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Gli Statuti dei gruppi parlamentari alla prova dell ... · previsione dello statuto del gruppo...

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di Riccardo Magi Deputato di +Europa e Segretario di Radicali Italiani Gli Statuti dei gruppi parlamentari alla prova dell'articolo 67 della Costituzione 13 GIUGNO 2018
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di Riccardo Magi

Deputato di +Europa e Segretario di Radicali Italiani

Gli Statuti dei gruppi parlamentari alla prova dell'articolo 67 della

Costituzione

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2 federalismi.it - ISSN 1826-3534 |n. 13/2018

Gli Statuti dei gruppi parlamentari alla prova dell'articolo 67 della Costituzione *

di Riccardo Magi

Deputato di +Europa e Segretario di Radicali Italiani

I contributi ospitati da questo numero di Federalismi riprendono e sviluppano la discussione che si è

tenuta il 16 maggio scorso in occasione della tavola rotonda da me promossa alla Camera dei Deputati

dal titolo “Gli Statuti dei gruppi parlamentari alla prova dell'articolo 67 della Costituzione”.

L’iniziativa nasce dalla lettera che ho mandato al Presidente della Camera (cui hanno aderito anche i

deputati Ascani, Borghi, Ceccanti, Gribaudo, Pini, Tabacci e Zardini) perché si esprimesse sulla

previsione dello statuto del gruppo Movimento 5 stelle della Camera (analoga a quella del Senato), che

sanziona con una penale di 100 mila euro quei parlamentari che abbandonino il gruppo parlamentare a

causa di espulsione ovvero abbandono volontario. Tale previsione, che vincola ogni singolo deputato

aderente al gruppo, è a mio avviso chiaramente contrastante con l’articolo 67 della Costituzione, e nella

lettera ho tentato di elencare alcune ragioni che dovrebbero spingere il Presidente motu proprio ad

intervenire, nel momento in cui l'istituzione parlamentare, presso cui è depositato il regolamento del

gruppo, è formalmente a conoscenza della suddetta norma. Simile iniziativa, anche su altre questioni

problematiche che lo Statuto pone, è stata intrapresa dall’on. Stefano Ceccanti.

Nella sua risposta il Presidente Fico si è trincerato dietro il difetto di uno specifico potere di controllo

sugli statuti dei gruppi, evitando di entrare nel merito dei punti sollevati. Poiché tale questione, ad avviso

mio e del collega Ceccanti, ben rientrerebbe nella competenza del Presidente, con una successiva lettera

l’abbiamo invitato quanto meno a sottoporla in via prioritaria alla Giunta per il Regolamento affinché

essa possa pronunciarsi su quella che al momento appare essere una inaccettabile zona grigia rispetto alla

legalità costituzionale e regolamentare e affinché i principi costituzionali vigenti vengano rispettati in

primis nel Parlamento, cuore della nostra democrazia.

Prima che giungesse la risposta del Presidente Fico avevo ritenuto utile condividere la mia lettera con

tutti i membri dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti; sorprendente per me è stato il numero e la

qualità delle riflessioni pervenute su molteplici e diversificati profili di interesse. Ritengo particolarmente

importante il contributo che la dottrina può offrire su temi - come quello del rapporto tra gli Statuti dei

* Presentazione degli interventi alla Tavola rotonda “Gli statuti dei gruppi parlamentari alla prova dell’art. 67 della Costituzione”, Roma, 16 maggio 2018.

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gruppi parlamentari e l’articolo 67 della Costituzione - in cui le questioni politiche si intrecciano con

quelle costituzionali, al fine di dare strumenti e argomenti per porre il Parlamento in condizione di tutelare

sé stesso da fughe dalla Costituzione pericolose per il Paese. Di qui l’idea di organizzare un momento di

confronto pubblico aperto ai cittadini oltre che al mondo politico e parlamentare.

Ai fini della discussione, avevo individuato alcuni profili di particolare interesse – sviluppati, con diversa

intensità, nei contributi che trovate in questo numero della rivista – e che elenco di seguito.

