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GIOVED 13 FEBBRAIO 2020 L'ECO DI BERGAMO 13 ......2020/02/13  · «Neet - Giovani che non studia-no...

Date post: 09-Aug-2020
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L’ECO DI BERGAMO 13 GIOVEDÌ 13 FEBBRAIO 2020 Sono davvero dei «bamboccioni»? Restituiamo loro il futuro e lo sapremo F osse un dato positivo, saremmo i più bravi d’Europa. Purtroppo, però, non è così, tanto che la percentuale dei giovani italiani tra i 15 e i 29 anni che non frequentano la scuola, non hanno un lavoro, e non seguono percorsi di for- mazione - i cosiddetti «Neet» - ci condanna inesorabilmente all’ultimo posto nella Vecchia e Nuova Europa: 23,44% (pari a 2 milioni e 116 mila giovani) contro una media europea che si ferma al 12,9%. Dietro la la- vagna e senza appello, se è ve- ro, come dicono i dati Istat del 2018, che la Croazia si ferma al 15,6%, la Romania al 17%, la Bulgaria al 18,1% e la Grecia al 19,5%. A preoccupare non è soltanto il dato complessivo, ma anche la sua «scomposizio- ne»: che il 15% dei «Neet» ab- bia tra i 15 e i 19 anni, ci può anche stare (turandosi il na- so...), ma è difficile tollerare che il 38% sia tra i 20 e i 24 anni, e - ancor di più - che il 47% abbia tra i 25 e i 29 anni. Sebbene sia uscita dall’agenda politica ormai da qualche tem- po, quella dei «Neet» è in realtà una vera e propria emergenza del Paese, anche se nessuno sembra darsene peso, più pro- penso a viverla con accondi- scendente ineluttabilità piut- tosto che a considerarne i de- vastanti effetti negativi, e non solo su chi ne è suo malgrado protagonista, ma sull’intera comunità, partendo dal nucleo fondamentale della nostra so- cietà, la famiglia. La questione, in ogni caso, chiama in causa anche un malinteso senso pro- tettivo dei genitori nei con- fronti dei figli, i «bamboccio- ni», secondo la discussa battu- ta dell’allora ministro Padoa- Schioppa. Al di là di tutto, co- munque, vivere da «Neet» - acronimo dell’inglese «Not in education, employment or training», comparso per la pri- ma volta Oltremanica ormai vent’anni fa - significa vivere un forte disagio sociale e pro- vare un reale sentimento di emarginazione di fronte al- l’impossibilità di partecipare e condividere un progetto di crescita collettivo. Non solo i «Neet» si sentono privi (e privati) del proprio fu- turo, ma sentono anche di non avere alcuna opportunità di riuscire a crearselo. E sappia- mo bene in cosa possano sfo- ciare situazioni di disagio con- tinuo e ripetuto vissute in gio- vane età: dipendenza (da alcol, droga, gioco d’azzardo...) ma anche delinquenza, con tutte le conseguenze del caso. Nel nostro Paese, la percentuale dei «Neet» ha continuato a cre- scere tra il 2007 e il 2014, pas- sando dal 18,8% al 26,2% (il dato più alto registrato) per poi scendere lentamente al 23,44% del 2018. Se si è arriva- ti a questo punto, evidente- mente, qualcosa non ha fun- zionato, o comunque ha fun- zionato molto poco. I fattori sono ovviamente diversi - fa- miliari, culturali, economici e sociali - e puntare il dito contro questo o quello servirebbe a ben poco. Certo è che una delle «voci» di maggior peso non può non essere quella della scuola. L’Italia continua a rimanere tra le ultime nazioni europee per numero di laureati, tasso di abbandono scolastico e competenze. E un elemento, l’Istat , sottolinea come «parti- colarmente preoccupante»: il 14,5% (nel 2018, contro il dato medio europeo fermo al 10,6%) legato ai giovani tra i 18 e i 24 anni che hanno lasciato la scuola dopo aver al massimo raggiunto la licenza media. Un dato in leggero aumento ri- spetto al 13,8% del 2016. Solo Malta, Romania e Spagna han- no fatto peggio di noi, ma que- sto non può essere motivo di consolazione. Cosa fare per invertire la tendenza? La sfida è quella di ridare a questi giovani un ruolo attivo nelle complicate dina- miche legate allo sviluppo del Paese, ma la politica sembra interessata ad occuparsi d’al- tro, e quanto fatto negli anni passati (con il Fondo per le po- litiche giovanili da una parte e il programma ideato dalla Ue «Garanzia Giovani» dall’altro) non ha dato risultati partico- larmente significativi. I fronti sui cui lavorare sono diversi, come spiegano gli esperti nelle pagine che seguono, ma non si può prescindere dalla necessi- tà di «fare rete» (una, non mil- le) per concentrare sforzi e opportunità. «Essere giovani - cantava Bob Dylan - vuol dire tenere aperto l’oblò della spe- ranza, anche quando il mare è cattivo e il cielo si è stancato di essere azzurro». Ma oggi alimentare le speranze dei «Neet» (e sarebbe già un risul- tato lodevole) non basta più: diamo loro gli strumenti per progettare il proprio futuro. È un impegno morale a cui nes- suno può più sottrarsi. di ALBERTO CERESOLI Inchiesta giovani Neet, né studio né lavoro PHOTO BY FRANK MCKENNA ON UNSPLASH
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L’ECO DI BERGAMO 13GIOVEDÌ 13 FEBBRAIO 2020

Sono davvero dei «bamboccioni»? Restituiamo loro il futuro e lo sapremoF

osse un dato positivo,saremmo i più bravid’Europa. Purtroppo,però, non è così, tantoche la percentuale dei

giovani italiani tra i 15 e i 29anni che non frequentano lascuola, non hanno un lavoro,e non seguono percorsi di for-mazione - i cosiddetti «Neet»- ci condanna inesorabilmenteall’ultimo posto nella Vecchiae Nuova Europa: 23,44% (paria 2 milioni e 116 mila giovani)contro una media europea chesi ferma al 12,9%. Dietro la la-vagna e senza appello, se è ve-ro, come dicono i dati Istat del2018, che la Croazia si ferma al15,6%, la Romania al 17%, laBulgaria al 18,1% e la Grecia al19,5%. A preoccupare non èsoltanto il dato complessivo,ma anche la sua «scomposizio-ne»: che il 15% dei «Neet» ab-bia tra i 15 e i 19 anni, ci puòanche stare (turandosi il na-so...), ma è difficile tollerare

che il 38% sia tra i 20 e i 24anni, e - ancor di più - che il47% abbia tra i 25 e i 29 anni.Sebbene sia uscita dall’agendapolitica ormai da qualche tem-po, quella dei «Neet» è in realtàuna vera e propria emergenzadel Paese, anche se nessunosembra darsene peso, più pro-penso a viverla con accondi-scendente ineluttabilità piut-tosto che a considerarne i de-vastanti effetti negativi, e nonsolo su chi ne è suo malgradoprotagonista, ma sull’interacomunità, partendo dal nucleofondamentale della nostra so-cietà, la famiglia. La questione,in ogni caso, chiama in causaanche un malinteso senso pro-tettivo dei genitori nei con-fronti dei figli, i «bamboccio-

ni», secondo la discussa battu-ta dell’allora ministro Padoa-Schioppa. Al di là di tutto, co-munque, vivere da «Neet» -acronimo dell’inglese «Not ineducation, employment ortraining», comparso per la pri-ma volta Oltremanica ormaivent’anni fa - significa vivereun forte disagio sociale e pro-vare un reale sentimento diemarginazione di fronte al-l’impossibilità di parteciparee condividere un progetto dicrescita collettivo.

Non solo i «Neet» si sentonoprivi (e privati) del proprio fu-turo, ma sentono anche di nonavere alcuna opportunità diriuscire a crearselo. E sappia-mo bene in cosa possano sfo-ciare situazioni di disagio con-

tinuo e ripetuto vissute in gio-vane età: dipendenza (da alcol,droga, gioco d’azzardo...) maanche delinquenza, con tuttele conseguenze del caso. Nelnostro Paese, la percentualedei «Neet» ha continuato a cre-scere tra il 2007 e il 2014, pas-sando dal 18,8% al 26,2% (ildato più alto registrato) perpoi scendere lentamente al23,44% del 2018. Se si è arriva-ti a questo punto, evidente-mente, qualcosa non ha fun-zionato, o comunque ha fun-zionato molto poco. I fattorisono ovviamente diversi - fa-miliari, culturali, economici esociali - e puntare il dito controquesto o quello servirebbe aben poco. Certo è che una delle«voci» di maggior peso non può

non essere quella della scuola.L’Italia continua a rimaneretra le ultime nazioni europeeper numero di laureati, tassodi abbandono scolastico ecompetenze. E un elemento,l’Istat , sottolinea come «parti-colarmente preoccupante»: il14,5% (nel 2018, contro il datomedio europeo fermo al 10,6%)legato ai giovani tra i 18 e i 24anni che hanno lasciato lascuola dopo aver al massimoraggiunto la licenza media. Undato in leggero aumento ri-spetto al 13,8% del 2016. SoloMalta, Romania e Spagna han-no fatto peggio di noi, ma que-sto non può essere motivo diconsolazione.

