di Riccardo Magi
Deputato di +Europa e Segretario di Radicali Italiani
Gli Statuti dei gruppi parlamentari alla prova dell'articolo 67 della
Costituzione
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Gli Statuti dei gruppi parlamentari alla prova dell'articolo 67 della Costituzione *
di Riccardo Magi
Deputato di +Europa e Segretario di Radicali Italiani
I contributi ospitati da questo numero di Federalismi riprendono e sviluppano la discussione che si è
tenuta il 16 maggio scorso in occasione della tavola rotonda da me promossa alla Camera dei Deputati
dal titolo “Gli Statuti dei gruppi parlamentari alla prova dell'articolo 67 della Costituzione”.
L’iniziativa nasce dalla lettera che ho mandato al Presidente della Camera (cui hanno aderito anche i
deputati Ascani, Borghi, Ceccanti, Gribaudo, Pini, Tabacci e Zardini) perché si esprimesse sulla
previsione dello statuto del gruppo Movimento 5 stelle della Camera (analoga a quella del Senato), che
sanziona con una penale di 100 mila euro quei parlamentari che abbandonino il gruppo parlamentare a
causa di espulsione ovvero abbandono volontario. Tale previsione, che vincola ogni singolo deputato
aderente al gruppo, è a mio avviso chiaramente contrastante con l’articolo 67 della Costituzione, e nella
lettera ho tentato di elencare alcune ragioni che dovrebbero spingere il Presidente motu proprio ad
intervenire, nel momento in cui l'istituzione parlamentare, presso cui è depositato il regolamento del
gruppo, è formalmente a conoscenza della suddetta norma. Simile iniziativa, anche su altre questioni
problematiche che lo Statuto pone, è stata intrapresa dall’on. Stefano Ceccanti.
Nella sua risposta il Presidente Fico si è trincerato dietro il difetto di uno specifico potere di controllo
sugli statuti dei gruppi, evitando di entrare nel merito dei punti sollevati. Poiché tale questione, ad avviso
mio e del collega Ceccanti, ben rientrerebbe nella competenza del Presidente, con una successiva lettera
l’abbiamo invitato quanto meno a sottoporla in via prioritaria alla Giunta per il Regolamento affinché
essa possa pronunciarsi su quella che al momento appare essere una inaccettabile zona grigia rispetto alla
legalità costituzionale e regolamentare e affinché i principi costituzionali vigenti vengano rispettati in
primis nel Parlamento, cuore della nostra democrazia.
Prima che giungesse la risposta del Presidente Fico avevo ritenuto utile condividere la mia lettera con
tutti i membri dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti; sorprendente per me è stato il numero e la
qualità delle riflessioni pervenute su molteplici e diversificati profili di interesse. Ritengo particolarmente
importante il contributo che la dottrina può offrire su temi - come quello del rapporto tra gli Statuti dei
* Presentazione degli interventi alla Tavola rotonda “Gli statuti dei gruppi parlamentari alla prova dell’art. 67 della Costituzione”, Roma, 16 maggio 2018.
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gruppi parlamentari e l’articolo 67 della Costituzione - in cui le questioni politiche si intrecciano con
quelle costituzionali, al fine di dare strumenti e argomenti per porre il Parlamento in condizione di tutelare
sé stesso da fughe dalla Costituzione pericolose per il Paese. Di qui l’idea di organizzare un momento di
confronto pubblico aperto ai cittadini oltre che al mondo politico e parlamentare.
Ai fini della discussione, avevo individuato alcuni profili di particolare interesse – sviluppati, con diversa
intensità, nei contributi che trovate in questo numero della rivista – e che elenco di seguito.
In primis, si pone il problema della stesura e della potenziale applicazione di disposizioni di Statuti dei
gruppi – regole di diritto privato - in palese contrasto con la Costituzione e con il Regolamento. Cosa
succederebbe se le norme statutarie di un Gruppo vietassero alle deputate che vi appartengono
di prendere la parola in Aula o di presentare proposte di legge?
In secondo luogo, possiamo dire che la sola circostanza che uno o più parlamentari iscritti al gruppo
Movimento 5 Stelle esercitino il loro mandato con il timore d’esser sanzionati economicamente in ragione
delle proprie condotte e scelte in Parlamento costituisca un vincolo di mandato e imponga all’istituzione
parlamentare di intervenire scongiurando questa ipotesi ab origine? Se sì, come? Dal momento che la
norma è conosciuta formalmente dalle Camere perché contenuta in Statuti il cui deposito è obbligatorio,
possiamo dire che non è il difetto di una norma specifica che impedisce al Presidente di manifestare
formalmente ai colleghi parlamentari l'inconsistenza, nullità e illiceità di una previsione
regolamentare (ad oggi sottoscritta dallo stesso Presidente Fico), ad esempio con una circolare inviata a
tutti i deputati? È, per altro verso, configurabile la doverosità di intervento dichiarativo - attraverso una
qualsiasi esternazione pubblica - del Presidente volto a prevenire e fugare in ciascun parlamentare il
convincimento di una qualche rilevanza della suddetta clausola in contrasto con l'articolo 67?
Un’ulteriore questione attiene alla nomina a Ministro da parte del Capo dello Stato di parlamentari del
Movimento 5 Stelle vincolati da un "contratto privato" che li sottopone alla famigerata penale dei 100.000
euro qualora “adottino comportamenti suscettibili di pregiudicare l’immagine o l’azione politica del Movimento 5 Stelle o
di avvantaggiare altri partiti” e “tutte le condotte che violino, del tutto o in parte, la linea politica dell’associazione
‘Movimento 5 Stelle”, come prevedono gli Statuti dei relativi gruppi parlamentari; ipotesi così ampie da
annullare o ridurre comunque al minimo l’autonomia del parlamentare. Ebbene tale vincolo appare in
contrasto non solo dell'articolo 67 della Costituzione, ma anche con il giuramento prestato di fronte allo
stesso Presidente della Repubblica di “esercitare le proprie funzioni nell'interesse esclusivo della Nazione”, oltre che
con la con legge 23 agosto 1988, n. 400 in ordine all'autonoma collegialità del Consiglio dei Ministri e al
suo compito di risoluzione dei conflitti tra Ministri. Sul punto, successivamente alla tavola rotonda e
nelle more della formazione del governo, ho scritto una lettera al Presidente della Repubblica Sergio
Mattarella, con il solo obiettivo di fornirgli utili spunti affinché nell’esercizio delle proprie prerogative
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costituzionali e nella sua delicata funzione di tutore dell'osservanza della legge fondamentale della
Repubblica potesse considerare questi ulteriori e nuovi elementi, che rappresentano un inedito nella storia
costituzionale della Repubblica. Il tema rimane purtroppo di stretta attualità e si porrà ogni qualvolta tali
Ministri si rapporteranno con il Parlamento e assumeranno decisioni che hanno giurato essere
nell'esclusivo interesse della Nazione.
Un quarto punto – quello su cui vi è stato peraltro il maggiore dibattito – attiene alla questione della
"giustiziabilità" della violazione dell'articolo 67 della Costituzione in esame. Come un tentativo di
applicazione dell’istituto della clausola penale prevista dalla disposizione statutaria potrebbe giungere
all’esame della Corte costituzionale?
È chiaro come una modifica del Regolamento che attribuisca al Presidente poteri di controllo sugli
Statuti dei Gruppi sia la strada più lunga e dall’esito più incerto - soprattutto in questa legislatura - ma
anche l’unica che in futuro potrebbe evitare il ripetersi di casi come quello in discussione. Per questa
ragione presenterò nei prossimi mesi una proposta di modifica in tal senso; a tal fine è utile una riflessione
sui passaggi di tale procedimento di verifica (l’organo o gli organi che ne dovrebbero essere incaricati, i
parametri di riferimento e le conseguenze in caso di mancato rispetto degli stessi).
Infine: non solo il Movimento 5 Stelle, ma anche Forza Italia, Lega Nord e Fratelli d’Italia hanno
affermato in campagna elettorale di voler modificare l’articolo 67 della Costituzione, e proposte di legge
in tal senso sono già state presentate in passato; la differenza, oggi, è che una tale riforma costituzionale
potrebbe essere approvata a maggioranza dei due terzi di ciascuna Camera. Il quesito che allora si pone
è se l’articolo 67 sia revisionabile o se il divieto di mandato imperativo rientri fra i "principi fondamentali
e diritti inviolabili" che la Corte costituzionale pone come limite allo stesso processo di revisione
costituzionale.
Il tema peraltro è diventato di stretta attualità il giorno stesso in cui si è tenuta la Tavola rotonda entrando
nel “contratto di governo”, il quale recita: “occorre introdurre forme di vincolo di mandato per i parlamentari, per
contrastare il sempre crescente fenomeno del trasformismo”.
Il transfughismo parlamentare rappresenta senz’altro un problema, per il quale bisogna tuttavia
individuare soluzioni ragionevoli, onde evitare uno svuotamento della stessa funzione del Parlamento -
già indebolito dalle tendenze in atto negli ultimi decenni - e la sua trasformazione in sede ratificatrice di
decisioni prese altrove. Le risposte al trasformismo parlamentare vanno a mio avviso cercate nella
modifica dei Regolamenti parlamentari (sulla scia di quanto fatto nella scorsa legislatura al Senato) e non
in riforme costituzionali che mettono a rischio la rappresentanza democratica, uno dei pilastri su cui si
fonda l’intera architettura dell’ordinamento costituzionale vigente. Qualora invece non prevalga la
ragionevolezza e tale ipotesi di riforma costituzionale si concretizzi, si renderebbe necessaria una grande
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mobilitazione e sensibilizzazione dell’opinione pubblica; in questa opera il contributo che la dottrina
costituzionalistica potrebbe offrire - e già ha offerto con i contributi qui pubblicati - sarà prezioso.
di Roberta Calvano
Professore ordinario di Diritto costituzionale Università degli Studi di Roma Unitelma Sapienza
La democrazia interna, il libero mandato parlamentare
e il dottor Stranamore
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La democrazia interna, il libero mandato parlamentare e il dottor Stranamore *
di Roberta Calvano
Professore ordinario di Diritto costituzionale Università degli Studi di Roma Unitelma Sapienza
Sommario: 1. Il tema del seminario. – 2. Libero mandato e articolo 49 Cost. – 3. Statuti, partiti e gruppi tra pubblico e privato. – 4. La via dell’attuazione legislativa dell’art. 49 Cost. – 5. La legge n. 13 del 2014 e i suoi effetti collaterali. – 6. Modelli regolativi degli statuti e democrazia interna. – 7. Ipotesi di violazione del libero mandato e strumenti di tutela.
1. Il tema del seminario
Le brevi riflessioni che seguono traggono spunto dai quesiti sottoposti dall’organizzatore di questo
seminario all’attenzione dei relatori1, e più in generale dalla vicenda che ha visto l’inserimento, nello
* Intervento alla Tavola rotonda “Gli statuti dei gruppi parlamentari alla prova dell’art. 67della Costituzione”, Roma, 16 maggio 2018. 1 1. In primis, si pone il problema della stesura e della potenziale applicazione di disposizioni di Statuti dei gruppi – regole di diritto privato - in palese contrasto con la Costituzione e con il Regolamento. Cosa succederebbe se le norme statutarie di un Gruppo vietassero alle deputate che vi appartengono di prendere la parola in Aula o di presentare proposte di legge? 2. Possiamo dire che la sola circostanza che uno o più parlamentari iscritti al gruppo Movimento 5 Stelle esercitino il loro mandato con il timore d’esser sanzionati economicamente in ragione delle proprie condotte e scelte in parlamento costituisce un vincolo di mandato e impone all’istituzione parlamentare di intervenire scongiurando questa ipotesi ab origine? Se sì, come? Dal momento che la norma è conosciuta formalmente dalle Camere perché contenuta in statuti il cui deposito è obbligatorio, possiamo dire che non è il difetto di una norma specifica che impedisce al Presidente di manifestare formalmente ai colleghi parlamentari l'inconsistenza, nullità e illiceità di una previsione regolamentare (ad oggi sottoscritta dallo stesso Presidente Fico), ad esempio con una circolare inviata a tutti i deputati? 3. Può il Capo dello Stato nominare Ministro un parlamentare del Movimento 5 Stelle vincolato da un "contratto privato" in contrasto non solo dell'art. 67 Cost. ma anche con il giuramento prestato di fronte allo stesso Presidente della Repubblica di esercitare le proprie funzioni nell'interesse esclusivo della nazione, oltre che con la con legge 400/1988 in ordine all'autonoma collegialità del Consiglio dei Ministri e al suo compito di risoluzione dei conflitti tra Ministri? Come opererebbe questo condizionamento nell’esercizio della funzione di controllo da parte dei parlamentari nei confronti dei ministri del loro partito? Può tale problema essere evidenziato direttamente all'attenzione del Presidente della Repubblica, nella sua qualità di garante della Costituzione? 4. Questione della "giustiziabilità" della violazione dell'art. 67 Cost in esame. Come un tentativo di applicazione dell’istituto della clausola penale prevista dalla disposizione statutaria in esame potrebbe giungere all’esame della Corte costituzionale? Attraverso la via del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato (Deputato “sanzionato” vs. Gruppo parlamentare di appartenenza oppure Autorità giudiziaria vs. Camera dei Deputati che pretende di agire in autodichia sull’applicazione della previsione statutaria). Attraverso un giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale? 5. É chiaro come una modifica del Regolamento che attribuisca al Presidente poteri di controllo sugli Statuti dei Gruppi sia la strada più lunga e dall’esito più incerto - soprattutto in questa legislatura - ma anche l’unica che in futuro potrebbe evitare il ripetersi di casi come quello di cui si discute oggi; per questo annuncio fin da ora la mia intenzione di presentare una proposta di modifica in tal senso. Chiedo allora a chi interverrà oggi di ipotizzare i passaggi di tale procedimento di verifica degli Statuti, l’organo o gli organi che ne dovrebbero essere incaricati, i parametri di riferimento e le conseguenze in caso di mancato rispetto degli
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statuto del gruppo parlamentare del M5S alla Camera, di una norma che prefigura l’irrogazione di una
ingente sanzione pecuniaria per il parlamentare che abbandoni o sia espulso dal Gruppo. Il seminario che
ci ospita ha quindi sullo sfondo il principio costituzionale del libero mandato parlamentare, disciplinato
nell’art. 67 Cost.
Va subito sgombrato il campo in premessa da una questione generale, affermando la chiara irrilevanza
giuridica di tutti gli accordi che pretendessero vincolare l’esercizio del mandato (ai sensi dell’art. 67 Cost.),
o comunque, secondo una diversa interpretazione, la loro insanabile nullità in quanto contrari a norme
imperative (art. 1418 c.c.). Tale posizione risulta indiscussa all’esito dell’interpretazione della norma
costituzionale, che pone un principio che difficilmente potrebbe essere oggetto di revisione
costituzionale, senza uscire dalle coordinate del parlamentarismo di matrice liberale e senza collocarsi al
di fuori del solco del costituzionalismo moderno, sviluppato a partire dalla rivoluzione francese.
Tale fondamentale principio si è trovato tuttavia negli ultimi anni al centro di un rinnovarsi del dibattito
in ragione di alcuni ben noti fattori, tra cui sopra a tutti la crisi della rappresentanza politica, della forma
partito e, nel caso italiano, del tentativo di alcune forze politiche di minare la perdurante validità del
divieto di mandato imperativo in nome di un più immediato rapporto con la “volontà del popolo”, anche
alla luce del fenomeno del “transfugismo” parlamentare, macroscopicamente esploso soprattutto nel
corso dell’ultima legislatura2.
Non è questa la sede per soffermarsi sulle lontane radici, o il significato costituzionale del principio del
libero mandato parlamentare e del connesso divieto di mandato imperativo, né tantomeno per riassumere
l’evoluzione storica di questi concetti, strumento di emancipazione e garanzia dei parlamenti e dei
parlamentari rispetto a un’idea della rappresentanza ancora intrisa dai vincoli propri dell’epoca feudale.
L’evoluzione trova il punto saliente nella rilevanza del principio come caposaldo del parlamentarismo a
partire dallo Stato liberale, giungendo poi a mutare significato con l’ingresso dei partiti di massa sulla
scena politica e parlamentare nel ventesimo secolo. Basti in proposito ricordare come, in quel tornante
storico, il libero mandato sia divenuto il punto di equilibrio nel triangolo su cui costruire il rapporto di
rappresentanza politica: tra i cittadini elettori, il ruolo dei partiti politici, con la connessa necessaria
disciplina di partito in seno alle istituzioni parlamentari (funzionale alla compattezza del gruppo
stessi. 6. Infine: non solo il Movimento 5 Stelle, ma anche Forza Italia, Lega Nord e Fratelli d’Italia hanno affermato in campagna elettorale di voler modificare l’articolo 67 della Costituzione, e proposte di legge in tal senso sono già state presentate in passato; la differenza, oggi, è che una tale riforma costituzionale potrebbe essere approvata a maggioranza dei due terzi di ciascuna Camera. Il quesito che allora si pone è se l’art. 67 sia revisionabile o se il divieto di mandato imperativo rientri fra i "principi fondamentali e diritti inviolabili" che la Corte cost. pone come limite allo stesso processo di revisione costituzionale. 2 Contati nella XVII legislatura nel numero di 566, che ha coinvolto 348 parlamentari, quindi più di un terzo degli eletti. Le cifre (riprese dal sito di Openpolis) sono più che raddoppiate rispetto alla legislatura precedente.
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parlamentare di cui essa è proiezione), e infine i singoli parlamentari, cui l’art. 67 garantisce la posizione
di libertà, quali “rappresentanti della nazione”, garantendo ad un tempo il corretto funzionamento
dell’istituzione parlamentare.
Nonostante la crisi poi emersa e tuttora in atto in seno ai partiti, il principio continua a regolare il rapporto
tra le due istanze, configurando il parlamentare come titolare di un diritto all’autodeterminazione e al
dissenso, che lo rendono quindi indipendente da qualunque vincolo giuridico alle scelte del partito nelle
cui fila è eletto, o della constituency in cui si è candidato. Con tali principali caratteri l’istituto giunge sino a
noi.
Dati per acquisiti gli elementi che si sono solo potuti esemplificativamente richiamare, che qui si devono
per ragioni di tempo e di spazio tenere per presupposti, la chiave di lettura alla base delle brevi riflessioni
che seguono, anche alla luce dell’accelerazione in atto nelle già forti trasformazioni riguardanti il sistema
politico italiano negli ultimi anni, non sarà esclusivamente quello dell’art. 67 Cost., ma tenterà una
valorizzazione del portato dell’art. 49 Cost. rispetto alla discussione odierna.
Già nel quindicennio passato, e ancora oggi in larga parte, i sistemi elettorali, tramite le liste bloccate,
sembrano aver contribuito ad indebolire la legittimazione dei parlamentari agli occhi del corpo elettorale.
É noto poi come un impiego massiccio delle questioni di fiducia negli ultimi anni, ampiamente denunciato
dalla dottrina, abbia finito col mortificare il ruolo dei parlamentari e delle Camere nel loro complesso.
Oggi si rischia di assistere forse ad un’ulteriore tappa di questa involuzione, che porta a chiedersi se sia
ancora libero il mandato di parlamentari che, non solo sono destinatari potenziali di sanzioni in caso di
dissenso, ma si vedono negare, nel contratto-accordo di governo, il potere di presentare disegni di legge
per l’attuazione del programma.3
2. Libero mandato e articolo 49 Cost.
Prima ancora di giungere alle degenerazioni ora ricordate, già nella fase di normale funzionamento (ancora
non patologico) della forma di governo nel quadro del sistema costituzionale, l’apparente contrasto tra il
ruolo costituzionale dei partiti in Parlamento, tramite la disciplina dei gruppi, e il libero mandato del
parlamentare, aveva indotto taluni a ritenere che le due istanze volgessero verso direzioni contrastanti ed
in certa misura incompatibili. Tale contrasto sembra suscettibile di dissolversi in considerazione dei
contenuti della disciplina costituzionale sui partiti. In particolare, data la centralità del contributo dei
3 Il “Contratto per il governo del cambiamento” stipulato da M5S e Lega recita, a pag. 7, “Le iniziative legislative finalizzate all’attuazione del presente programma o di altri temi concordati dai contraenti con le procedure previste dal presente contratto sono presentate dal Governo o con la prima firma dei presidenti dei gruppi parlamentari delle due forze politiche. Ogni parlamentare ha la possibilità di presentare iniziative legislative e la loro richiesta di calendarizzazione deve essere oggetto di accordo tra i presidenti dei gruppi parlamentari delle due forze politiche.”
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partiti alla costruzione della rappresentanza politica parlamentare, l’indicazione che l’art. 49 Cost. pone
circa il rispetto del metodo democratico, sembra condurre nella stessa direzione del libero mandato,
convergendo con esso nel determinare la posizione del singolo parlamentare nel partito e nelle aule
parlamentari.
Contemperando la necessaria adesione alla generale linea politica del partito, con il rispetto di una sfera
di libertà esercitabile da parte del singolo parlamentare (di dissentire ed autodeterminarsi all’interno
dell’aula), il libero mandato e la democrazia interna dei partiti sembrerebbero quindi suscettibili, di pari
passo, di poter contribuire ad un ruolo più maturo e costruttivo di partiti e gruppi nella sfera politico
parlamentare.
Va quindi rilevato che addebitare alla norma costituzionale di cui all’art. 67 le storture cui si è assistito,
soprattutto nella legislatura appena terminata4, per richiederne una revisione, pare frutto di un errore di
impostazione analogo a quello in cui già molte volte si è incorsi in passato nel dibattito sulle riforme, col
tentare di rendere la Costituzione capro espiatorio di problematiche che affliggono il sistema politico,
incarnato dagli eterni “riformatori non riformati”. Da questo punto di vista, la recente riforma del
Regolamento del Senato con l’introduzione di una serie di deterrenti rispetto alla crescente tendenza al
“cambio di casacca” dei parlamentari e alla formazione di nuovi gruppi nel corso della legislatura, ma allo
stesso tempo con la previsione elementi di garanzia della democrazia interna ai gruppi (ad es. con le
norme di cui agli artt. 13, comma 1 bis e 27, comma 3 bis5 e in particolare dell’art. 53 c. 76) sembra
evidenziare uno degli strumenti più idonei per una possibile soluzione del problema, senza la necessità di
percorrere la ben più onerosa via dell’art. 138 Cost. Accanto ad esso probabilmente una legislazione
elettorale che non favorisca coalizioni opportunistiche che si riducono a cartelli elettorali, destinati a
dissolversi a breve distanza dal voto, potrebbe essere un utile strumento aggiuntivo.
Pensare invece di sottoporre a revisione costituzionale l’art. 67 significherebbe per di più andare
discutibilmente ad intaccare una disposizione che esprime un principio fondamentale, paradigmatico per
il parlamentarismo europeo.
4 V. nt. precedente. 5 L’art. 13 comma 1 bis, recita “i Vicepresidenti e i Segretari che entrano a far parte di un Gruppo parlamentare diverso da quello al quale appartenevano al momento dell'elezione decadono dall'incarico. Tale disposizione non si applica quando la cessazione sia stata deliberata dal Gruppo di provenienza, ovvero in caso di scioglimento o fusione con altri Gruppi parlamentari.” L’art. 27 comma 3 bis prevede che “I componenti dell'Ufficio di Presidenza che entrano a far parte di un Gruppo diverso da quello al quale appartenevano al momento dell'elezione decadono dall'incarico. Tale disposizione non si applica quando la cessazione sia stata deliberata dal Gruppo di provenienza, ovvero in caso di scioglimento o fusione con altri Gruppi parlamentari.” 6 Comma che prevede che “I Regolamenti interni dei Gruppi parlamentari stabiliscono procedure e forme di partecipazione che consentano ai singoli Senatori di esprimere i loro orientamenti e presentare proposte sulle materie comprese nel programma dei lavori o comunque all'ordine del giorno.”
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Sempre in punto di rilevanza dell’art. 49, si deve poi aggiungere l’ulteriore argomento, ben rilevato
nell’ambito di questo seminario (Demuro) secondo cui tale disposizione disciplina sì il soggetto collettivo
“partito”, ma tutela altresì il diritto individuale del singolo a concorrere alla determinazione della politica
nazionale. L’individuo titolare di tale diritto può e deve essere, tra gli altri, proprio il singolo parlamentare,
ed il diritto non sarebbe tutelato qualora vi fosse una non piena garanzia del suo esercizio. Ecco dunque
che anche in questo senso, si può ritenere che il diritto a concorrere alla determinazione della politica
nazionale trovi il proprio coronamento nella tutela del libero mandato.
3. Statuti, partiti e gruppi tra pubblico e privato
Venendo all’esame della questione oggi posta circa alcuni contenuti recati dallo statuto del gruppo M5S
alla Camera, essa non può prescindere da una riflessione circa il chiaro legame esistente tra gli statuti dei
gruppi parlamentari e quelli dei partiti, gli uni essendo strettamente collegati e traendo anzi la loro
legittimità dai primi. La questione sugli statuti dei gruppi insomma è figlia di quella sugli statuti dei partiti,
così come i gruppi sono la proiezione parlamentare dei partiti. Rispetto ad entrambi gli ambiti, partiti e
statuti, va sottolineata allora la peculiare posizione costituzionale, che potrebbe essere definita come
“anfibia”. Essi si collocano infatti con le gambe nella società, ma sono gli artefici della rappresentanza
politica, quindi il principale strumento tramite cui cittadini partecipano alla vita delle istituzioni.
Di tale peculiare natura dei partiti è appunto un fedele specchio il regime giuridico ad essi attribuito
nell’ordinamento italiano, così come la natura giuridica degli statuti, a cavallo tra la sfera privatistica (con
la disciplina codicistica) e la innegabile rilevanza pubblicistica, che pone gli stessi alla base di una serie di
nodi tuttora irrisolti.
É corretto dunque ribadire, dinanzi a disposizioni degli statuti (o anche dei non-statuti), sia dei partiti che
dei gruppi, che tentano di vincolare il singolo parlamentare nelle proprie scelte e nelle diverse attività
svolte nell’esercizio delle funzioni, la rilevanza centrale dell’art. 67 Cost., così come interpretato dalla
Corte costituzionale nella sentenza n. 14 del 1964. In tale pronuncia la Corte sottolineava che “il divieto
di mandato imperativo importa che il parlamentare è libero di votare secondo gli indirizzi del suo partito,
ma è anche libero di sottrarsene; nessuna norma potrebbe disporre che derivino conseguenze a carico del
parlamentare per il fatto che egli abbia votato contro le direttive del partito”. Si confermava così la natura
irrinunciabile dello stesso principio per le democrazie parlamentari. Centralità che sembra venire
ulteriormente validata anche dalla sua diffusione nel panorama costituzionale comparato, così come dalla
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sfera dell’ordinamento dell’Unione europea, in cui una norma analoga è posta nell’art. 2 del Regolamento
del Parlamento europeo7.
Tuttavia, soprattutto alla luce della vicenda da cui trae spunto questo seminario, come già si diceva, al
centro di queste riflessioni si deve ora porre l’art. 49, ovvero la rilevanza, per il tema del libero mandato,
del connesso problema della democrazia interna dei partiti.
4. La via dell’attuazione legislativa dell’articolo 49 Cost.
La questione della ”attuazione” legislativa di questa disposizione, da alcuni avversata, da altri invocata,
ma di certo non richiesta dalla Costituzione, è stata affrontata e poi abbandonata nella scorsa legislatura
in alcuni disegni di legge. In essi si rinveniva un insidioso nodo problematico, frutto probabilmente di un
insufficiente approfondimento della cruciale questione dello status costituzionale dei partiti politici, al
punto da prospettarsi il passaggio alla personalità giuridica pubblicistica tout court8. La prospettata
soluzione passava per il tramite dell’istituzione di un sistema di registrazione dei partiti, quale requisito
per poter ottenere la personalità giuridica, strumento necessario per accedere alla presentazione di
candidature per le elezioni politiche. Questo modello veniva prospettato “in attuazione” del di quello
disciplinato nel regolamento Ue dei partiti, che si riteneva discutibilmente di dover recepire, quasi si fosse
in materia di competenza Ue e non invece, semmai, nell’ambito della sfera sottratta ad ogni influenza del
diritto Ue, come previsto dall’art. 4 TUe. I partiti che non avessero avuto accesso o non avessero accettato
di acquisire tale configurazione pubblicistica, sarebbero stati esclusi dal diritto di elettorato passivo con
evidente violazione degli artt. 48, 56 e 58 Cost. Pare superfluo rilevare come una simile disciplina avrebbe
prodotto come prima conseguenza quella dell’esclusione di forze come il M5S dalla rappresentanza
politica. Naturalmente una soluzione questa che avrebbe portato con sé l’inevitabile corollario di un
ulteriore acuirsi della frattura e dell’alterità di tali forze rispetto alla politica tradizionale agli occhi
dell’elettorato.
Una disciplina che avesse l’effetto opposto, di incentivare l’adesione ad un modello regolativo che
promuova la democrazia interna oltre a favorire la partecipazione dei cittadini, come si dirà tra breve,
sembrerebbe la direzione corretta in cui il legislatore potrebbe invece provare a muoversi per provare ad
affrontare i problemi di cui ci stiamo occupando.
7 “In conformità dell'articolo 6, paragrafo 1, dell'Atto del 20 settembre 1976 nonché dell'articolo 2, paragrafo 1, e dell'articolo 3, paragrafo 1, dello Statuto dei deputati al Parlamento europeo, i deputati esercitano il loro mandato liberamente e in modo indipendente e non possono essere vincolati da istruzioni né ricevere alcun mandato imperativo”. 8 Per brevità rinvio alle considerazioni che ho svolto in Dalla crisi dei partiti alla loro riforma, senza fermarsi …voyage au bout de la nuit? In Costituzionalismo, 3/2015, 170 ss.
8 federalismi.it - ISSN 1826-3534 |n. 13/2018
A fronte dal problema lasciato volutamente aperto dai costituenti, insito nel carattere “a maglie larghe”
della norma sui partiti, volta ad evitare forme di controllo e limitazione della loro vita e attività, la via di
una disciplina legislativa così rigida da risultare “escludente” non pare idonea a risolvere il problema del
carente rispetto della democrazia interna nel sistema politico italiano.
La voluta larghezza della disciplina costituzionale ha trovato un suo contraltare nella disciplina legislativa
con cui si è di recente tentato di intervenire sul punto. Vale la pena provare a mettere l’accento,
nonostante l’apparente distanza tra i problemi, su di una questione rilevante ai fini dell’odierna discussione
– come spero emergerà nel seguito del discorso - concernente la disciplina posta nella legge n. 13 del
2014, di conversione del decreto legge n. 149 del 2013 (intitolata “Conversione in legge, con
modificazioni, del decreto-legge 28 dicembre 2013, n. 149, recante abolizione del finanziamento pubblico
diretto, disposizioni per la trasparenza e la democraticità dei partiti e disciplina della contribuzione volontaria e
della contribuzione indiretta in loro favore”), per gli effetti paradossalmente disincentivanti che la stessa
può avere in relazione alla democrazia interna dei partiti.
5. La legge n. 13 del 2014 e i suoi effetti “collaterali”
Tale disciplina legislativa sembra potersi ricollegare al tema odierno in ragione di un profilo specifico.
Prescindendo in questa sede da ogni valutazione circa la scelta dell’abolizione del finanziamento pubblico
nella legge n. 13 (o meglio dell’abolizione del finanziamento pubblico diretto, dovendosi ritenere che
l’introduzione del 2 per mille e del sistema delle detrazioni previsti dalla legge costituiscano una forma di
finanziamento pubblico indiretto), si deve tuttavia segnalare come essa appaia di per sé un unicum nel
panorama dell’Europa continentale, per di più suscettibile di contribuire ad avallare la visione della
politica come attività parassitaria, e ad esporre il sistema partitico all’influenza ed ingerenza di grandi
gruppi economico finanziari. Ma il dato che rileva di più in questa sede è quello per cui tale disciplina,
deviando probabilmente dalle intenzioni dei suoi autori, sembra aver prodotto l’effetto di indebolire
paradossalmente il canone della democrazia interna, che già la legge n. 96 del 2012 imponeva agli statuti.
Infatti, se da un lato la tendenziale “pubblicizzazione” introdotta dalla disciplina (che regola il contenuto
minimo degli statuti dei partiti, il loro deposito e iscrizione nel registro dei partiti, previo controllo, da
parte della commissione di garanzia), appare un paradosso a fronte della privatizzazione del sistema dei
finanziamenti, l’aspetto più discutibile della legge deriva dall’art. 3.
In base a tale disposizione, le regole riguardanti il contenuto minimo degli statuti (riguardanti aspetti centrali per la
democrazia interna9) poste dallo stesso art. 3 si applicano solo ai partiti e movimenti che vogliano avvalersi del
9 “a) il numero, la composizione e le attribuzioni degli organi deliberativi, esecutivi e di controllo, le modalità della loro elezione e la durata dei relativi incarichi, nonché ((l'organo o comunque il soggetto investito)) della
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sistema di finanziamento pubblico indiretto. A seguito di tale disciplina, dunque, il M5S ha potuto
sottrarsi al sistema di controllo e registrazione e quindi a quella pur blanda forma di regolazione leggera
della democrazia interna che il legislatore aveva tentato di introdurre. Un risultato che non è necessario
commentare e che sicuramente non depone a favore del legislatore, il cui intervento del 2014, più che
attuare il principio costituzionale, sembra potersi descrivere come quello di un dottor Stranamore intento
a maneggiare allegramente l’arma finale.
Naturalmente il problema della democrazia interna non riguarda certo un solo partito/movimento,
essendo noto come alcuni tra i principali partiti presentino problematiche di non poco conto da questo
punto di vista (si pensi solo alla totale assenza di congressi del partito Forza Italia sin dalla sua fondazione,
o alla derogabilità delle norme statutarie circa l’impiego delle primarie per il partito democratico, solo per
fare due tra gli esempi più noti). Tuttavia, pare significativo, e merita di essere rilevato, come l’unica forza
politica di qualche rilevanza che, a seguito dell’entrata in vigore della legge n. 13 non ha chiesto l’iscrizione
al Registro dei partiti è la stessa che nel proprio statuto e nello statuto del proprio gruppo parlamentare
ha quindi poi introdotto le discusse disposizioni che oggi leggiamo come contrastanti con l’art. 67, oltre
che con l’art. 49 Cost.
Del resto, la legge stessa presenta un impianto generale debole, poiché, oltre che nel titolo, non riesce a
garantire nel suo disposto efficaci strumenti di garanzia del rispetto del metodo democratico neanche per
i partiti che optino per la registrazione, sembrando anzi quasi ricacciare nella disciplina privatistica
qualunque forza politica, ed in particolare quelle che vogliano approfittare del carattere derogabile delle
disposizioni più rilevanti della legge stessa. Resta da chiedersi, allora, se un nuovo intervento legislativo
potrebbe riuscire a migliorare l’impianto di tale disciplina, facendo almeno in modo che esso non finisca
per disincentivare quella democrazia interna che, nel titolo della legge, si dice di voler promuovere.
rappresentanza legale; la cadenza delle assemblee congressuali nazionali o generali; c) le procedure richieste per l'approvazione degli atti che impegnano il partito; d) i diritti e i doveri degli iscritti e i relativi organi di garanzia; le modalità di partecipazione degli iscritti all'attività del partito; e) i criteri con i quali ((è promossa)) la presenza delle minoranze ((, ove presenti,)) negli organi collegiali non esecutivi; f) le modalità per promuovere ((...)), attraverso azioni positive, l'obiettivo della parità tra i sessi negli organismi collegiali e per le cariche elettive, in attuazione dell'articolo 51 della Costituzione; g) le procedure relative ai casi di scioglimento, chiusura, sospensione e commissariamento delle eventuali articolazioni territoriali del partito; h) i criteri con i quali sono assicurate le risorse alle eventuali articolazioni territoriali; i) le misure disciplinari che possono essere adottate nei confronti degli iscritti, gli organi competenti ad assumerle e le procedure di ricorso previste, assicurando il diritto alla difesa e il rispetto del principio del contraddittorio; l) le modalità di selezione delle candidature per le elezioni dei membri del Parlamento europeo spettanti all'Italia, del Parlamento nazionale, dei consigli delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano e dei consigli comunali, nonché per le cariche di sindaco e di presidente di regione e di provincia autonoma; m) le procedure per modificare lo statuto, il simbolo e la denominazione del partito; n) l'organo responsabile della gestione economico-finanziaria e patrimoniale e della fissazione dei relativi criteri; o) l'organo competente ad approvare il rendiconto di esercizio;”
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6. Modelli regolativi degli statuti e democrazia interna
La riflessione sulla democrazia interna e più in generale sul modello organizzativo dei nostri partiti
richiederebbe ovviamente uno spazio meno limitato, ma sembra utile ricordare almeno qualche dato. A
fronte di una disciplina legislativa elastica infatti, alcuni partiti optano per la rigidità del modello regolativo
interno, come si evince ad esempio dalla vicenda odierna, o dai limiti all’adesione (più stringenti per il
M5S di quelli previsti da altri partiti, ad es. su cittadinanza e maggiore età); o dalla selezione plebiscitaria
del leader e delle candidature, che nel M5S ricorre con metodo di votazione telematica, che per brevità
definirò “opaca”. Analogamente poco rispettosa del metodo democratico si può ritenere invero una
disciplina all’opposto troppo elastica, come quella riscontrabile nel modello seguito dal partito
democratico, che si avvale del carattere “aperto” delle votazioni primarie, non riservate agli iscritti, ma
estese a tutti gli elettori, oltre che della natura derogabile delle norme che le regolano. L’introduzione
delle primarie con tali caratteri sembra avere un duplice effetto negativo, perché da un lato, si viene così
a porre un’enfasi sul solo momento della selezione della leadership, senza tentare alcun recupero della
partecipazione e della militanza, del dibattito sul territorio; allo stesso tempo poi, si finisce con le modalità
richiamate, che hanno caratterizzato nell’ultimo quindicennio le primarie stesse, col sottrarre alla base del
partito alcune scelte fondamentali, che rischiano di venire annacquate tramite la partecipazione se non
addirittura la “scalata” (soprattutto in ambito locale) di soggetti esterni al partito.
Più in generale l’assenza di un reale radicamento popolare e di un decentramento territoriale indebolisce
la democrazia interna per tutti i nostri partiti e molta strada sembra da percorrere prima di giungere a
risolvere questi problemi. A fronte di una crisi senza precedenti che sta colpendo, a seguito delle elezioni
del 2018 il sistema costituzionale e politico, solo una rinascita della partecipazione politica popolare
potrebbe contribuire a rinvigorire la rappresentanza politica. La strada indicata è forse semplicistica e allo
stesso tempo di arduo percorso, ma essa sembra l’unica idonea per tentare di riportare le istituzioni
rappresentative a contrastare l’irrilevanza in cui sono cadute, sullo sfondo della crisi dell’Unione europea
e della prepotente influenza dispiegata dagli equilibri della finanza globalizzata.
7. Ipotesi di violazione del libero mandato e strumenti di tutela
Con le brevi osservazioni che precedono si è tentato di offrire un minimo contributo alla riflessione sul
tema del seminario, principalmente dal punto di vista delle vie di uscita normative dal problema. É ora
necessario tentare, almeno in queste ultime righe, di delineare gli strumenti di tutela suscettibili di essere
azionati a fronte di una eventuale applicazione della norma “incriminata”, contenuta nel regolamento-
statuto del gruppo parlamentare di cui si discute. In questo senso, è necessario esaminare due possibili
livelli di tutela giurisdizionale.
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Data la già richiamata qualificazione giuridica dei nostri partiti come associazioni non riconosciute, sin
dagli anni ’60 gli studi di alcuni tra i migliori civilisti italiani si sono soffermati sulla questione della tutela
giurisdizionale dei diritti del singolo iscritto dalle decisioni del partito e gli strumenti azionabili in tal senso
dinanzi alla giurisdizione ordinaria (P. Rescigno). Di recente, in tale ambito sembra essersi aperto uno
spiraglio alla possibile applicazione diretta di norme costituzionali, ed in particolare dell’art. 49 Cost. La
norma infatti è stata direttamente applicata per risolvere il caso Lusi, deciso dal Tribunale civile di Roma
nel 2015. Nella controversia tra il parlamentare e il partito che lo aveva espulso la decisione a favore del
ricorrente con l’annullamento del provvedimento di espulsione in applicazione dell’art. 49 Cost. è
sembrata mostrare una possibile via di uscita da una lacuna negli strumenti di tutela che oggi si palesa in
maniera sempre più evidente10
Nonostante non risulti essersi poi avuta una ulteriore applicazione della norma costituzionale nella
giurisprudenza ordinaria, analogo risultato a favore dei ricorrenti, tramite lo svolgimento di un sindacato
non meramente formale sui provvedimenti di espulsione, si è avuto con alcune pronunce cautelari,11 poi
confermate nel merito con sentenze del 201812, relative alle espulsioni operate dal M5S nei confronti di
alcuni iscritti in prossimità delle primarie comunali. Tali decisioni sembrano dimostrare la percorribilità
di una verifica non meramente formale del rispetto della democrazia interna tramite l’applicazione delle
norme del codice civile a favore dei singoli espulsi, dato che il “non statuto” non disciplina tali aspetti.
Sebbene tali esiti giurisdizionali possano essere accolti con favore in relazione alla tutela così garantita ai
ricorrenti, non pare tuttavia sufficiente affidare la tutela dei diritti degli espulsi e, più in generale, delle
minoranze interne ai partiti, alla sola disciplina codicistica (e in questi casi, in particolare, all’applicazione
in via analogica delle norme relative alle associazioni riconosciute). La democrazia interna ai partiti politici
non sembra rappresentare un problema che possa essere adeguatamente tutelato tramite una disciplina
come quella prevista per i diritti dei membri delle associazioni non riconosciute, dettata per ben
disciplinare ben altri fenomeni ed avendo in mente un contesto molto diverso da quello odierno. Si
riconferma quindi la potenziale utilità di una disciplina più rigorosa dell’assetto dei partiti, in grado di
10 Tribunale di Roma, III sez. civ., 19 febbraio 2015 il giudice ha infatti ritenuto che "l'esclusione dal partito, comminata senza la preventiva contestazione degli addebiti e senza consentire all'interessato alcuna possibilità di interloquire al riguardo deve considerarsi in contrasto con i principi costituzionali che tutelano la libertà di associazione e il metodo democratico cui devono ispirarsi le associazioni partitiche che concorrono a determinare la politica nazionale, con conseguente invalidità della delibera di espulsione oggetto della presente impugnazione che, pertanto, deve essere annullata". 11 Trib. Roma III sez. civ. 12 aprile 2016, RG n. 19678/2016; Trib Napoli, sez. VII, 14 luglio 2016, RG n. 15161/2016. 12 Trib Roma, XVI sez civ, febbraio 2018 e Trib Napoli, sentenza n. 3773 del 18 aprile 2018.
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produrre effetti di incentivazione e di creazione di dinamiche virtuose, favorevoli alla partecipazione e
compatibili con una sana dialettica interna alle forze politiche.
Per quanto concerne il secondo possibile livello di tutela, è necessario prendere in esame l’ipotesi della
giustiziabilità di tali situazioni dinanzi alla Corte costituzionale.
Da questo punto di vista si può innanzitutto ricordare come un giudizio avente ad oggetto il sindacato
diretto sul rispetto delle norme costituzionali (artt. 67, 49 o anche 68 Cost.) da parte degli statuti dei
gruppi, non sembra potersi ritenere una via percorribile né per la via del giudizio di legittimità
costituzionale, non essendo tali atti compresi tra quelli su cui la Corte può giudicare ex art. 134, né per
altri canali, poiché la fattispecie rappresenterebbe una classica ipotesi di sindacato sugli interna corporis,
come tale da sempre ritenuto inammissibile dalla Corte costituzionale.
Provando allora a verificare l’azionabilità del giudizio per conflitto di attribuzione, anche in questa ipotesi
una serie di ostacoli si palesano immediatamente all’ipotetico percorso processuale. Il primo problema
sembra sorgere dal punto di vista soggettivo, poiché, né il singolo parlamentare né tantomeno i gruppi
parlamentari sono ascritti nella giurisprudenza della Corte tra i poteri dello Stato (né tantomeno tra coloro
che, all’interno di un potere, sono “legittimati a dichiarare in via definitiva la volontà del potere cui
appartengono”, ex art. 37 della legge n. 87 del 1953). Il contrasto dovrebbe quindi sorgere tra l’intera
Camera, che si dovrebbe immaginare possa adottare un ipotetico provvedimento in esecuzione delle
norme statutarie incriminate, e l’autorità giudiziaria investita di un giudizio involgente il provvedimento
stesso. Dobbiamo quindi immaginare che il Presidente della Camera (o del Senato) ad es. dia seguito a
provvedimenti di espulsione da un gruppo parlamentare con annessa sanzione nei confronti di un singolo
deputato (o senatore) prendendoli a presupposto (gli esempi potrebbero essere molteplici13, si pensi al
Caso Villari del 2009). Dal punto di vista oggettivo tuttavia sorgerebbe anche in questo caso il problema
dell’insindacabilità degli interna corporis, con un’unica possibile eccezione. L’inviolabilità della sfera del
diritto parlamentare offre infatti un possibile varco, in base al celebre precedente della sent. n. 379 del
1996, il caso dei parlamentari “pianisti”, che consente all’interno delle Camere l’applicazione del principio
di legalità, la “grande regola dello stato di diritto”, e la sua garanzia giurisdizionale, in una sola ipotesi.
Solo laddove si tocchino diritti fondamentali della persona la Corte ha ritenuto che tale sfera, altrimenti
impenetrabile, si apra al controllo dell’autorità giudiziaria. Dunque, il conflitto tra poteri è ipotizzabile a
queste condizioni, per vero di difficile concretizzazione, nel caso di specie, e solo così il potere
giurisdizionale potrebbe tentare di entrare a mettere in discussione la sovranità e autonomia delle Camere
13 Si pensi al caso Villari del 2009, conclusosi con la revoca di tutti i componenti della Commissione di vigilanza sulla Rai.
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nell’interpretare i propri regolamenti, che disciplinano ruolo dei gruppi, loro statuti, poteri e ruolo del
Presidente.
Pur nella consapevolezza degli ostacoli presenti su questa via, tentare di aprire una breccia nella sfera
impenetrabile del diritto parlamentare a garanzia dei principi fondamentali di cui si è discusso in questo
seminario è un’operazione che può e forse deve essere fatta (come evidenziato in questo seminario tra gli
altri in particolare da B. Caravita) anche solo per segnalarne la centrale rilevanza al dibattito pubblico.
di Michele Carducci
Professore ordinario di Diritto pubblico comparato Università del Salento
Le dimensioni di interferenza del «contratto» di governo e l'art. 67 Cost.
1 3 G I U G N O 2 0 1 8
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Le dimensioni di interferenza del «contratto» di governo e l'art. 67 Cost. *
di Michele Carducci
Professore ordinario di Diritto pubblico comparato Università del Salento
Sommario: 1. Dubbi e interrogativi 2. La comparazione degli accordi di coalizione 3. Le discontinuità del «contratto» M5S-Lega e il silenzio del Quirinale 4. Le «catture» dell'autonomia politica
1. Dubbi e interrogativi
Al momento dello svolgimento del Seminario, non era stato ancora formato il nuovo Governo e, con
esso, non era ancora "entrato in vigore" - se così può dirsi - il «contratto per il Governo del cambiamento»,
sottoscritto da Luigi Di Maio e Matteo Salvini.
Adesso che il Governo c'è, gestirà il rapporto di fiducia con le Camere, concretizzerà l'indirizzo politico
di maggioranza, sarà possibile osservare le dinamiche conseguenti all'utilizzo e al rispetto (o meno) degli
strumenti regolativo-contrattuali, fortemente voluti e promossi dal "Movimento 5 Stelle": il «contratto»,
da un lato, con cui sono definiti contenuti di azione e metodi di raccordo con le attività dei parlamentari,
e lo Statuto dei Gruppi parlamentari, dall'altro, dove, in particolare agli articoli 2 n. 5 e 21 n. 2 lett. e)-j), si
dispone sull' «adempimento delle proprie funzioni», rispetto al programma del Movimento, e sulle «sanzioni per
mancato adempimento».
Quali vincoli produrrà la combinazione di questi strumenti? Nei confronti di chi? Come? Con quale forza
normativa? Con quali effetti su contenuti e disposizioni di altra natura e provenienza, comprese quelle
costituzionali? Con quale nesso tra obblighi "contrattuali" e sanzioni statutarie? Gli interrogativi sono
inediti non in quanto tali, ma proprio per la "situazione costituzionale" di riferimento1, segnata non più
semplicemente dalla mediazione politica, com'è stato fino ad oggi2, ma dalla "contrattualizzazione
* Intervento alla Tavola rotonda “Gli statuti dei gruppi parlamentari alla prova dell’art. 67della Costituzione”, Roma, 16 maggio 2018. 1 Sul concetto di "situazione costituzionale" nella comparazione diacronica e sincronica delle vicende politico-costituzionali, si v. J.J. Gomes Canotilho, Constituição dirigente e vinculação do legislador, Reimpressão, Coimbra, 1994, 204 ss., ed E. Ostrom, Collective Action and the Evolution of Social Norms, in 14 J. Econ. Perspective, 3, 2000, 137-158. 2 Sul quadro più recente di questo passato, si v.: la Sezione monografica su La riflessione scientifica di Piero Alberto Capotosti sulla forma di governo, in Nomos, 5, 2015, 3-53; V. Tondi della Mura, Il paradosso del «Patto del Nazareno»: se il revisore costituzionale resta imbrigliato nella persistenza di un mito, in Rivista AIC, 2, 2016, 1-32; I. Ciolli, Ascesa e declino dell’attività di mediazione politica. Dai governi di coalizione all’espansione dei poteri monocratici del Presidente del Consiglio, in Costituzionalismo.it. 2, 2017, 1-27, e ivi bibliografia aggiornata.
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formalizzata" dell'indirizzo politico in termini di metodo di controllo - diretto e indiretto, come si vedrà
- dell'azione dei titolari di uffici.
Il contributo che si presenta mira a offrirne alcune molto sintetiche coordinate di risposta, sul fronte
specifico del rapporto tra «contratto» di governo e art. 67 Cost.
Ad oggi, il «contratto» M5S-Lega è stato letto in tre modi diversi: se ne è affermata la sostanziale
riconducibilità ai già noti «accordi di coalizione»3; se ne è stigmatizzata la strumentalità semantica4; se ne
è rimarcata la incostituzionalità (o "extra-costituzionalità") dei contenuti di merito e metodologici,
soprattutto nella loro prima versione resa pubblica5. I contributi di discussione sono transitati pure in sedi
non propriamente scientifiche, alimentando una dossologia molto coinvolta e poco utile a quell'esercizio
intellettuale di distacco, che anche il giurista, in quanto scienziato sociale, dovrebbe garantire. Si pensi alla
ipotizzata "similitudine" tra Gran Consiglio del Fascismo e "Comitato di conciliazione"6, organo
dettagliatamente disciplinato nella prima stesura del «contratto», ma poi sopravvissuto in modo molto
sfumato nel testo definitivo, con rinvio a successivo accordo. La semplice formalizzazione di meccanismi
"para-arbitrali", dichiaratamente ispirati al Paragrafo XIV dell'ultimo Koalitionsvertrag tedesco ma
disinvoltamente decontestualizzati dai parametri costituzionali, elettorali e regolamentari parlamentari del
Paese d'origine, ha comunque indotto ad attribuire a quella "disposizione contrattuale" una propria
inedita forza di condizionamento, che di inedito, invero, rivela ben poco, dato che, nella evidenza delle
prassi di coalizione, sono invece i livelli di trasparenza e verificabilità delle sedi e delle procedure di
confronto interpartitico ad aver segnato tale forza di condizionamento7.
La tendenziale sovrapposizione tra osservazione dei processi e commento di singoli eventi - ricorrenza
tipica dei "nuovi casi" politici8 - ha indotto all' "isomorfismo" nella qualificazione delle forme e dei
processi prodotti dagli attori politici.
Al contrario, io credo che l'esperimento, ormai avviato, di "bipopulismo perfetto di tipo coalizionale e
contrattuale"9 richieda sforzi ulteriori di distacco analitico, allo scopo di verificare se effettivamente gli
strumenti introdotti dal "Movimento 5 Stelle" segnino discontinuità o fratture con il passato
costituzionale dell'Italia.
3 Ad es. V. Baldini, Il contratto di governo: più che una figura nuova della giuspubblicistica italiana, un (semplice …) accordo di coalizione, in Diritti Fondamentali 1, 2018, editoriale 24 aprile 2018, 1-6. 4 O. Chessa, “Contratto di governo”: una riflessione sulle nuove parole del diritto pubblico, in laCostituzione.info, 17 maggio 2018. 5 In tale senso, si caratterizzati i commenti su testate giornalistiche e blog. 6 R. Bin, Il "contratto di governo" e il rischio di una grave crisi costituzionale, in laCostituzione.info, 16 maggio 2018 7 Cfr., per spunti sull'Italia, A. Criscitiello, Alla ricerca della collegialità di governo: i vertici di maggioranza dal 1970 al 1994, in Riv. It. Sc. Pol., XXVI, n. 2, 1996, 365-389. 8 Lo avverte B. Guy Peters, Politica comparata (1998), trad. it., Bologna, il Mulino, 2001, 163 ss. 9 Nella denominazione di M. Mandato, G. Stegher, Il tormentato avvio della XVIII Legislatura e la perdurante crisi di regime, in Nomos, 1, 2018, 4.
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I fenomeni di coalizione possono essere analizzati in molteplici modi10, anche dal punto di vista giuridico,
con riguardo soprattutto alle loro potenzialità di interferenza su quattro fronti: quello delle regole e
regolarità della discrezionalità dei singoli organi costituzionali (si pensi al ruolo del Presidente della
Camera, appartenente al soggetto politico che ha adottato tanto lo Statuto del Gruppo parlamentare
quanto il «contratto»); quello delle formule e contenuti, ai quali si dichiarano vincolati i singoli titolari
degli uffici di quegli organi (si pensi alla formula del giuramento nell'interesse "esclusivo" della Nazione
da parte dei Ministri parlamentari, doppiamente vincolati al «contratto» e allo Statuto del Gruppo di
provenienza)11; quello dei rapporti interorganici e dell'autonomia delle loro funzioni (si pensi all'esercizio
della funzione di controllo parlamentare sul Governo oppure alla sfiducia al singolo Ministro, in nome
del «contratto»); quello dell'attivazione dei canali di "giustiziabilità", con riferimento evidentemente alle
forme di accesso al giudice, compreso quello costituzionale12.
Ma i fenomeni di coalizione possono essere comparati anche nella loro specifica dimensione negoziale13,
ossia analizzando le clausole contenute negli accordi o «contratti»14, da cui traggono origine.
2. La comparazione degli accordi di coalizione
Da tale angolo di visuale, è importante verificare se e come tali clausole, piuttosto che interferire
dall'esterno su funzioni e poteri di organi e uffici, costituiscano invece autoregolamenti dei titolari degli
uffici, in termini di autonoma adesione a condivisi selettori strategici di orientamento e funzionalizzazione
della propria libertà di mandato parlamentare15.
La lettura dei pochi documenti di coalizione resi pubblici, sembrerebbe confermare l'ipotesi. Ne
scaturirebbe anche una minima classificazione di modelli.
10 Cfr. M. Vercesi, Le coalizioni di governo e le fasi della politica di coalizione: teorie e riscontri empirici, in XIX Quad. Sc. Pol., 2, 2012, 233-299. 11 In Italia, tra i primi a cogliere questi due intrecci fu P. Barile, La Costituzione come norma giuridica (1951), Firenze, Passigli, 2017. 12 Gli ultimi due profili richiamati contraddistinguono soprattutto il più recente dibattito tedesco in tema di «contratti» politici come soft law: cfr. I. von Münch, A German Perspective on Legal and Political Problems of Coalition Governments, in 30 VUWLR, 1999, 65-73. 13 Secondo una logica di osservazione dei fenomeni politico-costituzionali, che Guy Peters (op. cit., 24 ss.) ha definito di "doppia entrata". 14 Il termine «contratto» di governo, com'è noto, è stato utilizzato dal M5S sull'esempio della Germania, per indicare l'intesa tra soggetti politici elettoralmente avversari, dettata dalla necessità delle circostanze e finalizzata a sbloccare lo stallo delle fasi prodromiche al procedimento di formazione del Governo. Sembra utile ricordare che un simile lessico sia stato suggerito anche da chi, come Roberto Bin, ha poi aspramente criticato contenuti e metodo del «contratto» effettivamente siglato (Il "contratto di governo". Le procedure vengono prima dei contenuti, in laCostituzione.info, 28 aprile 2018) 15 Sulla complessità ermeneutica dei collegamenti volontari tra libertà, vincoli e mandati, cfr. la prospettiva teorica di F. Maisto, Il collegamento volontario tra contratti nel sistema dell’ordinamento giuridico, Napoli, ESI, 2002.
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Si riscontrano modelli di accordo, improntati soltanto alla formalizzazione e gestione della correttezza
comportamentale dei partiti coalizzati in quanto tali (ossia al di là del ruolo dei singoli soggetti aderenti),
poco dettagliati nel merito e proiettati invece su un metodo comune di lavoro connesso a previsioni
costituzionali che ammettono comunque l'esistenza di coalizioni: è l'esempio del Second Coalition
Government Agreement del 2015, nel Regno del Lesotho, sottoscritto dai rappresentanti di sette partiti per
l'attuazione condivisa, durante la legislatura, dell'art. 87 della Costituzione. In questa situazione, l'accordo
funge da integrazione contingente di una specifica previsione normativa costituzionale, che
indirettamente lo riconosce.
Al contrario, le disposizioni dell' "Accordo 2013-2017 tra ČSSD, ANO 2011 Movement e KDU-ČSL", nella
Repubblica Ceca, risultano molto più dettagliate, in quanto assumono ad oggetto il monitoraggio costante
delle priorità temporali del programma, attraverso un duplice nesso funzionale: il primo, tra "principi" e
"obblighi" disposti dall'accordo e incombenti su più soggetti, singoli o associati, in ragione del ruolo, se
parlamentare o di governo, e della sede, se istituzionale o interna ai singoli partiti (prevedendo persino
forme differenziate di sottoscrizione del documento); l'altro, tra correttezza "negoziata" dei
comportamenti delle parti (per esempio, l'obbligo della forma scritta nelle comunicazioni tra i
rappresentanti dei partiti coalizzati) e correttezza "autonoma" di gestione delle proprie strutture
organizzative (per esempio, per le iniziative dei parlamentari e dei gruppi rispetto all'attuazione del
programma). Qui l'accordo attiva un doppio livello di autoregolazione: di gestione diretta del rapporto di
coalizione; di salvaguardia dell'autonomia politica delle singole organizzazioni coinvolte.
Il modello esclusivamente programmatico ottativo contraddistingue invece l'olandese Coalition Agreement
Confidence in the Future 2017-2021. In questo testo, la leale collaborazione interpartitica è presupposta e
non viene dunque verbalizzata; come non verbalizzato risulta il nesso funzionale tra accordo e azione
parlamentare e di governo. In simili situazioni, l'accordo non è altro che un programma di governo.
Queste tassonomie interne agli accordi, qui sinteticamente accennate, offrono spunti di discussione
interessanti per l'attuale scenario italiano, forse più utili anche rispetto alle consolidate classificazioni che
in Austria e Germania, sin dai tempi di Weimar16, e nel Regno Unito, di recente17, hanno invece
privilegiato l'inquadramento dell'accordo di coalizione come mero "fatto" costituzionale e non come
"atto" volontario di collegamento tra titolari di uffici e funzioni degli organi.
16 Cfr. A. De Petris, Sunt pacta politica etiam servanda?: gli accordi di coalizione nella forma di governo tedesca, in Dir. Pubbl. Comp. Eur., 2, 2014, 761-797, e A Bridge over Troubled Waters?, in Rivista AIC, 2, 2018, 1-46, e ivi biblio. 17 Cfr. V. Bogdanor, The Coalition and the Constitution, London, Hart, 2011, e A. Seldon, M. Finn (eds.), The Coalition Effect, 2010–2015, Cambridge, Cambridge University Press, 2015.
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Infatti, l'atto volontario di collegamento potrebbe anche rintracciare una sua plausibile legittimità
costituzionale in termini, per esempio, di libertà di manifestazione del pensiero e libertà di associazione
appunto dei singoli titolari degli uffici. Una recente decisione della Suprema Corte de Justicia de la Nación
mexicana, riguardante la legittimità degli accordi tra partiti e la incostituzionalità dei possibili vincoli
derivanti sui rappresentanti eletti, sembra averlo ammesso, inquadrando le intese interpartitiche come
manifestazione multidimensionale di facoltà di soggetti privati (i partiti come associazioni e i singoli come
persone fisiche), titolari di uffici non sottoposti a vincoli di mandato e, proprio per questo, non
espropriabili delle libertà costituzionali a tutti riconosciute18.
In altri termini, leggendo gli accordi/«contratti», emergerebbe la constatazione che le loro clausole
potrebbero fungere da verbalizzazione di queste libertà, esercitabili appunto in ragione dell'assenza di
vincoli di mandato e dunque attivate come adesione volontaria delle parti. La "contrattualizzazione", di
conseguenza, non farebbe altro che rendere "visibili" questi antecedenti della dinamica costituzionale,
comunque esistenti tra titolari di uffici, ancorché molte volte relegati nelle "zone grigie" della rilevanza
giuridica19. Del resto, in tale direzione si mosse anche il dibattito tedesco degli anni Settanta e Ottanta sul
rapporto tra autonomia della politica e normatività della Costituzione, nella scansione delle regole
costituzionali in Verfassungsaufträge e Verfassungsbefehlen20: l'atto politico negoziato, piuttosto che
"privatizzare" la politica, la legittimerebbe in termini concreti rispetto agli spazi di discrezionalità e libertà
abilitati dalla Costituzione, dato che la stessa normatività costituzionale non opererebbe aprioristicamente
come monolitico complesso di significati univoci e unitari, ma giostrerebbe tra "imposizioni
costituzionali" su poteri e funzioni, "direttive costituzionali" su diritti e libertà, "determinanti
costituzionali" sui significati, al cui interno orientare le facoltà di azione del soggetto titolare dell'ufficio.
è come se si dovesse leggere l'art. 67 della Costituzione italiana insieme non solo agli articoli 49 o 92-95
Cost., ma anche, se non soprattutto, "in combinato" con gli artt. 18 e 21 Cost., appunto in tema di libertà
intellettuali (quindi di ideazione politica) e di associazione (quindi di libera modalità di ideazione).
Nelle recenti discussioni italiane, non sembra emerso un siffatto orientamento di analisi. Al contrario,
molta dossologia di blog e social è arrivata a invocare l'art. 67 della Costituzione italiana quasi come una
specie di figurino dell'art. 346 bis del Codice penale.
18 Acción de inconstitucionalidad 27/2009, Tesis jurisprudencial 43/2010, Gaceta, Novena Época, Tomo XXXI, abril de 2010, 1561. 19 Sulla importanza di questa area di osservazione dei fenomeni costituzionali, mi permetto di richiamare M. Carducci, Tra "zone grigie" e "antecedenti" della forma di governo, in Riv. Gruppo di Pisa, 22 settembre 2017, 1-10. 20 Cfr. G. Zimmer, Funktion-Kompetenz-Legitimation, Berlin, Duncker & Humblot, 1979, 59 ss., ma si pensi poi all'approccio sistemico di quegli anni sulla "legittimazione attraverso il procedimento".
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3. Le discontinuità del «contratto» M5S-Lega e il silenzio del Quirinale
Proviamo a vedere che cosa succede a inquadrare l'inedito «contratto» M5S-Lega nella prospettiva della
comparazione delle clausole.
Il "Movimento 5 Stelle" non è nuovo alla "contrattualizzazione" formale della proposta e della
mediazione politica21. In un contesto che aveva già conosciuto la personificazione della premiership di
governo, con i simboli elettorali contenenti il nome del "Presidente" del Consiglio dei Ministri, la ricerca
del vincolo diretto con gli elettori, con il c.d. "contratto con gli italiani" di Berlusconi, e la diffusa
diffidenza verso i c.d. "cambi di casacca nel palazzo" - oggetto, quest'ultimo, di tentativi di
formalizzazione negoziale anche da parte della coalizione di centrodestra durante l'ultima campagna
elettorale - anche il "Movimento 5 Stelle" e i suoi singoli componenti non si sono sottratti alle diverse
occasioni loro offerte di dichiararsi formalmente impegnati su determinati contenuti. Lo hanno fatto nei
confronti sia di istituzioni come l'ASVIS, aderendo agli impegni sullo sviluppo sostenibile, sia di specifici
gruppi organizzati, come quello NoTap.
L'introduzione del voto di coalizione nella legislazione elettorale delle camere non ha ostacolato questa
tendenza22: correndo da solo, il "Movimento 5 Stelle" ha cavalcato la propria autonomia di contratto nei
rapporti con l'elettorato e, dopo il risultato elettorale e la composizione dei gruppi parlamentari, ha potuto
far valere questa autonomia nei confronti degli altri partiti, inaugurando l'offerta dei "due forni".
Ma quale legittimazione specifica è stata rivendicata dal Movimento a sostegno della sua offerta
contrattuale? La Relazione, elaborata per conto del Movimento dal gruppo di lavoro coordinato dal Prof.
Giacinto della Cananea, contiene qualche indizio di risposta. È stato commissionato un rapido confronto,
in tempi molto stretti, fra il programma M5S e quelli del PD e della Lega (dunque negando rilevanza al
voto di coalizione ammesso dalla legge ed esercitato dai cittadini nei confronti dell'offerta elettorale di
centrodestra). Questo confronto si è tradotto in una serie di ricorrenze lessicali, tematiche e finalistiche,
riprodotta come quadro sinottico di «ordine dei fini e dei mezzi», redatto nella esplicita presupposizione,
dichiarata dal Coordinatore del gruppo, che l'azione di governo, «prescindendo da ogni considerazione circa i
modi con cui il Parlamento possa esercitare la sua funzione fondamentale di indirizzo politico», si esplicherebbe per
definizione «in un ambito indeterminato e indeterminabile»23, al cui interno proporre uno schema di accordo
finalizzato a far comprendere alle forze politiche «ciò che esse non vogliono, dato ciò che esse non sono» (punti 2,
4 e 5 della Relazione). Neppure un accenno è stato dedicato all'incidenza delle clausole degli accordi di
21 Più in generale, F. Pinto, Politica e contratti: una anomalia italiana, in questa Rivista, 11, 2018. 22 Si v. le condivisibili osservazioni di A. Ferrara, Formazione del Governo e vincoli di coalizione, in questa Rivista, 4, 2018, 1-6. 23 Quindi in una concezione della discrezionalità come attività libera sia nel fine che nelle modalità.
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coalizione su organi, rapporti tra organi, uffici e titolari degli uffici nel quadro della Costituzione italiana,
né al nesso di queste dinamiche con il voto di coalizione "implicito" attivato dai meccanismi della nuova
legge elettorale. Pur rivendicando l'utilità dello «studio comparato delle istituzioni» (punto 5 della Relazione), lo
schema di accordo è offerto al Movimento nella più assoluta decontestualizzazione del suo apparato
regolativo rispetto a regole e regolarità del diritto costituzionale: un prodotto "in vitro". In una logica di
Policy Seeking, si è cercato di impostare il Win Set minimo per soddisfare la richiesta bilaterale dell'intesa (i
"due forni")24.
Questa esperienza di preparazione dell'accordo di coalizione appare ben diversa e discontinua rispetto a
tutte le precedenti, incluse quelle che, anche in passato, sembravano voler conciliare l'inconciliabile (dalle
"convergenze parallele" al "patto della staffetta"). Quegli atti e le loro clausole, nelle diverse modalità e
circostanze in cui venivano rese pubbliche, risultavano serventi alle funzioni costituzionali proprie del
Governo e del Parlamento (dalle dichiarazioni programmatiche del Presidente del Consiglio al rapporto
di fiducia, alla collegialità del Governo). Operavano nella presupposizione della omogeneità reciproca
degli attori contraenti (partiti politici omogeneamente strutturati nella loro organizzazione interna e nella
loro composizione formale verso i cittadini e gli organi costituzionali). Seguivano a meccanismi elettorali
privi del voto di coalizione "implicito". Fungevano, in definitiva, da "garanzia interna" agli organi
costituzionali, nei termini già osservati da Santi Romano durante l'esperienza statutaria, come fondamento
dell'edificazione delle convenzioni costituzionali. La loro eventuali lacune producevano antinomie
apparenti tra disposizioni negoziali e disposizioni costituzionali, in quanto la mancata previsione di un
impegno condiviso non veniva tematizzato come «ciò che [le parti] non vogliono, dato ciò che esse non sono»,
bensì come pieno e autonomo recupero di altre regolarità costituzionali di varia natura e provenienza
(consuetudinaria, di correttezza ecc...)25.
Il «contratto per il Governo del cambiamento» traccia un'altra storia. Per la prima volta concordemente reso
pubblico e liberamente votato dagli elettori dei due partiti contraenti, esso si fonda sulla reciproca
inconciliabilità: una inconciliabilità, si badi, dichiaratamente assiologica, prima ancora che deontologica,
ancorché volutamente ignorata dalla "comparazione" dei programmi commissionata al gruppo del Prof.
della Cananea; una inconciliabilità che né il Koalitionsvertrag tedesco né l'Agreement inglese, entrambi evocati
nella Relazione del gruppo di lavoro, assumono come presupposizione dell'accordo.
24 Sul minimalismo analitico di questo tipo di osservazione delle coalizioni, cfr. G. Capano et al., Manuale di scienza politica, Bologna, il Mulino, 2014, 220 ss. 25 L'imprescindibile studio di A. Ruggeri, Le crisi di Governo tra ridefinizione delle regole e rifondazione della politica, Milano, Giuffrè, 1990, ha offerto un quadro ricognitivo di questa normalità regolativa dei rapporti tra partiti, coalizioni e organi costituzionali, "aggiornata"e "adeguata" nel corso della c.d. "seconda Repubblica".