In primis, si pone il problema della stesura e della potenziale applicazione di disposizioni di Statuti dei

gruppi – regole di diritto privato - in palese contrasto con la Costituzione e con il Regolamento. Cosa

succederebbe se le norme statutarie di un Gruppo vietassero alle deputate che vi appartengono

di prendere la parola in Aula o di presentare proposte di legge?

In secondo luogo, possiamo dire che la sola circostanza che uno o più parlamentari iscritti al gruppo

Movimento 5 Stelle esercitino il loro mandato con il timore d’esser sanzionati economicamente in ragione

delle proprie condotte e scelte in Parlamento costituisca un vincolo di mandato e imponga all’istituzione

parlamentare di intervenire scongiurando questa ipotesi ab origine? Se sì, come? Dal momento che la

norma è conosciuta formalmente dalle Camere perché contenuta in Statuti il cui deposito è obbligatorio,

possiamo dire che non è il difetto di una norma specifica che impedisce al Presidente di manifestare

formalmente ai colleghi parlamentari l'inconsistenza, nullità e illiceità di una previsione

regolamentare (ad oggi sottoscritta dallo stesso Presidente Fico), ad esempio con una circolare inviata a

tutti i deputati? È, per altro verso, configurabile la doverosità di intervento dichiarativo - attraverso una

qualsiasi esternazione pubblica - del Presidente volto a prevenire e fugare in ciascun parlamentare il

convincimento di una qualche rilevanza della suddetta clausola in contrasto con l'articolo 67?

Un’ulteriore questione attiene alla nomina a Ministro da parte del Capo dello Stato di parlamentari del

Movimento 5 Stelle vincolati da un "contratto privato" che li sottopone alla famigerata penale dei 100.000

euro qualora “adottino comportamenti suscettibili di pregiudicare l’immagine o l’azione politica del Movimento 5 Stelle o

di avvantaggiare altri partiti” e “tutte le condotte che violino, del tutto o in parte, la linea politica dell’associazione

‘Movimento 5 Stelle”, come prevedono gli Statuti dei relativi gruppi parlamentari; ipotesi così ampie da

annullare o ridurre comunque al minimo l’autonomia del parlamentare. Ebbene tale vincolo appare in

contrasto non solo dell'articolo 67 della Costituzione, ma anche con il giuramento prestato di fronte allo

stesso Presidente della Repubblica di “esercitare le proprie funzioni nell'interesse esclusivo della Nazione”, oltre che

con la con legge 23 agosto 1988, n. 400 in ordine all'autonoma collegialità del Consiglio dei Ministri e al

suo compito di risoluzione dei conflitti tra Ministri. Sul punto, successivamente alla tavola rotonda e

nelle more della formazione del governo, ho scritto una lettera al Presidente della Repubblica Sergio

Mattarella, con il solo obiettivo di fornirgli utili spunti affinché nell’esercizio delle proprie prerogative

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costituzionali e nella sua delicata funzione di tutore dell'osservanza della legge fondamentale della

Repubblica potesse considerare questi ulteriori e nuovi elementi, che rappresentano un inedito nella storia

costituzionale della Repubblica. Il tema rimane purtroppo di stretta attualità e si porrà ogni qualvolta tali

Ministri si rapporteranno con il Parlamento e assumeranno decisioni che hanno giurato essere

nell'esclusivo interesse della Nazione.

Un quarto punto – quello su cui vi è stato peraltro il maggiore dibattito – attiene alla questione della

"giustiziabilità" della violazione dell'articolo 67 della Costituzione in esame. Come un tentativo di

applicazione dell’istituto della clausola penale prevista dalla disposizione statutaria potrebbe giungere

all’esame della Corte costituzionale?

È chiaro come una modifica del Regolamento che attribuisca al Presidente poteri di controllo sugli

Statuti dei Gruppi sia la strada più lunga e dall’esito più incerto - soprattutto in questa legislatura - ma

anche l’unica che in futuro potrebbe evitare il ripetersi di casi come quello in discussione. Per questa

ragione presenterò nei prossimi mesi una proposta di modifica in tal senso; a tal fine è utile una riflessione

sui passaggi di tale procedimento di verifica (l’organo o gli organi che ne dovrebbero essere incaricati, i

parametri di riferimento e le conseguenze in caso di mancato rispetto degli stessi).