Cosa fare per invertire latendenza? La sfida è quella di

ridare a questi giovani un ruoloattivo nelle complicate dina-miche legate allo sviluppo delPaese, ma la politica sembrainteressata ad occuparsi d’al-tro, e quanto fatto negli annipassati (con il Fondo per le po-litiche giovanili da una partee il programma ideato dalla Ue«Garanzia Giovani» dall’altro)non ha dato risultati partico-larmente significativi. I frontisui cui lavorare sono diversi,come spiegano gli esperti nellepagine che seguono, ma non sipuò prescindere dalla necessi-tà di «fare rete» (una, non mil-le) per concentrare sforzi eopportunità. «Essere giovani- cantava Bob Dylan - vuol diretenere aperto l’oblò della spe-ranza, anche quando il mare ècattivo e il cielo si è stancatodi essere azzurro». Ma oggialimentare le speranze dei«Neet» (e sarebbe già un risul-tato lodevole) non basta più:diamo loro gli strumenti perprogettare il proprio futuro. Èun impegno morale a cui nes-suno può più sottrarsi.

di ALBERTO CERESOLI

Inchiesta giovani Neet, né studio né lavoro

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14 L’ECO DI BERGAMO

GIOVEDÌ 13 FEBBRAIO 2020

Neet, né studio né lavoroInchiesta giovani

«L’ITALIA TRASFORMA I GIOVANIE DA RISORSE LI RIDUCE A NEET»Rosina, esperto di demografia: siamo la più grande fabbrica in Europa di ragazzi che non studiano e non lavorano«Senza investimenti sulle nuove generazioni, circolo vizioso verso il basso. Il reddito di cittadinanza aiuta poco»

FRANCO CATTANEO

Èun mondo tutto da sco-prire quello dei Neet, enon è semplice: lo fac-ciamo con Alessandro

Rosina, ordinario di Demogra-fia e statistica nella facoltà diEconomia all’Università Catto-lica di Milano, oltre che diretto-re del Centro di ricerca Lsa (La-boratorio di statistica applicataalle decisioni economico-aziendali) e autore, fra l’altro, di«Neet - Giovani che non studia-no e non lavorano», edito daVita e Pensiero.

Lei ha scritto che siamo la più gran-

de fabbrica di Neet in Europa: provi

a descriverla.

«L’Italia presenta il più elevatovalore in numero assoluto digiovani che non studiano e nonlavorano in Europa: sono circatre milioni nella fascia 15-34anni. In termini relativi, datodel 2018, sono il 19,2% nella clas-se 15-24 ed è il dato peggiorenell’Unione europea dove lamedia è pari a 10,4%. Anchespostandoci nella fascia menogiovane la situazione non mi-gliora. Tra i 20 e i 34 anni lapercentuale di Neet è pari al28,9% contro una media euro-pea del 16,5%. Questo indicato-re è stato adottato dall’Unioneeuropea come quello più adattoa misurare quanto un Paesespreca i suoi giovani. Noi quindisiamo la più grande fabbrica ditrasformazione di giovani dapotenziale risorsa per la cresci-ta del Paese a soggetti inattivie a rischio di emarginazionesociale. È vero che esistono am-pie differenze all’interno delterritorio italiano, ma non c’èalcuna regione italiana sotto lamedia europea. Ad esempio laLombardia presenta un tasso diNeet nella fascia 15-24 pari al13,1 (quasi 3 punti percentualisopra le media europea), ma invarie regioni del Sud il dato rag-giunge valori più che doppi ri-spetto alla Lombardia».

A quale modello dobbiamo guarda-

re: Germania, Paesi del Nord come

Norvegia?

«Nella fascia 15-24 anni la Nor-vegia presenta un tasso di Neetpari a un quarto di quello italia-no. La Norvegia è però pococonfrontabile con il caso italia-no per la dimensione del Paesee per le risorse su cui può conta-re derivanti dalle piattaformepetrolifere. La Germania è uncaso più interessante perché sitrova su valori molto vicini allaNorvegia, ma è un Paese moltopiù grande e complesso, inoltreha anch’esso una carenza di gio-vani a causa della bassa natalità.La differenza con l’Italia sta nelfatto che la Germania ha rispo-sto alla riduzione del numerodi giovani con un forte investi-mento qualitativo, in terminidi formazione tecnica e terzia-ria, di inserimento attivo nel

mondo del lavoro, di ricerca einnovazione».

Uno dei deficit è la discrasia tra gio-

vani e Sistema Italia?

«Negli ultimi decenni si è creatauna profonda discrasia tra gio-vani e lavoro ma, ancor più ingenerale, tra nuove generazionie Sistema Paese, come mostranoi dati del “Rapporto giovani”dell’Istituto Toniolo. Da un lato,quello che serve alle nuove ge-nerazioni per essere adeguata-mente formate, valorizzate e da-re il meglio di sé non c’è, o quasi,in Italia. Dall’altro, il Paeseesprime scarsa domanda di gio-vani di qualità, li include pocoe male nei processi produttivi.Siamo diventati una delle eco-nomie avanzate meno in gradodi mettere in sintonia le capaci-tà e le competenze delle nuovegenerazioni con le trasforma-zioni e le opportunità del mer-cato del lavoro e della società».

Che ruolo gioca l’inverno demogra-

fico?

«L’inverno demografico è allostesso tempo causa e conse-guenza dell’indebolimento delruolo delle nuove generazioni.Da un lato la bassa consistenzaquantitativa dei giovani riducela loro spinta sui processi dicambiamento e crescita del Pae-se, tanto più se in combinazionecon la fragilità nei percorsi for-mativi e professionali. D’altrolato le difficoltà stesse che i gio-vani incontrano nella transizio-ne scuola-lavoro portano a po-sticipare e poi ad abbassare pro-gressivamente non solo gliobiettivi di carriera e di reddito,ma anche i progetti di vita. Nederiva una ulteriore riduzionedelle nascite che fa pesare mag-giormente i costi dell’invecchia-mento della popolazione, ren-dendo in prospettiva sempremeno sostenibile la spesa socia-le e il debito pubblico. Rischia didiventare un circolo vizioso che,a partire dallo scarso investi-mento sulle nuove generazioni,porta demografia ed economiaad avvitarsi verso il basso».

Nel frattempo si acuisce la contrad-

dizione fra la centralità del capitale

umano e l’abbandono scolastico

precoce.

«Secondo i dati Istat, la percen-tuale di giovani tra i 18 e i 24anni che hanno lasciato preco-

Lei sottolinea le inefficienze del si-

stema produttivo, come la flessibi-

lità al ribasso e l’inerzia sulle politi-

che attive.

«La carenza delle politiche atti-ve non aiuta ad alzare al puntopiù alto l’incontro tra domandae offerta di lavoro. Il persistentebasso investimento in tale dire-zione ha come conseguenza unacronica carenza di strumentiefficaci in grado di orientare esupportare le nuove generazio-ni nella ricerca di lavoro. In as-senza di sistemi esperti di sup-porto e orientamento - in unmondo sempre più complessoe in rapido mutamento, con unmercato sempre più dinamico- i giovani rischiano di trovarsiabbandonati a sé stessi e all’aiu-to delle famiglie, con alto rischiodi perdersi nel percorso di tran-sizione scuola-lavoro».

I fattori culturali sono strategici:

che azione possono svolgere?

«Il fatto che la quota di Neet sisia potuta accrescere in modocosì abnorme è legato anche adue specificità italiane, senza lequali non si spiegherebbe cometale condizione non sia esplosacome dramma sociale. La pri-ma è un modello culturale cherende accettabile una lunga di-pendenza dei figli adulti dai ge-nitori, la seconda è l’ampia quo-ta di economia sommersa al-l’interno della quale proliferail lavoro in nero. Molti alterna-

no la condizione di Neet conlavoretti saltuari, annaspandonell’area grigia tra lavoro pre-cario e non lavoro».

Lei, su questi temi, pone una que-

stione poco dibattuta: la narrativa

negativa dei mass media.

«Nei giornali si parla molto digiovani e di Neet ma spesso inmodo superficiale e pieno diluoghi comuni. La stessa defini-zione di Neet è male interpreta-ta, spesso viene limitata a chinon è interessato a lavorare onon cerca lavoro, mentre com-prende anche chi cerca attiva-mente un impiego. Ha al propriointerno situazioni molto etero-genee e l’eccessiva semplifica-zione porta anche a non avereun ritratto adeguato del feno-meno e a non disegnare politi-che efficaci per affrontarlo. Lostesso termine Neet è poi passa-to dall’essere una condizioneoggettiva a diventare nei massmedia un giudizio soggettivosulle persone, come una etichet-ta. Le persone non sono Neet,può invece capitare che si trovi-no nella condizione di Neet».

Apprendistato, alternanza scuola-

lavoro, Garanzia giovani: a che pun-

to siamo?

«Uno dei nodi più urgenti dasciogliere è quello dello “skillmismatch”, cioè la mancata cor-rispondenza tra le competenzepossedute e quelle richieste dal-

le aziende e dal mercato. È utileil miglioramento e il potenzia-mento su tutto il territorio na-zionale dell’offerta dei percorsidi formazione professionale se-condaria e della formazione ter-ziaria professionalizzante (gliIts). Alcune Regioni sono riusci-te ad attivare percorsi dotati dicredibilità e autorevolezza (conforte dialogo tra scuola e impre-se), che erogano formazione e siraccordano in modo positivocon le aziende del territorio pri-ma, durante e dopo la conclusio-ne del percorso di ogni ragazzo.Nel Mezzogiorno, ma anche invarie aree del Nord, il sistemanon è mai decollato, nonostantegrandi iniezioni di fondi euro-pei. Nel sistema italiano nontrova ancora spazio una veradualità, che permetta dopo i 16anni di ottenere un doppio sta-tus, quello di studente e di lavo-ratore, dentro a un quadro defi-nito di obiettivi formativi, di ga-ranzie e di responsabilità».

Il Reddito di cittadinanza come si

pone in questo contesto?