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Tale inconciliabilità spiega anche la inedita composizione delle clausole del «contratto». Sul piano dei
soggetti, esso parla di "parti", identificate nei due sottoscrittori (i "capi politici" dei due partiti), che si
scambiano «reciprocamente ulteriori impegni metodologici», riguardanti, come oggetto, «il completamento del
programma di governo, la cooperazione tra forze politiche, il coordinamento all'interno del governo, anche in sede europea, e
la verifica dei risultati conseguiti», ma coinvolgenti altre figure soggettive non ben definite (i "contraenti", le
"forze politiche", i "gruppi parlamentari") o addirittura omesse ancorché presupposte (il Presidente del
Consiglio, nella misura in cui si assume il «coordinamento all'interno del governo», previsto dall'art. 95 Cost.,
come «impegno metodologico» dei sottoscrittori). Il nesso tra oggetto e soggetti appare dunque segnato esso
stesso da una serie di presupposizioni contraddittorie: si presuppone che "forze politiche" e "gruppi"
siano di fatto e di diritto ("contrattuale") dipendenti (o almeno condizionabili) dai due sottoscrittori; ma
nel contempo si presuppone che le clausole di carattere appunto metodologico, relative alle ricerca del
consenso per appianare eventuali dissensi, alla definizione di contenuti di merito non esplicitati
dall'accordo, all'onere della reciproca correttezza, all'intesa tra gruppo parlamentare e iniziativa legislativa
del singolo appartenente, derivino tutte dalla incondizionata autonomia politica dei due sottoscrittori e
dei loro rapporti con gli organi e le strutture di provenienza, in una sostanziale pari dignità di tutti i
soggetti parlamentari (in assenza della quale, l'ipotesi stessa di "accordo" per l'iniziativa legislativa,
suggerita dal «contratto», non avrebbe senso). Con questo intreccio di enunciati, il richiamo alla
Costituzione, verbalizzato nel «contratto», si manifesta come un obbligo di stile.
Ecco allora che, dal punto di vista delle sue clausole, il «contratto» M5S-Lega, ancorché discontinuo
rispetto alle prassi negoziali precedenti italiane, appare confusamente meno incisivo e dirompente degli
omologhi modelli rintracciabili in altre esperienze di coalizione, prima accennate. Esso sembra vincolare
personalmente i due "capi partito" piuttosto che produrre effetti esterni di condizionamento di altri
soggetti titolari di uffici. La sua "causa" non risiede nell'uso dei procedimenti costituzionali, bensì nel
rapporto interpersonale (di dichiarata diffidenza) dei due sottoscrittori. Non a caso, il contenuto di merito
risulta ancor più evanescente, dato che le clausole effettivamente "impegnative" per i sottoscrittori, in
termini di tempi e modalità di realizzazione, coprono una parte minima del testo, che permane ottativo e
dilatorio. è vero che il «contratto» è stato votato, a scrutinio segreto, anche dai parlamentari (oltre che dai
cittadini aderenti) nelle consultazioni promosse dai due partiti; ma non è stato da loro specificamente
sottoscritto come "patto parasociale" (a differenza di alcune esperienze straniere richiamate e a differenza
di quanto richiesto per altri tipi di impegno dei parlamentari, come il "codice etico" di M5S), sicché quel
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voto si è nutrito di quella dimensione ibrida e simbolica, ormai diffusa anche nelle sedi istituzionali di
esercizio della funzione deliberativa26.
Forse è stata questa particolare struttura del «contratto» - priva di assiologie condivise e sfilacciata nella
deontologia negoziale - a convincere il Presidente della Repubblica a non manifestare specifiche
considerazioni sul suo conto. Dopo aver acconsentito alla strategia dei "due forni" di Luigi Di Maio,
attivando i due mandati esplorativi corrispondenti, egli ha anche dichiarato, nella comunicazione
conseguente alla rinuncia del Prof. Conte all'incarico, di aver accettato pure la richiesta di consultazione
elettorale sul «contratto». Di fatto, il Quirinale ha preso atto dell'esistenza in sé dello strumento negoziale
M5S-Lega, senza nulla specificare, in un silenzio sintomatico della natura stessa del documento
interpartitico di riferimento: uno strumento dilatorio, prima ancora che un vero e proprio atto vincolante;
una verbalizzazione di impegni interpersonali, piuttosto che un vero e proprio atto di autoregolazione
volontaria della libertà di pensiero, associazione e azione di diversi titolari di uffici; un atto alla fin fine
ininfluente sull'autonomia dei parlamentari (dato che di essi si parla solo sul fronte dell'iniziativa
legislativa, ma non su altri, né su quello della comunicazione e della condivisione degli obiettivi) e solo
indirettamente riferito al ruolo del Presidente del Consiglio.
Con queste premesse, il c.d. "veto presidenziale" alla proposta del Prof. Paolo Savona ha cagionato una
inevitabile tensione con i "contraenti", prima ancora che con il Presidente del Consiglio, fino a quel
momento lasciati liberi di vincolarsi nelle modalità e nei contenuti non contestati dallo stesso Capo dello
Stato. Perché opporsi a un Ministro dell'Economia, non in linea con le "definizioni" di politica economica
e finanziaria della UE (art. 2 n. 3 TFUE), ma inserito in una prospettiva contrattuale pubblicamente
garantita dell'impegno dei due sottoscrittori e non contestata dal Capo dello Stato? Perché non
parlamentare e quindi estraneo al «contratto» al pari del Presidente del Consiglio proponente? Perché
espressivo di un indirizzo politico di governo diverso da quello "contrattualizzato"27? Nonostante
l'invocazione di "precedenti" presidenziali, utilizzati senza alcun Distinguishing, e l'evocazione della teoria
dell' "indirizzo politico costituzionale" di Paolo Barile (nel caso di specie, verosimile se il Capo dello Stato
avesse discusso di metodo e merito del «contratto» in sede di proposte di nomina), l'atto presidenziale ha
manifestato, per esplicita ammissione del suo artefice, una semplice preoccupazione personale, dentro
una cornice di azione resa inedita e confusa da quel «contratto», non indicativo della titolarità della guida
del governo, ma esplicativo delle sue politiche e, indirettamente, del loro coordinamento.
26 Cfr., sul tema, F. Biondi Dal Monte, Svelare il voto. La percezione del voto parlamentare tra comunicazione politica e rappresentanza, in Osservatorio sulle fonti, 1, 2017 (http://www.osservatoriosullefonti.it). 27 Il c.d. "Piano B" del Prof. Savona, invero assai difficilmente concretizzabile in termini costituzionali.
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Se gli atti dei poteri dello Stato manifestano pur sempre una propria Rationabilitas28, quelli del Capo dello
Stato, tra silenzi sugli atti "negoziali" e preoccupazioni personali sui soggetti, hanno certificato un'apertura
a forme di "contrattualizzazione", tanto innovative quanto evanescenti nelle loro ricadute costituzionali;
comunque ammesse, pur di scongiurare uno stallo tra partiti altrimenti irrisolvibile; forse necessarie, per
assenza di un Core Party a causa del nuovo sistema elettorale, se si volesse far propria una recente tesi di
Curini e Pinto29; in ogni caso, alla fine, assunte legittime e legittimate.
4. Le «catture» dell'autonomia politica
Quello delle coalizioni è un campo di innumerevoli variabili30: variabili interne al sistema costituzionale
(regole e regolarità e loro caratteristiche impositive o abilitative, sistemi elettorali, composizione dei partiti
ecc..) e variabili esterne (di condizionamento e "cattura" dei regolatori coalizionali). Se le variabili interne
consentono di decifrare il reciproco potere di coalizione degli attori coinvolti31, quelle esterne offrono la
misura dell'effettiva autonomia politica dei singoli titolari di uffici che autoregolamentano per via
contrattuale i propri selettori di orientamento e funzionalizzazione delle scelte e delle azioni.
La vicenda del «contratto per il Governo del cambiamento» consegna interrogativi e qualche certezza sulla
rilevanza di queste variabili esterne. In un contesto globale di depoliticizzazione della legittimità32, dove
l'indirizzo politico di qualsiasi maggioranza e le funzioni di controllo delle sue regolarità, un tempo
considerate espressioni massime della discrezionalità costituzionale33, appaiono "catturate" dalle ragioni
(anche private) dell'economia34, i singoli sembrano ricorrere al «contratto» come unico residuato di
autonomia politica, una via di connessione diretta tra voto e impegno istituzionale35, una specie di
28 Cfr. M. Perini, Il seguito e l'efficacia delle decisioni costituzionali nei conflitti fra poteri dello Stato, Milano, Giuffrè, 2003, 262 ss. e 366 ss. 29 L. Curini, L. Pinto, Breaking the Inertia: Government Formation Under the Shadow of a Core Party. The Italian Case Throughout the First Republic, in Party Politics online, 2011, 502-522, questa Rationabilitas transita su Core Party. 30 M. Tushnet, Why are there no Coalition Governments in the United States? A Speculative Essay, in Boston Univ. L. Rev., 94, 2014, 961-969. 31 T. König, G. Tsebelis, M. Debus (eds.), Reform Processes and Policy Chance: Veto Players and Decision-Making in Modern Democracies, New York, Springer, 99 ss. 32 Nella rappresentazione "frammentata" della costituzionalità, cara a G. Teubner. 33 Si pensi al dibattito degli anni Settanta e Ottanta sulle funzioni costituzionali di controllo e di garanzia, nelle diverse impostazioni di Mortati, Galizia. Galeotti, Manzella, tutte orientate appunto all'autonomia funzionale della discrezionalità costituzionale. 34 R. Manfrellotti, Il Presidente della Repubblica garante della stabilità economico-finanziaria internazionale. Considerazioni a margine di un Governo che non nacque mai, in Osservatorio AIC, 2, 2018, 1-5. 35 Cfr. spunti in A. Katsanidou, C. Eder, Vote, Party, or Protest: The Influence of Confidence in Political Institutions on Various Modes of Political Participation in Europe, in 16 Comp. Eur. Pol., 2, 2018, 290-309.
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"controlimite politico" agli input europei che rispettano le "identità costituzionali" solo come output di
conformità36.
Con il «contratto» ci si vincola reciprocamente, in modo pubblico e persino votabile dai cittadini; ora
anche certificato come legittimo e legittimato dal Capo dello Stato, ma forse - e comunque per come è
stato congegnato questo «contratto» - largamente ininfluente al di fuori del sinallagma personale dei "due
capi" e della simbolizzazione del consenso e del mandato parlamentare.
36 Cfr. S. Polimeni, L'identità costituzionale come controlimite, in IANUS, 15-16, 2017, 49-90, e la particolare tesi di A. von Bogdandy, S. Schill, Overcoming Absolute Primacy: Respect for National Identity under the Lisbon Treaty, in 48 Common Market L. Rev., 5, 2011, 1417–1454.
di Augusto Cerri
Professore emerito di Istituzioni di diritto pubblico Sapienza – Università di Roma
Osservazioni sulla libertà del mandato parlamentare
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Osservazioni sulla libertà del mandato parlamentare*
di Augusto Cerri Professore emerito di Istituzioni di diritto pubblico
Sapienza – Università di Roma
.Sommario: 1. Il divieto di mandato imperativo ed i rimedi esperibili per tutelarlo. 2. Le insuperate ragioni
storiche del divieto di mandato imperativo. 3. Coerenza del divieto di mandato imperativo con il moderno
principio di eguaglianza.
1. Il divieto di mandato imperativo ed i rimedi esperibili per tutelarlo.
Lo statuto dei gruppi parlamentari ha carattere, lato sensu, pattizio. Non saprei dire se ha natura
strettamente contrattuale o integra una “convenzione” che regola anche attività non esaustivamente
valutabili sul terreno patrimoniale. Sul punto, del resto, esiste una qualche discussione in dottrina.
La clausola che prevede una sanzione per inosservanza della disciplina del movimento (clausola penale)
è da ritenere, comunque, radicalmente nulla, perché in contrasto con “l’ordine pubblico” (applicazione
diretta o analogica dell’art. 1343 c. c.) e, segnatamente, con il principio di un esercizio dell’attività
parlamentare esente da vincoli di mandato (art. 67 Cost.).
La nullità di questa clausola potrebbe esser fatta valere in tutte le sedi giudiziarie nelle quali se ne
pretendesse l’adempimento o, comunque, se ne discutesse.
Problema ulteriore è se la nullità di questa clausola possa essere fatta valere (e da chi) anche senza
attendere una pretesa del gruppo parlamentare che tragga fondamento da quanto dispone.
Un’ipotesi potrebbe essere quella di un giudizio incidentale relativo ad una qualsiasi legge approvata dalle
nuove camere che facesse valere come vizio di questa la coartazione del dibattito parlamentare originata
* Intervento alla Tavola rotonda “Gli statuti dei gruppi parlamentari alla prova dell’art. 67della Costituzione”, Roma, 16 maggio 2018. L’Autore ringrazia l’on. Riccardo Magi per avermi inviato a questo interessante incontro di studio. L’incontro nasce dalla sollecitazione dell’on. Magi nei confronti del Presidente della Camera, perché valuti l’opportunità di un suo intervento in relazione allo statuto del gruppo “Cinque stelle”, nella parte in cui prevede una sanzione pecuniaria non lieve per inosservanza della disciplina del “movimento” da cui questo gruppo proviene.
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dallo statuto di un suo gruppo non certo secondario. L’ipotesi è tortuosa e di successo incerto, perché in
genere si nega possa aver rilievo sulla validità della legge lo stato soggettivo dei singoli parlamentari, a
differenza dei vizi che possono inerire alla funzione oggettivamente intesa (difetto di istruttoria
parlamentare, acquisizione di dati inesatti, etc.). Ciò è stato confermato dalla Corte costituzionale con la
sentenza n. 14 del 1965, per cui (punto 2 “in diritto”, alla fine): “L'art. 67 della Costituzione, collocato fra
le norme che attengono all'ordinamento delle Camere e non fra quelle che disciplinano la formazione
delle leggi, non spiega efficacia ai fini della validità delle deliberazioni; ma è rivolto ad assicurare la libertà
dei membri del Parlamento. Il divieto del mandato imperativo importa che il parlamentare è libero di
votare secondo gli indirizzi del suo partito ma è anche libero di sottrarsene; nessuna norma potrebbe
legittimamente disporre che derivino conseguenze a carico del parlamentare per il fatto che egli abbia
votato contro le direttive del partito”. Cfr., in senso conforme, Cons. Stato, sez. V, 10 giugno 2002, n.
3191 (con riguardo a voto dato in Consiglio comunale).
E, peraltro, la condizione soggettiva dei membri delle camere, anche se non rileva ai fini della validità dei
singoli atti, può assumere rilievo ai fini del complessivo corretto funzionamento dell’istituto di
rappresentanza del popolo.
Si tratta di stabilire, in sostanza, se è “praticabile” un’azione di accertamento volta ad ottenerne una
dichiarazione di nullità in via preventiva.
Un’azione di accertamento può essere proposta dal titolare di un diritto o di un interesse protetto (art. 24
Cost.) dinanzi al giudice ordinario, ma anche da un organo dello Stato, nella forma del conflitto tra poteri,
dinanzi alla Corte costituzionale. Il conflitto tra poteri, infatti, non è un giudizio strettamente
impugnatorio.
Penso si possa e si debba privilegiare, in questo contesto, che attiene a pretese e diritti inerenti all’esercizio
di una funzione pubblica di livello apicale, il rimedio del conflitto.
In un’azione di accertamento, quale è quella che si ipotizza, assume un rilievo di particolare intensità il
requisito dell’interesse ad agire, ad evitare un possibile “spreco” di attività giurisdizionale.
L’interesse è dato dalla necessità di un’azione giudiziaria per proteggere un diritto, secondo la ben nota
definizione chiovendiana, e dalla astratta adeguatezza a questo scopo del rimedio prescelto.
Nel presente caso viene in evidenza essenzialmente il primo requisito (necessità del mezzo).
La necessità dell’azione sembra sussistere sotto due profili.
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Perché, come ha osservato l’on. Magi, la clausola statutaria, benché nulla, può ingenerare nei parlamentari
iscritti al gruppo il ragionevole timore di dover subire una sanzione pecuniaria non certo lieve ove
inosservassero le direttive del Movimento; e questo ragionevole timore può perturbare il sereno e corretto
esercizio delle funzioni parlamentari.
Perché, inoltre, ogni altra sede di giudizio o di valutazione sembrerebbe non accessibile. Ho ascoltato le
interessanti considerazioni di altri colleghi che hanno partecipato a questo incontro di studio sostenendo,
con persuasivi argomenti (anche fondati su precedenti parlamentari), una competenza del Presidente della
Camera a sindacare eventuali illegittimità degli statuti dei gruppi. Ciò, dunque, palesa l’opportunità di
insistere, con argomentazioni rinnovate, presso il Presidente perché superi il suo iniziale atteggiamento
negativo. Ma se il Presidente dovesse confermarlo non sussisterebbe, all’interno al “diritto parlamentare”,
nessun rimedio ulteriore per rimuoverlo. Emergerebbe, allora, l’interesse a coltivare un’azione giudiziaria
esterna. L’interesse ad agire, specie nei “conflitti intra potere” (fra organi interni, cioè, ad uno dei tre
poteri tradizionali) presuppone che non esistano rimedi, di rilievo costituzionale, all’interno del potere
medesimo e ciò, dunque, concorre a qualificare il rimedio quale “residuale”, come mi sono permesso di
dire in altra sede.
Se il Presidente della Camera persiste nel ritenere la sua incompetenza ad esercitare una valutazione di
legittimità costituzionale degli statuti dei gruppi parlamentari, nonostante le argomentazioni di certo
plausibili addotte in senso contrario, per ciò stesso conferma che unica via per ristabilire i principi
costituzionali è quella di un conflitto dinanzi alla Corte costituzionale.
Ciò si dice a prescindere da ogni ulteriore considerazione sulla esaustività, in questo caso, dei rimedi
interni, esaustività che talvolta è stata messa in discussione, come nel caso della giurisdizione domestica.
In queste condizioni neppure sarebbe proponibile una eccezione che intendesse far valere la
insindacabilità delle valutazioni effettuate dagli organi delle camere. Ricordo le sentenze n. 78 del 1984 e
379 del 1996.
Nel caso, non ricorrono le condizioni per sottrarre alla valutazione del diritto generale vicende interne al
diritto parlamentare, perché difetta una qualificazione della fattispecie ad opera del regolamento della
Camera (sent. 379/1996: “Quando i comportamenti dei membri delle Camere trovino nel diritto
parlamentare la loro esaustiva qualificazione, nel senso che non esista alcun elemento del fatto che si
sottragga alla capacità qualificatoria del regolamento, non possono venire in considerazione qualificazioni
legislative diverse, interferenti o concorrenti, anche se da queste possa risultare il rafforzamento di un
giudizio di disvalore già desumibile dalla stessa disciplina regolamentare; non può pertanto essere
ammesso, in simili casi, un sindacato esterno da parte dell'autorità giudiziaria. Proprio in ciò consiste,
infatti, la riserva normativa -- che include il momento applicativo -- posta dagli artt. 64 e 72 della
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Costituzione a favore di ciascuna Camera. Si può anzi dire che l'essenza della garanzia contro
l'interferenza di altri poteri che la Costituzione riconosce alle Camere è data proprio dalla esclusività della
capacità qualificatoria che il regolamento parlamentare possiede allorché la disciplina da esso posta sia
circoscritta all'organizzazione interna di ciascuna Camera, ai procedimenti parlamentari e allo svolgimento
dei lavori.”).
In questo caso, infatti, non si tratta di una norma del regolamento della Camera ma di clausola statutaria
di un gruppo. Ed, inoltre, neppure è venuta in essere una valutazione di organo parlamentare competente
di cui si possa ipotizzare una qualche insindacabilità.
Soggetto attivo e passivo di un conflitto può essere il singolo parlamentare o anche il gruppo
parlamentare, in quanto attributari di competenze di livello costituzionale.
La giurisprudenza della nostra Corte non ha mai negato, in astratto, un conflitto promosso dal singolo
parlamentare a tutela dei suoi diritti, facoltà, poteri, del suo status complessivo, anche se poi ha
considerato, di volta in volta, non ammissibili le azioni proposte, ritenendo che veicolassero pretese
proprie anche della camera di appartenenza nel suo complesso e ritenendo, in questa area di
sovrapposizione, assorbente la legittimazione di quest’ultima, al punto tale da escludere anche un
intervento adesivo. Ha riconosciuto, peraltro, in astratto l’ammissibilità di conflitti del singolo
parlamentare in base a sole norme di immediata rilevanza costituzionale e non del regolamento della
camera di appartenenza (ordinanza n. 149/2017; ordinanza n. 280 del 2017).
È stata ammessa, con effetti operativi, una soggettività al conflitto delle commissioni parlamentari
d’inchiesta (cfr., ad es., sentenze n. 13, 231/1975; n. 241/2007; n. 26/2008; ), del Comitato parlamentare
per i servizi di informazione e sicurezza e per il segreto di Stato (decisioni n. 209 del 2003; 384 del 2004,
139 del 2007) e fin anche della Commissione bicamerale di vigilanza sulla radio televisione, non avvalorata
da previsione costituzionale (la Costituzione considera solo le commissioni interne a ciascuna camera e
non quelle bicamerali): cfr. sentenze n. 49 del 1998; n. 69, 174, 175 del 2009.
Deve, dunque, essere ammessa una soggettività al conflitto del gruppo parlamentare come tale, le cui
funzioni sono costituzionalmente avvalorate, ai sensi dell’art. 72, comma 3, Cost.
La giurisprudenza del giudice costituzionale federale tedesco, nell’ambito dei conflitti fra organi
(Organstreitigkeiten) ammette, in via non solo teorica, una soggettività ed una legittimazione del singolo
parlamentare per la difesa del suo complessivo status, per l’esistenza ed il concreto esercizio del mandato
ai sensi dell’art. 38 del Grundgesetz e del regolamento della camera di appartenenza e fin anche per una
eventuale e dimostrata violazione, nei suoi confronti, del principio di eguaglianza (cfr., ad es.,
BVerfGE,80 Band, 188, spec. 218; 94 Band, 351, spec. 366; 99 Band, 19, spec. 28, 30, etc.). Ammette anche
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una soggettività al conflitto di parti dell’organo, come minoranze, cui siano riconosciuti specifici diritti,
non, dunque, delle minoranze che di volta in volta emergono nell’approvazione di una legge (cfr., ad es.,
BVerfGE, 2 Band, 143, spec. 160 ss.; 60 Band, 319, spec. 325; 68 Band, 1, spec. 77, etc.). È implicito in
quanto detto che tale soggettività / legittimazione non può sovrapporsi a quella della camera tutt’intera
(cfr. K. Schlaich – Koriot, Das Bundesverfassungsgericht, München 2007, 56-57).
Le garanzie così assicurate debbono ritenersi, comunque, più penetranti di quelle che risultano dalla
giurisprudenza della nostra Corte in quanto lo scrutinio del Tribunale costituzionale tedesco non si arresta
di fronte ad una decisione degli organi competenti della Camera considerata.
Ma, nel caso, il diritto dei parlamentari e dei gruppi è messo in discussione non da decisioni degli organi
competenti delle Camera, ma dallo statuto di un altro gruppo.
Il diritto fatto valere è un diritto ad un dibattito adeguato, che risulta perturbato da una clausola
contrattuale che pone pesanti sanzioni a carico di chi, nel corso del dibattito, avesse a convincersi di
argomenti portati avanti da parlamentari appartenenti ad un diverso gruppo.
Il Parlamento è un luogo in cui si “parla” e la parola non è pura emissione di suoni inarticolati ma è
enunciato di proposizioni dotate di un significato e di un senso. Se il dibattito parlamentare è parte
inseparabile delle decisioni da prendere non può essere assolutamente sterilizzato da misura preventive.
Il risvolto attivo della libera manifestazione del pensiero si congiunge immancabilmente ad un risvolto
passivo dell’ascolto, senza di cui non ha senso. Impedire questo risvolto passivo significa ostacolare anche
quello attivo (cfr., ad es., sentenza n. 105 del 1972; 225 del 1974; 94 del 1977;112 del 1993). Ed, a fortiori,
non può ammettersi nell’ambito di un organo dello Stato fra le cui funzioni precipue rientra quella di
discutere.
Certo, sarebbe ingenuo pensare a continui mutamenti di opinione in seguito a dibattiti volti piuttosto a
garantire la trasparenza delle istituzioni.
Ma sembra anche innegabile che la circostanza per cui un parlamentare singolo o un insieme di
parlamentari o, addirittura, tutti i parlamentari eletti con una determinata “lista” si discostino, in tutto o
in parte, dalle indicazioni od anche dalle coalizioni elettorali è, nel vigente sistema, fatto da valutare solo
in sede politica, non produttivo, per sé, di conseguenze giuridiche. Ripeto, con la sentenza n. 14 del 1964:
“nessuna norma potrebbe legittimamente disporre che derivino conseguenze a carico del parlamentare
per il fatto che egli abbia votato contro le direttive del partito”. Ed, anche, come è ovvio, nessuna clausola
convenzionale o contrattuale.
Sia detto tra parentesi, il mutamento di casacca di un parlamentare è un fatto possibile ed anche
fisiologico, salvo risvolti penali (che debbono, peraltro, essere attentamente mediatati e dimensionati alla
stregua di una dinamica politica “fisiologica” e non “patologica”).
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L’interesse ad un dibattito corretto e fecondo, risvolto passivo inseparabile della libera manifestazione
del pensiero, sorregge un ricorso per conflitto contro un gruppo parlamentare che, nel suo statuto,
prevede una sterilizzazione dei suoi effetti.
Ragioni di soggettività e legittimazione al conflitto ed anche ragioni pratiche sembrano, invece, precludere
una valutazione, in sede di giustizia costituzionale, della composizione di un governo quando alcuni suoi
membri si ritengano vincolato ad una sorta di mandato imperativo. Legittimate al conflitto sarebbero solo
le camere, ma queste esprimono le medesime tendenze politiche della controparte ipotetica, in altri
termini, del governo.
2. Le insuperate ragioni storiche del divieto di mandato imperativo.
Si adduce in senso contrario la tradizione del mandato imperativo dei Parlamenti medievali ed anche il
sogno, sempre rinnovato, di una democrazia diretta”, da attuare attraverso un “ritorno alle origini”, prima
che la “rivoluzione borghese” ne prevedesse il divieto.
In seguito all’avvento dei grandi partiti di massa, il divieto di mandato imperativo è, senza dubbio, entrato
“in sofferenza”. Sul punto si sono cimentati vari illustri autori. Ricordo solo Georges Burdeau, quando
contrappone l’homme situé, protagonista della democrazia moderna, al citoyen, protagonista di quella
borghese, la difesa dei propri interessi, nel nuovo contesto, al “punto di vista nell’interesse generale”, nel
contesto di partenza (Traité de science politique, 7 voll., Paris 1949-57, passim ; Idem, La democrazia, trad. it.,
Milano 1964). Hanno così assunto rilievo i “programmi”, proposti dal partito come tale e non la sana
gestione dell’esistente affidata ai “notabili” che ispirano maggiore fiducia.
Il nuovo contesto dei partiti di massa fra loro contrapposti ha contribuito a trasformare istituti
tradizionali, come la riserva di legge, che tuttavia conserva risvolti di garanzia dati dalla pubblicità del
dibattuto e dalla trasparenza (ricordo Sergio Fois).
E, tuttavia, un puro ritorno al passato si è rivelato non praticabile ed il divieto di mandato imperativo è
sopravvissuto a tutti gli assalti, in quasi tutte le costituzioni. E, ciò, a tacer d’altro, per alcune ragioni.
Perché le decisioni da prendere in una società come quella attuale sono varie, complesse e, sovente,
impreviste.
Perché le valutazioni dei protagonisti della vita politica e, prima ancora, del corpo elettorale, sono, a loro
volta, complesse e bilanciate, non semplici e “monotone”, a differenza delle valutazioni dei parlamenti
medievali delle origini, che attenevano a pochi temi, fra i quali preminente era quello fiscale. Si è passati
dallo ius dicere allo ius condere e ciò ha comportato un accrescimento delle funzioni della camere non
contenibile in ordini del giorno scarni e semplici da discutere in convocazioni sporadiche. Già nei
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parlamenti “premoderni” , ad un certo punto, il mandato imperativo è entrato in sofferenza, perché
costringere, in seguito all’insorgere di temi nuovi da discutere e decidere, ad un anti economico ritorno
per riferire (ad referendum) alla base elettorale e per ricevere nuove istruzioni di voto, è apparso sempre più
anti economico e sempre meno sostenibile. È nata, così, la prassi del conferimento di una plena potestas,
che ha superato l’istituto del mandato imperativo (cfr.., ad es., G. Post, Studies in Medieval Thought. Public
law and State, Princeton - New Yersey 1964, 91).
Perché la base elettorale di ogni membro del parlamento è complessa e composita, data da un collegio
(constituency) delimitato in ragione del territorio e del numero delle persone residenti e non del ceto e dei
comuni interessi. Si può votare per una lista o una coalizione (controfigure del partito nella sede
elettorale), per vari motivi (perché si condivide una parte e non tutto il programma, ad es.) e non solo per
una condivisione totale del programma stesso.
3. Coerenza del divieto di mandato imperativo con il moderno principio di eguaglianza.
Ed allora, sembra anche si possa sostenere che il divieto di mandato imperativo, in quanto coerente ad
un collegio elettorale non commisurato ad interessi ab origjne omogenei, fondato cioè su una individual
regarding equality e non su di una bloc regarding equality è principio supremo del sistema costituzionale (ricordo
D. Rae, and D. Kates, J. Hocschild, J. Morone, C. Fessler), Equalities, Harward Un. Press, Cambridge
(Mass.) and London (England), 1981, 20 ss., 32 ss.).
Mentre nel diritto medievale il sistema corporativo era immediatamente parte dell’ordinamento generale
(nel senso che poneva norme, prevedeva tribunali cui tutti erano soggetti) nel diritto contemporaneo il
pluralismo sociale non è, di certo, cancellato, ma assume un rilievo indiretto, nel senso che crea vincoli
efficaci in specifici ambiti ma non immediatamente per i “terzi” e nel sistema complessivo.
Talvolta si distingue "égalité devant la loi" ed égalité dans le loi (L. Ingber, in AA. VV., sous la direction de R.
Dekkens, P. Foriers, Ch. Perelman, L'égalité, Bruxelles 1971-79 (voll. 8), I, 31 ss. L’égalitè devant le loi è,
per dirla con Carlo Esposito (Eguaglianza e giustizia nell'art. 3, in La Costituzione italiana - Saggi, Padova,
1954), pari soggezione di tutti i cittadini alle stesse fonti del diritto e agli stessi tribunali, fonti e tribunali
di un ordinamento alla cui formazione tutti partecipano. L’eguaglianza moderna comprende entrambi
questi profili e non si accontenta del secondo. Il passaggio è colto anche da uno studioso svizzero, da
uno studioso, cioè, di un sistema giuridico che è transitato dall’uno all’altro concetto di eguaglianza, in
una apparente continuità (cfr. S. Frick, Die Gleichheit aller Schweizer vor dem Gesetz, Aarau 1945, 54 ss., 74
ss., 105 ss.).
Il principio di eguaglianza moderno non accetta un’efficacia esterna immediata di vincoli che operano
nell’ambito interno di organizzazioni sociali, fuori da “cause contrattuali” socialmente feconde e
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condivise (suscettibili di esser valutate, come tali, dal giudice); cause contrattuali che impegnano, bensì, il
sistema ad offrire i presidi della coercizione (enforcement), ma restano, a loro volta, vincolanti solo fra le
parti e suscettibili di avere effetti solo riflessi per i terzi.
Un vincolo di mandato, invece, proietta il legame che vincola i membri di una organizzazione in una sfera
esterna che coinvolge, in via immediata, tutti coloro che hanno contribuito ad eleggere un deputato o
senatore, indipendentemente dai motivi (che possono esser non identici fra loro) che hanno sorretto la
loro scelta.
Il principio di eguaglianza ed il modo in cui viene declinato nel nostro sistema giuridico sembra essere,
appunto, un principio fondamentalissimo che ne determina l’identità.
In questo nuovo contesto, se si vuole accedere a strumenti di democrazia diretta, occorre impiegare istituti
nuovi come il recall, mentre non è consentito ripercorre le vie di istituti complessivamente superati.
di Adriana Ciancio
Professore ordinario di Diritto costituzionale Università di Catania
Disciplina di gruppo e tutela del parlamentare dissenziente
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Disciplina di gruppo e tutela del parlamentare dissenziente*
di Adriana Ciancio
Professore ordinario di Diritto costituzionale Università di Catania
Sommario: 1. Premessa – 2. Una questione non meramente politica: la portata dell’art. 67 Cost. nel circuito della democrazia rappresentativa – 3. Sulla natura giuridica dei gruppi parlamentari (cenni) – 4. La recente riforma del Regolamento del Senato e l’opportunità di valorizzare la figura del parlamentare cd. “indipendente” – 5. La natura giuridica dei gruppi ai sensi del Regolamento della Camera: i gruppi parlamentari come autonomie funzionali – 6. Statuti dei gruppi ed efficacia delle relative previsioni – 7. La problematica tutela del dissenso individuale dinanzi al giudice comune – 8. La prospettiva del conflitto costituzionale a tutela dei parlamentari “contro” i gruppi di appartenenza – 9. Attribuzioni del Presidente della Camera e attività di controllo sugli statuti dei gruppi parlamentari
1.Premessa
L’odierno contributo scaturisce dall’iniziativa dell’On. Riccardo Magi (membro della corrente “+Europa-
Centro democratico” del Gruppo Misto) di inviare il 9 aprile u.s. una lettera al Presidente della Camera
dei Deputati, On. Roberto Fico, al fine di conoscere quali iniziative quest’ultimo intendesse adottare con
riferimento alla statuto del gruppo parlamentare del “Movimento 5 stelle” (al quale lo stesso Presidente
dell’Assemblea, peraltro, aveva aderito sin dall’avvio della legislatura), trasmessogli, per la pubblicazione
sul sito Internet della Assemblea, entro 5 giorni dalla sua approvazione, ai sensi di quanto dispone l’art.
15, comma 2bis del Regolamento. In particolare, nella missiva si censurava la previsione contenuta all’art.
21 comma 5 del richiamato statuto (di cui si aveva notizia attraverso gli organi di stampa, nelle more
dell’effettiva pubblicazione), in base al quale “il deputato che abbandona il gruppo parlamentare a causa di espulsione
ovvero abbandono volontario ovvero dimissioni determinate da dissenso politico sarà obbligato a pagare, a titolo di penale,
al Movimento 5 stelle, entro dieci giorni dalla data di accadimento di uno dei fatti sopra indicati, la somma di euro
100.000,00”.
Il timore espresso dallo scrivente, in estrema sintesi, riguardava la circostanza che tale disposizione si
ponesse in palese contrasto con l’art. 67 della Costituzione, nel punto in cui sancisce la libertà del mandato
parlamentare, ritenuto principio fondamentale del vigente sistema di democrazia rappresentativa. Da qui
la sollecitazione rivolta al Presidente dell’Assemblea di intervenire con i provvedimenti ritenuti più
* Intervento alla Tavola rotonda “Gli statuti dei gruppi parlamentari alla prova dell’art. 67 della Costituzione”, Roma, 16 maggio 2018.
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opportuni a garantire l’istituzione nel suo complesso, oltre che la posizione e le prerogative dei singoli
deputati, quali previste dalla Costituzione e dal Regolamento parlamentare.
Di tenore sostanzialmente analogo era, poi, altra missiva, rivolta al medesimo destinatario due giorni
dopo dall’On. Stefano Ceccanti (deputato iscritto al gruppo PD), il quale, peraltro, avrebbe di lì a poco
richiamato in parte il contenuto delle questioni sollevate per iscritto anche nel corso di una successiva
seduta della Camera.
A tali sollecitazioni il Presidente dell’Assemblea rispondeva, a distanza di alcuni giorni, con la precisazione
che l’invio dello statuto dei gruppi è stato previsto, nella riforma regolamentare del 2012, soltanto a fini
di trasparenza e di pubblicità, in connessione agli obblighi di rendicontazione adesso gravanti sui gruppi
in relazione alle contribuzioni finanziarie di cui questi sono destinatari, ma che nessun potere di controllo
sulle manifestazioni di autonomia normativa degli stessi gruppi fosse stato introdotto con le accennate
modifiche del Regolamento generale della Camera. Tantomeno un tale potere sarebbe deducibile dall’art.
8 del medesimo Regolamento, che, nell’enunciare i compiti del Presidente dell’Assemblea, include, come
noto, quello di farne osservare le disposizioni, ma che, tuttavia, non comprenderebbe il sollecitato
intervento sugli statuti dei gruppi parlamentari, come risulterebbe confermato anche dalla recente prassi
parlamentare.
In conclusione, pertanto, il Presidente della Camera si dichiarava privo di un potere di riscontro della
conformità degli statuti dei gruppi alla normativa regolamentare e/o, persino, a quella costituzionale, nella
(invocata) perdurante assenza di specifiche previsioni dei regolamenti camerali, che di tale potere
disciplinino esercizio, limiti ed effetti sul piano dell’ordinamento parlamentare.
La risposta – come prevedibile – non lasciava soddisfatti i firmatari delle citate missive, che anticipavano
al proposito nuove iniziative, sollecitando anche il contributo della dottrina.
2. Una questione non meramente politica: la portata dell’art. 67 Cost. nel circuito della
democrazia rappresentativa.
Ed, invero, la vicenda richiama delicate problematiche di diritto costituzionale, sulle quali, pertanto,
conviene oggi ritornare1.
Tra esse, in ordine logico, non può non venire anzitutto in considerazione il rilievo che è da riconoscere
nell’attuale assetto di democrazia rappresentativa alla formula contenuta nella seconda parte dell’art. 67
della Costituzione, comunemente riassunta nei termini del cd. “divieto di mandato imperativo”. Orbene
– a parte la questione della problematica compatibilità dell’art. 21, V co. St. Movimento 5 stelle con tale
1 Per maggiori approfondimenti in materia può leggersi, sin d’ora, A. CIANCIO, I gruppi parlamentari. Studio intorno a una manifestazione del pluralismo politico, Milano, 2008, passim, spec. Cap. 3, interamente dedicato al tema odierno.
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assunto, da cui prendono spunto queste riflessioni – da tempo ormai, e talora insistentemente, varie forze
politiche rilasciano dichiarazioni ove si ventilano future iniziative di revisione costituzionale, tese ad
abrogare la disposizione secondo cui ciascun parlamentare “esercita le sue funzioni senza vincolo di
mandato”. Invero, tale intendimento sarebbe motivato, fra l’altro, con la necessità di porre un freno ai
frequenti cambiamenti di gruppo (cd. “mobilità parlamentare”)2, anche collettivi e persino trasversali agli
opposti schieramenti di maggioranza e opposizione, che, per lo meno dagli inizi degli anni ’903, hanno
contribuito a determinare un panorama parlamentare estremamente instabile e frammentario e comunque
non coincidente con il quadro politico scaturito dalle elezioni, sfociando non di rado nella costituzione
di nuovi gruppi in corso di legislatura, prodottisi per scissione da altri precedenti raggruppamenti e come
tali privi, al loro sorgere, di qualsiasi legittimazione elettorale. Peraltro, non può disconoscersi che tali
cambiamenti siano stati, anche di recente, provocati da episodi di effettivo dissenso politico dei
parlamentari cd. “transfughi” rispetto al gruppo di appartenenza, tanto più allorquando le cronache
registrano che sia quest’ultimo a discostarsi dai proclami elettorali e dagli enunciati programmatici, sicché
in queste ipotesi il contegno del parlamentare che abbandona il gruppo di originaria adesione andrebbe
interpretato come gesto di estrema coerenza politica nei confronti degli elettori4. E, tuttavia,
frequentemente il “cambio di casacca” dei parlamentari è apparso motivato da ragioni meno nobili, quali
quelle indotte da mero calcolo individuale, ovvero dal tornaconto strettamente personale in termini di
progressione nella carriera politica o, persino, da vantaggi di natura patrimoniale, manifestando in tali casi
i segni di un deprecabile trasformismo politico.
Da qui reiterate e varie sollecitazioni all’adozione di contromisure, che non di rado sono sfociate nei citati
appelli all’abrogazione del divieto di mandato imperativo, sostenuti a livello dottrinale dalla
considerazione del ruolo assegnato ai partiti nell’ordito costituzionale, in correlazione al principio della
sovranità popolare di cui al secondo comma dell’art.1 Cost. Invero, secondo taluni non potrebbe
ammettersi che i parlamentari operino nelle Assemblee in totale libertà sulla scorta di quanto previsto
2 Nella impossibilità di dar conto in questa sede della vastissima dottrina formatasi in proposito, sia consentito far limitato rinvio a A. CIANCIO, L’esercizio del mandato parlamentare nella normativa sui gruppi: disciplina vigente ed esigenze di riforma, in Scritti in onore di M. Scudiero, I, Napoli, 2008, 553 ss., spec. 562 ss., ed ivi gli opportuni richiami ad altra letteratura sul tema. 3 Per una puntuale ricognizione dei cambiamenti di gruppo avvenuti nella XII legislatura, cfr. C. DE CARO BONELLA, I gruppi parlamentari nella XII legislatura, in Rass. Parl., 1996, 360 ss.; e L. VERZICHELLI, I gruppi parlamentari dopo il 1994. Fluidità e riaggregazioni, in Riv. It. Sc. Pol., 1996, 398 ss. Per il riferimento ai dati sulla mobilità parlamentare nella XIII legislatura, cfr., poi, S. CURRERI, I gruppi parlamentari nella XIII legislatura, in Rass. Parl. 1999, 288 ss. 4 Sottolineano la difficoltà di stabilire a priori se siano i parlamentari “transfughi” o non piuttosto il gruppo cui hanno aderito (ovvero lo stesso partito nelle cui fila sono stati eletti) a non rispettare gli impegni elettorali, tra gli altri, A. SPADARO, Riflessioni sul mandato imperativo di partito, in Studi parl. Pol. Cost., 1985, 34; e N. ZANON, Il transfughismo parlamentare: attenti a non toccare quel che resta del libero mandato, in Quad. cost., 2001, 139-140.
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dall’art. 67 Cost., poiché tale conclusione si porrebbe in contrasto con il principio democratico, quale va
ricostruito dal combinato disposto degli artt. 1, 48 e 49 Cost., che sul punto fanno sistema e con cui il
contenuto dell’art. 67, pertanto, andrebbe necessariamente armonizzato. In base a tale ricostruzione, nel
moderno Stato pluralista il sistema sarebbe realmente democratico solo allorché l’apparato statale
recepisce la volontà politica del corpo elettorale attraverso l’intermediazione istituzionalizzata dei partiti,
che, nell’espletamento dei loro compiti, si porrebbero quali elementi di raccordo indefettibile tra la società
e gli eletti, questi ultimi riuniti nelle Assemblee elettive in gruppi. Gli elettori, infatti, non voterebbero
solo il partito, né tantomeno si limiterebbero a scegliere il candidato, a maggior ragione con un sistema
elettorale, come l’attuale, che non contempla il voto di preferenza e, pertanto, non lascia margine oltre
l’individuazione della forza politica per cui votare. In tale modello i gruppi parlamentari costituirebbero
il punto di snodo di un percorso, che muove dai cittadini e dal loro “concorso alla politica nazionale”,
tramite l’intermediazione essenziale dei partiti politici, che quel concorso sono chiamati a realizzare al
momento elettorale, per approdare “ai gruppi e ai comportamenti dei loro membri5. Ciò giustificherebbe,
in ultima analisi, la subordinazione di ciascun parlamentare (nonché dello stesso gruppo cui è iscritto) agli
intendimenti politici del partito (e/o della correlativa coalizione elettorale) e quindi prospettati agli elettori
al momento del voto6. In tal modo il circuito costituito dagli artt. 1, 48 e 49 Cost. fornirebbe i limiti entro
cui ricondurre la portata dell’art. 67, che verrebbe ridotta, allora, a previsione di mera organizzazione
costituzionale7.
A tale tesi si contrappone la dottrina maggioritaria, mettendo in luce la natura del divieto di mandato
imperativo quale principio di struttura dei moderni sistemi di democrazia rappresentativa, in quanto
condizione necessaria a “rendere possibile l’attività rappresentativa, intesa come agire per il popolo nella
sua totalità”8. E tale interpretazione impedisce, di conseguenza la stessa revisione, per così dire, in peius
dell’art. 67 Cost.9, baluardo di quei tentativi di modifica del Testo fondamentale, che, sotto la spinta di
un’aspirazione, per così dire, “moralizzatrice” della vita politico-parlamentare, intenderebbero attenuare
la libertà dei parlamentari, incrinando lo stesso principio del mandato non vincolato. Invero, pur senza
potersi disconoscere la funzione fondamentale dei partiti, destinati a selezionare ed esprimere gli interessi
5 Cfr. P. CARETTI, I gruppi parlamentari nell’esperienza della XIII legislatura, in Democrazia, rappresentanza, responsabilità, a cura di L. Carlassare, Padova, 2001, 54. 6 Così A. MANNINO, L’abuso della mobilità parlamentare: ripensare il divieto di mandato imperativo, in Quad. cost., 2001, 135 ss. 7 Secondo la lettura di A. MANNINO, La mobilità parlamentare tra principio democratico, rappresentanza nazionale e divieto di mandato, in Democrazia, rappresentanza, responsabilità, cit., 69 ss. 8 In tale senso, tra gli altri, E. W. BÖCKENFÖRDE, Democrazia e rappresentanza, in Quad. cost., 1985, 247. 9 Sull’inclusione del “nucleo essenziale” dell’art. 67 Cost. tra i limiti impliciti alla revisione costituzionale, per tutti, N. ZANON, Il libero mandato parlamentare. Saggio critico sull’art. 67 della Costituzione, Milano, 1991, passim, spec. 333.
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generali della collettività, rendendosene intermediari con le istituzioni10, tale funzione va declinata in
coerenza con la trasformazione della rappresentanza registratasi nel passaggio dallo Stato liberale
monoclasse a quello democratico pluriclasse, in cui la libertà del parlamentare, che rappresenta l’intera
Nazione (e non l’uno o l’altro gruppo di elettori o, peggio, gruppo di interessi) senza subire l’imposizione
di mandati vincolati si pone a garanzia della reale dialettica parlamentare e, in definitiva, di effettiva
democraticità del sistema11, nella misura in cui, oltretutto, offre un contrappeso allo strapotere altrimenti
assumibile dalle oligarchie di partito, che, in mancanza del divieto di mandato imperativo, potrebbero
facilmente ottenere la costante ed acritica ubbidienza degli eletti.
Il divieto di mandato imperativo, pertanto, va collocato al cuore dell’odierno sistema di democrazia
rappresentativa, tanto più se si considera che i partiti rappresentano solo uno – probabilmente il più
importante, e tuttavia non l’unico – strumento per consentire la partecipazione politica dei cittadini12. A
maggior ragione, poi, tale affermazione va ribadita nel contesto politico attuale in cui il partito politico
appare profondamente trasformato rispetto alla sua risalente configurazione come formazione sociale13,
avendo ormai in buona parte perso la tradizionale connotazione di partito di massa, per atteggiarsi, nella
maggior parte dei casi della più recente storia politica italiana, come partito “personale”14. Ciò contribuisce
a sfumare, nella nota querelle sul ruolo degli stessi partiti nella democrazia pluralista, la convinzione che
essi costituiscano (la sola) condizione indispensabile al raggiungimento dei compromessi necessari a
ricondurre la pluralità degli interessi individuali all’unità dell’interesse generale, che diversamente
resterebbe un’aspirazione metafisica ed ideale15, lasciando spazio alla diversa conclusione che esclude che
in una società pluralistica essi detengano “il monopolio della mediazione tra società e Stato”16.
10 Di recente in proposito, cfr., ex multis, P. MARSOCCI, Sulla funzione costituzionale dei partiti e delle altre formazioni politiche, Napoli, 2012; e M. GORLANI, Ruolo e funzione costituzionale del partito politico, Bari, 2017, spec. 146 ss. 11 Approfonditamente, sulle origini del divieto di mandato imperativo e sulla sua affermazione parallelamente ai principi della rappresentanza politica, cfr. ancora, per tutti, N. ZANON, Il libero mandato parlamentare, cit., 33 ss. 12 In tal senso già, ex pluribus, T. MARTINES, Partiti, sistema di partiti, pluralismo, in Studi parl. pol. cost., 1979, 15-16; e P. RIDOLA, Partiti politici, in Enc. Dir., XXXII, Milano, 1982, 97. 13 Sui partiti come formazioni sociali, per tutti, C. CHIMENTI, I partiti politici, in Manuale di diritto pubblico. II. L’organizzazione costituzionale, a cura di G. Amato –A. Barbera, V ed. Bologna, 1997, 51 ss. Sulle trasformazioni che hanno interessato negli ultimi decenni i partiti, nella dottrina più recente, v. F. SGRÓ, Legge elettorale, partiti politici, forma di governo, Padova, 2014, 172 ss.; e 209 ss. 14 Secondo la definizione di A. BARBERA, La Costituzione della Repubblica italiana, Milano, 2016, 73 ss. 15 Così, notoriamente, H. KELSEN, Essenza e valore della democrazia, trad. it., III ed., Milano, 1959, 57 ss. 16 Cfr. D. NOCILLA, Il libero mandato parlamentare, in Annuario 2000. Il Parlamento, Atti del XV Convegno annuale dell’A.I.C., Padova, 2001, 70.
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3. Sulla natura giuridica dei gruppi parlamentari (cenni)
Così ribadita la centralità del divieto di mandato imperativo nell’odierno circuito della democrazia
rappresentativa, può cominciare a trovare risposta l’interrogativo sull’efficacia delle previsioni, contenute
negli statuti dei gruppi (e/o di partito), che prevedono sanzioni per l’ipotesi di espulsione e/o di
abbandono volontario dal gruppo (ovvero dal partito).
In tale ottica, invero, le uniche sanzioni praticabili sarebbero di natura politica, tra cui, principalmente, la
mancata ricandidatura del parlamentare dissenziente. Conclusione, che si lega, peraltro, alla natura dei
gruppi, da considerare altra manifestazione – sul piano prettamente istituzionale - di quel pluralismo
politico che, posto a cardine del sistema democratico, si manifesta già sul piano sociale attraverso
l’aggregazione in partiti17. Invero, da tempo abbiamo argomentato la tesi che rinviene nei gruppi natura
associativa, con tutte le conseguenze connesse in termini di efficacia giuridica dei loro statuti18. E ciò,
principalmente, muovendo dal rilievo della non obbligatorietà – a termini di Costituzione formale –
dell’adesione dei parlamentari ai gruppi, a fronte del mero rinvio ad essi contenuto negli artt. 72 e 8219,
quali termini di riferimento per la costituzione delle Commissioni, rispettivamente, legislative e di
inchiesta. Viceversa la necessità di aggregazione in gruppi risulta tradizionalmente presente nelle
disposizioni dei regolamenti camerali20, come depone la previsione, in entrambe le Camere, del gruppo
misto, che avrebbe contribuito a trasformare in un vero e proprio obbligo per il parlamentare, sul piano
della Costituzione materiale, quello che la Carta fondamentale a rigore prefigurava quale un mero onere
per ciascun membro del Parlamento21, che volesse partecipare in tutte le sedi all’attività parlamentare,
dovendosi viceversa ritenere il parlamentare che non aderisse a nessun gruppo escluso solo dall’esercizio
della funzione legislativa (e, per di più, soltanto quando esercitata in sede decentrata) e dall’attività
ispettiva svolta in forma di inchiesta. Ciò che non intaccherebbe, tuttavia, il principio sulla pienezza e
libertà del mandato parlamentare, garantito dal richiamato art. 67 a tutti gli eletti, i quali, pertanto,
dovrebbero poter esercitare le funzioni parlamentari individualmente in tutte le occasioni per le quali non
è previsto l’intervento di Commissioni composte secondo il criterio della proporzionalità ai gruppi.
17 In tal senso anche Corte cost., sent. 9 marzo 1998, n. 49, in Giur. Cost., 1998, 553, che ha definito espressamente i gruppi parlamentari “il riflesso istituzionale del partito politico”. 18 Cfr., se si vuole, A. CIANCIO, I gruppi parlamentari, cit., 213 ss.; spec. 237 ss.; e 304 ss. 19 Nel medesimo senso già G. U. RESCIGNO, Gruppi parlamentari, in Enc. Dir., XIX, Milano, 1970, 781; e D. RESTA, Saggi sui gruppi parlamentari, Città di Castello, 1983, 20. 20 Al punto che l’appartenenza ad un gruppo costituirebbe una “condizione necessaria”, integrativa dello status stesso del parlamentare, così A. MANZELLA, Il Parlamento, II ed., Bologna, 1991, 70. 21 Spunti nel medesimo senso già in N. ZANON, I diritti del deputato “senza gruppo parlamentare” in una recente sentenza del Bundesverfassungsgericht, in Giur. Cost., 1989, II, 1162 ss.; cui, se si vuole, adde A. CIANCIO, I gruppi parlamentari, cit., 97 ss.
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Tuttavia, l’ispirazione, per così dire, “gruppocentrica” della nostra organizzazione parlamentare22, con la
connessa estensione del principio della rappresentanza proporzionale ai gruppi pressoché a tutti gli organi
interni delle assemblee parlamentari (con l’esclusione, alla Camera dei deputati, del solo Comitato per la
legislazione), unitamente alla previsione in entrambe le Camere del gruppo misto e la conseguente,
necessaria distribuzione fra gruppi di tutti i parlamentari hanno comportato che quella facoltà venisse
trasformata, in sede di attuazione regolamentare del Testo fondamentale, in vero e proprio obbligo per
gli eletti di aderire ad un gruppo, così da escludere sul piano della Costituzione materiale l’eventualità di
parlamentari cd. “non iscritti”23.
4. La recente riforma del Regolamento del Senato e l’opportunità di valorizzare la figura del
parlamentare cd. “indipendente”
E ciò per lo meno fino alla recente modifica del Regolamento del Senato dello scorso dicembre24, che ha
introdotto la figura del parlamentare cd. “indipendente”, sia pur limitatamente ai Senatori a vita, tanto di
diritto che di nomina presidenziale (art. 14, I co. Reg. Sen.). Previsione certamente da apprezzare nella
misura in cui inaugura la possibilità per taluni parlamentari di esercitare le proprie attribuzioni anche
singolarmente. Tanto più quando – come previsto nella citata novella – i gruppi si qualifichino
necessariamente come politici, dovendo adesso la loro costituzione al Senato realizzare, sostanzialmente,
la “fotografia” ad inizio della legislatura dei partiti e delle formazioni politiche, che hanno concorso nella
competizione elettorale, conseguendo seggi nel numero minimo richiesto per la formazione di un gruppo
(art. 14, IV co. Reg. Sen.)25, prevedendosi inoltre che la costituzione di nuovi gruppi in corso di legislatura
22 Di Parlamento “gruppocentrico” parla anche R. BIN, Rappresentanza e Parlamento. I gruppi parlamentari e i partiti, in La democrazia dei partiti e la democrazia nei partiti, a cura di S. Merlini, Firenze, 2009, 258. 23 Dubitava addirittura della legittimità costituzionale delle disposizioni regolamentari, che prescrivono la necessaria appartenenza degli eletti ad un gruppo M. BON VALVASSINA, Sui regolamenti parlamentari, Padova, 1955, 72, fondamentalmente per il rilievo che tale obbligatoria riunione in gruppi incrinerebbe il divieto di mandato imperativo, quantomeno impoverendone il significato e la portata. 24 Per un dettagliato esame della riforma cfr., A. CARBONI – M. MALAGOTTI, Prime osservazioni sulla riforma organica del Regolamento del Senato, in federalismi.it, 2018, n.1 25 Tali ultime modifiche della normativa regolamentare del Senato sembrano, pertanto, raccogliere gli auspici di quanti già da tempo ritengono la costituzione di gruppi in base al requisito del “comune indirizzo politico degli aderenti” come “la soluzione più coerente con il mandato politico che grava sugli eletti in base agli artt. 1, 48 e 49 Cost.”, così S. MERLINI, Natura e collocazione dei gruppi parlamentari in Italia, in Rappresentanza politica, gruppi parlamentari, partiti: il contesto italiano, a cura di S. Merlini, II, Torino, 2004, 12 ss. Analogamente, ex multis, V. COZZOLI, I gruppi parlamentari nella transizione del sistema politico-istituzionale. Le riforme regolamentari della Camera dei deputati nella XIII legislatura, Milano, 2002, 139 ss.; e S. CURRERI, Democrazia e rappresentanza politica. Dal divieto di mandato al mandato di partito, Firenze, 2004, 192, il quale, pertanto, valuta positivamente la citata riforma in ID., Osservazioni a prima lettura sulla riforma organica del Regolamento del Senato, in Rass. Parl., 2018, n.1, 637 ss. Contra, sull’esigenza di non conferire rilievo giuridico ai rapporti tra gruppi e partiti, cfr. già G. SILVESTRI, I gruppi parlamentari tra pubblico e privato, in Studi per L. Campagna, II, Milano, 1980, 299 ss.
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possa aver luogo solo come risultato della fusione di quelli già esistenti (art. 15, III co. Reg. Sen.)26. Invero,
per quanto venga mantenuta tutt’oggi l’anomalia del gruppo misto27 (art. 14, IV co. ult. alinea), la citata
modifica regolamentare appare, invero, maggiormente rispettosa della purezza dell’originario disegno
costituzionale, che depone nel senso che i gruppi parlamentari debbano inevitabilmente connotarsi
politicamente, restando altrimenti priva di senso compiuto la necessità di formare Commissioni che, in
omaggio al richiamato principio di corrispondenza proporzionale alla consistenza dei gruppi, ex artt. 72,
IV co. e 82 Cost., finiscano per riprodurre, sia pur in dimensione numerica ridotta, gli stessi rapporti di
forza tra le formazioni politiche esistenti e rappresentate nel plenum28.
Meno comprensibile risulta, invece, la motivazione per la quale quella possibilità di non aderire ad alcun
gruppo non sia stata estesa a tutti gli eletti (recte, senatori), consentendo in tal modo un’apertura, per così
dire, istituzionalizzata alla manifestazione del dissenso individuale dalle linee di azione politica dei gruppi
– ormai individuati come l’effettiva trasposizione in sede istituzionale dei partiti che si sono confrontati
in sede elettorale – che consenta di ricondurre anche il fenomeno della mobilità parlamentare entro i
binari della piena e genuina esplicazione della libertà del mandato parlamentare. Invero, accogliendo
suggerimenti altrove già espressi29, nell’introduzione e/o valorizzazione della figura del parlamentare
“non-iscritto” si potrebbe scorgere il grimaldello, che consentirebbe di scardinare l’apparente
inconciliabilità tra la salvaguardia della piena libertà del mandato parlamentare con l’opposta esigenza di
evitarne gli abusi, che apertamente contraddicono – oltre che il ruolo spettante ai partiti nel vigente assetto
democratico – lo stesso principio fondamentale della sovranità popolare30.
Ebbene, valorizzando il carattere meramente facoltativo dell’adesione ai gruppi, attraverso l’opportuna e
generalizzata introduzione nei Regolamenti camerali di una figura di parlamentare “non iscritto” o,
altrimenti detto “indipendente” ovvero, ancora, “senza gruppo parlamentare”, non soltanto non si
lederebbe il principio del libero mandato, ma altresì si potrebbe conseguire un sensibile contenimento
26 Critico per questo punto della riforma, nella misura in cui, non trovando allo stato corrispondenza nel regolamento della Camera dei deputati, potrebbe condurre ad una vistosa disomogeneità politica tra le due assemblee, pericolosa per la stabilità governativa, N. LUPO, La riforma del (solo) regolamento del Senato alla fine della XVII legislatura, in www.forumcostituzionale.it, 5 gennaio 2018, 2. 27 Definito un vero e proprio “monstrum” giuridico da M. VOLPI, Crisi della rappresentanza politica e partecipazione popolare, in Percorsi e vicende attuali della rappresentanza e della responsabilità politica, a cura di N. Zanon – F. Biondi, Milano, 2001, 124. 28 In questo senso, per tutti, V. CRISAFULLI, I partiti nella Costituzione, in Ius, 1969, 19 nota 30. 29 Sia consentito, anche per tale profilo, rinviare alle più ampie argomentazioni svolte nel nostro I gruppi parlamentari, cit., 298 ss. 30 La difficile conciliazione tra gli artt. 1 e 49 Cost., da un lato, e il successivo art. 67, dall’altro, è problema noto in dottrina, per cui sia sufficiente richiamare V. CRISAFULLI, Partiti, Parlamento, Governo, in La funzionalità dei partiti nello Stato democratico, Milano, 1967, poi in ID., Stato popolo governo. Illusioni e delusioni costituzionali, Milano, 1985, 214, allorché sottolinea come i principi desumibili dalle richiamate disposizioni rispondano a concezioni differenti della rappresentanza.
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del fenomeno della mobilità, sia pur subordinatamente ad altre e connesse modifiche dell’ordinamento
parlamentare, che conducano anzitutto all’eliminazione del gruppo misto, in quanto privo, per sua natura,
della caratterizzazione necessariamente politica, che – secondo la purezza del disegno costituzionale
originario – i gruppi dovrebbero necessariamente possedere al fine della loro costituzione. A ciò dovrebbe
accompagnarsi la previsione del divieto, per il parlamentare che abbandoni volontariamente il proprio
gruppo in corso di legislatura, di confluire in altro e differente gruppo di partito, da cui conseguirebbe la
correlativa posizione di “non iscritto”, con tutte le conseguenze in termini di perdita dei vantaggi
economici e logistici, che normalmente derivano dalla partecipazione ai gruppi. In tal modo, la mobilità
parlamentare, se pure per un verso risulterebbe funzionale all’effettiva garanzia della libertà del mandato
parlamentare, quale manifestazione estrema di dissociazione dalle linee di azione politica del gruppo di
originaria appartenenza, per altri versi – restando preclusa la possibilità di adesione ad altro gruppo,
unitamente ai limiti sulla costituzione di nuovi gruppi in corso di legislatura – eviterebbe di degenerare in
vistosa e deprecabile manifestazione di “mero” trasformismo politico, senza che ciò si risolva in
sostanziale lesione delle prerogative parlamentari, che dovrebbero poter essere esercitate dai membri delle
Camere anche individualmente, in tutte le occasioni in cui la Carta costituzionale non prevede l’intervento
di Commissioni formate in proporzione alla consistenza numerica dei gruppi parlamentari.
Né tale conclusione potrebbe venir inficiata dalla considerazione del pericolo di introdurre
nell’organizzazione dei lavori camerali un’eccessiva frammentazione politica, pregiudizievole alla stessa
funzionalità delle Assemblee e, al limite, in grado di mettere in pericolo persino la stabilità ministeriale.
Invero, pure il diritto comparato converge a dimostrare l’eccessiva ampiezza di tale preoccupazione, come
è possibile desumere già dal solo riferimento agli ordinamenti francese, tedesco e, persino spagnolo (sia
pur in quest’ultimo caso soltanto a livello locale)31, sistemi che – pur accogliendo pienamente il principio
del libero mandato – conoscono tutti altre e diverse forme di organizzazione assembleare, basate su
differenti forme di raccordo dei parlamentari all’assemblea di appartenenza, non necessariamente mediate
dalla confluenza in un gruppo32. E ciò anche a voler tralasciare l’esperienza del Parlamento europeo, la
cui organizzazione interna da sempre prevede la figura dei deputati “non iscritti”33, in connessione alla
31 Per una accurata analisi dei rimedi al fenomeno della mobilità parlamentare adottati in Spagna a livello locale, cfr. S. CURRERI, Partiti e gruppi parlamentari nell’ordinamento spagnolo, Firenze, 2005, 301 ss. Sul transfughismo a livello locale nell’ordinamento spagnolo, in precedenza anche T. GROPPI, La forma di governo a livello regionale e locale in Spagna, in L’organizzazione del governo locale. Esperienze a confronto (Italia, Spagna, R.F.T., Gran Bretagna, Francia, Austria, U.S.A.), a cura di S. Gambino, Rimini, 1992, 166 ss.; e ID., Sistemi elettorali e forma di governo. Il caso spagnolo, in Forme di governo e sistemi elettorali, a cura di S. Gambino, Padova, 1995, 127. 32 Più dettagliatamente in argomento, se si vuole, cfr. ancora A. CIANCIO, I gruppi parlamentari, cit., 277 ss. 33 Specificamente in argomento S. BARONCELLI, Efficienza e deputati indipendenti nel Parlamento europeo, in Nuove strategie per lo sviluppo democratico e l’integrazione politica in Europa, a cura di A. Ciancio, Roma, 2014, 99 ss.
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caratterizzazione – potrebbe dirsi – “necessariamente politica” dei gruppi parlamentari34, ma che, forse,
non sarebbe in questo caso un esempio del tutto conducente, non fosse altro che a livello europeo ancora
non può porsi un problema di stabilità governativa, in mancanza, fra l’altro, di una maggioranza e di
un’opposizione stabili, in quanto politicamente definite35, per quanto la recente modifica del sistema di
designazione del Presidente della Commissione appaia favorire l’evoluzione del sistema di governance verso
un approdo di tipo parlamentare36.
Piuttosto, l’ultima riforma regolamentare del Senato italiano sembra manifestare sul punto un’eccessiva
timidezza, se riguardata quale occasione mancata per prevedere in maniera estesa e generalizzata la
possibilità di non iscrizione ad alcun gruppo. Consapevoli della profonda trasformazione che tale
modifica determinerebbe quantomeno sotto il profilo dell’organizzazione e dell’attività parlamentare –
con la correlativa necessità di adeguare ad essa, nel tempo necessario, la complessiva normativa
regolamentare – non può non osservarsi come quella riforma avrebbe potuto sin da subito
opportunamente riguardare per lo meno il Presidente dell’Assemblea. Ciò invero avrebbe consentito di
ricondurre anche formalmente tale figura istituzionale a quella posizione di rigorosa imparzialità37, ove da
tempo la colloca la dottrina38, ma che nella prassi più recente appare voler essere smentita dalla decisione
dei Presidenti di aderire al gruppo corrispondente al partito di provenienza, anziché al gruppo misto (da
cui comunque derivano legami per lo meno di tipo burocratico-organizzativo con gli altri componenti),
come per consolidata pratica accadeva in precedenza39. Circostanza dalla quale può derivare anche il
semplice sospetto (che non gioverebbe al prestigio dell’istituzione) di un uso delle proprie attribuzioni,
che si faticherebbe a mantenere politicamente indipendente. Come, del resto, secondo taluni,
testimonierebbero già i fatti da cui queste brevi note prendono le mosse40.
34 Diffusamente sul tema, volendo, A. CIANCIO, Partiti politici e gruppi parlamentari nell’ordinamento europeo, in Pol. Dir., 2007, n.2, 153 ss.; e, più recentemente, ID., I partiti politici europei e il processo di democratizzazione dell’Unione, in federalismi.it, 2009, n. 9, 7 ss. 35 Considera remota la possibilità A. SAITTA, Il rapporto maggioranza-opposizione nel Parlamento europeo, in Profili attuali e prospettive di diritto costituzionale europeo, a cura di E. Castorina, Torino, 2007, 14 ss. 36 Cfr, in proposito C. CURTI GIALDINO, L’elezione di Jean-Claude Juncker a Presidente della Commissione europea: profili giuridico-istituzionali, in Le elezioni del Parlamento europeo del 2014, a cura di B. Caravita, Napoli, 2015, 29 ss., spec. 69. 37 La dottrina al riguardo è vastissima, sicché sia consentito in questa sede far limitato rinvio a A. CIANCIO, Riforma elettorale e ruolo garantistico del Presidente di Assemblea parlamentare: un modello in crisi?, in Dir. soc., 1996, 405 ss. 38 Secondo la nota definizione del Presidente di Assemblea, quale “uomo della Costituzione”, cfr. A. MANZELLA, Il Parlamento, III ed., Bologna, 2003, 142. 39 Sulle vicende che hanno riguardato in anni recenti elezione ed esercizio delle funzioni dei Presidenti delle Camere, in connessione alle trasformazioni subite dal sistema politico-partitico, cfr. i contributi raccolti nel volume I Presidenti di Assemblea parlamentare, a cura di e. Gianfrancesco – N. Lupo – G. Rivosecchi, Bologna, 2014. 40 V. retro in Premessa al §1.
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5. La natura giuridica dei gruppi ai sensi del Regolamento della Camera: i gruppi parlamentari
come autonomie funzionali
Per altri versi, l’aver ribadito il carattere meramente facoltativo – almeno a termini di Costituzione formale
– della riunione dei parlamentari in gruppi elide, come anticipato, la maggiore difficoltà che
tradizionalmente si opponeva alla ricostruzione, che individua nei gruppi parlamentari natura associativa
basandosi, principalmente, sul titolo volontario della scelta del gruppo nel quale confluire. Si tratta, invero,
di polemiche dottrinarie note e sulle quali non conviene in questa sede ritornare41, se non per sottolineare
come tale prospettazione sia alla fine refluita nella disciplina data ai gruppi con la modifica apportata nel
2012 al Regolamento della Camera, laddove viene ormai espressamente sancito che i gruppi parlamentari
sono “associazioni di deputati” (art. 14, I co. Reg. Cam.). A tale affermazione si accompagna, peraltro, il
riconoscimento del carattere necessario di tali soggetti rispetto al funzionamento della Camera, secondo
quanto previsto dalla Costituzione e dallo stesso regolamento, con una sottolineatura, pertanto, che pare
recepire le conclusioni cui pure si era giunti in sede di riflessione scientifica alcuni anni prima della
richiamata riforma42, allorché si era ritenuto di intravvedere nel fenomeno dei gruppi parlamentari i
caratteri delle cd. autonomie funzionali – introdotte nell’ordinamento italiano ancor prima della
costituzionalizzazione del principio di sussidiarietà, non solo nella sua dimensione verticale, ma anche,
per quanto qui maggiormente rileva, nella prospettiva orizzontale43– di cui appunto i gruppi
costituirebbero declinazione.