Infine: non solo il Movimento 5 Stelle, ma anche Forza Italia, Lega Nord e Fratelli d’Italia hanno

affermato in campagna elettorale di voler modificare l’articolo 67 della Costituzione, e proposte di legge

in tal senso sono già state presentate in passato; la differenza, oggi, è che una tale riforma costituzionale

potrebbe essere approvata a maggioranza dei due terzi di ciascuna Camera. Il quesito che allora si pone

è se l’articolo 67 sia revisionabile o se il divieto di mandato imperativo rientri fra i "principi fondamentali

e diritti inviolabili" che la Corte costituzionale pone come limite allo stesso processo di revisione

costituzionale.

Il tema peraltro è diventato di stretta attualità il giorno stesso in cui si è tenuta la Tavola rotonda entrando

nel “contratto di governo”, il quale recita: “occorre introdurre forme di vincolo di mandato per i parlamentari, per

contrastare il sempre crescente fenomeno del trasformismo”.

Il transfughismo parlamentare rappresenta senz’altro un problema, per il quale bisogna tuttavia

individuare soluzioni ragionevoli, onde evitare uno svuotamento della stessa funzione del Parlamento -

già indebolito dalle tendenze in atto negli ultimi decenni - e la sua trasformazione in sede ratificatrice di

decisioni prese altrove. Le risposte al trasformismo parlamentare vanno a mio avviso cercate nella

modifica dei Regolamenti parlamentari (sulla scia di quanto fatto nella scorsa legislatura al Senato) e non

in riforme costituzionali che mettono a rischio la rappresentanza democratica, uno dei pilastri su cui si

fonda l’intera architettura dell’ordinamento costituzionale vigente. Qualora invece non prevalga la

ragionevolezza e tale ipotesi di riforma costituzionale si concretizzi, si renderebbe necessaria una grande

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mobilitazione e sensibilizzazione dell’opinione pubblica; in questa opera il contributo che la dottrina

costituzionalistica potrebbe offrire - e già ha offerto con i contributi qui pubblicati - sarà prezioso.

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di Roberta Calvano

Professore ordinario di Diritto costituzionale Università degli Studi di Roma Unitelma Sapienza

La democrazia interna, il libero mandato parlamentare

e il dottor Stranamore

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La democrazia interna, il libero mandato parlamentare e il dottor Stranamore *

di Roberta Calvano

Professore ordinario di Diritto costituzionale Università degli Studi di Roma Unitelma Sapienza

Sommario: 1. Il tema del seminario. – 2. Libero mandato e articolo 49 Cost. – 3. Statuti, partiti e gruppi tra pubblico e privato. – 4. La via dell’attuazione legislativa dell’art. 49 Cost. – 5. La legge n. 13 del 2014 e i suoi effetti collaterali. – 6. Modelli regolativi degli statuti e democrazia interna. – 7. Ipotesi di violazione del libero mandato e strumenti di tutela.

1. Il tema del seminario

Le brevi riflessioni che seguono traggono spunto dai quesiti sottoposti dall’organizzatore di questo

seminario all’attenzione dei relatori1, e più in generale dalla vicenda che ha visto l’inserimento, nello