«Il Reddito di cittadinanza aiutapoco, può essere anzi contro-producente, se inteso solo co-me misura passiva di assistenzaa chi non ha un lavoro. Riducela condizione di Neet solo seincentiva la possibilità dei gio-vani di diventare autonomi dal-la famiglia di origine e li sostie-ne nella fase di ricerca del lavo-ro. Questa funzione, che combi-na sostegno al reddito e politi-che attive, attualmente risultaancora molta carente nel siste-ma italiano».

Bisogna giocare all’attacco e lei in-

dica quattro piste.

«L’alta percentuale di Neet e digiovani che decidono di cercaremigliori opportunità all’esteroindica che i giovani italiani sonoschiacciati in difesa, rischiandodi diventare perdenti anzichéprotagonisti del mondo del la-voro che cambia. Per aiutarli aspostarsi in attacco è necessarioinvestire bene sulla loro forma-zione, con una combinazione dicultura, tecnologia e creatività.Vanno poi aiutati a orientarebene le proprie scelte, in funzio-ne delle proprie predisposizio-ni, della propria preparazionee di quello che il mercato offre.Serve poi che l’impegno nellaformazione e nel lavoro sia rico-nosciuto e valorizzato, in modoche il capitale umano diventileva per il rilancio competitivodel Paese. Infine, bisogna raf-forzare le politiche di concilia-zione tra lavoro e famiglia, inmodo che progetti professionalie di vita possano sostenersi earricchirsi a vicenda. Sono que-sti i quattro assi da rafforzareper non lasciare che i giovani siadattino al ribasso a quello cheoggi l’Italia offre, consentendoinvece al Paese di riallinearsi almeglio di quanto le nuove gene-razioni possono dare».

Alessandro Rosina

cemente gli studi è addiritturasalita dal 13,8% del 2016 al14,5% del 2018 (contro il 10,6%della media Ue-28). Tra i ma-schi del Mezzogiorno superaabbondantemente il 20%. Oltread una adeguata formazione dibase è importante affacciarsi almondo del lavoro con compe-tenze tecniche avanzate e di-rettamente spendibili, allinea-te con le richieste attuali delsistema produttivo. Ma nonbasta. La formazione di com-petenze tecniche e specialisti-che risponde soprattutto alleesigenze di oggi, ma le nuovegenerazioni vanno anche pre-parate a gestire una lunga vitaattiva in un contesto di granditrasformazioni. Le competen-ze specialistiche devono quin-di essere continuamente ag-giornate per non diventare ra-pidamente obsolete. Inoltre,molte ricerche mostrano co-me il lavoro tenda a spostarsida mansioni routinarie (sosti-tuibili dall’automazione) aquelle in cui il fattore umanopuò dare un valore aggiunto.Questo impone anche una ri-flessione su come combinarepositivamente l’antropologiadelle nuove generazioni (po-tenzialità e doti caratteristi-che) con una formazione adat-ta e una inclusione efficace delloro specifico fattore umanoin grado di produrre valoreaggiunto nello Sviluppo 4.0».

PHOTO BY SYLAS BOESTEN ON UNSPLASH

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L’ECO DI BERGAMO 15GIOVEDÌ 13 FEBBRAIO 2020

Inchiesta giovani Neet, né studio né lavoro

I numeri. La provincia, con un tasso di 17,1% sul totale dei giovani da 15 a 29 anni, è al terzo posto in Lombardia dietro a Pavia e Mantova. Ampio divario tra donne e uomini: 19.142 contro 10.785

ISAIA INVERNIZZI

Gli esperti l’hanno giàdefinita «la generazione perdu-ta», forse con un po’ di paternalepessimismo. Certo, guardandoi numeri nudi e crudi dei Neetnon si può guardare al futurocon il sorriso. «Not in Educa-tion, Employment or Training»:l’acronimo inglese non aiuta adaddolcire il significato di un fe-nomeno troppo spesso sottova-lutato, anche in provincia diBergamo. Sono i giovani che nonstudiano, non lavorano e nonpartecipano a percorsi di forma-zione. In passato sono statichiamati «fannulloni», «choo-sy», incontentabili, esigenti,difficili, schizzinosi. In realtàqueste definizioni dispregiativenascondono le ansie e la preoc-cupazione di migliaia di ragazzee ragazzi che non riescono a dar-si un obiettivo di vita. A diffe-renza dei coetanei disoccupatinon girano da un ufficio di collo-camento all’altro. Finiscono so-lo per cadere su loro stessi. Erappresentano un costo enormeper la società, sia in ambito eco-nomico che sociale. Perché sonouna risorsa preziosa non sfrut-tata, uno spreco di potenziale eun rischio per il futuro. Senza unruolo preciso nei processi inno-vativi di un Paese e di una pro-vincia sempre più vecchi, dovei giovani - quelli veri, non i «nuo-vi» giovani - faticano a imporsi.Lo dimostrano i numeri.

Secondo gli ultimi dati uffi-

ciali disponibili, nel 2018 in Ber-gamasca i Neet nella fascia com-presa tra i 15 e i 29 anni sono28.987. Un non invidiabile se-condo posto in tutta la Regionedietro alla città metropolitanadi Milano, con 63.796. Dal 2011,anno in cui la crisi stava ancoraassestando pesanti colpi all’eco-nomia, la curva è stata piuttosto

del 2018, in leggero calo rispet-to ai 29.927 dell’anno prece-dente.

Il problema è anche di gene-re, soprattutto a Bergamo. Legiovani Neet infatti sono quasiil doppio dei maschi. Solo nel2017, ultimo dato disponibile, leNeet sono state 19.142 contro i10.785 del genere maschile. Nonè così nel resto d’Italia, dove lacondizione si distribuisce inmodo quasi identico tra donne(52%) e uomini (48%). E lo stes-so vale anche nelle altre provin-ce lombarde, dove i dati nonmostrano un divario così ampiocome quello registrato negli ul-timi anni in provincia di Berga-mo.

Quanto «pesano» questi nu-meri? Oltre al genere, è impor-tante analizzare anche il tassodei Neet, rispetto al totale deigiovani della stessa età, per ca-pire l’incidenza del fenomenosull’intera generazione. In que-sta non invidiabile classificaBergamo è terza in Lombardiacon il 17,1% di Neet Rate. Al pri-mo posto c’è la provincia di Pa-via, unica sopra il 20%, precisa-mente al 21,1%, mentre al se-condo posto quella di Mantovacon il 19,4%.

Per allargare lo sguardo alcontesto nazionale, in tutto ilPaese nel 2018 i Neet sono paria 2 milioni e 116 mila e rappre-sentano il 23,4% del totale deigiovani della stessa età presentisul territorio. Nel 47% dei casi

i ragazzi hanno tra i 25 e i 29anni, nel 38% i ragazzi hanno trai 20 e i 24 anni e il restante 15%è nella forchetta 15-19 anni. NelNord Italia sono il 15,5%, nelCentro il 19,5% e nel Sud il 34%.L’Italia è la prima tra i Paesieuropei per presenza di Neet,dove la media attuale è del12,9%. Bergamo è quindi sottola media italiana, ma molto al di

sopra (5 punti percentuali) dellamedia europea.

Secondo gli esperti, su tuttiAlessandro Rosina, professoreordinario di Demografia e stati-stica sociale all’Università Cat-tolica di Milano (intervista nellapagina a fianco), coordinatoredel «Rapporto giovani», IstitutoToniolo e autore del libro «Neet- Giovani che non studiano e

non lavorano» (Vita e Pensie-ro, 2015) - il fenomeno è cre-sciuto in modo così evidenteperché legato a due tipicità tut-te italiane: la prima è il modellosociale che accetta una lungadipendenza dei figli adulti daigenitori. All’estero, invece, èesattamente l’opposto. La se-conda è più economica ed èlegata allo sfruttamento del la-voro nero, che rappresenta unavariabile difficilmente quanti-ficabile, soprattutto in una fa-scia di popolazione così ristret-ta.

Di soluzioni se ne sono visteparecchie negli ultimi anni.Hanno avuto tutte qualcosa incomune, purtroppo: non sonoriuscite a far calare il numerodei Neet in Italia. Il fondo per lepolitiche giovanili, dal 2013 al2018, è arrivato a quota 40,5milioni di euro e nel 2019 è statoincrementato di 30 milioni an-nui. Il tentativo più consistenteperò è la misura chiamata Ga-ranzia giovani. È un programmagovernativo nato sulla base del-lo Youth Guarantee, misura eu-ropea che prevede dei finanzia-menti per i Paesi membri contassi di disoccupazione giovani-le superiori al 25% , da investirein politiche attive di orienta-mento, istruzione, formazionee inserimento al lavoro. Il gover-no ha stanziato 1,5 miliardi finoa quest’anno. I risultati: standoai dati di Anpal, l’Agenzia nazio-nale politiche attive per il lavo-ro, sono stati oltre 1,4 milioni gliiscritti al portale. Ma poco piùdi 300 mila hanno trovato unlavoro vero e proprio. In oltre uncaso su tre, il 39,5%, a tempoindeterminato, nel 36,8% conl’apprendistato e il 20,1% è atempo determinato.