Ed invero il fenomeno ricorrente e consolidato dell’associazione dei membri delle assemblee elettive in
gruppi per il perseguimento di comuni obiettivi politici ricorda molto da vicino la problematica della
presenza nell’ordinamento di varie entità a base associativa, sorte spontaneamente per iniziativa dei
singoli aderenti in vista della realizzazione di interessi particolari e condivisi tra gli associati, cui
l’ordinamento finisce per attribuire funzioni di rilievo pubblicistico44. Infatti, una volta abbandonata la
pretesa di netta cesura tra enti pubblici e privati, su cui era imperniata la teoria tradizionale
sull’organizzazione – in omaggio ad una impostazione, per così dire, “neoliberale” dell’ordinamento a
garanzia del pluralismo sociale45 – non fa specie che accanto ai veri e propri enti pubblici (e al di là della
41 Per le differenti tesi formulate in dottrina sulla natura giuridica dei gruppi parlamentari è possibile leggere l’ampia disamina contenuta nel nostro, I gruppi parlamentari, cit., 30 ss. 42 Cfr. se si vuole, A. CIANCIO, I gruppi parlamentari, cit., 240 ss. 43 Sul tema cfr., almeno, A. POGGI, Le autonomie funzionali “tra” sussidiarietà verticale e sussidiarietà orizzontale, Milano, 2001. 44 Sulle varie ipotesi di attrazione nella sfera pubblicistica dei fenomeni associativi resta importante il riferimento a G. ROSSI, Enti pubblici associativi. Aspetti del rapporto fra gruppi sociali e pubblico potere, Napoli, 1979. 45 Tale filone di pensiero, di matrice cattolica, è deducibile dai numerosi scritti di P. RESCIGNO, Persona e comunità. Saggi di diritto privato, rist., Padova, 1987, ove viene reiteratamente espressa la convinzione che soltanto le forme
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difficoltà di ricostruirne unitariamente la categoria) possano sussistere altre figure compatibili con il
perseguimento di finalità di pubblico interesse, senza che esse debbano rinunciare alla propria natura di
enti di diritto privato. Il problema, semmai, consiste nella ricerca del punto di equilibrio tra le ragioni del
pluralismo e l’intervento pubblico diretto a limitare tali strutture associative. Detto altrimenti, resta da
definire il margine entro cui si può ritenere ammessa l’ingerenza dei pubblici poteri all’interno delle
strutture espressive dell’autonomia privata, senza che ne venga intaccata l’essenza.
Pur non essendo questa la sede per soffermarsi sul fenomeno con gli approfondimenti che pure esso
meriterebbe, sia sufficiente far cenno alla circostanza che si è comunque affermato un modello di
regolazione da parte dell’ordinamento statale di strutture associative, sorte in origine come altrettante
manifestazioni del pluralismo sociale, che hanno finito per essere attratte nella sfera dell’azione pubblica,
in funzione strumentale al perseguimento di interessi, che trascendono quelli particolari dei singoli
associati, attraverso un percorso di evoluzione delle medesime entità, che richiama molto da vicino la
genesi e lo sviluppo dei gruppi parlamentari46. Il diffuso fenomeno di riunione spontanea degli eletti sulla
base di un idem sentire e in vista di comuni finalità di azione politica ha condotto, infatti, l’ordinamento
generale a prestarvi prima riconoscimento e man mano ad attrarli sempre più nell’organizzazione e nel
funzionamento delle assemblee legislative, conferendo ad essi funzioni via via più rilevanti, anche in vista
del perseguimento di importanti finalità di pubblico interesse, senza che per ciò solo ne sia venuta meno
l’intrinseca connotazione di espressione del pluralismo sociale.
Da ciò consegue – e va ancora sottolineato – che le varie forme attraverso cui si esplica la
regolamentazione da parte dell’ordinamento generale degli organismi sociali a differente titolo attratti nel
circuito dell’azione pubblica non conducono di per sé ad escludere, ma semmai in taluni casi a
sovrapporre, i caratteri della formazione sociale47, come, per altri versi, dimostra la circostanza che aver
rinvenuto nell’Università i caratteri dell’autonomia funzionale48, non intacca la configurazione della
comunità scientifica quale fenomeno di natura associativa in cui si manifesta e sviluppa la personalità
dell’individuo, secondo la definizione più nota e generale di formazione sociale. Ciò che pare di dover
appunto ribadire anche con riferimento ai gruppi parlamentari, almeno finché essi condividano della
nozione non soltanto l’elemento cd. materiale, “dato dalla riferibilità del termine ad un insieme di persone
fisiche”, ma altresì l’elemento, per così dire, psicologico, che risiede nella volontà dei membri di appartenervi,
privatistiche ed una sostanziale posizione di immunità dal potere politico (e dalle connesse statuizioni legislative) possano apprestare effettiva garanzia del pluralismo. 46 Da ultimo, un’efficace sintesi di tale evoluzione può leggersi in N. LUPO, La disciplina dei gruppi parlamentari, nel mutare delle leggi elettorali, in Osservatorio sulle fonti, 2017, n.3, 3 ss. 47 In proposito, cfr. E. ROSSI, Enti pubblici e formazioni sociali, in Ente pubblico ed enti pubblici, a cura di V. Cerulli Irelli – G. Morbidelli, Torino, 1994, 111 ss. 48 Così ancora A. POGGI, Le autonomie funzionali, cit., 127 ss.
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cui si lega la possibilità inversa di cessare in qualsiasi momento di farne parte (come garantisce il
richiamato divieto di mandato imperativo), cui si accompagnano gli ulteriori requisiti della tendenziale
“stabilità” dell’aggregato sociale, nonché lo scopo effettivo, che deve in ogni caso trascendere l’interesse
dei singoli componenti49.
6. Statuti dei gruppi ed efficacia delle relative previsioni
Le considerazioni che precedono consentono, pertanto, di dare una risposta più approfondita agli
interrogativi che pongono le norme di autorganizzazione dei gruppi parlamentari, allorché prescrivono
agli aderenti doveri di comportamento e, in connessione, sanzioni per le trasgressioni, cui va riconosciuta
una forza che – come già accennato – è tutta e solamente politica e coma tale priva di corrispondenza sul
piano dell’ordinamento generale. A ciò si collega l’assenza di garanzie giuridiche per il caso di
inosservanza di quelle regole e la connessa inidoneità ad essere azionate.
Invero, tali conclusioni appaiono strettamente collegate alle altre, già raggiunte, sulla natura giuridica dei
gruppi, poiché le convinzioni maturate circa il loro carattere essenzialmente associativo sono già
sufficienti a ricondurre le regole da essi espresse nell’ambito delle manifestazioni di autonomia normativa
delle associazioni private. In tal modo tali prescrizioni, ed in particolare quelle che impongono la cd.
disciplina di gruppo, vanno equiparate alle altre fonti negoziali, la cui vincolatività riposa sulla libera
accettazione da parte dei componenti, i quali possono sottrarsi alla loro obbligatorietà lasciando il gruppo.
Il fenomeno, detto altrimenti, può accostarsi alle altre analoghe espressioni di autonomia normativa dei
gruppi organizzati, la cui efficacia dipende dalla condivisione delle scelte espresse nelle regole approvate
dagli affiliati o, quantomeno, dalla presunzione di tale adesione, finché essa non venga contraddetta da
un atto di aperta dissociazione, quale si manifesta nell’abbandono del consorzio.
Alla conclusione non potrebbe opporsi la considerazione tratta dalla sanzione costituzionale ex artt. 72 e
82 Cost. dell’esistenza dei gruppi e della loro necessità ai fini della migliore organizzazione parlamentare
nello svolgimento dell’attività legislativa e di inchiesta, che non muta la natura, né il rilievo delle norme
da questi espresse, oltre l’ambito ad esse proprio delle manifestazioni di autonomia privata. Ciò è
sufficiente a risolvere il problema della disciplina imposta dagli statuti dei gruppi, che acquistano pertanto
efficacia limitata al loro ordinamento interno, senza riflessi nell’ordinamento generale50, in cui, viceversa,
49 Secondo la ricostruzione fornita da E. ROSSI, Le formazioni sociali nella Costituzione italiana, Padova, 1989, passim, spec. 146 ss. 50 Come anticipato, fra gli altri, da A. SAVIGNANO, I gruppi parlamentari, Napoli, 1965, 221.
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la libertà del parlamentare di aderire agli indirizzi espressi dal gruppo, così come eventualmente di
sottrarsene, rinviene garanzia proprio nella libertà del mandato accordatagli dall’art. 67 Cost. 51.
Tali conclusioni, del resto, trovano il conforto della Corte costituzionale, che, sin dal 1964 – sia pur
incidentalmente nella decisione della nota questione di legittimità sulla legge di nazionalizzazione
dell’energia elettrica (l. 1643/1962) – ebbe modo di affermare che “il divieto di mandato imperativo
importa che il parlamentare è libero di votare secondo gli indirizzi del suo partito ma è anche libero di
sottrarsene; nessuna norma potrebbe legittimamente disporre che derivino conseguenze a carico del
parlamentare per il fatto che egli abbia votato contro le direttive del partito”52. Coerentemente, la
questione – sorta a seguito delle ammissioni di alcuni parlamentari di aver approvato la legge per mera
obbedienza alla disciplina di partito (e di gruppo) – fu giudicata infondata in base alla considerazione che
“l’art. 67, collocato fra le norme che attengono all’ordinamento delle Camere e non fra quelle che
disciplinano la formazione delle leggi, non spiega efficacia ai fini della validità delle deliberazioni; ma è
rivolto ad assicurare la libertà dei membri del Parlamento”53.
La pronuncia, invero, era intervenuta in un momento caldo del dibattito dottrinario, in cui si affrontava
il problema della disciplina di gruppo (e di partito), oscillando nell’alternativa tra la valorizzazione del
diritto (individuale) alla libertà del mandato parlamentare54 e l’opposta visione55, che – sensibile alla
posizione di centralità rivestita dai partiti nella ricostruzione del sistema democratico all’epoca costituente
ed alle connesse implicazioni derivanti dall’adozione di un sistema elettorale proporzionale56 –
sottolineava vigorosamente il ruolo di intermediazione necessaria ricoperto dagli stessi partiti rispetto alla
funzione parlamentare di rappresentanza dell’interesse generale, ritenendo nei casi estremi legittima
persino la perdita del seggio come conseguenza di dimissioni e/o di espulsione dal gruppo (e/o dal
partito) dei parlamentari, per così dire, indisciplinati.
51 In tal senso, per tutti, G.F. CIAURRO, Sulla natura giuridica dei gruppi parlamentari, in Studi per il XX Anniversario dell’Assemblea costituente, IV, Firenze, 1969, 257 ss., allorché chiarisce che l’azione politica deve restare “un’azione di libertà anche nei modi e nelle forme attraverso i quali la volontà delle forze politiche si trasforma in volontà del Parlamento, e quindi in volontà dello Stato”, 259. 52 Corte cost., sent. 7 marzo 1964, n. 14. 53 Corte cost., sent. 14/1964, cit. 54 Emblematica la posizione di accesa critica alla partitocrazia espressa all’epoca da G. MARANINI, in numerosi scritti, tra cui Miti e realtà della democrazia, Milano, 1958, 231 ss.; Id., Stato di partiti non partitocrazia, in St. Pol., 1960, 278 ss.; Id., Il tiranno senza volto, Milano, 1963; Id., Storia del potere in Italia, 1848-1967, Firenze, 1967. 55 Cfr., per tutti, P. RESCIGNO, L’attività di diritto privato dei Gruppi parlamentari, in Giur. Cost., 1961, 300, il quale al riguardo osservava che “il vincolo di gruppo e la disciplina di partito hanno reso praticamente inoperante il divieto di mandato imperativo” e che “se c’è squilibrio tra la realtà e la norma” è alla prima che occorre aver riguardo. 56 Sulla complementarità che si instaura tra partiti e rappresentanza politica nella vigenza di un sistema elettorale di tipo proporzionale, cfr., almeno, V. CRISAFULLI, La Costituzione della Repubblica italiana e il controllo democratico dei partiti, in St. pol., 1960, 269 ss.
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7. La problematica tutela del dissenso individuale dinanzi al giudice comune
Il problema torna di estrema attualità in questi giorni, specificamente in considerazione delle previsioni
statutarie da cui muovono le osservazioni odierne, con particolare riferimento alla citata sanzione
pecuniaria introdotta nello statuto del Movimento 5 stelle, il cui adempimento – alla stregua di tutte le
prescrizioni che danno contenuto alla cd. “disciplina di gruppo” – può, al limite, ricondursi all’alveo delle
obbligazioni cd. “naturali”57, liberamente assunte dal parlamentare all’atto dell’adesione al gruppo, ma il
cui mancato assolvimento non potrebbe trovare alcuna garanzia, tantomeno giudiziaria, sul piano
dell’ordinamento generale. A maggior ragione, si osserva, quando quelle regole associative si pongano in
contrasto con norme imperative, quali quelle che si desumono da disposizioni costituzionali che
enunciano principi fondamentali, secondo l’interpretazione che si è ritenuta di accordare al più volte
richiamato art. 67 Cost.
La mancanza di vere e proprie sanzioni giuridiche per il caso di inosservanza della disciplina di gruppo
non intacca, tuttavia, la condizione di sfavore in cui, sia pur limitatamente al profilo politico, il
parlamentare dissenziente può incorrere allorché si esplichi nei suoi confronti la reazione punitiva del
gruppo, quando esso accerti ipotesi di indisciplina a tal punto gravi da condurre all’espulsione e, con ogni
probabilità, a pregiudicarne la ricandidatura.
A ben guardare, peraltro, si tratta in questo caso di calare il riferimento specifico a tali particolari
manifestazioni del pluralismo, come sono stati ricostruiti poc’anzi i gruppi parlamentari, in un contesto
più generale. Riecheggiano, infatti, in questa occasione i termini dell’annoso problema della tutela del
singolo rispetto ai gruppi organizzati di cui fa parte, in considerazione delle diverse forme di potere che
questi ultimi possono esercitare nei confronti degli aderenti e a cui si connette l’altra questione sulle
garanzie che è possibile apprestare a tutela di chi sia o diventi successivamente “terzo” rispetto al gruppo
organizzato, con particolare attenzione alle posizioni di favore che l’appartenenza al gruppo garantisce e
che è destinato a perdere chi ne esce o ne viene espulso58.
Con specifico riferimento ai gruppi, la questione diviene ancora più delicata aderendo all’interpretazione
proposta, che rinviene in essi i caratteri delle formazioni sociali, almeno seguendo il tenore dell’art. 2
Cost., secondo cui la Repubblica tutta (nella totalità, cioè, delle sue istituzioni) è impegnata a riconoscere
i diritti individuali dell’uomo non solo come singolo, ma anche all’interno delle stesse formazioni e,
persino, contro di esse, come è stato perspicuamente sottolineato59.
57 L’affermazione trae spunto dell’autorevole pensiero di P. VIRGA, Il partito nell’ordinamento giuridico, Milano, 1948, 170 ss. 58 Resta in proposito magistrale l’insegnamento di M. NIGRO, Formazioni sociali, poteri privati e libertà del terzo, in Pol. Dir., 1975, 579 ss. 59 Così, ancora, M. NIGRO, op. cit., 581.
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Il problema, pertanto, si traduce in quello dell’individuazione delle forme di tutela, che, sotto il profilo
pratico, il parlamentare dissenziente potrebbe ricevere avverso il gruppo di appartenenza, che pretendesse
di limitarne, attraverso rigide regole comportamentali espresse nello statuto, la piena libertà di azione
politica nell’assolvimento del mandato elettivo.
In tal caso, invero, scarsamente realistica appare l’ipotesi di ricorso alla magistratura ordinaria, per quanto
negli ultimi anni siano divenuti sempre più frequenti gli interventi nel circuito dell’interpretazione e
applicazione diretta delle disposizioni costituzionali del giudice comune, il quale, pertanto, come giudice
del fatto, si dimostra assai attivo nel garantire i diritti fondamentali, quali si traggono dal Testo
costituzionale, anche in mancanza dell’intermediazione del legislatore, di cui non di rado finisce per
anticipare l’intervento60. E, tuttavia, nell’ipotesi ora presa in considerazione, l’indubbia lesione dell’art.67
Cost. e del principio di garanzia che esso esprime difficilmente sfuggirebbe al cono d’ombra che il retaggio
offerto dal mito degli interna corporis tuttora frappone alla giustiziabilità delle situazioni giuridiche
individuali al di fuori dei casi di giurisdizione domestica, versandosi in una sfera che attiene comunque
all’articolazione fondamentale delle assemblee parlamentari.
La conclusione ancora una volta risulta avallata dalla Consulta, che, sia pur nella diversa sede della
risoluzione di un conflitto di attribuzione tra la magistratura ordinaria e la Camera di appartenenza di
alcuni deputati (cd. “pianisti”), sospettati di aver espresso in forma elettronica il voto anche in sostituzione
di altri colleghi assenti dalla seduta, ha avuto modo di ribadire l’esistenza di limiti all’intervento del giudice
(in quel caso penale) su attività e procedure interamente riconducibili all’ordinamento parlamentare (sent.
n. 379/1996).
E ciò anche a tacere dell’efficacia (limitata al caso concreto) delle decisioni eventualmente ottenibili in
sede di giudizio ordinario, idonee eventualmente a garantire le posizioni individuali, senza, tuttavia,
incidere sulla permanenza, all’interno del complessivo ordinamento parlamentare, di disposizioni,
espressione dell’autonomia normativa dei gruppi, apertamente lesive di principi fondamentali e/o di
diritti costituzionali. Per quanto all’analisi comparata non sia ignota l’eventualità che venga riconosciuta
la legittimità del controllo giudiziario sulla decisione di un gruppo politico di espellere uno dei suoi
componenti, come a suo tempo ammesso dal Tribunale Supremo spagnolo, sia pur con la motivazione
che tali tipi di provvedimenti avrebbero una rilevanza di ordine pubblicistica idonea a renderli oggetto di
sindacato giurisdizionale61.
60 Sul tema, cfr. P. MEZZANOTTE, La giurisdizione sui diritti tra Corte costituzionale e giudice comune, in federalismi.it, 2011, n.25. 61 Trib. Supremo, sent. 8 febbraio 1994, in Ar., 1994, 991.
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8. La prospettiva del conflitto costituzionale a tutela dei parlamentari “contro” i gruppi di
appartenenza
Le difficoltà di ordine pratico appena evidenziate non escludono, tuttavia, che, in linea di principio, la
garanzia offerta dall’art. 2 agli individui comprenda l’obbligo dello Stato di apprestare idonea tutela
giurisdizionale in tutti i casi in cui i diritti fondamentali siano suscettibili di essere lesi, e quindi anche
all’interno e nei confronti dei gruppi sociali organizzati di cui i singoli soggetti facciano parte62.
Con più specifico riferimento ai membri delle Camere e alle lesioni che ai loro diritti, prerogative e
funzioni possano derivare da specifiche previsioni degli statuti dei gruppi parlamentari, tale tutela appare
naturalmente riposare nell’alveo del giudizio costituzionale, non certo nelle forme della questione di
legittimità, per l’indubbia inidoneità delle norme statutarie di costituirne oggetto, ma nella diversa
occasione del conflitto di attribuzione, in questo caso – e con evidenza – per menomazione.
Né a tale conclusione63 sembra possa efficacemente opporsi la posizione sostanzialmente di chiusura
finora manifestata dalla Corte costituzionale rispetto ai ricorsi individuali presentati dai parlamentari per
la tutela delle proprie prerogative costituzionali, allorché essa ha avvertito che il giudizio per conflitto di
attribuzione non può essere usato quale strumento generale di tutela dei diritti costituzionali, ulteriore
rispetto a quelli offerti dal sistema giurisdizionale”64. Infatti, non è sfuggito ad accorta dottrina che tale
preclusione a rinvenire nella figura del singolo parlamentare un “potere” dello Stato, ai fini
dell’instaurazione del conflitto, ha riguardato l’area dei rapporti tra i membri delle Camere e l’autorità
giudiziaria in relazione all’applicazione dell’art. 68, I co. Cost. 65. E ciò in base alla considerazione che le
garanzie predisposte dalla disposizione sono rivolte alla tutela della complessiva funzione politico-
legislativa, di cui, allora risultano titolari le Camere nella loro interezza, e non già a privilegiare la posizione
personale del singolo parlamentare in quanto tale, la cui libertà di espressione riceve pertanto garanzia
solo in via indiretta, dovendosi di converso ricostruire le immunità parlamentari in termini di
62 Antesignano, in un certo senso, di tale problematica in generale, nella dottrina costituzionalistica, G. LOMBARDI, Potere privato e diritti fondamentali, Torino, 1970. Di recente, con specifico riferimento alle possibilità di tutela giudiziaria degli iscritti nei confronti dei partiti politici, in particolare avverso ai provvedimenti di espulsione, cfr. F. SCUTO, La democrazia interna dei partiti: profili costituzionali di una transizione, Torino, 2017, 163 ss. 63 Già raggiunta in A. CIANCIO, I gruppi parlamentari, cit., 224 ss., spec. 229 ss., cui sia consentito ancora rinviare per ulteriori argomentazioni a sostegno. 64 Cfr. Corte cost., ord. 14 aprile 2000, n. 101, in cui refluiscono le considerazioni già svolte in Corte cost., ord. 12 luglio 1999, n. 359. 65 Cfr. N. ZANON, La rappresentanza della nazione e il libero mandato parlamentare, in Storia d’Italia, Annali 17, Il Parlamento, a cura di L. Violante, Torino, 2001, 691 ss. Sulla problematica dell’ammissibilità dei ricorsi individuali dei singoli parlamentari per la tutela delle proprie prerogative, con particolare riferimento al cd. “caso Previti”, cfr. almeno AA. VV., Il “caso Previti”. Funzione parlamentare e giurisdizione in conflitto davanti alla Corte, a cura di R. Bin – G. Brunelli – A. Pugiotto – P. Veronesi, Torino, 2000.
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inammissibile rottura del principio di eguale soggezione di tutti gli individui dinanzi alla legge, anziché
come vere e proprie guarentigie parlamentari66.
Ne resta, tuttavia, “impregiudicata la questione se in altre situazioni siano configurabili attribuzioni
individuali di potere costituzionale, per la cui tutela il singolo parlamentare sia legittimato a ricorrere allo
strumento del conflitto tra i poteri dello Stato”, come, con cauta apertura, la stessa Consulta sembra
ammettere67.
Ed invero la risposta affermativa all’interrogativo sulla possibilità di riconoscere la legittimazione
soggettiva del singolo parlamentare a sollevare conflitto per la tutela delle proprie attribuzioni
costituzionali pare di poter ricavare, anzitutto, proprio dalla portata dell’art. 67 della Costituzione68,
allorché esso individua “una sfera di tutela, costituzionalmente definita, della libertà del parlamentare come tale,
nell’esercizio del proprio mandato”, come si deduce già dal tenore letterale della disposizione “che fa
riferimento ad «ogni membro del Parlamento» e non all’organo nel suo complesso”, in ciò
differenziandosi, anche sotto il profilo testuale, dagli artt. 68, I comma e 69, che riservano le prerogative
in essi espresse “ai «membri del Parlamento»”69. Resterebbe così individuato il necessario presupposto
per superare le perplessità che possano essere addotte a rinvenire nella figura un “potere” dello Stato, ai
fini dell’instaurazione del conflitto, in considerazione della necessità per il parlamentare di venire
ammesso alla tutela della propria fondamentale funzione di rappresentanza politica ogniqualvolta essa
risulti illegittimamente compressa70.
Tale conclusione risulterebbe tanto più rafforzata se si accogliesse la ricostruzione – qui proposta –dei
gruppi parlamentari in termini di formazioni sociali, almeno a seguire il tenore del richiamato art. 2 della
Costituzione, laddove esige che la garanzia dei diritti fondamentali riguardi i singoli anche all’interno dei
66 Sul tema, volendo, A. CIANCIO, Estensione dell’insindacabilità parlamentare e tutela della dignità dell’uomo, in Rass. Parl., 1999, n.2, 393 ss., ed ivi gli opportuni approfondimenti dottrinari. 67 Corte cost., ord. 20 maggio 1988, n. 177, annotata in posizione adesiva da N. ZANON, “Sfere relazionali” riservate a Parlamento e Magistratura e attribuzioni individuali del singolo parlamentare: una distinzione foriera di futuri sviluppi?, in Giur. Cost., 1998, 1481 ss. 68 In tal senso, tra gli altri, G. ZAGREBELSKY, Le immunità parlamentari. Natura e limiti di una garanzia costituzionale, Torino, 1979, 98-99; N. ZANON, I diritti del deputato “senza gruppo parlamentare”, cit., 1181 ss.; ID., Il libero mandato parlamentare, cit., 312 ss.; M. MANETTI, La legittimazione del diritto parlamentare, Milano, 1990, 163-164; R. BIN, L’ultima fortezza. Teoria della Costituzione e conflitti di attribuzione, Milano, 1996, 142-143; M. MEZZANOTTE, “Pregiudizialità parlamentare” e legittimazione al conflitto tra poteri del singolo parlamentare, in Giur. It., 2000, 148-149, sia pur limitatamente al conflitto cd. “interno”, cioè rivolto dal parlamentare contro la Camera di appartenenza. Conformemente, più di recente, A. RUGGERI – A. SPADARO, Lineamenti di giustizia costituzionale, V ed., Agg, Torino, 2014, 295, che riferiscono la possibilità di tutela attraverso il conflitto costituzionale anche all’eventuale lesione del diritto di iniziativa legislativa ex art. 71 Cost. 69 Così D. NOCILLA, Il libero mandato parlamentare, cit., 65, a cui risalgono le frasi virgolettate nel testo. 70 Così anche A. SAITTA, Conflitti di attribuzioni, poteri dello stato, garanzia dell’insindacabilità e tutela costituzionale del singolo parlamentare, in Riv. trim. dir. pubbl., 2001, 325 ss.
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gruppi organizzati cui aderiscono e persino contro di essi, fornendo allora il citato art. 2 Cost. ulteriore
parametro nell’ipotesi prospettata che un membro del Parlamento adisca il Giudice costituzionale contro
il gruppo di appartenenza.
Piuttosto altra difficoltà potrebbe riguardare l’individuazione degli stessi gruppi come possibili termini
passivi del conflitto71. In tal caso le maggiori perplessità deriverebbero non tanto dalle strettoie di un
giudizio previsto per risolvere conflitti tra “poteri diversi”, e non tra organi del medesimo potere, giacché
notoriamente l’area dei conflitti interorganici si è ormai dilatata, per effetto della stessa giurisprudenza
costituzionale, ”a ricomprendere tutti gli organi ai quali sia riconosciuta e garantita dalla Costituzione una
quota del potere organizzato al massimo livello”72, dal che si può comprendere l’eventualità di un conflitto
fra poteri “riguardante organi che pure esercitano la stessa funzione, limitatamente – beninteso – alla
specifica «sfera di attribuzioni costituzionali» riconosciuta (e dunque garantita) a ciascuno di essi” 73. Ciò
che tipicamente può accadere all’interno di poteri, per così dire, “complessi”, in cui all’unicità della
funzione corrisponde una pluralità di organi con proprie attribuzioni costituzionalmente protette74.
Semmai l’ostacolo maggiore potrebbe sorgere dalla difficoltà ad ammettere che parte di un conflitto di
attribuzione possa essere un soggetto che si considera espressione del pluralismo politico-sociale, come
si sostiene del gruppo parlamentare75, giacché la giurisprudenza costituzionale ancora di recente si è
dimostrata ostile ad ampliare il novero delle figure cd. esterne allo Stato-apparato legittimate al conflitto76,
oltre al Comitato promotore del referendum abrogativo. In particolare, la Consulta, pur ribadendo le
ragioni che sin dal 1978 hanno consentito di riconoscere nei firmatari di una richiesta referendaria un
potere dello Stato (e sia pur ai limitati fini dell’ammissibilità del conflitto costituzionale)77 ha finora escluso
che tale natura possa per le medesime finalità rinvenirsi in altri soggetti, in particolare respingendo la
71 Esclude che il gruppo parlamentare possa essere riconosciuto quale “potere dello Stato” al fine di ammetterne la legittimazione soggettiva al conflitto di attribuzione, A. PISANESCHI, I conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato. Presupposti e processo, Milano, 1992, 275 ss. Possibilista, invece, l’opinione di E. MALFATTI – S. PANIZZA – R. ROMBOLI, Giustizia costituzionale, V ed., Torino, 2016, 243; e, senz’altro affermativa, la risposta di R. BIN, L’ultima fortezza, cit., 140 ss. In posizione dubitativa A. RUGGERI – A. SPADARO, Lineamenti, cit., 294-295, che, tuttavia, aprono alla possibilità di una legittimazione soggettiva al conflitto dei gruppi in funzione di tutela delle minoranze, in attesa di una chiara riforma costituzionale che esplicitamente garantisca queste ultime “processualmente”. Specificamente su tale problematica, volendo, A. CIANCIO, Il controllo preventivo di legittimità sulle leggi elettorali ed il prevedibile impatto sul sistema italiano di giustizia costituzionale, in federalismi.it., 2016, n.1, 18 ss. 72 Così E. MALFATTI – S. PANIZZA – R. ROMBOLI, Giustizia costituzionale, cit., 240. 73 A. RUGGERI – A. SPADARO, Lineamenti, cit., 279. 74 Ibidem. 75 V. supra § 3. 76 Per la dottrina più risalente, favorevole a riconoscere la qualifica di potere dello Stato ad “elementi che non fanno parte dello Stato-apparato”, cfr. M. MAZZIOTTI DI CELSO, I conflitti di attribuzione fra i poteri dello Stato, I, Milano, 1972, 283 ss., in particolare 318 ss. 77 Il riferimento è, notoriamente, a Corte cost., ord. 3 marzo 1978, n. 17; e la successiva sent. 23 maggio 1978, n. 69.
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legittimazione delle associazioni politiche78. Pertanto, potrebbe apparire plausibile che la medesima
posizione di rigore il Giudice costituzionale mantenga nei confronti di tutte le forme di manifestazione
del pluralismo politico, come si estrinseca non solo a livello di società civile attraverso l’organizzazione
in partiti, ma altresì all’interno del Parlamento, con la riunione (e divaricazione) degli eletti nei gruppi. E,
tuttavia, in questo secondo caso, le convinzioni già espresse sulla natura di questi ultimi e il loro possibile
inquadramento tra le autonomie funzionali lasciano auspicare una possibile apertura del Giudice
costituzionale nel senso di intravvedere anche nei gruppi parlamentari figure organizzative, che, per
quanto non qualificabili come organi delle Camere in senso proprio, appaiano, tuttavia, titolari di funzioni
di riconosciuto rilievo costituzionale la cui imputazione finale sia riferibile allo Stato-autorità79, come tali
tutelabili con lo strumento adesso in esame, previa la riconosciuta loro legittimazione (attiva e,
correlativamente, passiva) al conflitto di attribuzione.
9. Attribuzioni del Presidente della Camera e attività di controllo sugli statuti dei gruppi
parlamentari
E’, peraltro, evidente che la tutela del parlamentare dissenziente contro il gruppo di appartenenza
attraverso lo strumento del conflitto di attribuzione è opzione per intero consegnata alla disponibilità del
Giudice costituzionale, oltre che all’iniziativa del singolo eletto.
In attesa che si concretizzi tale evenienza non può, pertanto, restare senza risposta l’interrogativo da cui
hanno preso le mosse queste osservazioni, con riferimento al potere (ed eventualmente dovere) del
Presidente di Assemblea di esercitare un controllo sugli statuti dei gruppi al fine di garantire la conformità
di essi al diritto, in primis, costituzionale e, quindi, parlamentare, anche in relazione alla generale funzione
che spetta all’organo di far osservare il regolamento camerale (artt. 8 Reg. Cam. e 8 Reg. Sen.).
Peraltro, la circostanza che la riforma del regolamento della Camera del 2012 non abbia previsto in forma
“specifica” una tale attribuzione per il Presidente di quella Assemblea non esclude che la norma
corrispondente si debba considerare sussistente, quale norma implicita, ricavabile attraverso una
78 Cfr. Corte cost., ord. 24 febbraio 2006, n. 79, con cui è stata negata la legittimazione dell’associazione denominata “La Rosa nel Pugno – Laici Socialisti Liberali Radicali”, annotata da P. RIDOLA, La legittimazione dei partiti politici nel conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato: organamento dei soggetti del pluralismo o razionalizzazione dei processi costituzionali del processo politico?, in Giur. Cost., 2006, I, 668 ss.; S. CURRERI, Non varcate quella soglia!, in www.forumcostituzionale.it (18 aprile 2006); e A. MANNINO, La “Rosa nel pugno” davanti alla Corte costituzionale, in Quad. cost., 2006, 564 ss. Cfr., inoltre, Corte cost., ord. 23 marzo 2007, n.117 con cui la Consulta ha confermato la posizione di chiusura verso la legittimazione dei partiti, dichiarando inammissibile il ricorso presentato dalla “Lista Consumatori C.O.D.A.Cons. – Democrazia Cristiana”. 79 Si darebbe, in tal modo, seguito alle aperture manifestate da Corte cost., ord. s.n. del 24 maggio 1990, con cui la Consulta ha precisato che sulla base del presupposto ricordato nel testo anche altre figure soggettive esterne allo Stato-apparato (oltre ai Comitati promotori dei referendum) potrebbero assurgere al rango di potere, pur non scendendo nel concreto ad individuare tali ulteriori soggettività per ammetterle al conflitto.
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interpretazione logico-sistematica dei commi 2bis, 2ter e 3 dell’art. 15 Reg. Cam. Invero, tali disposizioni
rispondono ad un disegno unitario, ove l’obbligo di trasmissione degli statuti dei gruppi al Presidente
della Camera non potrebbe certamente considerarsi fine a sé stesso, sia pur in connessione al previsto
adempimento della pubblicazione sul web, pena la riduzione dell’organo esponenziale dell’assemblea
legislativa a “mero passacarte” tra il gruppo parlamentare e i gestori del sito internet della Camera.
Viceversa tale obbligo di comunicazione (e di connessa pubblicità) appare con evidenza correlato al
contributo finanziario di cui sono destinatari i gruppi80 (e al conseguente onere di rendicontazione
sull’utilizzo delle somme, art. 15ter Reg. Cam.). Da ciò è naturale concludere che i richiesti adempimenti
in termini di trasmissione e pubblicità degli statuti siano in prima battuta finalizzati proprio a consentire
l’esplicazione della generale attività di vigilanza sul corretto funzionamento del complessivo ordinamento
camerale81 – di cui il Presidente dell’Assemblea è il naturale garante – in relazione alla successiva
distribuzione dei finanziamenti.
Ne consegue la possibilità per il Presidente di intervenire anche in tale occasione a presidio del rispetto
delle norme camerali e, ancora più a monte, a tutela delle fondamentali prerogative costituzionali dei
parlamentari, al punto che non appare peregrino individuare tra le pieghe di quelle disposizioni persino
le sanzioni applicabili per le ipotesi di violazione, riconducibili alle contribuzioni finanziarie ottenibili dai
gruppi, “secondo le modalità stabilite dall’Ufficio di Presidenza”, ai sensi di ciò che dispone il terzo
comma dell’art. 15bis. Invero, il rinvio a criteri di volta in volta determinabili, piuttosto che l’automatico
riferimento alla consistenza numerica dei gruppi parlamentari (com’è invece stabilito per le diverse
dotazioni di locali e attrezzature nella prima parte della medesima disposizione) lascia evincere una
discrezionalità nella determinazione delle risorse da destinare alle attività dei gruppi, che non può non
essere condizionata (anche) dal perseguimento dell’interesse generale al buon andamento dei lavori
camerali, nell’osservanza della Costituzione e del Regolamento, tanto più che oggi quelle contribuzioni
sono destinate “esclusivamente” a perseguire gli “scopi istituzionali riferiti all’attività parlamentare” dei
gruppi, oltre che alle funzioni di studio, comunicazione ed editoria ad essa ricollegabile (art. 15bis, IV co.
Reg. Sen.). La conclusione risulta suffragata dalla considerazione che il Presidente non è lasciato solo in
tali valutazioni, giacché esse sono rimesse all’intero Ufficio di presidenza, ove – val la pena ricordare –
sono rappresentati tutti i gruppi parlamentari (art. 5, commi 3 e 5 Reg. Cam.). Verrebbe, pertanto,
80 Cfr., a commento della riforma regolamentare del 2012 sul punto, F. BIONDI, Disciplina dei gruppi parlamentari e controlli sui bilanci: osservazioni alle recenti modifiche ai regolamenti di Camera e Senato, in Osservatorio sulle fonti, 2012, n.3, 5 ss.; e F. FABRIZZI, Partiti politici e gruppi parlamentari ai tempi delle riforme, in federalismi.it, 2015, n. 8, 9 ss. 81 Sulla nozione di vigilanza, quale relazione riassuntiva della “visione integrata” degli interessi di un’istituzione, e la sua differenza, sotto il profilo tecnico-giuridico, dalla figura del controllo, cfr. L. ARCIDIACONO, La vigilanza nel diritto pubblico, Aspetti problematici e profili ricostruttivi, Padova, 1984.
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rispettato quell’elementare principio di civiltà giuridica, che è da ritenersi il contraddittorio, in tal modo
garantito pure nell’eventualità – qui ammessa – dell’irrogazione di sanzioni di natura finanziaria
(consistenti in una riduzione nell’ammontare delle contribuzioni o, persino, nella loro esclusione) nei
confronti dei gruppi che apertamente violassero, nei loro statuti, principi costituzionali e/o diritti
fondamentali dei propri membri, prima ancora che le stesse norme del diritto parlamentare.
di Gian Luca Conti
Professore ordinario di Diritto costituzionale Università di Pisa
Sfera pubblica e sfera privata della rappresentanza.
La giustiziabilità dell’art. 67, Cost. nella sua attuazione da parte dello statuto di
un gruppo parlamentare.
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Sfera pubblica e sfera privata della rappresentanza La giustiziabilità dell’art. 67, Cost. nella sua attuazione da
parte dello statuto di un gruppo parlamentare *
di Gian Luca Conti Professore ordinario di Diritto costituzionale
Università di Pisa
1 – Per la prima volta, in settant’anni di Parlamento repubblicano, un gruppo parlamentare, sia alla Camera
che al Senato, ha previsto nel proprio statuto1 una penale economica per il membro che lo abbandona o
ne viene espulso in virtù di un dissenso sulla linea politica del partito sottostante2.
Questa previsione apre un faro sulla tempesta della rappresentanza, sul valore normativo dell’art. 67,
Cost. e sulla sua attualità, in questa fase della storia repubblicana.
E’ impossibile nascondersi che la penale nasce da un esigenza diffusamente avvertita da una parte non
più marginale del corpo elettorale e che l’equilibrio fra Costituzione materiale e Costituzione formale
stenta a trovare un assestamento attraverso la dinamica della rappresentanza partitica.
* Intervento alla Tavola rotonda “Gli statuti dei gruppi parlamentari alla prova dell’art. 67della Costituzione”, Roma, 16 maggio 2018. 1 Gli atti di autorganizzazione dei gruppi parlamentari sono definiti “statuto” dall’art. 15, comma 2 bis, r.C., mentre l’art. 15, comma 3 bis, r.S. usa il diverso lemma “regolamenti”. Ai sensi del secondo comma dell’art. 15, r.S. i gruppi parlamentari si costituiscono comunicando alla Presidenza del Senato: (i) la propria denominazione; (ii) l’elenco dei propri componenti, sottoscritto dal Presidente del gruppo; (iii) il nominativo del Presidente, dei Vice presidenti e dei Segretari. Nel regolamento della Camera, ciascun deputato deve comunicare a quale gruppo intende aderire entro due giorni dalla prima seduta della Legislatura e il Presidente dell’assemblea convoca la prima riunione di ciascun gruppo che ha all’ordine del giorno l’elezione del Presidente del Gruppo e dei Vice – Presidenti (art. 15, r.C.). Il gruppo deve quindi comunicare la costituzione dei propri organi al Presidente della Camera e nei successivi trenta giorni adottare uno statuto. Il regolamento del Senato costituisce i gruppi che disciplinano se stessi attraverso l’autonomia regolamentare prevista dall’art. 15, comma 3 bis, r.S. Nel regolamento della Camera, invece, spetta al Presidente convocare i membri dei gruppi affinché gli stessi costituiscano il gruppo, nominando i propri rappresentanti e adottando uno statuto. Sottigliezze? 2 Sul tema, fra gli altri, E. GIANFRANCESCO, Chi esce paga: la «penale» prevista dallo statuto del MoVimento 5 Stelle alla Camera, in Quad. Cost. 2018, part. 484 e ss. (il fascicolo è il due), che dubita fortemente della legittimità costituzionale della penale e ritiene che il Presidente della Camera possa intervenire sullo statuto del gruppo parlamentare ai sensi dell’art. 8, r.C., ma anche che il singolo parlamentare potrebbe proporre un conflitto di attribuzione nei confronti dell’atto di applicazione della penale impugnando lo statuto del gruppo di appartenenza. Mancherebbe invece la possibilità di utilizzare la via del giudizio incidentale di legittimità costituzionale. Sul tema si tornerà.
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Si è detto, con una parola che un po’ disturba3, che l’art. 67, Cost. sta conoscendo una seconda
“giovinezza”4.
L’infanzia dell’art. 67, Cost. è Corte cost. 14/1964, quando la Corte investita della questione di legittimità
costituzionale di una legge, la legge sulla nazionalizzazione dell’energia elettrica, approvata con una
maggioranza di cui facevano parte parlamentari che dichiaravano di votare a favore della legge non per
convinzione personale ma per disciplina di partito, affermò che il divieto di mandato imperativo non
riguarda la formazione delle leggi ma l’organizzazione delle Camere e non impedisce a un parlamentare
di rispettare le direttive del partito che lo ha eletto ma solo che non può essere sanzionato se non le
rispetta5.
Il divieto di mandato imperativo è tornato di moda quando la Corte lo ha usato contro le leggi elettorali,
sia con la sentenza 1/2014 che con la 35/2017.
Corte cost. 1/2014 ha dichiarato l’incostituzionalità delle liste bloccate previste dalla legge 270/2015,
perché impedendo agli elettori di conoscere gli eletti che hanno contribuito a eleggere rappresentano un
ostacolo al corretto formarsi della rappresentanza e quindi violavano l’art. 67, Cost. e lo stesso principio
è stato affermato da 35/2017, nella parte in cui ha respinto i dubbi di legittimità costituzionale relativi alla
ipotesi di traslazione dei seggi da un collegio all’altro perché tale ipotesi era del tutto residuale e non
faceva venire meno il collegamento fra la rappresentanza e il collegio (par. 10.2 del Considerato in diritto).
3 Giovinezza era la canzone che la Camera dei Deputati usava nel periodo fascista, fra l’altro, per approvare una mozione professando entusiasmo. Vedi F. GIULIANI, Il discorso parlamentare, in AA.VV. Storia d’Italia. Annali 17. Il Parlamento, Torino, 2001, part. 869 ss. 4 In questi termini, N. ZANON, La seconda giovinezza dell’art. 67, Costituzione, in Quad. Cost., 2014, 383 (Fasc. 2), cui adde ovviamente Id., Il libero mandato parlamentare. Saggio critico sull’art. 67 della Costituzione, Milano – Giuffré, 1991. 5 Vedi E. Lopane, Lopane Emilio, Il mandato parlamentare e i partiti, in Democrazia e diritto, 1964, p. 144-147. La sentenza è nota più che altro per la ricostruzione dei rapporti fra diritto interno e diritto comunitario, aspetti sui quali si concentrarono gli sforzi dei commentatori. Per quanto di interesse a queste righe, al par. 2 del Considerato in diritto si legge: La prima questione si riferisce alla violazione dell'art. 67 della Costituzione. - Secondo l'ordinanza, il vizio deriverebbe dal fatto che la legge è stata approvata da parlamentari i quali avevano dichiarato di dare il loro voto favorevole soltanto in obbedienza alle direttive del loro rispettivo partito politico. È da precisare che, come del resto la difesa dell'attore ha messo esattamente in evidenza, la questione non è stata posta in riferimento a vizi della volontà dei singoli votanti. Difatti, l'ordinanza non denunzia l'invalidità delle deliberazioni delle Camere legislative perché la volontà dei votanti fosse viziata, ma perché la votazione era stata influenzata da imposizioni dei partiti in dispregio della norma costituzionale che proclama la libertà dell'eletto e pone il divieto del mandato imperativo. - Ora, la Corte osserva che proprio da questa corretta impostazione dell'ordinanza si trae la prova dell'infondatezza della questione. - L'art. 67 della Costituzione, collocato fra le norme che attengono all'ordinamento delle Camere e non fra quelle che disciplinano la formazione delle leggi, non spiega efficacia ai fini della validità delle deliberazioni; ma è rivolto ad assicurare la libertà dei membri del Parlamento. Il divieto del mandato imperativo importa che il parlamentare è libero di votare secondo gli indirizzi del suo partito ma è anche libero di sottrarsene; nessuna norma potrebbe legittimamente disporre che derivino conseguenze a carico del parlamentare per il fatto che egli abbia votato contro le direttive del partito. - Da quanto premesso appare chiaro che la discussione circa i rapporti fra parlamentari e partiti, che si è svolta nel presente giudizio, non ha rilevanza ai fini della questione proposta. La quale deve essere risolta nel senso che nel caso in esame non sussiste violazione dell'art. 67.
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Le sentenze elettorali della Corte costituzionale sono perfettamente consapevoli della crisi della
democrazia dei partiti e di come la stessa sia divenuta probabilmente irreversibile, ma anche di quanta
distanza vi sia fra i partiti politici che componevano la Costituzione materiale nel momento in cui la
Costituzione è stata elaborata e i partiti politici con cui si confrontano gli elettori oggi6.
Il mandato parlamentare, sia nella sua prospettiva liberale che in quella democratica, è stato messo in
profonda discussione per effetto della crisi della repubblica dei partiti e la sua base – nobile e antica, ma
anche fragile e ambigua – si è progressivamente dissolta7.
Il divieto di mandato imperativo fa sistema con la libertà di associarsi in partiti per concorrere con metodo
democratico a determinare la politica nazionale (49) e ne è fortemente influenzato8: il sistema dei partiti
politici e il loro ruolo nella costruzione dell’indirizzo politico di maggioranza è il presupposto
materialmente storico che consente di determinare il contenuto normativo del libero mandato
parlamentare.
Questo sistema, nella cultura dell’Assemblea costituente, era composto di partiti fortemente ideologici,
ciascuno dei quali proponeva un orizzonte di valori non negoziabili e la cui affermazione postulava il
superamento dei valori proposti dagli altri partiti. Sturzo, ad esempio, era fermamente convinto della
propria idea di Stato e i suoi ideali non erano e non sarebbero mai stati conciliabili con quelli propugnati
da Togliatti. Potevano trovare un punto d’intersezione per mezzo del dialogo parlamentare, utilizzando
la procedura per individuare compromessi su singole scelte che potevano essere oggetto di consenso
perché ciascuna delle parti vedeva quella scelta come tattica di avvicinamento ai propri obiettivi, che
restavano non negoziabili e destinati a una lotta mortale9.
In questo modello, il principio del libero mandato parlamentare, così come il voto segreto
nell’approvazione finale dei disegni di legge, sono razionalmente di difficile comprensione e appaiono
6 Cfr. G. RIVOSECCHI, I partiti politici nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Amministrazione in cammino (rivista on line), 29 ottobre 2017, facilmente reperibile in rete. 7 A. PIZZORNO, La sfera pubblica e il concetto di mandante immaginario, in Sociologica, 3/2008, part. 1 e ss., ricorda come la proposta della libera rappresentanza, contrapposta alla rappresentanza per mandato di un principale, tipica dell’antico regime, era inserita da Luigi XVI nei Cahiers de dolèance ma fu respinta dalla quasi unanimità dei rappresentanti del terzo stato e, d’altra parte, pochi anni dopo, il più spietato interprete della rivoluzione considerava il voto segreto come l’inganno oscuro al riparo del quale prosperano i nemici della rivoluzione. 8 V. CRISAFULLI, I partiti nella Costituzione, in Studi per il XX anniversario dell’assemblea costituente, vol. II, Le libertà civili e politiche, Firenze, 1969, 111 e ss. 9 Scrive A. Pizzorno, Il sistema politico italiano, in Pol. Dir., 1971, part. 204 che una classe politica si definisce ideologicamente in termini di fini a lunga scadenza o non negoziabili, cioè di fini che non possono non venire perseguiti pena la caduta dell’identità stessa del soggetto per la quale lo stesso viene riconosciuto dagli altri, cioè la sua riconoscibilità e la sua distinguibilità rispetto agli altri soggetti collettivi. [...] Quando questi fini non negoziabili cadono e l’azione del soggetto collettivo si esaurisce in una successione di fini negoziati e continuamente rinnovantisi si determina certamente un maggiore realismo, ma pure una incapacità di proporre i propri fini ai nuovi individui che devono scegliere quel soggetto, proprio perché non si sceglie un soggetto collettivo per la sua capacità di negoziare certi fini, ma invece perché ha dei fini non negoziabili.
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delle finzioni, secondo le note osservazioni di Kelsen sul compromesso fra maggioranza e minoranza
come strumento di coesione sociale reso possibile dalle procedure parlamentari10: costruire attraverso il
libero mandato parlamentare la deliberazione maggioritaria dell’assemblea legislativa come volontà della
nazione è un modo per affermare un dogma, non uno strumento per comprendere il funzionamento
concreto del sistema politico.
Nella realtà, il libero mandato parlamentare e, finché è durato, il voto segreto imposto dai regolamenti
parlamentari per l’approvazione finale dei disegni di legge, erano funzionali a consentire l’integrazione
delle minoranze nella maggioranza e il progressivo mutamento dello schema di governo, attraverso
l’inclusione delle minoranze nelle scelte politiche della maggioranza e il cambiamento della formula di
governo.
L’impostazione che il Movimento 5 Stelle ha inteso imprimere al proprio statuto, prevedendo una penale
per il caso in cui un parlamentare intenda allontanarsi dalla linea politica del movimento si può leggere
attraverso queste premesse.
Ciò che viene messo in discussione è la funzione di integrazione delle minoranze nella maggioranza svolta
dal libero mandato parlamentare, più che la sua giustificazione democratico – liberale, tesa a dimostrare
che la volontà della maggioranza costituisce la volontà della nazione.
L’idea di rappresentanza politica affermata dagli statuti dei gruppi parlamentari, e resa evidente anche dal
meccanismo di applicazione della sanzione11, è basata sulla concezione del parlamentare come un
mandatario che trasmette in Parlamento il risultato di una consultazione svolta attraverso la rete e una
piattaforma appositamente dedicata a questo fine.
Il tramonto dell’ideologia come fine non negoziabile ha determinato il sorgere di un movimento il cui
fine non negoziabile è il principio per cui i parlamentari costituiscono lo strumento con cui questo
soggetto collettivo fa ascoltare la propria voce, di talché lo statuto del movimento organizza la
partecipazione dei propri aderenti, dalla partecipazione degli aderenti al movimento nasce la volontà
generale del soggetto collettivo, la volontà generale del soggetto collettivo deve essere trasferita dal
parlamentare nell’assemblea in cui svolge la propria funzione di trait d’union fra il soggetto collettivo e la
volontà generale della nazione.
10 H. KELSEN, Essenza e valore della democrazia, ed. it. Bologna – Il Mulino, 1995, part. cap. III. 11 Ad eccezione del caso in cui l’espulsione sia giustificata dall’adesione a un altro gruppo parlamentare o al gruppo misto, l’espulsione deve essere ratificata da una votazione on lne sul portale del movimento, a maggioranza dei votanti (in questi termini, sia l’art. 21 dello Statuto del gruppo al Senato che la stessa disposizione del regolamento alla Camera).
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Il mandato imperativo non può essere accettato perché non può essere accettata l’idea di compromesso
e di integrazione delle minoranze nella maggioranza che questo principio svolge nella dialettica
parlamentare.
Sulla base di queste premesse, è evidente che la vera questione non è semplicemente se il principio del
libero mandato parlamentare possa essere messo in discussione dallo statuto di un gruppo parlamentare,
inteso come negozio giuridico di diritto privato riconosciuto dall’ordinamento giuridico parlamentare,
bensì se la libertà dei cittadini di associarsi in partiti politici per concorrere con metodo democratico a
determinare la politica nazionale possa costruire un modello di rappresentanza politica diverso da quello
previsto dalla Costituzione formale.
2 – Nel sistema costituzionale della rappresentanza ricostruito a partire dalla giurisprudenza costituzionale
che si è richiamata (Corte cost. 14/1964, 1/2014, 35/2017), chi viene eletto non è cieco nei confronti dei
propri elettori. Sa chi sono i suoi elettori e sa di essere politicamente legato agli stessi12.
Il membro del Parlamento deve conoscere chi lo elegge perché deve sapere a chi non può non sentirsi
legato.
Senza vincolo di mandato, nel tessuto letterale dell’art. 67, Cost., significa che: (i) esiste un mandato e
che il “principale”, per usare l’espressione abituale nel secolo in cui si formavano le dottrine con cui ci si
sta confrontando, deve essere individuabile, ma che (ii) quel mandato è essenzialmente politico e non
può essere considerato giuridicamente vincolante, perché (iii) il voto è segreto e quindi l’eletto può
conoscere la comunità di cui fanno parte i suoi elettori ma non può sapere chi sono i suoi elettori.
Per l’art. 67, Cost. la sanzione per colui che viola il mandato degli elettori spetta al principale, e quindi
agli elettori stessi, la cui volontà si esprime esclusivamente attraverso il voto politico e può essere
interpretata nei limiti e con le peculiarità con cui si può interpretare l’esito di una consultazione popolare.
12 Zanon (Id., La seconda giovinezza, cit.) ricorda che l’ideale del libero mandato parlamentare è stato costruito da Edmund Burke e che Burke era stato eletto dai cittadini di Bristol, i quali non lo rielessero per un secondo mandato. Vale la pena ricordare le parole di Burke: Certainly, gentlemen, it ought to be the happiness and glory of a representative to live in the strictest union, the closest correspondence, and the most unreserved communication with his constituents. Their wishes ought to have great weight with him; their opinion, high respect; their business, unremitted attention. It is his duty to sacrifice his repose, his pleasures, his satisfactions, to theirs; and above all, ever, and in all cases, to prefer their interest to his own. But his unbiassed opinion, his mature judgment, his enlightened conscience, he ought not to sacrifice to you, to any man, or to any set of men living. These he does not derive from your pleasure; no, nor from the law and the constitution. They are a trust from Providence, for the abuse of which he is deeply answerable. Your representative owes you, not his industry only, but his judgment; and he betrays, instead of serving you, if he sacrifices it to your opinion (E. BURKE, Speech to the Electors of Bristol, facilmente reperibile in rete). La libertà del parlamentare di seguire la propria coscienza anziché le istruzioni dei suoi elettori non lo rende irresponsabile verso gli stessi, che dovranno confermare o meno il suo seggio, valutando serenamente il suo operato.
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Questa disposizione è stata interpretata dagli atti di organizzazione dei gruppi parlamentari del
Movimento 5 Stelle nel senso che la stessa non impedirebbe di applicare una penale nei confronti del
parlamentare che abbandona o viene espulso dal gruppo parlamentare a causa di un dissidio politico.
Si tratta di un meccanismo non molto diverso da quello che si usa nei sindacati di voto organizzati da un
accordo parasociale: il patiscente che non rispetta le indicazioni del comitato direttivo del sindacato può
essere obbligato al pagamento di una penale nei confronti del sindacato stesso, magari garantita con una
fideiussione bancaria a prima richiesta, ma questo, anche prima del riconoscimento positivo dei patti
parasociali avvenuto nel 2001, non determina l’invalidità del patto parasociale, perché questo negozio
giuridico si pone al di fuori dell’organizzazione societaria lasciando libero il patiscente di darvi attuazione
o meno13.
La giurisprudenza ritiene che questi accordi siano validi perché hanno efficacia meramente obbligatoria
e quindi danno vita ad un vincolo che si colloca su “un terreno esterno a quello dell'organizzazione
sociale”, che gli stessi non rappresentano un impedimento per il socio che è libero “di determinarsi in
assemblea come meglio creda”, che il vincolo riveniente da questi accordi “opera non dissimilmente da
qualsiasi altro possibile motivo soggettivo che possa spingere un socio ad esprimere il suo voto in
assemblea in un determinato modo”.
Se le sanzioni previste dal regolamento del gruppo parlamentare Movimento 5 Stelle al Senato e dallo
statuto del gruppo corrispondente alla Camera dovessero essere interpretate secondo questo canone
13 In questi termini, Cass., Sez. I, 23 novembre 2011, n. 14865, nella quale si legge: I patti parasociali (e, in particolare, i cosiddetti sindacati di voto) sono, nella loro composita tipologia (che non consente, pertanto, la riconduzione ad uno schema tipico unitario), accordi atipici, volti a disciplinare, in via meramente obbligatoria tra i soci contraenti, il modo in cui dovrà atteggiarsi, su vari oggetti (nella specie, circa la nomina di amministratori societari), il loro diritto di voto in assemblea. Il vincolo che discende da tali patti opera, pertanto, su di un terreno esterno a quello dell'organizzazione sociale (dal che, appunto, il loro carattere "parasociale" e, conseguentemente, l'esclusione della relativa invalidità "ipso facto"), sicché non è legittimamente predicabile, al riguardo, né la circostanza che al socio stipulante sia impedito di determinarsi autonomamente all'esercizio del voto in assemblea, né quella che il patto stesso ponga in discussione il corretto funzionamento dell'organo assembleare (operando il vincolo obbligatorio così assunto non dissimilmente da qualsiasi altro possibile motivo soggettivo che spinga un socio a determinarsi al voto assembleare in un certo modo), poiché al socio non è in alcun modo impedito di optare per il non rispetto del patto di sindacato ogni qualvolta l'interesse ad un certo esito della votazione assembleare prevalga sul rischio di dover rispondere dell'inadempimento del patto. Sulla sentenza, vedi R. COSTI, La Cassazione e i sindacati di voto: tra dogmi e natura delle cose, in Riv. it. dir. lav., 2002, 666 (fasc. 4), il quale, molto opportunamente, ad avviso di chi scrive, osserva: Inutile sottolineare che appare un po' paradossale far discendere la validità del patto con il quale il socio si obbliga ad esercitare il diritto di voto in una determinata direzione, dalla possibilità, per il socio medesimo, di non adempiere all'obbligo così contratto. Inutile anche rilevare che questa libertà di non adempiere è una libertà che si pagherebbe per lo più a caro prezzo (sia sul piano risarcitorio sia sul piano dell'immagine). Utile rilevare invece che, se la Suprema Corte argomenta la validità del sindacato di voto dalla sua efficacia meramente obbligatoria, la stessa dovrebbe escludere la validità dei patti dotati di strumenti capaci di impedire che il voto in assemblea assuma una direzione diversa da quella decisa nell'ambito del sindacato (sindacato c.d. ad efficacia reale). Questa impostazione sarà seguita nel testo. Va da sé che il riferimento ai patti parasociali a natura reale (in cui i patiscenti conferiscono i diritti di voto in un soggetto collettivo appositamente costituito e il comitato direttivo del sindacato esercita i diritti di voto dei patiscenti senza che questi vi si possano opporre) è del tutto estraneo alla logica della rappresentanza politica, anche se taluno ha talvolta proposto di far votare i capigruppi con un voto corrispondente alla consistenza dei gruppi parlamentari da essi rappresentati.
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giurisprudenziale, la questione della loro legittimità sarebbe di pronta soluzione: sarebbero legittimi
perché non imporrebbero alcun comportamento rilevante all’interno dell’organizzazione parlamentare,
lasciando il parlamentare libero di determinarsi in assemblea come meglio crede e il vincolo derivante da
questi negozi giuridici opererebbe non dissimilmente da qualsiasi altro motivo soggettivo che possa
indurre il parlamentare a comportarsi in un determinato modo anziché in un altro.
L’argomento, però, è paradossale. In campo societario, probabilmente, può, forse, non essere impossibile
affermare che esiste una libertà se questa deriva dalla possibilità di non adempiere, anche se non può
esistere un diritto a non adempiere e questo rende l’affermazione molto discutibile anche in questo settore
dell’ordinamento. Sul piano delle libertà parlamentari, però, affermare che un parlamentare è libero di
esercitare le sue funzioni di rappresentante dell’intera nazione anche se sa che il suo comportamento sarà
oggetto di una penale non indifferente sul piano economico e sottoposto all’ordalia della rete non può
essere considerato ragionevole.
Il punto essenziale di questa giurisprudenza è la separazione della sfera pubblica dalla sfera privata: i patti
parasociali appartengono alla sfera privata e operano all’interno di questa, essi, nella sfera pubblica –
ovvero con riferimento ai voti dati e alle opinioni espresse dai patiscenti –, non rilevano in alcun modo,
sicché l’esistenza di un patto parasociale che condiziona la libertà di voto o di un codice etico che
condiziona l’esercizio del mandato politico sono rilevanti sul piano dei rapporti fra patiscenti ma
irrilevanti per le sfere pubbliche nelle quali i patiscenti operano14.
La questione, quindi, è se le norme degli atti di autorganizzazione dei soggetti collettivi attraverso i quali
il Movimento 5 Stelle si proietta in Parlamento e che prevedono una penale a carico dell’eletto che
abbandoni o sia espulso dal gruppo possono essere considerate legittime e quindi se questa penale, ove
ne ricorrano i presupposti, possa essere considerata esigibile.
La soluzione di questo problema pone tre questioni di carattere processuale, nessuna delle quali può
essere considerata irrilevante e ciascuna delle quali ha dei riflessi sul problema di diritto sostanziale che
14 E’ l’impostazione fatta propria dal Tribunale Roma, Sezione (1 Sezione civile, Ordinanza 17 gennaio 2017, n. 779, udienza 12 gennaio 2017), per la quale: Le cause di ineleggibilità, in quanto eccezione al generale e fondamentale principio del libero accesso, in condizioni di eguaglianza, di tutti i cittadini alle cariche elettive, devono essere tipizzate dalla legge con determinatezza e previsione sufficienti ad evitare quanto più possibile situazioni di persistente incertezza, incidente sulla pari capacità elettorale passiva dei cittadini. Le cause limitative del diritto, costituzionalmente garantito, all'elettorato passivo sono norme di stretta interpretazione, di talché deve escludersi che un'ipotesi di ineleggibilità possa essere interpretata estensivamente al fine di ricomprendervi fattispecie testualmente non previste dalla disciplina positiva, con conseguente esclusione di qualsiasi interpretazione analogica delle cause tipiche. In tal senso, nel caso concreto deve escludersi che costituisca condizione di ineleggibilità l'avvenuta sottoscrizione, da parte del sindaco eletto, del Codice di comportamento per candidati ed eletti di un determinato partito (specificamente il Movimento 5 Stelle), sul rilievo che a ciò conseguirebbe la violazione del principio, costituzionalmente garantito, del divieto di vincolo di mandato imperativo, nonché la violazione degli artt. 3, 51 e 97 della Costituzione.
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s’indaga: chi è il giudice competente a conoscere di questa controversia, chi è legittimato a sollevare la
questione e quando chi ha la legittimazione può agire per la tutela dei propri diritti.
La giurisdizione è del giudice ordinario perché non può essere invocata l’autonomia costituzionale del
Parlamento.
Di conseguenza della legittimità di queste clausole non può giudicare il Presidente dell’assemblea cui gli
statuti dei gruppi parlamentari devono essere trasmessi ai sensi degli artt. 15, comma 2 bis, r.C. e 15.,
comma 3 bis, r.S.
Sul piano formale, i regolamenti parlamentari non prevedono un sindacato sul contenuto degli statuti e
dei regolamenti dei gruppi parlamentari da parte del Presidente15: si limitano a stabilire che gli statuti sono
trasmessi al Presidente (per il r.S., alla “Presidenza”) e che successivamente sono pubblicati sul sito della
Camera o del Senato: la sequenza approvazione (da parte dell’autonomia dei gruppi) / trasmissione (al
“Presidente”, secondo il r.C., alla “Presidenza”, secondo il r.S., che quindi prevede un intervento
dell’ufficio e non dell’organo) / pubblicazione (sul sito della Camera o del Senato, senza alcuna soluzione
di continuità rispetto allo statuto come trasmesso) non pare lasciare spazio per un sindacato del Presidente
più volte e da più parti evocato e che costituirebbe un controllo di legalità affine all’omologa notarile, ma
unicamente una sorta di moral suasion con cui il Presidente può segnalare i propri dubbi affinché gli stessi
possano essere adeguatamente presi in considerazione dall’autonomia dei gruppi16.
Sul piano sostanziale, l’affermazione di un potere presidenziale di omologa degli statuti dei gruppi
parlamentari sarebbe ragionevole se si sostenesse che gli statuti dei gruppi costituiscono fonti del diritto
15 L’art. 15, commi 2 bis e ss., r.C si limita a prevedere che lo statuto sia trasmesso al Presidente il quale potrà verificare il rispetto dei requisiti di cui ai commi seguenti (lo statuto del gruppo deve prevedere nell’assemblea del gruppo l’organo competente a deliberare sul bilancio e indicare quali sono i soggetti che provvedono all’amministrazione del gruppo). Lo stesso vale per l’art. 15, comma 3 bis, r.S.: Entro trenta giorni dalla propria costituzione, l’Assemblea di ciascun Gruppo approva un regolamento, che è trasmesso alla Presidenza del Senato nei successivi cinque giorni. Il regolamento è pubblicato nel sito internet del Senato. La sequenza logica degli adempimenti previsti da queste norme – trasmissione dello Statuto alla Presidenza e pubblicazione dello stesso sui siti internet di Camera e Senato – non sembra consentire un sindacato del Presidente il cui compito sembra esaurirsi nella pubblicazione degli statuti e non avrebbe senso prevedere la pubblicazione dello statuto trasmesso se il Presidente potesse esercitare un sindacato sullo stesso. In generale, sui rapporti fra Presidente e gruppi parlamentari, F. BIONDI, Presidenti di assemblea e gruppi parlamentari, in E. Gianfrancesco, N. Lupo, G. Rivosecchi (ed.), I presidenti di assemblea parlamentare: riflessioni su un ruolo in trasformazione, Bologna – Il Mulino, 2014, 127-153. Su queste modifiche regolamentari, F. BIONDI, Disciplina dei gruppi parlamentari e controlli sui bilanci : osservazioni alle recenti modifiche ai regolamenti di Camera e Senato, in Osservatorio sulle fonti, 2012, n. 3. 16 In questo senso, sembra si possa interpretare il precedente del 1996, quando il Presidente della Camera dei Deputati Luciano Violante non accettò le denominazioni del gruppo formato dai deputati aderenti alla Lega Nord (si trattava di Lega-Parlamento della Padania e Lega Nord-Padania indipendente) e l’accordo sulla denominazione fu raggiunto in un colloquio fra il presidente del gruppo (Pagliarini) e lo stesso Violante (Lega Nord per l’indipendenza della Padania). Nel tempo occorso alla soluzione della querelle, i deputati leghisti si astennero dai lavori parlamentari. Lo stesso comportamento fu seguito al Senato da Mancino, che rifiutò di accettare il nome di Lega – Parlamento della Padania, accettando la denominazione di Lega Nord per l’indipendenza della Padania.
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parlamentare17 e, soprattutto, che sia possibile ricavare una riserva a favore dell’autonomia parlamentare
nell’interpretazione, attuazione ed esecuzione dei principi normativi di cui all’art. 67, Cost.
La giurisdizione parlamentare trova il proprio fondamento nell’autonomia dei due rami del Parlamento,
che come può porre le norme relative alla propria organizzazione e all’esercizio delle sue funzioni, nonché
quelle necessarie ad assicurare la propria indipendenza, così le deve poter interpretare e darvi attuazione
al di fuori dell’interferenza di qualsiasi altro potere dello Stato18.
La disciplina derivante dall’intarsio fra le diverse norme dei regolamenti sui gruppi (art. 14, comma 01;
15, comma 2 ter; r.C. e 15, comma 3 bis e 53, comma 7, r.S.) e il d.l. 149/2013 non sembra poter essere
interpretata in questi termini.
Per affermare la competenza delle Camere, ovvero del loro Presidente, si dovrebbe ritenere che il
principio normativo di cui all’art. 67, Cost. debba trovare il proprio svolgimento esclusivamente nei
regolamenti parlamentari, sicché ogni interpretazione di questa disposizione potrebbe avvenire
esclusivamente all’interno dell’ordinamento giuridico parlamentare, ma l’art. 67, Cost. non è una norma
che riguarda esclusivamente l’organizzazione e il funzionamento del Parlamento, ovvero la sua
indipendenza nei confronti dei terzi, è, piuttosto, una norma che concorre a definire l’atteggiarsi della
rappresentanza politica e quindi il rapporto fra coloro che sono rappresentati e coloro che li
rappresentano.
Il contenuto della rappresentanza politica è estraneo al diritto parlamentare, che ha per oggetto l’esercizio
della rappresentanza da coloro che sono stati designati come membri del Parlamento, ma non anche il
tipo di rapporto che intercorre fra costoro e quanti li hanno eletti attraverso l’esercizio del diritto di voto.
La Corte costituzionale ha usato l’art. 67, Cost. come parametro per giudicare delle leggi elettorali in Corte
cost. 1/2014 e 35/2017, perché la definizione del contenuto costituzionale della rappresentanza politica
è uno dei parametri sulla base dei quali si deve verificare la legittimità costituzionale delle leggi elettorali,
che sono a monte del diritto parlamentare per come si esprime nei regolamenti adottati dall’autonomia
costituzionale dei due rami del Parlamento.
Queste osservazioni, ad avviso di chi scrive, valgono anche a escludere la possibilità per il Presidente della
Camera o del Senato di esercitare un sindacato sul contenuto degli statuti, non dissimile all’omologa
notarile, benché gli consentano un intervento di moral suasion su genere di quello esercitato dal Presidente
Violante nel 1996, con l’adesione di Mancino al Senato.
17 Così A. CIANCIO, I gruppi parlamentari come manifestazioni del pluralismo, Milano – Giuffrè, 2008, part. 238, ma vedi anche A. MANNINO, Diritto parlamentare, Milano – Giuffré, 2010 e R. BIN, La disciplina dei gruppi parlamentari, in AIC, Annuario 2000, Atti del XV convegno annuale, Firenze, 12 – 14 ottobre 2000, Padova – Cedam, 2011, 87 e ss. 18 Cfr. F.G. SCOCA, Autodichia e stato di diritto, in Dir. proc. amm., 2011, 25 ss. e A. D’ANDREA, Autonomia costituzionale delle Camere e principio di legalità, Milano - Giuffrè, 2004.
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Si può aggiungere che l’autonomia regolamentare dei due rami del Parlamento attribuisce a ciascuna
camera il potere di regolare diversamente dall’altra i profili di attuazione della Costituzione relativi alla
propria organizzazione e funzionamento e non sarebbe ragionevole ipotizzare due diverse giurisprudenze
parlamentari sul contenuto normativo dell’art. 67, Cost.
