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GLI ANGELI DELLA PIETÀ Intorno a Giovanni Bellini · 2020. 2. 28. · de Le vite, può...

Date post: 02-Feb-2021
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GLI ANGELI DELLA PIETÀ Intorno a Giovanni Bellini UMBERTO ALLEMANDI & C. TORINO ~ LONDRA ~ VENEZIA ~ NEW YORK
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  • GLI ANGELI DELLA PIETÀIntorno a Giovanni Bellini

    UMBERTO ALLEMANDI & C.TORINO ~ LONDRA ~ VENEZIA ~ NEW YORK

  • Questa mostra che ha per titolo «Gli angeli della Pietà» si sviluppa intorno a quello che, con ogni probabilità, è il dipin-to più importante conservato nel Museo della Città di Rimini: il «Cristo morto con quattro angeli» di Giovanni Belli-ni. Nonostante la sua notorietà, ci è parso giusto ripresentarlo al pubblico in una rassegna incentrata solo su tale opera, come èopportuno che avvenga in tempi di strettezze economiche nei quali le grandi mostre si fanno sempre più rare e le grandi mostred’argomento non ancora consumato, ancora di più.Questa rassegna - organizzata dal Comune di Rimini e dal Meeting per l’Amicizia fra i popoli - consegue a quella monografi-ca che si tenne a Roma nelle Scuderie del Quirinale nel 2008, dove il capolavoro del pittore veneziano era esposto, quindi permolti particolari d’ordine critico e cronologico si rimanda al catalogo curato da Mauro Lucco e Giovanni Carlo Federico Vil-la. Ciò non toglie che il «Cristo morto con quattro angeli» non finisca mai di stupire e di riaccendere la curiosità tanto degli stu-diosi specializzati in problemi belliniani, che di singoli critici e storici dell’arte cui è concessa qualche incursione in campi dinon loro specifica competenza; nella fattispecie di noi due che abbiamo concertato insieme, sino dall’inizio, di puntare l’atten-zione sul quadro di Giovanni Bellini, senza spostarlo dalla sue sede. Il suo fascino magnetico è tale da attirare molteplici con-fronti.Ciò si è verificato senza sprechi e in misura essenziale e limitata a opere radunate in numero ridotto, come la situazionegenerale impone. L’abbiamo fatto nella certezza che la stupenda tavola di Bellini non abbisogni di folti corteggi per riafferma-re sempre la propria bellezza, una bellezza commovente, visibile in ogni sua parte, dalla figura di Cristo a quelle degli angeli, ilcui ««sviluppo» tipologico - come aveva pungentemente osservato Roberto Longhi nel 1914 - la faceva ritenere della maturità edatabile oltre il Polittico di Pesaro. Le vicende della tavola del Museo della Città di Rimini, in parte ancora da delineare, conoscono un punto fermo nel testamen-to del febbraio 1499, reso noto da Augusto Campana (1962), nel quale il giureconsulto Rainerio Migliorati, consigliere di Ro-berto Malatesta, lasciava all’altare della chiesa di Sant’Antonio Abate di Rimini una «tabulam depictam manu Joannis Belli-ni in qua est depicta imago Domini Nostri Iesu Christi Salvatoris mortui et sublati de cruce in formam pietatis». È pressochécerto che il dipinto citato nel testamento - e in un inventario successivo - sia lo stesso pervenuto in seguito alle soppressioni na-poleoniche in quello che sarebbe poi diventato il Museo della Città, tuttavia non sappiamo con certezza chi ne fosse stato il com-mittente; si avanza soltanto una nuova ipotesi.Giovanni Bellini non era al primo cimento del tema di Cristo morto con angeli, avendolo già esperimentato nella tavola oggial Correr e in quella inserita nel polittico di San Vincenzo Ferreri in Santi Giovanni e Paolo a Venezia e in altri dipinti. Il sog-getto di Cristo morto con angeli aveva iniziato a diffondersi a partire dal prototipo di Donatello dell’altare del Santo a Padova,incontrando grande fortuna a Venezia, per ragioni che lasciano ulteriori margini di ricerca. Uno dei campi di indagine della mostra riminese verte sulla particolare scelta iconografica, e sullo straordinario sviluppo nei ti-pi angelici, che Bellini non rese in nessun altro esempio in modo così intenso e toccante. In questa rassegna l’iconografia vienericonsiderata grazie al paragone con il «Cristo e angeli» di Marco Zoppo del Musei Civici di Pesaro, il rilievo quattrocentescoin cartapesta del Museo di Faenza, riferito dubitativamente al Bellano e a una insigne derivazione bolognese, vale a dire la tavo-la di Francesco Francia della Pinacoteca Nazionale di Bologna, mentre all’iter iconografico che si dipana dai prototipi di Do-natello la mostra intende contribuire con la segnalazione, sinora rimasta un po’ in ombra, della magnifica medaglia di Matteo

    Poche parole di presentazione della mostraMARCO BONA CASTELLOTTI - MASSIMO PULINI

    In copertinaGIOVANNI BELLINI, «Cristo morto con quattro angeli», 1475 circa (foto Delucca & Casalboni fotografi).

    Mostra realizzata da

    Comune di Rimini - Musei Comunali

    Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli

    A cura diMarco Bona CastellottiMassimo Pulini

    Segreteria organizzativaAnnamaria BernucciOrietta Piolanti

    Catalogo a cura diFilippo Piazza

    Autori dei saggiMarco Bona CastellottiAlessandro GiovanardiMassimo Pulini

    Autori delle schedeMarco Bona CastellottiGiacomo Alberto CalogeroGianluca del MonacoMichele Andrea PistocchiMassimo PuliniMaria Rosaria Valazzi

    Sezione didatticaMarco Bona Castellotti

    Ufficio stampaMatteo Lessi, Fondazione Meeting per l’Amiciziafra i popoliEmilio Salvatori, Ufficio Stampa Comune di Rimini

    Gestione sala espositivaMuseo della Città

    Servizi assicurativiSocietà Lloyd’s

    Progetto dell’allestimentoMusei della città – Ufficio Mostre

    Immagine grafica

    TrasportiGianpaolo Gnudi Trasporti Bologna

    Coordinamento promozioneDaniela Schettini

    Albo dei prestatoriPesaro, Musei CiviciFaenza, Pinacoteca Comunale di Arte Antica e ModernaBologna, Pinacoteca NazionaleCollezionisti privati

    Si ringraziano per la gentile collaborazione prestataFrancesca Banini, Gianpiero Cammarota, Claudio Casadio, Mino Devanna, Luigi Ficacci,Emanuela Fiori, Mimma Manfredi, Stefano Mazzotti, Dacia Manto, Alessandro Marchi, Giulio Oliva, Adele Pompili, Serenella Santoni, Mario Scaglia, Maria Rosaria Valazzi.

    Inoltre si ringraziaGiovanni Agosti Daniele Benati Matteo Ceriana Rosita Copioli Oreste Delucca Vincenzo Gheroldi John Lindsay OpiePaolo ProsperiGiulia SemenzaCamillo TarozziBanca popolare ValconcaMoca

    Partner

    GLI ANGELI DELLA PIETÀ, intorno a Giovanni BelliniMuseo della città, via Tonini, Rimini19 agosto - 4 novembre 2012

  • de’ Pasti con il «Cristo» di profilo al diritto e il «Cristo morto sostenuto da due angeli e la croce» al rovescio, di cui esiste un in-discutibile modello (quasi certamente un precedente) nei rilievi della seconda cappella a destra, detta «degli Angeli che gioca-no», nel Tempio Malatestiano.Sul piano figurativo l’ascendente che il Cristo riminese esercita sulla pittura romagnola - da Benedetto Coda a Marco Palmez-zano - rappresenta un altro capitolo di notevole interesse, ma allo «specchio romagnolo» si è potuto accennare solo in catalogo. Durante il cammino che ci ha condotti sino a qui è tornata alla ribalta l’attribuzione allo stesso Giovanni Bellini della «Testadi San Giovanni Battista» (presente nella mostra) dei Musei Civici di Pesaro, tradizionalmente riferita dalla critica a MarcoZoppo (vedi la scheda di Maria Rosaria Valazzi in questo catalogo anche per quanto concerne la provenienza ). L’attribuzio-ne a Bellini non è del tutto inedita, annoverando tra i suoi sostenitori Roberto Longhi, Vittorio Moschini, Rodolfo Pallucchi-ni, Alessandro Conti e altri che ora usciranno allo scoperto. Chi la rilancia è un giovane studioso che lavora all’Università diBologna, Giacomo Alberto Calogero, confortato in questa sua niente affatto infondata idea non solo da ragioni di stile, ma an-che dal fatto di avere riletto un documento conservato nella Biblioteca Oliveriana di Pesaro nel quale si dice che il tondo con la«Testa di San Giovanni Battista» fu donato alla chiesa di San Giovanni Battista in Pesaro «dalli SS. Duchi», i Della Rovere,e che di conseguenza non faceva in origine parte del polittico pesarese dello Zoppo. L’interessante duplice contributo filologico e critico di Calogero - che sicuramente susciterà discussioni - conferisce alla mostraun motivo ulteriore per non chiudere il «caso» di Bellini, di Zoppo e del «Cristo morto con quattro angeli» definitivamente, co-sa che - del resto - nessuno avrebbe auspicato.

    Sommario

    7 Cristo morto con quattro angeliMASSIMO PULINI

    11 Il Re della gloria MARCO BONA CASTELLOTTI

    17 La Docta religio di un dipinto. Erudizione e devozione nella «Pietà» riminese di Giovanni Bellini

    ALESSANDRO GIOVANARDI

    20 Lo specchio romagnoloMASSIMO PULINI

    25 Schede

    42 Bibliografia

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    GIOVANNI BELLINI(Venezia, 1438 circa - 1516)

    Cristo morto con quattro angeli1475 circaTempera e olio su tavola, 80,5 x 120 cm.Rimini, Museo della Città, inv. 18 PQ.

    La prima notizia documentaria cheabbiamo di una «tabulam depic-tam manu Johannis Bellini in qua est de-picta imago domini nostri Iesu ChristiSalvatoris mortui et sublati de cruce informam pietatis» è del 17 febbraio 1499 ela dice collocata nella chiesa di Sant’An-tonio facente parte dell’allora complessodi edifici pertinenti al Tempio Malatestia-no riminese. È il testamento del giurecon-sulto Rainerio di Ludovico Migliorati,consigliere di Pandolfo e di Roberto Ma-latesta, che la intende legare all’altare delproprio sepolcro. Malgrado alcuni stu-diosi abbiano tenuto aperta l’ipotesi chela citazione si riferisse a un altro dipinto(cfr. VILLA, in Giovanni Bellini 2008, p.178), fino a prova contraria va ritenutaquesta la prima collocazione presunta del-la tavola in parola, nonostante si parli diun’opera eseguita probabilmente più divent’anni prima. Vasari ricorda, come dipinto da Belliniper Sigismondo Malatesta, «un quadro diuna Pietà che ha due puttini che la reggo-no, la quale è oggi in San Francesco inquella città» (VASARI 1550 e 1568). Ladiscrasia sul numero degli angeli, non ra-ra nel travaso dagli appunti alla stampade Le vite, può considerarsi trascurabile,meno credibile invece la cronologia che

    circoscriverebbe l’opera entro il 1468, an-no di morte di Sigismondo, ma Vasariscrive a quasi un secolo di distanza.La maturità aulica della composizione ela cifra classica delle forme fisiche non so-no compatibili con una data così preco-ce, anche se Lucco (2004, p. 91), ripren-dendo pareri di Fry (1900, pp. 32-33) eHuse (1972, pp. 17, 18) la ritiene attendi-bile. Tutti gli altri studiosi concordanoper una prossimità alla pala pesarese (rea-lizzata tra il 1471 e il 1475) e Tempestini(in Marco Palmezzano 2005, p. 216) la col-loca strettamente vicina al 1475. Più an-cora della magnifica e sontuosa «Incoro-nazione» di Pesaro, l’opera si affianca al-lo stile della «Santa Giustina» del MuseoBagatti Valsecchi e al «Ritratto di Giovi-netto» di Birmingham, che insistono sul-le medesime cronologie e che prestanoconfronti fisionomici alle figure degli an-gioletti riminesi. Anche gli analoghi sog-getti belliniani del Museo Correr, del-l’Accademia Carrara e di Palazzo Du-cale mostrano nelle forme un carattere piùarcaico e aspro, per certi versi ancora go-tico, mentre nel dipinto del Museo dellaCittà il disegno degli angeli e del Cristoacquista un respiro unitario e di misura ri-nascimentale. «Le masse muscolari con-tratte cominciano a rilassarsi nel depostodi Berlino e di Rimini. La fatica dell’eroeè oramai compiuta, ma davanti all’intat-ta bellezza delle carni, l’osservatore stupe-fatto quasi non se ne ricorda più, e alla de-vozione subentra l’ammirazione» (SA-RACINO 2007, p. 303). Nel 1929 Paoletti avanzò l’ipotesi di iden-tificare, quale committente, Carlo Mala-testa, nipote di Sigismondo e figlio di Ro-berto, e fino a poco tempo fa (TEMPESTI-NI, in Marco Palmezzano 2005, p. 216)