Le famose «politiche attive»quindi per ora non hanno fun-zionato. Serve una marcia inpiù, anche sul fronte culturale(e fronte sembra essere una pa-rola azzeccata), per non abban-donare un capitale umano cosìimportante.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

I dati della «generazione perduta»In Bergamasca quasi 29 mila Neet

I Neet in Provincia di Bergamo

0 K

5 K

10 K

15 K

20 K

25 K

30 K

35 K

20122011 2015 20182013 2014 2016 2017 Anno

NE

ET

TO

TA

LE

25.466

34.035

36.417

33.060

35.290

29.078 28.987

29.927

Provincia

BERGAMO

BRESCIA

MILANO

VARESE

MONZA E DELLA

BRIANZA

LECCO

PAVIA

CREMONA

COMO

MANTOVA

LODI

SONDRIO

0 K

5 K

10 K

15 K

20 K

20122011 20152013 2014 2016 2017 Anno

NE

ET

TO

TA

LE

13.076

20.959

18.90319.725

19.142

13.622

9.353

10.785

18.396

18.02116.387

19.43916.410

9.055

Totale dei Neet per anno

Neet per genere

I Neet nelle province lombarde

20122011 20152013 2014 2016 2017 2018

0 K

50 K

100 K

150 K

200 K

250 K

NE

ET

TO

TA

LE

26.173

63.796

20.571

15.889

15.489

22.381

20.543

26.999

20.638

36.417

38.622

72.709

26.712

20.551

16.160

15.007

35.290

30.098

71.072

25.907

18.611

20.442

33.060

34.307

69.694

25.670

22.065

18.989

13.735

34.035

31.405

57.144

18.622

18.077

16.555

25.466

39.883

50.456

20.060

15.108

14.523

24.674

70.097

34.465

68.384

UOMINI

DONNE

altalenante, con improvvise sa-lite e più tranquillizzanti disce-se. È la dimostrazione che quel-lo dei Neet è un fenomeno li-quido, in continua evoluzionee molto difficile da inquadrareanche per chi si occupa di stu-diare politiche ad hoc. Negliultimi anni il picco in provinciadi Bergamo si è registrato nel2015 con 36.417 giovani Neet,poi ecco la discesa fino ai 28.987

n Il picco di Neetin provincia è statoregistrato nel 2015con 36.417 giovaniin un solo anno

n In valore assolutoBergamo è secondain tutta la regionealle spalle dellaprovincia di Milano

PHOTO BY AVI RICHARDS ON UNSPLASH

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16 L’ECO DI BERGAMO

GIOVEDÌ 13 FEBBRAIO 2020

Inchiesta giovani Tra fatica e soddisfazione

Corsi professionaliper lavori da serie Atra corse e motoriLa storia /1. Hossam, 21 anni, è meccanico a Lallio«Siamo gli unici in Italia a montare auto da corsa Lotusda zero». Sacrifici ed emozioni, tra officina e viaggi

SABRINA PENTERIANI

«Durante una gara - di-ceva Ayrton Senna - dipendi da una vettura molto complicata, chepuò sempre darti dei problemi. Dipendi da una squadra intera checollabora, da un insieme di forzee di persone che lottano per un obiettivo comune». È questo il mondo di Hossam Hassan, 21 an-ni: dal 2016 è un meccanico dellaLotus P.B. Racing di Lallio nel re-parto che si occupa delle auto dacorsa. Hossam ha imparato a co-struire una macchina da zero, è ilpiù giovane del team e ha appenavissuto un’esperienza straordina-ria partecipando con la sua squa-dra alla 24 ore di Dubai, una garadel campionato internazionale «endurance». La sua esperienzascardina dalle fondamenta lo ste-reotipo secondo il quale i Corsi diformazione professionale (Cfp) sono scuole «di serie B».

Nato in Egitto, Hossam si è tra-sferito in Italia nel 2009: «Sono arrivato durante le vacanze di Na-tale e sono stato subito inserito

Il ventunenne Hossam Hassan è meccanico della Lotus P.B. Racing di Lallio

«È difficile capirequal è la propria strada se pri-ma non ci si mette alla prova»:Giorgio, 19 anni, ha seguito unpercorso un po’ accidentato,costellato di tentativi, falli-menti e ripensamenti, alla fi-ne però è riuscito a trovare unlavoro che lo soddisfa. Ora fal’agente di vendita per la Fol-letto.

Lo studio non l’ha mai ap-

passionato, così, terminate lescuole secondarie di primogrado si è subito orientato ver-so un percorso professionale.«Ho scelto il Cfp Acos in città -dice - perché proponeva uncorso di grafica, comunicazio-ne e video che mi interessavamolto. In prima sono statopromosso, poi però in secondami hanno bocciato non tantoper il rendimento, quanto perla condotta».

Purtroppo non ha avuto la

possibilità di ripetere l’annonello stesso indirizzo, perchéil corso non era più stato ri-proposto, così ha cambiatoistituto spostandosi all’indi-rizzo di grafica del PatronatoSan Vincenzo. «Ho ripetuto ilsecondo anno e sono statopromosso - spiega -. In terza,però, ho collezionato troppeassenze, così sono stato boc-ciato di nuovo. A quel punto ilpreside, che si era preso moltoa cuore il mio caso, mi ha detto

che evidentemente la scuolanon faceva per me, e che forseera meglio che andassi a lavo-rare. Mi ha proposto di studia-re da solo a casa per terminareil terzo anno da privatista. So-no stato uno sciocco, ripen-sandoci, ma è andata così».

Un’altra possibilità

Giorgio ha cercato un’occupa-zione in ambito grafico e tipo-grafico, ma senza successo: «Aquel punto sono stato contat-

n nSiamo spesso lontani da casa e a volte restiamo al lavoro anche 24 ore di fila, ma non pesa»

n nLa scuola ha avuto un ruolo importante,ma ho imparato molto sul campo»

tato da Abf (Azienda bergama-sca formazione) che mi haproposto di partecipare alprogetto Network, che preve-deva la partecipazione a uncorso sull’indicizzazione diGoogle ads e siti internet e untirocinio retribuito di sei mesiin una cooperativa sociale. Holavorato con Aeper occupan-domi proprio della promozio-ne sul web. È stata un’espe-rienza molto interessante, chemi ha fatto crescere dal puntodi vista umano, mi ha accom-pagnato nell’anno in cui stu-diavo da solo. Lungo il cammi-no mi sono anche reso conto,però, che quel tipo di impiegoe di vita non erano adatti ame». Concluso positivamen-te il terzo anno di scuola, per

caso Giorgio si è trovato incontatto con un agente dellaFolletto: «Mi ha offerto l’op-portunità di entrare nella lo-ro rete di vendita e ho decisodi approfittarne. Mi piacequesto lavoro, è molto dina-mico, mi permette di metterea frutto le mie attitudini per lacomunicazione, non sono piùcostretto a trascorrere ottoore in ufficio, vado in giro, in-contro tante persone. Prestoinizierò a frequentare un cor-so per diventare agente dicommercio. A volte le occa-sioni migliori arrivano comeun dono, come una sorpresa,bisogna saperle cogliere al vo-lo».Sa. Pe.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

nella scuola primaria in quarta elementare. Ho dovuto incomin-ciare da zero a imparare a parlare,leggere e scrivere l’italiano ma l’ho trovato più facile dell’arabo».Ha frequentato la quinta a Brem-bate Sopra, poi si è trasferito allasecondaria di primo grado di Pre-sezzo. Terminato anche quel per-corso, gli interessava intrapren-dere una professione, più che pro-seguire gli studi, perciò si è iscrittoal corso di «Tecnico-meccanico diaeromobili» dell’Engim.

«Mi affascinava l’idea di lavo-rare sugli aerei - racconta - e neitre anni di scuola ho avuto la pos-sibilità di farlo. Allo stesso tempo,però, ho imparato anche a cono-scere il funzionamento di altri veicoli, e questo mi ha permessodi ampliare i miei orizzonti e di svolgere tirocini diversi».

Nel programma c’erano molteesercitazioni pratiche e diversi stage: «Ne ho fatto uno a Mapellosulle auto, poi ho avuto la possibi-lità di svolgere un altro tirocinio,questa volta sulle moto. Quandosono arrivato al terzo anno mi hanno offerto l’opportunità di mi-surarmi con le auto da corsa allaP.B. Racing e l’ho colta al volo». All’inizio dovevano essere soltan-to sei mesi, retribuiti grazie al pro-getto Garanzia giovani, nell’ambi-to di un piano europeo di lotta alladisoccupazione giovanile. È stataun’esperienza entusiasmante e Hossam ce l’ha messa tutta per imparare, si è impegnato al massi-mo: si è reso conto che quello eraproprio il mestiere che gli sarebbepiaciuto fare. Quando i sei mesi sono passati è partito per l’Egittoper andare a trovare i suoi parenti.Al ritorno lo aspettava una bellasorpresa: Stefano D’Aste, respon-sabile di P.B. Racing, lo ha richia-mato per un colloquio e poi l’ha assunto con un contratto a tempoindeterminato. Quando Hossamlo racconta gli brillano gli occhi.

«Siamo l’unica azienda italiana

- spiega con un pizzico d’orgoglio- autorizzata da Lotus a costruirele macchine da corsa da zero. Ciarriva soltanto il telaio dall’In-ghilterra, noi dobbiamo montarel’impianto elettrico e il kit aerodi-namico. Le auto da corsa devonoessere leggere, c’è poco spazio chedev’essere gestito bene, quandoc’è un problema bisogna essere ingrado di risolverlo velocemente».Sono molte le doti che Hossam hasviluppato svolgendo le sue man-sioni quotidiane: l’attenzione, laprecisione, la pazienza, la velocità.Il suo ruolo richiede viaggi fre-quenti: «Le nostre vetture parte-cipano al campionato endurancein 12 tappe e al campionato italia-no. Ogni meccanico segue la suaauto, e per ogni gara si sta via, disolito, da giovedì a domenica». La24 ore a Dubai è stata un’esperien-za bellissima, anche se faticosa: «Tre giorni prima della gara arrivail container con la macchina e bi-sogna allestire il box con ricambi,carrelli, attrezzi, poi iniziano le prove libere. La gara incominciaalle 15 e finisce alle 15 del giornodopo. Alla fine c’è lo smontaggio.Sono rimasto sveglio per 48 ore difila, ero troppo emozionato per riposare, anche brevemente. La-vorare sulle auto da corsa com-porta una grande responsabilità,dobbiamo pensare alla sicurezzaprima di tutto. Bisogna inventare,ingegnarsi, costruire; i miei com-piti spaziano dalla meccanica al-l’elettronica fino alla carrozzeria.La scuola ha avuto un ruolo im-portante, ma ho imparato moltis-simo sul campo».