Al Presidente dell’Assemblea non spetta, perciò, né interpretare né dare attuazione all’art. 67, Cost., il cui
contenuto normativo oltrepassa gli ambiti del diritto parlamentare, ma questo compito spetta al giudice
ordinario19.
Il secondo problema e il terzo problema di carattere processuale sono connessi fra di loro perché
riguardano la legittimazione al processo in cui si intenda contestare il contenuto dello statuto del gruppo
parlamentare perché lesivo dell’art. 67, Cost. e l’interesse ad agire.
Si può ragionevolmente ritenere che la legittimazione ad agire spetti a colui che viene espulso e al quale
è applicata la sanzione pecuniaria prevista dalle disposizioni che si sono richiamate20. L’espulso potrà far
valere i propri diritti associativi e potrà anche sostenere l’illegittimità della pattuizione per effetto della
violazione di una norma imperativa di legge (l’art. 67, Cost.).
L’espulso fa valere il proprio diritto a non essere sanzionato con una penale per l’inadempimento a un
patto associativo che viola il principio del libero mandato parlamentare.
Si può dubitare che il membro del gruppo parlamentare, invece, possa agire a prescindere dall’esistenza
di una lesione effettiva, concreta ed attuale della propria libertà: il suo interesse ad agire sorge nel
momento in cui viene deliberata l’espulsione nei suoi confronti e non prima quando la lite sarebbe
unicamente ipotetica e potenziale perché la vaghezza delle ipotesi in cui l’esclusione dal gruppo può essere
19 Se la giurisdizione è del giudice comune, questi difficilmente abbandonerà gli indirizzi maturati dal Tribunale di Napoli nella sua sentenza del 18 aprile 2018, n. 3773, facilmente reperibile in rete, come pure facilmente reperibile in rete è il precedente della XVI Sezione civile del Tribunale di Roma del 5 febbraio 2018, che ha considerato illegittima l’espulsione deliberata per mezzo di una consultazione sulla rete, dovendosi pronunciare l’assemblea degli iscritti, secondo le norme generali di diritto comune sulle associazioni. 20 Vedi T. Genova, 10 aprile 2017, in Giur. it., 2017, 1887 (fasc. Agosto / Settembre 2017), per il quale Le deliberazioni assunte dall’organo amministrativo di un’associazione non riconosciuta sono impugnabili da parte dell’associato qualora ne risulti direttamente leso un suo diritto, in quanto la regola dettata in materia di società per azioni dall’art. 2388 c.c. costituisce un principio generale dell’ordinamento (nella fattispecie, il di- ritto leso è rinvenuto nella possibilità di concorrere alla competizione elettorale interna all’organizzazione politica in base a previsioni statutarie dell’ente, che sono in realtà attuative del diritto costituzionale di elettorato passivo sancito dall’art. 48 Cost.). L’associato potrà lamentarsi del fatto che lo statuto prevede l’applicazione delle sanzioni da parte del Presidente del gruppo, sentito il comitato direttivo, anziché da parte dell’assemblea, come sembra necessario ai sensi dell’art. 23, c.c., che però riguarda le associazioni riconosciute, come pure del ruolo procedimentale del voto popolare previsto dal quarto comma dell’art. 21, il quale sembra essere oggetto di una convocazione da parte del capo politico del Movimento, in casi eccezionali, che però non si comprende bene quando si verifichino.
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deliberata impedisce di prevedere se un comportamento (ad eccezione dell’adesione a un diverso gruppo)
possa essere considerato come un illecito21.
Il vero dubbio, però, è se sia legittimato a contestare lo statuto del gruppo anche un qualsiasi cittadino,
elettore del Movimento o meno.
La disposizione costituzionale sul divieto di mandato imperativo non costituisce una norma posta
nell’esclusivo interesse dei rappresentanti e quindi nella loro disponibilità.
Rappresenta uno dei cardini su cui si poggia l’idea costituzionale della rappresentanza politica e la
previsione di un limite al suo estendersi è una lesione arrecata al diritto di voto esercitato dai cittadini, in
termini non molto diversi da quanto statuito con riferimento alla legislazione elettorale da Corte cost.
1/2014 e 35/201722.
Non sarebbe ragionevole consentire al mandatario di mettere in discussione la validità del proprio
mandato senza riconoscere lo stesso diritto d’azione anche al mandante.
Se il mandatario ha interesse a contestare il contenuto vincolante del mandato definito dagli atti di
autorganizzazione dei gruppi parlamentari del Movimento 5 Stelle solo nel caso in cui sia applicata nei
suoi confronti una sanzione per aver violato gli obblighi a suo carico, il “principale” ha interesse a
contestare il contenuto vincolante di questi obblighi per il solo fatto che gli stessi sono stati posti.
Dal punto di vista della legittimazione del mandante, ciò che viene leso è il diritto ad essere rappresentati
da membri del Parlamento che rappresentino l’intera nazione e non solo una frazione del suo corpo
elettorale e l’interesse a reagire contro questa lesione sorge nel momento stesso in cui il mandato diventa
giuridicamente vincolante e perciò con l’approvazione dello statuto alla Camera e del regolamento al
Senato.
21 Il Presidente del Gruppo può deliberare l’espulsione, sentito il comitato direttivo, nel caso di: a) reiterate ed ingiustificate assenze dai lavori della Camera e del Gruppo; b) reiterate violazioni al presente Statuto e del Codice etico; c) mancate dimissioni dalla propria carica in caso di condanna penale, ancorché non definitiva; d) mancato rispetto delle decisioni assunte dall’assemblea degli iscritti con le votazioni in rete; e) mancato rispetto delle decisioni assunte dagli altri organi del MoVimento 5 Stelle; f) mancata contribuzione economica alle attività del MoVimento 5 Stelle; g) comportamenti suscettibili di pregiudicare l’immagine o l’azione politica del MoVimento 5 Stelle o di avvantaggiare altri partiti; h) comportamenti connotati da slealtà e scorrettezza nei confronti degli altri iscritti e eletti; i) mancata cooperazione e coordinamento con gli altri iscritti, esponenti e eletti, anche in diverse assemblee elettive, per la realizzazione delle iniziative e dei programmi del MoVimento 5 Stelle, nonche per il perseguimento dell’azione politica del MoVimento 5 Stelle; j) tutte le condotte che violino, del tutto o in parte, la linea politica dell’Associazione “MoVimento 5 Stelle” (art. 21, comma 3, Statuto Gruppo Camera). Stabilire se vi sia slealtà nei confronti del partito o degli eletti o se vi sia una violazione della linea politica dell’associazione non è semplice e della difficoltà si rende conto anche lo Statuto che prevede, al comma 4 dell’art. 21, la convocazione di una votazione on line da parte degli iscritti “in casi eccezionali” e “su indicazione del Capo Politico”. 22 C. CONSOLO, Azione di accertamento e giudizio di incostituzionalità della legge elettorale, l’antefatto della sentenza della consulta: l’azione di accertamento della “qualità” ed “effettività” del diritto elettorale, in Corriere giuridico, 2014, fasc. 1, pp. 7-16
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In questo momento, il mandante ha interesse a contestare allo statuto del gruppo della Camera e al
regolamento del gruppo al Senato la loro nullità per violazione del contenuto normativo dell’art. 67, Cost.
ed il giudice dovrà stabilire se l’art. 67, Cost. pone una norma imperativa nel senso dell’art. 1418, c.c., ma
soprattutto se gli statuti dei gruppi parlamentari possono condizionare la libertà di voto e di linea politica
dei parlamentari che aderiscono al gruppo perché le previsioni in essi statuite operano su una sfera diversa
rispetto a quella nella quale i parlamentari adempiono al proprio dovere di rappresentare la nazione.
3 – Nel primo paragrafo, si è detto che nelle previsioni con cui gli statuti dei gruppi parlamentari del
Movimento 5 Stelle limitano la libertà di linea politica dei propri parlamentari vi è una riflessione profonda
sull’idea stessa di rappresentanza politica: il membro del Parlamento, al pari di ogni altro iscritto al
Movimento, è considerato come uno strumento per affermare la linea politica del Movimento e, di
conseguenza, deve essere sanzionato nel momento in cui se ne discosta.
Sarebbe ingenuo probabilmente ritenere che questa sia una novità del Movimento 5 Stelle: i partiti
condizionano da sempre l’operato degli eletti, anche se in forma sottile e non facilmente percepibile
dall’opinione pubblica e non è una penale, per quanto di ammontare ingente, che cambia la sostanza di
questo fenomeno23.
La novità rappresentata dal Movimento è che alla pretesa di condizionare esplicitamente l’operato dei
suoi parlamentari attraverso l’espressione di votazioni da parte degli iscritti (il parlamentare viene
sanzionato, perché manca al proprio ruolo di intermediazione fra la volontà dei suoi elettori e la
formazione della volontà delle assemblee parlamentari) si accompagna il rifiuto del principio
maggioritario come strumento di integrazione e coesione attraverso le procedure parlamentari che è una
delle ragioni più profonde del divieto di mandato imperativo e del suo rango di principio generale.
Questa novità ha una forza materialmente costituzionale perché impatta sul contenuto della
rappresentanza politica, come disegnato dalla Costituzione, e sul rapporto fra gli elementi di democrazia
diretta e di democrazia rappresentativa nella Costituzione materiale, trasformando la democrazia
rappresentativa in uno strumento di attuazione della democrazia diretta.
23 Si deve anche ricordare che le recenti modifiche del regolamento del Senato hanno inciso sulla libertà dei parlamentari, sia nella parte in cui la possibilità di costruire un nuovo gruppo è stata condizionata all’esistenza di un partito politico sottostante (art. 14, comma 4 e art. 15, comma 3, r.S.), sia perché è prevista la decadenza dalla carica di segretario, Vice Presidente, Questore o Presidente di commissione in ogni caso di abbandono del gruppo parlamentare diverso dall’espulsione (art. 13, comma 1 bis e 27, comma 3 bis, r.S.). Sul punto, anche per riferimenti al rapporto fra le modifiche regolamentari e il principio del divieto di mandato imperativo, A. CONTIERI, La nuova disciplina dei gruppi parlamentari a seguito della riforma del Regolamento del Senato, in Forum di Quaderni Costituzionali (6 marzo 2018), facilmente reperibile in rete.
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Questo modello ideale, che per il Movimento 5 Stelle costituisce, perciò, un fine non negoziabile, non è
un necessario svolgimento del modello costituzionale di democrazia fondato sulla rappresentanza e nel
quale la democrazia diretta costituisce un correttivo.
Rappresenta un’eversione del modello costituzionale, ovvero un’evoluzione della Costituzione materiale
interdetta dai limiti posti dalla Costituzione formale.
Nella seconda parte di questo lavoro, si è cercato di dimostrare che questa mutazione del modello di
rappresentanza è stata sviluppata per mezzo di un atto di autonomia privata, lo statuto/regolamento del
gruppo parlamentare, e che il giudizio sulla legittimità dello stesso sembra essere di competenza del
giudice ordinario.
In dottrina, si è autorevolmente ipotizzata la via del conflitto fra poteri dello Stato24. Ma sembra molto
difficile configurare il parlamentare che agisce a tutela del proprio mandato come un potere dello Stato e
lo stesso vale per il gruppo, mentre sul piano pratico un conflitto dell’autorità giudiziaria sull’atto di
autodichia della Camera presuppone che il parlamentare, soccombente nel suo reclamo contro
l’applicazione della penale, chieda al giudice ordinario la disapplicazione della decisione della Camera di
appartenenza, quando potrebbe direttamente rivolgersi al giudice ordinario.
La sostanza, il vero conflitto, riguarda il mutamento dell’idea di rappresentanza politico attuato per mezzo
delle norme statutarie e questo conflitto ha per protagonista, per titolare della sfera di attribuzione lesa,
il potere di revisione costituzionale, dal momento che si è mutato il significato del principio maggioritario
come strumento di integrazione e coesione per mezzo delle procedure parlamentari in senso oppositivo
e divisivo.
Un conflitto che ha per oggetto la tutela della Costituzione contro un mutamento del suo contenuto
normativo imposto al di fuori del procedimento di revisione costituzionale può essere risolto nelle forme
del giudizio incidentale di legittimità costituzionale25.
La penale imposta dagli statuti parlamentari dei gruppi formati dal Movimento 5 Stelle si può giustificare
solo se si considera il contenuto di questi statuti come non vincolante sul piano parlamentare, ma
unicamente nei rapporti fra gli aderenti – patiscenti, secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione
che si è ricordata criticamente, perché altrimenti le norme degli statuti/regolamenti che prevedono la
24 In questi termini, E. GIANFRANCESCO, Chi esce paga, cit., part. 486, che ipotizza la via del conflitto di attribuzione sollevato dal deputato verso il gruppo di appartenenza per ottenere l’annullamento della sanzione che gli è stata inflitta, ovvero del potere giudiziario verso la Camera che agisce in via di autodichia sull’applicazione della sanzione. 25 Si deve ricordare che l’abolizione del divieto di mandato imperativo costituisce da sempre una delle bandiere elettorali del Movimento 5 Stelle: G. GRASSO, Mandato imperativo e mandato di partito: il caso del MoVimento 5 Stelle, in AIC, Osservatorio costituzionale, Fasc. 2/2017; V. PAZÉ, Crisi della rappresentanza e mandato imperativo, in Teoria politica, 2014, part. 285.
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penale potrebbero essere considerate nulle ai sensi dell’art. 1418, c.c., per contrasto con una norma
imperativa (l’art. 67, Cost.).
In questa giurisprudenza, ciò che ci si deve chiedere è se l’art. 1372, c.c., per il quale il contratto ha forza
di legge fra le parti, può valere anche nel caso in cui dall’esecuzione del contratto derivi la violazione
dell’art. 67, Cost.: il giudice ordinario che, per le ragioni ricordate dalla Corte di cassazione, non ritenesse
nullo il contratto associativo del gruppo parlamentare, potrebbe dubitare della legittimità costituzionale
della sua forza e questo dubbio non potrebbe essere considerato manifestamente infondato.
Vi è un’esigenza di giustizia costituzionale che gli statuti dei gruppi parlamentari costituiti dal Movimento
5 Stelle pongono con forza e questa esigenza riguarda il movimento verso il diritto privato della
Costituzione materiale, che ha trovato la sua manifestazione estrema nel contratto di governo e nel
procedimento di formazione dello stesso al di fuori delle consultazioni.
La Costituzione, per come tradizionalmente si è abituati a considerarla, parla a sfere di attribuzioni
pubbliche e disciplina il potere pubblico attraverso moduli pubblicistici: il Parlamento e il governo, nella
nostra tradizione, non possono essere considerati attraverso modelli di diritto privato fondati sul
consenso, perché si basano sul principio maggioritario.
La penale prevista dagli statuti dei gruppi parlamentari opera su un piano diverso, innestando una sfera
privata all’interno della sfera pubblica: la sfera pubblica continua ad essere assoggettata alle regole del
diritto parlamentare che la disciplinano, mentre la sfera privata, che assomiglia molto a un accordo di
natura parasociale, in cui i patiscenti trovano un accordo relativamente all’esercizio del diritto di voto per
assicurare alla società la coesione dei soci necessaria per l’attuazione del piano industriale, condiziona il
funzionamento della sfera pubblica.
La sfera privata è interna alla sfera pubblica, come il nucleo vitale di una cellula che ne determina lo
sviluppo, e il suo scopo, in questo caso, è far sì che i parlamentari eletti con il Movimento 5 Stelle adottino
comportamenti coerenti con la linea politica decisa dal Movimento, evitando, quindi, che il principio
maggioritario possa svolgere la sua funzione di integrazione per mezzo delle procedure parlamentari e
assicurando il funzionamento dialetticamente oppositivo di questo principio.
La questione di legittimità costituzionale, quindi, riguarda il valore normativo dell’art. 1376, c.c. e non la
penale contenuta dello statuto/regolamento del gruppo. Riguarda la capacità di un contratto fra
parlamentari di condizionare il loro ruolo di rappresentanti della nazione, introducendo un diverso ideale
di rappresentanza politica, ma non il contenuto di questo contratto. Ha per oggetto la norma che consente
di stipulare il contratto e non il contratto.
La questione evoca un forte bisogno di giustizia costituzionale – una questione di giustizia costituzionale
che ha bisogno dell’efficacia erga omnes delle sentenze della Consulta e non della forza di precedente
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politico che caratterizza la giurisprudenza parlamentare – perché riguarda sia la capacità degli attori politici
di modificare il contenuto dei precetti costituzionali, cercando un equilibrio fra Costituzione formale e
materiale al di fuori dei limiti esplicitamente posti dalla Costituzione formale attraverso moduli privatistici,
sia la legittimità di una lettura oppositiva anziché integrativa del principio maggioritaria.
Di questo bisogno, che potrà essere risolto o nelle vie che si sono suggerite con queste pagine
direttamente dal giudice comune o per mezzo di una questione di legittimità costituzionale posta in via
incidentale sull’art. 1376, c.c., o per mezzo di un conflitto di attribuzione fra poteri, come sembra più
difficile a chi scrive, si deve dire un’ultima cosa.
E’ un bisogno che deve ricevere una risposta più tempestiva possibile, in modo da chiarire
definitivamente se l’autonomia costituzionalmente negoziale dei gruppi parlamentari può o meno
concorrere a determinare il significato normativo dell’art. 67, Cost. e se il principio maggioritario debba
perdere la sua forza di giunto fra maggioranza e minoranze, sia per l’importanza che ha questa
disposizione nel tessuto della Costituzione, sia per l’importanza che ha la soluzione di questo dubbio con
riferimento agli sviluppi della Costituzione materiale e quindi alla tenuta del principio di rigidità della
Costituzione formale.
di Salvatore Curreri
Professore associato di Istituzioni di diritto pubblico Università Kore di Enna
Costituzione, regolamenti parlamentari e statuti dei gruppi politici: un rapporto da ripensare
1 3 G I U G N O 2 0 1 8
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Costituzione, regolamenti parlamentari e statuti dei gruppi politici: un rapporto da ripensare*
di Salvatore Curreri
Professore associato di Istituzioni di diritto pubblico Università Kore di Enna
Sommario: 1. Una necessaria premessa: la natura giuridica dei gruppi parlamentari – 2. L’attuale confine tra regolamenti parlamentari e statuti interni dei gruppi) – 3. Regolamenti parlamentari e disciplina di gruppo – 4. Il contrasto degli statuti interni dei gruppi politici del M5S con: a) i regolamenti parlamentari – 5. (segue): b) l’art. 67 della Costituzione) – 6. In particolare: l’incostituzionalità della proposta introduzione del vincolo di mandato – 7. Vincolo di mandato e giuramento dei ministri – 8. Il controllo del Presidente d’Assemblea – 9. In particolare: il ricorso sulla costituzione del gruppo all’Ufficio di Presidenza – 10. Il possibile conflitto di attribuzioni – 11. Considerazioni conclusive: ripensare il confine tra regolamento parlamentare e statuto interno del gruppo
1. Una necessaria premessa: la natura giuridica dei gruppi parlamentari
Qual è la natura giudica dei gruppi parlamentari? Associazioni private che, in forza della loro autonomia
politica, possono liberamente organizzarsi e decidere al proprio interno? Oppure enti che, in ragione della
natura pubblica delle funzioni esercitate, possono vedere tale autonomia limitata dai regolamenti
parlamentari? Qual è il rapporto tra questi due profili? Qual è, cioè, il confine tra autonomia politica dei
gruppi e regolamenti parlamentari? Se tale confine viene oltrepassato, chi e con quali procedure può
intervenire?
Sono queste, alla radice, le questioni ultime che traspaiono dallo scambio epistolare tra i deputati Magi e
Ceccanti (1) e il Presidente della Camera Fico (2) circa l’asserito contrasto tra alcune disposizioni dello
statuto interno del gruppo parlamentare alla Camera del MoVimento 5 Stelle (St. M5S) e taluni articoli
del regolamento di Montecitorio e della Costituzione.
* Intervento alla Tavola rotonda “Gli statuti dei gruppi parlamentari alla prova dell’art. 67della Costituzione”, Roma, 16 maggio 2018. 1) Per i testi delle lettere degli on. Magi (9 aprile) e Ceccanti (11 aprile) v., rispettivamente, https://www.huffingtonpost.it/riccardo-magi/caro-presidente-fico-il-regolamento-del-tuo-gruppo-parlamentare-viola-la-costituzione-non-puoi-far-finta-di-nulla_a_23409654/ e http://stefanoceccanti.it/lettera-al-presidente-della-camera-sui-problemi-che-pone-lo-statuto-del-gruppo-camera-m5s/ 2) Per il testo della risposta del Presidente Fico (17 aprile) v. http://stefanoceccanti.it/la-risposta-del-presidente-fico-alle-lettere-magi-e-ceccanti/
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Quella della natura giuridica dei gruppi parlamentari è questione notoriamente complessa, che qui può
solo ovviamente essere evocata (3), alla quale i giuristi nel tempo, anche a causa di una giurisprudenza
incerta, hanno dato risposte diverse a seconda del profilo – privato o pubblico – ritenuto prevalente.
Così, chi tende ad evidenziare il rapporto non solo politico (4) ma anche giuridico (5) tra gruppo
parlamentare e il corrispondente partito politico, ritiene trattarsi di un suo organo privato, seppur investita
di pubbliche funzioni. Chi all’opposto, invece, tende a rimarcare queste ultime, ritiene il gruppo
parlamentare soggetto pubblico (organo dello Stato e/o delle camere; associazione di diritto pubblico;
ente pubblico indipendente) (6).
Sono ricostruzioni che, in definitiva, colgono solo un aspetto del problema e che, anche per questo, sono
criticate da quanti invece ritengono le due dimensioni – privata e pubblica – inscindibili. Secondo tale
tesi, ormai maggioritaria in dottrina, i gruppi parlamentari hanno natura giuridica mista, essendo
contemporaneamente organi dei rispettivi partiti e, quindi, “riflesso istituzionale del pluralismo politico”
3) Per un’esposizione delle distinte posizioni della dottrina e dei suoi sostenitori v. P. PETTA., Gruppi parlamentari e partiti politici, in Riv. it. sc. giur., 1970, 230 s.; G.U. RESCIGNO, Gruppi parlamentari, in Enc. dir., XIX, Milano, 1970, 794 ss.; C. ROSSANO, Partiti e Parlamento nello Stato contemporaneo, Napoli, 1972, 285 ss.; G.F. CIAURRO, G. NEGRI, Gruppi parlamentari, in Enc. giur., XV, Roma, 1989, 1 ss.; S. BANCHETTI, La natura giuridica dei gruppi parlamentari, in Il Parlamento della Repubblica. Organi procedure apparati, n. 12, Roma, II, 2008, 659 s.; A. CIANCIO, I gruppi parlamentari. Studio intorno a una manifestazione del pluralismo politico, Milano, 2008, 30 ss. e 88 ss. Per la dottrina spagnola v. A. SAIZ
ARNÁIZ, Los grupos parlamentarios, Madrid, 1989, 289 ss.; J.L. GARCÍA GUERRERO, Democracia representativa de partidos y grupos parlamentarios, Madrid, 1996, 31 ss. e 231 ss. 4) A partire dal fatto che gli esponenti dei direttivi dei gruppi fanno parte degli organi direttivi previsti dagli statuti del partito: cfr. C. DECARO, La struttura delle Camere, in T. MARTINES, G. SILVESTRI, C. DE CARO, V. LIPPOLIS, R. MORETTI, Diritto parlamentare, II, ed., Milano, 2011, 114. Sul rapporto tra partiti politici e gruppi parlamentari v. R. BIN, Rappresentanza e parlamento. I gruppi parlamentari e i partiti, in S. Merlini (a cura di), La democrazia dei partiti e la democrazia nei partiti, Firenze, 2009, 253 ss.; G.M. RAFFA, I rapporti tra i partiti politici e i gruppi parlamentari, in E. Rossi, L. Gori (a cura di), Partiti politici e democrazia: riflessioni di giovani studiosi sul diritto dei e nei partiti, Pisa, 2011, 87 ss. Sul ruolo a tal fine strategico del comitato direttivo, come organo di raccordo tramite cui il partito impartisce le direttive al gruppo v. S. TOSI, Diritto parlamentare, II ed. a cura di A. Mannino, Milano, 1993, 168. 5) Cfr. gli articoli: a) 18-bis.2 D.P.R. n. 361/1957 che esenta dalla sottoscrizione delle liste elettorali “i partiti o gruppi politici costituiti in gruppo parlamentare in entrambe le Camere all’inizio della legislatura in corso al momento della convocazione dei comizi” (v. anche art. 2.36 l. 52/2015 c.m. dall’art. 6 l. 165/2017); b) 3.6 e 4.2.a) l. 28/2000 che prevedono la ripartizione paritaria rispettivamente dei messaggi gratuiti e degli spazi di comunicazione politica ai soggetti politici rappresentati nelle assemblee oppure, nel secondo caso, presenti nel Parlamento europeo o in uno dei due rami del Parlamento; c) 14.4 R.S. per cui ciascun gruppo, oltreché “composto da almeno dieci Senatori” - requisito numerico che, laddove esclusivo, sancirebbe “l’autonomia dei gruppi parlamentari rispetto ai partiti” (C. DECARO, La struttura, cit., 102, corsivo nel testo) – deve anche “rappresentare un partito o movimento politico (…) che abbia presentato alle elezioni del Senato propri candidati con lo stesso contrassegno, conseguendo l’elezione di Senatori”; condizione quest’ultima che l’art. 14.2 R.C. prevede solo per i gruppi autorizzati perché composti da meno di venti deputati. È stato invece abrogato l’3.5 l. 195/1974 che obbligava “i presidenti dei gruppi parlamentari (…) a versare ai rispettivi partiti una somma non inferiore al 95 per cento del contributo” pubblico ricevuto” (ma per S TOSI, A. MANNINO, Diritto parlamentare, nuova edizione, Milano, 1999, 158 tale disposizione mantiene la sua “validità teorica, perché la funzione dei partiti nel sistema costituzionale è rimasta inalterata”), ed anzi oggi è espressamente previsto che i contributi finanziari erogati ai gruppi devono essere destinati esclusivamente per loro attività (artt. 15.4 R.C. e 16.2 R.S.), senza quindi poter essere trasferiti ai partiti. 6) Cfr. A. MANZELLA, Il Parlamento, II ed., Bologna, 1991, 70.
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(C. cost. 49/1998, 4° cons. dir.: v. anche 298/2004), e soggetti costituzionalmente necessari ex artt. 72 e
82 Cost. per l’organizzazione ed il buon andamento delle attività parlamentare. Le camere trovano, quindi,
nei gruppi parlamentari l’elemento cardine portante in base a cui strutturarsi, ricapitolare le posizioni
politiche e svolgere le loro funzioni. Del resto, tale duplice profilo è insito nei membri dei gruppi
parlamentari, contemporaneamente membri del partito e della camera alla quale sono stati eletti. Tale
impostazione trova oggi conferma nella definizione felicemente ambigua (7) contenuta nell’art. 14.01 R.C.
secondo cui i gruppi parlamentari “sono associazioni di deputati” (profilo privatistico) che danno vita a
“soggetti necessari al funzionamento della Camera” (profilo pubblicistico) (8).
La compresenza di tale due profili rende i gruppi parlamentari oggetto di una duplice disciplina: quella
privatistica dettata dai loro regolamenti interni e, in misura ridotta, dagli statuti dei partiti nella cui
organizzazione sono inseriti; quella pubblicistica dei regolamenti parlamentari che sono le sole fonti di
diritto statale sulla loro organizzazione interna e sulle funzioni pubbliche loro attribuite (9). Tali
disposizioni regolamentari sono, quindi, estremamente significative perché individuano il punto di
equilibrio tra autonomia statutaria dell’associazione e tutela delle prerogative dei singoli rappresentanti e,
loro tramite, dell’attività parlamentare nel suo complesso.
2. L’attuale confine tra regolamenti parlamentari e statuti interni dei gruppi
Al pari di quanto previsto fino a pochi anni fa per i partiti politici (10), i gruppi parlamentari godono oggi
d’una autonomia statutaria pressoché assoluta e riservata. I regolamenti di Camera e Senato, infatti,
7) Per un’accezione invece negativa di tale “ambigua definizione” v. N. LUPO, La disciplina dei gruppi parlamentari, nel mutare delle leggi elettorali, in Osservatoriosullefonti.it, n. 3/2017, 12 (disponibile in: http://www.osservatoriosullefonti.it), secondo cui essa entra, ma non risolve, l’annosa questione della natura giuridica dei gruppi parlamentari. Invece, per L. DI MAJO, M. RUBECHI, Gruppi parlamentari, in Digesto disc. pubbl., Aggiornamento, vol. VI, Torino, 2015, 233 s., tale definizione, ancorché prevista nel solo regolamento della Camera, sancisce definitivamente la “natura ambigua” dei gruppi parlamentari, con il conseguente “abbandono della posizioni più polarizzate” e la conversione “sulla loro natura giuridica ibrida e del tutto peculiare in ragione delle funzioni da essi svolte all’interno delle assemblee elettive”. Sulla natura di “sintesi” di tale definizione concorda F. BIONDI, Disciplina dei gruppi parlamentari e controlli sui bilanci: osservazioni alle recenti modifiche ai regolamenti di Camera e Senato, in Osservatoriosullefonti.it, n. 3/2012, 4. 8) In ciò, la disciplina italiana differisce da quella tedesca che definisce i gruppi parlamentari (Fraktionen) “associazioni dei membri del Bundestag” (v. art. 10.1 reg. Bundestag; art. 45 Legge federale sui rapporti giuridici dei membri del Parlamento tedesco (Abgeordnetengesetz – AbgG), dotate di capacità giuridica ma che “non esercitano alcun potere pubblico” (art. 46); v. F. BILANCIA, I regolamenti dei gruppi parlamentari del Bundestag, in S. Merlini (a cura di), Rappresentanza politica, gruppi parlamentari, partiti: il contesto europeo, Torino, 2001, 163 ss. 9) S. TOSI, Diritto parlamentare, cit., 167. 10) Oggi, infatti, i partiti che vogliano avvalersi delle agevolazioni fiscali previste per i contributi privati o presentare liste di candidati alle elezioni politiche, pena loro ricusazione (art. 22.1-bis TUCD), devono dotarsi e depositare uno statuto che contenga taluni elementi essenziali di democrazia interna e di trasparenza nei confronti degli elettori (art. 3 d.l. 149/2013), ovvero, in mancanza, un’apposita dichiarazione sostitutiva indicante taluni elementi minimi di trasparenza (art. 14.1 TUCD; questa seconda opzione – di cui si avvale il Movimento 5 Stelle che rifiuta il c.d.
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prevedono al riguardo una disciplina timida e minimale (11), nel segno di un prudente rispetto, giudicato
“eccessivo”, verso l’autonomia politica, organizzativa, amministrativa e procedurale dei gruppi,
rinunciando ad esercitare nei loro confronti “alcuna funzione, neppure di indirizzo” (12).
In primo luogo, infatti, per regolamento, i gruppi parlamentari devono nominare nella loro prima
riunione (13): il Presidente (e, alla Camera, i – massimo tre - suoi sostituti) (14); i vicepresidenti; il comitato
direttivo (solo alla Camera); uno o più Segretari (solo al Senato). Di tali nomine e di ogni loro successivo
mutamento va data comunicazione alla Presidenza (artt. 15.2. R.C. e R.S.). I regolamenti parlamentari,
pertanto, si limitano ad imporre ai gruppi, all’atto della loro costituzione, “un primo abbozzo
organizzativo (…), al fine di attuare un minimo di uniformità nella identificazione degli organi direttivi
dei gruppi all’interno di ciascuna camera, in considerazione soprattutto delle importanti funzioni che i
regolamenti assegnano a questi” (15).
A tali organi direttivi obbligatori, le riforme regolamentari approvate da Camera e Senato rispettivamente
il 25 settembre e il 21 novembre 2012 ne hanno aggiunto altri, in relazione alla gestione contabile dei
contributi finanziari che i bilanci di Camera e Senato prevedono ogni anno a favore dei gruppi
parlamentari e giustificati dalla rilevanza pubblica delle funzioni da loro ivi svolte: gli organi responsabili
della gestione amministrativa e contabile del gruppo: distinti al Senato (art. 15.3-ter R.S.), unico alla
Camera (art. 15.2-bis R.C.); l’Assemblea quale organo espressamente competente ad approvare il
rendiconto di esercizio annuale (artt. 15.2-bis e 15-ter.3 R.C.; art. 15.3-ter e 16-bis.1 R.S.) (16). Il che dimostra
come tale riforma, in scia a quella notoriamente “gruppo centrica” del 1971, abbia considerato i gruppi
finanziamento pubblico indiretto - non era prevista dall’art. 2.7 l. 52/2015 che, più efficacemente, obbligava tutti i partiti a dotarsi d’uno statuto per partecipare alle elezioni politiche). 11) Cfr. A. MANZELLA, Il Parlamento, I ed., Bologna, 1977, 33 s.; R. BIN, La disciplina dei gruppi parlamentari, in Annuario 2000. Il Parlamento, a cura dell’Associazione italiana dei costituzionalisti, Atti del XV Convegno Annuale Firenze 12-14 ottobre 2000, Padova, 2001, 87 ss.; per la Spagna v. A. TORRES DEL MORAL, Los grupos parlamentarios, in Rev. de Derecho Politico, n. 9/1981, 57 s. che critica la mancanza nei regolamenti parlamentari di disposizioni sulla disciplina di gruppo. 12) Così A. P. TANDA, Le norme e la prassi del Parlamento italiano, II ed., Roma, 1987, 53. Anche S. ANTONELLI, I gruppi parlamentari (spunti critici del diritto pubblico «vivente»), Firenze, 1979, 41 ss. ha criticato la mancanza di norme sulla disciplina e sull’organizzazione interna dei gruppi parlamentari, nonostante le ampie facoltà di attuazione pubblica loro riconosciute, evidenziando sin da allora il rischio che ciò avrebbe potuto portare a convertire i gruppi in istituzioni non democratiche. Per l’A. tale lacuna è un fatto insolito “se non unico, nel nostro diritto pubblico, caratterizzato, in generale, da una sovrabbondanza di regole di competenza, organizzative e procedurali, per determinare i processi di formazione della volontà da parte dei titolari dei poteri pubblici”. 13) Tale prima riunione va convocata dal Presidente d’Assemblea “entro quattro giorni dalla prima seduta” alla Camera (art. 15.1 R.C.), “entro sette giorni dalla prima seduta” al Senato (art. 15.1 R.S.). 14) Sui poteri di tali “supplenti” v. A. P. TANDA, Le norme, cit., 56 s. 15) A. P. TANDA, Le norme, cit., 50. 16) Mentre alla Camera è direttamente il regolamento a stabilire che tale rendiconto va approvato “a maggioranza” (art. 15.2-bis), al Senato “i termini” e “le modalità” con cui “ciascun gruppo approva un rendiconto di esercizio annuale” sono “stabiliti dal Consiglio di Presidenza mediante un apposito regolamento di contabilità” (art. 16-bis.1)
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parlamentari “tendenzialmente (…) organi delle camere” (17), superando così la dimensione
esclusivamente privatistica a favore della loro natura giuridica ibrida (18). Inoltre, ai gruppi parlamentari è
stato formalmente imposto di approvare un loro statuto interno (regolamento al Senato) entro trenta
giorni dalla loro costituzione (vigendo il principio di discontinuità tra legislature) – statuto di cui invero i
gruppi di fatto si sono quasi sempre dotati in virtù dell’obbligo in tal senso previsto dall’abrogato art. 5.1
l. 195/1974 (19). Tale statuto, infine, è pubblico perché va trasmesso entro cinque giorni al Presidente
d’Assemblea e pubblicato sui siti internet di Camera e Senato (artt. 15.2-bis e 2-ter R.C. e 15.3-bis R.S.). La
scomparsa del mitico alone di segretezza che fino ad allora circondava tali statuti (20) è ulteriore riprova
della rilevanza pubblica, e non solo privata, dei gruppi parlamentari (21). Tale disciplina trova
evidentemente spiegazione con l’esigenza, particolarmente avvertita dopo la riforma del finanziamento
pubblico dei partiti politici (l. 96/2012, poi abrogata), approvata a seguito di noti scandali, d’imporre
anche ai gruppi parlamentari specifici obblighi di trasparenza, rendicontazione e controllo sui contributi
finanziari ricevuti esclusivamente per la loro attività parlamentare e politica, pena, in caso di mancato
rispetto, al limite la decadenza dal diritto alla loro erogazione (artt. 15-ter.7 R.C. e 16-bis.8 R.S.). Però, è
significativo notare come in quell’occasione, al contrario di quanto previsto per i partiti (art. 2.2 d.l.
149/2013), l’erogazione di tali contributi è stata subordinata all’introduzione di maggiori obblighi di
trasparenza dei gruppi all’esterno ma non di requisiti di democrazia interna, come dimostra il fatto che le
proposte in tal senso furono respinte (22).
17) L. GIANNITI, N. LUPO, Corso di diritto parlamentare, II ed., Bologna, 2013, 106. 18) Cfr. E. GRIGLIO, La natura giuridica dei gruppi consiliari: dal parallelismo all’asimmetria con i gruppi parlamentari, in Rass. parl., n. 2/2015, 331 s., specie 351 ss., cui si rimanda per l’analisi di tale riforma. 19) “I partiti politici ed i gruppi parlamentari che intendono ottenere i contributi previsti dalla presente legge devono indicare nei loro statuti e regolamenti i soggetti, muniti di rappresentanza legale, abilitati alla riscossione”. 20) Alcuni furono pubblicati nell’opera ormai datata di M. D’ANTONIO, G. NEGRI, Raccolta degli statuti dei partiti politici in Italia, Milano, 1958; C.E. TRAVERSO, V. ITALIA, M. BASSANI, I partiti politici. Leggi e statuti, Milano, 1966, XV nt. 1, decisero di non pubblicarli perché non autorizzati da tutti i gruppi parlamentari; v. anche A. MANZELLA, Note sull’organizzazione parlamentare, in Tempi moderni, n. 32, 1967-68, 30. Per un’analisi comparativa tra i diversi statuti v. P. MARSOCCI, La disciplina interna ai gruppi parlamentari, in S. Merlini (a cura di), Rappresentanza politica, gruppi parlamentari, partiti. Volume II. Il contesto italiano, Torino, 2004, 147 ss. Nella seduta della Camera del 2 febbraio 1971 l’emendamento per rendere pubblici gli statuti interni fu respinto perché in essi “vi è una parte che deve essere lasciata riservata e segreta, cioè non sottoposta al controllo di altri gruppi, in quanto non attinente alla vita di quella comunità che è la Camera” (così il relatore A. BOZZI , in Il nuovo regolamento della Camera dei deputati, a cura della Camera dei deputati. Segretariato Generale, Roma, 1972, 289). Per considerazioni più generali, v. J.M. MORALES ARROYO, Los grupos parlamentarios en las Cortes generales, Madrid, 1990, 123 s. 21) …se, al contrario, la facoltà di tenere segreto il regolamento interno era invece “sintomo del carattere privato dei Gruppi” (V. DI CIOLO, Il diritto parlamentare nella teoria e nella pratica, II ed., Milano, 1987, 268). 22) Cfr. F. BIONDI, Presidenti di Assemblea e gruppi parlamentari, in E. Gianfrancesco, N. Lupo, G. Rivosecchi (a cura di), I Presidenti di Assemblea parlamentare. Riflessioni su un ruolo in trasformazione, Bologna, 2014, 135 s.
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Oltre la previsione di tali organi interni al gruppo, i regolamenti parlamentari non si spingono. Nulla,
infatti, essi dispongono circa le loro modalità di deliberazione, quando invece il regolamento della Camera
del 21 luglio 1920 prevedeva “un penetrante intervento della Presidenza della Camera per controllare le
condizioni di valida costituzione del gruppo” (23), imponendo, per designare i loro “delegati nelle singole
Commissioni permanenti”, il numero legale in prima convocazione di almeno un terzo dei componenti
(art. 2) e lo scrutinio segreto (art. 3.1).
Spetta, dunque, solo agli statuti interni dei gruppi disciplinarne: a) la composizione: requisiti per
l’iscrizione; cause d’espulsione (24); eventuale differente status tra effettivi e affiliati a seconda del vincolo
di disciplina; b) l’organizzazione: organi del gruppo; rispettive competenze e relazioni reciproche;
articolazione del gruppo in base ai criteri della competenza o della provenienza territoriale; c)
funzionamento: rapporti con il partito corrispondente; rapporti con i singoli membri, inclusi i mezzi con
cui far valere la disciplina di gruppo; le sanzioni disciplinari, gli organi di garanzia chiamati ad applicarle
e i casi di coscienza in cui si consente invece libertà di voto; i rapporti con il corrispondente gruppo
dell’altra camera dello stesso partito, inclusa la creazione di organismi intergruppo (25); le funzioni
istituzionali, come le consultazioni e le designazioni nelle commissioni) (26).
Il quadro delineato sembrerebbe contraddetto dall’art. 53.7 R.S. che, penetrando per la prima volta
all’interno della potestà statutaria dei gruppi, impone loro di stabilire “procedure e forme di
partecipazione che consentano ai singoli Senatori di esprimere i loro orientamenti e presentare proposte
sulle materie comprese nel programma dei lavori o comunque all’ordine del giorno”. Come noto, tale
disposizioni fu approvata in occasione della riforma del 1988 che ha generalizzato il voto palese,
nell’implicito presupposto che ad esso si dovesse necessariamente unire una maggiore democrazia nei
gruppi parlamentari così da consentire al dissenso di esprimersi al loro interno e non in Aula grazie
all’usbergo dello scrutinio segreto (27). Qualunque limitazione prevista dagli statuti interni dei gruppi
parlamentari che non consentisse ai suoi membri di partecipare all’organizzazione dei lavori parlamentari
e, più in generale, di esercitare le loro funzioni violerebbe pertanto tale disposizione regolamentare e,
ancor prima, come vedremo, l’art. 67 Cost. (28). Ma è altrettanto noto che, nonostante le sue non
23) Cfr. A. MANZELLA, Il Parlamento, I ed. cit., 33 s. 24) Cfr. R. BIFULCO, Osservazioni in tema di espulsione del parlamentare dal gruppo, in amministrazioneincammino.it, 29 settembre 2017. 25) Cfr. G.U. RESCIGNO, Gruppi parlamentari, in Enc. dir., XIX, Milano, 1970, 785; J. WALINE, Les groupes parlementaires en France, in Rev. dr. publ. sc. pol., 1961, 6, 1207. 26) Sull’organizzazione interna dei gruppi prima della riforma regolamentare del 2012 v. G. GIRELLI, G. MARRONE, L'autonomia dei gruppi parlamentari nell'ambito dell'autonomia delle Camere, in E. Rossi (a cura di), Studi pisani sul Parlamento, Pisa, 2007, 323 ss. 27) Cfr. A. MANZELLA, Il Parlamento, III ed.,Bologna, 2003, 97. 28) Cfr. C. DECARO, La struttura, cit., 115.
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indifferenti potenzialità, tale disposizione è rimasta inapplicata, sia perché essa non prevedeva forme di
controllo e sanzioni in caso di mancato rispetto da parte degli statuti interni, sia perché il Presidente del
Senato non l’ha mai utilizzata come parametro per valutare la democrazia all’interno dei gruppi
parlamentari (29). Il che, però, potrebbe ora accadere dinanzi agli interrogativi, analoghi a quelli avanzati
dai deputati Ceccanti e Magi, formulati il 30 aprile 2018 dal sen. Parrini in merito al regolamento interno
del gruppo parlamentare del MoVimento 5 Stelle al Senato, identico a quello della Camera (30).
Né, infine, appare in contrasto con il quadro delineato il fatto che una componente politica del gruppo
misto alla Camera possa chiamare il Presidente a decidere se sia stato “pregiudicato un proprio
fondamentale diritto politico” da una deliberazione dei suoi organi direttivi assunta in violazione della
sua consistenza proporzionale (art. 15-bis.2 R.C.). Tale disposizione, infatti, pare dipendere in modo
decisivo dalla natura obbligatoria e non volontaria del vincolo associativo che lega i deputati che si sono
iscritti al gruppo misto perché non hanno potuto o voluto aderire o costituire un gruppo autonomo. La
natura specifica di tale disposizione, quindi, non ne rende estensibile in via analogica l’applicazione ai
gruppi politici veri e propri (31).
3. Regolamenti parlamentari e disciplina di gruppo
I regolamenti parlamentari si arrestano quindi dinanzi all’autonomia politico-organizzativa del gruppo,
anche quando la loro disciplina può incidere sullo svolgimento delle funzioni del singolo parlamentare ad
esso iscritto (32). Così le sue iniziative, legislative e no, sono sottoposte al vaglio preventivo degli appositi
organi del gruppo (33) per valutarne la conformità e/o l’opportunità rispetto alla linea politica perseguita
(34).
29) N. LUPO, Il Presidente di Assemblea come “giudice” del diritto parlamentare, in Scritti in onore di Franco Modugno, Napoli, 2011, III, 2067 s. e ivi nt. 43 (ripreso nella voce Presidente d’Assemblea, in Dig. Disc. Pubbl.. Aggiornamento, IV, Torino, 2010, 455 ss.). 30) Il sen. Parrini, infatti, ha chiesto al Presidente del Senato “di esprimere una chiara valutazione sulle disposizioni contenute” in tale regolamento. Al momento in cui scriviamo (31 maggio 2018) non vi è stata risposta. 31) Cfr. L. GIANNITI, N. LUPO, Corso, cit., 107; F. BIONDI, Presidenti, cit., 135; L. GORI, I gruppi parlamentari: profili organizzativi, in E. Rossi (a cura di), Studi pisani sul Parlamento, Pisa, 2007, 385. 32) Cfr. C. DECARO, La struttura, cit., 114 s. 33) L’art. 18 St. M5S prevede un Ufficio Legislativo, il cui capo è nominato dal Presidente del gruppo in accordo con il Capo Politico, che “provvede all’analisi dei testi sottoposti all’esame parlamentare” e “redige i progetti di legge, gli emendamenti, gli atti di indirizzo e gli schemi di parere”. 34) Cfr. art. 21.2.i) St. M5S su cui v. subito infra. Sul tema v. M.L. MAZZONI HONORATI, Lezioni di diritto parlamentare, Torino, 2005, 114.
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Tale disciplina di gruppo, è bene precisare, è legittima perché essenziale per la tutela della identità politica
del gruppo e la coerenza e l’incisività della sua attività politico-parlamentare (35), specie in sede di voto
(36). Essa è vincolante nella misura in cui costituisce il punto di sintesi del dibattito politico nel gruppo,
introducendo così un elemento di semplificazione del confronto in commissione e in Aula di cui beneficia
il funzionamento del regime parlamentare moderno, a sua volta indispensabile per l’azione di governo.
Inoltre, essa non viola l’art. 67 Cost. perché il parlamentare che vota secondo gli indirizzi e le direttive
del suo gruppo e del suo partito, rimane pur sempre “libero di sottrarsene” senza che da ciò possano
legittimamente derivare conseguenze giuridiche a suo carico (C. cost. 14/1964, 2° cons. dir.), quale, ad
esempio, la decadenza dal mandato. Le limitazioni all’esercizio delle funzioni imposte dalla disciplina di
gruppo al singolo parlamentare sono legittime nella misura in cui hanno natura non giuridica ma solo
politica. Il punto di equilibrio tra la tutela della libertà di mandato del singolo parlamentare (art. 67 Cost.)
e il ruolo di sintesi e unità politica svolto dal gruppo parlamentare al quale aderisce (artt. 1, 49, 72 e 82
Cost.) sta nella facoltà del primo di aderire al secondo fin quando si riconosca nella sua linea politica e
quindi di poter continuare ad esercitare il suo mandato anche dopo averlo abbandonato o essere stato da
esso espulso.
Alla luce di ciò, non mi pare possano destare scandalo le regole di disciplina interna dei gruppi
parlamentari del MoVimento 5 Stelle che sanzionano gli iscritti per le “reiterate violazioni al presente
Statuto e del Codice etico” (art. 21.2.b), il “mancato rispetto delle decisioni assunte dall’assemblea degli
iscritti con le votazioni in rete” (art. 21.2.d), o “dagli altri organi del MoVimento 5 Stelle” (art. 21.2.e),
oppure, infine, per la “mancata contribuzione economica alle attività del MoVimento 5 Stelle” (art. 21.2.f).
Comportamenti che, “sulla base della gravità dell’atto o del fatto”, possono essere sanzionati con “il
richiamo, la sospensione temporanea o l’espulsione dal Gruppo” (art. 21)
Inoltre, gli statuti dei gruppi possono prevedere regole di disciplina interna per così dire più esigenti
rispetto a quanto previsto dalla Costituzione o dai regolamenti parlamentari. Così, rientra nell’autonomia
politica del gruppo sanzionare le “mancate dimissioni dalla propria carica in caso di condanna penale in
primo grado, ancorché non definitiva” (art. 21.2.c) St. M5S), benché secondo l’art. 68.2 Cost. il
parlamentare resti in carica anche dopo una sentenza definitiva di condanna, a meno che la camera
d’appartenenza ex art. 66.1 Cost. ne deliberi la decadenza per incandidabilità sopravvenuta (art. 3.1 d.lgs.
35) Cfr., per tutti, M. DUVERGER, Les partis politiques, Paris, 1951, 211 ss.; A. PIZZORUSSO, I gruppi parlamentari come soggetti di diritto, Pisa, 1969, 70; S. TOSI, Diritto parlamentare, cit., 170 ss.; A. MANNINO, Diritto parlamentare, Milano, 2010, 69 ss. 36) Che la disciplina di gruppo si basi sulla comune militanza politica e si esplichi al momento del voto trova conferma nell’art. 36 del regolamento del Folketing danese, secondo cui “i membri dell’Assemblea si dividono in gruppo, ciascuno dei quali comprende tutti coloro che hanno notificato al Presidente la loro intenzione di votare uniti nei casi determinati durante un certo periodo o fino a nuovo avviso”.
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235/2012). Analogamente si possono sanzionare le “reiterate ed ingiustificate assenze dai lavori della
camera” (oltreché del gruppo: art. 21.2.a)) anche quando inferiori rispetto a quelle consentire dai
regolamenti camerali (artt. 48-bis.3 R.C. e 1.2 R.S.). Oppure, sempre ai sensi del citato art. 21.2 St. M5S:
“g) comportamenti suscettibili di pregiudicare l’immagine o l’azione politica del Movimento 5 Stelle o di
avvantaggiare altri partiti; h) comportamenti connotati da slealtà e scorrettezza nei confronti degli altri
iscritti e eletti; i) mancata cooperazione e coordinamento con gli altri iscritti, esponenti e eletti, anche in
diverse assemblee elettive, per la realizzazione delle iniziative e dei programmi del Movimento 5 Stelle,
nonché per il perseguimento dell’azione politica del Movimento 5 Stelle; j) tutte le condotte che violino,
in tutto o in parte, la linea politica dell’Associazione ‘Movimento 5 Stelle’”. Certamente, per la loro
eccessiva genericità, tali ipotesi lasciano margini discrezionali d’intervento che ben si potrebbero ritenere
eccessivi alla luce dei criteri di tipicità, tassatività e determinatezza con cui esse dovrebbero essere
formulate. È pur vero, però, che il ricorso a concetti-valvola (non ignoti al nostro ordinamento giuridico)
se non a vere proprie clausole di chiusura (come sub j)) risponde alla comprensibile esigenza di poter in
tal modo valutare ed eventualmente sanzionare comportamenti o condotte che in politica sono quanto
mai, per così dire, prevedibilmente imprevedibili.
4. Il contrasto degli statuti interni dei gruppi politici del M5S con:
a) i regolamenti parlamentari
L’autonomia statutaria dei gruppi parlamentari non è illimitata. Essa, infatti, va esercitata nel rispetto delle
disposizioni dei regolamenti parlamentari che li riguardano le quali, proprio perché basilari (§ 2), sono
vincolanti ed inderogabili. Contro tale conclusione non vale obiettare che la libertà del parlamentare
iscritto al gruppo di potersi sempre sottrarre alla disciplina di gruppo, abbandonandolo, la renda di per
sé comunque legittima. Se così fosse, infatti, gli statuti interni potrebbe impunemente violare gli obblighi
loro imposti dal regolamento, divenendo di fatto una zona franca sottratta al sindacato di qualunque
autorità, innanzi tutto parlamentare. I problemi sollevati in tal senso dall’attuale statuto/regolamento dei
gruppi parlamentari del M5S sono in tal senso estremamente eloquenti.
Innanzi tutto, secondo l’art. 4.7 St. M5S “l’Assemblea ratifica a maggioranza assoluta dei propri
componenti la nomina del Presidente del gruppo proposta dal Capo Politico” (mio il corsivo, non le
maiuscole…) (37). Il Gruppo, quindi, non può autonomamente nominare il proprio Presidente ma solo
37) Il Capo Politico è, infatti, eletto direttamente in rete dagli iscritti (art. 4 Statuto dell’Associazione denominata MoVimento 5 Stelle). Sulle sue competenze v. il successivo art. 7, ed in particolare la lett. c) secondo cui “il Capo Politico si coordina con gli eletti del MoVimento 5 Stelle e, in particolare, concerta l’azione politica con i capigruppo parlamentari ed i membri del Governo espressi dal MoVimento 5 Stelle”.
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pronunciarsi a scrutinio palese (38) sul nominativo proposto dal Capo Politico, il quale è soggetto rispetto
ad esso istituzionalmente esterno ed estraneo, indipendentemente dal fatto che possa esserne eventuale
componente (39). Sempre al Capo Politico spetta inoltre proporre i Vicepresidenti, i Segretari e il Tesoriere
(tutti membri del Comitato direttivo) che il Presidente del gruppo deve nominare (art. 6.1 St. M5S). Infine
– e ancor più grave – solo il Capo Politico può revocare il Presidente del gruppo (art. 5.2, ultimo periodo,
St. M5S) (40). Il Gruppo, e per esso l’Assemblea dei suoi iscritti, non può quindi né esercitare tale potere
di revoca, né opporsi al suo esercizio da parte del Capo Politico. Il Presidente della Camera potrebbe,
dunque, trovarsi nell’inedita ed imbarazzante posizione di dover decidere sulla sorte del Presidente del
gruppo parlamentare contemporaneamente revocato dal Capo Politico ma non dal Gruppo, la
maggioranza dei cui iscritti potrebbe anzi confermargli la fiducia tramite un documento sottoscritto e
inoltrato allo stesso Presidente (41).
I suddetti poteri di nomina e di revoca attribuiti al Capo Politico sollevano seri dubbi di conformità con
gli artt. 15.2 R.C. e R.S.. Questi, infatti, attribuiscono espressamente ai membri del “Gruppo” – e quindi
non a soggetti ad esso esterni – il potere di nomina (e, sottinteso, di revoca) dei titolari dei suoi organi
direttivi previsti nei regolamenti parlamentari, così come del resto è proprio di qualunque associazione
con un’organizzazione democratica al proprio interno e come sempre finora accaduto nella storia
parlamentare. Che sia chiaro: qui non si nega la direzione politica del Capo politico, con cui i capigruppo
devono coordinarsi e concertare l’azione politica (art. 7.c) St. M5S), quanto le sue interferenze su decisioni
che per i regolamenti parlamentari sono d’esclusiva competenza del gruppo. Per quanto azzardato possa
sembrare, vale la pena chiedersi se si è in presenza di un’associazione che persegue direttamente scopi
politici con un’organizzazione gerarchica interna di tipo militare (artt. 18.2 Cost. e 1.4 d.lgs. 43/1948), in
cui gli organi direttivi non sono contendibili perché non espressione esclusiva del volere dei suoi iscritti.
5. (segue) b) l’art. 67 della Costituzione
Ancora più grave e, se possibile, preoccupante è l’incostituzionalità della disposizione statutaria interna
secondo cui il parlamentare “che abbandona il gruppo parlamentare a causa di espulsione ovvero
38) “Salvo che il Presidente disponga la votazione segreta” (art. 4.4 St. M5S). Infatti, in mancanza di esplicite norme degli statuti interni, dovrebbe valere la norma generale che vuole a scrutinio segreto le votazioni riguardanti le persone (artt. 49.1 R.C. e 113.2 R.S.; v. G.F. CIAURRO, Gli organi della Camera, in Il regolamento della Camera dei deputati. Storia, istituti, procedure, a cura del Segretariato generale della Camera dei deputati, Roma, 1968, 249). 39) Nel caso specifico, l’on. Di Maio, Capo Politico del M5S, fa parte del gruppo parlamentare del M5S alla Camera (e quindi, ovviamente, non di quello del Senato). 40) Ad esempio, secondo l’art. 11.l) dello Statuto dell’Associazione denominata “MoVimento 5 Stelle” il capogruppo può essere espulso dal partito e dal gruppo se non provvede ad allontanare l’iscritto espulso. 41) V. l’espresso interrogativo rivolto in tal senso dall’on. Ceccanti.
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abbandono volontario ovvero dimissioni determinate da dissenso politico sarà obbligato a pagare, a titolo
di penale, al MoVimento 5 Stelle, entro dieci giorni dalla data di accadimento di uno dei fatti sopra indicati,
la somma di 100.000,00 euro” (art. 21.5 St. M5S) (42).
Innanzi tutto, non può non rilevarsi la contraddizione tra il vincolo di mandato, presupposto dall’appena
citato art. 21.5, e la libertà di mandato invece prevista nel precedente art. 1, secondo periodo, secondo
cui “eventuali richieste di adesione provenienti da [parlamentari] precedentemente iscritti ad altri Gruppi
potranno essere valutate, purché siano incensurati, non siano iscritti ad altro partito, non abbiano già
svolto più di un mandato elettivo oltre quello in corso, ed abbiano accettato e previamente sottoscritto il
‘Codice etico’”. Si nega, pertanto, ai parlamentari del M5S quella libertà di mandato consentita invece a
quelli altrui. Il che è tipico dei partiti politici antisistema che chiedono la libertà in nome degli altrui
principi per negarla in nome dei loro.
Ciò premesso, sotto il profilo costituzionale una simile penale si pone palesemente contro il divieto di
mandato imperativo sancito dall’art 67 Cost., secondo cui “il parlamentare é libero di votare secondo gli
indirizzi del suo partito ma é anche libero di sottrarsene”. In forza di tale disposizione, infatti, “nessuna
norma potrebbe legittimamente disporre che derivino conseguenze a carico del parlamentare per il fatto
che egli abbia votato contro le direttive del partito” (C. cost. 14/1964, 2), come ad esempio i patti di
dimissioni o le lettere di dimissioni in bianco. Le sanzioni disciplinari interne, quindi, sono irrilevanti per
l’ordinamento giuridico statale per cui siamo dinanzi ad una clausola radicalmente nulla per illiceità
dell’oggetto (art. 1346 c.c.) e della causa perché contraria a norme imperative e all’ordine pubblico (art.
1343 c.c.) (43), come qualunque giudice cui si volesse temerariamente ricorrere non esiterebbe a dichiarare.
Anzi, da questo punto di vista, paradossalmente, la notoria non sanzionabilità giuridica di siffatte clausole
a mio modesto parere le rendono prive di qualunque minimo contenuto intimidatorio ai fini dell’esercizio
del mandato parlamentare.
Sotto il profilo politico, l’imposizione di simili sanzioni pecuniarie costituisce un modo rozzo e sciatto di
affrontare il ben più delicato problema del transfughismo parlamentare che nelle nostre camere ha
assunto, specie nella trascorsa legislatura, dimensioni numeriche e politiche (con la creazione di nuovi
gruppi parlamentari) sconosciute a tutte le democrazie europee . Tale fenomeno, che a mio parere denota
un evidente alterazione del mandato che l’eletto riceve in quanto candidato per un partito di cui condivide
42) In conformità a quanto previsto dall’art. 5.5 del Codice etico del MoVimento 5 Stelle del dicembre 2017. Ciò nondimeno, non si può non notare come beneficiario della sanzione sia il partito, e non il gruppo parlamentare. 43) Per P. VIRGA., Il partito nell’ordinamento giuridico, Milano, 1948, 172, si tratta di “obbligazione politica e morale per un determinato comportamento dentro la Camera”, però non “coattivamente esigibile”; per. R. BIN, La sanzione pecuniaria ai voltagabbana ha un sapore acre, in lacostituzione.info, 16 aprile 2018, il quale aggiunge che tale pretesa non potrebbe farsi valere “attraverso strumenti ‘interni’ al Parlamento, perché non esiste nessuna procedura per richiederne e ottenerne il pagamento attraverso le forme tipiche di autodichia parlamentare”.
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il programma e la linea politica, va affrontato nella sua complessità; diversamente, le misure atte a
contrastarlo – come esattamente quelle previste dagli statuti interni dei gruppi parlamentari del M5S –
denoterebbero solo un profilo repressivo gravemente lesivo della libertà di mandato. Da un lato, quindi,
si potrebbero ipotizzare soluzioni regolamentari, come ad esempio l’estensione anche alla Camera dei
deputati della disciplina oggi finalmente prevista dall’art. 14.4 R.S. circa la corrispondenza tra liste
elettorali e gruppi parlamentari, così da disincentivare il frazionismo parlamentare (44); oppure,
sull’esempio della disciplina spagnola dei gruppi parlamentari (45), l’introduzione di limiti che
circoscrivano la libertà del parlamentare di trasferirsi a gruppi parlamentari diversi rispetto a quello del
partito per cui è stato candidato ed eletto, fino all’introduzione dello status del c.d. “parlamentare non
iscritto” ad alcun gruppo (46).
Dall’altro lato, tale misure andrebbero necessariamente abbinate a regole che, come detto, prendendo
ispirazione dall’art. 53.7 R.S., garantiscano la democrazia all’interno del gruppo, così da rendere il singolo
parlamentare in grado effettivamente di partecipare alla sua vita politica interna. I limiti fissati dalla potestà
regolamentare del gruppo all’attività parlamentare dei suoi iscritti e, più in generale, la sua disciplina
possono giustificarsi solo essa è frutto di una loro reale partecipazione all’approvazione di quelle decisioni
comunque rilevanti ai fini dello svolgimento di quelle attività conferite agli stessi gruppi dai regolamenti
parlamentari (47).
6. In particolare: l’incostituzionalità della proposta introduzione del vincolo di mandato
Si potrebbe ipotizzare – come ventilato nel sesto quesito (48) - che le sanzioni previste per i parlamentari
espulsi potrebbero trovare un domani applicazione qualora si modificasse l’art. 67 Cost. per introdurre il
vincolo di mandato, come del resto (genericamente) proposto in campagna elettorale dal M5S e dalle
44) Un precedente in tal senso si potrebbe forse rintracciare nella precisazione del Presidente della Camera Violante, quando respinse la denominazione Lega Padania indipendente del gruppo parlamentare dei deputati della Lega Nord (v. infra, nota 62) anche perché essa non era corrispondente a quella della lista al cui interno erano stati eletti, giacché “se la denominazione fosse stata quella, avre[bbe] dovuto necessariamente accettarla” (Assemblea, seduta del 15 maggio 1996, resoconto stenografico, p. 60). A tale corrispondenza, se ritenuta eccessivamente rigida dinanzi alla fluidità delle dinamiche politiche, si potrebbe derogare qualora la richiesta di formazione di nuovi gruppi parlamentari fosse formulata da un numero di parlamentari superiore al minimo richiesto, il che lascerebbe ragionevolmente presumere che essi siano il risultato non di trasformismi individuali ma di scissioni provocate dal radicale mutamento di linea politica del partito di riferimento che abbiano un’effettiva corrispondenza in parte del suo elettorato; cfr., volendo, il mio Osservazioni a prima lettura sulla riforma organica del regolamento del Senato, in Rassegna parlamentare, n. 3/2017, 647. 45 ) Su cui v., volendo, il mio Partiti e gruppi parlamentari nell’ordinamento spagnolo, Firenze, 2005, spec. 301 ss. 46) Come oggi consentito ai senatori di diritto e a vita dall’art. 14.1 R.S. 47) Cfr. S. TOSI, Diritto parlamentare, cit., 174 s. 48) “Se l’art. 67 sia revisionabile o se il divieto di mandato imperativo rientri fra i "principi fondamentali e diritti inviolabili" che la Corte cost. pone come limite allo stesso processo di revisione costituzionale”.
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forze politiche del centro destra, con conseguente decadenza dell’eletto dimessosi dal partito o da esso
espulso (49).
Si tratterebbe di una soluzione semplificatoria e demagogica. Per quanto ispirata ad una condivisibile
esigenza di coerenza politica dell’eletto verso gli elettori che l’hanno votato perché candidato in e per un
determinato partito, essa sarebbe peggiore del male da curare, perché condannerebbe ogni assemblea
elettiva alla paralisi decisionale e, quindi, alla sua stessa negazione, vittima della reciproca incomunicabilità
tra forze politiche ingessate nel rigido rispetto dei cahiers de doléance ricevuti dai loro elettori (come avveniva
nelle assemblee feudali non a caso dotate di funzioni consultive ma non deliberative). Il vincolo di
mandato finirebbe per negare il valore della rappresentanza politica, e con essa delle istituzioni
parlamentari, luogo di confronto e di mediazione, in nome di una pretesa volontà generale degli elettori,
dietro alla quale spesso si celano – come la stessa esperienza del MoVimento Cinque Stelle dimostra -
meccanismi decisori fortemente centralizzati ed opachi.
Saremmo in presenza, quindi, d’una modifica costituzionale incostituzionale. Il divieto di mandato
imperativo, infatti, è funzionale alla natura nazionale della rappresentanza dei parlamentari e, di
conseguenza, alla democrazia rappresentativa, che nel Parlamento, espressione della volontà sovrana del
popolo, trova la sua massima sede. È attraverso il libero confronto parlamentare, infatti, che la
rappresentanza politica si esprime e trova compimento. L’introduzione del vincolo di mandato, quindi,
segnerebbe “la morte dei Parlamenti” (50). Siamo dinanzi ad un principio costituzionale supremo, sottratto
al potere di revisione costituzionale perché facente parte della “forma repubblicana” ex art. 139 Cost. (C.
cost. 1146/1988), la quale implica la presenza di un’assemblea elettiva i cui componenti, nell’essere
chiamati a perseguire gli interessi della comunità nazionale, non devono essere vincolati da mandati
particolari.
Tale conclusione trova, peraltro, particolare, ma significativa conferma nell’art. 4.1.c) l. 165/2004
Disposizioni di attuazione dell’articolo 122, primo comma, della Costituzione che include il “divieto di mandato
imperativo” tra i “principi fondamentali” che le regioni devono rispettare nel disciplinare “con legge il
sistema di elezione del Presidente della Giunta regionale e dei consiglieri regionali”.
Che si tratti di un vincolo invalicabile mi pare sia dimostrato dal contratto di programma alfine
sottoscritto da M5S e Lega che, dopo aver abbandonato formulazioni più radicali, prevede piuttosto
l’introduzione di “forme di vincolo di mandato per contrastare il sempre crescente fenomeno del
49) Sul tema, anche sotto il profilo storico, v. il mio Democrazia e rappresentanza politica. Dal divieto di mandato al mandato di partito, Firenze, 2004, 140 ss. 50) Così L. Einaudi come ricordato dal Presidente della Repubblica nel suo intervento alla cerimonia in sua memoria svoltasi a Dogliani lo scorso 12 maggio (http://www.quirinale.it/elementi/Continua.aspx?tipo=Discorso&key=831).
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trasformismo” al fine di “impedire le defezioni e a far sì che i gruppi parlamentari siano sempre
espressione di forze politiche presentatesi dinanzi agli elettori” (51).
In questa direzione, si potrebbe anche ipotizzare una riforma dell’art. 67 Cost. che, sul modello della
Costituzione portoghese (52), pur affermando la libertà di mandato del parlamentare (art. 155.1), preveda
la decadenza dal mandato del parlamentare iscritto ad un partito diverso da quello per cui si è presentato
alle elezioni, fermo restando quindi il suo diritto a rimanere in carica in caso di trasferimento al gruppo
misto (art. 160.1.c)) (53). Ma anche in tal caso, tale riforma andrebbe necessariamente abbinata
all’approvazione di una legge che garantisca la democrazia all’interno dei partiti (54).
7. Vincolo di mandato e giuramento dei ministri
Il tema del divieto di vincolo di mandato nei confronti dei parlamentari consente di fare una breve
variazione sul tema, riguardante i possibili profili d’incostituzionalità che potrebbe sollevare la nomina a
ministri di parlamentari del M5S vincolati da contratti privati, come evidenziato nel terzo quesito.
Non c’è dubbio che, al pari dei parlamentari, anche i ministri non possono essere soggetti a vincoli di
natura particolare. Il loro giuramento è un impegno vincolante, infatti, sotto il profilo non solo morale
ma anche giuridico, tanto più se si ricorda che la sua formula è stata modificata nel 1988 affinché
l’interesse della nazione che essi devono rispettare nell’esercizio delle loro funzioni non sia più “supremo”
ma “esclusivo” (art. 1.3 l. 400/1988).
Contro tale impegno contrastano gli obblighi che i ministri dovessero assumere non nei confronti del
partito, associazione che per sua natura offre una visione particolare degli interessi generali, ma di ogni
altra associazione che persegua interessi particolari, tanto più se essa, in modo non trasparente e con
un’organizzazione non contendibile, cercasse di condizionare l’attività degli organi costituzionali ex art.
18.2 Cost. per come attuato dalla l. 17/1982 sul divieto di associazioni segrete.
8. Il controllo del Presidente d’Assemblea
51) Cfr. Contratto per il governo del cambiamento, paragrafo 20 su “Riforme istituzionali, autonomia e democrazia diretta”. 52) Il modello portoghese si ritrova anche in altri ordinamenti lusofoni come l’art. 152.2.c) Cost. Angola del 2010, l’art. 130.1.d) Cost. Capo Verde del 1980 (rivista nel 1992), l’art. 178.2.b) Cost. Mozambico del 2004 (rivista nel 2007). 53) Cfr., volendo, il mio Democrazia e rappresentanza politica. Dal divieto di mandato al mandato di partito, Firenze, 2004, 149 ss.. Di “breccia nel solido impianto teorico-dommatico dell’assolutezza del libero mandato parlamentare accolto dal costituzionalismo europeo dalla metà circa del secolo scorso in avanti” parla R. ORRÙ, Divieto di mandato imperativo e anti-defection laws: spunti di diritto comparato, in Diritto pubblico comparato ed europeo, n. 4/2015, 1104. 54) Cfr. R. BIN, La disciplina, cit., 87 ss.; da ultimo A. MORELLI, Mandato parlamentare alla portoghese? Il “contratto di governo” non è chiaro, in lacostituzione.info, 17 maggio 2018.