* Intervento alla Tavola rotonda “Gli statuti dei gruppi parlamentari alla prova dell’art. 67della Costituzione”, Roma, 16 maggio 2018. 1 1. In primis, si pone il problema della stesura e della potenziale applicazione di disposizioni di Statuti dei gruppi – regole di diritto privato - in palese contrasto con la Costituzione e con il Regolamento. Cosa succederebbe se le norme statutarie di un Gruppo vietassero alle deputate che vi appartengono di prendere la parola in Aula o di presentare proposte di legge? 2. Possiamo dire che la sola circostanza che uno o più parlamentari iscritti al gruppo Movimento 5 Stelle esercitino il loro mandato con il timore d’esser sanzionati economicamente in ragione delle proprie condotte e scelte in parlamento costituisce un vincolo di mandato e impone all’istituzione parlamentare di intervenire scongiurando questa ipotesi ab origine? Se sì, come? Dal momento che la norma è conosciuta formalmente dalle Camere perché contenuta in statuti il cui deposito è obbligatorio, possiamo dire che non è il difetto di una norma specifica che impedisce al Presidente di manifestare formalmente ai colleghi parlamentari l'inconsistenza, nullità e illiceità di una previsione regolamentare (ad oggi sottoscritta dallo stesso Presidente Fico), ad esempio con una circolare inviata a tutti i deputati? 3. Può il Capo dello Stato nominare Ministro un parlamentare del Movimento 5 Stelle vincolato da un "contratto privato" in contrasto non solo dell'art. 67 Cost. ma anche con il giuramento prestato di fronte allo stesso Presidente della Repubblica di esercitare le proprie funzioni nell'interesse esclusivo della nazione, oltre che con la con legge 400/1988 in ordine all'autonoma collegialità del Consiglio dei Ministri e al suo compito di risoluzione dei conflitti tra Ministri? Come opererebbe questo condizionamento nell’esercizio della funzione di controllo da parte dei parlamentari nei confronti dei ministri del loro partito? Può tale problema essere evidenziato direttamente all'attenzione del Presidente della Repubblica, nella sua qualità di garante della Costituzione? 4. Questione della "giustiziabilità" della violazione dell'art. 67 Cost in esame. Come un tentativo di applicazione dell’istituto della clausola penale prevista dalla disposizione statutaria in esame potrebbe giungere all’esame della Corte costituzionale? Attraverso la via del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato (Deputato “sanzionato” vs. Gruppo parlamentare di appartenenza oppure Autorità giudiziaria vs. Camera dei Deputati che pretende di agire in autodichia sull’applicazione della previsione statutaria). Attraverso un giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale? 5. É chiaro come una modifica del Regolamento che attribuisca al Presidente poteri di controllo sugli Statuti dei Gruppi sia la strada più lunga e dall’esito più incerto - soprattutto in questa legislatura - ma anche l’unica che in futuro potrebbe evitare il ripetersi di casi come quello di cui si discute oggi; per questo annuncio fin da ora la mia intenzione di presentare una proposta di modifica in tal senso. Chiedo allora a chi interverrà oggi di ipotizzare i passaggi di tale procedimento di verifica degli Statuti, l’organo o gli organi che ne dovrebbero essere incaricati, i parametri di riferimento e le conseguenze in caso di mancato rispetto degli

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statuto del gruppo parlamentare del M5S alla Camera, di una norma che prefigura l’irrogazione di una

ingente sanzione pecuniaria per il parlamentare che abbandoni o sia espulso dal Gruppo. Il seminario che

ci ospita ha quindi sullo sfondo il principio costituzionale del libero mandato parlamentare, disciplinato

nell’art. 67 Cost.

Va subito sgombrato il campo in premessa da una questione generale, affermando la chiara irrilevanza

giuridica di tutti gli accordi che pretendessero vincolare l’esercizio del mandato (ai sensi dell’art. 67 Cost.),

o comunque, secondo una diversa interpretazione, la loro insanabile nullità in quanto contrari a norme

imperative (art. 1418 c.c.). Tale posizione risulta indiscussa all’esito dell’interpretazione della norma

costituzionale, che pone un principio che difficilmente potrebbe essere oggetto di revisione

costituzionale, senza uscire dalle coordinate del parlamentarismo di matrice liberale e senza collocarsi al

di fuori del solco del costituzionalismo moderno, sviluppato a partire dalla rivoluzione francese.

Tale fondamentale principio si è trovato tuttavia negli ultimi anni al centro di un rinnovarsi del dibattito

in ragione di alcuni ben noti fattori, tra cui sopra a tutti la crisi della rappresentanza politica, della forma

partito e, nel caso italiano, del tentativo di alcune forze politiche di minare la perdurante validità del

divieto di mandato imperativo in nome di un più immediato rapporto con la “volontà del popolo”, anche

alla luce del fenomeno del “transfugismo” parlamentare, macroscopicamente esploso soprattutto nel

corso dell’ultima legislatura2.

Non è questa la sede per soffermarsi sulle lontane radici, o il significato costituzionale del principio del

libero mandato parlamentare e del connesso divieto di mandato imperativo, né tantomeno per riassumere

l’evoluzione storica di questi concetti, strumento di emancipazione e garanzia dei parlamenti e dei

parlamentari rispetto a un’idea della rappresentanza ancora intrisa dai vincoli propri dell’epoca feudale.