    continuava a prevalere questa tesi, ben do-po il ritrovamento del testamento Miglio-rati a opera dello storico Augusto Cam-pana (1962, pp. 405-427). Credo tutta-via vadano meglio considerate le paroledel Vasari: «Né ancora dirò tutto quel chedi suo egli mandò per il dominio di Ve-nezia, et molti ritratti di principi che eglifece, senza le altre cose spezzate di alcuniquadroni fatti loro, come in Rimino al s.Sigismondo Malatesta un quadro di unaPietà...» (VASARI 1550, ed. 1986, vol.III, p. 97). Se la tavola riminese era una«cosa spezzata», parte di un «quadrone»fatto a uno dei «principi», allora si puòanche immaginare un polittico iniziatoper volere di Sigismondo, di cui la «Pie-tà» doveva costituire quasi certamente lacimasa, dunque nulla vieta che questa po-tesse essere stata eseguita quando il primocommittente era già defunto. Nell’edizio-ne del 1568 non si parla più di «cose spez-zate» e il «quadrone» si perfeziona in «unquadro grande». Restano comunque pos-sibili altre ricostruzioni e di certo meritaun approfondimento di studi la figura delgiureconsulto Migliorati (vedi saggio diGiovanardi in questo catalogo). Nella tavola levigata, sottilmente segnataal centro da una crepa che la percorre inlongitudine, si rappresenta la visione delcorpo umano del figlio di Dio, martoria-to e ucciso, ma ancora bello, possente,proprio come un eroe omerico morto inbattaglia. Sul largo gradino di base, cheimita un marmo rosato, quattro angiolet-ti in piedi lo assistono e uno di loro è im-pegnato a porre la salma del Cristo in po-sizione seduta, facendola ruotare sul baci-no. A voler seguire la sequenza dei fattievangelici quel corpo era già stato mostra-to vivo solo qualche giorno prima, vesti-

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    Ma è la sublime distrazione degli angeli,in quest’opera capitale del Bellini, a resta-re un unicum e insieme un sottile mistero.I tre giovani inoperosi appaiono obietti-vamente distratti dal centro sentimentaledell’iconografia, ma concentrati ognunoin sé, quasi stessero ripassando a mente lapropria parte. In fondo il corpo non è an-cora pronto nella posizione del «CristoPasso» e quasi si può immaginare chel’angelo dalle ali verdi e rosse, quello chene regge la mano sinistra, attenda il per-fetto innalzamento del busto per poter si-stemare il braccio nella posa conserta, nor-mativa. Intanto, con una eleganza altera,che si direbbe botticelliana, osserva la fe-rita. Al suo fianco l’angelo dalla camicio-la gialla, quello più centrale e accorato, hagli occhi imploranti rivolti verso la partesinistra dell’opera, ma non nella precisadirezione del volto di Gesù, in prospetti-va lo oltrepassano da dietro. Meraviglio-samente incantato è infine l’ultimo ragaz-zino alato, la sua posizione di riposo è lapiù esplicita, le braccia intrecciate, il pe-so poggiato su un unico piede e la perdi-ta di fuoco dello sguardo che dona un leg-gero strabismo da sovra pensiero. Ma è proprio attraverso questa «dissemi-nata concentrazione», questa tenera sva-gatezza dei servi di scena che si esalta, fos-se anche per contrasto, il fulcro mistico deldolore. L’invenzione di una variante ico-nografica che fissa l’immagine sul mo-mento di allestimento scenico dell’iconacanonica rischia di essere una lettura con-dizionata dai nostri tempi, ma ben più diuna veggenza compositiva traspare da ungenio come Bellini intenzionato non dirado ad aprire varchi nel sistema lingui-stico. Vero è che questi giovani ben petti-nati e contemplativi hanno poco a che fa-

    re con gli angeli afflitti del bassorilievo do-natelliano di Padova, precedente impre-scindibile, ma nel quale la disperazioneviene urlata, assolutamente condivisa coidolenti. Accordate sulla variabile sonoanche le ali degli angeli riminesi, che ap-paiono liberamente ispirate a piccoli uc-celli variopinti, anche se per almeno duedi questi credo sia possibile giungere auna identificazione. Molto prossime alleali di una Cinciarella (Parus minor) sonoinfatti quelle che nel dipinto del Museodella Città aprono uno spicchio di ruotaattorno alla testa di Cristo. Appartengo-no all’angelo reggente e mostrano una li-vrea che dal verde muschio diventa blu al-le estremità. Mentre le più bianche, cresta-te con piume turchesi rigate di nero, sirifanno al corredo interno della Ghianda-ia (Garrulus glandarius). Prossime a quel-le di un Gruccione o di un piccolo Pap-pagallo sono invece le verdi che virano inrosso, mentre più enigmatiche restano leultime, all’estrema sinistra del quadro,violette con un riverbero rossastro sul cri-nale dell’articolazione. Al pari delle ali, anche le camiciole deigiovani si distinguono tra loro, per colo-re, scollo e consistenza, dato che ognunadi queste piega in modo diverso. Quelladell’angelo in primo piano, di foggia an-tica, si increspa in tornanti mantegneschi,mentre le altre scendono più o meno linea-ri e tornite.Siamo di fronte a un corredo di sottili de-clinazioni che cinguettano attorno al Cri-sto temporaneamente addormentato, allo-ra gli angeli sono inviati a disporre le co-se nel modo migliore e svolgono ilcompito con una leggera svagatezza litur-gica, da chierichetti. C’è qualcosa di fa-volistico in tutto questo e aleggia una con-

    sapevolezza della resurrezione che impe-disce loro di recitare il dramma senza cor-rere il rischio dell’ipocrisia. Fino a questopunto era arrivato Giovanni Bellini a trequarti del Quattrocento e forse non sicomprende a pieno la portata del suo pen-siero se non si procede a uno sforzo diesclusione di tutto quello che è stato il cor-so successivo della storia dell’arte. Botti-celli non aveva ancora orchestrato l’alte-rità neoplatonica della «Nascita di Vene-re» e della «Primavera», Mantegna nonaveva inventato la prospettiva tragica del«Cristo morto» e Leonardo era ancora al-la bottega di Andrea del Verrocchio. Aparte Piero, che aveva già fatto quasi tut-to, solo qualche scultore come Donatelloera andato oltre, ma seguendo un’altrastrada di tragedia, una via che spesso dal-la materia terrena tendeva al terribile.Un’opera aulica come quella di Riminiriesce non solo a parlare la lingua dei piùgrandi contemporanei, ma precorre anchebuona parte di quella di Raffaello e perfi-no di Dürer. Se infatti dagli angeli di Ri-mini scocca una linea che interseca la gra-zia raffaellesca e che in prima gittata pas-sa dal dipinto di Francesco Francia,esposto in mostra, le forme fisiche del Cri-sto, la loro ossatura nervosa, le curve ari-stocratiche dei polsi servirono non pocoad Albrecht Dürer per il proprio alfabe-to di contrazioni espressive, di articolazio-ni sentimentali. Sappiamo con certezzache il genio tedesco fece visita allo studioveneziano del grande maestro GiovanniBellini, verso la metà dell’ultimo decen-nio del secolo e da lì scese a Bologna. For-se aveva avuto occasione di vedere una re-plica del dipinto riminese in laguna altri-menti si è tenuti a ipotizzare un passaggiocostiero che farebbe meglio comprendere

    to di ironici simboli del potere: la canna difiume al posto dello scettro, uno stracciorosso invece del mantello e la corona dispine a sostituire quella d’oro del vero re-gnante. L’Ecce Homo nell’iconografia cat-tolica rappresenta infatti il momento in cuiil popolo giudeo vide, affacciata al balco-

    ne del sinedrio, la farsa del proprio re, Ge-sù il Nazareno venne spinto dai sacerdotiall’umiliazione e offerto all’ingiuria dellastessa folla, che infine lo condannò al sup-plizio per acclamazione. Così il momen-to della pietà, mai raccontato dai vangelima nondimeno raffigurato in infinite va-

    rianti, seppur per idea simbolica restitui-sce un ultimo atto di esposizione pubbli-ca del corpo, da un nuovo tragico balco-ne che è il sepolcro. Allora quel corpo po-stula la propria divinità attraverso l’invitoa meditare sullo scempio compiuto, sul-l’involucro fisico dell’uomo svuotato del-la vita, sull’eroe che stoicamente accetta dimorire per far comprendere un supremoideale, anche a chi lo ha vituperato e offe-so. A memoria del momento blasfemo re-sta la corona di rovi che da elemento di tor-tura diviene cimiero di quello stoicismo re-gale del Cristo, restano ferite insanguinatee piaghe, su un corpo umiliato ma fiero,marmoreo, ellenistico nella forma. Per quanto possente nel torace, che sem-bra ancora espanso dal supplizio dellacroce e modellato su solidi muscoli, il cor-po del Cristo mostra una propria legge-rezza, non solo in quanto un unico angio-letto basta a sollevarlo, ma perché è resoattraverso un chiaroscuro privo di contra-sti (nel 1900 Fry lo paragonava addirittu-ra a un vaso greco, anche per la scelta delfondo nero), quasi l’autore volesse imita-re un bassorilievo. Viene così da chieder-si se il genio veneziano abbia programma-ticamente cercato un rapporto armonicocon questa tecnica, magari pensando allostiacciato delle formelle di Agostino diDuccio che dominano, e dominavanoanche all’epoca, la decorazione del Tem-pio. Avevo già avuto modo di notare unanalogo indizio nell’affresco riminese diPiero della Francesca (peraltro più legatonella cronologia all’intervento di Agosti-no), la disposizione a profilo del ritrattomalatestiano e l’attenuazione dei tonid’ombra sembrano muovere da una di-mensione medaglistica, stiacciata per ec-cellenza (PULINI 2008).

    GIOVANNI BELLINI, «Cristo morto con quattro angeli», particolare in riflettografia. Courtesy Giovanni C. F. Villa.

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    Nella seconda delle due sole note in calce all’illuminato saggio su Piero della Francesca e lo sviluppo della pittura venezia-na, Roberto Longhi scrive in poche righe che «non pare possibile che la Pietà di Giovanni Bellini a Rimini sia anterio-re alla pala di Pesaro» per la finezza del contrasto pittorico e «lo sviluppo nei tipi angelici»1. La questione del rapporto cronolo-gico che intercorre tra il «Cristo morto con quattro angeli» di Giovanni Bellini - uno dei suoi vertici - e il polittico pesarese sitrascina ancora, ma quel che interessa qui osservare è lo «sviluppo nei tipi angelici», sottolineato da Longhi non solo come evi-denza di stile, ma anche per richiamare l’attenzione sulla au-tonomia dei quattro angioletti rispetto a qualsiasi altro tipoangelico riscontrabile nelle varie redazioni del tema di «Cri-sto morto» e della «Pietà» che il pittore veneziano mise in sce-na nell’arco all’incirca di quarant’anni.

