una parte e slava

dall‟altra, principalmente. Ma anche civiltà germanica e del Centro

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Europa. L‟impero austro-ungarico, travolto e poi dissolto dalla Prima

Guerra Mondiale, aveva dominato per secoli su tutta la Venezia Giu-

lia e aveva influito sui suoi abitanti, plasmandone in parte il carattere

e lo stile di vita.

Ne era venuto fuori quello che gli Americani chiamano melting

pot, un “calderone”. E il risultato lo si vedeva chiaramente nelle tante

ragazze che, con quei capelli biondo oro e quelle gambe lunghe e af-

fusolate, avevano ben poco del tipo mediterraneo. Ma c‟erano anche

quelle coi capelli neri e ricci e lo sguardo invitante, e c‟erano le bru-

ne più riservate. L‟unico tipo piuttosto raro da incontrare era quello

celtico: capelli rossi, carnagione pallidissima e pelle ricoperta di len-

tiggini. Jellicoe sorrise: le “rosse” non lo avevano mai affascinato

particolarmente.

Il panorama malinconico che aveva davanti agli occhi gli ram-

mentò la frase pronunciata da Churchill in un famoso discorso del

1946: “Da Stettino nel Baltico a Trieste nell'Adriatico una cortina di

ferro è scesa attraverso il continente”. Gorizia, a una quarantina di

chilometri a nord di Trieste, era stata divisa in due, un po' come Ber-

lino. La linea di confine passava per il centro della città: da una parte

l'Italia, dall'altra la Yugoslavia di Tito. Per Trieste il declino dalla fi-

ne della Prima Guerra era stato tristemente costante, inarrestabile

nella sua lentezza. Da porto più importante dell'impero austro-

ungarico era divenuta una città periferica dell'Italia mussoliniana e

poi, dalla fine della Seconda Guerra, era stata ridotta a bastione e-

stremo dell'Occidente. E questa condizione non aveva certo giovato

al benessere e alla prosperità della sua popolazione. Poi da quando,

nel '54, gli Americani se n'erano andati, era cessata anche la fonte di

reddito dei militari ben forniti di dollari. Il declino continuava tutto-

ra, a distanza di vent'anni dalla fine della guerra, e non si intravede-

vano prospettive di miglioramento. Eppure la città vista da lì era bel-

la, con i moli e i palazzi neoclassici, e il mare e le verdi alture che la

circondavano. Sarebbe riuscita a tornare agli antichi splendori?

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Il nucleo originario della città - gli aveva spiegato il “residente” -

era sorto sul colle di San Giusto e lentamente si era esteso verso il

mare e verso le pendici dell‟altopiano. Con l‟aumentare dei traffici

erano aumentati anche gli abitanti. Gli stranieri che vi risiedevano

stabilmente erano divenuti sempre più numerosi e si erano riuniti in

gruppi in base alla loro origine. E questo desiderio di riunirsi si era

materializzato nei diversi edifici religiosi che, con cupole e campani-

li, movimentavano il panorama delle strade e delle piazze cittadine.

Chiese cattoliche, greco e serbo-ortodosse, protestanti delle diverse

confessioni, e la sinagoga ebraica naturalmente, erano sparpagliate in

tutta l‟area metropolitana e avevano rappresentato per secoli il punto

di riferimento delle varie comunità.

Nella sua cultura e - meno - nella sua lingua, questa città aveva

subito l‟influenza di popolazioni provenienti da tutti i punti cardinali:

Roma antica, la Serenissima, la Francia di Napoleone, l‟Austria,

l‟Ungheria, le popolazioni balcaniche… Ma l‟idioma parlato dalla

stragrande maggioranza dei suoi abitanti era, e sempre era stato, un

dialetto veneto. Come dire, una variante facilmente comprensibile

dell‟italiano ufficiale - quello scolastico e burocratico - e insieme una

delle poche caratteristiche unificanti di quella strana popolazione.

« Sì, una città difficile da capire, ma tutto sommato facile da vive-

re » era stato il commento di Moratti. Facile perché ognuno poteva

trovarci qualcosa che gli piacesse, e qui poteva scavarsi una piccola

comoda nicchia. I suoi abitanti avevano realizzato uno stranissimo -

forse irripetibile - miscuglio di provincialismo e cosmopolitismo

senza che nessuno ci trovasse alcunché di strano o di paradossale. «

Puoi amarla od odiarla, - aveva concluso lui con una certa enfasi -

ma in ogni caso non ti lascia indifferente. Come il ventaccio locale,

la bora. » Questo, almeno, era il parere di uno che non era nato lì, ma

vi era approdato oltre vent'anni prima e da allora non si era allontana-

to che molto raramente. Un uomo che dietro la chiacchiera facile e

l'aspetto bonario - gli aveva tenuto quella piccola conferenza all'om-

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bra di una pergola con una vista spettacolare sul golfo tra un bicchie-

re di Terrano e uno di Malvasìa - nascondeva un'acuta intelligenza,

una cultura da accademico e un sangue freddo non comune.

Fingendo di osservare le rare navi mercantili e le numerose vele

bianche in mezzo al golfo, Jellicoe appoggiò la mano al lato interno

del parapetto. Tastò ogni centimetro quadrato con lentezza e preci-

sione; ne sentì la superficie calda, rugosa e irregolare. Calma e pa-

zienza: erano queste le doti che ci volevano per fare un buon lavoro.

Da sinistra a destra, dall'alto in basso, senza guardare e senza movi-

menti bruschi; movimenti che avrebbero sicuramente attirato l'atte n-

zione su di lui. Ecco finalmente quello che cercava: una fessura tra

due grosse pietre contigue. Vi infilò due dita; c‟era o non c‟era? Un

po‟ più in basso, forse. Doveva essere stato ripiegato molte volte, o

appallottolato, e poi incastrato tra i due blocchi squadrati. Doveva es-

serci. Spinse l‟indice e il medio ancor più in profondità. Ma sì che

c'era! Eccolo, ora lo sentiva tra i polpastrelli. Lo afferrò e lo tirò dol-

cemente in fuori, millimetro dopo millimetro. Lo nascose nel cavo

della mano e con un gesto noncurante lo mise nella tasca dei panta-

loni. Con lo stesso gesto estrasse un fazzoletto candido e se lo passò

sulla fronte sudata. Poi tolse la Leica dalla custodia di pelle e inqua-

drò il panorama sulla destra. Il faro - bianco, alto e sottile - spiccava

a mezza costa tra il verde degli alberi e le casette sparse. Scattò un

paio di foto e quasi con indolenza si allontanò dal parapetto. Qualc u-

no aveva forse notato la sua manovra da prestigiatore? No, nessuno

badava a un turista come tanti altri, un individuo dai capelli neri, alto

e magro, leggermente accaldato. Ross, gli occhiali scuri, la macchina

fotografica a tracolla e una guida turistica in mano, si diresse verso il

posteggio dove aveva lasciato la sua vettura.

Quando fu seduto al posto di guida, pescò fuori la pallottolina di

carta e l‟aprì. Era un pacchetto vuoto di sigarette “Nazionali”. All'in-

terno, delle lettere tracciate con la biro in fretta e furia e apparente-

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mente del tutto prive di significato. Erano quattro gruppi di cinque

lettere ciascuno, separati da spazi.

Una volta decodificato, il laconico messaggio annunciò: “Trasm

radio appena situaz tranquilla. O.” Jellicoe imprecò. Oscar aveva il

KGB alle calcagna e stava tentando di liberarsi prima di stabilire il

luogo e il momento del rendez-vous. E il micropunto? Sì, c‟era.

Guardando in controluce, Jellicoe vide brillare una macchiolina delle

dimensioni di una capocchia di spillo. Era la foto di un documento

riservatissimo ridotta a dimensioni microscopiche.

Con la mente, Ross riandò alla trasmissione radio della notte pri-

ma.

« È Oscar! » aveva assicurato Moratti. « Il ritmo e la pressione sul

tasto sono proprio i suoi. E la “L” e la “S” sono caratteristiche. A-

scolta ancora una volta. Te le faccio risentire. » Moratti aveva riav-

volto di alcuni metri il nastro del registratore e aveva premuto il tasto

“Play”. « Le senti? » aveva domandato, fissando Jellicoe come se tut-

to fosse lapalissiano.

Jellicoe aveva scosso il capo. « Non ho l‟orecchio abbastanza al-

lenato per notare differenze così sfumate. Per me è tutto uguale, non

sono un esperto del Morse. Comunque mi fido di te. Dimmi solo

quanto sei sicuro in una scala da zero a cento. »

« Novantotto » aveva detto Moratti senza esitare.

« E se fosse sotto la minaccia di qualcuno? »

« Abbiamo concordato alcuni semplici segnali. Se qualcuno gli sta

puntando una canna alla nuca, basta che Oscar trasmetta il messaggio

senza sbagliare il suo nome e che alla fine batta un solo STOP invece

che due. Tutto qui. »

« Ma potrebbe averli rivelati sotto tortura quei trucchetti, no? »

Moratti si era stretto nelle spalle. « La sicurezza assoluta non esi-

ste. Posso dirti solo che il dito che batte sul tasto è il suo. Al nova n-

totto per cento. »

« E se intercettano la trasmissione? »

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« È in codice, a gruppi di cinque lettere. Dovrebbero conoscere la

chiave o riuscire a decifrare il testo. Ma non credo che ce la faranno,

visto che adoperiamo codici mono-uso… »

Quella prima trasmissione aveva indicato a Jellicoe quale “casset-

ta postale” avrebbe usato Oscar per passargli il messaggio col micro-

punto. Era nei patti che Oscar sarebbe stato aiutato solo se avesse

dimostrato di possedere davvero delle informazioni su Kiwi. La

“cassetta postale” era un minuscolo nascondiglio - il numero cinque

in quel caso - sul torrione del castello.

La moto

La “Black Shadow”, ultima versione della Vincent 1000, era lì ne-

ra e luccicante davanti ai suoi occhi. Splendida e impressionante con

quell‟enorme tachimetro quasi verticale marcato fino a 150 miglia.

« Il proprietario ti sarebbe assai grato se gliela restituissi tutta inte-

ra, ma naturalmente... » Moratti lasciò la frase in sospeso.

« Tutta intera? Di', non crederai che mi diverta a demolire le moto

o le macchine che mi sono affidate? Sai anche tu che sul “campo”

può succedere di tutto, no? » Jellicoe era irritato, anche se il tono di

Moratti era stato quanto più neutro possibile. Il residente alzò un so-

pracciglio per un attimo ma non replicò. Quello di Jellicoe era il tipi-

co scatto di un agente sotto tensione che sente il bisogno di sfogarsi

con qualcuno, chiunque sia a tiro in quel momento. Meglio far finta

di niente, qualunque tipo di replica lo avrebbe irritato ancora di più.

Meglio impegnare e concentrare la sua attenzione nei dettagli del la-

voro che doveva essere portato a termine.

« Questa Vincent ha partecipato al TT di cinque anni fa » disse

Moratti, accarezzando il grosso serbatoio bombato. « Ne ha viste di

ogni genere, ma è in ottime condizioni. »

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« Il TT? »

« Il Tourist Trophy: la corsa sull‟isola di Man. Non ti interessi di

moto? »

Jellicoe scosse la testa. « Preferisco le auto: più comode e più si-

cure. »

« Sì, sono d'accordo, ma stavolta era proprio l‟unico modo: non ci

passa un‟auto per quelle stradine così strette. E tu e Oscar avete biso-

gno di spostarvi in fretta, molto in fretta. »

« Insomma loro gli sono alle costole! »

« Purtroppo. Oscar... be‟, non è stato molto attento: ha dissemina-

to il suo cammino di tracce. D'altronde non è neanche colpa sua: lui

ha svolto sempre e soltanto lavoro d'ufficio. Si è deciso a passare dal-

la nostra parte solo adesso che sua moglie è morta. Altri parenti non

ne ha e ormai niente lo trattiene più laggiù. Almeno, questo è ciò che

ci ha raccontato. Se ci pensi, è già un miracolo che sia arrivato fin

qui. Se avesse aspettato ancora un po‟... » Moratti si passò l‟unghia

del pollice attorno alla gola come se fosse stata un coltello e dalle sue

labbra uscì un suono stridulo e inconfondibile. Jellicoe fece un sorri-

so amaro. « Be‟, ti dico due parole sulla moto e poi il mio compito è

finito. Per il momento. » Lo sguardo di Jellicoe si fece attento e la

sua mente si concentrò sulle spiegazioni tecniche.

« Messa in moto: questa pedivella qua dietro. Ci vuole parecchia

forza, ma di solito dopo due o tre tentativi il motore si avvia. Attento

a non sporcare le candele: vacci cauto col gas finché il motore non è

in temperatura. Quattro marce. Cambio a pedale, qui sulla destra. Il

pedale del freno è dall‟altro lato, naturalmente. La moto ha quattro

tamburi laterali, ma non fare troppo affidamento sui freni quando s u-

peri le 50-60 all‟ora. La prima è molto lunga: arriva oltre le settanta

miglia. »

« Al massimo quanto fa? »

« Sfiora le centquaranta. Sempre che uno abbia il fegato di dare

tutto gas. »

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« Tutto gas? Non ci tengo proprio. »

« È piuttosto brusca di frizione, te ne accorgerai. Perciò sii cauto

all‟inizio. Ah, il cavalletto. Come vedi è piuttosto scomodo da usare.