L’evoluzione trova il punto saliente nella rilevanza del principio come caposaldo del parlamentarismo a

partire dallo Stato liberale, giungendo poi a mutare significato con l’ingresso dei partiti di massa sulla

scena politica e parlamentare nel ventesimo secolo. Basti in proposito ricordare come, in quel tornante

storico, il libero mandato sia divenuto il punto di equilibrio nel triangolo su cui costruire il rapporto di

rappresentanza politica: tra i cittadini elettori, il ruolo dei partiti politici, con la connessa necessaria

disciplina di partito in seno alle istituzioni parlamentari (funzionale alla compattezza del gruppo

stessi. 6. Infine: non solo il Movimento 5 Stelle, ma anche Forza Italia, Lega Nord e Fratelli d’Italia hanno affermato in campagna elettorale di voler modificare l’articolo 67 della Costituzione, e proposte di legge in tal senso sono già state presentate in passato; la differenza, oggi, è che una tale riforma costituzionale potrebbe essere approvata a maggioranza dei due terzi di ciascuna Camera. Il quesito che allora si pone è se l’art. 67 sia revisionabile o se il divieto di mandato imperativo rientri fra i "principi fondamentali e diritti inviolabili" che la Corte cost. pone come limite allo stesso processo di revisione costituzionale. 2 Contati nella XVII legislatura nel numero di 566, che ha coinvolto 348 parlamentari, quindi più di un terzo degli eletti. Le cifre (riprese dal sito di Openpolis) sono più che raddoppiate rispetto alla legislatura precedente.

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parlamentare di cui essa è proiezione), e infine i singoli parlamentari, cui l’art. 67 garantisce la posizione

di libertà, quali “rappresentanti della nazione”, garantendo ad un tempo il corretto funzionamento

dell’istituzione parlamentare.

Nonostante la crisi poi emersa e tuttora in atto in seno ai partiti, il principio continua a regolare il rapporto

tra le due istanze, configurando il parlamentare come titolare di un diritto all’autodeterminazione e al

dissenso, che lo rendono quindi indipendente da qualunque vincolo giuridico alle scelte del partito nelle

cui fila è eletto, o della constituency in cui si è candidato. Con tali principali caratteri l’istituto giunge sino a

noi.

Dati per acquisiti gli elementi che si sono solo potuti esemplificativamente richiamare, che qui si devono

per ragioni di tempo e di spazio tenere per presupposti, la chiave di lettura alla base delle brevi riflessioni

che seguono, anche alla luce dell’accelerazione in atto nelle già forti trasformazioni riguardanti il sistema

politico italiano negli ultimi anni, non sarà esclusivamente quello dell’art. 67 Cost., ma tenterà una

valorizzazione del portato dell’art. 49 Cost. rispetto alla discussione odierna.

Già nel quindicennio passato, e ancora oggi in larga parte, i sistemi elettorali, tramite le liste bloccate,

sembrano aver contribuito ad indebolire la legittimazione dei parlamentari agli occhi del corpo elettorale.

É noto poi come un impiego massiccio delle questioni di fiducia negli ultimi anni, ampiamente denunciato

dalla dottrina, abbia finito col mortificare il ruolo dei parlamentari e delle Camere nel loro complesso.

Oggi si rischia di assistere forse ad un’ulteriore tappa di questa involuzione, che porta a chiedersi se sia

ancora libero il mandato di parlamentari che, non solo sono destinatari potenziali di sanzioni in caso di

dissenso, ma si vedono negare, nel contratto-accordo di governo, il potere di presentare disegni di legge

per l’attuazione del programma.3

2. Libero mandato e articolo 49 Cost.

Prima ancora di giungere alle degenerazioni ora ricordate, già nella fase di normale funzionamento (ancora

non patologico) della forma di governo nel quadro del sistema costituzionale, l’apparente contrasto tra il

ruolo costituzionale dei partiti in Parlamento, tramite la disciplina dei gruppi, e il libero mandato del

parlamentare, aveva indotto taluni a ritenere che le due istanze volgessero verso direzioni contrastanti ed

in certa misura incompatibili. Tale contrasto sembra suscettibile di dissolversi in considerazione dei

contenuti della disciplina costituzionale sui partiti. In particolare, data la centralità del contributo dei