    È utile rileggere le parole con cui Vittorio Moschini commen-ta questo quadro che giudica «mirabile», riconducendolo aun momento successivo alla pala pesarese per lo «splendoreadamantino delle carni tornite e taluni accenni volumetrici disapore antonelliano, in particolare nella testa dell’angelo diprofilo che sembra anticipare il Lotto giovane»2. E proseguetrovando «geniale» il partito che Bellini seppe ricavare in quel-la «Pietà» dal «fondo nero, sul quale le figure risaltano nongià nella loro plastica consistenza ma piuttosto in zone di lu-minoso colore», sì che «quest’opera appare in prima vista diun gusto per così dire “primitivo”. Uno splendore coloristi-co raro vive nelle carni dei caldi riflessi, nelle tuniche succin-te degli angeletti, nelle loro ali di farfalle». E pensare che l’ave-va davanti agli occhi prima dell’ultimo restauro (OttorinoNonfarmale 1967-1969). «D’altra parte il doloroso accentoespressivo delle Pietà belliniane s’attenua, mentre l’interessepiù vivo dell’artista si avverte in quei putti, più che angeli ge-nietti». Oltre ad anticipare in questo suo articolato ed essen-ziale giudizio concetti iconografici di cui la storiografia arti-stica sembra non riconoscere l’origine, s’avverte una certa cau-tela nel definire quegli infanti che attorniano il corpo di Cristomorto seduto sul sepolcro di marmo rosa, di un colore moltointenso nel contrasto con il fondo nero, da pittura vascolare3,più classico che primitivo. In verità tutto è classico a partire

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    il lascito della «Madonna di Cotignola»(ora nella Fondazione Magnani Rocca)o le consistenti influenze dureriane sullapala cesenate di Girolamo Genga. Giovanni C. F. Villa, a preparazionedell’ultima esposizione monografica suGiovanni Bellini (Roma, Scuderie delQuirinale, 2008), ha condotto una cam-pagna di rilievi riflettografici i cui risulta-ti hanno smantellato alcuni luoghi comu-ni circa il processo esecutivo dell’artista.Dai dati raccolti dallo studioso emergeche il Giambellino realizzava, sopra la ta-vola levigata e preparata con una impri-mitura chiara, un attento e ombreggiatodisegno monocromatico. Anche sotto aldipinto di Rimini si ritrova una dettaglia-ta impalcatura grafica, poi ricoperta da uncolore che ancora seguiva una tecnica mi-sta tra tempera e olio. La stesura pittoricasi discosta raramente da quel sensibileprogramma disegnato, si aggiusta sullapettinatura di un angioletto o sulle penne

    di un’ala, altrimenti rispetta un «primatodel Disegno» che Vasari riteneva essereprerogativa toscana, avversata dagli arti-sti veneti. Solo sul finire del Quattrocen-to Bellini inizierà a tracciare disegni piùsommari, lasciando alla pittura una mag-giore autonomia creativa che la porterà fi-no a sublimi soluzioni atmosferiche.

    MASSIMO PULINI

    BIBLIOGRAFIA: Vasari 1550, ed. 1986, vol. III,p. 91; Vasari 1568, ed. 1878-1885, vol. III, p.170; Adimari 1616, vol. I, p. 68; Marcheselli1754, p. 31, ed. 1972, pp. 61-62; Costa 1765, p.50; Battaglini 1794, vol. II, p. 68; Crowe e Ca-valcaselle 1871, p. 190; Lermolieff [Morelli]1886, p. 377; Fry 1900, pp. 32-33; Crowe e Ca-valcaselle 1871, ed. 1912, vol. I, p. 188, vol. II,p. 132; Longhi 1914, p. 244; Venturi 1915, pp.318-319; Symons 1920, p. 173; Fogolari 1921,p. 15, fig. 28; Ricci 1924, pp. 225-243; Paoletti1929, p. 147; Gronau 1930, pp. 43, 202; Dussler1935, p. 138; Berenson 1936, p. 63; Gamba1937, pp. 69-70; Moschini 1943, p. 22; Marce-

    naro 1948, pp. 242-249; Brizio 1949, p. 38; Du-ssler 1949, p. 89; Giovanni Bellini 1949, pp. 124-125; Longhi 1949, p. 281; Marini 1951, p. 29;Samek-Ludovici 1957, p. 34; Pallucchini 1959,pp. 137-138; Robertson 1960, pp. 55-56, 58-59;Campana 1962, pp. 405-427; Heinemann 1962,vol. I, pp. 49-50; Bottari 1963, vol. I, pp. 14, 40;Parronchi 1965, pp. 148-150; Quintavalle 1965,p. 7; Zuffa 1967, p. 118; Robertson 1968, pp.62-64; L’opera completa 1969, pp. 92, 94, 96; Pa-sini, in Sigismondo 1970, pp. 100-101; Huse1972, pp. 17, 18; Robertson 1976, p. 33; Bena-ti, in La pittura a Rimini 1979, pp. 40-41; Pasini1983, p. 92; Belting 1985, pp. 10-11; Goffen1989, pp. 83-85, 287, 289; Huse e Wolters 1989,pp. 215-216; Lucco 1990, p. 432; Olivari 1990,p. 8; Benedicenti 1992, pp. 3-9; Tempestini1992, p. 97; Kasten 1994, p. 491; De Marchi1996a, pp. 57-79; Delucca 1997, pp. 535, 587,691; Gentili 1998, p. 28; Tempestini 2000, pp.72-74, 177, 188; Schmidt Arcangeli, in Il pote-re e le arti 2001, pp. 374-376; Finocchi Ghersi2003, pp. 34, 86, 140; Armiraglio 2004, pp.104-105; Humfrey 2004, p. 7; Lucco 2004, p.91; Tempestini, in Marco Palmezzano 2005, p.216; Villa, in Antonello 2006, pp. 302-305; Bät-schmann 2008, p. 57; Villa, in Giovanni Bellini2008, pp. 178-180; Agosti 2009, pp. 60-61 no-ta 32; Passion in Venice 2011, pp. 23-24.

    Il Re della gloria MARCO BONA CASTELLOTTI

    GIOVANNI BELLINI, «Cristo morto con quattro angeli», 1475 circa, particolare. Rimini, Museo della Città.

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    mente ristrutturata verso la metà del Cin-quecento. Fatto sta che il quadro, nel1547, si trovava nella sacrestia di SanFrancesco.Migliorati nutriva interesse «alle cose del-l’archeologia» condividendole con ilpoeta riminese Roberto Orsi17 e nell’in-ventario dei beni lasciati in eredità dalgiureconsulto compaiono alcune mone-te antiche18. Esiste poi un documento -forse ignoto allo stesso Campana - del 16settembre 1488, che riguarda Elisabettadegli Atti, figlia di Antonio fratello diIsotta. Nel 1488 Elisabetta dispone lapropria sepoltura nella chiesa di San-t’Antonio Abate prossima al conventodi San Francesco «in capella Crucifixiin sepulcro sui patris»19. Elisabetta avevasposato Adimari di Nicolò Panzuto degli Adimari consigliere di Sigismondo Pandolfo nonché parente di Rainerio Migliora-ti20. Certo il documento non offre la soluzione del problema della committenza del «Cristo morto con quattro angeli», tuttaviaci fa sapere che nella chiesa di Sant’Antonio la cappella degli Atti - a quanto sembra scomparsa dalle piante di padre Righini- era intitolata al Crocifisso. «Verso lo scorcio del Quattrocento» (C. Ricci) la chiesa perse il titolo di Sant’Antonio e assunsequello della Croce, poiché vi si era insediata una compagnia così denominata, «che aveva residenza nell’antica chiesa di SantaCroce detta anche dei SS. Cosma e Damiano», e non scarterei l’ipotesi che lo stesso Migliorati fosse affiliato, da laico, alla com-pagnia, di cui mi pare si posseggano ben poche notizie21. In tale contesto poteva inserirsi con perfetta corrispondenza concettua-le una tavola «in qua est depicta imago» di Cristo «sublati de cruce in formam pietatis». Da chi il Migliorati l’avesse avuta nonsi sa. Non escluderei che il committente fosse stato lui in persona, o che per legami diplomatici o di parentela l’avesse acquista-ta da qualcuno del giro dei discendenti più o meno diretti di Sigismondo Pandolfo.Sul piano iconografico il tema della rappresentazione dell’«Uomo dei dolori» si complica nell’intrecciarsi in modo spesso inso-lubile di testi figurativi d’Oriente e d’Occidente. Limitando il campo d’indagine all’arte italiana si direbbe che l’Imago pietatissi fondi su basi più teologiche che liturgiche, e che, nel XV secolo, di entrambe spesso si siano perduti i riferimenti con la lette-ratura. In un bel saggio del 1927 Erwin Panofsky22 tracciava un percorso della rappresentazione dell’«Uomo dei dolori» «gre-goriano» (termine non accettato da Belting), così chiamato perché derivato da quello che per tradizione apparve a san Grego-rio Magno durante la celebrazione della messa, un’icona di devozione in micro mosaico conservata nella basilica romana diSanta Croce in Gerusalemme, che il Mâle considerava il prototipo di tutte le rappresentazioni di ugual soggetto successive23.Cristo è ritratto a mezza figura, con le mani trafitte dai chiodi e conserte e il capo volto verso sinistra. È stato ampiamente dimo-strato che questa icona non è databile prima del Trecento e che probabilmente proviene dalla Puglia o dal Monte Sinai24. Do-po il restauro apparve in condizioni di leggibilità assai migliori di come si fosse presentata agli occhi di Mâle e di Panofsky; perrendersene conto basta osservare l’immagine ante restauro che ne evidenzia le diffuse lacune, pubblicata nel saggio di Bertelli. Già il Millet (1916) aveva segnalato che nell’Oriente cristiano esistevano raffigurazioni dell’«Uomo dei dolori» anteriori al ti-po «gregoriano» di Santa Croce di Gerusalemme25, inoltre rendeva nota un’incisione piuttosto rozza di un contemporaneo diDürer, Israhel van Meckenem, derivata dall’icona di san Gregorio Magno che sarebbe per Panofsky all’origine del Cristo in

    dal senso di fervida e controllata armonia che da un Cristo sospeso tra la morte e il sonno, tra la morte e la risurrezione, si diffon-de negli angeli increduli: l’uno a sinistra, che lo contempla con più di una punta di tristezza, l’altro che nello sforzo di voler sol-levare il corpo del Salvatore finisce quasi per scomparire dietro di lui; un altro che tiene stretto un chiodo della croce4 come unareliquia e negli occhi ha lacrime così trattenute e scintillanti da farci intendere che l’idea di Bellini di imperlarli non nasceva dalvoler registrare un moto puramente sentimentale; infine quello a destra, che si è concentrato sulla piaga impressa nella mano co-me uno che stenti a capacitarsi che il figlio di Dio possa essere finito così male. Ognuno indossa tuniche succinte e una è chiu-sa da un fermaglio, specie di cammeo che conferma gli interessi di Bellini - e forse del committente5 - per l’antico. Ciò comun-que non giustifica le diverse denominazioni di questi angeli bambini, che preferisco seguitare a ritenere tali piuttosto che «spiri-telli» di derivazione pagana6 (con la circospezione dello storico dell’arte che, trovandosi di fronte a complessi casi iconografici,deve cedere il passo all’iconografo, evitando rischiose invasioni di campo, ma che vi si avventura ugualmente attratto da elemen-ti che velano verità così profonde da legittimare, almeno un po’, un’incorreggibile spericolatezza).

    Dal punto di vista figurativo possiamo pervenire al seguente consuntivo basato sui ragionamenti della critica. Il modello al qua-le in parte si ispira è il rilievo donatelliano oggi al Victoria and Albert Museum di Londra, controverso, ma secondo John Po-pe-Hennessy - la cui autorevolezza ha conosciuto ben poche flessioni - di Donatello e aiuti7. La ripresa belliniana verte sostan-zialmente sulla classica monumentalità del corpo di Cristo e sul gesto compiuto dall’angelo che lo sostiene, non sulle tipologiedegli altri che nel rilievo di Londra indossano soffici camici e sono meno commossi. I quattro di Bellini presentano caratteri dipiù stretta parentela con i piccoli cantori della «Pala di santa Caterina» già nella chiesa di San Zanipolo a Venezia, distrutta daun incendio nel 1867, la cui memoria è sopravvissuta nell’incisione di Francesco Zanetti del Museo Correr, come per primoaveva osservato Moschini8, seguito da Pallucchini9 e da Robertson10. Per quest’ultimo i cantori di San Zanipolo discendereb-bero dagli «Angeli» di Pietro Lombardo, sottostanti i tondi con gli «Evangelisti» nei pennacchi della cupola di San Giobbe,realizzati probabilmente intorno al 1470. Se fossero di questo momento costituirebbero certamente un precedente per Bellini,ma la datazione dell’intero complesso plastico di San Giobbe è oggetto di discussione. Si passerebbe quindi dai rilievi di SanGiobbe alla «Pala di santa Caterina» al «Cristo morto» di Rimini, non immune da una folgorazione antonelliana (primo adaccennarvi Moschini, secondo Pallucchini poi altri), che spicca specialmente nell’angiolino a sinistra, ma non solo in lui. Ta-li elementi hanno portato la critica negli ultimi anni a stabilire una datazione del dipinto riminese intorno al 147511, che Palluc-chini aveva preferito avanzare verso lo scorcio dell’ottavo decennio, a mio avviso a ragione per la complessità della composizio-ne e dello sviluppo nei tipi angelici. La datazione si connette ovviamente con la questione del presunto committente, che si eraaggrovigliata a cominciare dal Vasari, mentre gli studi - e in particolare il saggio fondamentale di Augusto Campana del 196212

    - incitano a infoltire la rosa dei candidati che comunque si basa su indizi storico-culturali piuttosto scarsi. Depennato il nomedi Sigismondo Pandolfo Malatesta, morto nel 1468, buttato là da Vasari forse perché il signore di Rimini era il più autorevolead assumersi gli onori di simile commissione, venne poi avanzato quello di Roberto Malatesta13, figlio naturale di SigismondoPandolfo, indi quello di Carlo, capitano generale dei veneziani, iscritto alla Scuola di San Marco a Venezia nel 148214. Mal’unica notizia certa riguardo il «Cristo morto» è che nel 1499 il giureconsulto Rainerio Migliorati, consigliere di Pandolfo IV,lasciava il dipinto con testamento alla chiesa di Sant’Antonio Abate che sorgeva nei pressi di San Francesco ed era a sua voltaofficiata dai francescani15.