Chissà perché, lo hanno imperniato sulla ruota posteriore. Comun-

que, con un po' di pratica dovresti farcela a sollevarla. Il serbatoio è

pieno e la moto va come un orologio. In bocca al... »

« Come no. »

« Arrivederci. »

Talpa

« Questa non è una missione come le altre, Ross. » Il Grande Ca-

po fissò Jellicoe negli occhi grigioazzurri, quasi volesse trasmettergli

telepaticamente la sua ferrea determinazione di venire a capo di quel-

la faccenda a qualunque costo. « È in ballo l‟esistenza stessa del no-

stro Servizio. Bada che non sto esagerando: non uso mai le parole al-

la leggera. E questo è talmente vero che sto per farti partecipe di in-

formazioni riservatissime. Informazioni che normalmente un agente

non sarebbe autorizzato a conoscere. Si tratta di fatti che attualmente

sono noti solo a tre persone: io, il Capo del Personale e il Primo Mi-

nistro. Nessun altro. Secondo i criteri standard, tu non avresti “biso-

gno di sapere” per eseguire l‟incarico che ti affido. Ma, come dicevo,

questa è una faccenda molto speciale. E io penso invece che devi sa-

pere che cosa c‟è in ballo, anche a scapito della sicurezza. In questo

momento la motivazione e il senso di responsabilità sono prioritari

rispetto a qualunque considerazione di riservatezza. » All‟improvviso

su quella poltroncina poco imbottita, Jellicoe si sentì come se fosse

stato a bordo della sua vecchia Jaguar lanciato al massimo in un lun-

go rettilineo, le mani incollate sul volante, il motore che ruggiva e

l‟aria che sibilava tutt‟intorno a lui. La velocità dei suoi battiti au-

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mentò rapidamente e un brivido percorse il suo corpo. Ma nello stes-

so tempo si sentiva anche come un bambino che di notte sta per e n-

trare di nascosto in una casa abbandonata. Quali segreti gli avrebbe

rivelato l‟interno, una volta socchiusa la tetra e cigolante porta

d‟ingresso? Con gli occhi ridotti a due fessure Ross fissò

l‟ammiraglio. Che cosa stava per rivelargli sir John McKinnock, il

capo supremo dell‟MI 6? L'agente inspirò ed espirò a fondo, poi

sforzandosi di controllare il tono di voce domandò: « Che cosa c‟è…

in ballo, signore? »

« Burgess e Maclean sono una ferita ancora aperta qui al “Sei”,

anche se ormai è passata una decina d‟anni. La loro defezione in

Russia ha provocato un vero terremoto nel nostro Servizio e rimette-

re “ordine in casa” è stato duro e molto spiacevole. Ci eravamo ap-

pena risollevati, e scoppia la bomba Philby. Il terzo alto funzionario

che in pochi anni decide di passare dall‟altra parte. Tre uomini chia-

ve – sir John strinse i pugni con forza – che ci tradivano in pochi an-

ni. Come conseguenza, adesso siamo dei sorvegliati speciali: sorve-

gliati dal “Cinque”, dal governo, dall‟opposizione, dai giornali e a n-

che dagli Americani. Quelli hanno parlato chiaro: se ci scoppia tra le

mani un altro “caso”, ci tagliano fuori da tutte le loro fonti

d‟informazione. Tutte. È stato un vero ultimatum. E puoi immaginare

l‟effetto di questa esclusione sulla sicurezza nazionale, se venisse at-

tuata. »

« Ma anche loro in passato hanno avuto... »

« Ross, non possiamo assolutamente permettercelo. Assolutamen-

te! Sarebbe il colpo di grazia: vorrebbe dire chiudere baracca defini-

tivamente. Capisci? » McKinnock si interruppe un momento come

se, impotente, vedesse la propria abitazione avvolta dalle fiamme di

un incendio. « Non ci è più permesso fare neanche un errore. Eppure

abbiamo un dannato nuovo problema. Credevamo di aver fatto puli-

zia in casa… » scosse la testa controllandosi a fatica, « ma non è a f-

fatto così. » Fissò Jellicoe negli occhi e abbassò la voce fino a un

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sussurro. « Esiste… una quarta talpa. »

Jellicoe si sporse leggermente verso l'ammiraglio. « Qui? »

« Sì, maledizione! Proprio qui al Sei. » I due uomini si fissarono

senza parlare.

« Chi è? »

« Chi è? Magari conoscessimo il suo nome! Sappiamo solo che

esiste. Ed è attiva da molti, troppi anni. »

Primo appuntamento

Il portone d‟ingresso era solo accostato. La serratura non funzio-

nava più e la pesante maniglia pendeva tristemente all‟ingiù. La mol-

la era rotta e nessuno si era preoccupato di aggiustarla. E perché a-

vrebbero dovuto? Il portone era di legno massiccio, con una finestra

ricavata nella metà superiore e protetta da un‟inferriata. Il vetro non

c‟era più. Jellicoe spinse il portone, che espresse la sua protesta con

un moderato cigolio. Il pavimento era di logore piastrelle a disegni

bianchi e neri. No, più che disegni erano semplici macchioline sparse

a casaccio. Le pareti erano dipinte a olio fino all‟altezza di un metro

e mezzo o poco più. La vernice era scrostata in molti punti e quel che

ne restava ricordava nei suoi contorni le linee irregolari di una carta

geografica. Più in alto, sul muro grigiastro con ampie macchie nere

di muffa, qualcuno aveva tracciato delle scritte. Jellicoe lesse: “Tito

boia” e “Slavi de mer”. La muffa aveva ricoperto le ultime lettere.

Più in là, vide: “W Unione” e subito a fianco una “W” rovesciata e la

parola “Udi”. Il resto era illeggibile. Squadre di calcio, pensò Jell i-

coe. Il soffitto era basso, non più di due metri e venti. Al centro pe n-

deva un cavo elettrico a treccia con in cima un portalampada br u-

ciacchiato e senza lampadina. Jellicoe cominciò a salire gli scalini di

pietra bassi e grigi. Sulla sinistra era stata fissata una ringhiera di fer-

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ro; il passamano di legno era scomparso. L'agente si domandò se la

scala avrebbe resistito o se sarebbe crollata sotto il suo peso. Dopo

sei rampe arrivò alla soffitta. La porta era chiusa da una serratura Ya-

le, nuova e luccicante. Jellicoe batté qualche colpo per annunciarsi a

Oscar. Attese, ma nessuno venne ad aprire. Ribatté e attese ancora.

Niente. Tirò fuori la sua copia della chiave e la infilò nella serratura

che scattò con un rumore secco. L‟agente estrasse la Beretta dal fo-

dero sotto l‟ascella, tolse la sicura e tirò all'indietro il carrello per

mettere il colpo in canna. Ascoltò per qualche istante. Silenzio asso-

luto. Inspirò a fondo, contò mentalmente uno… due… tre… e spa-

lancò di scatto il battente, saltando dentro con l‟automatica nella de-

stra pronta a far fuoco. La squallida soffitta vuota salutò quell‟entrata

spettacolare con un educato sbadiglio. Jellicoe chiuse la porta dietro

di sé e osservò il nuovo ambiente. C‟erano posti dietro (o dentro) ai

quali nascondersi? Armadi, letti, stanzini, bauli, tendaggi, poltrone,

divani? No, niente del genere. C‟era solo una brandina metallica da

campeggio, con disteso sopra un sacco a pelo, una valigia semiaperta

dalla quale spuntavano alcuni indumenti e, sopra una cassa da imbal-

laggio, un fornelletto a gas e una lampada, da campeggio anche que-

sti. Un bicchiere, alcune bottiglie vuote di Johnnie Walker e delle

scatolette di carne gettate in un angolo completavano l‟arredamento.

Sotto i suoi passi cauti, le tavole di legno scricchiolarono per uno

sforzo che probabilmente per lungo tempo nessuno aveva più richie-

sto loro. Già, fino all‟arrivo improvviso di quel nuovo e strano ospi-

te, pensò Jellicoe. Ma dov‟era finito Oscar? Come da istruzioni rice-

vute, attese dieci minuti. Inutilmente. Oscar non si fece vedere e

Ross uscì con circospezione richiudendo a chiave la porta.

Il lastrico della strada faceva vibrare in modo preoccupante la for-

cella anteriore e il mollone della ruota posteriore. L‟ampio sedile a l-

lungato oscillava leggermente in su e in giù. Jellicoe strinse con forza

il manubrio, lottando per tenere diritta la moto, e imprecò tra i denti.

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Se solo gli avessero dato qualcosa di più adatto ai fondi sconnessi e

al fuoristrada... Sulla destra, in alto, intravide la facciata della catte-

drale col grande rosone. Ormai era arrivato in cima alla salita. Sbucò

sull‟ampia curva della via Capitolina che piegava dolcemente a sini-

stra e conduceva in cima al colle di San Giusto. Davanti ai suoi occhi

si presentarono il grande piazzale con le rovine di edifici romani e le

mura merlate del castello fatto erigere nel 1500 dalla Repubblica di

Venezia. Era mattina presto e tutta la zona era deserta. Si fermò un

momento e poi imboccò in discesa la strada asfaltata. Alla sua destra,

su un alto piedistallo di pietra bianca, una scultura che rappresentava

un gruppo di antichi guerrieri al culmine della battaglia. Gli fece ve-

nire in mente il famoso monumento ai Marines che piantano la ban-

diera sulla cima del monte Suribachi a Iwo Jima.

In fondo alla strada, un po‟ prima della scalinata che si arrampica-

va dalla piazza Goldoni, si mise in moto una Fiat 1900 nera che a-

vanzò lentamente verso di lui. Alle sue spalle una macchina scura,

fino a un momento prima parcheggiata di fronte al tozzo campanile

della cattedrale romanica, si staccò dal bordo del marciapiede e co-

minciò a seguirlo. Jellicoe proseguì in discesa. Al termine di un mu-

retto, sulla destra, la strada formava un bivio. Poteva andare diritto e

proseguire nella discesa, oppure imboccare l‟altra strada che, dopo

una brusca curva, continuava in salita. Ross proseguì diritto. Entra m-

bi i lati della strada erano affiancati da alberi imponenti. Gli sembrò

di riconoscere querce, larici e abeti, ma la sua attenzione era tutta

concentrata su ciò che stava facendo la macchina dietro di lui. A de-

stra c‟era una scaletta con gradini di pietra. Poco oltre, l‟ingresso al

parco delimitato da un muretto bianco. Prati disseminati di alberi im-

ponenti salivano dolcemente lungo il fianco della collina di San Giu-

sto. Sulla sua sinistra, dall‟altro lato della strada, la collina continua-

va in discesa. Dallo specchietto retrovisore Jellicoe intravide il lucci-

chio di una canna d‟acciaio sporgere dal finestrino del passeggero

mentre l‟auto si avvicinava. La 1900, in basso, si mise di traverso

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bloccando la strada. Dal lato nascosto dalla carrozzeria si spalanca-

rono le portiere e ne uscirono due uomini. Si abbassarono e puntaro-

no un mitra e un‟automatica contro l‟agente inglese. L‟auto dietro a

lui era adesso a una quarantina di metri e si avvicinava rapidamente.

Gli uomini al riparo dietro la vettura di traverso gridarono qualcosa

che Jellicoe non riuscì a comprendere. Ma il significato più o meno

doveva essere: “Fermati o sei morto”.

Jellicoe lanciò uno sguardo a destra e uno a sinistra. Al di là del

marciapiede, sulla sinistra, sbucava una stradina coperta di ghiaia che

scendeva fino a un giardinetto. Ma quello era un vicolo cieco. Sulla

stradina sbucava però anche un sentiero che tagliava per il prato. Jel-

licoe frenò di colpo e fece intraversare la Vincent. Diede gas. La mo-

to si impennò, partendo di scatto. Il pneumatico posteriore slittò per

una frazione di secondo sull‟asfalto del marciapiede, poi partì di

slancio. La ruota anteriore sbatté contro lo spigolo del marciapiede,

si sollevò e oltrepassò l‟ostacolo. Un forte rumore metallico accom-

pagnò il balzo. L‟agente imprecò: se il carter avesse ceduto, avrebbe

dovuto abbandonare la Vincent e proseguire a piedi. Diede gas e im-

boccò il sentiero. La discesa era piuttosto ripida. Si ritrovò su un vi-

ottolo in pavè, largo appena quanto bastava per una persona a piedi.

Il viottolo compiva un'ampia curva a destra che risaliva la collina e

ritornava infine sulla principale, sbucando di fianco a una panchina a

pochi metri dalla 1900 in attesa. Jellicoe non aveva altra scelta: do-

veva tagliare per il prato e lanciarsi nella ripidissima discesa. Si alzò

dalla sella come un cavaliere di fronte al barrage e accelerò ancora.

Ora avanzava scavando un solco nel prato. Non doveva perdere l'e-

quilibrio, non era quello il momento di cadere. Un ramo basso gli

sferzò il viso e gli aghi d‟abete lo frustarono alle guance, al naso e

alla gola come tanti piccoli pungiglioni. Abbassò la testa in tempo

per evitare un altro ramo. Rovesciò una piccola lapide con delle scri t-

te in rosso vivo: era una pietra bianca del Carso dalla superficie tor-

mentata e forata da numerosi buchi, una delle tante disseminate sulla

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collina. Ciascuna aveva un nome diverso inciso sopra, a ricordo di

militari caduti durante la Prima Guerra. La Vincent ondeggiò, ma

Jellicoe, aggrappandosi al manubrio e scalciando a terra, riuscì a te-

nerla in piedi. Ormai era in fondo alla discesa. Un alto muro lo sepa-

rava dalla strada asfaltata sottostante. Da sopra, gli agenti nemici a-

vevano cominciato a sparare. Le pallottole sibilarono, conficcandosi

nei tronchi o perdendosi nel vuoto. Ma il muraglione era troppo alto

per saltare con la moto e la strada in basso era troppo stretta. Prose-

guì lungo il margine. Più avanti il muro si abbassava fino ad arrivare

a una settantina di centimetri. La sua unica possibilità era saltare in

diagonale. Ross studiò la traiettoria e accelerò. La ruota posteriore

morse l'erba e schizzò indietro una sventagliata di terra. Jellicoe si

lanciò nel vuoto. Stavolta la Vincent si impennò appena. L'agente, in

piedi sulle pedane e col busto piegato in avanti, volò come uno scia-

tore che si lancia dal trampolino. Gli parve che il balzo si svolgesse

al rallentatore. Atterrò sulla ruota posteriore, le sospensioni andarono

a fondo corsa e una scossa fortissima colpì Jellicoe salendo fulminea

dai piedi fino alla testa. Il telaio scricchiolò paurosamente. Un attimo

dopo, la ruota anteriore sbatté violentemente contro il cordolo del

marciapiede sul lato opposto della strada asfaltata e il motore si spen-

se. Un velo nero ricoprì gli occhi dell'agente e Jellicoe provò un do-

lore lancinante alla nuca. Ma era ancora in piedi, ben piantato a terra.