3 Il “Contratto per il governo del cambiamento” stipulato da M5S e Lega recita, a pag. 7, “Le iniziative legislative finalizzate all’attuazione del presente programma o di altri temi concordati dai contraenti con le procedure previste dal presente contratto sono presentate dal Governo o con la prima firma dei presidenti dei gruppi parlamentari delle due forze politiche. Ogni parlamentare ha la possibilità di presentare iniziative legislative e la loro richiesta di calendarizzazione deve essere oggetto di accordo tra i presidenti dei gruppi parlamentari delle due forze politiche.”

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partiti alla costruzione della rappresentanza politica parlamentare, l’indicazione che l’art. 49 Cost. pone

circa il rispetto del metodo democratico, sembra condurre nella stessa direzione del libero mandato,

convergendo con esso nel determinare la posizione del singolo parlamentare nel partito e nelle aule

parlamentari.

Contemperando la necessaria adesione alla generale linea politica del partito, con il rispetto di una sfera

di libertà esercitabile da parte del singolo parlamentare (di dissentire ed autodeterminarsi all’interno

dell’aula), il libero mandato e la democrazia interna dei partiti sembrerebbero quindi suscettibili, di pari

passo, di poter contribuire ad un ruolo più maturo e costruttivo di partiti e gruppi nella sfera politico

parlamentare.

Va quindi rilevato che addebitare alla norma costituzionale di cui all’art. 67 le storture cui si è assistito,

soprattutto nella legislatura appena terminata4, per richiederne una revisione, pare frutto di un errore di

impostazione analogo a quello in cui già molte volte si è incorsi in passato nel dibattito sulle riforme, col

tentare di rendere la Costituzione capro espiatorio di problematiche che affliggono il sistema politico,

incarnato dagli eterni “riformatori non riformati”. Da questo punto di vista, la recente riforma del

Regolamento del Senato con l’introduzione di una serie di deterrenti rispetto alla crescente tendenza al

“cambio di casacca” dei parlamentari e alla formazione di nuovi gruppi nel corso della legislatura, ma allo

stesso tempo con la previsione elementi di garanzia della democrazia interna ai gruppi (ad es. con le

norme di cui agli artt. 13, comma 1 bis e 27, comma 3 bis5 e in particolare dell’art. 53 c. 76) sembra

evidenziare uno degli strumenti più idonei per una possibile soluzione del problema, senza la necessità di

percorrere la ben più onerosa via dell’art. 138 Cost. Accanto ad esso probabilmente una legislazione

elettorale che non favorisca coalizioni opportunistiche che si riducono a cartelli elettorali, destinati a

dissolversi a breve distanza dal voto, potrebbe essere un utile strumento aggiuntivo.

Pensare invece di sottoporre a revisione costituzionale l’art. 67 significherebbe per di più andare

discutibilmente ad intaccare una disposizione che esprime un principio fondamentale, paradigmatico per

il parlamentarismo europeo.

4 V. nt. precedente. 5 L’art. 13 comma 1 bis, recita “i Vicepresidenti e i Segretari che entrano a far parte di un Gruppo parlamentare diverso da quello al quale appartenevano al momento dell'elezione decadono dall'incarico. Tale disposizione non si applica quando la cessazione sia stata deliberata dal Gruppo di provenienza, ovvero in caso di scioglimento o fusione con altri Gruppi parlamentari.” L’art. 27 comma 3 bis prevede che “I componenti dell'Ufficio di Presidenza che entrano a far parte di un Gruppo diverso da quello al quale appartenevano al momento dell'elezione decadono dall'incarico. Tale disposizione non si applica quando la cessazione sia stata deliberata dal Gruppo di provenienza, ovvero in caso di scioglimento o fusione con altri Gruppi parlamentari.” 6 Comma che prevede che “I Regolamenti interni dei Gruppi parlamentari stabiliscono procedure e forme di partecipazione che consentano ai singoli Senatori di esprimere i loro orientamenti e presentare proposte sulle materie comprese nel programma dei lavori o comunque all'ordine del giorno.”