    Le poche informazioni circa questo edificio, di cui non resta pietra su pietra, vennero raccolte dal padre Francesco Antonio Ri-ghini poco dopo la metà del Settecento e riportate fedelmente, insieme a varie planimetrie, nella monografia di Corrado Ricci sulTempio Malatestiano16. Secondo le deduzioni di Campana, la cappella «instruenda» per volontà del Migliorati in realtà non fumai costruita, e nella pianta della chiesa di Sant’Antonio con l’elenco a margine delle cappelle e dei sepolcri esistenti prima del-la demolizione, resa nota da padre Righini, non compare, almeno sotto il nome del Migliorati. Si sa che la chiesa venne pesante-

    GIOVANNI BELLINI, «Cristo morto con quattro angeli», 1475 circa, particolare. Rimini, Museo della Città.

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    Sono grato a tutti quelli che hanno contribuito, in un tempo così ristretto, alle mie ricerchesul tema del «Cristo morto con angeli», alle traduzioni dal greco di alcuni testi, in partico-lare a Paolo Prosperi per i suggerimenti sull’interpretazione degli angeli del quadro di Bel-lini di Rimini. Nella speranza di non avere dimenticato qualcuno: A. Marcheva (La rap-presentazione della Pietà nell’arte veneziana tra Trecento e Cinquecento, tesi di laurea magistrale,a.a. 2010-2011, Università Cattolica, sede di Brescia, relatore M. Bona Castellotti); M. M.D’Alessio (La Pietà di Rimini di Giovanni Bellini, tesi di laurea triennale, a.a. 2005-2006,Università degli Studi di Bologna Alma Mater, relatore A. Ottani Cavina); Stefano Can-diani, Caterina Vaglio Tessitore, Irene Paruta, Isabella Stoja, Anna Maria Marconi,Claudia Piantanida, Elena Drufuca, Gabriella Andreatta, Marta Panciera, Giuseppe Bel-luzzi per le traduzioni e le ricerche.

    1 R. LONGHI, Piero dei Franceschi e lo sviluppo della pittura veneziana, in «L’Arte», XVII(1914), pp. 198-221, 241-256 (ripubblicato in R. LONGHI, Scritti giovanili, 1912-1922, vol.I, Firenze 1961, p. 106 nota 2).2 V. MOSCHINI, Giambellino, Bergamo 1943, p. 22; cfr. anche Giovanni Bellini, catalogodella mostra (Venezia, Palazzo Ducale, 12 giugno - 5 ottobre 1949), a cura di R. Palluc-chini, Venezia 1949, pp. 124-125.3 R. FRY, Giovanni Bellini, Londra 1900, pp. 32-33, ed. italiana a cura di C. Elam, Mila-no 2007, p. 49. 4 Secondo Massimo Pulini non si tratta di un chiodo bensì di una lacuna nel pigmento.Le foto del restauro compiuto da Nonfarmale e pubblicate nel catalogo della mostra cura-ta da Daniele Benati (in La pittura a Rimini tra Gotico e Manierismo. Recupero e restauro del pa-trimonio artistico riminese. Dipinti su tavola, catalogo della mostra [Rimini, Sala delle Colon-ne, agosto-ottobre 1979], Rimini 1979) sono troppo poco eloquenti per stabilire quale fos-se realmente lo stato del dipinto prima dell’intervento, tuttavia dalle riflettografie pubblicateda Pulini si capisce che nel punto del chiodo vi sia stato un’intervento invasivo, ma nonessendo stata resa nota la relazione del restauro, né avendo avuto modo, per urgenza di con-

    segna dei testi del catalogo, di compiere ricerche nell’archivio del restauratore bologneseNonfarmale mi sento di lasciare momentaneamente aperta la questione, tenendo in consi-derazione il giudizio di Pulini, e di tornarvi quando avrò altri elementi. In ogni caso chel’angiolino tenga in mano un chiodo simbolo della Passione o no, non sposta l’interpreta-zione del soggetto. L’angelo «che nel giorno del Giudizio porta gli strumenti della Passio-ne, è conosciuto nella letteratura già dal IV secolo». Qui si fa riferimento a Ephrem il Syro(E. PANOFSKY, «Imago Pietatis», Ein Beitrag zur Typengeschichte des Schmerzensmanns des «Ma-ria Mediatrix», in Festschrift für Max J. Friedländer zum 60. Geburtstage, Lipsia 1927, ed. ita-liana Torino 1998, p. 80 nota 47). 5 Per i riferimenti belliniani al mondo antico G. AGOSTI, Un amore di Giovanni Bellini, inAd Alessandro Conti (1946-1994), a cura di F. Caglioti, M. Fileti Mazza e U. Parrini, Pi-sa 1996, pp. 45-84 (ripubblicato in G. AGOSTI, Un amore di Giovanni Bellini, Milano 2009)e C. SCHMIDT ARCANGELI, in Il potere, le arti, la guerra. Lo splendore dei Malatesta, catalo-go della mostra (Rimini, Castel Sismondo, 3 marzo - 15 giugno 2001), a cura di R. Bar-toli, A. Donati e E. Gamba, Milano 2001, pp. 374-376.6 Passion in Venice. Crivelli to Tintoretto and Veronese. The Man of Sorrows in Venetian Art, ca-talogo della mostra (New York, Museum of Biblical Art, 11 febbraio - 12 giugno 2011)a cura di C. Puglisi e W. Barcham, New York-Londra 2011, pp. 22-23. Ma quali spiri-telli? Riguardo a costoro cfr. C. DEMPSEY, Inventing the Renaissance Putto, Chapel Hill(NC) 2001, p. 8 sgg.7 Secondo lo studioso «questo rilievo dal punto di vista iconografico rappresenta un arche-tipo molto importante e può avere ispirato il dipinto di uguale soggetto di Giovanni Belli-ni a Rimini e un certo numero di altre opere di Bellini e da Bellini», tuttavia la relazionefigurativa con Bellini potrebbe essere concepibile solo se fosse stato scolpito a Padova o perPadova e fosse stato eseguito non prima del 1440 o poco dopo il 1443» (J. POPE-HEN-NESSY, Victoria and Albert Museum. Catalogue of Italian sculpture in the Victoria and Albert Mu-seum, Londra 1964, pp. 73-75).8 MOSCHINI, Giambellino cit., p. 24. 9 Giovanni Bellini cit., 1949, p. 124.

    pietà26. Sulla croce alle spalle di Cristo troviamo un’iscrizio-ne «O Basileus tes doxes», il Re della gloria, che venne ma-lamente ricopiata nell’incisione di Van Meckenem dall’esem-plare di Santa Croce di Gerusalemme, e si legge molto fre-quentemente nell’Oriente cristiano e raramente in alcunecrocifissioni duecentesche umbre27. In Italia questa inscrizio-ne venne soppiantata dalla scritta INRI. Secondo Panofsky -ed è un passaggio molto significativo e direi incontestato - ilBasileus tes doxes bizantino, che sottolineava il contrasto fra lamorte e la vita, nel Trecento si trasforma in un «uomo mor-to»28, mentre gli angeli, quando iniziano a comparire, «fun-gono da intermediari fra l’io e il soggetto», in una «moltepli-cità di atteggiamenti che destano compassione»29, così che nelQuattrocento le loro espressioni si intridono di un «pathos do-loroso», che - come si è detto - nel «Cristo morto con quattroangeli» di Bellini è attenuato, mentre il loro rapporto con ilSalvatore «si concentra nell’azione esplicita di appoggio e so-stegno» a Lui. Poi prende forma la rappresentazione donatel-liana del «Cristo passo», che ormai non rientra nell’azione li-turgica, pur richiamando - così almeno nel caso paradigma-tico del rilievo di bronzo incastonato nel complesso dell’ altaredella Basilica del Santo a Padova - l’Eucarestia. In chiave eu-caristica Belting interpreta anche il «Cristo morto» di Rimi-ni30, ipotesi legittimata dall’angelo che tenta di sollevare il cor-po del Salvatore, compiendo un gesto che, almeno dal pun-to di vista simbolico-evocativo, è paragonabile a quellodell’elevazione dell’ostia. L’interessante opinione assumereb-be un supplemento di verosimiglianza se si potesse dimostra-

    re che la tavola riminese, assolutamente autonoma (per una diversa ipotesi si veda M. Pulini in questo catalogo), venne com-missionata per essere collocata su un altare, cosa che credo. Altra suggestiva e più recente idea è che i quattro angeli sarebberointenti a preparare il corpo di Cristo per la risurrezione31, ma simile proposta non è giustificata da riferimenti testuali, e al mas-simo spiega lo sforzo del solito angioletto indaffarato, senza però motivare l’interrogativa contemplazione degli altri tre. Tutto considerato, ritengo più convincente la lettura che mi accingo a esporre32. La presenza nella tavola di Giovanni Bellini deiquattro angeli così compunti nella loro triste curiosità riesce a mantenere viva la memoria, ormai lontana e sbiadita, di un «Uo-mo dei dolori» nonché Re della gloria, Basileus tes doxes, che qui assume uno spessore religioso proporzionale alla loro infantile etrepidante umanità. Lo stesso impegno d’intensità profuso con evidenza da Bellini in questo quadro mi spinge a reputarlo auto-nomo e destinato certamente all’altare della cappella che il giureconsulto Migliorati era intenzionato a costruire in Sant’AntonioAbate, poi intitolata alla Croce; che il Migliorati fosse il «primo proprietario» di questo dipinto per ora non si può affermare33.Senza indulgere a riflessioni dolciastre torniamo a osservare le espressioni degli angeli che Bellini teneva ad approfondire nellaloro diversità. Stanno guardando Cristo morto come un Dio-uomo umiliato, nei modi che sono propri di un’opera italiana delsecondo Quattrocento e concepita in pieno umanesimo cristiano, non certo nei termini applicabili a un archetipo bizantino co-me lo si sarebbe potuto trovare raffigurato in relazione agli inni liturgici del venerdì e del sabato santo34, nei quali comparivano

    grandi angeli alati agli estremi del corpo giacente di Gesù. È plausibile che nel «Cristo morto con quattro angeli» il pittore ab-bia voluto - per quali vie e in forza di quali suggerimenti non si sa - «tornare al tema dello stupore angelico di fronte alla soffe-renza del Logos divino. È in fondo il tema della frixis angelica, lo sbigottimento di fronte all’evento inaspettato e incomprensi-bile dell’abbassamento del Re della Gloria» (Prosperi) e della sua umiliazione. Certo qui lo stupore degli angeli è come filtra-to attraverso una disciplina che governa ogni eccesso doloroso o patetico, disciplina che si fonde nella contemplazione e chedistingue questa «Pietà» di Rimini dalle altre. Nella teologia orientale «l’oggetto dello stupore non è tanto la risurrezione, quan-to la croce e l’amara umiliazione del Verbo: “Come? Tu che sei la vita, giaci senza vita? come? Tu che non sei circoscrivibile seirinchiuso in una tomba? come? Tu che reggi l’universo sprofondi nell’ade?”». Forse «il significato di questi angeli» - da quelloche guarda la piaga della mano di Cristo, a quello con gli occhi imperlati che tiene il chiodo, a quello che contempla il Salva-tore in un trepidante silenzio consiste nel fatto «che essi esprimano la traduzione occidentale del tema dello stupore angelico chediviene qui una quasi infantile curiosità, fra il timoroso e l’attratto, la curiosità aristotelica di colui che chiede il senso di ciò chevede per la prima volta, dell’aprosdoketon, l’imprevisto senza precedenti e analogie» (Prosperi).Tutto ciò non significa che Bellini - o un suo ignoto teologo ispiratore - intendesse riprendere il concetto del Basileus tes doxes, ilRe della gloria, così come lo troviamo espresso nelle scritture e più insistentemente che altrove nel Salmo 23, che di per sé non puòconsiderarsi una fonte di ispirazione figurativa35, pur tuttavia è legittimo ipotizzare che il tema degli angeli che osservano stupitile piaghe fosse ancora vivo, nel Quattrocento, anche in Occidente, data fra l’altro la sua diffusione nella letteratura dei Padri. Da ultimo: ebbe anche in Occidente un’enorme fortuna l’Omelia sull’Ascensione di Gregorio di Nissa che ruota intorno al ful-cro del Basileus tes doxes, risorto e asceso al cielo con le piaghe della Passione che non si rimarginano neppure dopo la sua risur-rezione. L’omelia rilegge il Salmo 23, «“Chi è questo re della gloria”, come un dialogo tra Gesù e gli angeli, che non voglionolasciar passare il Signore asceso perché non lo riconoscono, essendo ricoperto di inconcepibili piaghe, ma che poi - stupiti - siarrendono e gli aprono le porte» (Prosperi)36. Lo stupore angelico non svolge un semplice ruolo di contorno, al contrario è con-sustanziale al trionfo del Re della gloria, così come la triste contemplazione lo era alla sua morte terrena.