Hossam ha messo in contoqualche sacrificio: «Siamo spessolontani da casa, rientriamo tardila sera, usciamo presto al mattinoe a volte capita di restare in offici-na anche per 24 ore di fila, ma nonmi pesa, non cambierei questo lavoro con nessun altro. Ogni giorno è una sfida, e la passione fala differenza».

Tentativi, ripensamenti, fino al posto giusto«Le occasioni migliori arrivano a sorpresa»

Hossam Hassan ha partecipato di recente con la squadra alla 24 ore di Dubai

La storia /2

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L’ECO DI BERGAMO 17GIOVEDÌ 13 FEBBRAIO 2020

Inchiesta giovani Tra fatica e soddisfazione

Quella vogliadi lasciarepoi la forzadi ripartireLa storia /3. «A 13 anni non è facilescegliere. Senza scuola è statoun sollievo. Ora però sono cambiata e magari ricomincerò a studiare»

SABRINA PENTERIANI

Stella era una ragazzatimida, chiusa in se stessa comeun riccio. Gli insuccessi a scuo-la hanno mandato in frantumiun’autostima già fragile, spin-gendola prima a cambiare indi-rizzo, poi a «lasciar perderetutto». Col tempo, però, è cre-sciuta, è cambiata e il CentroMeta del Patronato San Vin-cenzo l’ha aiutata a guardare lavita da un’altra prospettiva.

«A tredici anni non è facilescegliere il proprio futuro -spiega -. Prendere una direzio-ne sbagliata può portare con-seguenze inaspettate, ed èquesto che mi è capitato. Ave-vo scelto la scuola per parruc-chiere, ma mi sono resa contostrada facendo che non mi in-teressava davvero. Non sonomai andata bene a scuola, hosempre avuto moltissime dif-ficoltà nello studio».

Il suo carattere chiuso el’ambiente poco accogliente incui si è trovata non l’hannoaiutata: «Non riuscivo a farmidegli amici, mi sentivo moltosola, emarginata dal resto dellaclasse, con cui interagivo sol-

tanto per il minimo indispen-sabile». Come una farfallachiusa nel bozzolo, si sentivain prigione: «Ho provato acambiare, scegliendo l’indiriz-zo alberghiero. Anche in que-sto caso, però, non ho sceltosulla base di una reale passio-ne. Pensavo soltanto che avreipotuto fare la cameriera in unbar, oppure trovare un posto inuna struttura alberghiera o inun ristorante, seguendol’esempio di mia madre che la-vora in un agriturismo. Ho fre-quentato solo per qualche me-se, poi mi sono ritirata».

Gli studi scivolano via

Così la scuola, senza tropporumore, è scivolata via dallavita di Stella: «Non è succes-so nulla di grave, non sonostata mai bocciata, ma nonsono neppure riuscita a con-cludere il percorso. Ho deci-so di restare a casa: aiutavomia madre nelle faccendedomestiche, uscivo con leamiche, andavo in discoteca.Nelle mie giornate mancavasolo la routine quotidianadelle lezioni e dei compiti, ma

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per me era un sollievo». Stella ora ha 18 anni e col

tempo si è resa conto che lemancava qualcosa: «Non misono pentita di aver lasciato lascuola, in quel momento nonavrei potuto fare diversamen-te. Questo però non significache magari un giorno non po-trò riprendere a studiare. Conla mentalità che ho adesso,farei una scelta diversa». Qua-le, però, non è ancora ben chia-ro, come se Stella stesse anco-ra cercando il suo pianeta lon-tano nel bel mezzo di una ne-bulosa: «Forse sceglierei il li-ceo linguistico oppure l’istitu-to informatico, o comunqueuna scuola che mi porti a inse-guire un traguardo, a ottenereun risultato concreto per lamia vita. Mi sono resa contoche davvero questo foglio dicarta, il diploma, può cambia-re il tuo destino».

Stella nel periodo trascorsoa casa senza studiare né lavora-re si sentiva smarrita, malinco-nica, si chiedeva che cosa maiavrebbe potuto fare nella vita.È arrivata al Centro Meta delPatronato San Vincenzo, cheoffre un percorso di formazio-ne e di riorientamento, grazieal consiglio di un amico. «Misono presentata per un collo-quio di prova e mi sono sentitasubito a mio agio. Sono rimastapiacevolmente sorpresa dalleattività proposte: nei laborato-ri dipingiamo, realizziamosculture di legno, coltiviamobonsai, piante aromatiche, emolto altro. Mi sono trovatabene anche con le altre perso-ne, ed è la prima volta che misuccede. Mi sono resa conto diessere cambiata profonda-mente, mi sento una personadiversa, ho acquistato consa-pevolezza del mio valore. Quiho finalmente scoperto di ave-re delle qualità da esprimere».

Presto Stella dovrebbe ini-ziare il suo primo tirocinio:«Mi piacerebbe molto riuscirea guadagnare qualcosa ed esse-re indipendente. Sento il desi-derio di mettermi alla prova edi avere finalmente qualcosada raccontare nel mio curri-culum, che per adesso è ancoraun foglio bianco».

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la vissuta in una serigrafia di Villa d’Alme, dove è rimasto persei mesi. «Una volta scaduto il contratto ho cercato una nuovaoccupazione e l’ho trovata presso Uniacque, sempre a tempo determinato. Mi occupodi comunicazione e di grafica, preparo la rassegna stampa, la modulistica, le locandine per

poi ne ho comprato uno digita-le, e continuo sempre a cercarenuovi scatti». Arun si è impe-gnato in diversi tirocini: i priminello studio di un fotografo e inuna legatoria, dove però i ritmierano troppo veloci «e fisica-mente - osserva - non riuscivo areggerli». L’esperienza più in-teressante, per lui, è stata quel-

che si trattavano a vicenda congentilezza. Ho una maggiore inclinazione per le attività pra-tiche e manuali rispetto allo studio. Ho scoperto nuove abi-lità artistiche. Mi ha sempre af-fascinato il laboratorio di foto-grafia, che per me è una grandepassione. Prima scattavo foto con un apparecchio a pellicola,

tronato. In prima sono stato promosso, l’hanno successivo invece mi hanno bocciato. Ho ripetuto, ma i risultati non era-no buoni e a un certo punto gli insegnanti mi hanno consiglia-to di ritirarmi». Arun a scuola sisentiva fuori posto: «Il rispettoreciproco tra i compagni non esisteva. Ci sono stati episodi sgradevoli, che mi hanno la-sciato il segno. È stato un bene per me andare via».

Subito dopo aver lasciato lascuola ha incominciato a fre-quentare il Centro Meta: «Ho avuto subito un’impressione positiva. Prima di tutto l’am-biente era tranquillo, con per-sone equilibrate, capaci di ascoltare e di comprendere,

La storia /4Il percorso di Arun dall’addio

alla scuola a prospettive

nuove, con una grande

passione per la fotografia

«Mai arrendersi, mai smettere di sperare e di crede-re in se stessi». Così oggi Arun incoraggia gli amici del Centro Meta del Patronato San Vin-cenzo, che lui stesso ha fre-quentato fino a poco tempo fa. Torna spesso a trovarli e ogni tanto si ferma ai laboratori conloro: per lui sono diventati co-me una grande famiglia.

«Dopo la scuola secondariadi primo grado mi sono iscrittoa grafica multimediale al Pa-

PHOTO BY EV ON UNSPLASH

nGrazie al consiglio di un amico, l’arrivoal Centro Metadel Patronato

n nMi sono sentita subito a mio agio, sorpresa dalle attività proposte e bene con le persone»

n nOra mi sento una persona diversa, ho acquistato consapevolezzadel mio valore»

«Gli insuccessisono alle spallePosso farcela»

gli eventi, compiti in cui posso mettere alla prova la mia crea-tività e le mie competenze di grafica e fotografia».

Le giornate di Arun non siconcludono con il lavoro: «Ho deciso di ricominciare a studia-re - racconta - mi sono iscritto in un istituto specializzato nel recupero degli anni scolastici. Alla fine potrò ottenere il di-ploma di grafica e comunica-zione che desideravo. Voglio dimostrare a me stesso che se mi impegno posso portare a termine questa sfida, al di là de-gli ostacoli che mi hanno fer-mato in passato. È importante per recuperare fiducia in me stesso». Le attività svolte al Centro Meta lo hanno aiutato ariprendere slancio: «Gli insuc-cessi scolastici mi avevano resotriste e demotivato. Al Centro Meta ho imparato a realizzare da solo piccoli oggetti, ho in-contrato persone nuove con cui ho costruito relazioni posi-tive. In questo modo, apparen-temente semplice, ho capito che c’è qualcosa di buono in me,che posso farcela a costruirmi un futuro e ad essere felice».Sa. Pe.

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18 L’ECO DI BERGAMO

GIOVEDÌ 13 FEBBRAIO 2020

FRANCO CATTANEO

INeet sono i giovani, dai 15 ai29 anni, nel limbo dell’inat-tività: né studiano né lavora-no. In Italia sono a quota 2,1

milioni (23,4%) e in Lombardiaa 217 mila (15,1%). «Ne parlia-mo almeno da 20 anni – spiega il bergamasco Michele Tirabo-schi, giuslavorista all’Universi-tà di Modena e coordinatore scientifico di Adapt, l’associa-zione fondata da Marco Biagi nel Duemila – e quindi la que-stione è stata individuata, ma qualunque riforma si faccia il problema resta. È una situazio-ne sicuramente molto grave in Italia più che nel resto del mon-do occidentale». Un fenomeno che va visto in parallelo con la disoccupazione giovanile che, per quanto scesa dal 40% al 30%, è sempre alta, mentre re-stano bassi i tassi di occupazio-ne. I giovani, dai 15 ai 24 anni, che in Italia lavorano sono pocodi un milione (18,6%), in Lom-bardia 217 mila (23,2%) e nella Bergamasca la percentuale saleal 27,7%. Gli occupati dai 25-34anni sono 4,1 milioni in Italia (62,7%), 809 mila in Lombar-dia (76,5%) e nella Bergamasca rappresentano il 74,2%.