Le braccia e le gambe erano percorse da un tremore violento: era

l‟adrenalina che gli scorreva nel sangue. La vista si schiarì dopo un

paio di secondi. Intorno a lui le pallottole continuavano a fischiare;

gli agenti del KGB della seconda macchina stavano scendendo a pie-

di per il prato. Ross tirò indietro la moto facendo forza con i piedi e

dando strattoni al manubrio. Ingranò la seconda e lasciò che la Vin-

cent acquistasse velocità nella leggera discesa. Lasciò andare la leva

della frizione e, dopo un paio di scossoni, il motore riprese a girare

scoppiettando. In fondo alla strada svettava una torre merlata co m-

pletamente rivestita di edera. Una finestrella lunga e stretta, ad alcuni

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metri d‟altezza, ne lasciava intravedere l‟interno completamente vuo-

to. La strada terminava in uno slargo circondato dal marciapede. No,

maledizione, non poteva essere un altro vicolo cieco! I suoi insegui-

tori erano rimontati sulla 1900 che ora si stava avvicinando rapida-

mente. Diede gas ancora una volta. La moto gemette ma saltò sul

cordolo. Una decina di metri più avanti c‟era una scaletta dai gradini

di pietra che scendeva sbucando in un angusto vicolo lastricato e pro-

seguiva inoltrandosi nella città vecchia. La stradina era poco più lar-

ga di un paio di metri e passava in mezzo a due file di casette decre-

pite a due piani. Jellicoe spinse la ruota anteriore fino al bordo del

primo gradino, si voltò un attimo per controllare a che distanza erano

gli altri, e facendo gli scongiuri diede gas. Per sua fortuna i gradini

erano solo sei. Saltellando giù per la scala, arrivò in fondo ancora in

piedi. Una ventina di metri più avanti, il vicolo confluiva in una stra-

da più larga che attraversava un ampio piazzale. Oltre il piazzale r i-

prendeva la discesa, sempre fra vecchie casette semiabbandonate, e

infine sbucava in un‟altra strada in pavè. Da che parte andare? a de-

stra o a sinistra? Jellicoe si guardò intorno e intravide, sulla destra

seminascoste dagli alberi, le mura e le scalinate dell‟Anfiteatro Ro-

mano. Sterzò da quella parte. Alla fine di quell‟ultima discesa c‟era

una curva secca a sinistra, poi una piazza e finalmente il centro ci t-

tadino. Arrivato in fondo, l'agente si immise nel traffico del corso Ita-

lia e si allontanò rapidamente.

Secondo appuntamento

Ross Jellicoe diede una rapida occhiata all‟orologio: era in antici-

po di cinque minuti. Se non si fosse presentato esattamente all‟ora

stabilita, l‟incontro sarebbe stato automaticamente annullato.

L‟agente dedicò un tetro sorriso alle precauzioni che il suo strano

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mestiere richiedeva e scese dall‟auto. La macchina era una vecchia

Alfa Romeo, una Giulietta 1600 che Jellicoe aveva prudentemente

posteggiato sotto una quercia. Il lampione più vicino era a distanza

tale che larghe macchie d‟ombra si spandevano sul parcheggio e

mantenevano l'auto nell'oscurità quasi completa. L‟agente l'aveva po-

steggiata a pettine e come ulteriore precauzione l'aveva sistemata col

muso in fuori. Nel caso di una rapida fuga - che Ross non considera-

va affatto improbabile - bastava ingranare e partire.

Appena aperta la portiera, fu avvolto nell'odore di alghe, salsedine

e umidità che aleggiava nella baia. A destra vide l‟ingresso sbarrato

di uno stabilimento balneare; davanti a lui, al di là degli alberi, le

banchine e lo specchio d'acqua del porticciolo pieno di barche a vela

e canotti attraccati ai pontili galleggianti. Alcune barche erano state

portate in secca e sollevate e gli scafi erano stati puntellati con rob u-

ste travi di legno per i soliti lavori di manutenzione periodica. Più in

là, una costruzione bassa - i cui mattoni si intravedevano sotto l'into-

naco mancante in diversi punti - si allungava verso gli scogli; proba-

bilmente fungeva da magazzino. L'imbocco della baia era chiuso in

buona parte da una diga che fungeva da barriera alle onde provenie n-

ti dal largo. In fondo alla baia un lungo molo serviva all'attracco dei

vaporetti e delle motobarche. A qualche metro di distanza dalla base

del molo erano state piazzate le due colonnine metalliche delle pom-

pe di carburante.

Jellicoe si avviò verso il piazzale deserto e poco illuminato. Da lì

partiva la strada asfaltata che si inerpicava con stretti tornanti fino a

sbucare - un centinaio di metri più in alto - sulla costiera, la statale

panoramica che serpeggiava per diciassette chilometri tra Sistiana e

Trieste. Per Jellicoe la vista che si godeva da quella strada, con sco-

gliere a picco sul mare e colline coperte di alberelli e cespugli, non

aveva nulla da invidiare alle ben più note corniches di Montecarlo. A

qualche metro dal mare era stato piazzato il capolinea della corriera

che collegava Grignano a Trieste. Ross proseguì a passo lento dir i-

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gendosi verso la base della rupe, una parete verticale di roccia calca-

rea che si innalzava per varie decine di metri e segnava il limite e-

stremo del parco di Miramare sul lato della baia. Nei caffè e nei ri-

storanti del porticciolo le luci erano tutte accese e c‟era ancora un bel

po‟ di gente che si divertiva e ascoltava la musica di un complessino

jazz. L‟occupazione anglo-americana aveva evidentemente lasciato il

segno in fatto di gusti musicali. Sotto il tendone i tavolini erano quasi

tutti occupati e sulla pista alcune coppie strettamente allacciate si

muovevano al ritmo di uno slow che Jellicoe non seppe identificare.

Doveva essere una canzone di Tommy Dorsey, la tromba era incon-

fondibile.

Jellicoe sfiorò rapidamente la Beretta nella fondina ascellare e

proseguì inoltrandosi nell‟ombra. Non più coperto dalla musica, il

rumore dei suoi tacchi risuonò distinto sui cubetti di porfido. In pochi

minuti arrivò alla base della parete verticale. I suoi occhi non si erano

ancora abituati all‟oscurità e l‟agente fissò il quadrante fosforescente

del suo orologio subacqueo finché le lancette non gli apparvero a

fuoco. Mancava un paio di minuti all‟una. Bene, era in perfetto ora-

rio. Ecco laggiù il passaggio che si apriva alla base della parete di

roccia. Era sbarrato da un cancello di ferro arrugginito, ma secondo

le istruzioni avrebbe dovuto essere solo accostato. Jellicoe vi arrivò

davanti, diede due rapide occhiate a destra e a sinistra, afferrò una

sbarra e tirò verso di sé. Il cancello non si spostò di un millimetro.

Era incastrato. Diede un paio di strattoni. Niente. Riprovò, ma senza

risultato. Le mani adesso erano sudate e anche la fronte era imperlata

di gocce di sudore. Forse la ruggine aveva saldato assieme tutta quel-

la ferraglia. Diede alcuni robusti scrolloni, tirò con più forza e stavol-

ta sentì il cancello cedere un po‟. Continuò a tirare e i cardini decre-

piti emisero un cigolio che a Jellicoe sembrò l‟urlo di un gatto che

veniva squartato. Ma il cancello si aprì di quel tanto che gli bastava

per riuscire a infilarvisi. Prima di entrare diede un‟altra occhiata alle

sue spalle. Nessuno, solo la musica in lontananza. Riconobbe la co-

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lonna sonora di un film di Orson Welles: “Il terzo uomo”. Una can-

zone dal ritmo allegro e carezzevole che faceva provare a Jellicoe,

ogni volta che la sentiva, un‟intensa quanto inspiegabile malinconia.

Molto adatta per l‟occasione, pensò. « Basta che non ci sia davvero

un “terzo uomo”. E magari un quarto e un quinto. »

Estrasse l‟automatica e cominciò a scendere i gradini di pietra, l i-

sci e bagnati data la vicinanza del mare. L‟aria era satura di umidità.

Accese la piccola torcia elettrica e la puntò davanti ai suoi piedi. La

scalinata non era molto lunga e terminava in una specie di spiaggetta

di blocchi di pietra e sassi tondeggianti. La grotta aveva una forma a

U con due entrate sul mare dalle quali una piccola barca a remi pote-

va entrare e uscire senza difficoltà. Vicino alle entrate la luce della

luna faceva luccicare le creste delle onde basse che si frangevano con

ritmo regolare contro gli scogli e rimbombavano sulle pareti. Jellicoe

vide un piccolo zaino appoggiato contro la parete nella zona più pro-

tetta. E Oscar? Controllò l‟ora: l‟una in punto. Dove diavolo si era

ficcato quel maledetto? Stava per chiamarlo, quando sentì un fruscio

di passi che si confondevano col rumore delle onde. Guardò in alto e

vide la silhouette di un uomo che si contorceva per oltrepassare la

stretta apertura del cancello. Un altro individuo era dietro di lui. So-

pra la sua testa spuntava, verticale, una canna metallica. Il primo i n-

dividuo stringeva nel pugno una grossa torcia elettrica; l‟accese e la

diresse verso il basso. La lampada portatile illuminò un‟area a pochi

metri da Jellicoe. Entrò anche il secondo uomo, e poi un terzo. Oscar

non si era fatto vivo neanche stavolta; forse aveva intuito la trappola.

A Jellicoe non restava che una via di fuga e la imboccò senza esitare.

Si riempì i polmoni d'aria e si tuffò nel basso specchio d‟acqua. Do-

veva stare sotto e continuare a nuotare finché non fosse sbucato in

mare aperto e non si fosse allontanato dall'entrata. Ma il suo guizzo e

il rumore del tuffo attirarono l‟attenzione degli uomini in alto, che

fecero partire una lunga sventagliata nel punto in cui Jellicoe era spa-

rito sott‟acqua. Lui però era già oltre. Nuotando a rana era ormai a

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due metri dall‟uscita, la luce aumentava rapidamente. Forse quei tizi

non erano sicuri di aver visto qualcuno, forse avrebbe potuto cavarse-

la. Fu a quel punto che la mano e il braccio destri sbatterono con vio-

lenza contro uno scoglio. Jellicoe sentì i bordi taglienti di cozze, o-

striche, o quello che erano, penetrargli nella carne. Il forte colpo lo

fece rimbalzare dalla parte opposta e il ginocchio colpì un altro sco-

glio. Che diavolo stava facendo, maledizione? “Stringi i denti e

guarda dove vai!” Il fondale si abbassava rapidamente e Ross ne ap-

profittò per immergersi ancora fino a sfiorare le alghe e le posidonie

che spuntavano dal fondo melmoso. Da che parte doveva dirigersi? A

sinistra c‟era il castello di Miramare con la piccola cala e il moletto

illuminato; a destra la diga di scogli che faceva da frangiflutti per le

barche a vela e i motoscafi ormeggiati nel porticciolo dei diportisti.

Prese quella direzione.

Era sott'acqua da quasi due minuti, i polmoni gli bruciavano e non

riusciva più a controllare le forti contrazioni alla bocca dello stomaco

che sono il segnale della sincope imminente. Sapeva che la diga pie-

gava a destra disegnando un‟ampia curva, e proseguì sfiorando gli

scogli. Ma si tenne a prudente distanza da quei grandi blocchi di cal-

care, che in basso erano rivestiti di cozze luccicanti e in alto di un

soffice tappeto di alghe, quasi una moquette naturale. Ancora qual-

che metro e sarebbe stato fuori vista. “Resisti… ecco: quello scoglio

laggiù. Dietro a quello sei al sicuro. Forza!” Raggiunse lo scoglio,

emerse stremato in superficie e inspirò con voracità. L‟aria gli riempì

i polmoni in fiamme e l‟ossigeno raggiunse il cervello. Finalmente i

muscoli del diaframma allentarono la morsa allo stomaco. Intorno a

lui tutto girava vorticosamente e la vista gli si appannò. Jellicoe si

tenne avvinghiato allo scoglio sperando di non perdere i sensi. Non

ora! Non doveva cedere proprio ora! Poi gradualmente le pulsazioni

diminuirono e il respiro tornò regolare. La vista si rimise a fuoco e

lui sentì i primi brividi di freddo. Controllò i danni al braccio destro:

la manica della giacca era tutta strappata e rossa di sangue. Una ma-

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no era tumefatta e dolorante. Ross aveva centrato un gruppo di ricci e

le spine si erano conficcate in profondità. Per la maggior parte si era-

no spezzate e sarebbe stato un bel lavoro tirarle fuori. Ma era vivo,

per il momento... Doveva solo assicurarsi che quei tre individui se ne

andassero. Non poteva far altro che aspettare e l'attesa sarebbe durata

almeno un paio d‟ore. Cominciava a sentire freddo e si era alzata una

fastidiosa brezza di mare. Le lancette del suo Heuer gli sembravano

inchiodate.