    GIOVANNI BELLINI, «Cristo morto con quattro angeli», 1475 circa, particolare. Rimini, Museo della Città.

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    Quasi all’incrocio tra due diversi ellenismi - quello classico che ne caratterizza lo stile e quello bizantino che ne detta le istan-ze teologiche - la «Pietà» riminese di Giovanni Bellini ha trovato in Augusto Campana l’interprete più acuto dei suoifondamenti storici. Nelle brevi, fondamentali Notizie ordinate con la consueta acribia dallo studioso romagnolo e pubblicate inuna miscellanea in onore di Mario Salmi nel 1962, si trova ancora lo spartiacque da cui prendere le mosse per ogni ulteriore af-fondo critico1, facilitato oggi dall’edizione di una ricca messe di documenti meticolosamente raccolti da Oreste Delucca.È Campana a indagare con acume paleografico la firma in caratteri gotici «Ioannes bellinus pingebat.» incisa all’estrema destradel piano (la pietra del sepolcro) dove poggiano le figure di Cristo e dei quattro angeli che ne piangono la morte. Il graffito, qua-si nascosto, è inconsueto tra le autografie di Bellini e quindi di poco probabile autenticità2: lo studioso avanza l’ipotesi che po-tesse trattarsi di un’aggiunta del committente o del possessore, comunque un proprietario ben consapevole del valore artisticodell’opera posseduta e desideroso di lasciare chiara memoria del suo autore3.Anche in questo caso la ricerca di Campana risulta dirimente: Giorgio Vasari che risedette a Rimini tra il 1547 e il 1548, men-tre Le vite già concluse venivano trascritte in bella copia dal monaco benedettino olivetano Gian Matteo Faetani, testimonia diaver visto il dipinto nella chiesa di San Francesco a Rimini, il Tempio Malatestiano, attribuendone la committenza a Sigismon-do Pandolfo4; una suggestione forse raccolta da una tradizione orale e ancor oggi non del tutto abbandonata dalla critica5, mal-grado la maggior parte degli storici ritenga - e Campana con loro - che l’opera vada datata per ragioni stilistiche almeno dopoil 1475, quando Sigismondo è deceduto da sette anni.Tuttavia, la tavola non pare fosse destinata al Tempio, dove la vide Vasari, ma a una cappella da costruirsi nella vicina e dipen-dente chiesa di Sant’Antonio, ora non più esistente, dove desiderava essere seppellito Rainerio di Lodovico Migliorati legum doc-tor e notabile della corte malatestiana, con la quale fu imparentato6. Già consigliere di Sigismondo e di Roberto Malatesta pri-ma ancora che del figlio di quest’ultimo, Pandolfo IV, ultimo e famigerato signore di Rimini, il Migliorati fu una figura di spic-co nella politica e nella cultura del tempo7. È difatti Rainerio nel suo testamento del 17 febbraio 1499 a prescrivere che in taleluogo sia collocata «unam ipsius testatoris tabulam depictam manu Iohannis Bellini, in qua est depicta imago domini nostri Ie-su Christi salvatori mortui et sublati de cruce in formam pietatis»8. Stesso anno, stesso mese l’inventario dei suoi beni redatto invernacolo ricorda: «una ancona o vero taula dove è dipinta la imagine del nostro signore Iesu Christo in forma de pietà descesede la croce»9.Difficile dire se Rainerio potesse essere il committente o se avesse acquistato oppure ricevuto la tavola per vie indirette. D’altrocanto Migliorati, vicario delle gabelle, sovrintendente dei lavori del palazzo di Elisabetta Aldobrandini madre dell’ultimo si-gnore di Rimini10, residente nel quartiere di Santa Maria in Trivio, ma possessore di un importante podere nell’attuale zona si-tuata tra San Lorenzo in Corregiano e San Martino Monte l’Abate ch’egli destinava alla propria villeggiatura11, fu conosciutoanche per la sua cultura antiquaria, di «spirito umanistico» come giustamente annota Campana12. È l’erudito settecentesco An-gelo Battaglini a ricordarci che Rainerio intrattiene rapporti con l’intellettuale riminese Roberto Orsi che gli dedicò un epigram-ma latino, accompagnando lo scambievole dono di manufatti antichi13. Rainerio, bibliofilo, fu in vero possessore di un’impor-tante raccolta di codici tra cui un’opera di Roberto Valturio con disegni14; nella sua vita seppe collezionare, pur in modo non

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    10 Secondo ROBERTSON (Giovanni Bellini, Oxford 1968, pp. 57-65) la pala perduta di SanZanipolo seguirebbe agli «Angeli» di Pietro Lombardo di San Giobbe e anticiperebbe il«Cristo morto» di Rimini. Su vari pareri della critica riguardo la cronologia delle opere diSan Giobbe cfr. L. FINOCCHI GHERSI, Il Rinascimento veneziano di Giovanni Bellini, Ve-nezia 2003, p. 76 nota 16.11 Non è qui il caso di ripercorrere l’iter del giudizio della critica riguardo la cronologia diquesto dipinto riminese. Si ricorda che D. BENATI (in La pittura cit., pp. 40-41) giudica-va con cautela il quadro precedente la pala di Pesaro ed eseguito negli anni che seguonoimmediatamente il 1468. Del 1475 circa lo ritengono A. TEMPESTINI (in Marco Palmez-zano e il Rinascimento nelle Romagne, catalogo della mostra [Forlì, Museo San Domenico, 4dicembre 2005-30 aprile 2006], a cura di A. Paolucci, L. Prati e S. Tumidei, CiniselloBalsamo 2005, p. 216); G. C. F. VILLA (in Giovanni Bellini, catalogo della mostra [Ro-ma, Scuderie del Quirinale, 30 settembre 2008-11 gennaio 2009], a cura di M. Lucco eG. C. F. Villa, Cinisello Balsamo 2008, pp. 178-180) e altri.12 A. CAMPANA, Notizie sulla «Pietà» riminese di Giovanni Bellini, in Scritti di storia dell’artein onore di Mario Salmi, a cura di V. Martinelli, vol. II, Roma 1962, p. 405 sgg.13 C. GAMBA, Giovanni Bellini, Milano 1937, p. 69; TEMPESTINI, in Marco Palmezzanocit., p. 216.14 P. PAOLETTI, La Scuola Grande di San Marco, in «Rivista di Venezia», 8, 1929, p. 147,nota 1.15 C. CLEMENTINI, Trattato de’ luoghi pii e de’ magistrati di Rimino, vol. I, Rimini 1617, p.475 (cfr. A. TURCHINI, Il Tempio Malatestiano. Sigismondo Pandolfo Malatesta e Leon Batti-sta Alberti, Cesena 2000, p. 124 nota 184).16 C. RICCI, Il Tempio Malatestiano, Milano 1924, pp. 179-188.17 C. TONINI, La coltura letteraria e scientifica in Rimini. Dal secolo XIV ai primi del XIX, vol. I,Rimini 1884, p. 147. Un riferimento al poeta Roberto Orsi è anche in AGOSTI, Un amo-re cit., 2009, pp. 19, 61; così Alessandro Giovanardi in questo catalogo.18 CAMPANA, Notizie sulla «Pietà» cit., p. 425.19 TURCHINI, Il Tempio Malatestiano cit., p. 165 nota 6; per un’ icona «sanctissimi Cruci-fixi con imaginibus beate M.V. et S. Ioannis evangeliste», «vicino all’epigrafe detta deiquattro centenari presso la chiesa di Sant’Antonio detta di Santa Croce» si veda il riferi-mento in ibid., p. 156 nota 306. Probabilmente non attinente alla cappella degli Atti.20 Ibid., p. 218 nota 225.21 RICCI, Il Tempio cit., p. 186 sgg.22 PANOFSKY, «Imago Pietatis» cit., ed. italiana 1998, pp. 262-308. La letteratura sul temadella «Pietà» e dell’«Uomo dei dolori» è vastissima, ricordo soltanto alcune delle opere fon-damentali: E. VETTER, Iconografia del «Varón de dolores». Su significado y origen, in «Archivioespanõl de arte», XXXVI, 1963, pp. 197-231; C. BERTELLI, «The Image of Pity» in San-ta Croce in Gerusalemme, in Essays in the History of Art Presented to Rudolf Wittkower, a curadi D. Fraser, H. Hibbard e M. J. Lewine, Londra 1967, pp. 40-55 (con bibliografia re-lativa alla Messa di san Gregorio, cfr. p. 40 note 1, 3, in parte desunta da VETTER, Icono-grafia cit.; G. SCHILLER, The Man of Sorrows - «Imago Pietatis», in Id., Iconography of Chri-stian Art , New York 1968, vol. II, pp. 197-228; H. W. VAN OS, The Discovery of an Ear-ly Man of Sorrows on a Dominican Triptych, in «Journal of the Warburg and CourtaldInstitutes», XLI, 1978; H. BELTING, An Image and its Function in the Liturgy: The Man ofSorrows in Bithantyum, in «Dumbarton Oaks Papers», XXXIV-XXXV, 1980-1981, pp.1-16; S. RINGBOM, Icon to Narrative, The Rise of the Dramatic Close-Up in Fifteenth-Centu-ry Devotional Painting, Doornspijk 1984, p. 66 sgg.; H. BELTING, Giovanni Bellini: Pietà.Ikone und Bilderzälung in der venezianischen Malerei, Francoforte sul Meno 1985, ed. italianaModena 1996; M. RUBIN, Corpus Christi, the Eucharist in Late Medieval Culture, Cambrid-ge 1991, pp. 308-309; A. DE MARCHI, Un raggio di luce su Filippo Lippi a Padova, in «Nuo-vi Studi», I, 1996, pp. 5-23; C. PUGLISI e W. BARCHAM, Gli esordi del Cristo passo nel-l’arte veneziana e la Pala feriale di Paolo Veneziano, in Cose nuove e cose antiche. Scritti per Mon-signor Antonio Niero e don Bruno Bertoli, a cura di F. C. Romanelli, M. Leopardi e S. R.Minelli, Venezia 2006, pp. 403-430. 23 E. MÂLE, L’art religeux de la fin du moyen âge en France, Parigi 1922, p. 98 sgg.24 Cfr. a proposito del luogo di esecuzione S. ROMANO, in Splendori di Bisanzio. Testimo-