Professor Tiraboschi, come si è

giunti a questo vagare senza meta

dei ragazzi?

«In un’Italia che fa sempre me-no figli, sono pochi quelli che trovano un lavoro e chi resta di-soccupato in molti casi abban-dona l’idea di cercare un posto: è la condizione degli scoraggia-ti. Qui si aggiunge un altro ele-mento tipico del Sud Europa, e dell’Italia: molte di queste per-sone sono donne, specie del Mezzogiorno».

Pesa il deficit scolastico?

«Direi che non si parlano bene tre fattori. La scuola, perché ab-biamo ancora un sistema pen-sato per il ’900. Il sistema pro-duttivo, molto diffidente nel-l’inserimento dei giovani: sicu-ramente c’è una quota di som-merso e in altri casi un tirocinioo poco di più. Le famiglie, infi-ne. Un tempo anche da noi nonesisteva l’idea che si stesse a ca-sa, senza far niente. Oggi, inve-ce, questa svolta è tollerata e talvolta promossa dagli stessi genitori: “Questo lavoro per te non è decoroso, stai a casa che

intanto ti manteniamo noi”. E invece questi lavori saltuari, poco gradevoli e non coerenti con i tuoi studi, dovrebbero es-sere accettati, perché comun-que ti fanno crescere e i datori di lavoro apprezzano chi s’è da-to da fare in attività diverse».

Boom dei lavoretti?

«Sì, insieme al dilagare del la-voro nero. Ai miei studenti, allafacoltà di Economia, chiedo sempre di darmi il loro curri-culum e la metà dichiara di aversvolto attività lavorative, ma diaverlo fatto senza un contrattoo senza un tirocinio, dunque innero. In questo modo si scari-cano sui ragazzi i lavori meno piacevoli che un adulto non vuole più fare».

A che punto siamo con la normati-

va?

«Ci sono due strumenti. Uno è l’alternanza scuola-lavoro, che è obbligatoria e che però ri-guarda i ragazzi che già studia-no e quindi non chi ha abban-donato o chi ha finito i corsi. È uno strumento che serve a pre-venire l’assenza di lavoro o l’uscita prematura dagli itine-rari formativi. La normativa, introdotta dal governo Renzi, èstata modificata dal primo ese-cutivo Conte, che ne ha cam-biato anche il nome: l’obiettivo non è più insegnare un mestie-re, ma le competenze trasver-sali, cioè conoscere un po’ il mondo del lavoro. L’altro è Ga-ranzia giovani, programma eu-ropeo adottato in Italia dal 2013 e tuttora in vigore».

Però non se ne parla.

«Si tratta di un progetto molto impegnativo perché le istitu-zioni pubbliche, con finanzia-menti anche europei, si impe-gnano a dare garanzia a un gio-vane iscritto a questo program-

ma che riceverà una proposta dilavoro o comunque un tirocinioo un’offerta formativa. Garan-zia giovani era pensata per gli under 25, ma da noi il proble-ma riguarda una fascia anagra-fica dai 27 ai 35 anni, per cui abbiamo ottenuto una deroga e ci è stato consentito di inseri-re i giovani fino a 29 anni. Ab-biamo avuto più di un milione di persone che ha aderito al progetto, che tuttavia funzionapoco e male: mancano i Centriper l’impiego e personale spe-cializzato. Alcune Regioni, poi,hanno utilizzato la norma eu-ropea per incentivare le im-prese a utilizzare questi ragaz-zi. Risultato, soprattutto al Sud: vengono impiegati come stagionali per sostituire lavo-ratori a termine e, finito il fi-nanziamento pubblico, il ra-gazzo è rispedito a casa».

Un risultato deludente.

«I due strumenti che ho citato, l’uno preventivo e l’altro mira-to, sono falliti per l’incapacità del nostro Paese di attivare i giovani attraverso politiche dellavoro e di formazione. La ri-sposta legislativa non ha fun-zionato, in quanto manca pro-prio una infrastruttura pubbli-ca e privata. E tuttavia questo decifit ci ha aiutato a capire chesu tutto dominano gli handicapculturali. Da un lato il giovane non è aiutato a capire come puòrientrare attivamente in gioco, dall’altro le aziende sono diffi-denti e preferiscono affidarsi alproprio personale esperto. È mutato, pure nella Bergama-sca, l’approccio dei giovani al la-voro. S’è persa l’etica di un tem-po, visto che il lavoro è percepi-to come qualcosa che serve soloa prendere soldi».

Ma in questo contesto che ruolo

gioca il Reddito di cittadinanza?

«Parlarne non è un tabù ed è ungrande interrogativo ovunque, dato che tutti i Paesi si stanno interrogando su questo stru-mento legato alle tecnologie che probabilmente non di-struggono il lavoro, ma lo spo-stano fuori dalla fabbrica in set-tori poveri: servizi alla famiglia e alla persona, “badantato”, oc-cupazioni domestiche e para-sanitarie. Io mi rifaccio all’eticae alla centralità del lavoro e quindi guadagnare un reddito senza fare niente non ti gratifi-

ca sul piano della tua dignità umana e professionale. Tutta-via la questione non va vista in termini manichei: sì o no. Sonomisure che si stanno ancora sperimentando: possono servi-re per contrastare disagio e po-vertà, mentre in altri casi ri-guardano destinatari non an-cora pronti per tornare a lavo-rare. È evidente che scontiamo,come per Garanzia giovani, l’as-senza di Centri per l’impiego che funzionino, di competenze e professionalità e di una infra-struttura di governo del merca-to del lavoro che realizzi lo scambio fra il sussidio e il rien-tro dei Neet in un qualche im-piego. Quello che vediamo, in-vece, sono tanti soldi pubblici dei pochi che abbiamo, spesi male e spesso fuori bersaglio: non danno le risposte di cui le persone hanno bisogno, il biso-gno cioè di lavoro e non soltan-to di reddito».

Lei, anche con noi, insiste sugli ele-

menti culturali.

«Sì, e parlerei di dismissione culturale. Il lavoro non è solo avere uno stipendio, ma è rela-zioni, vita sociale, status e di-gnità professionali. Dunque, ci sfugge questa dimensione che chiamerei anche antropologicae probabilmente ci scappa di mano la considerazione che stafinendo la vecchia società indu-striale fordista. Siamo ancora nel pieno di una lunga transi-

zione, perché iniziata negli an-ni ’70, e ancora non vediamo unnuovo ordine sociale ed econo-mico che sia stabile, che dia prospettive. La quarta rivolu-zione industriale ci porta fuori dall’universo della fabbrica, perché il robot riduce l’utilizzo di manodopera, verso contesti dove il lavorare è anche il for-marsi e apprendere. Però i nuo-vi saperi si acquisiscono negli ambienti reali e così dovremmoabbandonare culturalmente i vecchi strumenti, il superato schema del posto stabile e lavo-rare piuttosto sulle professio-nalità, competenze, attitudini, talenti. L’orizzonte deve essere quello di ecosistemi territorialidove le integrazioni fra questi universi, un tempo separate, si-ano attive. Da anni io e i miei collaboratori diciamo che s’è spezzata la linearità fra studio, lavoro e pensione: tutto oggi è un po’ mischiato e però non c’è un ordine con cui miscelarlo. Inquesto modo il giovane, rima-sto solo, è spiazzato insieme con la sua famiglia».

Il modello può essere quello della

Germania?

«L’Italia ha un’eccellente tradi-zione manifatturiera ed è chia-ro che la Germania rimane un modello, ma non lo è solo per l’apprendistato. Mi riferisco al-la formula delle relazioni indu-striali partecipative e non con-flittuali come in Italia e alle in-

telligenti e lungimiranti politi-che migratorie sia nei confrontidei rifugiati sia di chi arriva permotivi economici. Da noi c’è ancora la paura che i flussi dei migranti ci portino via il lavoro,mentre in Germania hanno fat-to una selezione accurata, inte-grando figure professionali chenon si trovavano più. In Italia abbiamo ancora troppi pochi giovani che occupano quei po-sti di mezzo tra il lavoro ma-nuale esecutivo e quello ad altaprofessionalità, che sono poi quelle figure che alle nostre aziende bergamasche farebbe-ro molto comodo e che tuttaviale nostre scuole sfornano in maniera insufficiente. Va rilan-ciato un concetto essenziale: c’èproprio una rivoluzione in cor-so, siamo ancora nel pieno di una fase di passaggio dove a pa-gare sono i più deboli. I giovani e, come ho detto, soprattutto ledonne. Il rischio è che questa bomba sociale esploda, mentreosserviamo che le famiglie de-gli immigrati portano i loro figlilungo quei percorsi scolastici meno ambiziosi ma che hanno maggiori prospettive occupa-zionali concrete. E proprio in questo nuovo mondo di casa nostra riscontriamo quell’etica fortemente radicata nell’idea di lavoro, quella solida traccia storica che invece stiamo per-dendo per strada anche nella Bergamasca».