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Sempre in punto di rilevanza dell’art. 49, si deve poi aggiungere l’ulteriore argomento, ben rilevato

nell’ambito di questo seminario (Demuro) secondo cui tale disposizione disciplina sì il soggetto collettivo

“partito”, ma tutela altresì il diritto individuale del singolo a concorrere alla determinazione della politica

nazionale. L’individuo titolare di tale diritto può e deve essere, tra gli altri, proprio il singolo parlamentare,

ed il diritto non sarebbe tutelato qualora vi fosse una non piena garanzia del suo esercizio. Ecco dunque

che anche in questo senso, si può ritenere che il diritto a concorrere alla determinazione della politica

nazionale trovi il proprio coronamento nella tutela del libero mandato.

3. Statuti, partiti e gruppi tra pubblico e privato

Venendo all’esame della questione oggi posta circa alcuni contenuti recati dallo statuto del gruppo M5S

alla Camera, essa non può prescindere da una riflessione circa il chiaro legame esistente tra gli statuti dei

gruppi parlamentari e quelli dei partiti, gli uni essendo strettamente collegati e traendo anzi la loro

legittimità dai primi. La questione sugli statuti dei gruppi insomma è figlia di quella sugli statuti dei partiti,

così come i gruppi sono la proiezione parlamentare dei partiti. Rispetto ad entrambi gli ambiti, partiti e

statuti, va sottolineata allora la peculiare posizione costituzionale, che potrebbe essere definita come

“anfibia”. Essi si collocano infatti con le gambe nella società, ma sono gli artefici della rappresentanza

politica, quindi il principale strumento tramite cui cittadini partecipano alla vita delle istituzioni.

Di tale peculiare natura dei partiti è appunto un fedele specchio il regime giuridico ad essi attribuito

nell’ordinamento italiano, così come la natura giuridica degli statuti, a cavallo tra la sfera privatistica (con

la disciplina codicistica) e la innegabile rilevanza pubblicistica, che pone gli stessi alla base di una serie di

nodi tuttora irrisolti.

É corretto dunque ribadire, dinanzi a disposizioni degli statuti (o anche dei non-statuti), sia dei partiti che

dei gruppi, che tentano di vincolare il singolo parlamentare nelle proprie scelte e nelle diverse attività

svolte nell’esercizio delle funzioni, la rilevanza centrale dell’art. 67 Cost., così come interpretato dalla

Corte costituzionale nella sentenza n. 14 del 1964. In tale pronuncia la Corte sottolineava che “il divieto

di mandato imperativo importa che il parlamentare è libero di votare secondo gli indirizzi del suo partito,

ma è anche libero di sottrarsene; nessuna norma potrebbe disporre che derivino conseguenze a carico del

parlamentare per il fatto che egli abbia votato contro le direttive del partito”. Si confermava così la natura

irrinunciabile dello stesso principio per le democrazie parlamentari. Centralità che sembra venire

ulteriormente validata anche dalla sua diffusione nel panorama costituzionale comparato, così come dalla

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sfera dell’ordinamento dell’Unione europea, in cui una norma analoga è posta nell’art. 2 del Regolamento

del Parlamento europeo7.

Tuttavia, soprattutto alla luce della vicenda da cui trae spunto questo seminario, come già si diceva, al

centro di queste riflessioni si deve ora porre l’art. 49, ovvero la rilevanza, per il tema del libero mandato,

del connesso problema della democrazia interna dei partiti.

4. La via dell’attuazione legislativa dell’articolo 49 Cost.

La questione della ”attuazione” legislativa di questa disposizione, da alcuni avversata, da altri invocata,

ma di certo non richiesta dalla Costituzione, è stata affrontata e poi abbandonata nella scorsa legislatura

in alcuni disegni di legge. In essi si rinveniva un insidioso nodo problematico, frutto probabilmente di un

insufficiente approfondimento della cruciale questione dello status costituzionale dei partiti politici, al

punto da prospettarsi il passaggio alla personalità giuridica pubblicistica tout court8. La prospettata

soluzione passava per il tramite dell’istituzione di un sistema di registrazione dei partiti, quale requisito

per poter ottenere la personalità giuridica, strumento necessario per accedere alla presentazione di