    nianze e riflessi d’arte e cultura bizantina nelle chiese d’Italia, catalogo della mostra (Ravenna,Convento di San Vitale, 27 luglio - 4 novembre 1990), Milano 1990, p. 110 (con biblio-grafia precedente in parte desunta da BERTELLI, «The Image of Pity» cit., pp. 197-231). 25 G. MILLET, Recherches sur l’iconographie de l’Evangile aux 14., 15. et 16. siecles: d’apres les mo-numents de Mistra, de la Macedoine et du Mont-Athos, Parigi 1916, pp. 483-488.26 PUGLISI e BARCHAM, Gli esordi cit., p. 1327 J. CANNON, The Stoclet «Man of Sorrows»: a thirteenth-century Italian diptych reunited, in«The Burlington Magazine», CXLI, 1999, pp. 107-112 (per l’iscrizione «O Basileus tesdoxes» cfr. p. 107 nota 6 e p. 112 nota 38). 28 PANOFSKY, «Imago Pietatis» cit., 1927, p. 6629 Ibid., p. 67.30 BELTING, Giovanni Bellini cit., ed. italiana 1996, pp. 23, 56-57; A. TEMPESTINI, L’ico-nografia del Cristo morto nelle regioni adriatiche occidentali, in Giovanni Santi, atti del convegnointernazionale di studi (Urbino, Convento di Santa Chiara, 1º-19 marzo 1995), a cura diR. Varese, Milano 1995, pp. 171-176; H. BELTING, Das Bild und sein Publikum im Mitte-lalter: Form und Funktion früher Bildtafeln der Passion, Berlino 1981, ed. italiana Bologna 1986,pp. 87-88.31 PUGLISI e BARCHAM, Gli esordi cit., p. 23. Secondo gli stessi Puglisi e Barcham il «Cri-sto morto con quattro angeli», autonomo rispetto a tutte le altre versioni dello stesso tema,è un «Uomo dei dolori».32 Mi riferisco a una comunicazione scritta di don Paolo Prosperi del 16 aprile 2012 a com-mento del quadro di Giovanni Bellini, che gli avevo sottoposto per un parere d’ordine teo-logico. 33 BELTING, Giovanni Bellini cit., ed. italiana 1996, p. 14, si tratta evidentemente di una svista.34 MILLET, Recherches cit., p. 487 nota 2 e anche BELTING, Das Bild cit., ed. italiana 1986,pp. 118 nota 40, 119 nota 42, 146.35 Ibid., p. 118.36 Per l’Omelia «In Ascensionem Christi» cfr. MIGNE, PG, 46, Parigi 1863, pp. 690-694.Trascrivo qualche passo di questo testo meraviglioso: «È ormai compiuto il mistero dellamorte ed è stata riportata una vittoria sui nemici e contro di loro è stato agitato il trofeo del-la croce. Salì in alto portandosi via la cattiva prigionia [della morte] colui che diede agliuomini la vita... Le porte chiuse furono di nuovo aperte per Lui. Tuttavia accorsero i no-stri custodi [gli angeli] e ordinarono che fossero rinchiuse perché Egli non ottenesse la glo-ria. Infatti non riconobbero colui che si era vestito della veste imbrattata della nostra vita.Le sue vesti erano rosse a causa della tribolazione dei mali umani. Così, nuovamente, icompagni furono interrogati da quelle voci: “Chi è questo Re della gloria?” Si rispose in mo-do non diverso: “È forte e potente in battaglia”. Il Signore delle virtù, che ottenne il principa-to del mondo e al culmine raccolse in sé ogni cosa e in ogni cosa detiene il primato e resti-tuì ogni cosa alla stato primigenio, questi è il Re della gloria». Trovo citata l’omelia di Gre-gorio di Nissa in R. F. TAFT, The Great Entrance. A History of the Transfer of gifts and a otherpre-anaphoral Rites of the Liturgy of St. John Crysostom, Roma 1985, p. 108; citato anche inBELTING, Das Bild cit., ed. italiana 1986, p. 118 nota 40. Ma il tema dello stupore angeli-co legato alla morte, e in questo caso alla sepoltura di Cristo, si ritrova anche nella stupen-da «Omelia del sabato santo» di autore ignoto (forse del IV secolo o prima) in MIGNE, PG,43, Parigi 1864, pp. 439-464: «Precedettero i cherubini sollevando su se stessi Dio e tra-sportandolo. Fatti ministri di Dio precedettero gli angeli dotati di sei ali e non con le ali,ma con le sindoni avvolsero Dio e lo onorarono. I cherubini lo temono; Giuseppe e Nico-demo lo portano sulle spalle e tutti gli ordini degli spiriti incorporei si stupiscono. Giun-gono Giuseppe e Nicodemo e accorreva tutto il popolo degli angeli di Dio. I cherubini liprecedono e accorrono insieme ai serafini, mentre i troni portano [il corpo di Cristo] insie-me a [Giuseppe e Nicodemo] e quelli dotati di sei ali Lo coprono e inorridiscono gli an-geli dotati di molti occhi vedendo che Gesù incarnato è privato della vista. Le potestà loricoprono e i principati cantano e le schiere inorridiscono. Tutti gli eserciti delle torme ce-lesti si stupiscono e attoniti esitano e si domandano: Cos’è questa terribile parola e questapaura? Cos’è questo tremore? Cos’è questo spettacolo grande, che supera ogni pensiero, in-comprensibile? Egli che in cielo per noi esseri incorporei è invisibile come un Dio nudo,in terra per gli uomini, nudo è veramente visibile».

    La Docta religio di un dipinto. Erudizione e devozione nella «Pietà» riminese di Giovanni BelliniALESSANDRO GIOVANARDI

    Se sei sceso nella tomba, o Immortale, hai distrutto il potere dell’Inferno(Tropario della liturgia pasquale ortodossa)

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    tando sia il dettato evangelico, sia la liturgia eucaristica che mesce acqua al vino. Il Cristo morto sorretto dagli angeli è parados-salmente il pane vivo «disceso dal cielo» (Gv. 6, 51); le creature celesti, ministranti una liturgia invisibile resa accessibile dal pit-tore, sono qui quattro secondo un simbolismo cosmico che sottintende la pienezza e l’universalità dell’evento: le stesse ali, resecon un verismo non letterale, porterebbero a interpretarli secondo una simbologia sofisticata ancora da indagare. Lo sguardostupito dei fanciulli celesti (su cui si sofferma l’indagine di Marco Bona Castellotti) contempla un mistero che le Scritture nonnarrano: quello del Redentore «sublatus de cruce», dove il termine latino «sublatus», nel testamento del Migliorati - corretta-mente tradotto col vernacolo «descese de la croce» - evoca di contro anche l’essere «innalzato». L’«Uomo dei dolori» mentre staper essere seppellito mantiene la serena bellezza di un eroe classico32, pacificato come nelle icone antiche, come nelle tavole tre-centesche riminesi e veneziane, quasi che i gesti quieti degli angeli anticipino ciò che sarà nel più tardo dipinto di SebastianoFlorigerio al monte di Pietà di Treviso: i «Preparativi della Resurrezione»33. Sul nero intatto dello sfondo, privo di luci terrestri,Bellini fa sorgere nell’avvenenza della carne di Cristo «l’altra luce, non ancora perduta a Occidente, umilmente trionfale»34.

    sistematico, sculture antiche, medaglie, monete, ceramiche15. Ma Rainerio mantenne stretti contatti con gli artisti del suo tem-po: il 22 aprile del 1482 ospitò a casa propria la firma di un contratto d’affitto per l’ultima, infeconda residenza riminese di Pie-ro della Francesca, per cui aveva probabilmente mantenuto i rapporti coi Malatesta; alla firma fu testimone un altro pittore, Ga-briele di Stefano16. Sempre nella propria magione, tra il 1482 e il 1485, lavora il miniatore Marco di Giovanni17.

    La consuetudine con artisti e opere, il suo stesso ruolo di mediatore culturale accreditatogli dagli storici, rende particolarmenteinteressanti le espressioni utilizzate da Rainerio per descrivere la «Pietà» riminese del Giambellino, lì dove il latino e il volgaresi rispondono perfettamente, ma con varianti significative e non casuali. Un interesse che diverrebbe esponenziale se nel Miglio-rati potessimo scorgere il colto committente e non solo l’erudito collezionista. D’altra parte l’aver destinato a una cappella mi-nuziosamente descritta una pittura di dimensioni non facilmente adattabili a qualsiasi luogo, un dipinto che ha evocato nei com-mentatori l’idea di un grande frammento, raccolto tra «le altre cose spezzate di alcuni quadroni» come intendono Le vite del Va-sari nel 155018 (e come oggi ripropone Massimo Pulini) o che fa pensare a uno studiato antependium, suggeriscono o unacommittenza precisa o un’accurata ricerca da intenditore tra le opere belliniane.Non è, infine, da dimenticare l’elemento devoto che si tende troppo facilmente a trascurare, sottovalutando il nesso fecondo fracultura umanistica e desiderio di Dio: nelle raccolte del Migliorati non sono poche le tavole a fondo oro raffiguranti la Vergine,vere e proprie icone che evocano la dimensione religiosa dell’eredità culturale di Rainiero, in cui s’inserisce e si spiega il posses-so della «Pietà» riminese19. Solo in questa dimensione il testo pittorico dischiude in vero i suoi significati: la «taula» del testa-mento latino diviene, nell’inventario italiano «ancona», termine che discende dalla storpiatura del termine greco «eikóna». Pro-prio le Imago pietatis in Bellini sembrano conservare, come è stato più volte osservato, la duplice natura di dipinto umanistico,modernamente colto, e di arcaica immagine sacra20. All’origine della sua pittura le forme iconografiche bizantine sono, in effet-ti, un percorso assai frequentato fin dagli esordi21. E se le invenzioni del Giambellino saranno spesso oggetto di quella «ripeti-zione differente» che è sottesa alla pittura d’icone22, non sembra superfluo ricordare che alcuni maestri cretesi tradurranno cele-bri pietà belliniane nel lessico solenne della loro arte sacra23.

    Nell’Imago pietatis riminese le formule del pathos che la caratterizzano come derivanti dalla tradizione figurativa e funeraria anti-ca24 - elementi che avranno indubbiamente sedotto il colto Migliorati - si sovrappongono e si fondono senza soluzione di conti-nuità con le tipologie medioevali del soggetto, che la tradizione gotica veneziana e adriatica ha ereditato direttamente da quellabizantina: non c’è quasi necessità di citare le tavole di Pietro da Rimini o di Giovanni Baronzio, o di ricordare come il «Cristopasso» di Paolo Veneziano avesse preso il posto del Pantokrator al centro della «Pala feriale» in San Marco, a sottolinearne l’ico-nografia sacrificale ed eucaristica25; la discussa tavola belliniana del museo Poldi Pezzoli è la più schietta discendente di questaserie26. Tutte le «Pietà» di Bellini sono variazioni musicali di questi temi arcaici: operano, come scrive Belting, «una sintesi tral’antica icona e la poesia dipinta di nuova concezione»27. L’invenzione riminese miscela la tipologia della «Suprema umiliazio-ne», la perfetta kenosis del Verbo, con quella del Threnos, del «Compianto sul Cristo morto» che dagli affreschi di Nerezi a quel-li di Giotto a Padova, mette in scena il pianto celeste degli angeli28; Bellini darà ai suoi il ruolo d’ufficio funebre altrove attribui-to ai discepoli di Cristo. «Pietà» e «Lamento», temi strettamente connessi fin dai prototipi bizantini, mantengono una funzio-ne simbolica legata al sacramento della comunione29 da cui non si discosta la cultura figurativa italiana. Non è forse inutilericordare l’identificazione tradizionale fra il sacello di Cristo e la tavola del sacrificio, lì dove la tradizione liturgica ricorda chela parte centrale di un altare cristiano è detta tumba o sepulcrum, per le reliquie ivi custodite30, mentre la cultura popolare chiamasepolcri gli altari della reposizione del Giovedì Santo. Si guardi alla «Pietà» belliniana di Palazzo Ducale dove i ceri posizio-nati sulla tomba del Redentore sono autentici lumi d’altare. È celebre la leggendaria visione di san Gregorio Magno, in cui ilCristo gli apparve proprio sull’ara sacrificale nell’atto di uscire dal sepolcro con i segni della passione, a fugare ogni dubbio sul-la sua reale presenza nelle specie eucaristiche31: il Salvatore di Rimini fa sgorgare dalla piaga del costato sangue e acqua, rispet-