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I profili di contrasto tra lo statuto/regolamento del gruppo politico del M5S, da un lato, e i regolamenti
parlamentari e, ancor prima, la Costituzione, dall’altro sembrano incontrare un insormontabile ostacolo
nel fatto che tali regolamenti, anche dopo la riforma del 2012 (v. supra, § 2), non prevedono, come
ricordato dal Presidente Fico nella lettera di risposta agli on. Ceccanti e Magi, “alcuna forma di controllo
sul contenuto degli statuti dei Gruppi parlamentari da parte della Presidenza della Camera o di altri organi
parlamentari, nel pieno rispetto dell’autonomia spettanti in materia ai Gruppi. Né appare possibile
desumere da norme regolamentari di carattere generale – quale è quella recata dall’articolo 8 del
Regolamento [potere del Presidente di fare osservare il regolamento] un implicito potere di controllo del
Presidente sulle disposizioni che di quella consolidata autonomia costituiscono espressione”. Di
conseguenza, “un eventuale potere di controllo della Presidenza sugli statuti nei termini invocati non
potrebbe che discendere da una nuova, specifica previsione regolamentare, volta altresì a disciplinarne
compiutamente l’esercizio, i limiti e gli effetti sul piano dell’ordinamento parlamentare”.
A sostegno di tale conclusione il Presidente della Camera fa appello all’unico precedente esistente in
materia, e cioè alla delibera dell’Ufficio di Presidenza del 26 giugno 2013 con cui, alla luce della nuova
disciplina regolamentare approvata l’anno prima, si prese concordemente atto delle conclusioni formulate
dal Collegio dei Questori a favore della mancanza, a normativa vigente, d’un organo parlamentare
competente a controllare la conformità a regolamento di talune disposizioni contenute nello statuto del
gruppo parlamentare del M5S. Precedente (55), però, che si sarebbe potuto ritenere non vincolante.
Innanzi tutto, perché non formulato dall’organo cui per regolamento spettano “i pareri sulle questioni di
interpretazione del Regolamento medesimo” (art. 16.2 R.C.), e cioè la Giunta per il Regolamento. In
secondo luogo, perché riferito ad uno statuto – quello del gruppo parlamentare del M5S alla Camera nella
XVII legislatura – che non presentava le criticità evidenziate, giacché, correttamente, prevedeva il potere
dell’Assemblea di eleggere e revocare in ogni momento a maggioranza assoluta tutti gli organi interni nel
rispetto del principio di rotazione, per cui, ad esempio, il Presidente veniva eletto ogni anno (art. 3).
Infine, non si trattava, come allora, di prospettare un sindacato generale ed astratto sullo statuto interno
del gruppo ma, al contrario, di valutare nello specifico se il Presidente, nell’adempimento dell’obbligo di
55) Sul valore dei precedenti e sulla loro “tirannia” v. N. LUPO (a cura di), Il precedente parlamentare tra diritto e politica, Bologna, 2013; ID., Emendamenti, maxi-emendamenti e questione di fiducia nelle legislature del maggioritario, in E. Gianfrancesco, N. Lupo (a cura di), Le regole del diritto parlamentare nella dialettica tra maggioranza e opposizione, Roma, 2007, 42; ID., Sull’iter parlamentare del “lodo Alfano”: una legge approvata in gran fretta sulla base dei “peggiori” precedenti, in Amministrazioneincammino, 2009; D. PICCIONE, Metodi interpretativi per il parlamentarismo (Per una prospettiva di evoluzione del metodo di studio nel diritto parlamentare), in Giur. Cost., n. 1/2007, 533 s. Sulla consolidata tendenza, complice lo stallo del processo di revisione regolamentare, a fare appello ai precedenti fino a farli prevalere sul dettato costituzionale e regolamentare, capovolgendo la tradizionale gerarchia delle fonti del diritto parlamentare, v. C. BERGONZINI, La piramide rovesciata: la gerarchia tra le fonti del diritto parlamentare, in Quad. Cost., n. 4/2008, 741 ss.
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far osservare il Regolamento a lui esclusivamente riservato (artt. 8 R.C. e R.S.), possa ritenere non valida
l’elezione o la revoca degli organi interni avvenuta sulla base di disposizioni degli statuti interni ritenute
in insanabile contrasto con esso. Nulla di creativo, dunque, ma solo l’applicazione del regolamento
dinanzi ai tentativi, più o meno surrettizi, di violarlo (56). Ritenere in tal senso il potere del Presidente
precluso sol perché non previsto dalla riforma del 2012 è un modo parziale di affrontare il problema, sia
perché essa verteva sui contributi finanziari dei gruppi, sia perché il potere di controllo del Presidente,
come detto, non è circoscritto a quelle fattispecie ma deriva, più in generale, dal suo essere giudice primo
ed ultimo del diritto parlamentare (57) nei confronti di atti di cui, peraltro, non a caso egli viene
formalmente a conoscenza in forza dell’obbligo di trasmissione previsto, come detto (§ 2), dagli artt. 15.2-
bis R.C. e 15.3-bis R.S.. In questo senso, il potere di sindacato del Presidente d’Assemblea sugli statuti
interni dei gruppi parlamentari non si tradurrebbe, come si potrebbe temere, in un’indebita ingerenza
nella loro organizzazione e nel loro funzionamento interno - la cui autonomia politica va garantita nei
confronti di qualsiasi grave ed indebita intromissione nella loro vita interna (58) - ma nel far valere la
superiorità del regolamento camerale nei confronti di quelle disposizioni statutarie interne in contrasto
con la pur scarna disciplina in materia da esso prevista (59).
Sotto questo profilo, lascia fortemente perplessi il richiamo del Presidente della Camera al “pieno
rispetto” della “consolidata autonomia (…) spettante in materia [di statuti interni] ai Gruppi”,
evidentemente ritenuta così insindacabile – una riproduzione in scala, si direbbe, della insindacabilità degli
interna corporis della camera in cui i gruppi sono inseriti – da precludere qualsiasi attività di controllo o,
volendo, di early warning. Un simile richiamo, evidentemente, presuppone una netta separazione di
competenza tra sfera regolamentare e sfera statutaria che non trova riscontro nei regolamenti
parlamentari. Difatti, come i regolamenti parlamentari sono subordinati ai pochi articoli della
Costituzione in tema di organizzazione e funzionamento delle Camere, godendo per il resto di ampia
autonomia normativa ex art. 64.1 Cost., allo stesso modo gli statuti dei gruppi politici sono subordinati a
56) Il Presidente, dunque, potrebbe intervenire solo in questi casi, e non nel gruppo per imporre coattivamente il rispetto del suo statuto interno, per quanto fonte di diritto parlamentare; v. G. FALCON, C. PADULA, Il problema del rapporto tra gruppi consiliari e partiti politici,in Le Regioni, n. 2/2008, 256 ss. 57) Cfr. N. LUPO, Il Presidente, cit., 2067 ss. 58) Al sen. Villari che lamentava l’illegittima esclusione dal gruppo del PD, il Presidente del Senato Schifani rispose che “la presidenza del Senato non può in alcun modo entrare nelle valutazioni e nelle decisioni di un gruppo perché, se così facesse, invaderebbe uno spazio di autonomia costituzionalmente garantito” (Giunta per il regolamento, seduta del 22 dicembre 2008). 59) Cfr. L. BARTOLUCCI, I gruppi parlamentari nella XVII legislatura: cause e conseguenze della loro moltiplicazione, p. 7 s. del paper.
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quei pochi, ma significativi articoli dei regolamenti parlamentari, sopra illustrati, riguardanti la loro
organizzazione ed il loro funzionamento interno (60), godendo per il resto di ampia autonomia
Pertanto, nei casi sopra esposti, il Presidente d’Assemblea, nel suo ruolo di garante della legalità
regolamentare e costituzionale all’interno della camera, dovrebbe, qualora la sua opera di moral suasion non
dovesse sortire gli esiti sperati (61), dichiarare nulle le disposizioni statutarie contrarie a regolamento e,
ancor prima, a Costituzione (62) e inefficaci gli atti prodotti sulla base di essi, come la nomina degli organi
direttivi dei gruppi parlamentari del M5S e la (eventuale) revoca da parte del Capo Politico del loro
Presidente (63).
Bene dunque hanno fatto i deputati Ceccanti e Magi, nella loro nota di replica al Presidente del 18 maggio
(64) a chiedere che il tema del controllo sulle disposizioni di Statuti di gruppo ritenute in contrasto con la
Costituzione ed il regolamento sia sottoposto alla Giunta per il regolamento perché “possa pronunciarsi
su quella che al momento appare essere una inaccettabile zona grigia rispetto alla legalità costituzionale e
regolamentare”.
In tutta questa vicenda, infine, non ci si può esimere dall’osservare che il Presidente della Camera, al
contrario di quello del Senato, si trovi in una situazione di oggettivo imbarazzo poiché iscritto al gruppo
del cui statuto dovrebbe valutare la legittimità. Per prevenire simili situazioni, ed evitare che, come
60) Cfr. A. P. TANDA, Le norme, cit., 53 secondo cui, più limitatamente, l’autonomia normativa ed organizzativa dei gruppi parlamentari va esercitata “sempre entro i limiti generali dettati dai regolamenti delle Camere in esecuzione delle norme della Costituzione”.. 61) Opera che potrebbe manifestarsi eventualmente in forme meno riservate tramite speech informali (dichiarazioni alla stampa, interviste, comunicati o una circolare, come ipotizzato nel secondo quesito) in cui, ad esempio, evidenziare la natura sola morale e non giuridica degli impegni politici sottoscritti all’atto dell’adesione al gruppo del M5S o esplicitare le sue riserve sul procedimento di nomina dei suoi organi direttivi. 62) Per N. LUPO, Il Presidente, cit., 2068 s., il Presidente può giudicare, oltreché in base ai regolamenti parlamentari anche alla Costituzione, specie quando le sue violazioni difficilmente potrebbero essere sindacate (tempestivamente) dalla Corte costituzionale. A fianco dei casi citati (ivi, nt. 48 e 49), si possono aggiungere le decisioni con cui i Presidenti delle Camere Violante (Assemblea, sedute del 15 e 22 maggio 1996) e del Presidente del Senato Mancino (quest’ultimo in applicazione diretta della Costituzione, senza che il regolamento gli attribuisse espressamente tale competenza: v. infra, nota 68), respinsero inappellabilmente la scelta dei parlamentari della Lega Nord di denominare il loro gruppo parlamentare Lega Parlamento della Padania (o, in alternativa nella sola Camera, Lega Padania Indipendente) perché in contrasto con il principio fondamentale dell’unità e indivisibilità della Repubblica sancito dall’articolo 5 della Costituzione. Alla fine, i gruppi parlamentari assunsero in entrambe le camere la denominazione Lega Nord per l’indipendenza della Padania. Sulla vicenda v. F. BIONDI, Presidenti, cit., 128 s. Per la dottrina tedesca prevalente le deliberazioni dei gruppi adottate in violazione degli statuti interni sono invalide se e in quanto violano disposizioni costituzionali (cfr. F. BILANCIA, I regolamenti dei gruppi parlamentari del Bundestag, in S. Merlini (a cura di), Rappresentanza, cit., 170 ed Autori ivi citati) 63) F. BIONDI, Presidenti, cit., 133 ss., pur escludendo gli statuti interni dalle fonti di diritto parlamentare, ritiene che l’assenza di una disposizione espressa non impedirebbe al Presidente d’intervenire se i gruppi non approvassero i loro statuti entro trenta giorni o non si conformassero a quanto previsto dal regolamento generale, specie riguardo agli obblighi procedurali volti ad assicurare trasparenza e controllo sulla gestione dei contributi erogati ai gruppi, senza però ingerirsi sulla loro vita politica interna. 64) In http://stefanoceccanti.it/la-controreplica-ceccanti-magi-alla-risposta-del-presidente-fico/
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accaduto nelle ultime legislature, il Presidente d’Assemblea usi a fini politici il prestigio, l’autorità e la
visibilità, anche mediatica, che gli deriva dalla carica ricoperta (65), andrebbe quantomeno ripresa la
commendevole prassi, purtroppo abbandonata dalla XV legislatura, che voleva il Presidente d’Assemblea,
ancorché non obbligato, iscriversi sempre al gruppo misto in osservanza di “un’apprezzabile sensibilità
istituzionale” (66). In tal senso, a tutela della sua imparzialità (67), si potrebbe consentire al Presidente di
non iscriversi ad alcun gruppo, come oggi previsto dall’art. 14.1 R.S. per i soli senatori di diritto e a vita.
9. In particolare: il ricorso sulla costituzione del gruppo all’Ufficio di Presidenza
Nei casi sopra prospettati, sarebbe peraltro opportuno che la decisione non fosse rimessa al solo
Presidente ma ad un organo collegiale ristretto in cui siano rappresentati tutti i gruppi parlamentari, come
l’Ufficio di Presidenza. Un’indicazione in tal senso, si ritrova nell’art. 12.2 R.C. (68) secondo cui tale organo
“decide i ricorsi circa la costituzione o la prima convocazione dei Gruppi” (69); “costituzione” che
comprende non solo la dichiarazione di appartenenza ad esso dei deputati (art. 14.4 R.C.) ma anche, come
detto (§ 2), la nomina nella prima riunione dei suoi organi direttivi (art. 15.2 R.C.).
Si tratta certamente di un controllo temporalmente limitato, ma di contro previsto per tutti i gruppi – e
non solo per quelli autorizzati, alla cui costituzione è dedicato lo specifico art. 14.2 R.C. – nell’esercizio
del quale potrebbero ben essere sollevati problemi relativi non solo, come accaduto, alla denominazione
del gruppo (70), ma anche alla legittimità delle procedure seguite per la nomina dei suoi organi direttivi, a
65) Senza con ciò indulgere ad una certa visione “mistica” della imparzialità del Presidente: v. S. CECCANTI, I Presidenti di Assemblea e la “mistica” dell’imparzialità, in V. Lippolis, N. Lupo (a cura di), Le trasformazioni del ruolo dei Presidenti delle Camere. Il Filangieri. Quaderno 2012-2013, Napoli 2013, 293 ss, in cui si vedano anche i contributi di V. LIPPOLIS, Le metamorfosi dei Presidenti delle Camere, 3 ss. e C FUSARO, Personalizzazione della politica e Assemblee parlamentari, 15 ss. 66) G. ROMANO, I presidenti delle Camere: vecchi miti, nuove certezze ed un’ipotesi di futuro, in V. Lippolis (a cura di), Il Parlamento del bipolarismo. Un decennio di riforme dei regolamenti delle Camere, Il Filangieri. Quaderno 2007, Napoli, 2008, 325 nt. 50; sul punto v. anche N. LUPO, Presidente di Assemblea, in Dig. Disc. Pubbl., Torino, Utet, 2010, 451 s.; Id., Funzioni, organizzazione e procedimenti parlamentari: quali spazi per una riforma (coordinata) dei regolamenti parlamentari?, in federalismi.it, 23 febbraio 2018, 23 secondo cui l’iscrizione del Presidente ad un gruppo parlamentare diverso dal misto dovrebbe essere un fatto eccezionale. Contra L. BARTOLUCCI, I gruppi, cit., 7 del paper che, sintetizzando il dibattito svoltosi in Assemblea nella seduta del 15 maggio 1996, ritiene invece l’iscrizione del Presidente ad un gruppo politico “perfettamente accettabile”. 67) Certo non assicurata dall’ampiezza della maggioranza che l’ha eletto: v. A. CIANCIO, Riforma elettorale e ruolo garantistico del Presidente di assemblea parlamentare: un modello in crisi?, in Dir. soc., n. 3/1996, 430. 68) Tale competenza non è infatti attribuita al Consiglio di Presidenza del Senato (art. 12 R.S.); v. però il precedente di cui alla nota 70. 69) L’emendamento soppressivo di tale inciso, presentato dall’on. Caprara, fu ritirato nella seduta antimeridiana del 2 febbraio 1971 dopo che il relatore A. Bozzi fece presente che sui casi dubbi a decidere fosse “un organo collegiale, ma ristretto e nello stesso tempo rappresentativo di tutta la Camera, qual è l’Ufficio di Presidenza” (v. Il nuovo regolamento, cit., 264). 70) V. supra, nota 62. In quell’occasione il Presidente Violante ammise che contro la propria decisione i deputati della Lega Nord potevano fare ricorso all’Ufficio di Presidenza ex art. 12.2 R.C.
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partire, come detto, dal divieto che in esso possano influire soggetti esterni ai membri del gruppo.
Restringere la titolarità di un simile ricorso ai soli membri del gruppo interessato significherebbe di fatto
degradare gli eventuali contrasti insorti a proposito della costituzione del gruppo a questioni interne anche
quando, invece, per i profili di illegittimità e incostituzionalità, essi meriterebbero comunque di essere
portati all’attenzione dell’Ufficio di Presidenza, tanto più quando il Presidente non voglia o ritenga di non
poter decidere, come nel caso in questione.
10. Il possibile conflitto di attribuzioni
È possibile – ci si chiede al quarto punto - portare la violazione dell’art. 67 Cost. (e, se del caso, di altre
norme costituzionali), dinanzi alla Corte costituzionale? Se si, in via incidentale o attraverso il conflitto di
attribuzioni tra poteri dello Stato? In quest’ultima ipotesi, tra chi potrebbe insorgere tale conflitto: tra il
parlamentare “sanzionato” ed il gruppo parlamentare d’appartenenza? Tra l’autorità giudiziaria e la
camera che “pretende di agire in autodichia sull’applicazione della previsione statutaria”?
Premesso che, come diremo (§ 10), un simile ricorso alla Corte costituzionale dovrebbe rappresentare la
soluzione finale, in assenza di precedenti controlli, mi sembra sia assolutamente da escludere la via della
questione incidentale di costituzionalità, essendo consolidatissima la giurisprudenza costituzionale in base
a cui i regolamenti parlamentari non sono atti aventi forza di legge ex art. 134.1 Cost. e non possono
quindi essere né oggetto, né parametro del giudizio di costituzionalità (71). L’unica soluzione, quindi,
sembrerebbe il conflitto di attribuzioni. Al riguardo, va ricordato che la Corte costituzionale non ha mai
escluso in astratto la possibilità per il singolo parlamentare di sollevare conflitto di attribuzioni a tutela
delle sue prerogative, senza però mai specificare in concreto quali siano le “attribuzioni individuali di
potere costituzionale per la cui tutela il singolo parlamentare sia legittimato a ricorrere allo strumento del
conflitto tra poteri dello Stato” (ordinanza n. 177/1998) (72). Anzi, finora, tutti i tentativi in tal senso sono
falliti, avendo la Corte negato l’ammissibilità dei conflitti di attribuzioni sollevati dal singolo parlamentare
a tutela delle prerogative della insindacabilità ex art. 68.1 Cost. (v., da ultimo, ordinanza n. 222/2009) e
della immunità penale ex art. 68.2 Cost. (ordinanze n. 101-102/2000) o del diritto al giusto procedimento
legislativo ex art. 72 Cost. (ordinanza n. 149/2016) (73), perché riguardanti attribuzioni spettanti alle
71) Cfr. almeno Corte cost. 9/1959, 78/1984, 154/1985, 391/1995, 379/1996 e 120/2014. Sul tema, v., per tutti, M. MANETTI, La legittimazione del diritto parlamentare, Milano, 1990, 162 ss. 72) V., per tutti, A. CERRI, Conflitti di attribuzione. I) Conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato, in Enc. Giur., Treccani, aggiornamento 1996, 4 73) Su cui v. il mio In memoriam dell’art. 72, comma 1, Cost. (ordinanza n. 149/2016), in Quad. cost., n. 2/2017, 384 ss.
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camere nel loro complesso e non ai suoi singoli componenti. Il che lascia francamente poco speranzosi
sull’ammissibilità di tale conflitto, benché a mio parere ne ricorrano i presupposti.
Difatti, poiché le disposizioni statutarie interne, ancor di più dei sovrastanti regolamentari parlamentari,
non sono dotate di forza di legge e, di conseguenza, non possono essere oggetto di giudizio incidentale,
ciò potrebbe indurre la Corte ad ammettere un simile conflitto di attribuzioni, quale unico rimedio
residuale esperibile a fronte di violazioni non denunciabili dinanzi all’autorità giudiziaria. Lo stesso si
potrebbe dire per un conflitto di attribuzioni sollevato dal gruppo parlamentare (74), indipendentemente
dalla sua qualificazione giuridica (75), contro il Presidente qualora, come detto, questi dovesse revocare il
Capogruppo contro la volontà della maggioranza dei suoi componenti giacché il diritto del gruppo di
designare il proprio Presidente sarebbe un’attribuzione che, benché non espressamente prevista in
Costituzione, sarebbe indispensabile per il regolare svolgimento dell’attività parlamentare (76).
11. Considerazioni conclusive: ripensare il confine tra regolamento parlamentare e statuto
interno del gruppo
Dinanzi alle incertezze che solleva il possibile conflitto di attribuzioni, mi pare che la soluzione prima e
principale per porre rimedio ai contrasti tra statuti interni e disposizioni regolamentari e costituzionali
vada individuata nella modifica al Regolamento che attribuisca al Presidente e all’Ufficio di Presidenza
espressi poteri di controllo sui primi.
Certo, come si ammette al quinto quesito, questa è “la strada più lunga e dall’esito più incerto, soprattutto
in questa legislatura, ma anche l’unica che in futuro potrebbe evitare il ripetersi” di simili contrasti. Non
si può, infatti, sottovalutare il pericolo che le disposizioni sopra stigmatizzate siano espressione di una
pericola tendenza che – sull’onda di partiti politici e gruppi parlamentari sempre meno democratici sia
loro interno sia per gli obiettivi politici perseguiti, frutto a loro volta di un inquietante indebolimento
della cultura costituzionale del paese – potrebbe un domani portare all’introduzione negli statuti interni
dei gruppi di clausole in radicale contrasto con il regolamento e, prima ancora, con i principi
costituzionali, ad esempio in materia d’eguaglianza come nelle ipotesi oggetto del primo quesito (77)
74) In Germania partiti, gruppi e singoli parlamentari possono sollevare conflitto di attribuzioni: v. A. CERRI, Corso di giustizia costituzionale, V ed., Milano, 2008, 399 s. 75) Per F. BIONDI, Disciplina, cit., 4 nt. 10, l’ammissibilità del conflitto di attribuzioni sollevato dal gruppo parlamentare non dipende dalla sua natura giuridica ma dall’individuazione dell’attribuzione costituzionale concretamente idonea a creare il potere. 76) R. BIN – G. PITRUZZELLA, Diritto costituzionale, XVI ed., Torino, 2017, 504 s. 77) “Cosa succederebbe se le norme statutarie di un Gruppo vietassero alle deputate che vi appartengono di prendere la parola in Aula o di presentare proposte di legge?”
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Dinanzi a questo futuribile, ma non per questo purtroppo inverosimile scenario, l’attuale scarna disciplina
regolamentare sull’organizzazione interna dei gruppi, frutto come detto di una precisa scelta rispettosa
della loro autonomia politica, rischia ora di palesare tutta la propria inadeguatezza. Di qui l’esigenza di
riconsiderare l’attuale confine tra l’autonomia interna del gruppo e la sua regolamentazione parlamentare
esterna, al fine di evitare che i gruppi parlamentari, proprio perché “associazioni di deputati”, possano
interferire indebitamente sull’esercizio delle funzioni loro tramite esercitate. In definitiva, come ai partiti,
anche ai gruppi parlamentari andrebbe espressamente imposto di agire nel rispetto della Costituzione,
cioè non dei suoi fini ma dei suoi metodi e principi democratici (78). Occorre, quindi, individuare quali
elementi dell’organizzazione e del funzionamento interno dei gruppi parlamentari siano essenziali a loro
volta per l’organizzazione ed il funzionamento delle camere, e quali invece debbono essere lasciati
all’autonomia del gruppo e del corrispondente partito politico, egualmente protetta sotto il profilo
costituzionale
Così, per un verso, ai gruppi parlamentari andrebbero estese quelle stesse minime regole procedurali di
democrazia interna oggi previste per gli statuti dei loro corrispondenti partiti (79), pena la paradossale
conseguenza di partiti all’interno democratici che però agiscono in Parlamento tramite gruppi
parlamentari all’interno non democratici. Nell’architettura costituzionale del circuito della rappresentanza
politica, infatti, il gruppo parlamentare è espressione di partiti politici presentatisi alle elezioni tramite cui
i cittadini concorrono alla determinazione della politica nazionale. A tal fine, democratici al loro interno
devono essere non solo i partiti politici ma anche i gruppi politici composti dai parlamentari facenti parte
ed eletti per lo stesso partito. Il primo fondamento costituzionale dell’obbligo di democrazia interna ai
gruppi parlamentare sta dunque nel metodo democratico all’interno dei partiti politici ricavabile dagli artt.
1 (sovranità popolare), 2 (tutela dei diritti fondamentali nelle formazioni sociali) 18, comma 2 (divieto di
associazioni con organizzazioni di carattere militare) e 49 Cost. (80).
Se così è, è evidente che gli statuti interni che i gruppi parlamentari approvano per organizzarsi al loro
interno sono espressione di un’autonomia che incontra però dei limiti in quei punti che riguardano
l’esercizio del mandato parlamentare, a cominciare da quelle condizioni di democrazia interna che sono
il presupposto perché la posizione del gruppo sia effettivamente espressione della maggioranza dei suoi
componenti. È bene, infatti, a tal proposito ricordare che la dialettica parlamentare si basa
prevalentemente sul confronto tra le posizioni politiche non dei singoli – fatto salvo il diritto dei
78) Per L. Elia la ricerca di maggiore garanzie “dovrebbe inquadrarsi in un discorso più ampio, quello dell'articolo 49 della Costituzione sulla garanzia del metodo democratico all'interno dei partiti e all'interno dei Gruppi parlamentari” (in Senato, Assemblea – resoconto stenografico, seduta antimeridiana del 22 novembre 1988, 27 ss.). 79) V. supra, nota 10. 80) V., in tal senso, A. P. TANDA, Le norme, cit., 50.
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dissenzienti, anche sui motivi (81), di esprimersi in Aula, non riconoscendo i regolamenti parlamentari altri
vincoli all’attività dei parlamentari se non quelli da essi stabiliti – ma dei gruppi, espressi dai loro Presidenti
o oratori. Di ciò ne trae beneficio l’attività parlamentare nel suo complesso, in termini sia organizzativi
(a cominciare dal risparmio dei tempi) che di sintesi politiche.
In tal senso, potrebbe riprendersi l’obbligo di scrutinio segreto per eleggere le cariche direttive del gruppo,
previsto dal regolamento della Camera del 1920 per l’elezione del suo Presidente (82). Oppure prevedere
il diritto di minoranze significative del gruppo di convocarne l’Assemblea e/o gli organi direttivi per
deciderne la posizione posizioni sulle materie all’ordine del giorno o previste nel programma dei lavori.
Per altro verso, gli obblighi di disciplina di gruppo imposti ai suoi membri circa l’esercizio delle funzioni
parlamentari non possono tradursi in trattamenti discriminatori, ancorché politicamente motivati, che si
risolverebbero in illegittime compressioni dell’esercizio del mandato del singolo parlamentare. Ancor
prima che ai regolamenti parlamentari, gli statuti interni dei gruppi politici sono soggetti alla Costituzione,
per cui non potrebbero introdurre limitazioni all’esercizio del mandato parlamentare (art. 67 Cost.) per
motivi discriminatori, lesivi della pari dignità sociale (art. 3 Cost.) e dei diritti inviolabili che la Repubblica
riconosce ad ogni uomo nelle formazioni sociali in cui svolge la sua personalità (art. 2 Cost.). In altri
termini, lesive del principio d’eguaglianza possono essere a tutto concedere associazioni private “di
tendenza”, quando ciò risulti ragionevolmente giustificato dallo scopo perseguito (ad esempio, le
associazioni di sole donne vittime di stalking), ma non associazioni pubbliche, tanto più quando tali
limitazioni andrebbero ad interferire in modo oggettivamente discriminatorio con l’esercizio delle
funzioni parlamentari. Di fronte ad un simile scenario, la garanzia per il parlamentare di abbandonare il
gruppo, pur conservando il seggio, sarebbe chiaramente rimedio insufficiente e parziale, per cui, a sua
tutela, simile clausole discriminatorie andrebbero annullate, in sede di verifica dello statuto interno, dal
Presidente.
Sotto il profilo procedurale, il modello da adottare dovrebbe riprodurre lo schema, cui sopra si è
accennato (§ 2), previsto per i contrasti tra le componenti politiche del gruppo misto (art. 15-bis, comma
2, r.C.). Il Presidente, cioè, all’atto del deposito dello Statuto, dovrebbe valutarne la loro conformità a
regolamento e a Costituzione, intervenendo nei casi di palese contrasto. Per evitare valutazioni arbitrarie,
la decisione dovrebbe essere assistita dal parere obbligatorio ma non vincolante dell’Ufficio di Presidenza
e, in caso di questioni interpretative, della Giunta per il regolamento. Alla sanzione dell’annullamento
81) Cfr. C. DECARO, La struttura delle Camere, in T. MARTINES, C. DE CARO, V. LIPPOLIS, R. MORETTI, Diritto parlamentare, Rimini, 1992, 140 s.; A. MANZELLA, Diritto parlamentare, II ed., cit., 71. 82) V. supra, nota 38.
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della disposizione giudicata non conforme potrebbe anche unirsi, a seconda del caso, la riduzione o
l’azzeramento dei contributi erogati al gruppo.
di Gianmario Demuro
Professore ordinario di Diritto costituzionale Università di Cagliari
Il diritto individuale al libero mandato parlamentare
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Il diritto individuale al libero mandato parlamentare *
di Gianmario Demuro Professore ordinario di Diritto costituzionale
Università di Cagliari
Grazie tante per l'invito ed anche per l'occasione per i miei studenti di approfondire in aula questo tema,
consegnerò all'onorevole Magi un breve scritto degli studenti del mio corso e, in ragione delle
argomentazioni già svolte da chi mi ha preceduto, dialogherò con i colleghi che ho ascoltato con
attenzione. Intanto voglio ricordare a me stesso che a volte ci dimentichiamo che i principi costituzionali
sono al contempo un limite al comportamento dei poteri pubblici e una garanzia a tutela delle
responsabilità individuali. Da questo punto di vista l'idea fondamentale è che la costituzione può essere
una costituzione dei poteri ma, anche, una costituzione dei diritti; la nostra è una costituzione moderna e
mette insieme i poteri con i diritti e, quindi, i due profili non possono essere disgiunti. Sotto questo
aspetto ancora di più in una Costituzione democratica che nasce da un compromesso virtuoso tra i partiti;
partiti che paiono oggi scomparsi improvvisamente dal contesto prescrittivo della rappresentanza politica.
I partiti, invece, ci sono ancora e sono gli eredi democratici di quelli che hanno fondato e reso possibile
l'approvazione della Costituzione quindi io ripartirei da là e ripartirei dall’art. 49 Cost. È stato molto bene
sottolineato dalla professoressa Calvano il ruolo dei partiti e non aggiungo nulla rispetto alle sue
considerazioni, vorrei soltanto dire che l’art. 49 stabilisce un diritto associativo e prescrive un diritto
individuale fondamentale a partecipare alla determinazione della politica nazionale. Attenzione un diritto
individuale, un diritto che è in capo ad ognuno di noi, che spetta ad ogni simpatizzante, a ogni singolo, a
ogni militante, a ogni dirigente e, ancor di più è un diritto che deve avere un parlamentare. Senza questo
diritto individuale si perde completamente la prospettiva di ciò che significa democrazia nell’art. 49. Rimane
sullo sfondo il tema della necessaria attuazione dell’art. 49; basti ricordare Elia che lo diceva con chiarezza
sin dagli anni ‘60 nei suoi scritti di diritto costituzionalee e nel ’64, anche nell’assemblea della Democrazia
Cristiana: l’art. 49 doveva essere attuato come garanzia del diritto individuale senza il quale si perde nel
nostro ordinamento costituzionale la declinazione democratica dei partiti. Da questo punto di vista l’idea
che, sostanzialmente, i partiti possano, mi scuso per la parola tranchant, fare quello che vogliono delle
minoranze è francamente inaccettabile. Se è accettabile che ogni partito possa liberamente scegliere una
linea politica e costruire la propria ideologia; è altrettanto chiaro che l'essenza della democrazia sta nella
* Intervento alla Tavola rotonda “Gli statuti dei gruppi parlamentari alla prova dell’art. 67della Costituzione”, Roma, 16 maggio 2018.
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possibilità di dissentire, nella facoltà di stare in minoranza e di portare una voce diversa all'interno della
stessa attività di partito. Per tale motivo ancor prima della violazione del “divieto di vincolo di mandato”
vi è una violazione dell'idea di democrazia cosi come è scritta nell’art. 49 che, come diceva prima bene il
professor Curreri, è anche la base dell’art. 1 della nostra Costituzione. Il punto di partenza
dell’argomentazione rispetto alla violazione del libero mandato parlamentare è, quindi, l’art. 49.
Il secondo argomento parte, ovviamente, dal significato dell’Art. 67. Io sono affezionato all'idea che il
divieto di mandato imperativo mantiene l'asse del riconoscimento individuale del diritto, secondo
un'antica ragione del costituzionalismo settecentesco nella libertà di esprimersi liberamente, uso questa
espressione alla francese, una volontà di esprimersi per la Nazione e di rappresentare il bene comune nel
dibattito pubblico. Bene ha fatto qui l’On. Magi ad organizzare un dibattito pubblico su questo tema, cioè
un dibattito che va alle radici del costituzionalismo e che si occupa, appunto, delle ragioni sulla base delle
quali questo dibattito è possibile. E allora se è un diritto fondamentale ad agire in maniera politicamente
orientata secondo l’art. 49, altrettanto lo sarà agire con metodo democratico per raggiungere un fine che è definito
dall’art. 67; dobbiamo difendere il combinato disposto dell’art. 49 e dell’art. 67 in collegamento, sempre,
con l’art. 1. Da questo punto di vista io non ho dubbi che il principio di divieto del mandato imperativo
sia un principio supremo, non ho nessun dubbio che lo sia, perché non si può pensare di avere una
rappresentanza politica senza il rispetto delle minoranze, senza il rispetto dei partiti con un ordinamento
a base democratica, senza il rispetto del libero mandato parlamentare.
Un terzo argomento, sempre sulla linea della violazione delle basi fondative della democrazia
rappresentativa, lo si può ricavare dall’art. 68, e devo questa suggestione alle discussioni che ho avuto con
i miei studenti. L’art. 68, voi sapete e non ho bisogno di ricordarlo a nessuno, che la garanzia di immunità
per i voti e le opinioni espresse è strettamente legata all'esercizio della funzione di parlamentare, secondo
una copiosissima giurisprudenza costituzionale che collega il primo comma dell’art. 68 all'esercizio della
funzione parlamentare. Il singolo parlamentare può esprimere voti e opinioni che possono anche essere,
come dire, urticanti ma, sempre e comunque, nel rispetto dei limiti della altrui sfera individuale e, sempre
e comunque, nell’esercizio della funzione di parlamentare che è funzione di rappresentanza politica. Se
non fosse garantito il libero mandato parlamentare che senso avrebbe la quarentigia della prima parte
dell'art. 68 Cost.? Se così non fosse raggiungeremmo il paradosso che la Camera deve poter garantire il
diritto di opinione ed il diritto di espressione del voto, ma non la garanzia al deputato o al senatore
all'interno del suo gruppo. Sarebbe veramente inaccettabile garantire ciò che è un giudizio fuori dal
Parlamento e non garantire il giudizio all'interno del Parlamento.
Arrivando alle conclusioni, sono state dette moltissime cose e non le voglio ripetere, però c'è un profilo
che mi interessa e che mi è stato sollecitato dalle due sentenze della Corte costituzionale sulle leggi
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elettorali; io non condivido una argomentazione, soprattutto della seconda sentenza, del superamento
dell'inammissibilità delle questioni di lgittimità costituzionale poste in contesti di lis ficta; come posso
impugnare una legge elettorale che ancora non è entrata neanche in vigore? Appare un ragionamento che,
se fossimo ancora sotto la vigenza del diritto romano, potremmo definire di equitas, se vogliamo utilizzare
questa espressione, ma certamente siamo di fornte all'introduzione di un recurso de amparo non previsto
dalla Costituzione. Allora se è vero che si può ammettere un recurso de amparo senza che la Costituzione lo
preveda espressamente rispetto ad una legge elettorale, perché non dovrebbe ammettersi la lacuna per il
libero mandato parlamentare come assenza di tutela di un diritto fondamentale che, altrimenti, non ne
avrebbe altra se non quella del giudizio davanti alla Corte? Sotto questo aspetto non si tratta di costruire
lis fictae, tuttavia nella discussione di fronte ad un giudice ordinario di una questione di questo genere si
potrebbe proporre un'eccezione di incostituzionalità in applicazione del principio costituzionale del libero
mandato parlamentare. Da sconsigliare invece, e vado veramente a concludere, l'impervia via della
revisione del regolamento parlamentare; in alternativa si potrebbe valorizzare un articolo che già esiste
del regolamento del Senato, l’art. 53 al co. 7, che così dispone: “I regolamenti interni dei gruppi
parlamentari stabiliscono…procedure e forme di partecipazione che consentano ai singoli senatori di
esprimere i loro orientamenti e presentare proposte sulle materie comprese nel programma di lavori o
comunque all'ordine del giorno”. Laddove è scritto “consentano ai singoli senatori” vi è una base
normativa che può far ripartire un dibattito pubblico intorno ai regolamenti parlamentari che danno
attuazione al principio della rappresentanza politica mi sembra che possa essere questa la migliore
occasione per riportare la politica al centro della discussione.
di Roberto Di Maria
Professore ordinario di Diritto costituzionale Università degli studi di Enna “Kore”
Una “clausola vessatoria” in bilico fra la democrazia rappresentativa e la
tutela giurisdizionale dei diritti
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Una “clausola vessatoria” in bilico fra la democrazia rappresentativa e la tutela giurisdizionale dei diritti*
di Roberto Di Maria
Professore ordinario di Diritto costituzionale Università degli studi di Enna “Kore”
Sommario: 1. Premessa: a quali questioni rispondere? 2.1. La natura della clausola contenuta nello Statuto del Gruppo parlamentare del M5S, fra diritto civile e diritto pubblico (e penale). 2.2. Ipotesi sul controllo, anche para-giurisdizionale, sugli Statuti dei Gruppi parlamentari. 3. Una modifica ai Regolamenti parlamentari: “soluzione di tutti mali”? 4. La garanzia dell’ordinamento repubblicano, ovvero sui limiti alla revisione costituzionale. 5. Conclusioni: le risposte.
1. Premessa: a quali questioni rispondere?
Le riflessioni contenute nel presente, breve, lavoro sono il frutto delle sollecitazioni recepite in occasione
della tavola rotonda su “Gli Statuti dei gruppi parlamentari alla prova dell’articolo 67 della Costituzione”;
e si articolano intorno a tre, specifici, quesiti posti alla attenzione ed allo studio dei convenuti: la questione
della “giustiziabilità” della eventuale violazione dell’art. 67 Cost.; la ipotizzabilità di una modifica del
Regolamento parlamentare con cui si attribuiscano, al Presidente d’Assemblea, poteri di controllo sugli
Statuti dei Gruppi; ed infine, quella della eventuale revisione del suddetto art. 67 Cost., tale da sopprimere
il c.d. “divieto del vincolo di mandato”1.
* Intervento alla Tavola rotonda “Gli statuti dei gruppi parlamentari”, Roma, 16 maggio 2018. 1 Si riporta di seguito, per completezza, il testo dei sei quesiti oggetto della suddetta tavola rotonda: «1. In primis, si
pone il problema della stesura e della potenziale applicazione di disposizioni di Statuti dei gruppi – regole di diritto privato – in palese contrasto con la Costituzione e con il Regolamento. Cosa succederebbe se le norme statutarie di un Gruppo vietassero alle deputate che vi appartengono di prendere la parola in Aula o di presentare proposte di legge? 2. Possiamo dire che la sola circostanza che uno o più parlamentari iscritti al gruppo Movimento 5 Stelle esercitino il loro mandato con il timore d’esser sanzionati economicamente in ragione delle proprie condotte e scelte in parlamento costituisce un vincolo di mandato e impone all’istituzione parlamentare di intervenire scongiurando questa ipotesi ab origine? Se sì, come? Dal momento che la norma è conosciuta formalmente dalle Camere perché contenuta in statuti il cui deposito è obbligatorio, possiamo dire che non è il difetto di una norma specifica che impedisce al Presidente di manifestare formalmente ai colleghi parlamentari l’inconsistenza, nullità e illiceità di una previsione regolamentare (ad oggi sottoscritta dallo stesso Presidente Fico), ad esempio con una circolare inviata a tutti i deputati? 3. Può il Capo dello Stato nominare Ministro un parlamentare del Movimento 5 Stelle vincolato da un “contratto privato” in contrasto non solo dell’art. 67 Cost. ma anche con il giuramento prestato di fronte allo stesso Presidente della Repubblica di esercitare le proprie funzioni nell'interesse esclusivo della nazione, oltre che con la con legge 400/1988 in ordine all’autonoma collegialità del Consiglio dei Ministri e al suo compito di risoluzione dei conflitti tra Ministri? Come opererebbe questo condizionamento nell’esercizio della funzione di controllo da parte dei dai parlamentari nei confronti dei ministri del loro partito? Può tale problema essere evidenziato direttamente all’attenzione del Presidente della Repubblica, nella sua qualità di garante della Costituzione? 4. Questione della “giustiziabilità” della violazione dell’art. 67 Cost. in esame. Come un tentativo di applicazione dell’istituto della clausola penale prevista dalla disposizione statutaria in esame potrebbe
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Le argomentazioni con cui si riscontrano i suddetti quesiti sono dunque compendiate nei tre paragrafi
che seguono – con la sintesi che si confà ad un contributo pro quota di un più ampio, e generale,
approfondimento tematico – a corredo del quale si sviluppa un ulteriore, ed ultimo, paragrafo di sintetiche
e riepilogative conclusioni; i riferimenti bibliografici e giurisprudenziali sono stati ridotti, pertanto, al
minimo (ritenuto) indispensabile.
In sede di premessa sia consentito, soltanto, richiamare le disposizioni statutarie del Gruppo parlamentare
del Movimento 5 Stelle (di seguito “M5S”) dalle quali ha tratto origine il confronto oggetto della
summenzionata tavola rotonda: gli interrogativi sul valore e sulla efficacia dell’art. 67 Cost. – nella parte
in cui statuisce che ciascun parlamentare esercita le proprie funzioni «senza vincolo di mandato» – si
appuntano, in particolare, sul tenore dell’art. 21, co. 5, del richiamato Statuto, per cui «il deputato che
abbandona il gruppo parlamentare a causa di espulsione ovvero abbandono volontario ovvero dimissioni
determinate da dissenso politico sarà obbligato a pagare, a titolo di penale, al MoVimento 5 Stelle, entro dieci giorni
dalla data di accadimento di uno dei fatti sopra indicati, la somma di euro 100.000,00»; formula che riprende –
pressoché testualmente – quella dell’art. 5 del Codice etico, allegato al medesimo Statuto, ai sensi del
quale «in considerazione del fatto che, ad eccezione del contributo di cui al terzo comma del presente
articolo, gli oneri per l’attività politica e le campagne elettorali sono integralmente a carico del MoVimento
5 Stelle, ciascun parlamentare, in caso di: espulsione dal Gruppo Parlamentare del MoVimento 5 Stelle e/o dal
MoVimento 5 Stelle; abbandono del Gruppo Parlamentare del MoVimento 5 Stelle e/o iscrizione ad altro
Gruppo Parlamentare; dimissioni anticipate dalla carica non determinate da gravi ragioni personali e/o di salute
ma da motivi di dissenso politico; sarà obbligato pagare al MoVimento 5 Stelle, entro dieci giorni dalla data di
accadimento di uno degli eventi sopra indicati, a titolo di penale, la somma di € 100.000,00 quale indennizzo per gli oneri
sopra indicati per l’elezione del parlamentare stesso [tutti i corsivi sono aggiunti, ndr.]».
giungere all’esame della Corte costituzionale? Attraverso la via del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato (Deputato “sanzionato” vs. Gruppo parlamentare di appartenenza oppure Autorità giudiziaria vs. Camera dei Deputati che pretende di agire in autodichia sull’applicazione della previsione statutaria). Attraverso un giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale? 5. È chiaro come una modifica del Regolamento che attribuisca al Presidente poteri di controllo sugli Statuti dei Gruppi sia la strada più lunga e dall’esito più incerto – soprattutto in questa legislatura – ma anche l’unica che in futuro potrebbe evitare il ripetersi di casi come quello di cui si discute oggi; per questo annuncio fin da ora la mia intenzione di presentare una proposta di modifica in tal senso. Chiedo allora a chi interverrà oggi di ipotizzare i passaggi di tale procedimento di verifica degli Statuti, l’organo o gli organi che ne dovrebbero essere incaricati, i parametri di riferimento e le conseguenze in caso di mancato rispetto degli stessi. 6. Infine: non solo il Movimento 5 Stelle, ma anche Forza Italia, Lega Nord e Fratelli d’Italia hanno affermato in campagna elettorale di voler modificare l’articolo 67 della Costituzione, e proposte di legge in tal senso sono già state presentate in passato; la differenza, oggi, è che una tale riforma costituzionale potrebbe essere approvata a maggioranza dei due terzi di ciascuna Camera. Il quesito che allora si pone è se l’art. 67 sia revisionabile o se il divieto di mandato imperativo rientri fra i “principi fondamentali e diritti inviolabili” che la Corte cost. pone come limite allo stesso processo di revisione costituzionale».
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Dal superiore combinato disposto, dunque, l’ipotizzata violazione dell’art. 67 Cost. e le – conseguenti –
considerazioni di merito.
2.1. La natura della clausola contenuta nello Statuto del Gruppo parlamentare del M5S, fra diritto
civile e diritto pubblico (e penale).
Il tema della “giustiziabilità” (sic) dell’art. 67 Cost. rinvia, necessariamente, alla preliminare valutazione
della “natura” della disposizione – ovvero della clausola – prevista dall’art. 21, co. 5, St. M5S; e sul punto
quanto mai precise – se non già, addirittura, concludenti – appaiono le considerazioni recentemente
licenziate da Roberto Bin, il quale ha sostenuto che «la questione della sanzione che il regolamento del
Gruppo parlamentare del M5S minaccerebbe […] di applicare agli eletti che intendono cambiare gruppo
è davvero semplice […] si tratta di una norma (a) inutile e (b) inaccettabile»; in particolare «inutile perché di
applicazione impossibile [né] attraverso strumenti “interni” al Parlamento, perché non esiste nessuna
procedura per richiederne e ottenerne il pagamento attraverso le forme tipiche di autodichia parlamentare
[né attraverso il] giudice civile, per chiedere che il “transfuga” sia obbligato a pagare la penale» trattandosi
di un contratto viziato da “illiceità della causa”2.
Sebbene tale asserzione sembri non lasciare alcuno spazio ad ulteriori considerazioni – bollando de iure la
relativa disposizione statutaria, de minimis, come “inapplicabile” – può comunque provarsi ad interpretare
quest’ultima, seppur paradossalmente, alla stregua di una “clausola vessatoria” e valutarne indi la
potenziale cogenza ove calata nello statuto di una associazione.
Andando quindi oltre le considerazioni di Roberto Bin, deve rammentarsi che l’inserimento di una
clausola vessatoria nello statuto di una associazione è stata ritenuta, dalla giurisprudenza civile,
pienamente legittima: infatti lo statuto, o atto costitutivo, di una associazione costituisce «espressione di
autonomia negoziale» ed è indi regolato «dai principi generali del negozio giuridico» di talché «non può
configurarsi, nei rapporti associativi, la presenza di un contraente più debole, meritevole della particolare
tutela prevista per le clausole vessatorie, presupponendo, al contrario, la partecipazione ad
un’associazione una comunanza di interessi e di risorse, finalizzati al raggiungimento degli scopi previsti
dall’atto costitutivo, in funzione dei quali sono utilizzati tutti i mezzi disponibili»3.
2 Cfr. art. 1343 c.c. ai sensi del quale «la causa è illecita quando è contraria a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume»; nel qual caso ricorrerebbe – evidentemente – la contrarietà alla norma imperativa versata nell’art. 67 Cost. Per la lettura integrale del testo, da cui sono tratti i virgolettati, si rinvia a R. BIN, La sanzione pecuniaria ai voltagabbana ha un acre sapore, in lacostituzione.info (corsivi aggiunti). 3 Così Cass., sez. III civ., 8372/2010. In ogni caso la disciplina civilistica della adesione ad una associazione rinvia alla autonomia contrattuale, ex art. 16 c.c.
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Laddove si volesse equiparare un Gruppo parlamentare ad una associazione (di diritto civile) dovrebbe
porsi in dubbio, allora, non tanto (o soltanto) la legittimità della clausola in sé quanto, invero, anche quella
derivante dalla (necessaria) determinatezza delle circostanze di fatto che ne comportano la concreta
applicazione; e sotto questo profilo ciò che desta maggiore perplessità – anche in ordine alla peculiare
convergenza fra gli artt. 18 e 49 Cost.4 – è proprio il “catalogo” delle suddette circostanze: sebbene, infatti,
la identificazione delle «cause di sanzione» dovrebbe rispondere al principio di “tipicità dell’illecito” –
costituzionalmente sancito, ex artt. 25 Cost. ed 1 c.p., per tutte le prescrizioni aventi natura lato sensu
penale – dal combinato disposto dallo Statuto e dal Codice etico del M5S, si ricava invece che l’espulsione
e la (conseguente) imposizione della sanzione possono ricorrere – inter alia – per «tutte le condotte che
violino, del tutto o in parte, la linea politica dell’Associazione “MoVimento 5 Stelle”»5.
Evidentemente la relativa “causa” – che può indurre, ut supra, alla «espulsione» del deputato – ha
contenuto assolutamente indefinito; e quindi non consente al medesimo di conoscere in anticipo – in
ossequio al summenzionato principio di “tipicità” – da quali condotte astenersi, onde evitare di incorrere
nella ingiunzione al pagamento della penale. E, per quanto funzionale ad assicurare la omogeneità
dell’indirizzo politico all’interno del Gruppo parlamentare, tale indeterminatezza appare però tanto più
grave – rivalutando ora la natura eminentemente pubblicistica dei fini perseguiti dalla predetta
“associazione”, aldilà della sua mera natura giuridica – ove si consideri la rilevanza costituzionale del bene
giuridico eventualmente leso, ovverosia il “libero esercizio del mandato parlamentare”, nonché l’antico e
cristallino insegnamento della Corte costituzionale in materia: «l’art. 67 della Costituzione […] è rivolto
ad assicurare la libertà dei membri del Parlamento. Il divieto del mandato imperativo importa che il
parlamentare è libero di votare secondo gli indirizzi del suo partito ma è anche libero di sottrarsene; nessuna norma potrebbe
legittimamente disporre che derivino conseguenze a carico del parlamentare per il fatto che egli abbia votato contro le direttive
del partito»6.
Oltre alla illiceità sotto il profilo civilistico, emerge allora un ulteriore (seppur pleonastico) limite
all’inserimento, nello statuto di un Gruppo parlamentare, di una clausola (vessatoria) di natura “penale”
sì come formulata – perlomeno – nei termini e con le modalità di cui all’art. 21, co. 1 e 5, St. M5S.
4 Com’è noto, disposizioni costituzionali che salvaguardano – rispettivamente – la libertà di associazione, ivi compresa quella «in partiti politici» 5 Le altre cause, più puntualmente espresse, sono: «mancato rispetto delle decisioni assunte dall’assemblea degli iscritti con le votazioni in rete […] mancato rispetto delle decisioni assunte dagli altri organi del MoVimento 5 Stelle […] mancata cooperazione e coordinamento con gli altri iscritti, esponenti e eletti, anche in diverse assemblee elettive, per la realizzazione delle iniziative e dei programmi del MoVimento 5 Stelle, nonché per il perseguimento dell’azione politica del MoVimento 5 Stelle» (cfr. art. 21, co. 1, St. M5S). 6 Cfr. la ben nota Corte cost., sent. 14/1964 (corsivo aggiunto).
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2.2. Ipotesi sul controllo, anche para-giurisdizionale, sugli Statuti dei Gruppi parlamentari.
Inequivocabilmente accertata la natura penale della clausola – nonché la sua “astratta” illegittimità – si
pone indi la questione della sua “concreta” (ed effettiva) “giustiziabilità”, in ordine alla quale pare di non
potersi sfuggire alla alternativa secca: o controllo “interno” alla Camera, o controllo “esterno” di natura
giurisdizionale costituzionale.
Quanto alla prima ipotesi, deve ancora una volta registrarsi una puntuale precisazione di Roberto Bin il
quale osserva – indirettamente replicando al Presidente della Camera, On.le Roberto Fico, sollecitato in
argomento – che «l’autonomia dei gruppi parlamentari non è affatto un principio sancito in Costituzione»
essendo questi, appunto, «secondo lo stesso Regolamento della Camera […] delle semplici “associazioni
di deputati” che operano nell’istituzione parlamentare»; e che, pertanto, il riconoscimento di «un potere
di sindacato sugli statuti dei Gruppi parlamentari» o, vieppiù, di «un obbligo o un potere del Presidente,
o di altri organi parlamentari, di esercitare “alcuna forma di controllo sul contenuto degli statuti dei
Gruppi parlamentari”» non si porrebbe affatto in antitesi con il preteso «pieno rispetto dell’autonomia
spettante in materia ai Gruppi»7.
Al contrario, proprio attingendo al Regolamento della Camera può intanto rilevarsi che al Presidente di
Assemblea spetta di garantire il «buon andamento» dei lavori8; ma è stato anche correttamente osservato
– in relazione al ruolo per quest’ultimo delineato, tanto dalle norme di diritto positivo quanto dalla prassi
parlamentare – come egli sia altresì titolare di «poteri monocratici sull’organizzazione dei lavori
parlamentari e, di conseguenza, sull’attuazione dell’indirizzo politico di governo» (per esempio «nel caso,
quasi costante, in cui la Conferenza dei Capigruppo non raggiunga la maggioranza dei tre quarti richiesta
per l’approvazione del programma dei lavori e del relativo calendario») sì da configurarsi quale «snodo
decisivo per l’attuazione del programma di governo», vieppiù alla luce della «tendenza di questi ultimi
anni» a considerare il Presidente di Assemblea più un «uomo della maggioranza (come il Presidente del
Senato statunitense)» che non, invece, un «soggetto assolutamente terzo ed imparziale (come lo “speaker”
britannico)»9.
7 Cfr. sempre R. BIN, La strana risposta del presidente Fico: è così che si rilancia il ruolo del Parlamento?, in lacostituzione.info. Si veda, in particolare, quanto disposto dall’art. 15 bis, co. 2, del Regolamento della Camera dei deputati in materia di poteri di controllo del Presidente di Assemblea nei confronti del c.d. “Gruppo misto”: «qualora alcuna fra le componenti politiche costituite nel Gruppo ritenga che da una deliberazione […] risulti pregiudicato un proprio fondamentale diritto politico, può ricorrere al Presidente della Camera avverso tale deliberazione. Il Presidente decide […] ovvero sottopone la questione all’Ufficio di Presidenza». 8 Cfr. art. 8 Regolamento della Camera dei deputati. 9 Virgolettati tutti tratti da S. CURRERI, L’elezione dei nuovi Presidenti delle Camere: ritorno al consociativismo o verso un nuovo bipolarismo?, editoriale in www.federalismi.it, n. 7/2018.
7 federalismi.it - ISSN 1826-3534 |n. 13/2018
Pare così prendere vigore l’ipotesi di un controllo – sebbene di natura non strettamente “giurisdizionale”
– effettuato dal Presidente di Assemblea; il quale però, nell’attuale silenzio del Regolamento, è comunque
privo di strumenti sanzionatori e – quindi – di “effettività” (sul punto cfr. infra, §3).
Quanto invece alla seconda ipotesi – ovverosia al controllo della Corte costituzionale – anche in tal caso
non pare di potersi sfuggire ad una ipotesi secca: il ricorso al sindacato per conflitto di attribuzione fra
Poteri dello Stato (c.d. “interorganico”).
Se però, sotto il profilo “strutturale”, tale sindacato corrisponderebbe perfettamente allo scopo del
giudizio – poiché utile a colmare una lacuna dell’apparato di controllo sull’esercizio di funzioni
costituzionalmente rilevanti10 – deve tuttavia rilevarsi come la Corte costituzionale sia, da sempre,
alquanto restia ad “aprire le porte del conflitto” a vicende che si consumano entro le mura del Parlamento:
è stato non casualmente osservato, infatti, che proprio «in questi anni di bipolarismo conflittuale e
muscolare, i governi e le maggioranze parlamentari di turno hanno forzato regole e procedure, alla
rincorsa del peggior precedente, col tempo sempre più distante dal testo regolamentare, profittando in
ciò anche del criticabile self-restraint della Corte costituzionale, anche quando si trattava di difendere i pochi
ma essenziali capisaldi del procedimento legislativo posti dall’art. 72 Cost.»11; ed in effetti, tale self-restraint
si è manifestato – soprattutto – in una giurisprudenza pressoché monoliticamente orientata ad escludere
la legittimazione del singolo parlamentare a sollevare un conflitto di attribuzioni12.
È pur vero che – nonostante le premesse perplessità – in un’ottica eminentemente forense potrebbe
essere comunque utile sollevare il conflitto ed attendere, poi, la risposta della Consulta; non v’è infatti
dubbio che, almeno sul piano formale, ricorrano tutti gli elementi che connotano – ex art. 37, l. 87/1953
– il conflitto interorganico: legittimazione attiva e passiva; oggetto e natura “di accertamento” della
azione, ovvero la “menomazione” della funzione parlamentare, filtrata dall’art. 67 Cost.13. Né v’è dubbio
che – anche tramite tale “canale” giurisdizionale – al Potere legislativo potrebbe essere finalmente
10 Sul punto si rinvia al classico R. BIN, L’ultima fortezza. Teoria della Costituzione e conflitti di attribuzione, Milano, 1996. 11 Cfr. sempre S. CURRERI, cit. 12 Se non limitatamente alla difesa delle proprie prerogative ex art. 68 Cost.; cfr. Corte cost., sentt. 225/2001, 263/2003, 284/2004, 451/2005. Più recentemente, alcuni spunti anche in Corte cost., ord. 149/2016, a commento della quale si segnala – volendo – L. ARDIZZONE e R. DI MARIA, L’ordinanza 149 del 2016: un’occasione (mancata) per ripensare la struttura processuale – ed indi, la funzione – del giudizio per conflitto di attribuzioni fra Poteri dello Stato?, in Consulta online (www.giurcost.org), ove gli Autori osservano che «la legittimazione attiva del singolo parlamentare [potrebbe] indurre la enucleazione di “buone prassi” – a complemento delle regole che presidiano il procedimento legislativo e pienamente coerenti con i relativi principi costituzionali – appunto finalizzate ad evitare ipotesi di ricorso alla Corte» che richiederebbe «un bilanciamento alquanto delicato […] fra la salvaguardia, da un lato, dei principi costituzionali che filtrano la natura “democratica” dell’ordinamento repubblicano attraverso i meccanismi tipici della c.d. “rappresentanza indiretta” e, d’altro lato, del principio (supremo) di autonomia del Parlamento compendiato – tradizionalmente – negli interna corporis acta». 13 Cfr. R. DI MARIA, I conflitti di attribuzione fra Poteri: il contraddittorio, in A. Pizzorusso e R. Romboli (a cura di), Le Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale dopo quasi mezzo secolo di applicazione, Torino, 2002.
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restituita, nonché salvaguardata, la “centralità” istituzionale da tempo ormai smarrita ed, altresì, essere
recuperato il suo «ruolo di “perno” del dibattito politico nazionale, funzionale alla selezione delle public
choices e policies, sia quello (conseguenziale) di “produttore” della normativa di attuazione delle
medesime»14.
Purtuttavia – ove si volesse davvero percorrere la strada del conflitto di attribuzioni – una formale
“apertura delle porte” potrebbe conseguire ad una, altrettanto formale, modifica dei Regolamenti
parlamentari in cui sia codificata una espressa “competenza” in materia di salvaguardia della libertà di
autodeterminazione dei parlamentari.
3. Una modifica ai Regolamenti parlamentari: “soluzione di tutti mali”?
Dalla superiore conclusione emerge la connessione fra la questione della “giustiziabilità” dell’art. 67 Cost.
e quella inerente ad una, eventuale, modifica o integrazione del Regolamento della Camera dei deputati;
ciò perché – nella prospettiva suggerita (cfr. supra, §1) – tale modifica sarebbe comunque funzionale ad
assicurare il controllo sul contenuto degli Statuti dei Gruppi parlamentari, ovverosia la loro coerenza con
i principi costituzionali cui è lato sensu ispirata l’attività parlamentare.
In estrema sintesi – con la consapevolezza, espressa in premessa, che «una modifica del Regolamento che
attribuisca al Presidente poteri di controllo sugli Statuti dei Gruppi sia la strada più lunga e dall’esito più
incerto» (cfr. nota 2) – può allora affermarsi che il precipuo scopo della armonizzazione fra le regole
cristallizzate negli Statuti e la normativa costituzionale, che tratteggia i profili essenziali del diritto
parlamentare repubblicano, non possa che essere efficacemente perseguito mediante la evocata riforma
regolamentare.
Indifferentemente dal fatto che tale modifica attribuisca ad un organo, specificamente individuato15, il
compito di effettuare il controllo direttamente – riconoscendogli altresì il correlativo e congruo potere
sanzionatorio – oppure di svolgere il ruolo di mero “intermediario” nei confronti della Corte
costituzionale – indi legittimato a sollevare il conflitto – pare innegabile che soltanto per tale via potrebbe
efficacemente perseguirsi la salvaguardia della funzione parlamentare compendiata nell’art. 67 Cost.; è
appena il caso di notare – peraltro – che una siffatta modifica dovrebbe essere congiuntamente apportata
sia al Regolamento della Camera dei deputati sia a quello del Senato della Repubblica, vieppiù se destinata
a canonizzare una formale competenza ad interloquire con la Corte costituzionale.
14 Così in L L. ARDIZZONE e R. DI MARIA, cit. 15 Forse il Presidente di Assemblea, monocraticamente; oppure un organo collegiale ad hoc, come il Collegio dei Questori (cfr. art. 10 Reg. C. «i Questori curano collegialmente il buon andamento dell’amministrazione della Camera, vigilando sull’applicazione delle relative norme e delle direttive del Presidente»).
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4. In conclusione: la garanzia dell’ordinamento repubblicano, ovvero sui limiti alla revisione
costituzionale.
Un’ultima notazione – molto breve – sulla ammissibilità della revisione dell’art. 67 Cost.; in specie nel
senso della soppressione del c.d. “divieto di mandato imperativo”.
Sul punto si ritiene sufficiente disarticolare la questione in due profili: se il suddetto divieto sia
“fisiologicamente connaturato” ad un ordinamento autenticamente democratico e, quindi, ne costituisca
strutturalmente condicio sine qua non; o se, quantomeno, esso sia connaturato all’ordinamento democratico
delineato dalla Costituzione repubblicana italiana.
Quanto al primo profilo, è forse sufficiente richiamare i casi degli Stati che hanno previsto «forme di
responsabilità giuridica dell’eletto» – generalmente tradottesi nella previsione dell’istituto del c.d. “recall”16
– per affermare che, fin dai tempi del “discorso agli elettori di Bristol” di Edmund Burke, il vincolo di
mandato può essere istituzionalmente temperato dal ricorso a strumenti che, pur assicurando la libertà
del parlamentare, lo richiamino ai propri doveri di fedeltà e rappresentatività – intanto etici, prima che
giuridici – efficacemente compendiati nel concetto di “accountability” politica.
Quanto al secondo profilo, pare incontrovertibile che il divieto di mandato imperativo sia
indissolubilmente connesso ad altre disposizioni costituzionali dalle quali emerge una chiara opzione
sistematica, da parte del Costituente italiano, per un modello di democrazia rappresentativa in cui – in
ragione della necessaria intermediazione dei partiti – non può esservi spazio per la evocata “responsabilità
personale”: dall’art. 1 Cost. (cfr. «la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti
della Costituzione») all’art. 49 Cost. (n.b. sulla “centralità” dei partiti nella determinazione della «politica
nazionale»); fino all’art. 139 Cost., ai sensi del quale «la forma repubblicana non può essere oggetto di
revisione costituzionale».
In tal senso, dunque, il ricorso al procedimento ex art. 138 Cost. per emendare l’art. 67 Cost. pare
formalmente inibito; né convincente appare il richiamo ad altri modelli – anche europei17 – in mancanza
16 Per esempio, il Bill 36 della British Columbia del 1994; nonché l’attuale condizione di alcuni Stati federati degli USA (i.e. Alaska, Arizona, California, Colorado, Idaho, Nevada, Kansas, etc.). Sul punto si rinvia alla lettura di P. RONCHI, Una forma di democrazia diretta: l’esperienza del recall negli Stati Uniti d’America, in Quaderni dell’Osservatorio Elettorale, n. 61/2009, p. 99-129, ed al ricco corredo bibliografico ivi contenuto. 17 Di recente cfr. A. MORELLI, Mandato parlamentare alla portoghese? Il “contratto di governo” non è chiaro, in lacostituzione.info, in cui si riferisce della Costituzione portoghese del 1976 in cui è prevista «una anti-defection clause all’art. 160, comma 1, il quale stabilisce che i deputati perdono il seggio, tra le altre cause, qualora s’iscrivano a un partito diverso da quello per il quale si sono presentati alle elezioni […] qualora essi vengano a trovarsi in situazioni d’incapacità o incompatibilità previste dalla legge, se non frequentano l’Assemblea o superano il numero di assenze previste dal Regolamento e qualora siano condannati in giudizio per determinati delitti»; ed in cui l’Autore – inquadrando la superiore clausola nel contesto ordinamentale portoghese – opportunamente osserva che «non è vero che in Portogallo è previsto un vincolo di mandato per i parlamentari» considerato che l’art. 152,
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della correlativa introduzione di adeguati meccanismi di checks&balances rispetto ai quali, però, la
questione non sarebbe più riducibile ad una revisione costituzionale puntuale – o “chirurgica” – bensì
assumerebbe i connotati di una revisione di ordine davvero sistematico, che – si ritiene – è invero in
aperto contrasto con la tradizione giuridica che ha ispirato la stesura della intelaiatura istituzionale della
Costituzione repubblicana.
5. Conclusioni: le risposte.
Riepilogando, infine, le superiori questioni problematiche e le correlative risposte: la ipotizzata
“giustiziabilità” dell’art. 67 Cost. pare indissolubilmente legata, da un lato, al valore di “principio
fondamentale” del medesimo che – pertanto – innerva l’intero ordinamento costituzionale, pur in
mancanza di un esplicito rimedio giurisdizionale o para-giurisdizionale; d’altro lato, alla ipotizzabilità –
ovvero, alla concreta possibilità – di introdurre una modifica nei Regolamenti parlamentari,
espressamente finalizzata a colmare una “zona d’ombra” della giustizia costituzionale; sicché i due profili
– quello inerente al controllo sugli Statuti dei Gruppi parlamentari e quello inerente alla formalizzazione
del medesimo nei Regolamenti parlamentari – finiscono inevitabilmente per sovrapporsi e condurre ad
una, identica, suggestione: la introduzione di una disposizione regolamentare che disciplini – in modo
espresso – il suddetto potere di controllo. Ed è ugualmente intercettata dalle superiori considerazioni
anche quella, ulteriore, sulla abrogazione del divieto del vincolo di mandato: se tale disposizione deve
infatti intendersi, ut supra, alla stregua di un principio fondamentale – vieppiù ritenuta la sua correlazione
sistematica con altre, ed altrettanto fondamentali, disposizioni costituzionali (i.e. artt. 1, 49 e 139 Cost.) –
allora la ineludibile conclusione è che la stessa sia sottratta al procedimento di revisione costituzionale, e
che il suo ipotetico emendamento dovrebbe invece comportare una sostanziale trasformazione
dell’ordinamento repubblicano tout court.
comma 2 «stabilisce che “i deputati rappresentano tutto il Paese e non le circoscrizioni nelle quali sono stati eletti”, mentre l’art. 155, comma 1, prevede che gli stessi deputati “esercitano liberamente il proprio mandato”»; e che, pertanto, «misure come quella portoghese sono compatibili con il divieto di mandato imperativo (previsto, com’è noto, anche dall’art. 67 della Costituzione italiana […])». Così esplicitamente criticando il punto 19 del c.d. “contratto di governo” in cui – rinviando appunto al suddetto art. 160, co. 1, della Costituzione portoghese – si sostiene che sia «necessario introdurre espressamente il “vincolo di mandato popolare” per i parlamentari, per rimediare al sempre più crescente fenomeno del trasformismo. Del resto, altri ordinamenti, anche europei, prevedono il vincolo di mandato per i parlamentari».
di Giorgio Grasso
Professore associato di Istituzioni di diritto pubblico Università degli Studi dell’Insubria
Qualche riflessione su statuti e regolamenti dei Gruppi parlamentari,
tra articolo 49 e articolo 67 della Costituzione
1 3 G I U G N O 2 0 1 8
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Qualche riflessione su statuti e regolamenti dei Gruppi parlamentari, tra articolo 49 e articolo 67 della Costituzione *
di Giorgio Grasso
Professore associato di Istituzioni di diritto pubblico Università degli Studi dell’Insubria
Dopo aver rivolto i miei più sinceri ringraziamenti all’onorevole Riccardo Magi per l’invito a questa
Tavola rotonda, vorrei partire nelle mie brevi osservazioni dal titolo del nostro incontro, rivolto appunto
a studiare gli statuti dei gruppi parlamentari in rapporto all’articolo 67 della Costituzione, sul divieto di
mandato imperativo.