Dopo un‟ora, Jellicoe non ne poteva più e si decise a salire

all‟asciutto su uno scoglio. Tremava di freddo e la mano era saettata

da fitte dolorose. Anche il ginocchio gli faceva male, soprattutto

quando tentava di piegare la gamba. Sperò che non si fosse fratturato

e che il gonfiore fosse solo l‟effetto della botta contro la roccia. I lo-

cali pubblici dall‟altra parte del bacino stavano chiudendo, le luci si

spegnevano e la gente se ne andava alla spicciolata. Tornare indietro

lungo la scogliera era troppo pericoloso: la sua figura in controluce si

sarebbe stagliata contro la superficie argentea del mare come

un‟ombra cinese proiettata su uno schermo bianco. L‟unica possibil i-

tà era attraversare a nuoto lo specchio d‟acqua del porticciolo. In

questo modo sarebbe arrivato proprio di fronte alla sua macchina.

Un paio di voci attirarono l‟attenzione di Jellicoe: era una coppiet-

ta che passeggiava abbracciata sulla diga. Stavano camminando ver-

so la scogliera, proprio nella sua direzione. Il giovanotto stava bisbi-

gliando qualcosa nell‟orecchio della ragazza e lei ridacchiava. Si

fermarono proprio alla fine della diga, dove cominciavano i grandi

massi di roccia. La ragazza si appoggiò con la schiena al muretto di

protezione in cemento e il giovane premette il petto contro di lei . Si

baciarono. Jellicoe, nascosto a una quindicina di metri di distanza,

fremeva in attesa che se ne andassero. La ragazza si stava eccitando e

strinse le braccia intorno al collo di lui. “Perché proprio adesso e

proprio qui? Andatevene!” Continuando a baciarla, l‟uomo le appog-

giò una mano sopra il ginocchio e lei infilò la sua sotto la leggera

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camicia di lui e lo carezzò lungo la schiena. “Via di qua, andatevene

al diavolo!” Il giovanotto si fece strada sotto l‟ampia gonna e comi n-

ciò a risalire la coscia. La ragazza sembrò lamentarsi e protestare de-

bolmente. Lui continuò a salire con la mano. Lei si dimenò un poco e

fece una risatina. Jellicoe non ne poteva più: tremava di freddo e la

mano gli faceva sempre più male. Era gonfia quasi il doppio del

normale e le fitte di dolore erano continue. La gonna adesso era sol-

levata fin quasi alle mutandine. L‟uomo si dava da fare e la ragazza

era sempre più eccitata. All‟improvviso, un miagolio selvaggio ruppe

il silenzio della notte con lo stesso effetto che avrebbe avuto una si-

rena a tutto volume. La ragazza lanciò un urletto di sorpresa. A qual-

che metro di distanza dalla coppia due grossi gatti avevano deciso

proprio in quel momento di scoprire chi avrebbe scacciato l‟altro e

sarebbe rimasto padrone del territorio. Ridendo lei si divincolò

dall‟uomo e si allontanò di corsa di alcuni metri. Lui le andò dietro.

Poco dopo erano scomparsi nell‟ombra degli alberi del parcheggio.

Con una fulminea zampata il grosso gatto nero artigliò l‟altro dietro

l‟orecchio. Il grigio tigrato miagolò di dolore, fece un balzo

all‟indietro e corse via lasciando campo libero al vincitore. Il gatto

nero lanciò un ultimo forte miagolio, una specie di grido di vittoria o

forse il consiglio allo sconfitto di non farsi mai più rivedere da quelle

parti, e poi cominciò a leccarsi le ferite. Finalmente, rotto solo dallo

sciabordio dell‟acqua, il silenzio ricadde come un lenzuolo vellutato

sopra le barche e gli scogli.

Jellicoe attese ancora una decina di minuti, temendo che la cop-

pietta ritornasse per completare quello che era stato lasciato a metà,

ma non comparve più nessuno. L'agente si arrampicò sugli scogli te-

nendosi il più basso possibile e ridiscese cautamente dall'altro lato

della diga, quello che dava sul porticciolo ormai deserto. Quando

l'acqua gli sfiorò i piedi, si accucciò tastando intorno e cercando di

individuare eventuali cavi di ormeggio sommersi che avrebbero po-

tuto attorcigliarsi intorno alle braccia e alle gambe. Poi si riempì i

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polmoni e scivolò nell‟acqua fredda e nera. Doveva farsi una nuotata

di un centinaio di metri. Il freddo agì da anestetico sui suoi arti dolo-

ranti, ma contemporaneamente gli rese i movimenti più lenti e fatico-

si. Quando arrivò a pochi metri dalle banchine, si rese conto che era-

no troppo alte perché lui potesse arrampicarsi su, e non c‟erano sca-

lette in vista. Decise di sfruttare le funi di ormeggio di una bella go-

letta antica dallo scafo in legno. Lungo tutta la parte immersa, la go-

mena era incrostata di gusci calcarei dei bivalvi e delle conchiglie di

animaletti marini. Faticosamente Jellicoe si sollevò lungo la murata,

scavalcò il parapetto e si lasciò cadere disteso sul ponte di teak, luci-

do come uno specchio. Ripreso fiato, raggiunse la poppa e tirò a sé il

cavo fissato alla bitta di sinistra. Molto lentamente la barca si mosse

verso riva, e senza ulteriori difficoltà l'agente mise piede a terra. Un

quarto d‟ora dopo, gelato e gocciolante, era seduto al posto di guida

della sua macchina. Naturalmente aveva perso le chiavi e quindi ave-

va dovuto forzare la serratura con un pezzo di fil di ferro che aveva

preso nella goletta. L‟operazione era andata per le lunghe, visto che

aveva perduto quasi completamente la sensibilità delle dita, ma infi-

ne la serratura era scattata e lui era entrato. Poi, lavorando al buio,

aveva collegato i fili dell‟accensione ed era partito a fari spenti in di-

rezione di Trieste.

Jellicoe si sentiva stanchissimo e doveva lottare per tenere gli oc-

chi aperti. Al secondo della serie di tornanti, che dal porticciolo di

Grignano si arrampicano fino all‟imbocco della strada costiera, era

andato dritto. Se ne era reso conto all‟ultimo momento e aveva frena-

to d‟istinto. Poi si era aggrappato al volante, ruotandolo con la stessa

foga di un timoniere che vira di bordo per salvare la sua nave dagli

scogli. Aveva premuto l‟acceleratore a fondo e il muso della Giulie t-

ta si era bruscamente diretto verso il centro della carreggiata, ma n-

cando di pochi centimetri il muretto di pietra. Per fortuna la strada

era deserta. Arrivato al segnale di stop in cima alla salita, aveva mes-

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so la freccia in direzione di Trieste. In ombra sotto le chiome di gros-

si platani, nell‟ampio piazzale asfaltato che si apre sulla destra poco

prima della galleria, era ferma una vettura. Jellicoe riconobbe la

macchina alla prima occhiata: era la FIAT 1900 nera. Che idiota era

stato a credere di essersi liberato dei killer serbi del KGB! Come se

quella fosse gente che molla l‟osso! L‟agente sterzò dal lato opposto,

ingranò la prima e schiacciò l'acceleratore fino a fondo corsa. I

pneumatici della Giulietta stridettero, spaventando gli uccelli appol-

laiati tra i rami degli alberi e facendo rintanare con un guizzo in me z-

zo ai cespugli un paio di gatti grigi. La coda dell‟auto sbandò a destra

e le gomme slittarono brevemente prima di far presa sull‟asfalto. Un

momento dopo Ross era lanciato in direzione di Sistiana, sulla statale

per Venezia. La Fiat aveva sprecato qualche secondo per accendere il

motore, poi si era proiettata all‟inseguimento con i fari spenti.

Jellicoe accelerò ancora. Quella era una strada piena di curve e

controcurve insidiose e lui non la conosceva affatto. Una volta Mo-

ratti gli aveva detto che gli incidenti mortali lungo quella costiera e-

rano un avvenimento piuttosto comune e che da quando era stata a-

perta non si contavano le vetture volate giù dal costone finendo tra le

rocce sporgenti delle ultime propaggini carsiche. Alcune si erano

sfracellate sugli scogli decine di metri più in basso. Di solito, pilota e

passeggeri morivano sul colpo.

Imboccato un rettilineo lungo un centinaio di metri, spinse

l‟acceleratore a tavoletta. La 1900 era a circa ottanta metri dietro di

lui, ma il suo motore più potente le faceva guadagnare rapidamente

terreno. Jellicoe si aspettava che gli uomini che lo inseguivano apris-

sero il fuoco non appena arrivati a una ventina di metri di distanza.

Forse prima ancora. Di certo erano convinti che a bordo dell‟Alfa

Romeo si trovasse anche Oscar.

Un‟altra serie di curve alternate a destra e a sinistra. Jellicoe frenò

in ritardo e troppo bruscamente invadendo la corsia opposta. Comin-

ciò una pericolosa serpentina, con l‟auto che sbandava come una bar-

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chetta a vela in mezzo alla tempesta. Ma riuscì a riprenderne il co n-

trollo. Doveva stare attento. Riacquistò velocità. A destra la parete di

roccia verticale alta un centinaio di metri scorreva rapidissima e vici-

nissima; a sinistra il panorama del golfo, col mare che scintillava r i-

schiarato dalla luna; qualche albero spuntava ogni tanto oltre il bordo

della carreggiata. Alcune luci tremolarono all‟orizzonte: probabil-

mente dei pescherecci al lavoro. La mano destra - quella che aveva

colpito i ricci - era tormentata da fitte acute e continue, era tumefatta

e violacea. La semplice azione di stringere la corona del volante era

per Jellicoe quasi intollerabile. La Fiat intanto si era ulteriormente

avvicinata. Ross ne stimò la distanza in non più di cinquanta metri.

Davanti a lui si presentò adesso l‟imboccatura della breve galleria

naturale. Piegava verso destra e l‟Alfa vi si infilò dentro a tutta velo-

cità. Ormai mancavano solo pochi chilometri a Sistiana, il primo cen-

tro abitato. All‟improvviso, a cavallo della striscia bianca di mezzer i-

a, comparve una vetturetta bianca. Era una piccola Fiat 600 Multipla

colma di gente che cantava a squarciagola e procedeva lentamente

zigzagando. L‟autista doveva essere completamente ubriaco. Ross

ebbe appena il tempo di buttarsi tutto a destra, sentì un colpo secco e

il suo specchietto laterale andò in mille pezzi. La 600 si fermò al ce n-

tro della strada, autista e passeggeri sporsero la testa dal finestrino e,

stringendo il pugno, sbraitarono contro Jellicoe offese incomprensi-

bili. La 1900, che sopraggiungeva in quel momento, si vide la strada

sbarrata. L‟autista non poté far altro che premere a fondo il pedale

del freno. Le ruote si bloccarono, la macchina slittò e s‟intraversò

andando a sbattere con la fiancata contro il muso dell‟altra vettura.

La Multipla ricevette un colpo che la spinse indietro di cinque metri;

i fari e il parabrezza andarono in frantumi. In preda al panico, gli oc-

cupanti della 600 spalancarono le portiere e si buttarono fuori

dall‟auto in mezzo alla strada: la sbornia doveva essergli passata di

colpo. Nell‟urto il motore della 1900 si era spento, ma a parte il col-

po sulla fiancata la vettura non aveva subito danni importanti. Qual-

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che secondo dopo la Fiat era ripartita all‟inseguimento, facendo lo

slalom tra i passeggeri ancora sotto shock dell‟altra macchina.

Approfittando di quell‟attimo di caos, Jellicoe era riuscito ad al-

lontanarsi di parecchie centinaia di metri. Oltre una curva a destra, a

fianco della carreggiata, scorse un piccolo spiazzo delimitato dalla

parete di calcare. Bloccò di colpo e vi infilò la Giulietta: quella era

un‟occasione che forse non si sarebbe più presentata. Spense tutte le

luci e da sotto il sedile estrasse l‟M3, una pistola mitragliatrice ame-

ricana dell‟ultima guerra. « Un‟autentica “Grease Gun” » gli aveva

spiegato Moratti porgendogliela, « un gradito omaggio da parte del

generale Donovan dell‟OSS. » Il caricatore da trentadue colpi era già

inserito; tolse la sicura, uscì dalla macchina e si sdraiò a terra a pan-

cia sotto con le gambe ben allargate stringendo solidamente l‟arma.

La 1900 spuntò dalla curva in piena velocità. Jellicoe mirò alle ruote

anteriori e lasciò partire una lunga raffica. Le due gomme davanti

scoppiarono simultaneamente e la vettura senza più controllo piroettò

a sinistra facendo un giro completo su sé stessa. Mentre l‟autista con

la bocca spalancata e gli occhi fuori dalle orbite tentava inutilmente

di riprenderne il controllo, e il passeggero al suo fianco cercava spa-

smodicamente un appiglio a cui afferrarsi, la macchina compì un al-

tro interminabile testa-coda; riprese per un momento a muoversi di-

ritta e sembrò infine arrestarsi dopo essere andata a sbattere contro la

cordonatura del marciapiede sulla corsia opposta. Ma non era ancora

finita: per la forza dell‟impatto la grossa macchina nera si rovesciò di

lato e, coricata sul fianco sinistro, proseguì per vari altri metri str i-

sciando sull‟asfalto. Terminò la sua corsa dopo aver quasi sfondato

col tetto il parapetto metallico fissato al bordo del marciapiede. I tubi

d‟acciaio dipinti in azzurro della ringhiera si piegarono all‟infuori ma

resistettero. Le lamiere della 1900 si accartocciarono con uno scric-

chiolio che fece provare a Jellicoe una gelida stretta allo stomaco.

Per un lungo tratto il marciapiede era cosparso di frammenti luc-

cicanti di vetro, talmente numerosi da far pensare a una violenta e

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improvvisa grandinata. Una ruota coi resti sbrindellati di un pneuma-

tico continuò a girare per un po‟ prima di fermarsi definitivamente.

Da sotto la macchina si liberò un forte sibilo e del fumo bianco vorti-

cò nell‟aria: doveva essere il vapore che fuoriusciva dal radiatore

sfondato.