    1 A. CAMPANA, Notizie sulla «Pietà» riminese di Giovanni Bellini, in Scritti di storia dell’artein onore di Mario Salmi, a cura di V. Martinelli, vol. II, Roma 1962, pp. 405-427, cfr. S.NICOLINI, Augusto Campana per la storia delle arti figurative, in Augusto Campana e la Roma-gna, a cura di A. Cristiani e M. Ricci, Bologna 2002, pp. 289, 314.2 Cfr. A. TEMPESTINI, Bellini e belliniani in Romagna, Firenze 1988, p. 34: «firma non au-tografa ma attendibile». 3 CAMPANA, Notizie sulla «Pietà» cit., p. 410.4 G. VASARI, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori e scultori, Firenze 1550, ed. a cura diL. Bellosi e A. Rossi, Torino 1986, p. 437 e ID., Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e ar-chitetti, Firenze 1568, ed. Roma 2011, p. 460.5 Cfr. P. G. PASINI, Il Tempio Malatestiano. Splendore cortese e classicismo umanistico, Milano2000, p. 174; M. CENTANNI, Antichità classica e rivelazione cristiana. Un dialogo con «testo afronte» tra le cappelle del Tempio Malatestiano, in «Parola e Tempo», VI, (2007), p. 229.6 R. COPIOLI, Gli Agolanti e i Malatesti e la Tomba Bianca di Riccione. Orgogli fiorentini nellesabbie della Romagna, in Gli Agolanti e il castello di Riccione, a cura di Id., Rimini 2003,p. 94.7 O. DELUCCA, Artisti a Rimini tra Gotico e Rinascimento. Rassegna di fonti archivistiche, Ri-mini 1997, p. 118. 8 Ibid., p. 535.9 Ibid., p. 691.10 Ibid., p. 392.11 O. DELUCCA, L’abitazione riminese nel Quattrocento. La casa rurale, Rimini 1991, pp.733-734.12 CAMPANA, Notizie sulla «Pietà» cit., pp. 425-427; G. AGOSTI, Un amore di GiovanniBellini, Milano 2009, pp. 19, 60-61 (n. 32).13 A. BATTAGLINI, Della corte letteraria di Sigismondo Pandolfo Malatesta, in Basinii parmen-sis opera praestantiora, vol. II, Rimini 1794, p. 195. 14 A. CAMPANA, Due note su Roberto Valturio, in Studi riminesi e bibliografici in onore di Car-lo Lucchesi, Faenza 1952, pp. 13-14.15 O. DELUCCA, Ceramisti e vetrai a Rimini in Età Malatestiana. Rassegna di fonti archivistiche,Rimini 1998, pp. 429-430, 444 e ID., Artisti a Rimini cit., pp. 535, 691.16 Ibid., pp. 122, 142.17 Ibid., p. 204.18 VASARI, Le vite cit., ed. 1986, p. 437.19 DELUCCA, Artisti a Rimini cit., pp. 535, 691.20 H. BELTING, Giovanni Bellini: Pietà. Ikone und Bilderzälung in der venezianischen Malerei,Francoforte sul Meno 1985, ed. italiana Modena 1996, pp. 20-28.

    21 Cfr. M. GEORGOPOULOU, Venice and the Byzantine Sphere, in Byzantium. Faith and Pow-er (1261-1557), catalogo della mostra (New York, Metropolitan Museum of Art, 23 mar-zo - 4 luglio 2004), a cura di H. C. Evans, New Haven-Londra 2004, pp. 494, 503-504;A. NOVA, Icona, racconto e «dramatic colse-up» nei dipinti devozionali di Giovanni Bellini, in Gio-vanni Bellini, catalogo della mostra (Roma, Scuderie del Quirinale, 30 settembre 2008-11gennaio 2009), a cura di M. Lucco e G. C. F. Villa, Cinisello Balsamo 2008, pp. 105-115 (vedi anche le schede alle pp. 132-135, 160-163, 164-167). 22 Cfr. A. GIOVANARDI, «Belliniani in Romagna». Benedetto e Bartolomeo Coda nell’arte sa-cra del primo Cinquecento, «L’Arco», VI, 1 (2008), pp. 28-43.23 Cfr. ad esempio P. G. PASINI, Il Museo di Stato della Repubblica di San Marino, Milano2000, pp. 132-135 (scheda su una «Deposizione» belliniana opera di un madonnaro adri-atico). 24 Cfr. BELTING, Giovanni Bellini cit., ed. italiana Modena 1996, pp. 29-32, 49, 55-57. 25 Cfr. C. SCHMIDT ARCANGELI, L’eredità di Costantinopoli. Appunti per una tipologia del-le ancone veneziane nella prima metà del Trecento, in Il Trecento adriatico. Paolo Veneziano e la pit-tura tra Oriente e Occidente, catalogo della mostra (Rimini, Castel Sismondo, 19 agosto -29 dicembre 2002), a cura di P. Flores d’Arcais e G. Gentili, Cinisello Balsamo 2002,pp. 97-103 (e scheda pp. 170-171); cfr. A. GIOVANARDI, Giovanni Baronzio pittore e «teo-logo» della Passione di Cristo, in «Parola e Tempo», VI (2007), pp. 140-144, 159-160.26 BELTING, Giovanni Bellini cit., ed. italiana 1996, p. 21.27 H. BELTING, Il culto delle immagini. Storia dell’icona dall’età imperiale al tardo Medioevo, ed.italiana Roma 2001, p. 575. 28 Cfr. O. DEMUS, L’arte bizantina e l’Occidente, a cura di F. Crivello, Torino 2008, pp.240-254. 29 Cfr. J. LINDSAY OPIE, Manolis Chatzidakis e l’arte post-bizantina, in Per Manolis Chatzi-dakis. «In memoriam», a cura di M. Bonfioli, Roma 2000, p. 36.30 Cfr. T. VERDON, Attraverso il velo. Come leggere un’immagine sacra, Milano 2007, p. 99;M. SCHMITT, Tipologie e funzioni della pittura senese su tavola, in Duccio. Siena fra tradizionebizantina e mondo gotico, catalogo della mostra (Siena, 2002), a cura di A. Bagnoli, R. Bar-talini, L. Bollosi e M. Laclotte, Cinisello Balsamo 2003, pp. p.532.31 Cfr. M. G. BALZARINI, in Iconografia e arte cristiana, a cura di R. Cassanelli e E. Guer-riero, vol. II, Cinisello Balsamo 2004, p. 1062.32 F. SARACINO, Cristo a Venezia. Pittura e cristologia nel Rinascimento, Genova-Milano2007, p. 303.33 Ibid., pp. 323-324, tav. XXIX.34 P. P. PASOLINI, Bozzetto, in Id., Tutte le poesie, a cura di W. Siti, vol. II, Milano 2003,p. 294.

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    Quando Giovanni Bellini dipinse il «Bacco bambino» (ora a Washington,National Gallery of Art), si trovava nell’ultima stagione della propria esi-stenza, ma doveva avere ancora nitidi nella memoria i puttini di Agostino di Duc-cio visti nel Tempio Malatestiano. Lo sguardo incantato del dio infante, la paciosapinguedine e la chioma femminea, la camiciola discinta, il piede sinistro in pienoprofilo, quello destro scorciato in una prospettiva da bassorilievo e infine la mano chepoggia sul masso con un vezzo di pura decorazione, sono tutti elementi che si ritro-vano sparsi nel vasto repertorio fisionomico dispiegato nel Tempio riminese dall’ul-timo cantore di un gotico felice.Ma di certo anche la Romagna si ricordava del Giambellino. Facendo seguito alle riflessioni di Antonio Paolucci a introduzione del libro di An-chise Tempestini Bellini e belliniani in Romagna1, se la storia avesse svoltato diversamen-te o fosse durata più a lungo quella breve stagione in cui la Romagna di costa era en-trata sotto l’egida veneziana (Ravenna già dal 1441 e Rimini dal 1503, dominio chesi concluse per entrambe le città nel 1509), forse leggeremmo anche la «Pietà» belli-niana in altro modo. Sicuramente diverrebbe ai nostri occhi un avamposto cultura-le nella strategia espansiva della Serenissima che, dopo i lontani tempi di Paolo Ve-neziano e Jacobello del Fiore, tornava a diffondere nella regione la propria egemoniaartistica, prima che politica. Ma le idee culturali veicolate anche dal commercio, han-no da sempre gettato ponti tra sponde diverse e saputo collegare terre lontane. TraQuattro e Cinquecento gli artisti siciliani, attraverso la lingua delle immagini, si in-tendevano coi portoghesi o coi fiamminghi molto meglio di quanto non si potesserocomprendere i rispettivi governanti. Giovanni Bellini aveva madre pesarese e nella vicina città marchigiana lasciò, intor-no al 1475, un monumentale complesso di dipinti che equivale a un arco trionfalededicato alla più tersa pittura veneziana. Non sappiamo invece se la tavola riminese «Cristo morto assistito da quattro ange-li» fosse parte di un progetto altrettanto articolato non andato a buon fine. Non stri-derebbe pensarla a cimasa di un polittico2 e nulla osta che l’idea di una commissio-ne anche più vasta potesse essere venuta allo stesso Sigismondo sul finire della pro-pria vita, a conferma parziale delle parole di Vasari3. Ci sono tuttavia ignoti i motiviche spinsero il pittore veneziano, pochi anni dopo la morte dello stesso Malatesta, arealizzare quell’opera. Ma il mancato compimento di un’idea più ambiziosa, desti-no dello stesso Sigismondo e dell’intera chiesa albertiana, potrebbe giustificare unpassaggio del dipinto nelle mani del giurista Rainerio Migliorati, che nel 1499 lo sap-

    Lo specchio romagnoloMASSIMO PULINI

    GIOVANNI BELLINI, «Bacco bambino». Washington, National Gallery of Art.

    AGOSTINO DI DUCCIO, «Angioletti alla fontana». Rimini, Tempio Malatestiano.

    piamo disporre di una «Pietà» dipinta da Giovanni Bellini, almeno vent’anni prima (cfr. scheda dell’opera). In ogni caso quel-l’unica tavola, nei suoi primi due decenni di vita, dovette rimanere esposta in pubblico (nulla vieta immaginarla nello stessoTempio Malatestiano) dato che il dipinto del Francia, parte della pala bolognese dei Felicini (cfr. scheda in questo catalogo),intimamente ispirato alla «Pietà» riminese, è databile con precisione al 1490. Ma alle spalle delle tante «Madonne» di France-sco, disseminate sulla lunga carriera, si ritroveranno volti con la stessa posa degli angioletti di Rimini, portatori di un analogoincanto e si potrebbe fare ampia cernita pure nel catalogo di Lorenzo Costa. Mentre se si volesse stilare una graduatoria su qua-le dipinto di fine Quattrocento riverberi maggiormente lo spirito dell’opera romagnola di Bellini credo che il primato spetti a unaltro «Cristo morto assistito da quattro angeli» (Baltimora, The Walters Art Museum, di Filippo Mazzola, anche se c’è dascommettere su un’esecuzione veneziana, durante il soggiorno lagunare del pittore di Parma. La scena è resa silenziosa da unmedesimo fondo nero, anche il rimugino individuale degli angioletti è percepibile e solo un minore disincanto aleggia sul sepol-cro. Anche quest’opera, secondo Federico Zeri, è collocabile intorno al 14904.

    FILIPPO MAZZOLA, «Cristo morto assistito da quattro angeli». Baltimora, The Walters Art Museum.

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    Ma ancora prima di tutto questo, intorno al 1480, è difficilepensare che Pedro Berruguete non avesse visto la nostra ta-vola quando dipinse la sua «Pietà con due angeli», ora allapinacoteca milanese di Brera eppure proveniente dalla chie-sa di San Girolamo in Sant’Agata Feltria, nell’entroterra ri-minese.Sul valico del secolo è invece Antonio Aleotti, che a queltempo faceva ancora spola tra Argenta e Cesena, a chiedereparziale prestito all’icona di Rimini. Il risultato è dialettale easprigno, dimesso e tuttavia sincero nella tavoletta, anch’essaconservata a Brera.Il forlivese Marco Palmezzano, che svolse un ruolo cardine eper certi versi primario nella pittura romagnola di inizio Cin-quecento, forse va escluso dai belliniani (TEMPESTINI 1998)a patto che per questo si intenda solo la stretta bottega dei col-laboratori, ma belliniano lo fu molto più, nei modi, di quan-to fosse melozziano. Il suo soggiorno veneto ci impedisce divalutare a pieno il lascito di influenze dell’unico dipinto ri-minese, ma la «Pietà con dolenti» di Colonia5, che vira incontroparte la figura del Cristo, ne è un esplicito richiamo.Numerose sono le sue opere che muovono dallo stesso tema equasi tutte hanno un debito nei confronti del Bellini, per lu-ce o per colore, composizione o stile, fisionomie o disegno.Anche se Marco non riuscirà mai a superare le forme dell’al-bero, dei gesti scolpiti nel legno, mai uscirà da quella geome-tria primaria che disinnesca quasi ogni affetto, ogni morbi-dezza. Incide maggiormente su Palmezzano e sugli artisti dell’en-troterra ravennate la cimasa pesarese di Bellini (ora conser-vata nella Pinacoteca Vaticana), nella sua assoluta moder-nità di sguardo e di sentimento. Il forlivese annulla tutta-via il geniale scorcio da sott’insù, nelle proprie declinazionidi quell’«Unzione di Cristo» e trasforma la suprema inven-zione belliniana in una giostra cromatica, in una tarsia dipanneggi, come è nella tavola del Courtauld Institute diLondra6.Taglio e spirito più aderenti al dramma si ritrovano nel coti-gnolese Girolamo Marchesi, maggiormente disposto a rece-pire le aperture di ricerca, anche se la sua interpretazione nontiene il passo del modello pesarese e sente comunque il biso-gno di ribaltare la prospettiva mettendo una montagna goti-ca alle spalle di Nicodemo. Adolfo Venturi diede un’effica-

    GIOVANNI BELLINI, «Unzione del corpo morto di Cristo». Roma, Musei Vaticani.