In proposito, mi pare che, negli interventi precedenti, ci si sia soffermati soltanto sul recente statuto
adottato dal gruppo parlamentare del MoVimento 5 Stelle, con la sua contestata previsione di una
inammissibile sanzione economica, a titolo di penale, verso il deputato che lascia il gruppo parlamentare
perché espulso, o per abbandono volontario ovvero per dimissioni determinate da dissenso politico.
Tuttavia, forse, si deve provare a compiere anche qualche rapida considerazione sugli statuti e/o i
regolamenti degli altri gruppi parlamentari, secondo la denominazione assunta da questi atti nelle due
Camere, guardando in particolare alla disciplina sanzionatoria nei confronti degli appartenenti ai singoli
gruppi parlamentari, che è un po’ l’argomento da cui è partita tutta la vicenda su cui stiamo oggi
discutendo insieme.
L'onorevole Magi ci ha fornito un’utilissima “scaletta” di questioni e di domande su cui ragionare; su di
esse i colleghi che mi hanno preceduto hanno in parte già risposto: ora tocca a me fornire una prospettiva
e qualche soluzione interpretativa.
Mi pare che dentro i temi di riflessione suggeriti nel testo della lettera di invito manchi completamente
l’articolo 49 della Costituzione, quello che riguarda la disciplina costituzionale dei partiti politici, su cui
sono intervenuti tra gli altri anche Roberta Calvano e Gianmario Demuro; se non ci si rivolge anche a
questa disposizione costituzionale, mi pare che sia molto difficile poter cogliere completamente il
significato di quell’orientamento molto netto che il MoVimento 5 Stelle ha manifestato sin dall'inizio della
sua storia politica, con ciò riferendomi, ovviamente, all’aperta contestazione del principio costituzionale
del divieto di mandato imperativo dell’articolo 67. E forse, a sistema, accanto agli articoli 49 e 67 andrebbe
collocato anche l’articolo 54, nel punto in cui afferma il dovere, per i cittadini cui sono affidate funzioni
* Intervento alla Tavola rotonda “Gli statuti dei gruppi parlamentari alla prova dell’art. 67della Costituzione”, Roma, 16 maggio 2018.
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pubbliche, di adempierle con disciplina e onore, perché certamente i parlamentari, tutelati dall’articolo 67
(e da altre note disposizioni costituzionali), nel momento in cui esercitano le funzioni che la Costituzione
loro assegna sono tenuti anch’essi a un rispetto rigoroso dell’articolo 54 (una traccia è anche nell’articolo
2, comma 5, dello statuto del gruppo parlamentare del MoVimento 5 Stelle).
Il tema del nostro incontro non è solo italiano. Cesare Pinelli ricordava, non a caso, Gerhard Leibholz:
quest’ultimo, Ernst Forsthoff e Konrad Hesse sono stati in Germania tra i protagonisti di un dibattito
molto ricco riguardante i rapporti tra l’articolo 21 del Grundgesetz sui partiti politici e il successivo articolo
38 relativo al divieto del mandato imperativo.
Un dibattito, che accanto alla dottrina ha coinvolto anche la giurisprudenza del Tribunale costituzionale
federale, e che ha finito per mettere al centro quel profilo della democrazia interna dei partiti politici, di
cui i gruppi parlamentari sono tendenzialmente proiezione nelle aule parlamentari, su cui oggi ha insistito,
per esempio, particolarmente Roberta Calvano.
Dicevo che credo che non si possano tenere separati l’articolo 49 dall’articolo 67 del testo costituzionale,
sulla base di un intreccio molto stretto tra le due disposizioni, che mi porterà peraltro a sostenere
conclusioni in parte diverse, da quelle che ci ha fornito poco fa, su tutti, Gianmario Demuro.
La premessa è allora che in Italia non esiste ancora una buona legge sui partiti; neppure sono convinto
che quelli presenti nel panorama politico del nostro Paese siano davvero tutti partiti democratici, come
pure sosteneva qualcuno prima di me. Così, poiché non abbiamo una (buona) legge sui partiti, chiediamo
che siano le regole interne dei gruppi parlamentari, chiamate talora statuti, talora regolamenti, a
conformarsi e a rispondere a tutta una serie di principi e di valori “forti” del testo costituzionale. Ma c’è
un legame, non solo fattuale, tra partiti e gruppi parlamentari: la riforma che è stata approvata
recentemente da parte del Regolamento del Senato ne è un esempio, laddove ha escogitato come
soluzione per bloccare quel cambio continuo di “casacca” dei parlamentari, dall’uno all’altro gruppo
parlamentare, e soprattutto per impedire la costituzione di effimeri gruppi parlamentari, dai nomi più
fantasiosi, come ha scritto Salvatore Curreri, l’obbligo della necessaria corrispondenza tra i gruppi
parlamentari medesimi e quei partiti politici che si erano presentati nel momento della competizione
elettorale e che hanno ottenuto la rappresentanza in Parlamento.
Quella riforma, indubbiamente, dà più forza all’articolo 49 che all’articolo 67, quasi a indicare una spinta
verso una sorta di partitizzazione dei gruppi parlamentari medesimi. L’intensità di quel legame può
contribuire a ricostruire anche la struttura complessiva dei regolamenti e degli statuti dei diversi gruppi
parlamentari.
In tale contesto, è ovvio che una disposizione come quella dell’articolo 21, comma 5, dello statuto del
gruppo parlamentare del MoVimento 5 Stelle, alla Camera dei deputati, che impone una sanzione
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pecuniaria di 100 mila Euro, per i deputati che lasciano il gruppo, o sono espulsi dal gruppo o si dimettono
per un dissenso di natura politica, come è già stato ricordato, è nulla e inefficace al tempo stesso, per la
sua incompatibilità con fonti di grado superiore, a partire dalla Costituzione e dal regolamento della
Camera dei deputati. É anche una disposizione che esula da tutte quelle suggestioni comparatistiche che
talora ambiscono a vincolare il mandato, citandosi il caso portoghese, della Costituzione del 1976, e
ancora prima alcune risalenti esperienze, successive alla Prima Guerra Mondiale, a partire dalla legge
elettorale del 1920 di applicazione della Costituzione cecoslovacca che stabiliva la decadenza dal mandato
parlamentare dei deputati che durante la legislatura lasciassero il partito politico nelle cui fila erano stati
eletti, per poi citare analoghe disposizioni nella legge elettorale del Land tedesco del Württemberg del
1924 o del Land austriaco del Tirolo del 1933.
Del resto per il MoVimento 5 Stelle aver prefigurato una disposizione come quella, oggetto della nostra
discussione, non è del tutto storia nuova, perché esisteva già all'interno del codice di comportamento per
gli eletti al Parlamento europeo del 2014 una norma che, a garantire l’obbligo di dimissioni per il
parlamentare europeo condannato per un reato penale o ritenuto inadempiente al codice di
comportamento o all’impegno al rispetto delle sue regole, assunto presentando la candidatura nei
confronti degli iscritti al MoVimento 5 Stelle, imponeva il pagamento di una sanzione di 250 mila Euro
(150 mila Euro, nel codice di comportamento per le elezioni amministrative a Roma del 2016).
Tuttavia, al di fuori di un’ipotesi come questa, vorrei ribadirlo del tutto giuridicamente inefficace, e
guardando invece al sistema sanzionatorio complessivo, disegnato nell’articolo 21 dello statuto del
gruppo parlamentare del MoVimento 5 Stelle, ci si deve interrogare se esso non rappresenti forse,
attraverso l’estremo dettaglio delle cause di sanzione, un primo tentativo di assicurare una qualche
maggiore responsabilizzazione dei parlamentari.
Non si tratta, evidentemente, soltanto di colpire colui che rappresentasse in Parlamento la Nazione in
modo immeritevole, per il quale si potrebbe anche prefigurare una qualche forma di revoca dal mandato
parlamentare; ma piuttosto di costruire, nella cornice di un fascio di sanzioni potenzialmente irrogabili,
un meccanismo che, nel pieno rispetto della democrazia interna, assicuri poi una coerenza del
parlamentare, rispetto alla linea politica del gruppo parlamentare, decisa democraticamente.
Manifestazione del dissenso, quindi, ma anche una volta che il dissenso è stato liberamente espresso
individuazione di una formula che garantisca l’unitarietà della linea politica. Nel 1958, Konrad Hesse
addirittura sosteneva che, all’interno delle formazioni partitiche, la libertà di informazione è assoluta,
mentre la libertà di opinione deve essere garantita, soltanto sino a quando non sia stata adottata una
decisione in merito alla questione discussa.
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Ritengo allora che alcune delle cause che possono determinare l’irrogazione di sanzioni, dal richiamo, alla
sospensione temporanea, sino all’espulsione dal gruppo parlamentare, che si possono leggere proprio
nell’articolo 21 dello statuto del gruppo parlamentare del MoVimento 5 Stelle, possano offrire un primo
contributo sul tema, con una impostazione che non sembra affatto generica, come qualcuno pure oggi
ha sostenuto, anche perché non mi pare che ci sia nulla di particolarmente interessante o di maggiore
garanzia, per gli appartenenti al gruppo parlamentare, dentro agli statuti e ai regolamenti degli altri gruppi
parlamentari della presente legislatura, non tutti ancora pubblicati sui siti internet delle rispettive Camere,
dove ci si limita a colpire le assenze ingiustificate o reiterate, piuttosto che le violazioni, talora gravi, dello
statuto o del regolamento del gruppo parlamentare (spiccano, peraltro, nel regolamento del gruppo
parlamentare al Senato del Partito democratico il richiamo al rispetto del codice etico del partito e nel
regolamento, sempre al Senato, del gruppo parlamentare Lega-Salvini Premier la possibilità di adottare
sanzioni anche indipendentemente dalle gravi violazioni del regolamento o dalle reiterate assenze
ingiustificate).
Il tentativo, da parte dello statuto del gruppo parlamentare del MoVimento 5 Stelle, di predeterminare
un significativo elenco di cause, che possono portare all’adozione della sanzione, da parte del presidente
del gruppo medesimo, sentito il comitato direttivo, e che riguardano tutta una serie di comportamenti
che manifestano una difformità nei confronti di un responsabile esercizio della funzione parlamentare
(come le reiterate e ingiustificate assenze dai lavori della Camera o del gruppo o la slealtà e scorrettezza
nei confronti degli altri iscritti e eletti) o, soprattutto, che cercano di stringere le maglie dell’appartenenza
al gruppo e alla sua linea politica (come il mancato rispetto delle decisioni assunte dall’assemblea degli
iscritti con le votazioni in rete o l’adozione di comportamenti suscettibili di pregiudicare l’immagine o
l’azione politica del MoVimento 5 Stelle o di avvantaggiare altri partiti), non va accolto negativamente.
La stessa tripartizione dell’ultimo comma dell’articolo 25 dello statuto citato, che, disciplinando le
sanzioni più gravi, distingue tra espulsione, abbandono volontario o dimissioni determinate da dissenso
politico, oltre a evocare un fascio di distinzioni proprie del diritto comparato, se non si legasse
illegittimamente alla previsione della più volte ricordata sanzione pecuniaria, potrebbe rappresentare un
modo per orientare il comportamento del deputato, consapevole sino in fondo delle conseguenze dei
comportamenti che possono violare lo statuto del gruppo parlamentare o il codice etico del partito,
allegato al primo.
Che cosa posso ancora aggiungere, per avviarmi a concludere?
Vorrei ricordare che come ci ha insegnato molto bene Nicolò Zanon l’articolo 67 della Costituzione
certamente garantisce il diritto di esercitare liberamente il mandato parlamentare, ma allo stesso tempo
richiede anche il dovere di esercitare effettivamente quel mandato, in modo conforme alla pretesa della
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citata disposizione costituzionale. E’ anche per tale ragione che, all’inizio del mio intervento, ho citato
l’articolo 54 e il dovere di adempiere le funzioni parlamentari con disciplina e onore.
Rispetto alla “scaletta” della lettera di invito, devo allora provare a rispondere alla sollecitazione finale,
riguardante la possibilità di ammettere o meno una revisione costituzionale dell’articolo 67, secondo una
linea di pensiero su cui è già intervenuto prima di me Roberto Di Maria.
Forse si potrebbe immaginare, senza uno sconvolgimento del collegamento esistente tra l’articolo 67,
l’articolo 49 e l’articolo 1 della Costituzione, di innestare qualche ipotesi di revoca del mandato
parlamentare, ovviamente non da parte del partito politico di appartenenza, ma da parte del corpo
elettorale, all’interno del collegio o della circoscrizione che ha eletto il parlamentare. Sempre il
MoVimento 5 Stelle aveva ideato, per esempio, in occasione delle elezioni per il Parlamento europeo del
2014, la possibilità di prevedere un recall, da parte di un certo numero di iscritti alla formazione politica,
per il deputato europeo ritenuto gravemente inadempiente al codice di comportamento e all’impegno al
rispetto delle regole del codice, assunto accettando la candidatura per il MoVimento 5 Stelle. Soluzione
insoddisfacente, perché non è ovviamente accettabile la revoca di un deputato del Parlamento europeo,
se lo decidono poche centinaia di iscritti, utilizzando una piattaforma telematica, sulla cui gestione vi è
molta opacità, quando quei deputati sono stati eletti in circoscrizioni enormi, come sono le circoscrizioni
per l’elezione dei rappresentanti italiani al Parlamento europeo. Ma soluzione che, sul crinale dei problemi
che pone la revoca parlamentare, senza entrare necessariamente in contrapposizione con un assetto di
governo fondato sulla democrazia rappresentativa, potrebbe essere perseguita al fine di far valere
maggiormente, accanto alla libertà del mandato, anche la doverosità (e la responsabilità) del suo esercizio.
di Paola Marsocci
Professore associato di Diritto costituzionale Sapienza – Università di Roma
Lo status dei parlamentari osservato con la lente della disciplina interna dei gruppi. Gli argini (necessari) a difesa
dell’art. 67
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Lo status dei parlamentari osservato con la lente della disciplina interna dei gruppi.
Gli argini (necessari) a difesa dell’art. 67*
di Paola Marsocci Professore associato di Diritto costituzionale
Sapienza – Università di Roma
Condivido, di base, la forte preoccupazione per i molteplici segni dell’indebolimento (altrettanto forte)
della cultura costituzionale nel nostro Paese espressa sia nella lettera di invito a questa tavola rotonda
inviata dall’on. Riccardo Magi, sia negli interventi dei colleghi che abbiamo appena ascoltato.
E' noto che entrambi i Regolamenti parlamenti disciplinano la struttura dei Gruppi all'insegna di un
minimalismo che tradisce la prudenza nel non affrontare e magari contribuire a risolvere l’antica querelle
circa la loro natura giuridica1 (ancora oggi c’è in dottrina chi sostiene ognuna di queste tre diverse
soluzioni: natura privatistica, pubblicistica e mista).
In risposta al discredito generato dalla diffusione delle notizie sui fatti e sulle condotte, anche
penalalmente rilevanti, relative alla gestione finanziaria di alcuni Gruppi, con le riforme dei Regolamenti
delle Camere del 2012 e, di nuovo, del Senato del 20172 sembra che si sia scelta una soluzione di
“compromesso”.
Oggi tale prudenza degli estensori dei regolamenti parlamentari continua ad apparire almeno
comprensibile, tanto è complesso il sistema su cui retroagiscono le disposizioni che riguardano i Gruppi.
Innanzitutto la legge elettorale: quando il sistema era sostanzialmente maggioritario e favoriva la
bipolarizzazione degli schieramenti politici, si è, ad esempio, cercato di spingere l’interpretazione dell’art.
72 Cost. (principio di proporzionale rappresentanza in seno ai collegi parlamentari) nel senso di garantire
il necessario predominio numerico delle maggioranze3 nel controllo di ciascuna Commissione
parlamentare e, con esso, di offrire un aiuto alla stabilità del governo; oggi le cose sono molto cambiate.
* Intervento alla Tavola rotonda “Gli statuti dei gruppi parlamentari alla prova dell’art. 67della Costituzione”, Roma, 16 maggio 2018. 1 D. Piccione, I Gruppi parlamentari alla prova delle (auto)riforme regolamentari, in RivistaAIC, n. 2/2012; 3. 2 Sul punto, recentemente, N. Lupo, Funzioni, organizzazione e procedimenti parlamentari: quali spazi per una riforma (coordinata) dei regolamenti parlamentari?, in Federalismi.it, n. 1/2018, spec. 21 ss., che mette in evidenza le asimmetrie che il mancato coordinamento delle regole procedurali dei due rami del Parlamento produce proprio e soprattutto sulla disciplina dei Gruppi. 3 E. Catelani, Manutenzione dei regolamenti parlamentari come strumenti di inizio di una mediazione politica, in Costituzionalismo.it, n. 2/2017, 23 ss.
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Cosa accadrà vigente l’attuale sistema elettorale o anche con la sua possible ed ausicabile ulteriore
modifica? Quale tipo di corrispondenza tra gruppi e forze politiche che si sono presentate alle elezioni
sarà giudicata strategicamente più efficace?
Ai Gruppi parlamentari nessuno contesta ampia autonomia normativa e di organizzazione, politica e
amministrativa. Così come, tutti rilevano che (finalmente) oggi li si è fatti uscire dalla opacità che in parte
caratterizzava appunto il loro modello organizzativo. I Gruppi sono ora obbligati a portare alla luce
esistenza e contenuto dei rispettivi statuti (così li chiama la Camera) e regolamenti (così, invece, il Senato).
In un volume coordinato da Stefano Merlini nel 20044, avevo tentato un’analisi comparativa dei
regolamenti dei Gruppi (allora) presenti alla Camera dei Deputati e la prima evidenza scientifica fu il
carattere non pubblico di quegli atti.
Nessuna pubblicazione ufficiale imputabile al Parlamento ne conteneva traccia e solo in un caso (quello
dell’UdC) la diffusione era avvenuta direttamente, attraverso il sito internet del partito. A fronte di una
mia richiesta esplicita inviata agli uffici di ciascun Gruppo, ero riuscita ad ottenere alcuni regolamenti: in
pochi casi i Gruppi erano stati disposti a fornire i testi (Democratici di sinistra-l’Ulivo e Rifondazione
comunista); più spesso al documento (ufficialmente coperto da segreto) ero arrivata “per vie traverse”
(Alleanza nazionale e della Margherita) o non ero arrivata affatto, ricevendo un cortese ma fermo diniego
all’accesso (Lega Nord Padania), oppure risposte vaghe che non permisero neanche di avere prova
dell’esistenza del regolamento (come nel caso di Forza Italia che dichiarò di avere come diretto
riferimento il Regolamento della Camera).
Quella sorta di “semiclandestinità” oggi è vietata dall’ordinamento giuridico, mentre si conferma
l’estremo interesse per lo studio di un tema che, apparentemente minuto, continua a stimolare riflessioni
sulla forma di governo e non solo. E, se oggi discutiamo di come e quanto alcuni di quei testi forzino la
lettera e lo spirito della Costituzione, rendendo «trasparente l’illegalità» – come abbiamo sentito
commentare in un precedente intervento questa mattina –, dobbiamo farlo con la consapevolezza di
avere anche noi l’onere di portare alla luce queste contraddizioni.
Personalmente sono tra coloro che ritengono che i Gruppi parlamentari (analogamente ai partiti politici)
siano associazioni senza personalità giuridica, come indica chiaramente la loro struttura. Il fatto che gli
associati (ossia i Parlamentari) svolgano una funzione pubblica non implica la natura pubblica della loro
associazione. Anche se operano all’interno delle Camere, i GP poi non fanno parte di esse in virtù di un
rapporto di immedesimazione organica, perché non curano gli interessi dell’istituzione, ma curano i
propri (che possono essere anche in conflitto con quelli delle Assemblee); non possono cioè essere
4 P. Marsocci, La disciplina interna dei gruppi parlamentari, in S. Merlini (a cura di), Rappresentanza politica, gruppi parlamentari, partiti: il contesto italiano, vol. 2, Torino, Giappichelli, 143 ss.
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considerati organi delle Camere, se non con significato atecnico. Infine, la presenza dei controlli sull’uso
del finanziamento erogato dalle Camere non basta a farli considerare neanche enti pubblici.
In quanto associazioni, si applica il codice civile (artt. 36, 37 e 38). Il fatto che siano attori fondamentali
del diritto parlamentare e sottoposti ai Regolamenti parlamentari e soggetti agli organi chiamati ad
applicarli (in particolare l’Ufficio o il Consiglio di Presidenza), non ne muta la natura giuridica.
Premesso questo, vorrei fare alcune brevi considerazioni riguardo all’ultima delle sollecitazioni che ci ha
inviato l’on. Magi, commentando parti dell’attuale statuto del Gruppo del M5S alla luce delle norme
costituzionali che riguardano lo stutus di parlamentare. Nella sua lettera osservava che: «non solo il
Movimento 5 Stelle, ma anche Forza Italia, Lega Nord e Fratelli d’Italia hanno affermato in campagna
elettorale di voler modificare l’articolo 67 della Costituzione, e proposte di legge in tal senso sono già
state presentate in passato; la differenza, oggi, è che una tale riforma costituzionale potrebbe essere
approvata a maggioranza dei due terzi di ciascuna Camera. Il quesito che allora si pone è se l’art. 67 sia
revisionabile o se il divieto di mandato imperativo rientri fra i "principi fondamentali e diritti inviolabili"
che la Corte cost. pone come limite allo stesso processo di revisione costituzionale».
Con esplicito riferimento ai Gruppi parlamentari, la nostra Carta dispone il già ricordato principio di
proporzionale rappresentanza in seno ai collegi parlamentari, su cui improntare la formazione delle
Commissioni permanenti e delle Commissioni di inchiesta (artt. 72 e 82 Cost.). Rispetto ai principi
fondamentali contenuti nei primi 12 articoli della Carta, tale principio si connette a quello di sovranità
popolare, espresso nelle forme e nei limiti della rappresentanza politica in una democrazia pluralista (art.
1 Cost.).
La vita dei Gruppi è, inoltre, ovviamente “condizionata” da tutti i principi che riguardano lo status di
parlamentare, in quanto propria componente soggettiva. Devono essere tenuti in massima considerazione
i principi contenuti nelle disposizioni degli articoli 68 e 69 Cost. E’ appena il caso di ricordare che ciascun
parlamentare può esercitare la propria funzione solo se pienamente garantito nell’esercizio dei diritti di
libertà individuali (parola, critica, segretezza della comunicazione personale, riunione, associazione ecc.).
Solo un esempio: non si potrebbe a mio avviso eliminare la indennità parlamentare ...
Così pure, deve essere tenuto in massima considerazione appunto il divieto di mandato imperativo (art.
67 Cost.), che – anche nella ipotesi non sia considerato “principio fondamentale” –, non si può non
ritenere corollario ineludibile all’art. 1. Da questo discende il divieto, tra gli altri, di imporre alcun vincolo
in capo al singolo parlamentare, per effetto di determinazioni assunte dalla propria forza politica di
appartenenza (così insegnavano i nostri maestri, ricordo per tutti, Livio Paladin). In altri termini, in quanto
associazioni, i Gruppi come I partiti o le altre formazioni politiche possono decidere le regole che
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stabiliscono i motivi di allontanamento di un proprio associato ed applicarle (e l’associato, ovviamente,
potrà in caso adire il giudice civile), ma senza alcuna conseguenza giuridica sul suo status di eletto.
Ciascun componente delle Camere, in base alla pura disciplina costituzionale ossia in base a norme
direttamente applicabili e ovviamente prevalenti, è libero di richiedere l’adesione ad ogni Gruppo
parlamentare già costituito nella propria Assemblea, così è sempre libero di uscirne senza che ne
discendano obblighi inerenti la carica parlamentare (molti richiamano in contrapposizione l'esempio del
recall di matrice anglosassone) o oneri giuridicamente coercibili quali il versamento di contributi
economici, la restituzione di somme di denaro a qualunque titolo percepite.
Credo sia oltremodo necessario difendere l’art. 67.
Tuttavia, anche se il divieto di mandato imperativo è operante pienamente come limite al legislatore e
come motivo di nullità civilistica dei negozi tra privati (ad esempio nel caso della previsione di «dimissioni
in bianco» o appunto di sanzioni pecuninarie in caso di comportamento in dissenso dal proprio gruppo
o partito), pragmaticamente questi spostamenti hanno conseguenze sull’organizzazione degli organi
camerali (Commissioni permanenti; organismi bicamerali; Uffici di presidenza) e dunque chiamano in
causa problemi da osservare non muovendo dal solo articolo 67 Cost. In questo senso, paradossalmente
gli statuti dei gruppi (come quello del M5S) che legano a doppio filo liste elettorali, partiti e gruppi
concorrono a dare attuazione all’art. 72 Cost5.
A preoccupare molto, in realtà, è la “filosofia” sottesa all’intero statuto del Gruppo M5S. In quel testo si
afferma in sostanza la piena dipendenza del gruppo rispetto al partito, fino ad assimilare il primo al
secondo.
E’ la prova della intenzione politica di negare alla radice l’effettività del principio del libero mandato
parlamentare. Tendenza che, generalizzata, emerge anche a mio avviso dalla cronaca della formazione del
nuovo governo, laddove si è reso evidente quanto in particolare i Gruppi – che proprio in queste
circostanze hanno un loro specifico peso – siano rimasti sullo sfondo, in secondo piano.
Sicuramente questo quadro basta e avanza per far giudicare ogni modifica della seconda parte della Carta,
che vada in senso opposto o anche solo indebolisca quegli assunti, rientrante nei casi di superamento dei
limiti alla revisione costituzionale, in termini di "principi fondamentali e diritti inviolabili" (come ribadito
dalla Corte cost. nella sentenza 1146/88).
5 A questo proposito, resta complicato dire una parola definitiva sul ruolo dei Presidenti di Assemblea circa un eventuale “sindacato” sulla compatibilità tra disciplina interna dei gruppi e regolamenti parlamentari (e Carta costituzionale), anche tenuto conto della recente pronuncia della Corte (sentenza n. 262 del 2017) relativamente al procedimento legislativo, «le eventuali violazioni di mere norme regolamentari e della prassi parlamentare [...] debbono trovare all’interno delle stesse Camere gli strumenti intesi a garantire il corretto svolgimento dei lavori, nonché il rispetto del diritto parlamentare, dei diritti delle minoranze e dei singoli componenti».
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Invocare l’intervento della Corte come rimedio estremo è possible, ma molto più realisticamente occorre
ricordare che l’argine resta l’art. 138, ossia la procedura aggravata (se non la si travolge con deroghe ed
anomalie procedurali come è successo, in particolare, nell’ultima occasione), unita al vaglio delicato del
Presidente della Repubblica in sede di promulgazione, soprattutto laddove non fosse possible ricorrere
al referendum popolare oppositivo (e molto bene fa Riccardo Magi a ricordare che nell’attuale Parlamento
si potrebbero aggregare maggioranze tali da decidere da sole, superando I due terzi, la revisione
costituzionale).
Ci sarebbe poi un altro argine: quello della responsabilità politico-istituzionale (in termini che chiamerei
di etica democratica) dei partiti. Il passato recente e la strtta attualità hanno dimostrato quanto, riguardo
al sistema dei partiti nel suo complesso, nessuna speranza o conforto siano all’orizzonte, al momento!
A preoccupare sono il linguaggio e le azioni che oggi senza infingimenti portano troppe forze politiche a
sostenere, senza nessun timore di essere contrastate (almeno dialetticamente), una sorta di privatizzazione
delle dinamiche non solo politiche, ma costituzionali. Mi riferisco all’uso della espressione “contratto di
governo” ampiamente ripresa ed enfatizzata, ma anche alle cose di cui qui stiamo discutendo: l’uso della
regolamentazione interna di Gruppi e partiti a mo’ di negozio tra privati, con tanto, appunto, di clausole
vessatorie o ricorso a collegi arbitrali.
La battaglia riguarda, torno a dire, la riaffermazione della cultura del costituzionalismo democratico e va
proseguita, se mi è consentito, sul piano dello smascheramento delle incongruenze e contraddizioni tra
comportamenti politici (e di etica o pedagogia politica) e lettera e spirito della Costituzione. E quindi
battaglia rispetto alla quale ciascuna istituzione pubblica dovrebbe porsi in prima linea. E’ battaglia nostra,
come docenti e studiosi e lo è del sistema della informazione giornalistica, che – anche al tempo dei social
network – ha un suo ruolo (responsabilità) enorme in democrazia.
di Claudio Martinelli
Professore associato di Diritto pubblico comparato Università degli Studi di Milano Bicocca
Libero mandato e rappresentanza nazionale come fondamenti della
modernità costituzionale
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Libero mandato e rappresentanza nazionale come fondamenti della modernità costituzionale*
di Claudio Martinelli
Professore associato di Diritto pubblico comparato Università degli Studi di Milano Bicocca
Sommario: 1. L’articolo 67 della Costituzione come principio fondamentale del costituzionalismo. 2. Libero mandato e partiti politici 3. Natura giuridica di Statuti e Regolamenti dei Gruppi parlamentari. 4. Il contrasto con la Costituzione e con i Regolamenti parlamentari. 5. Il ruolo del Presidente della Camera e della Giunta per il Regolamento.
1. L’articolo 67 della Costituzione come principio fondamentale del costituzionalismo
Ringrazio gli organizzatori per l’invito a partecipare a questa preziosa occasione di confronto su un tema
di particolare rilievo giuridico e interesse politico. Credo sia un compito specifico degli studiosi di materie
costituzionalistiche riflettere sugli aspetti cruciali della vita istituzionale e contribuire a chiarirne gli
eventuali nodi, soprattutto quelli più intricati e controversi che impattano sul mondo politico.
E allora, mi permetto di invertire l’ordine di presentazione dei punti in questione impostato dall’On. Magi
per iniziare le mie riflessioni dal tema fondamentale, e cioè dal valore giuridico dell’articolo 67 della
Costituzione, dalla cui rilevanza farò discendere a cascata considerazioni più specifiche sui problemi di
diritto parlamentare proposti.
In quest’ottica, vorrei sottolineare subito e prima di qualunque altro concetto che il cuore delle questioni
che stiamo affrontando si colloca nella centralità del rapporto tra libero mandato parlamentare e
rappresentanza nazionale. Ovvero, credo importante ribadire con forza che i due istituti contemplati nella
norma costituzionale debbono essere letti in modo coordinato perché è proprio dalla loro relazione
biunivoca che si genera il carattere imprescindibile del principio costituzionale di cui stiamo trattando. Il
libero mandato, cioè, non deve essere visto solo come un diritto individuale di chi occupa uno scranno
parlamentare ma come la necessaria conseguenza di un cambio di paradigma: dalla rappresentanza cetuale
alla rappresentanza nazionale. Il rapporto tra libero mandato e rappresentanza nazionale è un
insostituibile spartiacque della modernità costituzionale e pertanto risulta evidente come l’eventuale
introduzione di limiti costituzionali all’esercizio del libero mandato parlamentare metterebbe in
discussione anche il principio della rappresentanza nazionale.
* Intervento alla Tavola rotonda “Gli statuti dei gruppi parlamentari alla prova dell’art. 67della Costituzione”, Roma, 16 maggio 2018.
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Siamo di fronte ad un principio cardine dell’ordinamento costituzionale, tale da collocarsi nel novero dei
“principi supremi dell’ordinamento costituzionale” di cui parla la Corte costituzionale, per esempio nella
celebre sentenza n. 1146 del 1988. Una centralità ordinamentale che porta a considerare come prive di
fondamento giuridico le ventilate proposte di ritorno a forme di mandato imperativo, sia immaginando
vincoli verso gli elettori, sia verso i partiti di appartenenza.
2. Libero mandato e partiti politici
Proposte che purtroppo hanno fatto il loro ingresso nei programmi elettorali di alcune forze politiche e
nel cosiddetto “Contratto per il governo del cambiamento” stipulato tra Lega e Movimento 5 Stelle. In
quest’ultimo caso appare del tutto improprio il riferimento ad ordinamenti stranieri che conterrebbero
soluzioni di questo tipo. In particolare, appare discutibile l’evocazione dell’esperienza portoghese con il
richiamo all’art. 160 della Costituzione, secondo cui, al 1° comma, il deputato perde il seggio se si iscrive
ad un partito diverso da quello per cui si era presentato alle elezioni. Infatti, la dottrina ha spiegato più
volte (da ultimo, A. Morelli, Sovranità popolare e rappresentanza politica tra dicotomia e dialettica, in Diritto
costituzionale. Rivista quadrimestrale, n. 1/2018, pp. 118-121) che per coglierne gli esatti contorni è necessario
valutare quella previsione nel complesso contesto costituzionale in cui si colloca e che una lettura
combinata di tutte le norme coinvolte nel tema, da una parte, segnala una specificità portoghese che
abbraccia anche altri istituti e, dall’altra, non configura affatto l’introduzione di limiti al vincolo di
mandato ma è invece figlia di una concezione diversa, rispetto al caso italiano, del ruolo costituzionale
dei partiti politici nella società e nelle istituzioni parlamentari.
Naturalmente, nelle riflessioni sull’attualità del libero mandato non possiamo trascurare il dato
storicamente inoppugnabile secondo cui il principio si andò affermando sul finire del Diciottesimo
secolo, ossia in una fase del costituzionalismo in cui non esistevano ancora i partiti come li avremmo
conosciuti solo nel Ventesimo, ovvero soggetti politici organizzati e protagonisti della vita istituzionale.
E non vi è dubbio che l’irrompere sulla scena dei partiti novecenteschi nel quadro dell’affermazione delle
democrazie di massa ha modificato alcuni paradigmi del rapporto tra elettore ed eletto.
Cionondimeno, tutte le Costituzioni contemporanee hanno conservato questo principio proprio perché
coessenziale alle dinamiche costituzionali e perché la sua negazione comporterebbe il ritorno a forme di
rappresentanza premoderna di matrice feudale. Fu proprio per uscire dai paradigmi di quel mondo che
nei dibattiti Settecenteschi, interni, da una parte, alla cultura britannica e, dall’altra, alla Rivoluzione
francese, prevalsero i fautori della nuova concezione. I concetti espressi dai grandi teorici della
rappresentanza nazionale, da perseguire attraverso il libero mandato parlamentare, come Edmund Burke
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ed Emmanuel Sieyès, hanno definito in quel trono di tempo i contorni della modernità costituzionale, di
cui ancora oggi ci gioviamo.
Ovviamente tutte queste considerazioni non impediscono agli ordinamenti di porre in essere norme di
natura regolamentare che mirino a razionalizzare il rapporto tra singolo parlamentare e Gruppo di
appartenenza, come per esempio ha appena fatto il Senato con la modifica approvata sul finire della
scorsa legislatura. Ma interventi riformatori che si spingessero oltre, per esempio prevedendo l’automatica
decadenza dalla carica per il parlamentare che decidesse di abbandonare il proprio Gruppo per insanabili
contrasti politici, risulterebbero in palese contrasto con la norma costituzionale.
3. Natura giuridica di Statuti e Regolamenti dei Gruppi parlamentari
Su questo composito e delicato quadro, fatto di grandi principi costituzionali che identificano la storia
del costituzionalismo, si inseriscono ora alcune peculiari norme contenute nello Statuto di un Gruppo
parlamentare, il più numeroso della XVIII legislatura repubblicana, che pongono il tema di un potenziale
contrasto con quel quadro di riferimento. Ma questo caso, che certamente presenta spunti di singolarità
che analizzeremo, non costituisce un evento assolutamente isolato, tale da indurre a ritenerlo una
trascurabile eccezione. In realtà, il tema della sostanziale corrispondenza tra norme dei regolamenti
parlamentari generali e norme statutarie si sono poste anche in passato, soprattutto in tema di limitazioni
dei diritti del singolo nella sua attività parlamentare, anche se in termini molto meno espliciti e clamorosi.
Dunque, appare doveroso proporre qualche considerazione sulla natura giuridica di questi atti. Ma
innanzitutto, qualche interrogativo. Infatti, sappiamo come in dottrina non vi sia identità di vedute sul
punto, in particolare sulla natura privatistica o pubblicistica di questi atti, denominati Statuti dal
Regolamento della Camera e Regolamenti da quello del Senato. Come rilevano Luigi Gianniti e Nicola
Lupo (L. Gianniti, N. Lupo, Corso di diritto parlamentare, il Mulino, Bologna, seconda edizione, 2013, p.
58), la «qualificazione di tali atti come fonti del diritto parlamentare appare tutt’altro che pacifica,
dipendendo strettamente dalla scelta di campo operata dai diversi autori circa la natura giuridica dei gruppi
parlamentari […]: se si propende per la lettura dei gruppi come associazioni tra privati o come organi dei
partiti politici, è ben difficile qualificare come fonti del diritto, anche in senso lato, i relativi regolamenti;
se invece si opta per considerare i gruppi come organi delle Camere, è arduo sostenere che le regole che
si danno, e che spesso limitano anche molto incisivamente i diritti attribuiti al singolo parlamentare dalla
Costituzione, dal regolamento parlamentare e dalla legge (si pensi alla limitazione del diritto di iniziativa
legislativa, di quello di presentare emendamenti, del diritto di prendere la parola, ma anche alla
decurtazione delle indennità), siano giuridicamente del tutto irrilevanti, almeno nell’ambito
dell’ordinamento delle due Camere».
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Preferisco evitare di entrare in questa diatriba con un ragionamento in astratto. Mi permetto, però, di
rilevare come uno dei principali elementi di discontinuità tra il costituzionalismo liberale e il
costituzionalismo democratico, nella storia costituzionale italiana ancor più che in quella di altri Paesi
europei, consiste proprio nel passaggio da un Parlamento di notabili ad un Parlamento di partiti e nella
conseguente trasformazione del diritto parlamentare da ordinamento a valenza esclusivamente interna a
parte integrante dell’ordinamento generale dello Stato. Una cesura che si riflette perfettamente nei lavori
di grandi Maestri del diritto costituzionale e parlamentare; tra gli altri, si pensi, da una parte, a Santi
Romano (p. es.: Sulla natura dei regolamenti delle Camere parlamentari, in Archivio giuridico, 1906, ora in S.
Romano, Scritti minori. I. Diritto costituzionale, Giuffrè, Milano 1950, pp. 213 e ss.) e, dall’altra, a Temistocle
Martines (Sulla natura giuridica dei regolamenti parlamentari, Tipografia del Libro, Pavia 1952). Trasformazioni
che hanno segnato passaggi epocali e che hanno portato la grande maggioranza della dottrina ad
annoverare i Regolamenti parlamentari tra le fonti generali del diritto.
In questo contesto concettuale e normativo ritengo che, soprattutto dopo la riforma del 1971 che ha
posto esplicitamente il soggetto “Gruppo parlamentare” al centro dell’attività delle due Camere, sia molto
difficile negare la dimensione pubblicistica delle norme che ne disciplinano le dinamiche interne,
trattandole ancora come una sorta di “disciplinare” da applicare ai soci di un club esclusivo.
4. Il contrasto con la Costituzione e con i Regolamenti parlamentari
Ma perfino prescindendo da questi approdi quanto alla natura giuridica, il fatto in sé che ai Gruppi siano
attribuite funzioni rilevantissime della vita parlamentare basta a escludere che questo soggetto possa
dotarsi di norme in contrasto sia con la Costituzione sia con i Regolamenti parlamentari, pena la
certificazione di un vulnus, in generale, alla coerenza dell’ordinamento e, in particolare, alla necessaria
armonia tra principi costituzionali e concreto espletamento delle funzioni parlamentari.
Nel caso in esame, la norma di cui maggiormente si discute (ossia, l’art. 21, c. 5 dello Statuto del Gruppo
M5S della Camera, che trova riscontro anche nell’analogo Regolamento del Gruppo del Senato) consiste
nella previsione della sanzione di un obbligo a pagare, a titolo di penale, 100.000 euro in caso di
abbandono o espulsione dal Gruppo. Si badi: pagare al Movimento 5 Stelle, cioè al partito politico,
nemmeno al Gruppo parlamentare. Una costatazione che esclude qualunque ipotetica argomentazione a
sostegno della norma che eventualmente si fondasse su un supposto risarcimento a favore del Gruppo
per la riduzione pro-quota dei finanziamenti al Gruppo stesso che, come sappiamo, sono parametrati alla
sua consistenza numerica.
Nella norma in oggetto il palese contrasto con l’articolo 67 della Costituzione si sostanzia
nell’introduzione di un condizionamento posto in essere sul libero dispiegarsi della volontà politica del
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singolo parlamentare nella conduzione della propria attività. E non basta evocare la plausibile contrarietà
di qualunque giudice di merito a rendere esigibile tale somma poiché gli effetti perniciosi di tale norma
rispetto ai dettami costituzionali si dispiegherebbero in modo strisciante e implicito; ovvero, se la norma
non arrivasse mai di fronte ad un tribunale non vorrebbe dire che non ha prodotto effetti, bensì, al
contrario, che il potenziale condizionamento sul singolo parlamentare è risultato efficace e dunque è stato
intaccato il corretto svolgimento della vita parlamentare nel suo complesso.
Per apprezzare fino in fondo quest’ultimo aspetto è importante tenere nel dovuto conto la collocazione
dell’articolo 67 nella Carta costituzionale, e cioè all’interno di un complesso di norme che delineano lo
status di parlamentare. Verifica dei poteri (art. 66), libero mandato (art. 67), immunità (art. 68) e indennità
(art. 69), sono tutte prerogative costituzionali che, al fine di assicurare poteri, competenze e garanzie
proprie della funzione, vengono poste dal Costituente a tutela dell’attività di ciascuna Camera, e quindi
del Parlamento nel suo insieme, e non istituiscono mere posizioni giuridiche soggettive a favore della
persona del parlamentare. Ovvero, il bene che si vuole perseguire è l’espletamento libero e autonomo
della funzione parlamentare, non le aspettative del singolo componente sganciate dalla funzione che è
chiamato a svolgere. Pertanto, sono in ultima analisi i meccanismi imprescindibili della democrazia che si
intende proteggere: un momento cruciale nella costruzione dell’architettura costituzionale.
E, appunto, proprio su questo decisivo profilo sembra intervenire la norma in discussione, con una
disposizione talmente abnorme da risultare in aperto contrasto con i fondamenti concettuali di
quell’architettura. Alla radice del suo tenore letterario sembra di scorgere un equivoco che sta prendendo
sempre più piede nel dibattito pubblico italiano e negli indirizzi di alcune forze politiche: la sostituzione
della dimensione costituzionale e pubblicistica delle dinamiche politiche con forme e stilemi propri dei
rapporti intercorrenti tra soggetti privati, da perseguire attraverso l’applicazione di istituti tipici del diritto
civile e del diritto penale. Una tendenza alquanto preoccupante che, ancora una volta, pone in questione
la modernità costituzionale, se si pensa che uno dei momenti cardine del passaggio dall’ordinamento
medievale allo Stato assoluto, poi ereditato e perfezionato dallo Stato liberal-democratico, consistette
proprio nell’affermazione della distinzione tra la dimensione pubblicistica della “cosa pubblica” e la
proprietà dei beni disponibili per i privati. Introdurre elementi di confusione in tal senso credo che non
sia opportuno e non aiuti a perseguire miglioramenti nella vita politica del Paese.
5. Il ruolo del Presidente della Camera e della Giunta per il Regolamento
Il Presidente della Camera On. Roberto Fico ha certamente ragione quando fa notare come non esista
una norma specifica del Regolamento che conferisca al Presidente poteri di controllo o sanzionatori in
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relazione all’approvazione e al deposito degli Statuti dei Gruppi, disposti dall’art. 15 del Regolamento
stesso.
Ma questa lacuna di per sé non dimostra l’esistenza di un principio di insindacabilità assoluta delle
normative dei Gruppi derivante da una loro supposta totale autonomia, come invece sembrerebbe di
poter ricavare dal tenore della risposta del Presidente Fico ai deputati Magi e Ceccanti. Da questo punto
di vista, mi pare che anche il richiamo all’unico precedente del 2013 appaia molto debole e non in grado
di fondare una linea interpretativa consolidata e irreversibile, poiché i contorni di quella vicenda erano
più sfumati e non toccavano direttamente valori costituzionali così irrinunciabili come quelli che invece
presenta il caso attualmente in questione. E si tenga presente che l’assenza di una norma di questo tipo
non può stupire più di tanto se si considera che fino a qualche tempo fa era difficile immaginare che
potessero essere introdotte negli Statuti, pur, come detto, non sempre esenti da disposizioni
giuridicamente discutibili, norme in così palese contrasto con la tradizione parlamentaristica come quella
di cui ci stiamo occupando.
Inoltre, non si deve trascurare l’effetto positivo determinato dalla recente introduzione dell’obbligo di
pubblicazione di questi atti sul sito web della Camera, mentre prima gli stessi erano avvolti da un alone
di riservatezza che non giovava alla trasparenza delle procedure democratiche.
Tutte queste innovazioni, ordinamentali e di contesto, hanno mutato alcuni parametri tradizionali,
rendendo più stringente la necessità di una piena corrispondenza degli Statuti ai principi costituzionali,
legislativi e regolamentari.
Del resto, è la realtà che determina la necessità di interventi giuridici ed è importante sottolineare come
il diritto parlamentare abbia sempre avuto una natura flessibile in grado di adattarsi alle mutate condizioni.
Ebbene, tenuto conto di tutte queste considerazioni e necessità, e premesso che la strada maestra per
intervenire su questi problemi consisterebbe in una modifica regolamentare che introducesse una norma
ad hoc (strada lunga e difficile che suggerirei pertanto di intraprendere subito), non vi è però nulla, a mio
parere, che precluda la possibilità di individuare, attraverso un’interpretazione dell’ordinamento
parlamentare vigente, forme di controllo ed eventualmente di sanzione da parte degli organi competenti,
come, per esempio, il diniego di deposito dello Statuto o perlomeno l’obbligo di stralcio di quelle norme
che sostanzino palesi violazioni di principi costituzionali o che si pongano in aperto contrasto con
disposizioni del Regolamento della Camera.
L’art. 15, c. 2-bis, introdotto nel Regolamento della Camera nel 2012, non esclude affatto un ruolo del
Presidente della Camera in relazione queste procedure. Anzi, la norma dispone che lo Statuto, approvato
dal Gruppo, sia prontamente trasmesso al Presidente, mentre il successivo comma 2-ter dispone che sia
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reso pubblico. La lettura di queste due norme postula un coinvolgimento del Presidente che si sostanzia
in una funzione di primo controllo del contenuto dell’atto, prodromico alla sua pubblicazione.
In questo contesto funzionale, nel caso in cui il Presidente ritenga di riscontrare gravi anomalie, come
quella oggetto della nostra discussione, mi pare che una lettura combinata degli articoli 8 e 16 del
Regolamento della Camera non ponga ostacoli al fatto che, grazie ad una interpretazione estensiva dell’art.
16, c. 2, possa essere investita del problema la Giunta per il Regolamento, appunto su impulso del suo
Presidente (ovvero il Presidente della Camera); per concludere poi con una eventuale deliberazione
dell’Ufficio di Presidenza.
La funzione di interpretazione del Regolamento dovrebbe infatti abbracciare concettualmente la sua
custodia; ovvero, la custodia del principio per cui tutte le norme che, a diverso titolo, concorrono a
disciplinare la vita parlamentare siano compatibili con i principi cardine del costituzionalismo, con le
norme costituzionali e con le disposizioni regolamentari.
di Cesare Pinelli
Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico Sapienza – Università di Roma
Libertà di mandato dei parlamentari e rimedi contro il transfughismo
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Libertà di mandato dei parlamentari e rimedi contro il transfughismo*
di Cesare Pinelli
Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico Sapienza – Università di Roma
I regolamenti dei gruppi parlamentari del Movimento 5 Stelle prevedono che il membro della Camera o
del Senato che abbandona il gruppo “a causa di espulsione, ovvero abbandono volontario, ovvero
dimissioni determinate da dissenso politico sarà obbligato a pagare, a titolo di penale, al MoVimento 5
Stelle entro dieci giorni dalla data di accadimento di uno dei fatti sopra indicati, la somma di euro
100.000,00”. E’ evidente il contrasto con l’art. 67 della nostra Costituzione, secondo il quale “Ogni
membro del Parlamento rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”.
Da oltre due secoli il libero mandato parlamentare è l’espressione per eccellenza della rappresentanza
politica, proprio perché consente in principio al parlamentare di non dover sottostare a istruzioni, ordini
o sanzioni nell’esercizio delle sue funzioni. Quando, circa un secolo fa, si formarono partiti politici di
massa e si affermò il suffragio universale maschile, il divieto di mandato imperativo apparve un relitto del
passato a grandi giuristi quali Hans Kelsen e Gerhard Leibholz. Eppure, dopo i totalitarismi, l’istituto
venne nuovamente riconosciuto in tutte le Costituzioni democratiche, mentre lo Stato dei partiti era al
suo apice, e ha continuato ad esserlo fino ad oggi in tutto il mondo. Come si spiega la sua vitalità? Il fatto
è che la democrazia deve poter funzionare anzitutto in parlamento. Se gli elettori potessero revocare i
parlamentari in corso di mandato, la composizione politica dell’assemblea parlamentare sarebbe
costantemente soggetta a variazioni durante la legislatura, col risultato che i parlamentari subentranti
potrebbero sempre ridiscutere le decisioni adottate dai predecenti titolari del medesimo seggio in ordine
alla programmazione dell’attività parlamentare, e quindi mettere a repentaglio lo svolgimento delle
funzioni costituzionalmente riservate all’assemblea. Lo stesso concetto di legislatura perderebbe allora
significato.
Se invece fossero i partiti a poter revocare i parlamentari, a perdere di significato sarebbe il concetto di
elezione. Infatti Kelsen si chiedeva: “perché costringere i partiti politici a mandare in Parlamento un certo
numero permanente di deputati – singolarmente determinati – in rapporto alla consistenza del relativo
partito, i quali – sempre i medesimi – si trovano a dover cooperare in merito alle questioni anche più
* Intervento alla Tavola rotonda “Gli statuti dei gruppi parlamentari alla prova dell’art. 67della Costituzione”, Roma, 16 maggio 2018.
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diverse? Non sarebbe meglio permettere ai partiti di delegarvi, secondo la natura delle leggi da discutere
e da votare, gli esperti di cui dispongono, avendo questi una parte nella decisione finale corrispondente
alla consistenza del partito rappresentato? Una riforma di tal genere risponderebbe all’accusa che assai di
frequente, oggigiorno, si sente fare al Parlamento di essere estraneo al popolo”.
Ma il mantenimento del divieto di mandato imperativo nelle democrazie costituzionali ha svolto un’altra
funzione. Quella di lasciare una certa autonomia ai parlamentari nei confronti dei partiti nelle cui liste
sono stati eletti. E’ vero che in qualsiasi democrazia i partiti controllano la conformità degli eletti alla
linea del partito attraverso i corrispondenti gruppi parlamentari, costituiti dagli eletti all’inizio di ciascuna
legislatura dei parlamentari eletti in tali liste (c.d. disciplina di partito). Tuttavia si tratta di un controllo
di fatto, che non obbliga giuridicamente il parlamentare a uniformarvisi, assistita da una sanzione
anch’essa di fatto come la molto probabile mancata presentazione del parlamentare dissenziente nella
lista dello stesso partito nella successiva tornata elettorale. Ancora, le dimissioni presentate da un
parlamentare, che soggiacciono alla regola dell’accettazione dell’assemblea di appartenenza, vengono
respinte nella prassi ove siano motivate da dissensi col partito nelle cui liste sia stato eletto. Così come si
ritengono nulle eventuali lettere di dimissioni con data lasciata in bianco, che i parlamentari abbiano
firmato a garanzia della disciplina di partito.
Ecco perché, fin dalla sentenza n. 14 del 1964, la Corte costituzionale ha affermato che il divieto di
mandato imperativo “è rivolto ad assicurare la libertà dei membri del Parlamento”, e “importa che il
parlamentare è libero di votare secondo gli indirizzi del suo partito ma é anche libero di sottrarsene;
nessuna norma potrebbe legittimamente disporre che derivino conseguenze a carico del parlamentare per
il fatto che egli abbia votato contro le direttive del partito”.
Anche secondo l’orientamento prevalente in sede scientifica, l’istituto del divieto del mandato imperativo
si configura oggi soprattutto quale limite a un’interpretazione dell’art. 49 Cost. che legittimasse un potere
assoluto dei partiti sugli eletti nelle proprie liste: i regolamenti dei gruppi parlamentari, infatti, possono
prevedere l’espulsione dal gruppo del parlamentare dissenziente, ma non dal Parlamento.
Si dirà che un assetto del genere riflette l’epoca in cui i partiti esprimevano concezioni e valori politici
ben definiti ed erano fortemente strutturati al loro interno: in effetti, essi hanno perduto da tempo tali
caratteristiche, con un conseguente aumento di parlamentari che transitano da un gruppo all’altro nel
corso della legislatura o ne costituiscono di nuovi e il ritorno a un trasformismo risalente al Parlamento
del Regno d’Italia, che svilisce la figura del parlamentare e danneggia il rendimento democratico delle
istituzioni rappresentative. Sono perciò venute meno le ragioni del divieto di mandato imperativo? O non
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sono piuttosto ipotizzabili rimedi interni all’ordinamento parlamentare volti a disincentivare il
trasformismo?
Al primo interrogativo non può non rispondersi negativamente, dal momento che le prestazioni
dell’istituto non si esauriscono come si è visto nel limitare la disciplina di partito, investendo tanto il
rapporto fra elettori ed eletti quanto la funzionalità interna delle camere. Sono invece possibili rimedi al
trasformismo che mantengano il divieto di mandato imperativo.
Occorre considerare che un potente incentivo al trasformismo è costituito dalla regola della necessaria
appartenenza del parlamentare a un gruppo, risalente a una modifica del regolamento della Camera del
1920 onde assicurare una proiezione in parlamento della forza e dell’organizzazione dei partiti di massa
allora in ascesa. La regola, che non si può ritenere costituzionalmente obbligatoria né trova riscontro
nella gran parte degli ordinamenti democratici, si è prestata a un uso sempre più distorto, dal momento
che consente al parlamentare, non solo in caso di dissenso dal gruppo originario ma soprattutto quando
ritenga di poter ottenere ricompense dalla sua mutata collocazione politica, di trasferirsi ad altro gruppo,
o di formarne con altri uno nuovo che raggiunga il tetto minimo previsto dai regolamenti parlamentari,
senza subire alcuna conseguenza negativa. La stessa strutturazione del gruppo misto risente della regola
ora detta. Vi confluiscono infatti i parlamentari che non abbiano dichiarato di voler appartenere a un
gruppo, oltre a quelli che si riconoscano in forze politiche che non abbiano raggiunto il requisito minimo
di consistenza numerica di un gruppo (che alla Camera è fissato in venti membri e al Senato in dieci
membri). Tuttavia, laddove si tratti di un partito organizzato nel Paese che abbia ottenuto un certo
numero di eletti, l’Ufficio di presidenza della Camera può autorizzare la costituzione in gruppo di un
numero di parlamentari inferiore al requisito minimo: ciò incoraggia ulteriormente il trasformismo. L’art.
14 Reg. Senato, nel testo approvato il 20 dicembre 2017, disincentiva invece il fenomeno, sia col vietare
la formazione di gruppi in corso di legislatura, sia col subordinare la costituzione di “gruppi autonomi”
alla condizione che corrispondano a partiti o a movimenti presentatisi alle elezioni uniti o collegati.
La tendenza al trasformismo verrebbe ulteriormente scoraggiata se, in luogo della regola della necessaria
appartenenza di ogni parlamentare a un gruppo, al parlamentare non aderente a un gruppo venisse
riservato, come stabilisce il regolamento del Bundestag (la camera rappresentativa nella Repubblica
federale tedesca), un trattamento deteriore rispetto a quello che a un gruppo aderisca, sia per le funzioni
assegnate ai soli gruppi relativamente ai lavori parlamentari, sia per l’accesso ai finanziamenti. Oppure si
può guardare all’ordinamento spagnolo, che è un interessante teatro di sperimentazioni volte a
combattere il “transfuguismo” senza toccare il divieto costituzionale di mandato imperativo.
E’ sicuramente possibile, anche alla luce di altre esperienze europee, contrastare i frequenti e deprecabili
fenomeni di trasformismo senza toccare il libero mandato parlamentare. Ma questa attitudine costruttiva,
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che porterebbe a salvare il bambino gettando l’acqua sporca, non interessa minimamente al Movimento
5 Stelle, che dopo aver previsto la sanzione dei 100.000 euro a carico dei parlamentari dissenzienti nei
regolamenti interni dei gruppi, ha proposto, nel “Contratto per il governo del cambiamento” stipulato
con la Lega, di “introdurre forme di vincolo di mandato per i parlamentari, per contrastare il sempre
crescente fenomeno del trasformismo”. Se è vero che questo fenomeno si può contrastare in altri modi
e con efficacia non minore, si capisce che l’obiettivo è proprio quello di gettare il bambino, ossia di ridurre
i parlamentari, non meno dei ministri, a esecutori di ordini impartiti da una società privata. Qualcuno ha
spiegato loro che, fino a quanto resterà in vigore l’art. 67, questo obiettivo non sarà raggiungibile. E
proprio per ciò ne propongono l’abrogazione.
La proposta si presenta come misura “anti-casta”, e ha perciò dalla sua il vento favorevole di un’opinione
pubblica che si vuole mantenere in uno stato di continuo risentimento verso chi “ha il potere e i privilegi”.
Ma il discorso va ribaltato. Proprio eliminando il libero mandato parlamentare, infatti, verrebbe fuori una
casta ristretta e potente, che giocando coi privilegi, questa volta privatistici, farebbe della nostra
Repubblica un Frankestein che uscirebbe fuori dai radar del mondo.
di Salvatore Prisco
Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico Università degli Studi di Napoli Federico II
Elogio della mediazione. Statuti dei gruppi parlamentari e libertà di mandato politico nelle democrazie
rappresentative. Brevi annotazioni
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Elogio della mediazione. Statuti dei gruppi parlamentari e libertà di mandato
politico nelle democrazie rappresentative. Brevi annotazioni*
di Salvatore Prisco
Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico Università degli Studi di Napoli Federico II
«Notre vie est un voyage dans l'hiver et dans la nuit.
Nous cherchons notre passage dans le ciel où rien ne luit».
(Canzone delle Guardie svizzere, 1793, esergo di Louis Ferdinand Céline, Voyage au bout de la nuit)
«Sentinella, quanto resta della notte?»
(Isaia, 21, 11)
«Adda passa’ ‘a nuttata»
(Eduardo De Fiilippo, Napoli milionaria)
Sommario: 1. L’occasione del lavoro e i precedenti immediati del caso. – 2. I quesiti posti per il seminario. – 3. I termini “classici” del problema nel suo sviluppo storico. 4. La situazione odierna: il mandato politico tra crisi della rappresentanza, “trasfughiamo” nei gruppi parlamentari, istanze di “democrazia immediata”. – 5. Un cenno conclusivo all’attualità costituzionale italiana: una forma di governo in trasformazione?
1. L’occasione del lavoro e i precedenti immediati del caso
L’onorevole Riccardo Magi, segretario dei Radicali italiani e deputato al Parlamento per la XVIII
Legislatura, eletto nella lista +Europa, ha indetto per il giorno 16 maggio 2018 alla Camera dei Deputati
una tavola rotonda tra costituzionalisti sul tema Gli statuti dei gruppi parlamentari alla luce dell’art. 67 della
Costituzione.
* Intervento alla Tavola rotonda “Gli statuti dei gruppi parlamentari alla prova dell’art. 67della Costituzione”, Roma, 16 maggio 2018. L’Autore ringrazia l’on. Riccardo Magi per averlo inviato a questo interessante incontro di studio. Il paragrafo conclusivo tiene presenti – come si vede – eventi anche successivi al suo svolgimento, fino alla formazione e al giuramento del Governo Conte e in esso è stato utilizzato con piccole modificazioni formali un testo dell’autore apparso nel blog FB Lab di FB& Associati, Advocay and Lobbing, 31 maggio 2018.
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L’iniziativa era nata a seguito di una lettera indirizzata il 9 aprile dallo stesso al Presidente della Camera,
onorevole Roberto Fico, il cui oggetto era l’invito a verificare se lo statuto del gruppo della Camera del
Movimento Cinque Stelle – cioè dello stesso entro le cui fila era stato eletto – integri o meno una violazione
della Carta Costituzionale, nella parte in cui prevede (art. 21, comma 5) che «Il deputato che abbandona il
gruppo parlamentare a causa di espulsione ovvero abbandono volontario ovvero dimissioni determinate da dissenso politico
sarà obbligato a pagare, a titolo di penale, al MoVimento Cinque Stelle, entro dieci giorni dalla data di accadimento di
uno dei fatti sopra indicati, la somma di Euro 100.000, 00».
Detta disposizione riproduce l’art. 5 del Codice etico del movimento, a tenore del quale, tra l’altro,
«Ciascun parlamentare italiano, europeo e Consigliere Regionale eletto all’esito di una competizione elettorale nella quale si
sia presentato sotto il simbolo del MoVimento 5 Stelle si obbliga … ad erogare un contributo economico destinato al
mantenimento delle piattaforme tecnologiche che supportano l’attività dei gruppi e dei singoli parlamentari e consiglieri e del
finanziamento del cd. ‘Scudo della Rete’ (ovvero il fondo per gli oneri necessari per la tutela legale) da determinarsi con
Regolamento del Comitato di Garanzia emanato ai sensi dell’art. 9 comma b) dello Statuto, prima di ciascuna consultazione
elettorale (comma 3°); Ciascun parlamentare italiano, europeo e Consigliere Regionale eletto all’esito di una competizione
elettorale nella quale si sia presentato sotto il simbolo del MoVimento 5 Stelle si obbliga a rinunciare ad ogni trattamento
pensionistico privilegiato e all’assegno di fine mandato, a doppie indennità e a doppi rimborsi (Comma 4°); In
considerazione del fatto che, ad eccezione del contributo di cui al terzo comma del presente articolo, gli oneri per l’attività
politica e le campagne elettorali sono integralmente a carico del MoVimento 5 Stelle ciascun parlamentare, in caso di
espulsione dal gruppo parlamentare del MoVimento 5 Stelle e/o dal MoVimento 5 Stelle, abbandono del gruppo
parlamentare del MoVimento 5 Stelle e/o iscrizione ad altro gruppo parlamentare, dimissioni anticipate dalla carica non
determinate da gravi ragioni personali e/o di salute, ma da motivi di dissenso politico, sarà obbligato a pagare al MoVimento
5 Stelle, entro dieci giorni dalla data di accadimento di uno degli eventi sopra indicati, a titolo di penale, la somma di €
100.000,00 quale indennizzo per gli oneri sopra indicati per l’elezione del parlamentare stesso» (comma 5°)».
Per completezza di informazione, va qui ricordata anche la vicenda giudiziaria che aveva opposto in
precedenza a questo movimento politico l’avvocato Venerando Morello, il quale aveva chiesto, con un
ricorso ex art. 702 c. p. c., che venisse dichiarata ineleggibile a sindaco di Roma l’avvocato Virginia Raggi,
per avere (come del resto i candidati della lista al consiglio comunale a lei collegata) sottoscritto con la
società Casaleggio e Associati, in vista delle elezioni amministrative della capitale in cui era appunto
candidata alla carica, alla quale era riuscita effettivamente eletta nel turno di ballottaggio, uno stringente
“contratto”, che ne vincolava pesantemente anche l’esercizio delle prerogative istituzionali. In esso era
previsto inoltre un risarcimento per danni di immagine, preventivamente e forfettariamente quantificato
in almeno 150. 000 Euro, se ella fosse fuoriuscita anzitempo dalla predetta formazione politica di
riiferimento.
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Il testo del ricorso era stato integralmente pubblicato come inserto del quotidiano Il Foglio del 4 gennaio
2017, mentre quello del’atto denominato Regolamento e codice di comportamento dei candidati ed eletti del
MoVimento Cinque Stelle alle elezioni amministrative di Roma capitale del 2016 (che appare alla lettura avere i
caratteri di un contratto per adesione, unilateralmente predisposto), come ogni altro atto interno del
movimento è rinvenibile online sul cosiddetto Blog delle Stelle e venne pubblicato in copia fotostatica, con
firme autografe ai margini dei sottoscrittori, dal sito online del quotidiano La Repubblica.
La clausola specifica dello stesso da richiamare al riguardo (punto 9) recita – con disposizione dal
contenuto in sostanza omogeneo con quelle sopra riportate, trattandosi sempre di vincoli derivanti dal
codice etico del movimento – «Ciascun candidato si dichiara consapevole che la violazione di detti principi comporta
l’impegno etico alle dimissioni dell’eletto dalla carica ricoperta e/o il ritiro dell’uso del simbolo e l’espulsione dal M5S e che
pertanto a seguito di una eventuale violazione di quanto contenuto nel presente Codice, il M5S subirà un grave danno alla
propria immagine che in relazione all’importanza della competizione elettorale, si quantifica in almeno Euro 150.000»,
onde egli (punto 10) «si impegna pertanto al versamento del predetto importo, non appena gli sia notificata formale
contestazione a cura dello staff coordinato da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio».
Il Tribunale di Roma, I sezione civile, aveva nella specie rigettato il ricorso per motivi di rito, senza
pronunciarsi sulla validità del “contratto”, del quale – in alternativa alla domanda di dichiarare ineleggibile
la prima cittadina – era stata richiesta nel ricorso la declaratoria di nullità per contrarietà a norme
imperative, ossia fondamentalmente per contrasto – anche in questo caso – con l’art. 67 della
Costituzione sulla libertà, in linea di principio, dei mandati elettivi politici e amministrativi.
Tornando alla vicenda oggi in esame, il mittente domandava di conoscere «quali iniziative intenda
adottare» il destinatario della missiva «perché i principi costituzionali vigenti vengano rispettati in primis
nell’istituzione che ha l’onore di presiedere, cuore della nostra democrazia».
Una lettera di tenore analogo, in ordine a tale rilievo, ma che muoveva anche altre censure al regolamento
del medesimo gruppo, con riferimento tanto a norme costituzionali, quanto ad altre del Regolamento
della Camera, era stata indirizzata al Presidente, appena due giorni dopo la prima, anche dall’onorevole
Stefano Ceccanti, già senatore e oggi deputato del Partito Democratico, autorevole costituzional-
comparatista.
Il Presidente della Camera rispondeva agli interlocutori che avevano sollevato le questioni con lo stesso
mezzo da loro scelto, vale a dire attraverso una sua lettera del 17 aprile, negando che l’art. 8 del
Regolamento della Camera assegni al Presidente dell’Assemblea – come invece ritenuto in particolare
dall’onorevole Ceccanti – il potere di sindacare la conformità degli statuti che i gruppi sono tenuti ad
approvare entro trenta giorni dalla loro costituzione e a depositare nei successivi cinque presso il predetto
ufficio, a seguito di una riforma di tale fonte normativa intervenuta nel 2012 ed improntata a garantire la
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trasparenza sulle attività dell’organo costituzionale complesso e delle sue articolazioni interne (tant’è che
anche dei regolamenti dei gruppi va disposta la pubblicazione sul sito internet della Camera dei Deputati)
e questo per il dichiarato motivo della necessità di tutelare l’autonomia politica e organizzativa dei gruppi
parlamentari. Aveva all’uopo richiamato una deliberazione conforme dell’ufficio di Presidenza della
precedente legislatura, resa in data 26 giugno 2017.
2. I quesiti posti per il seminario.
In vista della discussione di cui si è detto, ai professori del settore che –- appositamente invitati ad essa
con un’e-mail circolare – avevano assicurato la loro presenza al seminario è pervenuta un’ulteriore
comunicazione del promotore del dibattito, che invitava a concentrarsi possibilmente, ai fini della
discussione, su alcuni interrogativi, il cui testo viene di seguito riprodotto.
«1. In primis, si pone il problema della stesura e della potenziale applicazione di disposizioni di Statuti dei
gruppi – regole di diritto privato – in palese contrasto con la Costituzione e con il Regolamento. Cosa
succederebbe se le norme statutarie di un Gruppo vietassero alle deputate che vi appartengono di
prendere la parola in Aula o di presentare proposte di legge?
2. Possiamo dire che la sola circostanza che uno o più parlamentari iscritti al gruppo Movimento Cinque
Stelle esercitino il loro mandato con il timore d’esser sanzionati economicamente in ragione delle proprie
condotte e scelte in Parlamento costituisce un vincolo di mandato e impone all’istituzione parlamentare
di intervenire scongiurando questa ipotesi ab origine? Se sì, come? Dal momento che la norma è conosciuta
formalmente dalle Camere perché contenuta in statuti il cui deposito è obbligatorio, possiamo dire che
non è il difetto di una norma specifica che impedisce al Presidente di manifestare formalmente ai colleghi
parlamentari l’inconsistenza, nullità e illiceità di una previsione regolamentare (ad oggi sottoscritta dallo
stesso Presidente Fico), ad esempio con una circolare inviata a tutti i deputati?
3. Può il Capo dello Stato nominare Ministro un parlamentare del Movimento Cinque Stelle vincolato
da un “contratto privato” in contrasto non solo con l’art. 67 della Costituzione, ma anche con il
giuramento prestato di fronte allo stesso Presidente della Repubblica di esercitare le proprie funzioni
nell'interesse esclusivo della Nazione, oltre che con la con legge 400/1988 in ordine all’autonoma
collegialità del Consiglio dei Ministri e al suo compito di risoluzione dei conflitti tra Ministri? Come
opererebbe questo condizionamento nell’esercizio della funzione di controllo da parte dei parlamentari
nei confronti dei ministri del loro partito? Può tale problema essere evidenziato direttamente
all’attenzione del Presidente della Repubblica, nella sua qualità di garante della Costituzione?
4. Questione della “giustiziabilità” della violazione dell’art. 67 della Costituzione in esame. Come un
tentativo di applicazione dell’istituto della clausola penale prevista dalla disposizione statutaria in esame
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potrebbe giungere all’esame della Corte costituzionale? Attraverso la via del conflitto di attribuzione tra
poteri dello Stato (Deputato “sanzionato” versus gruppo parlamentare di appartenenza oppure Autorità
giudiziaria versus Camera dei Deputati che pretende di agire in autodichia sull’applicazione della previsione
statutaria)? Attraverso un giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale?
5. È chiaro come una modifica del Regolamento che attribuisca al Presidente poteri di controllo sugli
Statuti dei Gruppi sia la strada più lunga e dall’esito più incerto - soprattutto in questa legislatura - ma
anche l’unica che in futuro potrebbe evitare il ripetersi di casi come quello di cui si discute oggi; per
questo annuncio fin da ora la mia intenzione di presentare una proposta di modifica in tal senso. Chiedo
allora a chi interverrà oggi di ipotizzare i passaggi di tale procedimento di verifica degli Statuti, l’organo
o gli organi che ne dovrebbero essere incaricati, i parametri di riferimento e le conseguenze in caso di
mancato rispetto degli stessi.