Tutto si concluse in meno di mezzo minuto, e subito la pace e il

silenzio ritornarono come se niente fosse accaduto. Solo il penetrante

odore della cordite aleggiò ancora per un po‟ nell‟aria fresca e pro-

fumata, prima che la brezza di mare ne disperdesse nella notte gli ul-

timi residui. Del dramma appena accaduto erano rimaste solo le trac-

ce nere di gomma impresse sull‟asfalto dalle ruote impazzite, i pez-

zetti di vetro seminati per un largo tratto e i rottami fumanti della vet-

tura semidistrutta sul bordo della strada.

I killer dovevano essere morti sul colpo. Non sarebbe stato un bel-

lo spettacolo per chi – probabilmente l‟indomani mattina – sarebbe

stato incaricato di fare i rilievi dell‟ “incidente”. In ogni caso Jellicoe

non aveva la minima voglia di andare a controllare di persona. Non

gli era mai piaciuto uccidere, ma che altro avrebbe potuto fare in

quella situazione? Come tante altre volte gli era capitato nella sua

carriera di agente segreto, anche in questo caso la faccenda si poteva

riassumere in una semplice e cinica formula: o lui o loro. Questo a-

vrebbe messo a tacere anche stavolta la sua coscienza, e tanto gli ba-

stava.

Zoppicando leggermente, risalì in macchina. A parte lo specchiet-

to sfasciato, la sua Giulietta non aveva subito alcun danno; comun-

que niente che potesse mettere lui o la vettura in relazione con quella

carneficina fumante sul margine della carreggiata. Era ora di filarse-

la, e in fretta. Sfilò dall‟M3 il caricatore ormai vuoto, spinse in de n-

tro il calcio telescopico, rimise l‟arma nel piccolo scomparto segreto

sotto il sedile del passeggero e infine richiuse accuratamente lo spor-

tellino. A una quindicina di chilometri di distanza, una fitta schiera di

luci e lucette punteggiava il lungomare, le colline e il porto; sulla su-

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perficie dell‟acqua apparivano e sparivano tremolanti serpentine lu-

minose. A quella distanza tutto sembrava tranquillo e pacifico. Jell i-

coe mise in moto, accese le luci e si avviò in direzione di Sistiana.

Allo svincolo imboccò la stretta provinciale del Carso. Avrebbe al-

lungato parecchio, ma non era certo il caso di ritornare a Trieste per

la costiera.

Per la seconda volta l‟appuntamento con l‟uomo che doveva rive-

lare all‟MI 6 la misteriosa identità di Kiwi, la talpa, era saltato. Jell i-

coe si accese una sigaretta, aspirò a fondo e gustò il sapore aspro del-

la miscela di tabacchi americani. Sarebbe mai riuscito a vederlo in

faccia, questo famoso Oscar?

La moglie di Moratti era un‟infermiera diplomata. E per Jellicoe

quella era stata la prima circostanza fortunata di una notte tutta da

dimenticare. Si era cacciato sotto la doccia calda e si era liberato la

pelle e i capelli dalla salsedine, dallo sporco, dalle macchie di nafta e

dalla puzza di morte. Poi la donna aveva passato un paio d‟ore a me-

dicare i tagli, le contusioni e le ferite varie che lui si era procurato

nella sua nuotata fuori programma. La parte più fastidiosa era stata

l‟estrazione delle spine di riccio una per una. Un lavoro di bisturi e

pinzette che avrebbe messo a dura prova la pazienza di un orologiaio

svizzero. Poi le ferite erano state disinfettate con tintura di iodio e in-

fine fasciate con garza e cerotti in abbondanza. Un paio di bicchierini

di grappa friulana a cinquanta gradi e un blando tranquillante aveva-

no chiuso in bellezza le operazioni di restauro.

Jellicoe si addormentò appena appoggiata la testa sul cuscino fre-

sco e morbido che odorava di canfora.

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Terzo appuntamento

Alle sei di sera il capolinea in piazza Oberdan del tram bianco e

blu per Opicina era pieno di gente che attendeva impaziente di parti-

re. Per la maggior parte si trattava di donne venute a fare i loro ac-

quisti in città con i figli, o di operai e impiegati che se ne tornavano a

casa al termine della giornata di lavoro. Il motore del tram si mise

rumorosamente in moto e gli ultimi passeggeri si affollarono

all‟entrata urtandosi e vociando. Jellicoe sorrise: in Inghilterra si sa-

rebbero messi tutti disciplinatamente in fila e nessuno avrebbe spinto

chi gli stava davanti. “Ma siamo in Italia, no?”

All‟ultimo momento, quando le porte stavano per chiudersi, mon-

tarono a bordo altri tre passeggeri. Portavano dei grossi occhiali scuri

e dei baffoni neri che quasi nascondevano la bocca. Uno aveva anche

la barba, folta e poco curata. I capelli neri, cosparsi di brillantina, e-

rano straordinariamente ricci. Jellicoe li giudicò dei Macedoni o for-

se dei Bosniaci. Tutti e tre portavano dei completi scuri, camicia

bianca e una cravatta col nodo mal fatto e allentato. Il colore della

pelle era scuro, olivastro. Per un momento Jellicoe si domandò se

non fossero per caso Arabi. Forse dei marinai in franchigia. Poi vide

qualcosa che non gli piacque: un leggero rigonfiamento sotto la giac-

ca, più o meno all‟altezza del taschino sinistro. Uno dei Macedoni si

piazzò sulla piattaforma anteriore, subito alle spalle del conduttore,

un altro attraversò tutto lo scompartimento pieno di gente e raggiunse

la piattaforma posteriore. L‟ultimo trovò posto a poca distanza da

Jellicoe che si era seduto accanto al finestrino su una delle strette

panche di legno, piazzate a destra e a sinistra del corridoio centrale.

Il tram partì sferragliando, attraversò piazza Dalmazia e imboccò la

salita che aumentò rapidamente la sua pendenza. Si arrestò all‟inizio

della cremagliera e gli venne agganciata la motrice che lo avrebbe

spinto fino alla stazione intermedia. La manovra venne eseguita rapi-

damente e senza intoppi. Il convoglio riprese la sua marcia con un

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rumore di grossi ingranaggi che scattavano e il lamento basso e con-

tinuo del motore elettrico. La pendenza adesso era tanto forte che i

passeggeri dovevano puntare i piedi per non scivolare dalle panche.

Man mano che il tram scalava il fianco dell‟altopiano, la vista si a-

priva sempre più sul golfo. A est si distinguevano senza difficoltà le

coste dell‟Istria che sparivano oltre l‟orizzonte; a ovest l‟altopiano

del Carso digradavava verso Monfalcone e Grado, dove la costa a-

spra e rocciosa cedeva il posto alle lunghe spiagge di sabbia, alle la-

gune e agli acquitrini. Di fianco al tram, gli alberi e le case scorreva-

no veloci e sembravano assurdamente inclinati verso monte come

tante torri di Pisa in miniatura.

Alla stazione intermedia, dove terminava la cremagliera, smontò

un buon numero di passeggeri. Pochi salirono. Jellicoe si domandò

quando Oscar si sarebbe deciso a farsi vivo. L‟iniziativa ancora una

volta doveva essere tutta sua. La procedura di riconoscimento era

sembrata piuttosto melodrammatica, ma sicuramente Oscar aveva i

suoi buoni motivi. La motrice venne sganciata e ora il tram riprese la

sua strada verso Opicina contando solo sulle sue forze. Jellicoe cal-

colò che una decina di minuti sarebbe stata sufficiente per coprire

l‟ultimo tratto in falsopiano. Il tram si fermò al semaforo: quel tratto

era a binario unico e bisognava aspettare che passasse la vettura di-

retta in città. Si sentì uno scampanellìo e, poco dopo, il tram prove-

niente da Opicina passò quasi sfiorando l'altro fermo in attesa. Qua n-

do scattò il verde, il tram oltrepassò una strada piuttosto trafficata e

aumentò gradualmente la velocità. Sulla vettura cominciarono gli

scuotimenti laterali come in un convoglio ferroviario, e con lo stesso

suono ritmico delle ruote contro le rotaie che si sente in un treno. Il

motore elettrico ululava al massimo della potenza. A un paio di sedili

di distanza da Jellicoe, un passeggero sollevò il polso per guardare

l‟orologio. L‟uomo era piuttosto anziano, ben vestito, coi capelli

quasi bianchi e un paio di occhiali scuri. Il giornale che teneva ripie-

gato sottobraccio scivolò a terra e si aprì sulla prima pagina. Era il

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Daily Express. Jellicoe si alzò in piedi, raccolse il quotidiano e lo

porse all‟uomo distinto che ringraziò in italiano. Jellicoe fissò per un

momento la sua cravatta. Poi con aria distratta domandò: « San-

dhurst? » Un famoso collegio militare inglese che molti illustri per-

sonaggi - tra cui anche Winston Churchill - avevano frequentato.

L‟uomo annuì sorridendo e aggiunse in inglese: « È sempre piacevo-

le incontrare un compatriota all‟estero. » Il tram stava decelerando.

Era l‟ultima fermata, quella dell‟Obelisco, prima di raggiungere il

capolinea di Opicina. Uno degli uomini baffuti, quello che per tutto il

viaggio era stato sulla piattaforma posteriore, entrò nello scomparti-

mento e si piazzò in modo da sbarrare la porta. Quello che era seduto

si alzò in piedi e cominciò a districarsi dalla gente che ingombrava il

corridoio, distribuendo urti e spintoni. Il tram si fermò, le porte della

vettura si aprirono e la gente cominciò a scendere. Jellicoe afferrò

per un braccio Oscar e lo trascinò senza complimenti verso l‟uscita.

« Presto! Sono in tre. Muoviamoci a saltare giù. »

L‟uomo, con un‟espressione sorpresa sul viso, riuscì appena a di-

re: « Ma che... » Jellicoe vide che l‟uomo con la barba, che occupava

la piattaforma anteriore, aveva ficcato la mano dentro la giacca e sta-

va per impugnare la pistola. Gli diede una forte spinta prima che

quello avesse il tempo di estrarla e, sempre tenendo per un braccio

Oscar, saltò giù dal tram. L‟uomo ricciuto cadde all‟indietro contro

un paio di bambini, un anziano col bastone e una donna carica di

borse della spesa. Finirono tutti quanti sul pavimento in mezzo al

corridoio, formando un groviglio inestricabile di gambe e braccia. La

gente a bordo si mise a urlare e a terra i passanti si voltarono per ca-

pire che cosa stava succedendo. L‟uomo che si trovava sulla piatta-

forma posteriore riuscì a saltare giù, seguito poco dopo da quello che

era rimasto seduto, e cominciò a sparare tra la gente. Jellicoe e Oscar

intanto stavano correndo a perdifiato verso la pineta. Un ampio se n-

tiero molto frequentato portava verso ovest. Ross e il suo compagno

lo imboccarono di corsa, fecero alcune decine di metri e poi tagliaro-

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no per il bosco, con gli altri due sempre alle calcagna. I proiettili fi-

schiavano intorno e andavano a finire contro i tronchi degli alberi o

rimbalzavano sui numerosi massi di pietra sparsi un po‟ dappertutto.

Jellicoe si nascose dietro a una roccia, mirò con cura e fece partire un

paio di colpi. Il primo andò a vuoto, ma il secondo colpì in pieno pe t-

to uno dei killer che fece ancora alcuni passi sulle gambe improvvi-

samente molli e pesanti e poi stramazzò a terra, faccia in avanti.

L‟altro avanzò di lato. Era più cauto e si manteneva al riparo di alberi

e massi. Oscar, più che impaurito, sembrava esterrefatto. “È in stato

di shock”, si disse Jellicoe. Parlando in fretta gli domandò: « Ce la fa

a correre per un altro centinaio di metri? » L‟uomo lo fissò con gli

occhi sgranati: « Ma che diavolo sta... » Non ebbe il tempo di com-

pletare la frase: una pallottola lo colpì alla base del collo, gli fracassò

alcune vertebre e gli dilaniò il cervelletto. Oscar cadde a terra fulmi-

nato. Una seconda pallottola sfiorò Ross al braccio, strappò la mani-

ca della giacca e fece sulla pelle lo stesso effetto di una fiammata. Le

dita di Jellicoe si aprirono di scatto e la Beretta gli cadde di mano.

L‟afferrò con l‟altra, e sparò svuotando il caricatore sull‟uomo che

stava per raggiungerlo. Il secondo inseguitore inciampò, cadde e fece

una serie di strane capriole prima di fermarsi. Jellicoe non seppe mai

se fosse morto o no, si alzò di scatto e filò a tutta velocità verso il fol-

to del bosco.

Oscar! Lo avevano ammazzato! Era morto assassinato da un killer

del KGB e lui che doveva proteggerlo aveva fallito. Dannato idiota!

Perché non si era accorto prima di quei tre? E poi perché Oscar aveva

scelto proprio quel maledetto tram per incontrarlo? Una trappola

mortale. Voleva confondersi tra la gente ma non aveva funzionato.

Era stato un disastro. Adesso non restava che mettersi in salvo. Do-

veva raggiungere Moratti che lo aspettava in macchina poco fuori dal

paese e doveva andarsene rapidamente dall‟Italia. Ci sarebbero state

grane diplomatiche a non finire. Al diavolo! Che se ne occupassero i

passacarte del Foreign Office nei loro comodi ufficetti. L‟operazione

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era saltata e la responsabilità era tutta sua, di Ross Jellicoe. Be‟, forse

la sua carriera di agente era arrivata alla fine. Forse lo avrebbero an-

che buttato fuori dal “Sei”. Immaginò quell'eventualità con freddo

distacco, come se non si trattasse di lui ma di qualche collega che

conosceva appena. Già, questa poteva essere la spintarella che gli oc-

correva per piantarla con un tipo di vita che non gli piaceva più. Ma

certo avrebbe preferito chiudere in modo diverso, con un successo e

non con quel disastro.

Sorpresa

« Ha funzionato, Ross. La trappola è scattata. Il capo è soddisfat-

tissimo, raggiante. Non lo vedevo così dalla crisi dei missili a Cuba:

quando era arrivata la conferma che Krusciov aveva mollato, aveva

fatto organizzare un piccolo party, lì nel suo ufficio. Una cosa inaudi-

ta per il “vecchio”. » Il Capo del personale era tutto un sorriso.