    MARCO PALMEZZANO, «Unzione del corpo morto di Cristo». Londra, Courtauld Institute.

    GIROLAMO MARCHESI, «Unzione del corpo morto di Cristo». Budapest, Szépmüvészeti Múzeum.

    ce lettura dell’opera di Budapest, firmata dal Marchesi, parlando di figure cadaveriche e di occhi stretti, che sembrano aver per-duto l’anima7. Lo stesso pittore di Cotignola, che lavorò a più riprese per chiese di Rimini e di Pesaro, ci ha lasciato anche un’al-tra lunetta che interseca il tema dell’«Unzione del corpo morto di Cristo» con la citazione in controparte della pietà riminese(Lille, Palais des Beaux-Arts,).Di certo si saranno dispersi nei secoli altri riverberi del capolavoro belliniano sul variegato tessuto romagnolo8, così questo elen-co inevitabilmente frammentario trova parziale compimento davanti alle opere di Benedetto Coda, che si firmava «riminese»,nonostante lo fosse solo d’adozione. Nella sua produzione, talvolta seriale ma mai avulsa da sentimenti, il tema della «Pietà» ri-corre con una cadenza e un’attenzione particolare. Il risultato più alto lo si apprezza in un «Cristo morto con quattro dolenti»riapparso di recente (già Prato, mercato antiquario), che aggiunge al silente impianto originale una intonazione nordica, un ni-do intrecciato di corpi e di tessuti piegati a tornante. Più esplicita la rielaborazione belliniana nella tavola del museo di Trevi,

    GIROLAMO MARCHESI, «Unzione del corpo morto di Cristo». Lille, Palais des Beaux-Arts.

    BENEDETTO CODA, «Cristo morto con quattro dolenti». Già Prato, mercato antiquario.

    PEDRO BERRUGUETE, «Pietà e due angeli». Milano, Pinacoteca di Brera.

    MARCO PALMEZZANO, «Pietà con dolenti». Colonia, Wallraf-Richartz Museum.

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    Schede

    1 A. PAOLUCCI, San Marco in Romagna, in A. Tempestini, Bellini e Belliniani in Romagna,Firenze 1998, pp. 10-24.2 Tra Quattro e Cinquecento l’iconografia della «Pietà» veniva spesso inserita in cima acomplessi polittici e, malgrado le altre opere belliniane di analogo soggetto e destinazionepresentino uno sfondo di cielo, non è raro trovare anche casi con fondi neri, si pensi alla ci-masa del polittico di Recanati di Lorenzo Lotto.3 G. VASARI, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori e scultori, Firenze 1550, ed. a cura di L.Bellosi e A. Rossi, Torino 1986, p. 437.4 F. ZERI, Italian Paintings in the Walters Art Gallery, Baltimora 1976, pp. 274-275.5 Cfr. S. TUMIDEI, Marco Palmezzano (1459-1539). Pittura e prospettiva nelle Romagne, inMarco Palmezzano e il Rinascimento nelle Romagne, catalogo della mostra (Forlì, Museo SanDomenico, 4 dicembre 2005-30 aprile 2006), a cura di A. Paolucci, L. Prati e S. Tumi-dei, Cinisello Balsamo 2005, pp. 46-47.6 Deriva dalla tavola vaticana del Bellini anche l’opera di Palmezzano conservata al Mu-seo Civico di Vicenza.7 A. VENTURI, I quadri di Scuola italiana, in «L’Arte», III, 1900, pp. 185-240: 206-207.

    8 A. Tempestini, nella scheda dedicata alla «Pietà» riminese del Bellini (in Marco Palmez-zano cit., p. 216), affermava di conoscerne una derivazione puntuale eseguita dal cosiddet-to Maestro dei Baldraccani e conservata in collezione privata. Purtroppo non ne pubbli-cava la foto, sarebbe stata un’aggiunta preziosa a questo repertorio entro il quale vanno ri-cordate altre copie conosciute: una nel Museo Diocesano di Pennabilli, un’altra a Milanoin collezione privata e la terza a Rimini nella chiesa dei Santi Bartolomeo e Marino.9 Chi scrive segnalò nel 1993, alla Direzione del Museo di Trevi, l’attribuzione dell’operaa Benedetto Coda. Una foto, estratta dall’archivio Zeri, venne poi pubblicata da S. Tu-midei (in Marco Palmezzano cit., pp. 46-47). Vedi anche M. PULINI, La scelta riminese diBenedetto Coda, in «L’Arco», 6, 1, 2008, pp. 44-53.10 Sia per quanto riguarda la versione Altomani del Coda che la pubblicazione delle va-rianti della «Testa mozzata del Battista» cfr. PULINI, La scelta cit., 2008.11 Per i riflessi del dipinto riminese di Giovanni Bellini sull’attività dei figli di BenedettoCoda cfr. A. GIOVANARDI, «Belliniani in Romagna». Benedetto e Bartolomeo Coda nell’artesacra del primo Cinquecento, «L’Arco», VI, 1 (2008), pp. 28-43.

    BENEDETTO CODA, «Cristo morto con nove dolenti». Trevi, Museo.

    BENEDETTO CODA, «Testa mozzata del Battista». Milano, collezione Koelliker.

    che segnalai già nel 1993 come opera di Benedetto9. Intorno al «Cristo» riminese, trasformato in una sagoma ormai priva di qual-siasi fierezza, i quattro angioletti pensanti lasciano posto a un funerale di nove figure, nel quale si innestano Compianto e De-posizione. Non si è più in procinto di allestire l’esposizione del corpo sacro in formam pietatis, né vi è sufficiente spazio per la con-templazione, ma appare evidente che l’immagine si sospenda nel concitato momento che precede l’inumazione. Benedetto Co-da replicò più volte questa formula, fino agli anni trenta del Cinquecento, fino a farla diventare un’icona. Nella fototeca Zeri siconservano varie immagini di una lacerata versione su tela, mentre presso la Galleria Altomani di Pesaro si trova un’altra reda-zione su tavola, pubblicata da chi scrive nel 2008, ma si può dire che anche tutta la sequenza di opere che ritma il tema della«Testa mozzata del Battista»10, venga da quella sorgente iconografica.Si troverà un’ultima eco del modello belliniano pure nella produzione dei figli di Benedetto11, a tre generazioni di distanza dal-la sua creazione, anche se l’aura magnetica e inestinguibile di quel faro trova ormai uno specchio appannato nelle opere rimine-si di metà Cinquecento.

  • GIOVANNI BELLINI(Venezia, 1438 circa - 1516)

    Testa di san Giovanni Battista1465 circa.Tempera su tavola, diametro 28 cm.Pesaro, Musei Civici, inv. 4545.

    Secondo una testimonianza riportatada Marcello Oretti, nel 1777 il ton-do con la «Testa mozzata di san Giovan-ni Battista» si trovava nella sagrestia del-la chiesa di San Giovanni Battista a Pe-saro, costruita a partire dal 1543 suprogetto di Girolamo Genga. Nello stes-so luogo, la tavola fu segnalata, insieme aun «Cristo in pietà fra angeli», da Anto-nio Becci (1783), che assegnava entram-bi i dipinti a Marco Zoppo da Bologna,autore della grande pala firmata che si ve-deva «nel coro dietro l’altar maggiore»,ma che l’erudito dice provenire dall’«an-tica chiesa» quattrocentesca, già distruttanel 1536. Dopo la soppressione delle con-gregazioni religiose marchigiane, seguitaall’Unità d’Italia, le due tavole conserva-te in sagrestia furono incamerate dal mu-nicipio pesarese, confluendo prima nelleraccolte del Museo Oliveriano e in segui-to in quelle dell’attuale Pinacoteca Civi-ca. Tenendo conto delle indicazioni set-tecentesche, la critica ha inizialmente ri-tenuto il tondo con la «Testa del Battista»opera certa di Marco Zoppo: così, peresempio, Crowe e Cavalcaselle (1871),Berenson (1907), Frizzoni (1913). GiàVenturi (1914) dubitava però che il di-pinto, «per la sua sentimentalità come perla forte quadratura», potesse spettare al-l’aspro pennello del pittore emiliano. Come è noto, fu però Roberto Longhi a

    sparigliare la questione negando risoluta-mente la consueta attribuzione e a indi-care nel tondo un capolavoro giovanile diGiovanni Bellini. L’opinione dello stu-dioso fu resa nota per la prima volta, sen-za essere condivisa, da Giuseppe Fiocco(1922), per poi essere ribadita dallo stes-so Longhi nel 1927. Ancora in Officinaferrarese lo studioso mostrava disappuntonel rilevare che il dipinto, «forse il più al-to fra tutti quelli presenti» nella grandemostra del 1933, fosse «esposto senza spe-ciali onori, accanto al polittico bologne-se di Marco Zoppo». ContestualmenteLonghi proponeva dei confronti fra la«Testa» e i brani più arrovellati del polit-tico di San Zanipolo o della «Pietà» diBrera, nella speranza che ciò bastasse alcomune riconoscimento della paternitàdi Bellini. Lo stesso accostamento fu ri-proposto da Moschini (1943) e da Pal-lucchini, che decideva di esporre il ton-do di Pesaro fra i capolavori bellinianidella mostra da lui curata nel 1949. Questa scelta suscitò l’accesa reazione diCesare Brandi, che, dopo aver accoltonel 1935 il parere di Longhi, si era ormairicreduto in favore della tradizionale at-tribuzione a Marco Zoppo. L’opinionedello studioso, espressa in una recensionedella mostra del 1949, si basava sul con-fronto tra la «Testa del Battista» e l’«Ec-ce Homo» di Zoppo allora in collezioneSchiff-Giorgini, ma, soprattutto, su unoschizzo raffigurante una «Naiade a caval-lo di un delfino» da lui scoperto sul retrodella tavola e ritenuto testimonianza del-la più tipica grafica zoppesca. Nonostan-te ciò, il dipinto fu esposto come opera diBellini ancora alla «Mostra della pitturaveneta nelle Marche» curata da Zampet-ti (1950) e in quella di Paccagnini su

    Andrea Mantegna (1961). Nel catalogo,Paccagnini segnalava peraltro l’estremaproblematicità dell’attribuzione, anchein virtù della presunta vicinanza tra la«Testa del Battista» e il «Cristo in Pietàfra angeli» dello stesso museo, già ricono-sciuto da Filippini (1939, p. 354) e daZeri (1958, p. 40) quale cimasa della pa-la eseguita dallo Zoppo nel 1471 per gliOsservanti di Pesaro (ora Berlino, Staa-tliche Museen, Gemäldegalerie). Il rife-rimento allo Zoppo fu dunque ripreso daRuhmer (1966) e dalla Armstrong(1976), ma trovò un fiero oppositore inAlessandro Conti, che, riproponendocon forza l’attribuzione a Bellini, addu-ceva argomentazioni di natura stilistica etecnica. Da questa breve rassegna emerge chiara-mente come il riconoscimento dell’auto-grafia del bellissimo tondo pesarese costi-tuisca un problema aperto, su cui la cri-tica si è sempre mostrata divisa. In questosenso, la posizione più emblematica è for-se quella adottata nella sua autorevolemonografia su Giovanni Bellini da Ro-bertson (1968), c


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