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Michele Tiraboschi

Neet, né studio né lavoroInchiesta giovani

«SIAMO IN FASEDI PASSAGGIOE PAGANOI PIÙ DEBOLI»Tiraboschi, giuslavorista: si è spezzata la linearità fra studio, occupazione e pensione, tutto oggi è mischiato«Spendiamo tanti soldi pubblici fuori bersaglio, senza rispondere al bisogno di lavoro e non solo di reddito»

PHOTO BY CALEB MINEAR ON UNSPLASH

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L’ECO DI BERGAMO 19GIOVEDÌ 13 FEBBRAIO 2020

CRISTINA SIGNORELLI

«In Italia esiste un’am-pia fascia di giovani edonne che vorrebberolavorare ma non cer-

cano lavoro», Emilio Reyneri, so-ciologo del lavoro dell’UniversitàBicocca di Milano, sintetizza inpoche parole il fenomeno dei Ne-et (Not in education, employ-ment or training) ovvero i giovaniche pur non essendo né studentiné occupati non cercano attiva-mente lavoro.

Perché un ragazzo anche istruito (ol-

tre la metà dei Neet italiani ha conse-

guito un diploma superiore) non è in

cerca di un’occupazione?

«Almeno per due motivi. Da unlato vi è lo scoraggiamento, la sensazione che la ricerca sia co-munque vana. Dall’altro lato i gio-vani spesso trovano il primo lavo-ro attraverso le conoscenze fami-liari, pertanto non è necessario fare una ricerca attiva ma è suffi-ciente il passaparola nella ristret-ta cerchia dei parenti e degli ami-ci. Ciò in qualche misura ridi-mensiona il fenomeno».

Sì, ma al contempo denota un atteg-

giamento dei ragazzi abbastanza

passivo, non crede?

«I giovani italiani vivono pratica-mente quasi tutti in famiglia. A questo punto è lecito chiedersi sesi esce più tardi da casa perché non si trova lavoro, oppure per-ché potendo vivere in famiglia si

aspetta un lavoro migliore di quello che si troverebbe in tempibrevi. Dobbiamo anche dire cheoggi le occasioni di lavoro sono abassa qualificazione e a bassa re-tribuzione, questo spinge i giova-ni a rifiutare il lavoro scadente efarsi mantenere dai genitori».

Insomma, è l’immagine di giovani un

po’ bamboccioni, un po’ choosy come

è stato detto negli ultimi anni?

«Così sembrerebbe ma dobbia-mo tararlo sulla domanda di lavo-ro italiana che è molto polarizza-ta verso il basso. In tutti i Paesi sviluppati la domanda di lavorotende a polarizzarsi sia verso l’al-to (professioni di tipo intellettua-le e di alto contenuto tecnico), siaverso il basso (lavori di serviziocome camerieri, facchini, tra-sportatori, commessi, ecc.) men-tre i lavori intermedi, come l’im-piegato di banca, sono in forte contrazione. In Italia in questi ultimi anni, soprattutto per i gio-vani, è cresciuta la domanda di lavoro più bassa sulla quale nonincide né l’automazione, né la globalizzazione. La maggior par-te dei giovani possono accederea lavori scadenti che, potendo contare sulla famiglia, rifiutano.Ma se il lavoro fosse “buono” siprenderebbe al volo».

Esiste anche un problema di forma-

zione dei giovani non adeguata al-

l’offerta di lavoro?

«Purtroppo, il nostro sistema scolastico, tolti alcuni punti di

eccellenza, è di livello medio bas-so e fornisce una preparazione ditipo nozionistico. Da un recenterapporto di Randstad, società diconsulenza per le risorse umane,emerge che le competenze dei giovani, particolarmente quelledi carattere tecnico, digitale e dilingue straniere, sono abbastan-za scadenti e non adeguate al mondo del lavoro. Le imprese lamentano spesso di non trovarele figure professionali che gli ser-vono, ma sono dichiarazioni datrattare con prudenza perché daun lato abbiamo i giovani che aspirano a posizioni superiori alle loro competenze, ma dall’al-tro le imprese vorrebbero che illavoratore fosse subito pronto all’uso, senza considerare, so-prattutto nelle Pmi, che ogni nuova assunzione richiede un periodo iniziale di formazione».

Perché i Neet sono numericamente

rilevanti anche in aree dove la disoc-

cupazione è più bassa?

«Perché anche nei territori dovec’è maggiore occupazione l’in-contro tra domanda e offerta dilavoro trova molti ostacoli. Que-sto si concentra prevalentemen-te sui giovani ai quali, spesso a causa delle scarse competenze trasversali, è negata la chance delprimo lavoro. Ciò avviene non solo al Sud, dove l’offerta di lavo-ro è scarsissima, ma anche al Nord dove la disoccupazione col-pisce particolarmente i giovani.Anche in Lombardia, motore

economico d’Italia, i Neet sonoun fenomeno molto rilevante con differenze minime e poco significative tra le province, tran-ne Milano, di cui sono note l’ele-vata crescita economica e la fortedomanda di lavoro».

A proposito di differenze, quelle di

genere, si replicano in forte misura

anche tra i Neet. Dati recenti mostra-

no che a Bergamo i giovani che non

studiano né lavorano sono il 10,7%

dei maschi e più del doppio, 23,6%,

delle femmine. Come affrontare il

problema?

«È necessario chiarire che questestatistiche si basano sulla do-manda “sta studiando o è in cercadi lavoro?” alla quale, per i motivigià detti, i Neet rispondono nega-tivamente. È una caratteristica tutta italiana che le donne più chegli uomini abbiano un comporta-mento poco attivo nella ricercadi lavoro. Ciò deriva sia dal fattoche spesso il lavoro si cerca attra-verso conoscenze familiari, sia che la famiglia italiana fa meno pressione sulle ragazze che sui ragazzi affinché si trovino un po-sto di lavoro. Inoltre, se la doman-da delle interviste fosse “vorreb-be lavorare?” le percentuali crol-lerebbero drasticamente, sia peri maschi che per le femmine. Ladifferenza di genere rimane co-munque un dato italiano moltoforte anche se si sta leggermenteattenuando con la crisi economi-ca che ha colpito di più i giovanie i maschi, tradizionalmente im-

piegati nei settori dell’industriae delle costruzioni, ciò è avvenutocontestualmente ad un forte in-cremento, soprattutto per le trentenni, del part time involon-tario a fronte di una drastica di-minuzione di quello volontario».

Il quadro che si delinea è piuttosto

sconfortante. Che misure si do-

vrebbero adottare per affrontare

il problema?

«Ci sono diversi aspetti da consi-derare. Innanzitutto, la scuola. Ènecessario che il sistema scolasti-co fornisca le adeguate compe-tenze, soprattutto quelle tecni-che di cui difetta particolarmen-te. Poi il sistema imprese che deveaprirsi alla cultura della forma-zione. Soprattutto per le piccoleimprese non è facile attuare que-sto programma che richiede tempo e una organizzazione dellavoro adeguata, quindi nuovi co-sti. Un terzo livello è di compe-tenza più squisitamente pubbli-ca. Il programma Garanzia gio-vani ha aperto a molti tirocini temporanei che hanno aiutato igiovani ad entrare in rapporto con le imprese. Purtroppo, dopoun avvio abbastanza spedito il programma è stato abbandonato.È chiaro che qualunque progettopubblico ha necessità che esistauna organizzazione amministra-tiva che lo supporti e dia conti-nuità agli interventi. Solo con perseveranza e dedizione si ve-dranno dei buoni risultati».

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Emilio Reyneri

Neet, né studio né lavoroInchiesta giovani

«DA NOI DOMANDA DI IMPIEGOMOLTO POLARIZZATA IN BASSO»Reyneri, sociologo del lavoro: negli altri Paesi sviluppati, c’è una forte concentrazione anche verso l’alto«Dopo un avvio spedito, il programma Garanzia giovani è stato abbandonato. Ma nei progetti serve continuità»

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Page 8: GIOVED 13 FEBBRAIO 2020 L'ECO DI BERGAMO 13 ......2020/02/13  · «Neet - Giovani che non studia-no e non lavorano», edito da Vita e Pensiero. Lei ha scritto che siamo la pi gran-de

20 L’ECO DI BERGAMO

GIOVEDÌ 13 FEBBRAIO 2020

FRANCO CATTANEO

Il fattore culturale è la bus-sola necessaria per orien-tarci nel labirinto dei Neet:lo sostiene, con l’esperienza

dello studioso di lungo corso,Dario Nicoli, docente di Socio-logia economica del lavoro edell’organizzazione all’Uni-versità Cattolica di Brescia.

Professore, cominciamo da que-

sto aspetto.

«Per la prima volta, da quandol’Italia è entrata nella moder-nità, il lavoro non è più consi-derato un valore universal-mente condiviso, ciò soprat-tutto a causa del cambiamentoculturale nel senso della cen-tratura sull’”io”. Noi oggi vi-viamo una profonda tensionetra l’etica del dovere e l’eticadella soggettività, due aspettimolto differenti, se non alter-nativi. I vecchi imprenditorihanno a che fare con giovaniche sono ad una distanza abis-sale rispetto al loro modo dipensare e di concepire la vita.Al centro della cultura e delsentire più diffusi fra i giovanima pure in soggetti più adulti,c’è l’autorealizzazione, unaprospettiva di vita che crea unanetta discontinuità rispetto al-la concezione storica del lavo-ro, ritenuto un dovere neces-sario a rendere socialmente ri-conoscibile la persona. La vi-sione tradizionale incorpora-va il lavoro entro una macchi-na sociale a cui ciascuno parte-cipava svolgendo un ruolo, se-condo schemi e riti precosti-tuiti, nella direzione del pro-gresso, un valore tanto certoda non essere discusso. Manon sono mancati autori chene hanno visto in anticipo ichiaroscuri: nel primo ’800l’intellettuale liberale Alexisde Tocqueville aveva intuitoche nella società moderna l’at-tenzione prevalente dell’indi-viduo è centrata su se stesso,sui suoi desideri e progetti, co-sì che l’”io” finisce per diven-tare una sorta di interferenzatra sé e il mondo: “Raramentenei secoli democratici gli uo-mini si sacrificano l’uno perl’altro”, mentre “mostranouna generica compassione perogni essere umano”».