« Lo avete beccato, allora? »

« A Heathrow, con un passaporto falso. Tentava di prendere il vo-

lo per Helsinki, quel bastardo. E stavolta penso che abbiamo fatto

davvero piazza pulita al Sei. »

« E così il caso è archiviato. »

« Con la massima soddisfazione da parte nostra. Davvero un otti-

mo lavoro, James! »

« E Oscar? Lo avete sacrificato per far saltar fuori la talpa? Un

cavallo per un alfiere, è così che si dice? Be‟, certe volte questo lavo-

ro mi fa davvero schifo. »

« Non sei il solo a pensarla così, James. “Dolorose decisioni”, è

questa l‟espressione che si usa in simili casi. Ma stavolta no. Oscar

non è stato sacrificato. »

Jellicoe sgranò gli occhi per la sorpresa. « Ma che diavolo dici,

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Will? L‟ho visto morire sotto i miei occhi! Lo hanno fulminato con

un colpo che gli ha spappolato la nuca. Rivedo ancora le macchie del

suo sangue e della sua dannata materia cerebrale sulla giacca, la ca-

micia e i pantaloni… »

Will Emmott scosse lentamente il capo. « No, Ross, ti sbagli. Le

cose stanno in modo molto diverso. Perché quello che è morto... »

« Quello che è morto… cosa? »

« Non era Oscar. »

« Non era Oscar? Ma che storia è questa? No, non ci credo. Cosa

vuoi darmi a bere? »

« Lo so, sembra incredibile anche a me. Se penso a tutte le coinci-

denze che… »

« Aveva il giornale in mano e la cravatta coi colori di Sandhurst! »

« Una combinazione. Una pura e semplice combinazione. Chi a-

vrebbe potuto prevedere che un tizio col Daily Express e la maledetta

cravatta regimental sarebbe salito sul tram proprio in quel momento?

Un caso su un milione. Meno ancora, forse. »

« Vuoi farmi credere che si trattava di un tizio qualunque, uno che

per caso si è trovato in mezzo? »

« Sembra assurdo, eh? Eppure è così. La realtà può essere più sor-

prendente della più sfrenata fantasia. Lui non c‟entrava proprio per

niente, poveraccio. Si è trovato nel posto sbagliato al momento sba-

gliato. Pura sfortuna. »

« E Oscar? Che fine ha fatto? Si nasconde ancora da qualche par-

te? È riuscito a rientrare in patria? O il KGB lo ha ammazzato? Will,

perché diavolo hai quel sorriso strano? Vuoi tranquillizzare la mia

coscienza con la frottola che non si poteva fare diversamente, che lui

sarà considerato un eroe, che il rischio per la nazione era intollerabile

e così via? »

Will Emmott adesso sorrise apertamente; poi tornò serio. « Non

scaldarti, Ross. C‟è una cosa che tu non sai e... »

« Will, non posso far finta di niente! Quando sei sul campo le tue

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prospettive sono molto diverse che al QG. E quando perdi un agente

che ti è stato affidato... »

« Basta! Non l‟hai perso. » Emmott tacque e fissò lo sguardo su

Jellicoe. Nella stanza calò un silenzio pesante, rotto solo dal vecchio

orologio a pendolo che scandiva gelidamente il tempo. « Ross… » Il

Capo del personale fece una pausa e riprese scandendo le parole per

dare la massima enfasi al suo discorso « …non hai perso Oscar. Non

l'hai perso, perché Oscar non è mai esistito. »

« Ma che mi stai raccontando? Ho visto i suoi nascondigli a Trie-

ste! Sono stato nella sua tana in quella vecchia bicocca, e ho raccolto

i suoi messaggi radio e quello sul pacchetto di sigarette… Per tutta la

città ho seguito le sue tracce e adesso vuoi farmi credere... »

« È così, Ross. Te lo ripeto: Oscar non è mai esistito. È un perso-

naggio di pura fantasia. L‟abbiamo creato noi. Ed eravamo solo in tre

a saperlo: l'ammiraglio, io e il Primo Ministro. »

« L‟avete creato voi? Intendi dire che sono stato spedito a Trieste

per correre dietro a un‟ombra, a un fantasma? Che ho rischiato la pel-

le e mi sono scontrato con i killer del KGB per proteggere qualcuno

che esiste solo su dei maledetti pezzi di carta? »

« Esatto. E hai fatto uno splendido lavoro. »

« Giusto per la cronaca, chi faceva le trasmissioni radio? »

« Era un sergente della Royal Navy. Non credo che tu lo conosca.

Volevamo uno fuori dal giro, capisci, in modo da minimizzare il r i-

schio di doppio gioco e di fuga di notizie. »

« E il pacchetto di sigarette nascosto nel muro? E la tana di Oscar

in quella soffitta? »

« Qualcuno è stato incaricato di mettere quel messaggio nella

“cassetta delle lettere” e di preparare la messinscena del covo in

quella stamberga. Ma non sapeva perché faceva tutto questo. Non era

necessario che lo sapesse per fare quel lavoro. »

« Insomma, tutta l‟operazione è stata studiata per far saltare i ner-

vi a Kiwi, in modo che si tradisse tagliando la corda? »

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Emmott annuì. « Non c‟era altra soluzione. »

« E lui che fine ha fatto? »

« Ha avuto... un brutto incidente di caccia. Molto brutto. »

« Ma perché non sono stato informato del vero scopo della mia

missione? Perché non mi avete detto niente? »

« Perché saresti stao più convincente, e anche per il solito motivo:

“bisogno di sapere”. Tu non ce l‟avevi. E chi non sa, non può rivela-

re niente. Neppure sotto tortura o sotto l'effetto di pentothal, amobar-

bital e roba del genere. Sono le regole del nostro mestiere. Non c‟è

bisogno che te le ricordi, vero? »

« E il fatto che sarei potuto finire con un coltello tra le scapole o

tagliato in due da una sventagliata di Kalashnikov, non è forse un

motivo sufficiente? »

« No Ross, mi dispiace. Il rischio di lasciarci la pelle fa parte del

nostro lavoro. »

« Be', d'improvviso tutto questo mi appare come un gioco per

bambini. Guardie e ladri, o indiani e cowboys. E d'improvviso mi

sento troppo grande per continuare a giocarlo. »

« Ti capisco. È una reazione più che comprensibile dopo una mis-

sione come questa. Adesso ti spettano quindici giorni di licenza. Po-

trai riflettere con calma. Non prendere decisioni affrettate. Pensaci

su. »

« Non credo che cambierò idea. »

« Una piccola scommessa? »

« Potresti pentirtene. »

« Correrò il rischio. E chissà, potrei anche vincere. »

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Rivali

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Eravamo in marcia da più di tre ore. Il sole picchiava forte e il

riverbero della neve era accecante. Adesso la salita era diventata

ancor più ripida e l'aria secca irritava la gola. Ogni tanto doveva-

mo fermarci per mandar giù un sorso d'acqua; solo un sorso perché

la provvista era scarsa. Io bevevo dalla bottiglia di plastica da un

litro e mezzo e lui dalla borraccia di alluminio.

Ci trovavamo ancora nella zona dei crepacci, ma entro un quar-

to d'ora ne saremmo usciti. Era quello il momento che avevo stabi-

lito per agire. Mi ci erano voluti due mesi per decidermi a farlo e

quasi altrettanto tempo per studiare il piano in ogni particolare e

portare a termine i preparativi, ma finalmente ero pronto. Sentivo

la tensione crescermi dentro, le labbra serrate e i denti stretti, un

groppo in gola e le mani che mi tremavano un poco. Sarebbe stato

spiacevole, molto spiacevole, ma ero deciso a farlo.

Ecco finalmente l'occasione che aspettavo: laggiù, una ventina

di metri più avanti, ce n'era uno bello largo. Nella mia mente vidi

quel lungo squarcio nella neve ghiacciata trasformarsi in una boc-

ca sogghignante, una bocca che attende con impazienza il suo pa-

sto. Che diavolo mi stava succedendo? Il caldo, forse… o la stan-

chezza.

Lui si era piazzato a un metro dal bordo e aspettava che lo rag-

giungessi. Secondo le regole, avrei dovuto fermarmi a un paio di

passi di distanza, piantare il manico della piccozza nella neve,

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spingerlo in giù fin quasi alla becca, farci intorno un paio di giri di

corda e stringere forte la fune con entrambe le mani. A quel punto

lui avrebbe fatto un passo indietro, avrebbe teso tutti i muscoli, si

sarebbe dato lo slancio più forte che poteva e sarebbe saltato, spe-

rando di atterrare dall'altro lato. Se fosse andata male, la corda gli

avrebbe impedito di schiantarsi in fondo al crepaccio. Questo, se-

condo le regole. Solo che stavolta non avevo intenzione di rispet-

tarle, le regole. Sprofondando un po' mi avvicinai lentamente. La

neve, dura e sporca di terra e sassolini, scricchiolava a ogni passo.

Ancora pochi metri e…

Fu in quel momento che me ne resi conto, proprio quando stavo

per farlo. Mi resi conto che mi era sfuggito un particolare d'impor-

tanza fondamentale: le chiavi della macchina erano nel suo zaino.

Come avevo fatto a dimenticarmene? Non potevo certo rinunciar-

vi. Dovevo prendergliele adesso, se volevo evitarmi la scarpinata

di quindici chilometri fin giù in paese. Dopo sarebbe stato impos-

sibile. Che idiota ero stato! Sì, dovevo farmele dare adesso, ma

con che scusa? Cosa potevo dirgli? Quella stupida dimenticanza

rimetteva in discussione tutto il piano. Dovevo trovarlo in fretta,

un pretesto, prima che abbandonassimo la zona crepacciata. Per-

ché era lì che sarebbe dovuto succedere l'incidente.

Avevamo lasciato la macchina alle 8.15 in uno spiazzo ghiaioso

che si allargava dal bordo esterno dell'ultimo tornante. La strada

asfaltata proseguiva ancora per qualche centinaio di metri, ma non

per noi. Da quel punto in avanti - come ammoniva il vistoso car-

tello - diventava privata ed era rigorosamente vietata agli estranei.

Poco male, quella piazzola andava benone per posteggiare. Lì l'au-

to non avrebbe dato intralcio a nessuno e non avrebbe attirato l'at-

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tenzione. E questo era proprio ciò che volevo: non attirare l'atten-

zione su di noi, in alcun modo.

Avevamo indossato gli scarponi da ghiacciaio con lo scafo e-

sterno in plastica e i pantaloni leggeri con le toppe di rinforzo sui

ginocchi. Poi, con delle cinghiette avevamo fissato le racchette da

neve sul lato posteriore dello zaino, che avevamo riempito col mi-

nimo indispensabile. L'esperienza ci aveva insegnato che dopo due

o tre ore di marcia in salita anche mezzo chilo in più faceva una

bella differenza. L'altimetro si era fermato sui 965 metri. Solo

quindici di differenza: non male. Lo avevo regolato sulla quota re-

ale (980), mi ero fissato in mente l'ora di partenza e ci eravamo

avviati.

Il sentiero serpeggiava per un lungo tratto nel bosco, con br u-

sche variazioni di pendenza, e nella salita ci eravamo aiutati con i

bastoncini telescopici. In quel tratto avremmo potuto farne tran-

quillamente a meno, ma non dove la neve è così alta che a ogni

passo si affonda fino a mezza gamba.

Il bosco era piuttosto rado e il terreno era ancora coperto di fo-

glie secche, per lo più di colore marrone rossiccio, o nerastro se

erano marce. La pioggia era cessata solo ventiquattr'ore prima, e la

terra - che non si era ancora asciugata del tutto - emanava un odore

pungente. La primavera era cominciata alcune settimane prima e i

rami e le fronde erano già pieni di foglioline nuove che spuntava-

no dappertutto.

Eravamo entrambi allenati e avevamo tenuto un buon ritmo.

Avevamo camminato in silenzio, scambiandoci solo ogni tanto

qualche frase. Intorno a noi, per un raggio di centinaia di metri, gli

uccelli si facevano sentire coi loro versi, alcuni melodiosi e altri

schiamazzanti. Ma non appena invadevamo il loro territorio, am-

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mutolivano e restavano zitti finché non eravamo lontani. Allora il

più spavaldo si incaricava di dare il segnale di cessato pericolo:

quei due strani bipedi erano a distanza di sicurezza e si poteva tor-

nare alle proprie occupazioni.

Eh sì, eravamo una strana coppia noi due: io e l'amante di mia

moglie, quello che per tanti anni era stato un mio… ma sì, un otti-

mo amico. Uno di cui fidarsi e al quale chiedere aiuto in caso di

necessità; insomma, uno su cui contare. Ci conoscevamo dai tempi

dell'università e, anche se avevamo caratteri molto diversi, la no-

stra amicizia era sempre stata salda. Anche dopo, una volta finiti

gli studi, eravamo rimasti in contatto. Certo, un po' ci eravamo

persi di vista. Inevitabile, visto che avevamo intrapreso carriere

così diverse, ma la voglia di fare spesso due chiacchiere al telefo-

no e di vedersi a intervalli abbastanza regolari era rimasta. E ora…

Lui, naturalmente, non sapeva che ero al corrente di tutta la

faccenda; non s'immaginava che avevo scoperto cosa facevano al-

le mie spalle. Anzi, avevo ottimi motivi per pensare che non aves-

se neanche un vago sospetto che io sapevo. E lei? Lo stesso, ne ero

convinto. Neppure lei sospettava che avessi scoperto tutto; altri-

menti gli avrebbe confidato immediatamente i suoi timori. E in tal

caso, perché mai lui avrebbe dovuto accettare di accompagnarmi?

Perché mai avrebbe dovuto dirmi di sì?