6. Infine: non solo il Movimento Cinque Stelle, ma anche Forza Italia, Lega Nord e Fratelli d’Italia hanno
affermato in campagna elettorale di voler modificare l’articolo 67 della Costituzione, e proposte di legge
in tal senso sono già state presentate in passato; la differenza, oggi, è che una tale riforma
costituzionale potrebbe essere approvata a maggioranza dei due terzi di ciascuna Camera. Il quesito che
allora si pone è se l’art. 67 sia revisionabile o se il divieto di mandato imperativo rientri fra i “princìpi
fondamentali e diritti inviolabili” che la Corte costituzionale pone come limite allo stesso processo di
revisione costituzionale».
3. I termini “classici” del problema nel suo sviluppo storico
L’ordine in cui rispondere ai quesiti posti deve essere ribaltato, in ragione della loro concatenazione logica;
non è infatti chi non veda come il più radicale – è il caso di dire – e decisivo sia l’ultimo.
Se infatti si ritenesse che rientri tra i princìpi caratterizzanti della forma di governo e tra i diritti
fondamentali del singolo parlamentare la libertà di esercizio del mandato politico, da svolgere in nome
della Nazione e non già dello stretto interesse del partito che ne aveva assicurato l’elezione, al punto che
non sarebbe possibile abolirla o limitarla significativamente nemmeno attraverso il procedimento di
revisione costituzionale (a maggiore ragione, dunque, non potendola condizionare nemmeno ad
investiture rigide in proposito dei militanti, raccolte con l’ausilio determinante del web), è chiaro che
risulterebbe fissato da questa conclusione il presupposto concettuale per orientare la risposta ai punti che
lo precedono.
Soccorre al riguardo una risalente e nota sentenza della Consulta, la n. 14 del 1964:
«L’art. 67 della Costituzione, collocato fra le norme che attengono all’ordinamento delle Camere e non fra quelle che
disciplinano la formazione delle leggi, non spiega efficacia ai fini della validità delle deliberazioni, ma è rivolto ad assicurare
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la libertà dei membri del Parlamento. Il divieto del mandato imperativo importa che il parlamentare è libero di votare
secondo gli indirizzi del suo partito, ma è anche libero di sottrarsene; nessuna norma potrebbe legittimamente disporre che
derivino conseguenze a carico del parlamentare per il fatto che egli abbia votato contro le direttive del partito».
Si è tuttavia osservato1 che anche l’assai più recente sentenza 1/ 2014 della Corte Costituzionale ha
contribuito, in più luoghi della motivazione, a sottoporre a lifting l’ormai nobile, ma vetusto, parametro,
spianandogli qualcuna delle molte rughe accumulatesi sul volto, in ragione della equazione che lì è scolpita
tra “rappresentanza” nazionale e “rappresentatività”, di modo che – non assicurata che fosse dalla legge
elettorale la seconda – ne sarebbe colpita inevitabilmente la prima.
Ricordiamo in sintesi, di seguito, le tappe della storia gloriosa attraversate dalla garanzia in esame.
Una brillante studiosa della più giovane generazione ha ribadito come «l’istituto in questione (sia) il
“cuore” del mandato parlamentare, così come lo conosciamo – almeno in Europa continentale – dalla
Rivoluzione francese», proseguendo quindi a descriverne il percorso tendenziale come scandibile in tre
fasi, che per lei sono, testualmente, «il cammino verso la “cogenza”; la presunta “obsolescenza”
all’indomani della nascita di partiti di massa; l’attuale fase di “convalescenza” dell’istituto tra “distrazione”
della responsabilità politica e impieghi eterodossi»2.
In effetti, i mandati prerivoluzionari, attraverso i quali comunità e ceti presentavano al sovrano – in
assemblee parlamentari irregolarmente convocate – petizioni, suppliche, cahiers de doléances, erano
privatistici e tendenzialmente vincolanti, salvi cioè e comunque i casi di istruzioni vaghe dei mandanti,
nonché revocabili dagli stessi.
Fin dal celebre discorso agli elettori di Bristol del 3 novembre 1774, Edward Burke aveva però
incisivamente chiarito che «Il Parlamento non è un congresso di ambasciatori di opposti e ostili interessi,
interessi che ciascuno deve tutelare come agente o avvocato; il Parlamento è assemblea deliberante di una
Nazione, con un solo interesse, quello intero, dove non dovrebbero essere di guida interessi e pregiudizi
locali, ma il bene generale», o quantomeno che dai primi (pur in esso presenti) esso deve riuscire a
svincolarsi, per tendere a persegure il secondo.
L’Assemblea Nazionale francese ribaltò su questa medesima scia, pochi anni dopo, il quadro concettuale
in cui si inserivano le pratiche che fino ad allora erano state in proposito usuali.
Il 30 giugno 1789 taluni nobili avevano in effetti rifiutato di partecipare alle sue sedute proprio in nome
dei mandati vincolati dei quali erano portatori, ponendo il problema di dovere ricevere dai mandanti sui
1 N. ZANON, La seconda giovinezza dell’art. 67 della Costituzione, n Forum di Quaderni Costituzionali, 5 marzo 2014. 2 F. GRANDI, Il divieto di mandato imperativo: tra cogenza, obsolescenza e convalescenza, in Aperta Contrada, 9 gennaio 2014.
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singoli terrtitori adeguate direttive, che in ipotesi ne integrassero le lacune di fronte a nuove questioni
presentatesi.
Non era trascorsa piùì di una settimana da quel giorno, quando Sieyès condusse l’organo ad approvare la
sua proposta di considerare irrilevante il problema, non potendo certo l’assise fermare i propri lavori in
ragione della mancanza occasionale di qualche suo componente.
Nella riunione dell’8 gennaio 1790 il principio fu dunque ribadito, «les mandates impératifs étants contraires à
la nature du Corps lègislatif qui est essentialment délibérant, à la libertè des suffrages dont chacun de ses membres doit jouir
pour l’intérêt général» e venne ulteriormente confermato dall’art. 7, titolo III, della Costituzione del 3
settembre 1791, in cui si legge che «Les représentants nommés dans les départements ne seront pas représentants d’un
département particuleier, mais de la Nation entière, et il ne pourra leur être donnè aucun mandat».
Molteplici e pregevoli sono state le ricostruzioni storiche al riguardo, ognuna di esse proponendosi
opportunamente di non effettuare semplicemente una sterile panoramica del passato, ma di prendere atto
di uno sviluppo che nel corso del tempo si è mostrato ineluttabile: il lento, ma sicuro, sostituirsi – nella
dinamica effettiva del campo problematico – di un (perciò di nuovo tendenzialmente vincolato)
“mandato di partito” al “libero mandato parlamentare” affermato dalla Rivoluzione francese3.
Si è dunque dai diversi autori articolato il giudizio sulla garanzia, in rapporto al palesarsi via via di nuove
esigenze e altresì della loro faccia oscura, vale a dire anche delle patologie che le si accompagnano,
richiedendone la rilettura e/o l’adattamento.
Si può osservare come il principio che nega il vincolo di mandato per riferire quest’ultimo alla
rappresentanza generale o nazionale conservi un’originaria impronta liberale e individualistico-borghese,
3 Fra i molti autori che hanno operato le ricostruzoni diacroniche alle quali si accennava (e che sono state tenute presenti per le poche righe in tema del presente testo), come premessa a una riconsiderazione attuale del problema, si vedano almeno – nella dottrina italiana più recente e senza pretesa di completezza, in aggiunta a quella richiamata – R. MORETTI, Art. 67, in Commentario breve alla Costituzione, prima ed., diretta da V. Crisafulli e L. Paladin, Padova, 1990, 407 ss.; N. ZANON, Il libero mandato parlamentare. Saggio critico sull'articolo 67 della Costituzione, Milano, 1991 (che è, tra gli studi della più vicina stagione in argomento, quello indubbiamente fondativo, non solo sul piano cronologico); P. PERLINGIERI – M. PARRELLA, Art. 67, in Commento alla Costituzione italiana, a cura del primo, Napoli, 1997, 424 ss.; A. PAPA, La rappresentanza politica. Forme attuali di esercizio del potere, Napoli, 1998; S. CURRERI, Democrazia e rappresentanza politica. Dal divieto di mandato al mandato di partito, seconda edizione rivista e accresciuta, Firenze, 2004; R. SCARCIGLIA, Il divieto di mandato imperativo. Contributo a uno studio di diritto comparato, Padova, 2005; L. CIAURRO, Art. 67, in Commentario alla Costituzione, a cura d R. Bifulco, A, Celotto, M. Olivetti, Torino, 2006, 1287 ss.; G. AZZARITI, Cittadini, partiti e gruppi parlamentari: esiste ancora il divieto di mandato imperativo?, in Costituzionalsmo.it, 3/ 2008; C. BOLOGNA, Art. 67, in Commentario breve alla Costituzione, seconda ed., diretta da S. Bartole e R. Bin, Padova, 2008, 617 ss,; A. CIANCIO, I gruppi parlamentari. Studio intorno a una manifestazione del pluralismo politico, Milano, 2008; L. PRINCIPATO, Il divieto di mandato imperativo da prerogativa regia a garanzia della sovranità assembleare, in Rivista AiC, 4/ 2012; C. DE FIORES, Sulla rappresentazione della Nazione. Brevi note sul divieto di mandato imperativo, in Dr Soc. 1/ 2017, 19 ss.; L. RINALDI, Divieto di mandato imperativo e disciplina dei gruppi parlamentari, in Costituzionalismo.it, 2/ 2017; C. MARTINELLI, Art. 67, in La Costituzione italiana. Commento articolo per articolo, a cura di F. Clementi, L. Cuocolo, F. Rosa, G. A. Vigevani, Bologna, 2018, II, 72 ss.
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risultando ancor oggi canonizzato in tale veste nella maggior parte di tutte le Costituzioni basate sul
connesso modello di rappresentanza politica.
Si è peraltro notato, quanto al nostro testo del 1948, che a rigore dovrebbe giuridicamente parlarsi
letteralmente per esso non di “divieto”, bensì di “assenza” di vincolo di mandato, essendo caduta in sede
di coordinamento formale del testo dell’ Assemblea Costituente una formulazione che invece ne
conteneva proprio un’esplicta proibizione4.
Ad ogni modo, non si fece sull’istituto in quella sede una discussione profonda, forse per le riserve di
parte comunista, illustrate da Terracini e Grieco e per la freddezza di Mortati, relatore sul tema in seconda
sottocommissione il 19 settembre 1946, con parole lungimiranti, nelle quali non è difficile intravedere i
nodi essenziali anche del dibattito successivo, addirittura fino al testo della riforma Renzi, che come noto
faceva del Senato un’assemblea elettiva di secondo grado, espressione di quelle regionali, ma in raccordo
col panorama politico espresso dalle rispettive aree territoriali.
Gioverà pertanto riportare le espressioni che furono da lui usate:
«(Il relatore osserva che) Qui si dovrebbe affrontare la questione del divieto del mandato imperativo.
Sottrarre il deputato alla rappresentanza di interessi particolari significa che esso non rappresenta il suo
partito o la sua categoria, ma la Nazione nel suo insieme. (Egli) Si domanda se la disposizione da lui
proposta si possa omettere o meno, perché potrebbe anche assumere una particolare importanza, se, ad
esempio, si facesse del Senato la rappresentanza della regione o di categorie, e perché non si può
dimenticare che oggi i deputati sono espressione dei partiti con i quali hanno un diretto legame. Sta di
fatto che il problema esiste ed ha anche avuto un riflesso negli ordinamenti in cui è stabilita la decadenza
del deputato quando è sconfessato dal suo partito».
Lo sguardo lungo del Maestro di Corigliano Calabro quasi prevedeva così le eccezioni alla tendenza allora
e anche oggi prevalente, che sono emerse negli anni a noi più vicini: cioè quelle della vigente Costituzione
portoghese del 1976 (artt. 155 e 160) e quelle estranee o periferiche rispetto alla tradizione del
costituzionalismo liberaldemocratico occidentale, che pure le ispira (come la Costituzione del Bangladesh
del 1972, art. 70, il 52° emendamento – del 1985 – alla Costituzione indiana del 1949, o ancora gli artt.
150 e 151 di quella panamense del 1972) e la antidefection clause delle esperienze australiana, canadese e
sudafricana.
Al di là dell’impossibile esercizio di divinazione, egli era peraltro sicuramente consapevole delle soluzioni
costituzionali di area culturale socialista vigenti al tempo della Costituente ed ispirate tutte al principio
opposto alla libertà del mandato politico rappresentativo: la stessa Costituzione lusitana vigente individua
4 L. CIAURRO, op. cit., 1290.
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del resto come suo fine tra gli altri, nel preambolo, proprio quello «de assegurar o primado do Estado de
Direito democrático e de abrir caminho para uma sociedade socialista»5.
Come Mortati avvertiva lucidamente in quella sede, la storia ha in effetti proceduto nel senso di
costituzionalizzare il partito politico, attraverso il percorso – sfasato rispetto al precedente – che
dall’ostilità dello Stato era approdato, dopo una valutazione intermedia di indifferenza, alla sua
incorporazione nelle Costituzioni totalitarie e appunto in quelle socialiste, fino a valorizzarlo come base
dell’organizzazione pluralista del popolo politicamente organizzato, ad opera del costituzionalismo
democratico generalizzatosi – in varie fasi temporali, ma tendenzialmente omogenee – nella traiettoria
emersa dopo la seconda guerra mondiale6.
5 G. DAMELE, Vincoli di mandato dei parlamentari e carattere democratico dei partiti. Spunti a partire dall’articolo 160 della Costituzione portoghese, in Forum di Quaderni Costituzionali, 18 maggio 2017; più in generale, F. GIULIMONDI, Il vincolo di mandato parlamentare ha ancora un senso? Un tentativo di risposta fra istanze nazionali e modelli ordinamentali stranieri, in Foro Europa, 3/ 2016. 6 Classico, naturalmente, il riferimento all’ampio e ricco dibattito weimariano in argomento, mirabilmente sintetizzato da N. ZANON, Il mandato…, cit., 89 ss e in particolar modo alla teorizzazione del Parteienstaat, su cui si vedano soprattutto le posizioni di H. KELSEN, ad es. ne Il problema del parlamentarismo, in La democrazia, trad. it., a cura di M. Barberis, Bologna, 1998, 155 ss. e quelle di G. LEIBHOLZ, come ricostruibili attraverso i i saggi raccolti in La rappresentazione nella democrazia, a cura di S. Forti, con introduzione di P. Rescigno, Milano, 1989 e , nella nostra letteratura recente, almeno A. SPADARO, Riflessioni sul mandato imperativo di partito, in Studi parlamentari e di politica costituzionale, 67 (1985), 21 ss. e P. RIDOLA, Divieto del mandato imperativo e pluralismo politico, in Scritti su le fonti normative e altri temi di vario diritto in onore di Vezio Crisafulli, II, Padova, 1985, 679 ss. Si veda inoltre R. ORRÙ, Nota introduttiva a «Il principio del divieto di mandato imperativo: antico feticcio o baluardo irrinunciabile?» (seminario 2014 dell’Atelier 4 Luglio - G.G. Floridia), nel volume La rappresentanza in questione. Giornate di Diritto e Storia costituzionale, V, a cura del medesimo, di F. Bonini e A. Ciammariconi, Napoli, 2016, 135 ss., che ha messo in evidenza l’importanza dell’analisi storico-comparativa «al fine di mettere a fuoco i punti di attrito, in un contesto democratico- pluralistico, tra la logica del “libero mandato parlamentare” e le condizioni di coerenza interna dello “Stato di partiti”». Il suo ragionamento prosegue, osservando appunto che «la questione dell’inammissibilità di istruzioni vincolanti per i rappresentanti (il divieto di mandato imperativo) si colloca ormai da tempo sullo sfondo della presenza di un duplice legame degli eletti: con il popolo e con i partiti» e rilevando che «le cospicue dimensioni di recente assunte nel nostro ordinamento dal ricorrente fenomeno del c. d. trasformismo o transfughismo parlamentare conferiscono particolarmente rilievo al tema del vincolo tra eletto e partiti (che sono strumenti della sovranità popolare). In altri e più diretti termini, ricorrente è l’interrogativo – egli osserva – se il negare l’opportunità dell’esistenza di un qualsiasi vincolo tra eletti e partiti non finisca per vulnerare, anziché rafforzare, il principio della sovranità popolare. La strutturazione della responsabilità degli eletti nei confronti degli elettori consentita da un’incontrastata mobilità parlamentare, in un contesto in cui i partiti hanno smarrito molto del loro spessore ideologico e persa molta della loro consistenza organizzativa tipici dei primi decenni successivi alla secondo conflitto mondiale, sembra essere elemento decisivo nel favorire la trasformazione delle élites politiche in oligarchie». La conclusione dell’Autore sul punto è che «l’interrogativo che periodicamente ritorna è se nella cornice del Parteienstaat (pur se oggigiorno colto in declinazioni fattuali diverse da quelle presenti all’elaborazione concettuale di G. Leibholz, nel 1929) sia ammissibile l’esistenza di un vincolo tra eletto e partito tale per cui la conservazione del mandato parlamentare risulti in funzione del perdurare dell’affiliazione nel partito all’interno del quale è avvenuta l’elezione. In non pochi ordinamenti si è aperto il dibattito intorno alle misure atte a contenere il c.d. floor-crossing, e in alcuni sono state in effetti accolte. Misure di anti-defezione partitica tra gli eletti e si ravvisano, tra gli altri, nei sistemi costituzionali del Sudafrica, dell’India e del Brasile». Nel volume da cui si sta citando, esse sono analizzate in particolare da V. CORNELI, Lo stato dell’arte del dibattito sulla anti-defection clause in Canada, Australia, Nuova Zelanda e Italia, 131 ss.; da F. GIRINELLI, I rapporti tra elettori, eletti e partiti politici in Brasile: la
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La tensione e contraddizione tra i due ordini di circuiti e rapporti appena indicati e da noi entrambi
costituzionalmente legittimati (in sostanza ex artt. 1 e 67 il primo, ex artt 1 e 49 il secondo)7 si ricompone
e si scioglie, per la dottrina maggioritaria non solo italiana, nel senso che – come è stato notato, seppure
con accento parzialmente critico verso questa ricostruzione tradizionale – «il divieto di vincolo di
mandato non vieta l’esistenza di mandati, ma la loro vincolatività giuridica. Esso, quindi, non impedirebbe
al rappresentante d’intrattenere rapporti e di stipulare accordi sia con gli elettori sia con il partito nella
misura in cui li rende giuridicamente irrilevanti, e come tali non giustiziabili»7.
La sottrazione al mandato di partito o la sua elusione non sono insomma sanzionabili dalla compagine
parziale, che ha natura di associazione non riconosciuta, disciplinata agli art.36 e seguenti del codice civile
sulla base di accordi fra gli aderenti, come conferma una costante giurisprudenza e dunque essa non ha
azione per fare rispettare l’obbligazione contratta da chi non l’osservi spontaneamente, che perciò può
qualificarsi in questo senso come “naturale”.
4. La situazione odierna: il mandato politico tra crisi della rappresentanza, “trasfughiamo” nei
gruppi parlamentari, istanze di “democrazia immediata”.
L’intensificarsi attuale della discussione in merito, rimasta per lungo tempo sopita, trova peraltro il suo
motivo politico più stingente – talora implicito, talora apertamente enunciato da chi in essa interviene –
nel palesarsi sulla scena pubblica, non solo italiana, di movimenti anti-rappresentativi e (come si dice
ormai da tempo nella volgarizzazione giornalistica, ma altresì nella riflessione teorica) “populisti”8.
Sia consentito abusare in proposito – le scuse preventive sono dovute alla sua lunghezza – di una
citazione9, peraltro assolutamente conferente e troppo gustosa nella ironica formulazione verbale per
potere essere trascurata proprio nel caso che ne occupa:
«È l’onda anti-istituzionale e anti-rappresentativa che trova espressione nel movimento guidato da Beppe
Grillo a ricollocare sulla scena – beninteso: come miti negativi – gli istituti che l’art. 67 cost. scolpisce in
Costituzione. Se ne comprende bene la ragione, in termini concettuali e, appunto, di storia delle dottrine
politiche: per un movimento che fa idolatria della presenza fisica dei “cittadini” (contemporanea e forse
inconsapevole caricatura dei citoyens della tradizione giacobina) nelle istituzioni, del controllo costante del
titolare della sovranità (identificato tecnologicamente, ma oscuramente, nel “popolo della rete”) sui
«Fidelidade Partidaria », 157 ss.; da M. TEDDE, La vicenda sudafricana intorno al “floor crossing”, 167 ss. ; da D. PAOLANTI, L’introduzione dell’“anti-defection clause” nell’ordinamento indiano, 179 ss. 7 S. CURRERI, Democrazia e rappresentanza politica, 107. 8 Ex plurimis, si leggano, per l’inerenza al tema di questo lavoro, V. PAZÈ, Crisi della rappresentanza e mandato imperativo, in Teoria Politica, Annali IV, 2014, 277 ss. e Il populismo tra storia, politica e diritto, a cura di R. Chiarelli, Soveria Mannelli, 2015. 9 N. ZANON, La seconda giovinezza dell’art. 67…, cit., 2 s.
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“portavoce” o “delegati” nelle istituzioni, è il concetto stesso di rappresentanza politica ad essere
incomprensibile e, comunque, inammissibile. Se rappresentare significa “rendere presente ciò che è
assente”, e se la rappresentanza politica comporta l’assunzione di libere decisioni – certo in nome e per
conto del popolo
rappresentato, ma quale frutto di autonome valutazioni del rappresentante – l’ideologia grillina si colloca
agli antipodi di tutto questo. La presenza fisica dei sanculotti alla sedute
della Convenzione è qui sostituita dai flash-mob, dalle riunioni plenarie, ma soprattutto dal
controllo costante del “popolo del web”, che con un click approva o contraddice, sostiene e loda oppure
delegittima e condanna senza appello. Non ha senso avere parlamentari che “rappresentano”, valutano
liberamente, discutono con i colleghi, accettano di avvicinarsi dialogicamente alla “verità”, e magari, alla
fine, votano in segreto (ah, il voto segreto! Inganno oscuro al riparo del quale, diceva Robespierre,
prospera l’intrigo dei traditori della Rivoluzione!). Ha senso, invece, avere portavoce o nunzi, che
ratificano le decisioni dei cittadini, non possono dissentire, e se dissentono devono essere
immediatamente espulsi».
Ancora più risalente era stata del resto, nella letteratura giuridica, la presa d’atto del progressivo
polverizzarsi dei partiti di massa, in grado di imporre agli eletti una solida disciplina di partito e di
minimizzare dissensi dalla linea ufficiale, o di circoscriverli a isolati “motivi di coscienza”, tutelati dal voto
segreto, ovvero “normalizzati” dalla esplicita previsione regolamentare della possibilità di intervento e
voto in dissenso dall’indirizzo del gruppo.
Nel corso del tempo si sono manifestate o comunque rafforzate tendenze degenerative in seno ai partiti
stessi – ormai divenuti sempre più “personali” e a militanza “virtuale” – e nell’ambito della medesima
istituzione parlamentare, ridotta perlopiù a sede ratificatrice di decisioni prese altrove, per lo sviluppo
prevalente dell’attività anche normativa del Governo, tanto più in tempi di crisi economica che in esso le
accentra e altresì per l’effetto congiunto di diverse tendenze che concorrono alla sua emarginazione, come
il potenziamento dell’azione di organismi tecnico-amministrativi indipendenti, l’influenza crescente –
nella conformazione della dialettica politica – di sentenze e in genere di provvedimenti della magistratura
di merito e di legittimità e degli organi di giustizia costituzionale, la constatazione infine che i luoghi, le
sedi e le circostanze di esercizio concreto della sovranità sono ormai da tempo collocate verso il basso
(nelle Regioni) e verso l’alto (nell’Unione Europea), rispetto alle assemblee parlamentari.
Severissimo è il giudizio al riguardo di uno studioso molto attento e acuto di simili fenomeni di
frammentazione del sistema partitico, “transfughismo” dei parlamentari (ossia il cambio, insolitamente
intenso nel numero dei casi registrabilii, delle affiliazioni in corso di legislatura a gruppi diversi da quelli
dei partiti ne quali si era stati eletti), conseguente abnorme crescita del gruppo misto, scoperta di vicende
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frequenti di corruzione e di uso a fini personali della funzione, laddove egli si interroga sulle cause di
quanto comunemente osservabile (anche qui sia consentita una citazione non breve, ma altrettanto
icastica della precedente):
«Al di là di quelle contingenti, correlate al quadro politico dell’attuale legislatura – si è infatti osservato10
– ve ne sono certamente altre, ben più profonde, legate alla crisi dei partiti politici, cioè dei soggetti su
cui si fonda la rappresentanza politica. Fenomeno non solo italiano, perché legato alla crisi d’identità
culturale, sociale e politica che attraversa, ancor prima dei rappresentanti, i rappresentati, ma che nel
nostro Paese si manifesta in modo affatto peculiare, attraverso tendenze disgregatrici e individualiste non
presenti in tal misura negli altri partiti politici europei. Sotto questo profilo, il transfughismo parlamentare
è in certa misura espressione dell’insopprimibile vocazione individualista e trasformista inscritta nel
patrimonio storico della nostra classe politica, se non, forse, della nostra coscienza nazionale, attraverso
cui, talora anche indipendentemente dalle prospettive di governo, i parlamentari, unendosi in gruppi
politici, tendono ad acquisire quella visibilità e peso politico che altrimenti, da soli, non avrebbero».
La pretesa di intervenire su fenomeni del genere essenzialmente attraverso un diritto giustiziabile sembra
tuttavia debole, o comunque da non assecondare in toto, perché le controindicazioni sono peggiori del
male che con essa si vorrebbe curare.
«I titolari degli organi (si intenda: quelli costituzionali, n. d. r.), attraverso i loro comportamenti,
comunicano – ha osservato uno studioso11 – oltre i “luoghi” delle relazioni interorganiche, attivando
circuiti di condizionamento dell’esercizio formale delle funzioni, che non si riuscirebbe a focalizzare se si
continuasse a descrivere la forma di governo con il solo ausilio delle fonti (scilicet: formali, n. d. r.) del
diritto».
Altri12 – nel contesto di una riflessione condotta proprio sul tema dei gruppi parlamentari – aveva dal
suo canto rilevato: «Non credo che sia opportuno introdurre una disciplina normativa (legislativa o
regolamentare che sia) “in positivo”, che cerchi di regolare la vita democratica dei partiti o dei gruppi
parlamentari: non perché sia di ostacolo il testo dell’art. 49 (o la sua genesi), ma perché è più che lecito
dubitare dell’effettività di tali discipline, dato che la politica è per sua natura “esuberante” e non è
produttivo cercare di ingessarne le modalità di funzionamento. Soprattutto in Italia, dove è del tutto
10 Ancora da S. CURRERI, Gruppi politici, libertà di mandato e norme anti-transfughismo, in Federalismi.it, 6/ 2017, 4, cui adde – per un ordine di idee convergente – C. MEOLI, Che cosa resta oggi del dveto di mandato imperativo?, in Giust. Amm., 9/ 2016. 11 M. CARDUCCI, Tra “zone grigie” e “antecedenti” della forma di governo, in Gruppo di Pisa, Dibarrito aperto siul Diritto e la Giurisprudenza costituzionale, on line, ad nomen auctoris. 12 R. BIN, I gruppi parlamentari e i partiti, relazione al Convegno La democrazia dei partiti e la democrazia nei partiti, Firenze, 19 ottobre 2007, in Forum di Quaderni Costituzionali, s. d. e negli Atti dello stesso, a cura di S. Merlini, Firenze, 2009, 201 ss.
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normale che persino le norme dei regolamenti parlamentari siano sistematicamente violate in nome delle
esigenze politiche o possano essere disapplicate con il consenso unanime (“nemine contradicente”): come se
le regole parlamentari avessero solo un “uso interno” e non fossero a presidio di valori universali di
legalità».
Aggiungeva peraltro questa dottrina che se, da un lato, «anche di fronte a violazioni dei regolamenti che
hanno suscitato dure reazioni delle opposizioni, si è preferito sbrigare il conflitto in sede politica piuttosto
che provare a far valere il rigore delle regole davanti alla Corte costituzionale», dall’altro una qualche
forma regolatoria minima va trovata e introdotta, perché quanto in precedenza osservato «non significa
però che non possano essere utilmente definite condizioni minime di trasparenza, che garantiscano la
regolarità dei rapporti e della gestione».
Le due ultime citazioni sono state scelte con una certa accuratezza, in ragione di una condivisione di
intenti – se chi scrive non ha male inteso – col caveat manifestato dai loro rispettivi autori.
Pretendere di illuminare ogni “zona grigia” od “oscura” dei rapporti tra soggetti (in senso tecnico) e
comunque attori dei rapporti costituzionali con la sola o prevalente luce del diritto, come oggi si invoca
diffusamente, sembra fallace e irrealistico e non fa bene né al diritto stesso, che nell’illusione di espandersi
in realtà diviene fragile ed esposto più facilmente a pratiche elusive della sua cogenza, né alla politica, che
si offre oltre ogni limite al sindacato giurisdizionale (anche sui generis, quanto alla Corte Costituzionale),
confessando dunque la propria impotenza.
Siffatta tendenza non è positiva, quantomeno in relazione alla dinamica concreta della forma di governo,
che non può tollerare supplenze para-giurisdizionali rispetto a un’auspicabile ripresa appunto di centralità
e dunque di “responsività” della politica (che nella sua essenza è misura di rapporti di forza, determinati
dal consenso elettorale, raffinati in seguito dalla mediazione operante nelle diverse sedi potestative e
verificati in ultima analisi ancora nelle successive elezioni) nel sistema, mentre trova ragioni forti per
venire sostenuta quando si tratti di garantire nell’effettività diritti fondamentali della persona (italiana e
straniera).
Consegnare le chiavi della propria casa ad un amico, senza la ferrea certezza che il suo soggiorno sia breve
e discreto, ossia che egli le restituisca e, avendolo fatto, non pretenda in seguito di dettare comunque in
essa legge dall’esterno è imprudente, per chi ambisca a goderne in autonomia l’uso, dopo avere avuto un
atteggiamento di liberale ospitalità, ma non abbia la forza di opporsi all’insana pretesa.
Fuor di metafora, questo è ad esempio accaduto quando la Corte Costituzionale, evocata dal giudice a
quo e ritenendosi legittimata a farlo da un’ordinanza di dubbia ammissibilità, ha in sostanza dettato le
linee della legislazione elettorale nell’ultimo periodo di tempo, il che si era a lungo guardata dal fare in
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precedenza e il legislatore ha quindi – per propria debolezza – aderito al lodo propostogli, senza mostrare
un reale e apprezzabile margine di apprezzamento e valutazione autonoma dell’oggetto del contendere.
Laddove si condividessero le preoccupazioni di “invasione di campo” o di rischio di abuso di ruoli appena
manifestate, relative ad un arbitro la cui personalità è costretta a risaltare eccessivamente perché le squadre
in campo non si impegnano davvero nella partita, o sono troppo fallose (sul punto si tornerà alla fine),
se ne dovrebbe forse derivare che il quesito di cui al punto n. 4 della griglia predisposta per il seminario,
che tende a individuare le vie per una “giustiziabilità” del contrasto tra mandato vincolante di partito e
libertà costituzionale del parlamentare, è mal posto.
Se una strada in tale senso volesse individuarsi – lo si dice per completezza – essa sarebbe plausibilmente,
più che nel sollevare una questione di legittimità costituzionale in via incidentale di leggi dichiaratamente
approvate in osservanza di vincoli di mandato partitico (tale via è infatti ostruita, dopo il diniego della
Corte nel leading case del 1964, già richiamato), nel costruire le prerogative del singolo parlamentare come
a lui spettanti in ragione della sua qualifica di “potere diffuso” – simile, per questo aspetto, a quello
giudiziario – e abilitato pertanto anche a sollevare conflitto di attribuzione a difesa delle stesse, secondo
una nota ricostruzione13.
Tuttavia, se il problema del conflitto sul piano logico tra mandato di partito e (ormai relativa) libertà di
esercizio di quello politico esiste, o meglio se si palesa l’esigenza di evitare abusi nell’applicazione della
prerogativa, è sbagliata – per le ragioni appena sopra evidenziate – la strada che si vorrebbe imboccare
per risolverlo.
Miglior partito – è il caso di dire – sarebbe quello di operare invece per ridurlo attraverso la legislazione
elettorale cosiddetta “di contorno” e le disposizioni di regolamento parlamentare, come ammette lo stesso
censore forse più aspro (e certamente acuto) del transfughismo parlamentare che si è sopra ricordato,
allorché avverte che «semplificatoria e demagogica sarebbe l’introduzione del vincolo di mandato. Per
quanto ispirata ad una condivisibile esigenza di coerenza politica dell’eletto verso gli elettori che l’hanno
votato perché candidato in e per un determinato partito, tale soluzione sarebbe peggiore del male da
curare, perché condannerebbe ogni assemblea elettiva alla paralisi decisionale e, quindi, alla sua stessa
negazione, vittima della reciproca incomunicabilità tra forze politiche ingessate nel rigido rispetto dei
cahiers de doléances ricevuti dai loro elettori (come avveniva nelle assemblee feudali non a caso dotate di
funzioni consultive ma non deliberative). Il vincolo di mandato finirebbe per negare il valore della
rappresentanza politica, e con essa delle istituzioni parlamentari, luogo di confronto e di mediazione, in
nome di una pretesa volontà generale degli elettori, dietro alla quale spesso si celano – come la stessa
13 N. ZANON, Il mandato…, cit., 321 ss.
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esperienza del Movimento Cinque Stelle dimostra - meccanismi decisori fortemente centralizzati ed
opachi»14.
In definitiva, potrebbe trovarsi un equilibrio tra opposte esigenze, nessuna da sola irragionevole, nella
sede di una snella – lo si scrive in adesione di chi scrive alle sopra riportate osservazioni realistiche di chi
le aveva formulate – ma ormai inevitabile normazione di principio sulla democrazia interna dei partiti e di
una regolazione delle lobbies, che cioè non tanto imponesse ai partiti e ai gruppi di pressione un modello
unico e uniforme di organizzazione, ma contenesse garanzie minime di tutela delle minoranze interne e
di trasparenza del gioco degli interessi che si scaricano sulle sedi delle decisioni pubbliche ed inoltre in
una almeno parziale sterilizzazione in sede regolamentare di finanziamenti parlamentari ad attività
organizzative degli eletti “transfughisti”, in un’ inibizione ad esempio della loro permanenza in cariche
che avessero ricoperto in precedenza, con le relative indennità di funzione – ma, appunto, si tratterebbe
di sanzioni previste da regolamenti parlamentari, a tutela delle istituzioni, non da statuti di gruppo –
nonché ancora imponendo l’osservanza rigorosa del divieto di costituire gruppi parlamentari non
corrispondenti a formazioni vagliate dall’elettorato, almeno se al di sotto di un certo numero di aderenti.
In quest’ottica (se si volesse infine prendere atto della logica degli “accordi” tra soggetti privati con effetti
sul “politico” che ormai sembra, come si è visto, dominare il campo), si potrebbe anche guardare all’
Acuerdo sobre un código de conducta politica en relación con el transfuguismo en las corporazione slocales” del 7 luglio
1998 in Spagna, aggiornato il 26 settembre 2000 e il 23 maggio 200615.
Il Senato italiano ha già lodevolmente incominciato, del resto, ad auto-riformare in tale direzione i propri
regolamenti, una volta superata la grande paura di essere ridotto a un’Assemblea minore.
Per il resto, se le scissioni intra-partitiche non sono mai augurabili, in un’ottica sistemica e se l’appello alla
disciplina di gruppo vale ad evitare frammentazioni eccessive e dunque fenomeni patologici della vita
parlamentare, la causa profonda sembra risiedere innanzitutto nella scadente qualità dei ceti politici e nella
lentezza e/o incapacità dei rappresentanti nel cogliere le istanze e il disagio dei rappresentati, che dal loro
canto sono assai meno di prima inquadrabili nei “macro-contenitori categoriali” delle età precedenti, in
ragione delle trasformazioni che tutte le società occidentali hanno subito – e con moto accelerato – per
effetto di fenomeni di complessiva, epocale «grande trasformazione» (per dirla con Polanyi) di natura
economco-produttiva, tecnologica, etico-culturale16.
14 Ancora S. CURRERI, Gruppi politici…. , cit., 5. 15 Sintesi comparate delle soluzioni realizzate nei diversi ordinamenti per comtemperare libertà di esercizio del mandato politico e sua “cattura” da parte dei partiti sono in S. CURRERI, Democrazia e rappresentanza politica, cit., 129 ss.; R. SCARCIGLIA, l divieto di mandato imperativo, cit., spec. 138 ss.; A. CIANCIO, I gruppi parlamentari, cit., 259 ss. 16 La letteratura in argomento è immensa; per i limitati fini di questa nota, c si limita a fare rinvio a pregevol opere recenti, che riflettono su di esso appunto sul piano giuridico-costituzonale: Percorsi e vicende attuali della rappresentanza e della responsabilità politica. Atti del Convegno di Milano, 16 – 17 marzo 2000, a cura di N. Zanon e F. Biondi, introd.
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Oltre un certo limite, la norma di diritto non può tuttavia avere realisticamente la pretesa di ingessare gli
sviluppi della vita – politica, e non solo – come del resto, in quella familiare, l’assenza di una legittimazione
del divorzio prima della sua introduzione nell’ordinamento giuridico non salvaguardava davvero i nuclei
affettivi, ma al più serviva in molti casi ad arrendersi al tormento di unioni forzate e sopravvissute alle
ragioni che le avevano motivate o a mantenere il silenzio dell’ipocrisia su accomodamenti pragmatici di
varia natura.
5. Un cenno conclusivo all’attualità costituzionale italiana: una forma di governo in
trasformazione?
L’esame del tema specifico non può tuttavia concludersi, in una riflessione comunque rapida, senza porre
in evidenza alcuni profili utili a inquadrarlo – e a spiegarlo perciò meglio – all’interno di un panorama più
generale di trasfomazione che appare in corso (si vedrà meglio nel corso del ragionamento in quale senso)
della nostra forma di governo e, prima ancora, della qualità della democrazia, dunque della stessa forma
di Stato.
Si avverte infatti opportunamente che «sono le forme complessive che in concreto assume la democrazia
che vengono in considerazione quando si riflette sulle modalità di svolgimento dei mandati politici e
rappresentativi»17.
Una suggestione dalla cronaca recentssma: tra il seminario alla Camera dei Deputati che ha motivato le
riflessioni finora svolte e la stesura del testo definitivo del presente intervento si è interposto un evento
lieto, che ha interessato la casa reale britannica, come la cerimonia del royal wedding, in casa Mountbatten
- Windsor, tra il principe Harry e la signora Rachel Meghan Markle, bellissima ex attrice afro-americana,
cioè quelli che sono diventati ora – dopo il matrimonio – i duchi del Sussex.
Benché chi scrive non sia interessato per nulla al gossip e alle toilettes degli invitati, al contrario lo è molto
alla funzione e al significato sociale dei simboli.
Quella casa reale, dopo la tragica conclusione della vicenda umana della principessa del Galles, ha
imparato ad aprirsi e sono ormai ancora più lontani, perfino nella sua mentalità – anche se non molto,
quanto ad anni trascorsi da allora – i tempi in cui un Re dovette abdicare per il rifiuto della Corte al suo
desiderio di impalmare una commoner.
Nell’attuale circostanza la sposa è entrata in cattedrale da sola, durante il rito si sono esibiti un coro gospel
e un giovane violoncellista afro-inglese, in esso ha predicato appassionatamente un vescovo – nero,
di G. Zagrebelsky, Milano, 2001; La democrazia raèèresentativa; declino di un modello?, a cura di A, Morelli, Milano, 2015; La rappresentanza in questione. Giornate di Diritto e Storia costituzionale, V, Napoli, 2016, cit. 17 Così G. AZZARITI, op. cit., 1.
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discendente di schiavi e difensore di cause sociali – della Chiesa episcopale di Chicago, che è disponibile
a celebrare unioni tra omosessuali, al momento dello scambio delle promesse nuziali la formula
tradizionale di «obbedienza al marito» da parte della moglie (che da parte sua si proclama orgogliosamente
femminista) è stata evitata, il cantante Elton John è stato pacificamente presente tra gli invitati e si è poi
esibito al successivo ricevimento, non essendo più ritenuto una pietra dello scandalo, come gli era
accaduto ai funerali della povera principessa Diana. Se ne può concludere che solo le istituzioni che
riescono a integrare (anche simbolicamente) le novità sopravvivono.
Tornando ora in Italia, ma resi consapevoli della verità di siffatto assunto, osserviamone la scena, per
lasciare memoria degli eventi agli studosi che verranno.
a) La tradizionale dialettica destra - centro - sinistra appare ormai (in realtà dovunque) recessiva e in via
di tendenziale ricambio, in favore di una diversa, che si svolge piuttosto tra nazional-populisti ed
europeisti /globalizzatori, ossia tra forze che assumono di rappresentare il “popolo” incorrotto e vessato
ed altre che in tale nuovo schema vengono accusate dalle prime di difendere l’esistente, vale a dire élites
privilegiate, di destra o di sinistra che esse siano E poiché l’ancoraggio comune d queste ultime è
l’orizzonte di senso dell’Unione Europea, seppure soggetta a critiche e di una globalizzazione non
demonizzata e ritenuta irreversibile, sia pure da fronteggiare con prudenza negli effetti indesiderabili, la
nuova contrapposizione diventa quella tra europeisti /globalisti e “sovranisti”, come si è preso a dire,
ossia nazionalisti ed economicamente protezionisti.
Ci si può ragionevolmente attendere in Italia – o, meglio, se l’aspetta chi scrive – l’accelerazione di un
processo di unificazione o comunque di ravvicinamento, rispettivamente tra il ceto dirigente partitico di
ispirazione “renziana” e quello “berlusconiano”, che culmini nella nascita di una nuova formazione (o
quantomeno di un blocco) centrista ed europeista, nonché di riflesso (se questo accadesse) nella
costituzione per ulteriore scissione di un partito di sinistra “classico” tra esponent “non renziani” del PD
e altri, che oggi si collocano fuori e contro di esso.
b) La dinamica prima elettorale e quindi di formazione del nuovo governo ha mostrato pertanto
l’evaporazione già da tempo in corso del fattore “politico” tradizionale e l’emersione di sue nuove forme,
tradottesi in differenti convenzioni costituzionali, con sostituzione delle precedenti, sicché oggi si assiste
al palesarsi di un modello funzionale e di una logica di carattere giusprivatistico: in essa ha posizione
centrale appunto l’’istanza di un mandato rappresentativo in realtà vincolato ed eventualmente revocabile
da popular recall, di cui si è sopra detto.
È questo il punto in cui le riflessioni puntuali che l’nvito a dibattere su un tema specifico si ricollegano
alla ricostruzione più complessiva di contesto, che qui stiamo tentando.
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«Robespierre, sulla scia dell’insegnamento rousseauviano – è stato sagacemente rammentato18 – dà per
scontato che la sovranità non può essere rappresentata. “Il dominio del popolo dura un giorno solo” e,
in ogni caso, “i suoi delegati sono corruttibili” enuncerà il rivoluzionario con tono acceso. Diventa allora
fondamentale la predisposizione di strumenti di partecipazione e controllo all’attività dei mandatari, un
sistema che permetta di rimanere “egualmente lontani sia dalle bufere della democrazia assoluta sia dalla
perfida tranquillità del dispotismo rappresentativo”. In conformità a questi presupposti filosofici e teorici,
le considerazioni di Robespierre sono tutte dominate dall’esigenza di garantire che i “manadataires”
rispondano della loro gestione al popolo».
V’è comunque oggi di più, anche se quello appena individuato è il cuore del problema: è stata infatti
coerentemente avanzata anche l’ulteriore e connessa istanza di nuove articolazioni della democrazia
diretta (un apposito incarico ministeriale senza portafoglio collega del resto insieme «rapporti col
Parlamento e democrazia diretta» e sul tema si ricorderà come fosse già prevista dalla riforma Renzi una
sua implementazione, con riserva a future leggi costituzionali della concreta articolazione) e si è inoltre
data la stipulazione, tra le forze emerse come assunte vincitrici – il dubbio viene espresso perché un esito
vittorioso in assoluto sarebbe potuto in realtà scaturire solo da un sistema elettorale con premio di
maggioranza, non da uno proporzionale, che al massimo può dislocare le forze uscite dalle elezioni in
posizoni di rispettivo vantaggio o svantaggio – di un “contratto di governo”, che appunto sottomette le
future decisioni pubbliche ag uno strumento convenzionale di natura tipicamente privatistica.
Tale atto di carattere negoziale, che prevede tra l’altro anche un organismo a composizione paritaria dei
conflitti tra le parti, in sostanza un collegio arbitrale, ha visto il procedimento della sua formazione
culminare nell’individuazione, solo nella fase finale, del nome di un Presidente del Consiglio incaricato
che ha le caratteristiche professionali di un valente avvocato, costituito quale garante e mero esecutore di
un lodo, non a caso professore universitario di diritto privato.
«Sarò l’avvocato difensore dei cittadini» è stata la testuale espressione del professore Conte nell’accettare
l’incarico (in un primo tempo senza buon esito) di formare il Governo, confermando in tale modo
l’intervenuto salto tendenziale delle tradizionali mediazioni rappresentativo-parlamentari.
L’ispirazione culturale potrebbe a buon diritto dirsi peronista e tutti gli aspettti via via elencati e che si
collegano tra loro in un disegno coerente trovano il loro punto di rinsaldamento nella torsione del
mandato politico rappresentativo in uno schema giuridico che è in realtà ad esso estraneo.
18 Ancora da G. AZZARITI, op, cit., par. 4. Non sfuggirà la circostanza che la piattaforma operativa del movimento pentastellato, gestita in concreto dalla società privata Casaleggo&Associati, sia appunto intitolata al filosofo ginevrino, ispiratore di Robespierre. Su questi aspetti (oltreché su quelli più generali dell’istituto), di particolare efficacia appaiono le osservazioni polemiche di G. GRASSO, Mandato imperativo e mandato di partito: il caso del MoVimento 5 Stelle, in Osservatorio AiC, 2/ 2017.
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Va qui sottolineato il carattere enfatico ed impreciso, sul piano giuridico, della denominazione italiana
dell’accordo scritto di coalizione, già in realtà concluso tra forze politiche diverse in molti Paesi.
Ci si è ispirati al riguardo come si è esplicitamente dichiarato dai contraenti, al Koalitionsvertrag, che dal
1961, ma con precedenti che risalgono all’immediato secondo dopoguerra, indica in Germania il
documento programmatico stipulato, dopo le elezioni del Bundestag, dalle forze che intendono governare
il Paese in un assetto elettorale proporzionalistico. Orbene, in chiave critica, può rilevarsi che:
- Esso non può contenere solo disposizioni di natura patrimoniale, alle quali a rigore un contratto – se
fosse davvero tale – dovrebbe limitarsi;
- non può essere obbligante in diritto, a pena di impingere appunto nell’esplicito divieto costituzionale di
mandato rappresentativo vincolato, previsto in Germania come in Italia e che non è superabile, secondo
i più, nemmeno emendando formalmente la disposizione, posto che la libertà dell’eletto, pur in presenza
di un’organizzazione della vita parlamentare fondata su gruppi perlopiù riferibili a partiti, è – come si è
all’inizo di questo scritto rilevato – incomprimibile;
- contraenti non ne sono i gruppi parlamentari, se non di riflesso e tendenzialmente, essendo stato
stipulato dai leaders politici19;
- non può contenere, specificamente, multe per chi abbandoni il gruppo, o voti in dissenso da esso (come
nel riportato codice etico del Movimento Cinque Stelle, tradotto – come si è visto – in vincoli
regolamentari di gruppo per i loro eletti in assemblee politico-amministrative), proprio per il rilevato
carattere assorbente del divieto di vincolo di mandato. Una clausola che dunque le preveda vitiatur, sed
non vitiat e in effetti, ad una prima lettura del documento, può rilevarsi che anche diverse altre sue
statuizioni potrebbero in realtà cadere sotto la scure della Consulta, se venissero tradotte in atti legislativi
e prima ancora nella censura del Presidente della Repubblica, in sede di controllo preordinato alla loro
promulgazione
Per completezza e correttezza analitica, va segnalato peraltro che l’istanza di investitura popolare del capo
dell’Esecutivo viene in Italia da lontano, in età repubblicana e si traduce – nella cultura costituzionale di
19 Si vedano sul punto V. BALDINI, Il contratto di governo: più che una figura nuova della giuspubblicistica italiana, un (semplice…) accordo di coalizione, in Diritti fondamentali, 1/ 2018, nonché A. DE PETRIS, Il modello tedesco, in FB Lab, 31 Maggio 2018, ma se ne erano in precdenza conclusi normalmente anche altrove, sempre come accordi di mera natura politica: si vedano ad esempio per la Gran Bretagna – e dunque in ambente maggioritario – già C. FUSARO, C. MARTINELLI, P. RONCHI, Tre letture sul Coalition Agreement, in Quaderni Costituzionali, 3/ 2010. Per le difficoltà spagnole, in mancanza di una solida cultura e prassi di patti di coalizione, si legga invece ad esempio L. FROSINA, La mancata formazione del governo in Spagna e le vie inesplorate dell’articolo 99 della Costituzione, in Nomos, 1/ 2016. L’Italia è al contrario tradizionalmente aperta a simili patti: si leggano ad esempio, fra i molti, G. FERRARA, Il Governo di coalizione, Milano, 1973; M. CARDUCCI, L’accordo di coalizione, Padova, 1989. Per una panoramica complessiva recente delle difficoltà di formare i governi dopo le elezioni, che coinvolgono ormai molti Paesi, con sistemi tanto proporzionali, quanto maggioritari, si legga altresì C. FUSARO, Governabilità, un decalogo sulle coalizioni post-elettorali, in Repubblica, 22 dicembre 2017.
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destra – nel favore verso la forma di governo presidenziale ed in quella di centrosinistra dei tempi più
recenti nella ricerca di un’investitura, da parte dell’elettorato, non solo del Parlamento (da ridurre,
secondo la riforma costituzionale non approvata dal corpo elettorale, a una sola Camera politica, con
l’altra formata su basi e competenze regionali, o per altri corporativamente, cui doveva essere comunque
sottratto l’intervento nel circuito fiduciario), ma anche del Governo e appunto del suo “Capo” – il
modello è il cosiddetto “premierato”, di ispirazione britannica – e di una legge elettorale maggioritaria
semplificatrice e stabilizzatrice del sistema politico, in forza della quale (come è stato a lungo ripetuto) la
sera delle elezioni si conosca il nome del premier, appunto il capo del partito e/o della coalizione risultati
vincenti alle elezioni.
Ne è residuato nel dibattito pubblico attuale, pur dopo le note vicende che hanno portato a superare una
legge elettorale mai applicata e a tanto diretta, il cosiddetto Italicum, la (tecnicamente infondata)
insofferenza di taluni verso “governi non eletti”, tema polemico sul quale hanno molto insistito sia il
“capo politico” del Movimento Cinque Stelle, sia il leader leghista.
Il ruolo del Presidente della Repubblica – in tale contesto – ha oscillato nel tempo, per la voluta
indeterminatezza delle disposizioni formali della Carta fondamentale relative alla figura, tra una sua
interpretazione – innanzitutto da parte di ciascun protagonista pro tempore – che ne assicurava prestazioni
di garanzia e un’altra che ne permetteva o imponeva all’occorrenza una presenza ben più attiva.
Questa seconda tendenza appare ad uno sguardo retrospettivo essere stata in formazione - in detta
direzione - già con Gronchi e Pertini (con una premessa in Einaudi, garantista pressocché silente in
pubblico, ma che dopo le dimissioni di De Gasperi nominò tuttavia Pella Presidente del Consiglio senza
effettuare consultazioni), chiara nella “pars destruens” in Cossiga, evidente nella “pars (ri)construens”
nell’esperienza di Napolitano, fino a sfiorare un ambiguo “parlamentarismo a direzione presidenziale”,
secondo una formula che chi scrive aveva usato in un proprio libro di saggi (anche) sulla forma di
governo, se è permesso auto-citarsi20 ed oggi non può essere nei fatti facilmente rinnegata, come se non
si fosse all’occorrenza resa disponibile nello strumentario costituzionale, allo stesso modo per cui non
può essere rimessa nel tubo che la conteneva la pasta dentifricia che ne sia sortita.
La Corte Costituzionale, a sua volta – soprattutto intervenendo sulla legge elettorale, ciò che
precedentemente si era ben guardata dal fare – ha dal suo canto e in sostanza sempre aperto nel tempo
20 S. PRISCO, Costituzione, Diritti umani, forma di Governo, Torino, 2014. Sul rilievo decsivo di Prassi, convenzioni e consuetudini nel diritto costituzionale (in special modo nello strutturare la dinamica effettiva della forma di governo) sono fondamentali gli Atti del XXIX Convegno annuale dell’Associazione dei Costituzionalisti di Catanzaro, 16 – 18 ottobre 2014, ora nel volume così appunto intitolato, Napoli, 2015.
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al nuovo che veniva maturando, come aveva già del resto fatto allorché ritenne ammissibili i due
referendum promossi dall’onorevole Mario Segni.
La metafora dell’ “arbitro”, che si è usata in precedenza nel testo, può dunque trovare nell’effettività
un’applicazione molto larga e dinamica – se guardiamo all’operato (nello sviluppo effettivo della forma
di governo) degli organi di garanzia costituzionale nel corso del tempo – ed è stata ad esempio impiegata
proprio dall’attuale Presidente della Repubblica durante il lungo e controverso procedimento che ha
infine condotto alla formazione del Governo, essendo egli stato costretto ad un attivismo a cui sarebbe
stato per indole forse riluttante dall’inconcludenza a lungo mostrata da forze politiche intente a trovare
un accordo – o il “contratto” di cui si è detto – per dotare il Paese di un Esecutivo e avviare finalmente
il lavoro della legislatura da poco incominciata.
Un duro scontro aveva contrapposto i leaders dei partiti destinati a comporre la maggioranza di governo
al Presidente della Repubblica, intorno alle caratteristiche programmatiche e alla composizione personale
del gabinetto, coi primi – portatori di una logica da sistema elettorale maggioritario, mentre il loro
successo è stato semmai il frutto di una legge elettorale iper-proporzionalistica – che pretendevano di
avere su entrambi gli àmbiti una sostanziale mano libera e il secondo che intendeva fare valere il suo
ruolo nella nomina dei ministri, su proposta del presidente incaricato dell’organo collegiale (cui
sembravano e tuttora sembrano difettare le opportune capacità di mediazione sul punto, per il suo profilo
finora “impolitico”), rivendicando un esercizio non puramente notarile di questa sua attribuzione, attesa
la sua natura di organo monocratico di rappresentanza e di garanzia degli interessi unitarî del Paese.
Esse superano – come si è assunto dai suoi difensori – l’azione di contingenti maggioranze e opposizioni
politiche, specialmente nell’ambito dell’amministrazione della giustizia (egli è infatti anche Presidente del
Consiglio Superiore della Magistratura), della coesione territoriale (dovrebbe sottoscrivere il decreto di
esercizio dei poteri sostitutivi nei confronti di Regioni ed enti autonomi che vi dessero causa, nonché
quello di scioglimento del Consiglio regionale e di rimozione del Presidente della Giunta, ai sensi
rispettivamente degli artt. 120 e 126 della Costituzione), rispetto al quadro delle alleanze internazionali e
della difesa nazionale (è Presidente del Consiglio Supremo di Difesa), delle opzioni generali di politica
economica, anche in ragione degli impegni internazionali che abbiamo assunto, vincolanti ex art. 80 e 117
della Carta, infine in vista della tutela dei diritti fondamentali (promulga le leggi, anche di spesa e in tale
controllo compie valutazioni di “alto merito costituzionale” e può spingersi a rinviare le leggi alle Camere
con messaggio motivato)
Invero, anche nell’art. 92, oltreché negli artt. 87, penultimo alinea (grazia e commutazione delle pene),
88 (scioglimento di una o di entrambe le Camere), 89 (controfirma), della Carta Costituzionale, è presente
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una “doppia chiave” per serrature – fuor di metafora: attribuzioni – diverse. Si tratta cioè di istituti che
prevedono un esercizio di poteri differenti, ma cospiranti al risultato.
Diversamente che nel testo – anche se non nella tendenziale prassi evolutiva fin dall’età liberale – dello
Statuto Albertino, che vedeva il Re nominare ed eventualmente revocare il “suo” governo, si è oggi
benvero nella diversa situazione di essere proiettati alla formazione di un Esecutivo che riceva la fiducia
delle Camere. La prassi è stata finora nel senso di circoscrivere il rifiuto di nomina, che si è dato21
unicamente a ragioni attinenti alla contingente condizione soggettiva dell’aspirante ministro, che va
valutata dal Presidente della Repubblica con stretto rigore formale (ad esempio, la pendenza di
procedimenti penali nel nominando, o la ritenuta inopportunità di affidare il ruolo di Guardasigilli a un
magistrato in servizio, per evitare in radice conflitti di interesse).
In realtà, non può escludersi che, oltre a una resistenza motivata da posizioni “euroscettiche” e quindi
contrarie agli impegni euro-unitari del Paese attribuite al pur illustre tecnico che la coalizione in
formazione intendeva ricomprendere nella compagine governativa quale ministro dell’Economia, il
Presidente Mattarella sia stato costretto a “scoprire il fianco” (ma pur sempre esercitando al più un
“indirizzo politico costituzionale”, secondo la nota teorizzazione di Paolo Barile, in ragione del suo ruolo
di rappresentante dell’unità repubblicana oltre le singole fazioni, non già compiendo un’invasione di
campo in quello di maggioranza) dalla necessità di rafforzare, nella circostanza specifica, l’autorevolezza
politica del soggetto formalmente incaricato di costituirla, che come si è sopra rilevato non ha seguito un
cursus honorum politico, nei confronti delle rigidità dei partiti della maggioranza in itinere, che avevano
ridotto a meramente formali le sue prerogative di doverosa mediazione, in contrasto col chiaro dettato
dell’art. 95.
21 Casi trapelati nel tempo sono stati ad esempio quello di Scalfaro di nominare Previti – poi finito alla Difesa – nel I Governo Berlusconi, di Ciampi nei confronti di Maroni – poi finito al Lavoro – nel nuovo Governo del medesimo esponente politico e quelli di Napolitano nei confronti di Delrio, giudicato di scarso peso internazionale, o di Gratteri, Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, per entrambi in realazione al Governo Renzi. Si veda, per tale elencazione parziale, A. GAGLIARDI – A. MARINI, Da Previti a Gratteri, tutte le volte che il Quirinale ha stoppato la nomina di un ministro, Il Sole 24 Ore, 25 Maggio 2019. Un’integrazione di questa casistica, riferita anche ad altri episodi che hanno avuto come protagonisti Presidenti della Repubblica diversi, è ora in S. CURRERI, Le ragioni di Mattarella nel rifiutare quella nomina, ma lo ha fatto nella sede sbagliata, in la Costituzione.info, 29 maggio 2018, che replica a R. BIN, L’arroganza di Salvini e la fermezza di Mattarella: una lezione di diritto costituzionale ivi, 27 maggio 2018 e ID., Mattarella non poteva, ma doveva rifiutare la nomina, 29 maggio 2018. Nel dibattito complessivo di questo blog di commenti sull’attualità costituzionale, sul punto particolarmente intenso, si leggano altresì O. CHESSA, Il (presunto) veto presidenziale sul ministro dell’economia è legittimo?, 23 maggio 2018; ID., Nomina del primo ministro e nomina dei ministri: quali sono le differenze?, 27 maggio 2018; C. CARUSO, Mattarella e il veto presidenziale: quando la Costituzione resta in silenzio, 29 maggio 2018; A. ALBERTI, Perché il decreto di nomina dei ministri proposti dal Presidente del Consiglio incaricato non ha natura “sostanzialmente governativa”; A. GIGLIOTTI, In tema di nomina dei ministri e poteri del Presidente della Repubblica, entrambi in data 31 maggio 2018.
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Si aggiunga inoltre che peraltro la moral suasion del Presidente della Repubblica ha quoad essentiam bisogno
– per sortire una qualche efficacia – di doverosa riservatezza (come si evince in modo assai chiaro dalla
sentenza 1/ 2013 della Corte Costituzionale sulle intercettazioni casuali delle conversazioni telefoniche
del Capo dello Stato), il che mal si accorda con la pretesa di divulgare ogni passaggio della crisi ai militanti,
tramite il web e i social network.
Per fortuna, dopo essere giunti nella specie sull’orlo di uno scioglimento precoce delle Camere,
determinato dall’incrudirsi della polemica e che avrebbe dovuto trovare sbocco, in ipotesi, in una fase
transitoria gestita da un Esecutivo “tecnico” destinato alla singolare ventura di non vedersi
presumibilmente accordata la fiducia da nessun gruppo parlamentare e dopo le avventate dichiarazioni di
taluno relative ad un assunto “attentato alla Costituzione” del Presidente della Repubblica, cadute però
nell’imbarazzo generale e subito ritirate, si è evitato con la formazione del Governo che si materializzasse
l’ombra di un precedente funesto.
Nel caso in cui si fossero infatti date effettive elezioni a breve e nell’ipotesi di una riconferma, a seguito
di esse, dei rapporti di forza usciti dalle elezioni da poco celebrate, di fronte alla possibile e anzi
prevedibile riproposta per un incarico ministeriale del nome del soggetto che era stato occasione della
crisi, al Presidente non sarebbe restato infatti che «ou se soumettre, ou se demettre», come recitava il noto
motto di Léon Gambetta, nella vicenda che in Francia ebbe come esito appunto le dimissioni del
Presidente della Terza Repubblica Mac Mahon nel 1878, dopo che – da monarchico – egli aveva sciolto
un Parlamento repubblicano e se lo era visto riconfermare dagli elettori.
Il fatto è che, con un sorprendente paradosso, nella situazione attuale l’istanza diffusa e in precedenza
ricordata di un maggiore intervento popolare nelle singole e fondamentali opzioni di governo, tramite un
incrementato ricorso alla democrazia diretta nelle decisioni – legittimate quantomeno attraverso interpello
dei militanti via web o sotto gazebi e comprendendo fra esse una sorta di investitura popolare del “capo
dell’Esecutivo” (invero non corretta, per quanto detto in precedenza), insomma la richiesta di una almeno
apparente disintermediazione (la riserva verbale va esplicitata, giacché, anche nella richiesta di una
consultazione popolare su un quesito, un influencer decisivo esiste ed è chi formula il tenore letterale della
domanda cui rispondere e stabilisce il momento in cui sottoporla a chi è chiamato a rispondervi) – ha
avuto per il momento una realizzazione controintuitiva, rispetto a quanto era implicito in (e conseguente
a) siffatta visione.
Un referendum costituzionale (dunque ancora uno strumento di democrazia diretta, ma praticato secundum
ordinem) ha difeso in definitiva la Costituzione esistente, ma non poteva essere un argine alla sua
reinterpretazione, tant’è che i due partiti di governo appaiono oggi gramscianamente essi i “moderni
prìncipi” e il “capo del Governo” un mero esecutore del loro accordo programmatico.
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Il richiamo a Gramsci non è casuale: egli ci ha appunto insegnato a leggere la realtà socio-politica in
termini di processi di egemonia e quello che ora sta avvenendo è proprio un cambio di fase, all’insegna
di un ringiovanimento del ceto politico - in parte avviato da tempo - e di una nuova lettura del modello
costituzionale complessivo (anche senza il suo mutamento formale, allo stato), che nasce dalla
insoddisfazione di ceti medi, operai, giovani impoveriti e precarizzati, dunque incattiviti dagli effetti
(vissuti come solo o prevalentemente negativi) dei processi di globalizzazione e di scarso controllo
dell’immigrazione e dal sostanziale fallimento delle élites interne e sovranazionali, oggi in via di
sostituzione nella direzione dei processi di decisione politica, nel rimediare a una lunga crisi economica.
Bruxelles, Berlino, Parigi (non si dice Londra: non abbiamo il Commonwealth e non usciremo
realisticamente dall'Unione Europea) appaiono oggi più lontane, mentre Budapest e Vienna sono più
vicine22.
* * *
«Autunno. Già lo sentimmo venire/ nel vento d’agosto,/ nelle piogge di settembre / torrenziali e piangenti / e un brivido
percorse la terra / che ora, nuda e triste, /accoglie un sole smarrito. / Ora passa e declina,/ in quest’ autunno, che incede
/ con lentezza indicibile, / il miglior tempo della nostra vita / e lungamente ci dice addio».
La poesia di Vincenzo Cardarelli può aiutare a concludere questa riflessione. Non l’abbiamo sentita
arrivare la nuova stagione, o ne abbiamo sottovalutato in troppi i segni con cui essa si preannunciava. Per
alcuni è un inverno desolato («l’inverno del nostro scontento», si direbbe con lo Shakespeare del Riccardo
III), per altri la promessa di una primavera imminente. Solo chi vivrà vedrà.
22 Acuti svolgimenti in proposito sono ora quelli di S. FABBRINI, Se l’Italia diventa il laboratorio sovranista, ne Il Sole 24 Ore, 3 giugno 2018.
di Ciro Sbailò
Professore ordinario di Diritto pubblico comparato Università degli Studi Internazionali di Roma – UNINT
Presidenzialismo contro populismo: col mandato imperativo si dissolve la democrazia costituzionale, ma non
basta dire “no”
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Presidenzialismo contro populismo: col mandato imperativo si dissolve la democrazia
costituzionale, ma non basta dire “no”*
di Ciro Sbailò Professore ordinario di Diritto pubblico comparato
Università degli Studi Internazionali di Roma – UNINT
1. In primis, si pone il problema della stesura e della potenziale applicazione di disposizioni di
Statuti dei gruppi – regole di diritto privato - in palese contrasto con la Costituzione e con il
Regolamento. Cosa succederebbe se le norme statutarie di un Gruppo vietassero alle deputate
che vi appartengono di prendere la parola in Aula o di presentare proposte di legge?
La costruzione del moderno concetto di “democrazia parlamentare” fa leva sul principio dell’assenza di
vincolo di mandato per i membri del corpo legislativo.
Mi limito a richiamare brevemente due circostanze storiche.
La prima: nell’Inghilterra del XVI secolo, la nozione di “Parlamento”, nel significato attuale di assemblea
legislativa che esercita un controllo sull’Esecutivo, si sviluppa all’interno del passaggio dallo scambio
corporativo, che presuppone la finalizzazione dell’attività parlamentare a interessi particolari, alla
rappresentanza vera e propria, che è incompatibile con il vincolo di mandato. Un’efficacissima sintesi di
questo processo la troviamo nelle parole rivolte da Edmund Burke agli elettori di Bristol, nel novembre
del 1774: «Parliament is not a Congress of Ambassadors from different and hostile interests; which
interests each must maintain, as an Agent and Advocate, against other Agents and Advocates; but
Parliament is a deliberative Assembly of one Nation, with one Interest, that of the whole; where, not local
Purposes, not local Prejudices ought to guide, but the general [[12]] Good, resulting from the general
Reason of the whole. You chuse a Member indeed; but when you have chosen him, he is not Member
of Bristol, but he is a Member of Parliament».
La seconda: agli albori del costituzionalismo euro continentale contemporaneo, alla fine del XVIII secolo,
il vincolo di mandato si presenta come un ostacolo alla determinazione del carattere nazionale della
rappresentanza parlamentare, laddove tale determinazione si rivela necessaria per la costruzione d’una
nozione di interesse pubblico libera dalle dinamiche cetuali e da ogni altra forma di particolarismo sociale.
* Intervento alla Tavola rotonda “Gli statuti dei gruppi parlamentari alla prova dell’art. 67della Costituzione”, Roma, 16 maggio 2018. Il testo è stato redatto seguendo la traccia che l’on. Magi ha inviato ai partecipanti alla tavola rotonda. Le domande sono numerate e riportate in corsivo seguite dalle risposte. Alle risposte sono state aggiunte alcune considerazioni finali e una breve nota bibliografica.
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In altre parole, il vincolo di mandato è di ostacolo alla ricerca di soluzioni che rispondano all’interesse
generale ed è, dunque, in conflitto con la stessa idea di “Nazione”.
Passando ai nostri giorni, va rilevato come la comparazione giuspubblicistica confermi il legame
inscindibile tra libertà di mandato e carattere politico della rappresentanza.
Anche a tale riguardo, mi limito a due casi particolarmente emblematici.
Il primo caso riguarda la Germania. Il diritto costituzionale tedesco, come accade in ogni ordinamento di
stampo liberal-democratico, prevede il divieto di mandato imperativo per i membri della Camera eletta
dal popolo («I deputati del Bundestag sono eletti a suffragio universale, diretto, libero, uguale e segreto.
Essi sono i rappresentanti di tutto il popolo, non sono vincolati da mandati né da direttive e sono soggetti
soltanto alla loro coscienza», art. 28 della Grundgesetz, GG). Diverso il caso del Bundesrat, il Consiglio
federale. Vale la pena qui riportare per intero l’art. 51 della Costituzione tedesca, dedicato, per l’appunto,
alla composizione del Consiglio: «1. Il Bundesrat è composto da membri dei governi dei Länder, che li
nominano e li revocano. Essi possono farsi rappresentare da altri membri dei rispettivi governi. 2. Ogni
Land ha almeno tre voti, i Länder con più di due milioni di abitanti ne hanno quattro, i Länder con più di
sei milioni di abitanti cinque, i Länder con più di sette milioni di abitanti sei voti. 3. Ogni Land può inviare
tanti membri quanti sono i suoi voti. I voti di un Land possono essere espressi solo unitariamente e solo
dai membri presenti o dai loro rappresentanti». Si comprende bene come i consiglieri federali tedeschi
siano sottoposti a un rigoroso vincolo di mandato. Una nota sentenza della Corte costituzionale tedesca
ha, infatti, stabilito che il Bundesrat «non è né parte di un “Parlamento federale” unitario né una seconda
Camera del Parlamento nel senso tradizionale di un secondo corpo legislativo» (BVerfGE 37, 363, 25
luglio 1974).