Con quale impatto sul mondo del

lavoro?

«Il giovane lavoratore è moltosensibile agli stati d’animo.Quando inizia la prima espe-rienza di lavoro, se viene sgri-dato, il giorno dopo lascia echiede alla mamma di telefo-nare al suo datore di lavoro. Di-verse aziende non fanno piùselezione del personale a giu-gno-luglio, perché i candidatiche si presentano hanno già leferie organizzate. La loro vitanon si concentra sul lavoro co-me fattore decisivo e costituti-vo dell’identità, che invece sideve incastrare dentro unaprogrammazione della vita giàbella e fatta. Il principio del-l’autorealizzazione è così im-portante che le famiglie chehanno mezzi economici, e nonsono poche, consentono al fi-glio una transizione lunga fral’uscita dal percorso scolasticoe l’ingresso nel mondo del la-voro finché non trova il postoche lo soddisfa. E così il ragaz-zo è legittimato a pretendereper diversi anni la “paghetta”dai genitori. In questo conte-sto c’è poi il fattore “over edu-cation”, cioè di coloro che han-no accumulato titoli di studiosuperiori alle richieste delmondo produttivo. Da qui na-sce un doppio disallineamen-to: quello fra le competenze,specie tecnico-operative, equello fra chi ha aspettativeelevate e la qualità “medio bas-sa” delle offerte d’impiego».

Tuttavia la nuova cultura giovani-

le ha anche aspetti positivi.

«Indubbiamente la culturadell’”io” costituisce una pro-vocazione feconda nei con-fronti del mondo imprendito-riale, e dell’indirizzo dell’eco-nomia, perché può aprire adun’alleanza, ovvero ad un rap-porto dotato di reciprocità, traazienda e dipendente. Non èpiù solo l’impresa a chiedere al

lavoratore le sue risorse persostenere il progetto produtti-vo, ma è anche il giovane a do-mandare le occasioni per rea-lizzare se stesso e lasciareun’impronta positiva nella co-munità. Una prospettiva che,se ben indirizzata, può miglio-rare l’ambiente di lavoro per-ché pone gli scopi buoni al cen-tro dell’attività economica, in-dica nel profitto non un finema un indice di buona gestio-ne, supera la frattura tra i tem-pi della vita. In definitiva, il de-siderio dell’autorealizzazionecostituisce una spinta decisivaverso organizzazioni dotate diun’anima, quelle capaci di pro-iettarsi nel futuro, come so-stiene Frederic Laloux».

Ma intanto c’è il buco nero del Sud.

«Quel che ho detto finora si ri-ferisce prevalentemente alNord. Quando scendiamo ver-so il Mezzogiorno entriamo inrealtà multiple: economie discambio, grigie e sommerse, ein contesti familistici dove irapporti di reciprocità si stabi-liscono non in base a regoleformali, a diritti e doveri sanci-ti in base alla legge, ma sullascorta dell’appartenenza a undeterminato gruppo, a un’areadi persone che si sostengono avicenda. Di questo mondo noiricercatori sappiamo ben po-co, perché i dati statistici nonrivelano la realtà. Infatti i Neetsono una categoria statistica:coloro che non rientrano tragli studenti e neppure tra i la-voratori, ma dal versante so-ciologico non dicono più ditanto: si tratta di una classifi-cazione che copre situazionidiverse e pure errori statistici edi registrazione. E poi, oltre airagazzi che non studiano e nonlavorano, abbiamo anche chilavora in forme molto diffe-renti e con titoli elevati. Pensoai giovani posti all’ingressodelle professioni liberali comearchitetto, avvocato e così via.Queste figure ricevono, quan-do va bene, il rimborso spese enon hanno l’occasione di ar-ricchirsi professionalmente equindi di fare carriera oppuredi progettare uno studio pro-fessionale autonomo. Un paiodi mesi con compiti di routine,poi a casa. Su tutto, al Sud, pre-vale il mercato di scambio. C’èil ragazzino che per non bi-ghellonare consegna il pane

per conto dello zio che ha il ne-gozio. Ma, attenzione: è lo zioche gli fa il favore, non vicever-sa. Questo mercato di scam-bio, legalmente scorretto, so-stiene un’economia che esistesolo in quanto estranea al fi-sco. In caso contrario tuttequeste attività sparirebberoperché non sostenibili, mafunzionano dentro un conte-sto di comunità».

Come interagisce il Reddito di cit-

tadinanza?

«Finora, in base alle prime ri-cerche, si può dire che non haraggiunto l’obiettivo primario,quello di creare occupazione.Aggiungo che il sistema delcollocamento influisce, nellamigliore delle ipotesi, solo sul4-5% dei passaggi dal non lavo-ro al lavoro e in certe zone puòraggiungere il 6-7%, mentre inaltre la sua efficacia è vicina al-lo zero. Ci sono buone espe-rienze – in Lombardia, Veneto,Piemonte, Toscana –, ma in ge-nere la macchina del colloca-mento pubblico non funziona.Non funziona soprattutto per-ché in Italia vige la cultura del-la conoscenza diretta: l’aspi-rante dipendente diventa affi-dabile quando è conosciuto co-me tale, quando c’è qualcuno dicredibile che garantisce perlui. Non è la raccomandazione,piuttosto è una forma di garan-zia non basata su fattori for-mali (il titolo di studio) o sulletecniche dell’orientamento (ibilanci delle competenze), masul “metterci la faccia” più omeno con queste parole: “Io,che sono un tuo dipendente, tigarantisco che questo ragazzoè bravo, s’impegna ed è di buo-na famiglia”. Il titolo di studioè un requisito di base necessa-rio, però non sufficiente pergarantire l’affidabilità di chil’ha conseguito».

Da un lato l’approccio al lavoro è

guidato da nuove categorie men-

tali, dall’altro il lavoro in sé sta su-

bendo trasformazioni radicali.

«Dobbiamo capire che siamoentrati in una società comples-sa, dove abbiamo contempora-neamente disoccupati e lavori“orfani”, cioè richieste di occu-pazione da parte delle impresesenza candidati che desidera-no svolgerle. Sfioriamo il para-dosso: ci sono studi secondo iquali da qui al 2028-2030mancherà un milione e 200mila candidati al lavoro. Macontemporaneamente nonriusciamo ad assorbire più di 2milioni di disoccupati. Ci tro-viamo nell’area di mischia, do-ve convivono a stretto contattosituazioni di lavoro con cultu-re completamente diverse traloro. Il vecchio impiego di fab-brica, quello fordista, è cam-biato nettamente. Le aziende4.0 sono il regno dei supertec-nici, dove il rapporto fra laure-ati e non è 50-50. Nell’immagi-nario collettivo la fabbrica, in-vece, è ancora quella dei fumi,delle ciminiere, della fatica edei turni. Non è più così. Poi, seusciamo dal ciclo produttivostorico degli stabilimenti, in-contriamo l’ambito socio-assi-stenziale legato all’invecchia-mento della popolazione e aiprogressi della medicina. En-triamo così in un ambienteduale: povero economica-mente, ma in cui l’etica poggiasul valore della cura. Ecco, inquesti contesti troviamo quo-te di sottoproletariato: ba-danti, persone addette ai ser-vizi di pulizia, eccetera. Pen-siamo poi ai livelli di puntadell’agricoltura e dell’agroin-dustriale, al Made in Italy, cheperò convivono con piccolerealtà come il recupero dellecascine di montagna, lavorisostenuti da forti ideali, ma

che non forniscono redditoperché in sostanza sono for-me di autosussistenza».

C’è anche un problema di forma-

zione.

«Se vogliamo leggere corretta-mente il rapporto fra giovani elavoro, la vera questione che sipone riguarda la complessitàdel prendere una decisione daparte di tutti i soggetti coinvol-ti: i ragazzi, i genitori, i profes-sori. È veramente molto, mol-to difficile che uno riesca a tro-vare un posto che gli corri-sponda perfettamente su mi-sura. Perché? Perché - comedire? - troppe opportunità ge-nerano maggiore confusione.Vanno considerate alcune va-riabili aggiuntive, per esempiol’idea che persiste nella men-talità degli adulti, specie deidocenti, e cioè i vecchi stereo-tipi che rimandano alla fabbri-ca come a un qualcosa di fisso eimmutabile. Sarebbe inveceimportante puntare decisa-mente sulle qualità che sonorichieste per il lavoro, piutto-sto che sulle figure specificheche un soggetto vuole ricopri-re. È vero che le grandi cultureprofessionali rimangono, tut-tavia mutano continuamentele condizioni in cui avvienel’esercizio del lavoro. Intendodire che, per aiutare i giovani apendere una decisione consa-pevole e fondata circa il pro-prio futuro lavorativo, non bi-sogna concentrarsi sulle speci-fiche figure professionali, chemutano in continuazione, mabisognerebbe insistere soprat-tutto sul contributo che le di-verse attività di lavoro dannoal bene comune. A me sembrache sia questo il motivo di fon-do che pone in una relazionevitale le persone e l’attivitàeconomica».

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Neet, né studio né lavoroInchiesta giovani

«C’È UNA NETTADISCONTINUITÀNELLA VISIONEDEL LAVORO»Nicoli, sociologo: il desiderio dell’autorealizzazione è una spinta decisiva verso organizzazioni dotatedi un’anima. Il paradosso: abbiamo al tempo stesso disoccupati e lavori «orfani» senza candidati

Dario Nicoli

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