Mi aspettavo di dover faticare un sacco per convincerlo a veni-

re, anche se lui era certo che fossi all'oscuro di tutto. In fondo, chi

non si sarebbe trovato a disagio in una situazione di quel genere?

M'immaginavo che avrebbe tirato fuori una quantità di scuse e che

io avrei dovuto insistere come mai prima di allora per strappargl i

un “E va bene!” a denti stretti. Anzi, mi ero già preparato una lun-

ga serie di risposte alla lista di obiezioni che lui avrebbe sicura-

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mente sollevato. E invece? Niente di tutto questo: aveva accettato

subito e senza discutere; con entusiasmo perfino.

Avevamo preso quota rapidamente e in un'ora avevamo coperto

un dislivello di almeno quattrocento metri. Man mano che si sal i-

va, il paesaggio cambiava aspetto: pini e abeti prendevano il posto

dei grossi alberi a latifoglie, e rocce e pietrisco si sostituivano

all'erba, ai cespugli, alla terra e al tappeto di foglie secche. Poi a-

vevamo incontrato i mughi bassi e folti. Coi loro rami, che solle-

vandosi da terra si allargavano a ventaglio, facevano pensare alle

dita di una mano che poggia sul dorso. Ci eravamo fatti largo in

mezzo agli aghi pungenti e avevamo continuato a salire.

Più su il sentiero zigzagava tra imponenti massi di calcare spar-

si qua e là, e nelle zone in ombra attraversavamo delle chiazze di

neve che si andava lentamente sciogliendo. Quando arrivammo al

rifugio lo trovammo chiuso, ma la cosa era scontata. Le porte e le

finestre erano sbarrate e la fontanella con la vasca in cemento era

completamente secca. Per buona misura, era stata tolta anche la

levetta che comandava la valvola di apertura del rubinetto. I gesto-

ri non sarebbero venuti che all'inizio di giugno. Be‟, per lo meno

le panche e il tavolo che avevo visto l'ultima volta erano ancora là,

sotto il grande larice. Ne approfittammo per sederci, tirare il fiato

e mangiare qualcosa. Era il momento di indossare le ghette im-

permeabili: poco più su cominciava la neve alta.

A farmi intuire ciò che stava succedendo tra quei due era stato

soprattutto il caso, come capita spesso in situazioni di questo gene-

re. Da un lato una dimenticanza, una piccola distrazione, e dall'al-

tro l'osservazione di qualcosa di strano, d'insolito. Per me si era

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trattato di un numero: l'ultimo numero composto dal telefono del

nostro appartamento. Il numero che era apparso sul display quan-

do, per sbaglio, avevo premuto il tasto RP che lo richiamava dalla

memoria. Era il suo. Eppure, da almeno tre settimane non gli tele-

fonavo da casa. Chi era stato a chiamarlo? Lei. Solo lei poteva es-

sere stata. Ma per quale motivo? Che cosa aveva da dirgli? C'era-

no forse delle novità? E quali? Ci pensai un po' su senza conclude-

re niente e dopo un po' mi ero già scordato tutta la faccenda. Io

non sono mai stato uno che si rode dalla gelosia.

Diversi giorni dopo, sul tavolino del salotto notai due bicchieri.

In uno c'erano ancora delle gocce di cognac: il profumo era incon-

fondibile. A mia moglie non piacciono i liquori forti e non piac-

ciono neppure alle sue amiche. Per quanto ricordavo, ce n'era solo

una che aveva una gran passione per la vodka. Ma era un sacco di

tempo che non avevamo sue notizie, e quelle gocce nel bicchiere

certo non erano di vodka. Comunque, anche stavolta non diedi

importanza alla cosa.

Poi successe un fatto che mi fece vedere tutto sotto una luce

molto, molto diversa. E fu di nuovo il caso a dirigere gli eventi.

Un giorno, verso l'una, ero andato al ristorante dove pranzo di soli-

to. La porta d'ingresso era sbarrata e, appeso a un gancetto, avevo

trovato un cartello su cui era stampato: “Chiuso per lutto”. Dove

potevo andare a mangiare? Passai mentalmente in rassegna i locali

che frequento abitualmente o che conosco per esserci stato almeno

una volta, e optai per il “Mandarino”. Mi era venuta voglia di pol-

lo all‟ananas e di riso al curry, e così ero tornato alla macchina e

mi ero diretto verso il mio ristorante cinese preferito.

Ero fermo al semaforo; li vidi mentre aspettavo che scattasse il

verde. Erano dall'altro lato della strada, seduti al tavolo di un risto-

rantino sulle rive, le cui specialità erano il pesce fresco e i frutti di

mare. Se ne stavano all'ombra, sotto una grande tenda a strisce

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gialle e verdi. Vidi lei ridere e sollevare il calice, e lui che si af-

frettava a riempirlo fino all'orlo di vino bianco, mentre le diceva

qualcosa con un gran sorriso sulle labbra. Non ci voleva un occhio

d'aquila e neanche un'intelligenza da Nobel per la Fisica per capire

che se la spassavano e se la ridevano alle mie spalle. Non si erano

neanche preoccupati di mettersi in una delle salette interne, molto

più al riparo da sguardi indiscreti. Tanto, sapevano benissimo che

le probabilità che capitassi lì erano praticamente zero, perché il

pesce non mi va e a quell'ora o sono in ufficio o sono a pranzo da

qualche parte. Ben studiata, certo. Peccato per loro che il caso ci

avesse messo lo zampino. Un vero peccato.

Ma un momento. Non ero saltato troppo presto alle conclusio-

ni? Non poteva darsi che si trattasse solo di un pranzetto innocente

tra buoni amici? Non poteva darsi semplicemente che… Forse a-

vevo fatto galoppare troppo la fantasia, forse mi ero fatto trascina-

re dall'immaginazione. Ma comunque stessero le cose, non potevo

più far finta di niente: dovevo chiarire una buona volta quella fac-

cenda.

Quella sera feci finta di niente, aspettando che fosse lei ad ac-

cennare all'incontro. Ma lei non lo fece. Né quel giorno, né i suc-

cessivi. Allora decisi di tener d'occhio il telefono e così le mie ul-

time illusioni vennero spazzate via dalla realtà. I contatti, anche se

discreti, proseguivano regolarmente. In quel periodo lei cambiò

pettinatura (una cosa che non faceva da anni) e modificò legger-

mente anche il modo di truccarsi. Era diventato un pochino più vi-

stoso, più giovanile. Per vie traverse venni poi a sapere che era

andata da un avvocato, un legale il cui studio era specializzato in

cause civili; separazioni e divorzi in particolare. Stava forse prepa-

randosi a lasciarmi? Aveva deciso di dare un taglio netto e defini-

tivo alla nostra unione?

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Lui non era mai stato sposato e sapevo che aveva mollato da

poco la ragazza con cui aveva vissuto negli ultimi sei mesi. O for-

se era stata lei a piantarlo, poco importava. Ma il quadro era chia-

ro. Chiaro e completo in ogni particolare. C'era solo un piccolo

dettaglio: io volevo ancora bene a mia moglie e, anche se dal gior-

no del nostro matrimonio erano passati undici anni, i miei senti-

menti verso di lei non erano mutati. Anzi, in tutto quel tempo ave-

vo imparato ad amarla e ad apprezzarla sempre di più.

E allora che fare? Non volevo, non potevo perderla. E se c'era

un sistema - qualunque sistema - per continuare a tenermela ac-

canto, non avrei esitato a usarlo. Senza scrupoli e senza rimorsi.

Non so perché, ma lei non riuscii a odiarla. Immagino che i n-

consciamente avevo deciso di scaricare tutta la colpa e tutta la re-

sponsabilità su di lui. Quello sporco individuo aveva tradito la no-

stra quasi ventennale amicizia; aveva vergognosamente approfitta-

to della generosità e della bontà d'animo di mia moglie; aveva usa-

to l'astuzia e l'inganno per sottrarmela. E lei - ingenuamente - era

caduta nella trappola. O almeno questo era ciò che pensavo allora.

M'immaginavo perfino la scena: lui che le telefona e le confessa

che, da quando l'altra lo ha piantato, ha perso la voglia di vivere.

Lo sentivo dirle con voce studiatamente rotta che si sentiva uno

straccio e che aveva un disperato bisogno di compagnia. Sì, la

compagnia di una persona dolce e sensibile che gli facesse dimen-

ticare - almeno per un po' - le sue pene e lo strazio del suo cuore.

Roba di questo genere, insomma. Pura soap. E poi immaginavo lei

che, lusingata e commossa, accettava l'appuntamento e si faceva in

quattro per tirarlo su di morale. Lurido bastardo!

Il fatto è che quella scena strappacore della ragazza-che-lo-ha-

piantato gliel'avevo sentita recitare non so quante volte fin da

quando eravamo compagni d'università. Tante di quelle volte che

l'avevo imparata a memoria. E, per quanto sembri incredibile, in

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genere funzionava. Penso che dipendesse dal suo tono di voce, che

non sapevi mai se era serio o se ti stava prendendo in giro. Un at-

timo prima era Amleto nel monologo col teschio in mano, e un at-

timo dopo era Sinatra o Dean Martin che canta seduto al piano e

flirta con la bionda di turno. E loro, le ragazze, ci cascavano rego-

larmente.

Portata a termine la conquista, le mollava invariabilmente nel

giro di due o tre settimane, e via di nuovo in caccia. Bionde, rosse,

brune… andavano tutte bene se avevano un bel corpo e un viso

grazioso.

Quante? Quante erano le ragazze che aveva avuto? Lui non a-

vrebbe saputo dirlo. E i loro nomi poi...

No, io non mi sarei fatto incantare: lo conoscevo troppo bene.

Ma mia moglie… Doveva essere andata così di sicuro. E quasi

senza accorgersene si era ritrovata nelle sue braccia. Sì, devo am-

metterlo, lui era un vero maestro con le donne.

Dopo un quarto d‟ora di sosta avevamo lasciato il rifugio.

Qualche centinaio di metri e nuova fermata sulla sponda di un tor-

rentello che si ingrossava rapidamente. A quanto pareva, ad alta

quota la neve aveva cominciato a sciogliersi. C'era pericolo di va-

langhe? Secondo la mia guida tascabile, quella non era una zona

particolarmente a rischio, ma nessuno di noi due era del tutto tran-

quillo. Trovammo il punto adatto per il guado - una fila di grosse

pietre, lisce e rotonde, piazzate strategicamente a mezzo metro l'u-

na dall'altra - e passammo oltre.

Dopo altri venti minuti, ci eravamo inoltrati in una profonda

vallata che si restringeva man mano che si saliva, fino a trasfor-

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marsi in una gola. Ma la pendenza dei fianchi delle montagne non

era molto accentuata e più su, dentro la gola, dovevamo attraversa-

re zone quasi sempre in ombra, con temperature molto basse. Qui

la neve sarebbe durata ancora parecchie settimane, e forse non si

sarebbe sciolta neanche in giugno.

Dopo un‟altra mezz'ora di cammino avevamo fatto sosta per

metterci i ramponi. Per me era stata una faccenda piuttosto lunga,

perché quelli che avevo non erano ad aggancio rapido, ma dove-

vano essere allacciati per mezzo di fibbie e cinghiette. Lui, dopo

essersi fissati i suoi, mi aveva dato una mano. Poi avevamo indos-

sato l'imbrago e ci eravamo legati con la corda, perché da q uel

punto in avanti il pericolo dei crepacci aumentava sensibilmente.

Certo, quella di ammazzarlo non era stata una decisione presa a

cuor leggero. E come avrebbe potuto? Non sono mica un un gan-

gster o un killer professionista! Ma quando su un piatto della bi-

lancia avevo messo l'eventualità - probabilmente remota - di essere

scoperto, arrestato, processato e condannato, e sull'altro piatto a-

vevo messo la matematica certezza che lei mi avrebbe lasciato…

be', quella bilancia l'avevo vista pendere istantaneamente tutta da

una parte. Avevo esaminato ogni eventualità e ogni possibile in-

toppo, avevo tenuto conto di tutte le difficoltà e di tutti gli impre-

visti. O almeno, così credevo.

Ma invece non era andata affatto così. Quando avevo accettato

di fare il viaggio con la sua macchina, non mi ero reso conto che

avrei dovuto trovare un sistema per procurarmi le chiavi. E adesso

cosa potevo dirgli? Non mi veniva in mente niente: avevo il cer-

vello completamente vuoto, paralizzato. Che cosa mi succedeva?

Dovevo mandare tutto il piano a monte per un particolare insigni-

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ficante come quello? Ero improvvisamente rimbecillito o cosa?

Dovevo decidermi, e subito!

Poi mi dissi che se lo avessi… sulla strada del ritorno, il risulta-

to sarebbe stato esattamente lo stesso e intanto avrei avuto tutto il

tempo per inventare una scusa. E in più, saremmo anche arrivati in

cima. Sapevo che quella era una cosa a cui lui teneva molto, per-

ché quell‟escursione l‟avevamo progettata diverse volte, ma poi -

per un motivo o per l'altro - avevamo sempre dovuto rinunciare. In

fondo, sarebbe stato quasi come esaudire l'ultimo desiderio del

condannato a morte. Volevo forse negargli anche quello? E

anch‟io volevo arrivare in cima. Ma da solo… no, da solo sarebbe

stato troppo pericoloso. Forse impossibile. E comunque, sarei po-

tuto salire come niente fino in vetta dopo aver ammazzato a san-

gue freddo un ex amico?

Sicché decisi di rinviare tutto quanto a dopo, al ritorno. An-

dammo avanti, sprofondando sempre più. Ogni mezz'ora ci scam-

biavamo di posto, perché quello che apriva la strada faceva una fa-

tica almeno doppia di quello che lo seguiva e che doveva solo ba-

dare a calcare le orme lasciate dal capo-cordata. In certo modo, mi

sentivo sollevato: avevo sospeso l'esecuzione e gli avevo concesso

ancora un paio d'ore di vita. Mi sentivo strano, ma non avrei sapu-

to dire come. Da una parte, sentivo di avere uno straordinario,

grandioso potere che mi dava i brividi (una sensazione che non

avevo mai provato prima e che immaginai assaporassero solo i ti-

ranni dell'antichità, i faraoni, i prìncipi Maya); d'altro canto, non

mi sentivo più attanagliato dall'orrore di quello che stavo per com-

piere e dalla paura di venire scoperto. Insomma, stavo decisamente

meglio.