Tuttavia, sono previsti almeno due circostanze, particolarmente significative, in cui tale vincolo si spezza.
La prima è quella della partecipazione dei consiglieri federali alla Gemeinsame Ausschuß o “Commissione
comune” (art. 53, GG). I membri del Bundesrat sono chiamati a occupare 1/3 dei posti della Commissione,
ma in questa veste, essi «non sono vincolati da direttive» (art. 53° GG). La spiegazione più semplice e
immediata di questa eccezione al principio del vincolo di mandato la si può trovare nella medesima carta
costituzionale. Quella Commissione, tra le altre cose, è chiamata a svolgere un ruolo fondamentale
quando il territorio federale sia aggredito o seriamente minacciato di aggressione (Verteidigungsfall, o «stato
di difesa», art. 115a GG). Essa, infatti, può decidere che il Bundestag si trovi nell’impossibilità di operare e
«prende il posto del Bundestag e del Bundesrat», assumendone «unitariamente i poteri» (115e). La seconda
circostanza è quello della Vermittlungauschuss, la “Commissione di conciliazione”, composta
pariteticamente da membri del Bundestag e del Bundesrat, che deve svolgere attività di mediazione nel caso
in cui vi sia un veto del Bundesrat nei confronti di leggi deliberate dal Bundestag (art. 77, c.2). Anche in
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questa circostanza, «i membri del Bundesrat nominati in detta Commissione non sono vincolati da
direttive». Qui la spiegazione della rescissione del vincolo di mandato può essere più complessa, ma a noi
pare abbastanza chiara: la mediazione di cui la Commissione si deve occupare, evidentemente, va cercata
nel nome dell’interesse dell’intera nazione. In altre parole, i consiglieri federali sono chiamati a partecipare
a un sotttoprocedimento legislativo volto a superare l’opposizione dello stesso Bundesrat. Evidentemente,
nello svolgere questo ruolo essi rappresentano l’interesse nazionale e non delle maggioranze politiche
formatesi nei rispettivi territori di provenienza.
In sintesi: il vincolo di mandato per i membri del Bundesrat viene meno quando questi esercitano u ruolo
politco.
Il secondo caso emblematico del nesso tra libertà di mandato e carattere politico della rappresentanza
riguarda i membri del Congresso degli Stati Uniti d’America.
Negli USA non esiste vincolo di mandato per i parlamentari. Tuttavia, per quel che riguarda i senatori,
all’inizio era previsto un certo vincolo con lo Stato di provenienza: «Il Senato degli Stati Uniti sarà
composto da due senatori per ciascuno Stato, eletti dai locali corpi legislativi per sei anni» si legge nella
formulazione originaria dell’art. art. 1 sec. 3 della Costituzione del 1787. Il sistema fu adottato in analogia
con il meccanismo usato per l’elezione dei delegati alla Convenzione costituzionale. Ma si rivelò presto
poco efficiente e poco consono a un Paese in veloce evoluzione sociale (erano frequenti i casi di seggi
vacanti, a causa di conflitti tra partiti e gruppi di interesse all’interno dello stesso Stato). La politicizzazione
del ruolo dei senatori è stata una costante della vita pubblica americana, in particolare nel periodo
compreso tra la fine della Guerra civile (1865) e l’entrata in guerra degli Stati Uniti (1917), caratterizzato
da una veloce nazionalizzazione della battaglia politica, dalla crescita del ruolo della stampa e dalla
diffusione di movimenti populisti. Di fatto, in alcuni stati si cominciò ad adottare la consultazione diretta
dell’elettorato per eleggere i senatori. Nel 1913 la formula fu così modificata: «Il Senato degli Stati Uniti
sarà composto di due senatori provenienti da ciascuno Stato, eletti dal relativo popolo, per sei anni».
Quale reperto di “archeologia costituzionale” dell’originario vincolo tra il senatore e corpo politico dello
Stato di elezione è rimasto, in alcuni casi, il potere, in capo all’Esecutivo dello stesso Stato, di nominare
un senatore “temporaneo”, in attesa di nuova elezione, quando il seggio diventi vacante.
Insomma, l’unico possibile fondamento di una qualche forma di vincolo di mandato per un membro del
Congresso – vale a dire l’elezione di secondo grado – è stato bruciato sull’altare della nazionalizzazione e
della politicizzazione della vita pubblica.
Non sono mancati, tuttavia, tentativi di creare qualche vincolo giuridico tra l’eletto al Congresso e il corpo
elettorale. Emblematica, al riguardo, la vicenda del recall. L’istituto è previsto in alcuni Stati, per la
rimozione o la sostituzione di un public official, ovvero di funzionari o titolari di cariche pubbliche, di
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norma a carattere elettivo. I vari tentativi di estendere il recall agli eletti al Congresso, anche in forme
molto blande, sono stati tutti senza successo. È molto istruttiva, in questo senso, la vicenda dell’Arkansas,
dove nel 1992, attraverso una modifica costituzionale, si vietò la candidatura al Congresso a chi fosse
stato eletto per tre volte alla Camera o per due volte al Senato (Arkansas Constitution, 73 § 3), facendo leva
sul X emendamento della Costituzione federale, secondo il quale «i poteri che la costituzione non
attribuisce agli Stati Uniti né inibisce agli Stati, sono riservati ai singoli Stati o al popolo».
La Corte suprema dichiarò incostituzionale la norma (U.S. Term Limits, Inc. v. Thornton et al., 514 U.S. 779
[1995]). Secondo l’opinione della Corte, la restrizione imposta dallo Stato dell’Arkansas era contraria al
principio fondamentale della democrazia rappresentativa, in base al quale è il popolo a dover scegliere da
chi essere governato. Riconoscere a ciascuno Stato la potestà di adottare propri criteri per l’elezione al
Congresso sarebbe incoerente con il principio di «una Legislatura nazionale uniforme» che rappresenti «il
popolo degli Stati Uniti». E nella sua dissenting Opinione, il giudice Clarence Thomas precisava: «In coerenza
con la complessità del sistema federale, una volta scelti dal popolo, i rappresentanti di ciascuno Stato al
Congresso, formano un corpo nazionale e sono al di fuori del controllo dei singoli Stati fino alle
successive elezioni».
2. Possiamo dire che la sola circostanza che uno o più parlamentari iscritti al gruppo Movimento
5 Stelle esercitino il loro mandato con il timore d’esser sanzionati economicamente in ragione
delle proprie condotte e scelte in parlamento costituisce un vincolo di mandato e impone
all’istituzione parlamentare di intervenire scongiurando questa ipotesi ab origine? Se sì, come?
Dal momento che la norma è conosciuta formalmente dalle Camere perché contenuta in statuti
il cui deposito è obbligatorio, possiamo dire che non è il difetto di una norma specifica che
impedisce al Presidente di manifestare formalmente ai colleghi parlamentari l'inconsistenza,
nullità e illiceità di una previsione regolamentare (ad oggi sottoscritta dallo stesso Presidente
Fico), ad esempio con una circolare inviata a tutti i deputati?
La proposta regolamentare del M5S mette in discussione il principio della libertà del mandato
parlamentare, ma non ritengo che possa vulnerarlo, per la semplice ragione che non esistono strumenti
di nessuna natura per applicare la sanzione minacciata dei pentastellati a quelli che “cambiano casacca”.
Mi si chiede: che cosa accadrebbe se le norme statutarie di un gruppo vietassero alle donne di parlare?
Rispondo: nulla. Le donne continuerebbero a parlare e probabilmente uscirebbero dal gruppo, mettendo
in seria difficoltà, anche di immagine, l’estensore di quella norma. Ciò sarà più chiaro se si tiene conto
della natura “contrattuale” degli statuti dei gruppi politici e, in maniera particolare, dei documenti statutari
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del Movimento 5 stelle. Se, infatti, la causa di un contratto è illecita, in conflitto con i principi generali
dell’ordinamento o comporta condizioni inique per uno dei contraenti, il contratto è nullo.
3. Può il Capo dello Stato nominare Ministro un parlamentare del Movimento 5 Stelle vincolato
da un "contratto privato" in contrasto non solo dell'art. 67 Cost. ma anche con il giuramento
prestato di fronte allo stesso Presidente della Repubblica di esercitare le proprie funzioni
nell'interesse esclusivo della nazione, oltre che con la con legge 400/1988 in ordine all'autonoma
collegialità del Consiglio dei Ministri e al suo compito di risoluzione dei conflitti tra Ministri?
Come opererebbe questo condizionamento nell’esercizio della funzione di controllo da parte dei
parlamentari nei confronti dei ministri del loro partito? Può tale problema essere evidenziato
direttamente all'attenzione del Presidente della Repubblica, nella sua qualità di garante della
Costituzione?
Può e, come abbiamo visto, lo ha fatto. Quel vincolo non sussiste, come detto sopra. È travolto dal
principio della libertà di mandato.
4. Questione della "giustiziabilità" della violazione dell'art. 67 Cost. in esame. Come un
tentativo di applicazione dell’istituto della clausola penale prevista dalla disposizione statutaria
in esame potrebbe giungere all’esame della Corte costituzionale? Attraverso la via del conflitto
di attribuzione tra poteri dello Stato (Deputato “sanzionato” vs. Gruppo parlamentare di
appartenenza oppure Autorità giudiziaria vs. Camera dei Deputati che pretende di agire in
autodichia sull’applicazione della previsione statutaria). Attraverso un giudizio di legittimità
costituzionale in via incidentale?
L’elezione del parlamentare non è nella disponibilità del Partito o del Movimento nelle cui liste s’è
candidato. Essa non può essere rivendicata da nessuna organizzazione come una prestazione alla quale
debba rispondere un impegno o un vincolo. La questione è lampante se si adottano categorie di tipo
privatistico: la procedura che porta dalla candidatura all’elezione non è ricostruibile giuridicamente come
una prestazione specifica del Partito o del Movimento, se non altro perché il momento decisivo di questa
procedura è il voto popolare diretto, che è sottratto per definizione a ogni condizionamento (art. 48 c. 1
Cost.).
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5. È chiaro come una modifica del Regolamento che attribuisca al Presidente poteri di controllo
sugli Statuti dei Gruppi sia la strada più lunga e dall’esito più incerto - soprattutto in questa
legislatura - ma anche l’unica che in futuro potrebbe evitare il ripetersi di casi come quello di
cui si discute oggi; per questo annuncio fin da ora la mia intenzione di presentare una proposta
di modifica in tal senso. Chiedo allora a chi interverrà oggi di ipotizzare i passaggi di tale
procedimento di verifica degli Statuti, l’organo o gli organi che ne dovrebbero essere incaricati,
i parametri di riferimento e le conseguenze in caso di mancato rispetto degli stessi.
Credo che se ne possa e debba parlare. Nulla può impedire al Parlamento di stabilire al proprio interno
procedure e regole per l’approvazione degli statuti dei gruppi, proprio in forza dell’autonomia
regolamentare, più volte ribadita dalla Corte costituzionale (vedi da ultimo, Corte cost. 120/2014). Per
limitarci alla Camera dei Deputati, si potrebbe prendere in esame l’ipotesi di investire della questione la
Giunta del Regolamento, di cui all’art. 16 del RCDD, presieduta dal Presidente della Camera, il quale può
integrarne la composizione ai fini di una più adeguata rappresentatività tenendo presenti, per quanto
possibile, criteri di proporzionalità tra i vari Gruppi. Si potrebbe chiedere a ciascun gruppo di depositare
presso la Giunta copia del Regolamento, decorso un certo tempo dalla sua costituzione. A questo punto,
potrebbe iniziare la trattativa tra il Gruppo e la Giunta, per eventuali modifiche. In caso di stallo, la parole
potrebbe essere data all’Assemblea. Proporrei, però, maggioranze semplici, non qualificate, calcolate con
riferimento all’elettorato attivo e non ai presenti in Aula. Tutto questo, ovviamente, rientra pienamente
nell’autonomia delle Camere.
6. Infine: non solo il Movimento 5 Stelle, ma anche Forza Italia, Lega Nord e Fratelli d’Italia
hanno affermato in campagna elettorale di voler modificare l’articolo 67 della Costituzione, e
proposte di legge in tal senso sono già state presentate in passato; la differenza, oggi, è che una
tale riforma costituzionale potrebbe essere approvata a maggioranza dei due terzi di ciascuna
Camera. Il quesito che allora si pone è se l’art. 67 sia revisionabile o se il divieto di mandato
imperativo rientri fra i "principi fondamentali e diritti inviolabili" che la Corte cost. pone come
limite allo stesso processo di revisione costituzionale.
Ritengo che la libertà di mandato non possa essere messa in discussione. C’è un limite alla revisione
costituzionale, per quel che riguarda i principi fondamentali dell’ordinamento, come ha chiarito a più
riprese la Corte costituzionale (v. sentenze 18/1982, 170/1984, 1146/1988, 238/2014). Concordo con
quella parte della dottrina, secondo cui i «limiti» di cui all’art. 1 della Costituzione non vanno interpretati
come limitazioni intervenute ex post (in senso logico, prima ancora che storico) bensì come una definizione
implicita della stessa nozione di sovranità popolare e, per certi versi, di “sovranità” in generale. Per
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semplificare: quei limiti non si giustappongono alla sovranità, ma sono la condizione per cui è possibile
parlare di una “sovranità” (compresa la sovranità popolare). Le «forme e i limiti della Costituzione», entro
cui la sovranità popolare deve essere esercitata, sono essenzialmente ricavabili dai principi dello Stato di
diritto, intesi come presidio ai «diritti inviolabili dell’uomo» (riconosciuti come preesistenti
all’ordinamento). Questi principi – tra cui rientra, come sopra si diceva, l’assenza del vincolo di mandato
per i parlamentari – definiscono la stessa forma dello Stato italiano. Per cui la loro messa in discussione
equivarrebbe a una messa in discussione dello stesso ordinamento della Repubblica. Questo non vuol
dire che l’art. 67 Cost. sia da ritenersi immodificabile: drafting costituzionale e revisione costituzionale sono
processi non completamente sovrapponibili. Ma la messa in discussione della libertà di mandato
comporterebbe l’annichilmento dell’istituzione parlamentare e la dissoluzione dello Stato di diritto.
Note conclusiva
I. L’idea che bastino la volontà politica e il consenso della maggioranza degli elettori per mettere i
discussione i principi su cui si regge l’ordinamento è ovviamente incompatibile con il moderno concetto
di “costituzione”. In un certo senso, gli studi comparatistici potrebbero mostrare come essa sia
confliggente anche con la stessa nozione di “spazio pubblico”. Quell’idea, ad esempio, nella storia del
mondo islamico è stata adottata, nel passato, per giustificare la tirannia e, nell’età contemporanea, per
legittimare l’islamizzazione forzata dello spazio pubblico. Tale uso strumentale, però, risulta in
contraddizione con gran parte della dottrina classica, secondo cui l’islamicità dell’ordinamento non può
essere ricostruita come risultato dell’adesione di una determinata parte della popolazione all’Islam, bensì
come presupposto di origine trascendente dell’esistenza dell’ordinamento stesso (il che, paradossalmente,
crea i presupposti per la tolleranza religiosa e politica). Ne consegue che la volontà politica e la stessa
volontà della maggioranza sono inquadrati dentro confini considerati come originari rispetto allo (e
costitutivi dello) spazio pubblico. Questo per dire che il principio secondo il quale esistano dei limiti
costitutivi al Legislatore (anche al Legislatore costituente, il che comporta limiti impliciti alla revisione
costituzionale) può essere considerato universale, ben oltre i confini dell’esperienza giuspubblicistica
dell’Occidente moderno.
II. L’idea che la vita politica debba scorrere sempre dentro il flusso della “volontà popolare” – intesa nel
suo immediato, ancorché frammentario, palesarsi – è il tratto distintivo di quello che oggi si chiama
“populismo”. In questo senso, il caso italiano va inquadrato in una tendenza di carattere globale: la tecnica
(intesa come fenomeno culturale, da non confondersi con la mera tecnologia, che è solo un aspetto
secondario della tecnica stessa) oggi asseconda e incoraggia molteplici e varianti forme cosiddette di
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“democrazia diretta”, dove mediazioni e razionalizzazioni vengono bruciate e superate nella corsa verso
la democrazia immediata e totale. In questo processo il rapporto tra “totalità” e “democrazia” si ribalta:
la prima, da categoria concettuale per la guida del pieno dispiegarsi della seconda diventa il fine di
quest’ultima, che tende a dissolversi nel totalitarismo democratico, inteso come perfetta antitesi della
democrazia costituzionale. Non si tratta certo di un problema nuovo: una parte significativa dell’opera
platonica, soprattutto nella seconda fase, ruota intorno al tema della comune radice – il rifiuto di limiti
costitutivi del linguaggio e dello spazio pubblico – del nominalismo politico e del dispotismo. Il tema non
può essere esaurito in questa sede. Qui vorrei solo richiamare l’attenzione sul superamento delle
tradizionali procedure di acquisizione del consenso, basate su una visione meccanica “classica” dello
spazio pubblico, dove la causa precede sempre l’effetto, ogni effetto è ricostruibile sulla base di una
procedura complessa quanto si vuole, ma sempre basata sull’idea che esista una causa specifica,
temporalmente determinata, per ciascun effetto. Il ruolo dell’”annuncio” nella battaglia politica è forse
l’aspetto più noto – ma, a mio avviso, non il più importante – di questo processo. Del resto, già da molto
tempo, nelle scienze cosiddette “dure”, ogni limite al mutamento è posto solo per essere travolto
dall’apertura della possibilità di una sua ricostruzione come “opzione” o “convenzione”. E nella finanza,
ormai, siamo ben al di là di ogni linearità nei processi decisionali (il solo annuncio di un “effetto” incide
sulla ricostruzione di un dato evento come “causa”). L’esigenza crescente di fluidificazione e
immediatezza dei processi decisionali politici andrebbe letta, a mio avviso, in questo orizzonte epocale.
Le stesse istanze populiste, sovraniste e riterrritorializzanti sono dentro questa dinamica, poiché anche la
globalizzazione, a suo modo, è un ordine (i.e.: un limite), che come tale viene messo in discussione: chi
contesta i processi di globalizzazione in nome degli interessi e delle identità locali, spesso non si rende
conto di muoversi nella medesima logica di quella hýbris – ovvero, di destrutturazione e superamento dei
limiti – che ha animato i processi di globalizzazione.
III. Di fronte a queste istanze di immediatezza e fluidificazioni dei processi politici, il divieto di mandato
imperativo si presenta come un ostacolo da bruciare. Anche se la campagna per la revisione di quel
principio segnerà – come penso sia probabile – una battuta d’arresto per contingenti ragioni politiche (ad
esempio, perché all’inizio di una Legislatura e di un’esperienza di governo ci son troppe cose a cui
pensare), la questione cova sotto la cenere ed è destinata a riproporsi. Il linguaggio, al riguardo, offre
segnali preziosi. La democrazia diretta – come giustamente osserva Stefano Ceccanti (Intervista su La
presse, 9 giugno 2018) – è da intendere qui nel duplice significato, di democrazia immediata, ma anche
“diretta”, nel senso del participio passato di dirigere. Si veda, a tale proposito, la proposta di legge
costituzionale presentata nella XVII legislatura dall’on. Riccardo Fraccaro, esponente del Movimento 5
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Stelle e poi ministro “per i rapporti con il Parlamento e la democrazia diretta” del Governo Conte
(“modifiche agli articoli 73, 75, 80 e 138 della Costituzione, in materia di democrazia diretta”, AC 3124 /
XVII). La proposta prefigura una democrazia diretta, nella quale l’attività normativa è sottoposta continue
verifiche da parte della “volontà popolare”. Non si tratta di una proposta irrealizzabile. Quello che oggi
il Movimento 5 stelle fa sulla rete – con i suoi sondaggi e le sue consultazioni e interazioni continue –
sembrava irrealizzabile pochi anni fa. La tecnologia si evolve in progressione geometrica. L’idea del
referendum continuo è, dunque, realistica. Il superamento del voto cartaceo – che è, a nostro avviso, un
presupposto implicito della formulazione della proposta – non è, qui, questione di mera tecnologia. La
sottoposizione di un ordinamento a continue e illimitate verifiche e innovazioni (l’ulteriore
“irrigidimento” delle procedure di revisione, contenuto nella riformulazione dell’art. 138 Cost., è bruciato,
come rileva Ceccanti nell’intervista, dall’introduzione «di un referendum costituzionale senza limiti»)
porterebbe a una fluidificazione totale dei processi politici e, in ultima analisi, a un’incrinatura della stessa
idea di “ordinamento costituzionale”, inteso appunto come ordinamento costruito sull’idea di limiti
costitutivi dello spazio pubblico.
IV. Opporsi all’odierno populismo appellandosi ai “valori” del costituzionalismo e inarcando le
sopracciglia contro i “barbari” serve solo a salvare la propria coscienza democratico-costituzionale. Ci
sarebbe piuttosto da chiedersi come incanalarlo dentro le strutture dello Stato di diritto. In questo senso,
ritengo che il diritto pubblico comparato possa dare – e in parte abbia già cominciato a dare – un
significativo contributo per l’inquadramento della questione in una chiave prettamente costituzionale – e
non solo politologica, come prevalentemente si fa, soprattutto sulla stampa – anche attraverso l’analisi di
quanto accade nelle altre democrazie costituzionali. A tale riguardo, credo sia particolarmente utile
studiare quanto accade negli Stati Uniti e in Francia. Chi conosce la storia del populismo americano, sa
che Donald Trump ha poco a che fare con gli esponenti storici del populismo (tipo Pat Buchanan, George
Wallace, William Jennings Bryan) e ancor meno con i leader delle rivolte degli agricoltori tra la fine del
XIX e l’inizio del XX secolo. Fino a poco prima di candidarsi, l’attuale capo dell’Esecutivo statunitense,
in materia di diritti civili e di economia, aveva posizioni compatibili con quelle più liberali dei repubblicani
e dei democratici. Ci sarebbe, dunque, da chiedersi se il successo di Trump non consista soprattutto
nell’avere bene interpretato il vento antipolitico e rivoltoso che sta soffiando nella potenza leader
d’Occidente (detentrice – questo spesso si dimentica – del più potente e distruttivo apparato bellico che
si sia mai potuto immaginare nella storia), tanto da disinnescarne, almeno in parte, il potenziale eversivo.
Ancora più interessante, per l’Italia, è il caso della Francia, la cui storia e morfologia politico-ideologiche
sono molto vicine a quelle dell’Italia. Il presidente francese s’è mosso su una piattaforma, in qualche
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modo, nata proprio dall’esigenza duplice, presentatasi nella Francia del secondo dopoguerra, di
razionalizzare le dinamiche parlamentari, per un verso, e di canalizzare le istanze populiste e plebiscitarie
verso soluzioni di tipo costituzionale. La piattaforma è stata perfezionata negli anni, fino alle recenti
riforme di questo inizio secolo. Essa è diventata una sorta di “scheda madre”, sulla quale ogni processo
politico e sociale può trovare una collocazione compatibile con la tenuta del sistema repubblicano.
Questo, a mio avviso, ha consentito ai francesi di superare, finora con successo, la crisi della politica
tradizionale.
V. In Italia, la necessità di una razionalizzazione costituzionale delle istanze populistiche che agitano la
società contemporanea, attraverso l’elezione diretta del vertice dell’Esecutivo, non è stata mai seriamente
posta dai grandi leader politici, con alcune illustri eccezioni, tra le quali ricordiamo, per un verso, Marco
Pannella, con la sua lunga battaglia per la riforma “americana” del sistema politico nazionale, e, per l’altro,
Bettino Craxi, con la sua proposta di “Grande riforma”, negli anni Ottanta-Novanta (v. in particolare i
Congressi XLII [Palermo, 22-26 aprile 1981], XLV [Milano 13-15 maggio 1989] e XLVI [Bari, 27-30
giugno 1991] del Partito Socialista Italiano). Ma sul piano parlamentare l’ipotesi non ha avuto successo.
Nelle commissioni di riforma costituzionale succedutesi a partire dall’inizio degli anni Ottanta in poi è
generalmente prevalsa l’opzione per la razionalizzazione della forma di governo parlamentare. La
bocciatura per via referendaria della riforma costituzionale del centrodestra nel 2005 (Legge costituzionale
recante «modifiche alla Parte II della Costituzione», GU 269 del 18 Novembre 2005) che non era per
nulla presidenzialistica, ma puntava a un certo rafforzamento dell’Esecutivo – credo che abbia poi
contribuito a orientare il ceto politico verso ipotesi di riforme minimalistiche. In questa chiave credo si
possa leggere anche la riforma Renzi-Boschi (Legge costituzionale concernente «disposizioni per il
superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei
costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del Titolo V della parte
II della Costituzione», GU 88 del 15 aprile 2016), che è stata ingiustamente accusata di contenere uno
stravolgimento dell’ordine costituzionale. Sono del parere opposto: quella riforma era sbagliata non
perché voleva troppo, ma perché voleva troppo poco. Essa, cioè, si muoveva ancora nel solco di una
parziale razionalizzazione della forma di governo parlamentare, senza toccare il nucleo del problema che
abbiamo oggi di fronte: la costituzionalizzazione delle istanze plebiscitarie e il contenimento delle
tendenze alla frammentazione delle dinamiche consensuali e rappresentative (i.e., la razionalizzazione
totale e coerente della forma di governo parlamentare). Per questo, a mio avviso, suscitò scarso
entusiasmo e fu percepita dall’elettorato come un’operazione strumentale – e sono convinto che non lo
fosse – pensata al solo fine di rafforzare la posizione della leadership governativa del tempo. Ero e resto
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del parere che una proposta radicale, di stampo semipresidenzialistico, avrebbe in un primo momento
scioccato l’elettorato e creato un grande scompiglio nel Parlamento e nel mondo accademico, ma avrebbe
avuto maggiori probabilità di successo. Ed è questa, ritengo, la direzione nella quale si dovrebbe lavorare.
Riferimenti bibliografici essenziali
A. BARBERA, I parlamenti. Un'analisi comparativa, Roma-Bari, Laterza, 2015;.W. BAGEHOT, La
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di Filippo Scuto
Professore associato di Istituzioni di diritto pubblico Università degli Studi di Milano
I pericoli derivanti da uno svuotamento dell’art. 67 Cost. unito ad
un “irrigidimento” dell’art. 49 Cost. Alcune considerazioni a partire dalla
vicenda dello Statuto del Gruppo parlamentare “Movimento 5 Stelle”
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I pericoli derivanti da uno svuotamento dell’art. 67 Cost. unito ad un “irrigidimento” dell’art. 49 Cost. Alcune
considerazioni a partire dalla vicenda dello Statuto del Gruppo parlamentare “Movimento 5 Stelle”*
di Filippo Scuto
Professore associato di Istituzioni di diritto pubblico Università degli Studi di Milano
Sommario: 1. Dai codici etici dei partiti agli statuti dei gruppi parlamentari. I vincoli ammissibili nel quadro costituzionale e le relative problematiche. – 2. La necessità di recuperare un rapporto virtuoso tra art 67 e art. 49 Cost. – 3. Una nuova centralità dell’art. 49 Cost. come forma di tutela dell’art. 67 Cost. e della democrazia rappresentativa.
1. Dai codici etici dei partiti agli statuti dei gruppi parlamentari. I vincoli ammissibili nel quadro
costituzionale e le relative problematiche
La vicenda della disposizione contenuta nello Statuto del Gruppo parlamentare del Movimento 5 Stelle
alla Camera dei Deputati, approvato il 27 marzo 2018, che prevede una sanzione applicabile ai deputati
nel caso di espulsione o abbandono volontario del Gruppo per dissenso politico1 pone numerose
questioni di rilievo costituzionale senz’altro riconducibili agli attuali nodi problematici della
rappresentanza politica e al modello di democrazia rappresentativa delineato dalla Costituzione italiana.
Un primo elemento da tenere in considerazione riguarda il fatto che la disposizione statutaria si pone in
continuità con la direzione intrapresa da tempo da parte del MoVimento 5 Stelle ed indirizzata nel senso
di una radicale critica nei confronti del principio del divieto di mandato imperativo tutelato dall’art. 67
Cost. in base al quale ogni parlamentare è libero di esercitare le sue funzioni senza vincolo di mandato.
Principio del libero mandato parlamentare che, come noto, è peraltro tutelato dalle principali costituzioni
europee e che il M5S auspica da tempo di superare proponendo riforme costituzionali finalizzate ad
introdurre il vincolo di mandato. Opzione, quest’ultima, pienamente confermata dal c.d. “contratto di
* Intervento alla Tavola rotonda “Gli statuti dei gruppi parlamentari alla prova dell’art. 67della Costituzione”, Roma, 16 maggio 2018. 1 Si fa riferimento all’art. 21, comma 5, dello Statuto del Gruppo parlamentare Movimento 5 Stelle su cui si tornerà a breve.
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governo” recentemente sottoscritto da M5S e Lega nel tentativo di dar vita ad un Governo sostenuto in
Parlamento dalle due forze politiche2.
L’origine di questo percorso che ha portato il M5S ad introdurre nello statuto del Gruppo parlamentare
vincoli all’esercizio del libero mandato può essere ricollegata alla precedente adozione da parte del
movimento dei c.d. codici etici e di comportamento che contengono un insieme di regole di condotta
indirizzate agli iscritti, ai candidati e agli eletti alle cariche interne e alle cariche istituzionali. Regole che,
generalmente, trovano il loro fondamento nelle disposizioni statutarie dei partiti politici e che associano
al loro mancato rispetto l’adozione di sanzioni da parte degli appositi organi interni (generalmente i collegi
dei probiviri). L’utilizzo crescente dei codici etici da parte di partiti e movimenti politici registratosi negli
ultimi anni (in particolare Partito Democratico e MoVimento 5 Stelle) può essere letto come un tentativo
di risposta alla sfiducia nei confronti della politica da parte della società civile legata alla crisi della
tradizionale rappresentanza politica e al dilagare dei fenomeni di corruzione. Sotto questo profilo, la
funzione del codice etico appare legata alla necessità di garantire che gli attori politici del partito che lo
adotta agiscano nel rispetto dei doveri di disciplina ed onore prescritti dall’art. 54 della Costituzione e di
individuare quei comportamenti che generino discredito per il partito e siano ritenuti riprovevoli dal
punto di vista dell’etica politica e morale del partito stesso. Si tratta, dunque, di un insieme di regole di
condotta interne che richiedono agli iscritti di assumere comportamenti conformi ai valori portanti del
partito di appartenenza, alla luce della declinazione che da esso viene data al concetto di etica politica.
L’adozione di codici etici e codici di comportamento interni rientra tra le libere scelte dei partiti
nell’ambito della loro autonomia organizzativa tutelata dagli artt. 49 e 18 Cost. Si tratta di disposizioni
che possono avere ricadute sull’accesso all’elettorato passivo e sull’esercizio degli incarichi elettivi e di
governo. Ma che non possono in nessun caso porsi in contrasto con la Costituzione. I partiti sono dunque
legittimati a limitare l’azione politica dei propri iscritti in relazione alla loro candidabilità e a richiedere
agli eletti determinati comportamenti nell’esercizio delle proprie funzioni. Quel che non possono fare è
introdurre, in generale, limiti costituzionalmente illegittimi e, in particolare, standard di condotta che
limitino l’esercizio del libero mandato di cui all’art. 67 Cost. o che siano l’espressione di un’organizzazione
interna del partito non democratica e verticistica in contrasto con lo “spirito” dell’art. 49 Cost. Sotto
questo profilo, i codici di comportamento del MoVimento 5 Stelle indirizzati negli ultimi anni ai propri
eletti sollevano diverse questioni problematiche.
2 Ci si riferisce al “Contratto per il governo di cambiamento” presentato dalle due forze politiche il 18 maggio 2018 nel quale si legge, a p. 35, nel paragrafo dedicato alle riforme istituzionali, che “occorre introdurre forme di vincolo di mandato per i parlamentari, per contrastare il sempre crescente fenomeno del trasformismo”.
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Il codice adottato per i candidati e gli eletti del M5S alle elezioni del Parlamento europeo del 2014
obbligava i deputati alle dimissioni non solo in caso di condanna (anche non definitiva) per reati penali,
ma anche nel caso in cui essi fossero ritenuti gravemente inadempienti riguardo al rispetto delle regole
contenute nel codice stesso. Il codice, richiamando in maniera piuttosto impropria3 il principio del “recall”
utilizzato negli Stati Uniti, prevedeva che la competenza per dichiarare l’inadempienza del parlamentare
spettasse agli iscritti della circoscrizione in cui era stato eletto o alla votazione in rete degli iscritti4. Ciascun
candidato, prima delle selezioni per la composizione delle liste elettorali, è stato chiamato a sottoscrivere
formalmente l'impegno al rispetto del codice. Inoltre, a garanzia del rispetto di quest’obbligo è stata
prevista, in mancanza di dimissioni, una sanzione di 250000 euro.
Il codice di comportamento del M5S adottato per i propri candidati alla carica di sindaco, assessore e
consigliere comunale in vista delle elezioni amministrative di Roma del 2016 non si è limitato a ricalcare
il contenuto del codice indirizzato ai parlamentari europei. Una specifica disposizione ha previsto che
sindaco, assessore e consiglieri debbano assumere l’impegno di dimettersi qualora siano ritenuti
inadempienti rispetto al codice di comportamento sulla base di una decisione assunta da Beppe Grillo e
Gianroberto Casaleggio (scomparso nel 2016) o dagli iscritti mediante consultazione on-line5. In questo
caso, dunque, la decisione sulle dimissioni può anche non essere assunta da alcun organo assembleare
degli iscritti, ma semplicemente dai leader del M5S. Inoltre, si prevede che, in caso di violazione del
contenuto del codice che «contiene principi etici e giuridici fondamentali e inderogabili del M5S» da cui
deriva «un impegno etico e giuridico» al suo rispetto, l’eletto si impegni a versare a favore del M5S 150000
euro. Ciò in ragione del grave danno di immagine che ne deriverebbe per il movimento il quale, si precisa,
è legittimato ad agire in giudizio per la corretta esecuzione del contenuto del codice sottoscritto
formalmente con atto notarile dai candidati prima delle elezioni6.
3 Numerose sono le differenze rispetto al recall statunitense, tra cui il fatto che in questo caso la procedura è tutta interna al movimento e riservata ai soli iscritti. Per un approfondimento della questione si rinvia a E. VIGILANTI, Prove tecniche di recall: la revoca del mandato “intramovimento” (il caso, non riuscito, del M5S), in Forum di Quaderni costituzionali, 2014. In tema di recall, v. L. CARLASSARE, Problemi attuali della rappresentanza politica, in N. ZANON, F. BIONDI (a cura di), Percorsi e vicende attuali della rappresentanza e della responsabilità politica, Milano, 2001, 42 ss. 4 “Il deputato sarà ritenuto gravemente inadempiente laddove, secondo il principio della democrazia diretta, detto “recall”, già applicato negli Stati Uniti: i) almeno 500 iscritti al MoVimento 5 Stelle alla data del 31/12/2012 residenti nella circoscrizione nella quale il deputato è stato eletto abbiano motivatamente proposto di dichiararlo gravemente inadempiente; ii) la proposta sia stata approvata mediante votazione in rete a maggioranza dagli iscritti al MoVimento 5 Stelle al 30/6/2013 residenti nella circoscrizione nella quale il deputato è stato eletto”. 5 Art. 9, lett. b) del Codice di comportamento. 6 Art. 10 del Codice di comportamento
5 federalismi.it - ISSN 1826-3534 |n. 13/2018
Il richiamo a vincoli di carattere giuridico e non soltanto etico al rispetto del codice, la necessaria
sottoscrizione formale di tali regole richiesta ai candidati e la sanzione pecuniaria in caso di inadempienza7
che va ben oltre le sanzioni politiche come la non-ricandidatura, contengono profili di sostanziale
illegittimità rispetto all’art. 67 Cost. relativo all’esercizio del libero mandato parlamentare ed alla lettura
che di esso ha dato la Corte costituzionale8. Va precisato che le disposizioni contenute nei codici di
comportamento richiamati non sono riferite alla carica di parlamentare italiano e, quindi, non rientrano
formalmente nella disciplina dell’art. 67 Cost. Tuttavia, esse sono comunque in contrasto con le
disposizioni previste dall’Unione europea che tutelano il libero mandato dei parlamentari europei9 e con
il regolamento del consiglio comunale capitolino, anch’esso chiaro nello stabilire il divieto di mandato
imperativo10.
La questione del “contratto” previsto dal codice di comportamento per gli eletti al Comune di Roma è
stata peraltro sottoposta al Tribunale di Roma. Un elettore romano ha presentato ricorso popolare
impugnando l’elezione del Sindaco Virginia Raggi e chiedendo di verificarne le condizioni di ineleggibilità
a causa del contratto firmato con il M5S, nonché di dichiarare la nullità di tale contratto per violazione
degli artt. 3, 67 e 97 Cost. Con una ordinanza del gennaio 201711, il giudice di Roma ha seguito un percorso
lineare anche alla luce della debolezza dell’impianto con cui gli era stata sottoposta la questione. È stata
rigettata la domanda diretta ad ottenere la dichiarazione di ineleggibilità del Sindaco poiché la sussistenza
del suo rapporto contrattuale con il M5S non sarebbe potuta rientrare tra le cause di ineleggibilità che
sono tassativamente previste dalla legge e che, pertanto, non consentirebbero interpretazioni estensive12.
In relazione alla questione della nullità del Codice di comportamento, il giudice ha ritenuto di non doversi
pronunciare. La domanda di nullità è stata dichiarata inammissibile poiché il ricorrente, estraneo al M5S
e non sottoscrittore dell’accordo, non era ritenuto portatore di un concreto interesse ad agire e non aveva
comunque assolto all’onere di allegare alla domanda la dimostrazione che quel Codice arrecasse
7 Un atto di impegno forse inquadrabile nello schema delle promesse unilaterali disciplinate dall’art. 1987 c.c. e più specificamente delle promesse di pagamento di cui all’art. 1988 c.c. secondo E. VIGILANTI, Prove tecniche di recall: la revoca del mandato “intramovimento” (il caso, non riuscito, del M5S), cit. 8 Ci si riferisce alla nota sent. n. 14/1964 con cui la Corte costituzionale ha evidenziato che «il divieto di mandato imperativo importa che il parlamentare è libero di votare secondo gli indirizzi del suo partito, ma è anche libero di discostarsene; nessuna norma potrebbe legittimamente disporre che derivino conseguenze a carico del parlamentare per il fatto che egli abbia votato contro le direttive del partito». 9 Cfr. art. 2 del regolamento del Parlamento europeo; art. 2 e art. 3 dello statuto dei deputati al Parlamento europeo; art. 6 dell’Atto relativo all’elezione dei membri del Parlamento europeo a suffragio universale diretto del 1976. 10 Art. 3 del regolamento del Consiglio comunale di Roma. 11 Tribunale Ordinario di Roma, Prima sezione civile, ordinanza n. 779 del 17 gennaio 2017, RG n. 53473/2016. Per un commento all’ordinanza alla luce delle questioni sollevate dal Codice di comportamento del M5S, v. A. PESCARELLI, Profili costituzionali del Codice di comportamento M5S per Roma Capitale. Un breve commento a partire da Trib. Civ. Roma ord. n. 779 del 17.01.2017., in Osservatorio Costituzionale, fasc. 2, 2017. 12 E, in particolare, dall’art. 60 del d.lgs. n. 267/2000.
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un’incidenza negativa alla sua sfera giuridica. La pronuncia del giudice sulla questione è stata, poi, ritenuta
ultronea alla luce del rigetto della domanda principale relativa all’ineleggibilità13.
Del resto, la nullità di questi accordi appare piuttosto evidente data la loro natura privatistica che
comporta la nullità di un contratto contrario a norme imperative per l’illiceità della causa ex art. 1343
c.c.14. La mancanza di efficacia giuridica di queste clausole renderebbe, peraltro, priva di fondamento la
legittimazione ad agire in giudizio per la riscossione della sanzione pecuniaria15.
Il contenuto della disposizione dello Statuto del Gruppo parlamentare Movimento 5 Stelle alla Camera
dei Deputati approvato di recente si pone dunque in continuità rispetto alle scelte adottate negli ultimi
anni dal M5S. L’art. 21, comma 5, in base al quale «il deputato che abbandona il gruppo parlamentare a
causa di espulsione ovvero abbandono volontario ovvero dimissioni determinate da dissenso politico sarà
obbligato a pagare, a titolo di penale, al Movimento 5 stelle (…)la somma di euro 100000» rappresenta in
un certo senso la logica conseguenza dell’indirizzo da ultimo fornito dal nuovo Codice etico del
MoVimento 5 Stelle approvato nel Dicembre 2017 in vista delle elezioni politiche del 4 Marzo. L’art. 5
del Codice prevede infatti alcuni «obblighi specifici» per i parlamentari italiani ed europei e per i consiglieri
regionali eletti sotto il simbolo del M5S tra i quali rientra l’obbligo di versare al M5S la somma di euro
100000 in caso di espulsione, abbandono del gruppo, dimissioni anticipate non determinate da gravi
ragioni personali. La sanzione pecuniaria viene in questo caso considerata dall’art. 5 come una forma di
«indennizzo per gli oneri relativi all’attività politica e alla campagna elettorale a carico del M5S». Va
peraltro evidenziato che nel nuovo Codice etico, all’art. 3, sono indicati ulteriori vincoli per gli eletti del
M5S quali, ad esempio, l’obbligo di dimissione dalla carica elettiva in caso di espulsione dal movimento
13 Inoltre, secondo il giudice, poiché la domanda di in eleggibilità, nella prospettazione del ricorrente, aveva il suo presupposto nella nullità del patto sottoscritto da Virginia Raggi, il rigetto della domanda principale rendeva ultronea la pronuncia sulla domanda di nullità dell’accordo in questione non essendo la pronuncia richiesta in ogni caso rilevante ai fini della decisione della lite. 14 Come prescrive lo Statuto dei deputati europei: “Eventuali dichiarazioni con cui i deputati assumono l’impegno di cessare il mandato a un determinato momento oppure dichiarazioni in bianco per le dimissioni dal mandato, che un partito possa utilizzare a sua discrezione, sono incompatibili con la libertà e l’indipendenza dei deputati e pertanto non possono avere alcun valore giuridico vincolante” (punto 22). 15 Cfr. R. BIN, Ma mi faccia il piacere! La “multa” del M5S ai “ribelli”, in Lacostituzione.info, 2017. Come evidenzia N. ZANON, Il divieto di mandato imperativo e la rappresentanza nazionale: autopsia di due concetti, in N. ZANON, F. BIONDI (a cura di), Percorsi e vicende attuali della rappresentanza e della responsabilità politica, cit. 138, esiste un potere privato di conformazione del rapporto di rappresentanza politica che ammette in via di fatto di stipulare patti e accordi e far valere vincoli di fedeltà, ma vincoli e accordi di questo tipo non possiedono alcuna garanzia giuridica e non sono azionabili in sede giudiziaria. Sull’inconfigurabilità di vincoli giuridici veri e propri nei confronti del parlamentare alla luce dell’art. 67 Cost si vedano, inoltre, le osservazioni di E. GIANFRANCESCO, Triepel ed i partiti politici: ieri, oggi, domani, in E. GIANFRANCESCO, G. GRASSO (a cura di), H. Triepel - La Costituzione dello Stato e i partiti politici, Napoli, 2015, 34 ss.
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e l’obbligo di votare in ogni circostanza la fiducia a governi presieduti da un Presidente del Consiglio
«espressione del M5S».
Si tratta, evidentemente, di un insieme di disposizioni in aperto contrasto rispetto al contenuto dell’art.
67 Cost. relativamente all’esercizio del libero mandato parlamentare.
La questione della richiamata disposizione statutaria del Gruppo parlamentare si pone pertanto in termini
non dissimili da quanto rilevato in precedenza riguardo ai codici di comportamento per gli eletti alla carica
di parlamentare europeo e al Comune di Roma. Si tratta di una norma che non può essere considerata
giuridicamente vincolante e che, comunque, non è compatibile con l’art. 67 Cost.
2. La necessità di recuperare un rapporto virtuoso tra art 67 e art. 49 Cost.
Il contenuto dei codici di comportamento del M5S e, da ultimo, dello Statuto del Gruppo parlamentare
del movimento inducono a svolgere alcune considerazioni che, si ritiene, debbano essere condotte non
soltanto in relazione al principio del divieto di mandato imperativo, quanto, piuttosto, alla luce del
rapporto tra l’art. 67 e l’art. 49 Cost. in riferimento alle attuali dinamiche della rappresentanza politica.
Da molto tempo e, in particolare, negli ultimi anni, il dilagante fenomeno del trasformismo parlamentare
ha contribuito ad accentuare il distacco tra politica e società civile e ad indebolire ulteriormente il
funzionamento della democrazia rappresentativa. Non si possono sottovalutare le evidenti criticità che
derivano, anche sul piano costituzionale, dagli eccessi di irresponsabilità degli eletti nei confronti degli
elettori. Sotto questo profilo, l’introduzione di forme di controllo del mandato parlamentare che
avvengano, però, nel rispetto del contenuto dell’art. 67 Cost., non appare, di per sé, da escludere a priori.
Per perseguire questo obiettivo la strada più corretta dovrebbe condurre all’intervento sui regolamenti
parlamentari al fine di scoraggiare il passaggio da un gruppo parlamentare ad un altro e la creazione di
nuovi gruppi che hanno caratterizzato l’ultimo ventennio. Sino ad oggi, invece, le norme regolamentari
in vigore hanno finito per assecondare, se non incoraggiare, la formazione di nuovi gruppi ai quali sono
stati garantiti una serie di privilegi e incentivi finanziari16. In questo senso, va dunque valutata
positivamente la riforma del regolamento parlamentare del Senato approvata di recente al termine della
XVII Legislatura e finalizzata a disincentivare la frammentazione e il trasformismo parlamentare. Riforma
che, però, necessita di essere accompagnata quanto prima da una revisione del regolamento della Camera
dei Deputati che vada nella stessa direzione.
Del resto, appare condivisibile l’impostazione secondo cui l’art 67 Cost. non vada letto né in un’ottica
ideologica di impianto liberale ottocentesco che finisca per mettere eccessivamente in secondo piano il
16 Cfr. R. BIN, Ma mi faccia il piacere! La “multa” del M5S ai “ribelli”, cit.
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principio della sovranità popolare, né in un’ottica di tipo plebiscitario che sia «schiacciata sulla dimensione
purificatrice della volontà popolare»17. La tensione dinamica esistente tra l’art. 67 Cost. ed il ruolo
essenziale dei partiti nella loro funzione rappresentativa riconosciuto dall’art. 49 Cost.18 non può dar
luogo a scorciatoie che comprimano la portata dell’una o dell’altra norma costituzionale. Entrambe sono
funzionali al modello di democrazia rappresentativa delineato dalla Costituzione italiana: non è
ammissibile un’interpretazione dell’art. 67 che porti a disconoscere il ruolo dei partiti nella rappresentanza
politica e ad eliminare ogni tipo di rapporto tra eletto ed elettore; non è neppure ammissibile una forzatura
dell’art. 49 che riduca parlamentari ed eletti a meri esecutori di una non ben definita volontà popolare
vincolati da mandati imperativi.
Indubbiamente, un esercizio troppo “disinvolto” e poco responsabile della libertà di mandato può dar
luogo ad evidenti criticità sul piano politico-costituzionale, tanto più nell’attuale contesto di crisi della
rappresentanza politica. La risposta a questi problemi, però, non può certamente essere individuata
nell’adozione di atti di natura privatistica che pretendano di imbrigliare l’attività politica degli eletti anche
mediante sanzioni di carattere pecuniario.
Vi è poi un secondo problema che lega la questione sottesa all’art. 67 Cost. all’art. 49 Cost. e al rispetto
del metodo democratico all’interno dei partiti, in un contesto in cui l’impianto verticistico e “leaderistico”
dei modelli organizzativi dei partiti è andato sensibilmente accentuandosi negli ultimi decenni.
L’impostazione dei codici di comportamento del M5S e dello Statuto del Gruppo parlamentare appare
chiaramente legata alla volontà di garantire un controllo perenne ed esteso da parte della leadership del
movimento nei confronti degli eletti e di rimuovere in qualsiasi momento dal proprio incarico
rappresentanti divenuti “sgraditi” in caso di contrasti sulla linea politica decisa dai vertici. Oltre all’impatto
negativo all’”esterno” che questo schema comporta per quanto riguarda la possibilità che gli eletti
esercitino le proprie funzioni negli interessi della Nazione senza condizionamenti sulla base del libero
17 Cfr. C. DE FIORES, Da rappresentanti della nazione a rappresentanti dei gruppi parlamentari, in www.gruppodipisa.it, 2016. 18 Una relazione, quella fra l’art. 49 e l’art. 67 che, come rilevava V. CRISAFULLI, Partiti, Parlamento, Governo in Stato, Popolo e Governo, Milano, 1985, 213, conferma l’impianto democratico basato sul modello di democrazia rappresentativa delineato dalla Costituzione italiana. Si veda sul punto anche P. RIDOLA, Divieto di mandato imperativo e pluralismo politico, in Studi in onore di Vezio Crisafulli, II, Padova, 1995, 696. Il tema del rapporto, non di facile lettura, tra l’art. 49 Cost. e l’art. 67 Cost., e quindi del rapporto tra partiti politici, rappresentanza politica e divieto di mandato imperativo è stato da tempo approfondito in dottrina. Si veda, sul punto, N. ZANON, Il libero mandato parlamentare. Saggio critico sull’art. 67 della Costituzione, Milano, 1991: P. RIDOLA, La rappresentanza parlamentare tra unità politica e pluralismo, in Studi in onore di Manlio Mazziotti di Celso, Padova, 1995; G. AZZARITI, Cittadini, partiti e gruppi parlamentari: esiste ancora il divieto di mandato imperativo?, in Costituzionalismo.it, 2008; S. CURRERI, Democrazia e rappresentanza politica. Dal divieto di mandato al mandato di partito, Firenze, 2004.
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mandato parlamentare, esso produce una ricaduta negativa anche all’interno del movimento politico
poiché ne accentua la struttura verticistica e poco democratica19.
Nella sostanza, uno “svuotamento” dell’art. 67 Cost. in relazione all’esercizio del libero mandato
parlamentare (eventualmente portato all’estremo dell’introduzione di un vincolo di mandato) e, in
parallelo, un “irrigidimento” dell’art. 49 Cost. generato da organizzazioni fortemente verticistiche dei
partiti che comprimono eccessivamente i livelli di democraticità interna, finiscono per produrre, insieme,
degli effetti assai peggiori rispetto ad alcune delle attuali degenerazioni della politica come il trasformismo
parlamentare giustificate in nome dell’esercizio del libero mandato.
Inoltre, è opportuno evidenziare il nesso esistente tra la questione delle modalità con cui vengono
selezionate le candidature, tema centrale in relazione ai requisiti di democraticità interna dei partiti, e
l’esercizio del libero mandato parlamentare. L’introduzione di procedure effettivamente democratiche e
aperte alla partecipazione dal basso degli elettori per la selezione delle candidature alla carica di
parlamentare20, unite all’adozione di una legge elettorale che consenta un soddisfacente collegamento tra
eletto ed elettore, potrebbero forse ridurre gli attriti attualmente esistenti tra rappresentanti e
rappresentati anche per quanto riguarda l’esercizio del libero mandato, in ragione di un riavvicinamento
tra i soggetti della rappresentanza.
In ogni caso, le questioni delicate che possono presentarsi alla luce di interpretazioni “distorsive” del
principio del libero mandato, letto anche in connessione con la dimensione costituzionale dei partiti alla
luce dell’art. 49 Cost., non possono essere affrontate proponendo di eliminare dall’ordinamento il divieto
di mandato imperativo e adottando clausole e accordi di natura privatistica come quelli contenuti nei
Codici di comportamento e nello Statuto del Gruppo parlamentare del M5S.
3. Una nuova centralità dell’art. 49 Cost. come forma di tutela dell’art. 67 Cost. e della democrazia
rappresentativa
Le considerazioni che sono state presentate in maniera sintetica in questa sede portano a ritenere
inopportuna una modifica dell’art. 67 Cost. volta ad introdurre vincoli di mandato. Appare, invece,
opportuno e necessario concentrarsi su altri interventi. In primis, occorre recuperare e rafforzare la
dimensione puramente rappresentativa dell’art. 67 per quanto riguarda il rapporto tra eletto ed elettore.
19 Sulle attuali problematiche relative all’organizzazione dei partiti in relazione al rispetto del “metodo democratico” al loro interno sia consentito rinviare a F. SCUTO, La democrazia interna dei partiti: profili costituzionali di una transizione, Giappichelli, Torino, 2017. 20 Sino all’adozione di norme di legge su primarie non obbligatorie e magari “incentivate” mediante forme di finanziamento pubblico, questione su cui si rinvia a F. SCUTO, La democrazia interna dei partiti, cit., 196 ss.
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La recente giurisprudenza costituzionale in materia elettorale sembra aver fornito alcune conferme in tal
senso. Nella nota sentenza n. 1/2014, con cui è stata dichiarata la parziale incostituzionalità della legge
elettorale n. 270 del 2005 (c.d. legge Calderoli), la Corte costituzionale ha messo in risalto il rapporto tra
eletto ed elettore per tutelare la libertà e l’eguaglianza del voto e la rappresentanza politica. L’art. 48 Cost.
e l’art. 67 Cost. sono stati utilizzati come parametro per dichiarare l’incostituzionalità del premio di
maggioranza così come disciplinato da quella legge21 e delle disposizioni sulle liste “bloccate lunghe”.
Queste ultime, a giudizio della Corte, ostano alla realizzazione di un rapporto eletto-elettore che consenta
una consapevole realizzazione della rappresentanza politica. La disposizione relativa alle liste “bloccate
lunghe” era l’espressione di un forte potere garantito da quel sistema elettorale ai partiti politici e, in
particolare, alle leadership dei partiti nell’attività di selezione delle candidature. Vista da questo punto di
vista, la sentenza ha dunque contribuito a ridimensionare parzialmente, più che il ruolo dei partiti nel
procedimento elettorale alla luce dell’art. 49 Cost., una posizione di forza oggettivamente eccessiva dei
leader dei partiti che incideva negativamente sul corretto funzionamento della rappresentanza politica di
cui all’art. 67 Cost. Nella sostanza, la Corte ha dichiarato l’illegittimità della disciplina elettorale che
consentiva un arbitrio pressoché assoluto alle oligarchie di partito nella composizione delle liste elettorali.
Sotto questo profilo, lo sviluppo di una disciplina pubblicistica sull’organizzazione dei partiti e sulla loro
democrazia interna, in questo caso per quanto riguarda la selezione delle candidature, potrebbe essere
uno degli elementi che contribuiscono, oltre, ovviamente, alle regole elettorali, ad un più corretto
funzionamento della rappresentanza ex art. 67 Cost. nel rapporto eletto-elettore.
Una delle chiavi per recuperare l’essenza dell’art. 67 nell’ambito del modello di democrazia
rappresentativa delineato dalla Costituzione italiana ed attenuare alcune criticità legate ad un utilizzo
“disinvolto” del libero mandato sembra dunque risiedere nello sviluppo di un rapporto virtuoso tra art.
67 e art. 49 il cui elemento imprescindibile appare, oltre alla tutela del libero mandato, l’effettiva
applicazione della norma costituzionale relativa ai partiti politici.
In questo contesto, l’art 49 Cost., che individua nella partecipazione alla politica dei cittadini un diritto
fondamentale di questi ultimi di associarsi in partiti per concorrere con metodo democratico a
determinare la politica nazionale, va dunque interpretato come una disposizione costituzionale finalizzata
a dar vita ad un modello di partecipazione tendenzialmente “dal basso”, sulla base di una logica di tipo
“bottom-up”. Da questa impostazione deriva l’esigenza naturale di implementare il metodo democratico
all’interno dei partiti, al fine di impedire lo sviluppo di organizzazioni politiche troppo verticistiche e
oligarchiche che si allontanano dal modello dell’art. 49.
21 Premio che veniva assegnato automaticamente alla lista o coalizione di maggioranza relativa dei voti senza che fosse necessario il raggiungimento di una soglia minima di voti da parte di quella stessa lista o coalizione.
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Questa impostazione, peraltro, viene rafforzata se si ricollega l’art. 49 Cost. ai principi fondamentali della
Costituzione. L’attività dei cittadini all’interno dei partiti – per concorrere a determinare la politica
nazionale – è certamente una delle forme di esercizio del principio della sovranità popolare espresso
dall’art. 1 Cost. È anche un diritto fondamentale che si concretizza nella partecipazione all’interno di una
delle formazioni sociali – il partito politico, in questo caso – ove l’individuo possa svolgere la sua
personalità di cui parla l’art. 2 Cost. L’art. 49, inoltre, è strettamente collegato al principio di eguaglianza
sostanziale affermato dall’art. 3, secondo comma, Cost., poiché rappresenta lo strumento attraverso il
quale lo sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica del Paese si
può concretizzare22.
Allo stato attuale, pertanto, non appare più possibile considerare i partiti soltanto come associazioni
private e il metodo democratico come proiezione solo esterna della loro azione. Ed anzi, questa
interpretazione riduttiva della dimensione pubblica dei partiti, legata in Italia ad un contesto storico e
politico da tempo superato, ha probabilmente finito per accentuare la disaffezione e il calo di fiducia dei
cittadini nei confronti dei partiti e, più in generale, delle istituzioni .
È anche alla luce di queste considerazioni che appare opportuno un intervento legislativo in materia. Il
legislatore può e deve avere un ruolo per contribuire a colmare l’ampia distanza esistente tra il modello
prefigurato dall’art. 49 Cost. e la realtà organizzativa della maggioranza dei partiti e movimenti politici
italiani. Sotto questo profilo, le evoluzioni della passata legislatura che hanno portato ai primi interventi
sull’organizzazione dei partiti contenuti nella legge n. 13 del 2014 sono ancora insoddisfacenti23. Del resto,
in considerazione dello stretto legame esistente tra partiti e gruppi parlamentari, non è ovviamente casuale
che forze politiche non democratiche al loro interno diano luogo in Parlamento a gruppi parlamentari
egualmente poco democratici che tentano di comprimere con vari mezzi l’esercizio del libero mandato
parlamentare da parte dell’eletto.
La soluzione di alcune delle problematiche riconducibili alla questione della democrazia nei partiti non
rappresenterebbe certamente la panacea di tutti i mali e, da sola, non potrebbe risollevare le sorti della
democrazia rappresentativa24. Al tempo stesso, però, una buona legge potrebbe generare alcuni effetti
22 Rileva, a riguardo, M. LUCIANI, Sul partito politico, oggi, in Dem. dir., n. 3-4, 2010, 165, che in particolare per le classi sociali meno abbienti e/o escluse dal circuito della produzione culturale, il partito è inteso, nella Costituzione, come il grimaldello per scardinare gli ostacoli individuati dallo stesso art. 3, comma 2, sul percorso che conduce dall’astratta proclamazione dell’eguaglianza alla concreta realizzazione di una parità di opportunità: dall’eguaglianza formale a quella sostanziale. 23 Per un approfondimento di questi aspetti si rinvia nuovamente a F. SCUTO, La democrazia interna dei partiti, cit., 100 ss. 24 Per una riflessione sulle possibili evoluzioni alla luce della crisi della democrazia rappresentativa si veda P. BILANCIA, Crisi nella democrazia rappresentativa e aperture a nuove istanze di partecipazione democratica, in Federalismi.it, n. spec. 1, 2017. Come sottolinea l’A., lo sviluppo completo della democrazia in un ordinamento statale non si basa
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benefici sul sistema dei partiti, soprattutto se fosse indirizzata a renderli più aperti all’esterno
disciplinandone il funzionamento nell’ottica di un miglioramento del livello di democraticità interna. Si
tratterebbe di un’evoluzione che, come si accennava in precedenza, potrebbe influire positivamente sulle
dinamiche della rappresentanza nel rapporto tra eletto ed elettore delineato dall’art. 67 Cost.
Lo sviluppo della democraticità interna dei partiti dovrebbe auspicabilmente essere parte di un intervento
più ampio finalizzato a rinvigorire la democrazia rappresentativa e rilanciare la partecipazione
democratica con nuove forme inclusive che incentivino il confronto pubblico dal basso e la
partecipazione popolare. In quest’ottica, l’approvazione di una legge sui partiti equilibrata ma anche
rigorosa può essere considerata come una forma di tutela della democrazia rappresentativa. Se si
riconosce, come appare opportuno, che rinnovare il modello di democrazia rappresentativa con elementi
di democrazia deliberativa e nuove forme di partecipazione allargata non deve comunque aprire la strada
a scenari orientati al superamento della rappresentanza politica: le spinte in questa direzione tendono
infatti a basarsi, dietro ai richiami alla funzione salvifica della volontà popolare, su impostazioni di tipo
plebiscitario. Del resto, l’adozione di nuovi strumenti che favoriscano la partecipazione popolare non è
certo incompatibile con il sistema rappresentativo25. Al tempo stesso, è però evidente che il superamento
dell’art. 67 Cost. mediante l’introduzione del vincolo di mandato inciderebbe pesantemente sulla tenuta
del modello di democrazia rappresentativa delineato dalla Costituzione italiana.
Gli attuali rischi di “sistema” sembrano richiedere, oggi più di ieri, una particolare attenzione. I populismi,
gli eccessi di leaderismo ed i partiti personali, gli attacchi alla democrazia rappresentativa si rispecchiano
in un sistema dei partiti che, nel suo insieme, ha dato vita a forze politiche assai poco democratiche al
loro interno. Partiti che risultano, oggi, meno democratici se paragonati all’esperienza dei partiti di massa
delle prime fasi della storia repubblicana che colmavano i deficit di democraticità interna con una capacità
di rappresentare la società italiana neppure lontanamente paragonabile rispetto a quella delle attuali forze
politiche. L’adozione di norme interne come quella contenuta nello Statuto del Gruppo parlamentare del
M5S possono essere considerate come la logica conseguenza di questo percorso involutivo.
solo sulla rappresentanza politica o sull’attuazione degli istituti tradizionali di democrazia diretta, ma si realizza anche attraverso la partecipazione dei cittadini alle decisioni che li riguardano e negli spazi in cui possono esercitare questi diritti. 25 Cfr. P. BILANCIA, Crisi nella democrazia rappresentativa e aperture a nuove istanze di partecipazione democratica, cit. Sull’applicazione delle pratiche della democrazia deliberativa anche alle istituzioni della democrazia rappresentativa v. R. BIFULCO, Democrazia deliberativa e principio di realtà, in Federalismi.it, n. spec. 1, 2017. Sul binomio tra rappresentanza e democrazia diretta nel quadro costituzionale italiano, in particolare alla luce delle più recenti evoluzioni, v. E. CASTORINA, Democrazia diretta e democrazia rappresentativa in Italia: crisi dei tradizionali istituti di partecipazione politica e riforme mancate, in Federalismi.it, n. spec. 1, 2017.
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Per queste ragioni appare opportuno e forse persino necessario, oggi, riconoscere una nuova centralità
all’art. 49 Cost. nel sistema rappresentativo, anche nell’ottica di preservare e tutelare la rappresentanza
politica e l’art. 67 Cost., dando completa attuazione a questa essenziale norma costituzionale dopo
decenni di attesa, in particolare per quanto riguarda l’effettiva partecipazione dei cittadini alla politica26.
È un percorso che vale la pena di perseguire poiché ancora oggi i partiti e i movimenti politici sono un
elemento fondamentale della democrazia e, non a caso, la loro crisi ha contribuito ad indebolire e sfibrare
ulteriormente il modello di democrazia rappresentativa delineato dalla Costituzione.
26 Come osserva M. LUCIANI, Sul partito politico, oggi, cit., 168, i partiti politici possono ancora giocare il ruolo loro assegnato dall’art. 49 Cost. e «la democrazia compatibile con il modello di trasformazione sociale disegnato dall’art. 3, comma 2, Cost., non può essere quella in cui ogni chance di determinare, davvero, la politica nazionale è cancellata e la partecipazione alla politica si riduce, schmittianamente, all’acclamazione di un leader, nazionale, regionale o locale che sia». Sul punto, come evidenzia l’A., funziona il richiamo al dover essere che non è scelto sulla base di inclinazioni personali, ma è definito ed indicato direttamente dalla Costituzione.
di Nicolò Zanon
Giudice della Corte costituzionale
La “Rinascita” dell’articolo 67 della Costituzione e i censori delle parole
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La “Rinascita” dell’articolo 67 della Costituzione e i censori delle parole*
di Nicolò Zanon
Giudice della Corte costituzionale
Riflettevo ultimamente sulle giuste costrizioni che impediscono (o dovrebbero impedire: sono note prassi
discordanti) ad un giudice costituzionale in carica di pronunciarsi pubblicamente su questioni giuridiche
ed istituzionali cruciali e discusse nell’attualità. E pensavo, per contro, con rimpianto ed un poco d’invidia,
alla condizione dello studioso, che di ogni questione può scrivere in libertà, con ampiezza di giudizio.
Mi capitava di fare questi pensieri in relazione alla meritoria iniziativa, assunta da un deputato, di chiamare
vari costituzionalisti a riflettere sul destino del libero mandato parlamentare, al cospetto di regole
statutarie deliberate da un gruppo parlamentare, che parrebbero porsi in una qualche tensione con quel
principio.
Mi sarebbe piaciuto partecipare all’iniziativa (avevo ricevuto l’invito), ma non potevo farlo, per ovvie
ragioni. Così, ancora un poco recriminando sui vincoli derivanti dalla mia attuale condizione, mi sono
dedicato alla lettura degli scritti presentati dagli studiosi che a quell’iniziativa hanno aderito, altrettanto
meritoriamente pubblicati da Federalismi.
Al tema del libero mandato sono del resto affezionato, culturalmente e personalmente, anche perché mi
ricorda anni lontani, quelli della mia giovinezza (sottolineo la parola, per le ragioni che dirò), quando si
studiava e basta, e non c’era altro cui pensare, e si credeva che tutto ruotasse intorno alle nostre ricerche,
e si era così ingenui da credere che le sorti del mondo dipendessero da queste. Beata ingenuità della
giovinezza (ri-sottolineo la parola)…
Non ho potuto tuttavia cullarmi a lungo in dolci ricordi, perché mi sono imbattuto, sempre nell’antologia
di Federalismi, nello scritto di Gianluca Conti (Sfera pubblica e sfera privata della rappresentanza. La giustiziabilità
dell’art. 67 Cost. nella sua attuazione da parte dello statuto di un gruppo parlamentare, in Federalismi, n. 13/2018).
L’Autore mi dedica alcune righe davvero sorprendenti, leggendo le quali mi sono definitivamente, e
bruscamente, risvegliato da nostalgie melanconiche.
Il Collega ricorda e cita (p. 3 dello scritto citato, anche alle note 3 e 4) un mio scrittarello del 2014,
intitolato “La seconda giovinezza dell’articolo 67 della Costituzione” (credo peraltro che ne abbia letto solo il
* Riceviamo e volentieri pubblichiamo.
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titolo, come testimonia un’ulteriore citazione - nota 12 di p. 6 - nella quale sostiene che mi sarei occupato,
in quell’articoletto, di Burke, ciò che invece non è).
In tale scritto, osservavo il recente ricorso della Corte costituzionale al parametro di cui all’art. 67 Cost.
per risolvere questioni di legittimità costituzionale: cosa invero inusuale, che mi aveva indotto a ragionare
di una sua “seconda giovinezza”.
Ma quel breve scritto accennava soprattutto ad alcune sfide lanciate, proprio dalla cultura politica
“grillina”, alla concezione tradizionale della democrazia rappresentativa: un tema, credo, rilevante nel
simposio organizzato dal deputato. Eppure, il Collega ignora del tutto questo aspetto, e si concentra
unicamente sul titolo dello scritto, e sulla parola che in esso lo ha evidentemente colpito: “giovinezza”.
Scrive il Collega (e si percepisce che freme di sdegno): «si è detto, con una parola che un po’ disturba,
che l’art. 67 Cost. sta conoscendo una seconda “giovinezza”». Per spiegare e suggellare l’indignazione che
l’utilizzo di questa parola dovrebbe suscitare, appresta la seguente nota al testo: «Giovinezza era la
canzone che la Camera dei deputati usava nel periodo fascista, fra l’altro, per approvare una mozione
professando entusiasmo» (segue dotta citazione di uno storico che attesta il fatto).
Inizialmente tutto contento di leggere contributi sull’art. 67 della Costituzione, sono rimasto basito.
La prima reazione, a caldo, è stata un sorriso un poco incredulo: che gli è preso, al Collega, per imbarcarsi
in una così cervellotica accusa?
Poi, però, mi sono preoccupato, sono nati sensi di colpa, ed è scattata la ricerca degli argomenti a difesa.
Ho così pensato agli usi correnti dell’espressione “vivere una seconda giovinezza”; poi, ho cercato di
ricordare l’utilizzo colto dell’espressione, ad esempio nella storia letteraria (mi è venuto in mente, ma è
banale, “quant’è bella giovinezza, che si perde tuttavia” ecc.). Ho persino scoperto, andando su Google,
che Giorgio Benvenuto, non propriamente una camicia nera, ha scritto un libro intitolato “La seconda
giovinezza”…
Ma non riuscivo a darmi pace, perché il tarlo del dubbio ormai aveva minato le mie certezze. Sarò incorso
in apologia di fascismo? Per un giudice costituzionale in carica sarebbe grave.
Alla fine, sempre più pervaso dai sensi di colpa, ho pensato che, col capo cosparso di cenere, avrei dovuto
chiedere all’editore della rivista di modificare (retroattivamente: si potrà fare?) il titolo dell’articoletto. E
mi è in particolare venuto in mente che, forse, avrei potuto proporre di sostituire “La seconda giovinezza
dell’art. 67 Cost.” con “La Rinascita dell’art. 67 Cost.” (forse la parola Rinascita ha più accettabili
assonanze…).
Scherzi a parte. Vi sono cose sulle quali sorridere e cose invece assai serie. Gli attacchi proditori, e
francamente immotivati, sono cose serie.
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Soprattutto, vorrei dire, in un contesto istituzionale non facile e gravido di rischi, c’è bisogno di idee e
serietà. Non è facendo i censori delle parole che si difende il destino dell’art. 67 Cost. e della democrazia
rappresentativa.
Temo però che se questo impegno è svolto da questi difensori, con questi argomenti, il destino dell’art,
67 sia segnato