Arrivammo alla forcella abbastanza stanchi: la salita aveva ri-

chiesto più energie del previsto. Ci fermammo per recuperare le

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forze e ne approfittammo per mangiare dell'altro cioccolato e but-

tar giù qualche sorso d'acqua. Adesso cominciava il tratto più im-

pegnativo: un secondo grado tra il ghiaccio e i cumuli di neve, in

mezzo a freddi massi di roccia grigiastra, dai quali si staccavano

dei pezzi con incredibile facilità. Quelle erano le rocce più friabili

che avessi mai incontrato nella zona. Proseguimmo con grande

cautela, usando la piccozza e affondando bene i ramponi finché

non li sentivamo far presa nel ghiaccio vivo. Avevamo solo due-

cento metri di dislivello da coprire, ma ci mettemmo oltre un'ora e

mezzo, compiendo spesso deviazioni e cercando di non perdere

d'occhio i rari e semi-nascosti segnavia di un rosso sbiadito.

Alle due la cima era nostra! Il panorama ci tolse il fiato: tutto

intorno a noi catene di monti, poi valli, poi altre catene, e ancora

vallate e altre montagne che si susseguivano per decine e decine di

chilometri. Grandiose muraglie di roccia che apparivano sempre

più chiare man mano che la distanza cresceva. Fino alle ultime

creste, di un pallido blu-grigiastro, che si stagliavano nitidissime

all‟orizzonte. Ci guardammo in faccia. La pelle era arrossata, il

naso e la gola irritati, e le labbra screpolate dal freddo e dal vento.

Sorridemmo, ci togliemmo un guanto e ci stringemmo la mano

con calore.

Quella stretta - non posso negarlo - mi fece piacere. Assai più

di quanto mi sarei immaginato. Ma non intendevo farmi vincere

dai sentimentalismi: avevo un piano da portare a termine ed ero

deciso ad andare fino in fondo.

Ci concedemmo tutto il tempo necessario per mangiare con

calma i nostri panini imbottiti e ci dividemmo un barattolo di birra

gelata. Una benedizione per le nostre ugole brucianti.

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Venne il momento di tornare. Rimettemmo tutto negli zaini, li

richiudemmo con cura e attaccammo la discesa, percorrendo a ri-

troso la trincea che avevamo scavato all'andata. Man mano che

scendevamo, sentivo la tensione tornare ad accumularsi dentro di

me. Una vena sulla tempia cominciò a pulsare con forza.

Due ore dopo eravamo di nuovo nella zona dei crepacci. Il cal-

do ne aveva aperti di nuovi e quelli vecchi erano diventati più lar-

ghi e più profondi. Io ero in testa da una ventina di minuti e avevo

già sprecato tre buone occasioni. Mi volevo decidere o no? Non

più di mezz‟ora e saremmo arrivati al rifugio: da allora in poi non

avrei più avuto la minima possibilità. Che cosa aspettavo ancora?

Poi tutto accadde così rapidamente che anche adesso, anche ora

che ho avuto un sacco di tempo per rivivere nella mente e analiz-

zare in tutti i particolari quell‟istante, mi è difficile descrivere ciò

che provai.

Sotto il mio peso, il sottile crostello superficiale cedette di

schianto. Sentii entrambi i piedi affondare. “Be‟, mi arresterò

mezzo metro più in giù”, credo di aver pensato. “Mi bloccherò

contro lo strato di rocce e sassi.” Ma no! Non c‟era alcuno strato

di rocce sotto di me: c‟era solo il vuoto. Un baratro di cui non si

distingueva neppure il fondo. Quando me ne resi conto, era ormai

troppo tardi. Non c‟era niente, assolutamente niente, a cui potessi

afferrarmi. Ebbi appena il tempo di urlare « Enzoo! » con tutto il

fiato che avevo in gola, ed ero già sparito in quella trappola gelida

dalle pareti iridescenti. Sentii la morte afferrarmi per le gambe e

tirarmi giù come un pezzo di piombo. Noo! Non doveva succede-

re, non ero io quello che doveva crepare. Che fine aveva fatto la

Giustizia?

Poi lo strappo forte alla vita e alle cosce, l'arresto brusco e la

risalita verso l'alto di un buon mezzo metro per l'effetto “elastico”

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della corda. Mi ero fermato e dondolavo sopra il nulla. In alto ve-

devo l'azzurro carico del cielo e i raggi del sole, che facevano luc-

cicare la neve all'imboccatura del crepaccio in cui io - proprio io -

ero finito. Urlai più volte. Attesi. Niente. Chiamai ancora. Perché

mai lui non mi aiutava a risalire? Passò altro tempo. « E allora, che

diavolo combini là fuori? » Nessuna risposta. Ma che stava succe-

dendo lassù?

Aspettai. Quando mi decisi ad agire, erano trascorsi altri dieci

minuti. Ormai avevo superato lo shock iniziale e ricominciavo a

ragionare con lucidità. A quanto pareva, avrei dovuto contare solo

su me stesso. Forse lui aveva ricevuto uno strappo troppo duro;

forse aveva perso l'equilibrio ed era caduto; forse aveva sbattuto la

testa su un sasso sporgente; forse era svenuto e magari si era feri-

to…

Non mi restava che piantare i denti acuminati dei ramponi e la

piccozza nella massa di ghiaccio compatto e tirarmi su pian piano,

sperando che con quei colpi non venisse giù tutta la parete. Ma che

altro potevo fare? Niente. Faticosamente cominciai ad arrampi-

carmi.

Un quarto d'ora dopo ero salito solo di un paio di metri e lui

continuava a non rispondere alle mie urla. Non dava il minimo se-

gno di vita. Gli unici suoni che percepivo erano quelli cavernosi

della mia piccozza che scavava nel ghiaccio, quelli tintinnanti dei

moschettoni d'alluminio che si toccavano e quelli ansimanti dei

miei respiri. Un pensiero mi raggelò: “Non avrà mica intenzione di

andarsene e lasciarmi qua?!”

I ramponi riuscivano a stento a scavare un paio di centimetri

nel ghiaccio. Due miseri centimetri che non bastavano certo a so-

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stenere il mio peso, e intanto le forze mi abbandonavano sempre

più rapidamente. Mi resi conto che da solo non avrei mai potuto

farcela. Mai! Disperato, diedi con uno scarpone il calcio più forte

che potevo contro la parete ghiacciata per farvi penetrare le punte

d'acciaio. Sentii lo stesso suono cupo che si produce quando si ten-

ta di piantare un chiodo nel teak. Lo scarpone rimbalzò all'indie-

tro, il rampone si staccò dalla suola e rimase a penzolare trattenuto

solo dalle cinghiette. E adesso? Che diavolo avrei fatto adesso?

Era la fine.

Non so quanto tempo restai appeso a quella parete gelida e

bluastra, ma ricordo che a un certo punto mi sembrò di vedere la

corda muoversi. La vista mi si era annebbiata e non riuscivo più a

mettere a fuoco. Cos'erano? allucinazioni? Sbattei le palpebre un

paio di volte, spalancai gli occhi e guardai fisso la corda. No, non

era un sogno: stava muovendosi. Anzi, adesso si agitava furiosa-

mente e saliva serpeggiando. Sì, stava salendo. E in fretta.

Pochi secondi dopo, la corda era tesa e rigida e una forza mi a t-

tirava verso l'alto, spanna dopo spanna, metro dopo metro. Quando

sbucai fuori con la testa e le spalle, lui mi porse il braccio. Io lo

artigliai sopra il polso, raccolsi le ultime energie rimaste e mi diedi

tutto lo slancio di cui ero capace. Uscii fuori come un tappo di

spumante da una bottiglia.

Subito dopo, le gambe non mi ressero più e caddi in ginocchio.

Un velo nero mi oscurò la vista e un fischio acutissimo sembrò

volermi spaccare i timpani. Stavo per perdere conoscenza. Piegai

le spalle, abbassai il tronco e la testa, e appoggiai la fronte sulla

neve. Avevo bisogno di ossigeno. Aria. Cercai di regolare la respi-

razione e mi concentrai sulle pulsazioni del cuore, in modo che il

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sangue riaffluisse al cervello e scomparisse quel terribile senso di

nausea; in modo che quel cerchio d'acciaio smettesse di stringermi

la fronte, le tempie e la nuca. Alla bocca dello stomaco, delle vio-

lente contrazioni mi avvertirono gentilmente che stavo per vomita-

re.

Poi, lentamente, mi ripresi. Quando rialzai la testa i nostri

sguardi s‟incrociarono e i miei occhi si fissarono nei suoi. Allora

capii. Lui mi guardò per un attimo e subito abbassò le palpebre:

non riusciva neppure a sostenere il mio sguardo.

Un lungo silenzio. Poi, con voce cupa e rassegnata: « Sai tutto,

eh? Io… lo so, non ho giustificazioni. Posso solo dirti che mi di-

spiace. Non avrei mai creduto che un giorno… È stato… non so,

un attimo di follia. »

« Volevi lasciarmi lì? » domandai. Lui non rispose. « Ma per-

ché? A che scopo? Per quale motivo? »

« Perché? »

« Sì, perché? »

« Iris », disse semplicemente, come se questo spiegasse tutto.

« Iris? »

« Lei, sì. Ti sembra strano che uno come me si sia innamorato?

Eppure, stavolta è successo. E anche lei… be‟, non proprio inna-

morata, ma mi vuole bene. Sai cosa mi ha detto? “Se ci fossimo

conosciuti prima… chissà? Tutto sarebbe potuto accadere.” Que-

sto mi ha detto Iris. Sono le sue parole. E io sono convinto, so che

se ci fossimo conosciuti prima… ecco, ho la scena davanti agli oc-

chi: siamo fianco a fianco, lei mi tiene un braccio intorno alla vita

e io le cingo le spalle; a qualche metro da noi, sull'erba, un paio di

bambini - tre, forse - giocano con un cane; sullo sfondo la nostra

villetta in periferia e una vecchia station-wagon verde scuro; in ca-

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sa, su un tavolo rotondo, una scatola di cartone piena di fo to in-

giallite: le nostre foto. E invece… » Tacque. Aveva lo sguardo so-

gnante, perso nel vuoto e io lo fissavo sbigottito.

Poi continuò: « Eppure, anche adesso forse… be‟, non subito,

naturalmente. Però… dopo un anno o due, potrebbe anche deci-

dersi a sposarmi. » Chiuse gli occhi e smise nuovamente di parla-

re. Aveva un groppo in gola. Strinse le labbra e inghiottì faticosa-

mente. Restammo entrambi in silenzio. Poi lui riprese con amarez-

za: « Ma non finché… »

« Finché? »

« Ah, stupidaggini! »

« Finché? »

« Non lo immagini? Odio questi pensieri. Non farmi continua-

re, ci faremmo del male inutilmente. A che scopo parlare di quel

che sarebbe potuto essere e che invece non sarà mai? Iris ha già te.

Ha già trovato l‟uomo della sua vita e non vuole nessun altro. Pa-

role sue. »

« Sì, ha già me. Ma se io… »

Lui annuì. « In quel caso - forse - lei accetterebbe di sposarmi.

O forse no. Chi può dirlo? Per un momento mi sono illuso che a-

vrei potuto… ma no, non ne ho avuto il coraggio. Lo so, ho sba-

gliato fin dall‟inizio e non ho neppure la sfacciataggine di chieder-

ti di perdonarmi. Considera solo che un momento di follia può ca-

pitare a chiunque. Se ti va bene non succede niente, altrimenti lo

sconterai per tutta la vita. »

« Ma l'avvocato, allora? »

« Quale avvocato? »

« Quel tale… Martellani. So che Iris c'è andata. Lui è uno spe-

cialista in divorzi, uno che ha fama di riuscire a togliere anche la

camicia agli ex mariti... con gli alimenti e tutto il resto. »

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« Ah, quello. È vero, c'è andata. Ha accompagnato un'amica, mi

pare. O una collega di lavoro. Non so di preciso. »

Era tutto a rovescio: tutto il contrario di quel che mi ero imma-

ginato. Avevo rischiato di uccidere un amico per niente! E lui in-

vece mi aveva salvato la vita. Tutto era andato bene, tutto era fini-

to nel migliore dei modi. Per me, almeno. Avrei dovuto sentirmi

sollevato, felice, ma invece non lo ero affatto. Avevo lo stomaco

sottosopra e mi sentivo un lurido verme.

A quel punto potevo far finta di niente? Potevo tenergli nasco-

sto il piano che avevo studiato e perfezionato per settimane e set-

timane? Potevo fare il magnanimo dicendogli che in fondo lo ca-

pivo e che non gli serbavo rancore? Potevo tentare di consolarlo

con una frase del tipo “Non scoraggiarti, vecchio mio: vedrai che

anche tu troverai l'anima gemella prima o poi”? No, non potevo.

Dovevo dirglielo. Dovevo confessargli il progetto che avevo pre-

parato così meticolosamente e che forse avrei anche avuto il co-

raggio di attuare. Non fu facile, ma vuotai il sacco.

Quando seppe cosa avevo avuto in mente per tutto quel giorno,

lui fece un sorriso tirato e disse semplicemente: « Deuce! » (Enzo

era un fanatico del tennis.)

Qualcuno avrebbe forse trovato comica quella situazione, ma

né io né lui avevamo voglia di ridere. Scendemmo a valle senza

scambiare una sola parola, montammo in macchina e partimmo.

Arrivati in città, ci separammo con un semplice ciao. Da quel

giorno, di lui non ho saputo più niente.


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