candidature per le elezioni politiche. Questo modello veniva prospettato “in attuazione” del di quello

disciplinato nel regolamento Ue dei partiti, che si riteneva discutibilmente di dover recepire, quasi si fosse

in materia di competenza Ue e non invece, semmai, nell’ambito della sfera sottratta ad ogni influenza del

diritto Ue, come previsto dall’art. 4 TUe. I partiti che non avessero avuto accesso o non avessero accettato

di acquisire tale configurazione pubblicistica, sarebbero stati esclusi dal diritto di elettorato passivo con

evidente violazione degli artt. 48, 56 e 58 Cost. Pare superfluo rilevare come una simile disciplina avrebbe

prodotto come prima conseguenza quella dell’esclusione di forze come il M5S dalla rappresentanza

politica. Naturalmente una soluzione questa che avrebbe portato con sé l’inevitabile corollario di un

ulteriore acuirsi della frattura e dell’alterità di tali forze rispetto alla politica tradizionale agli occhi

dell’elettorato.

Una disciplina che avesse l’effetto opposto, di incentivare l’adesione ad un modello regolativo che

promuova la democrazia interna oltre a favorire la partecipazione dei cittadini, come si dirà tra breve,

sembrerebbe la direzione corretta in cui il legislatore potrebbe invece provare a muoversi per provare ad

affrontare i problemi di cui ci stiamo occupando.

7 “In conformità dell'articolo 6, paragrafo 1, dell'Atto del 20 settembre 1976 nonché dell'articolo 2, paragrafo 1, e dell'articolo 3, paragrafo 1, dello Statuto dei deputati al Parlamento europeo, i deputati esercitano il loro mandato liberamente e in modo indipendente e non possono essere vincolati da istruzioni né ricevere alcun mandato imperativo”. 8 Per brevità rinvio alle considerazioni che ho svolto in Dalla crisi dei partiti alla loro riforma, senza fermarsi …voyage au bout de la nuit? In Costituzionalismo, 3/2015, 170 ss.

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8 federalismi.it - ISSN 1826-3534 |n. 13/2018

A fronte dal problema lasciato volutamente aperto dai costituenti, insito nel carattere “a maglie larghe”

della norma sui partiti, volta ad evitare forme di controllo e limitazione della loro vita e attività, la via di

una disciplina legislativa così rigida da risultare “escludente” non pare idonea a risolvere il problema del

carente rispetto della democrazia interna nel sistema politico italiano.

La voluta larghezza della disciplina costituzionale ha trovato un suo contraltare nella disciplina legislativa

con cui si è di recente tentato di intervenire sul punto. Vale la pena provare a mettere l’accento,

nonostante l’apparente distanza tra i problemi, su di una questione rilevante ai fini dell’odierna discussione

– come spero emergerà nel seguito del discorso - concernente la disciplina posta nella legge n. 13 del

2014, di conversione del decreto legge n. 149 del 2013 (intitolata “Conversione in legge, con

modificazioni, del decreto-legge 28 dicembre 2013, n. 149, recante abolizione del finanziamento pubblico

diretto, disposizioni per la trasparenza e la democraticità dei partiti e disciplina della contribuzione volontaria e

della contribuzione indiretta in loro favore”), per gli effetti paradossalmente disincentivanti che la stessa

può avere in relazione alla democrazia interna dei partiti.

5. La legge n. 13 del 2014 e i suoi effetti “collaterali”

Tale disciplina legislativa sembra potersi ricollegare al tema odierno in ragione di un profilo specifico.

Prescindendo in questa sede da ogni valutazione circa la scelta dell’abolizione del finanziamento pubblico

nella legge n. 13 (o meglio dell’abolizione del finanziamento pubblico diretto, dovendosi ritenere che

l’introduzione del 2 per mille e del sistema delle detrazioni previsti dalla legge costituiscano una forma di

finanziamento pubblico indiretto), si deve tuttavia segnalare come essa appaia di per sé un unicum nel

panorama dell’Europa continentale, per di più suscettibile di contribuire ad avallare la visione della

politica come attività parassitaria, e ad esporre il sistema partitico all’influenza ed ingerenza di grandi

gruppi economico finanziari. Ma il dato che rileva di più in questa sede è quello per cui tale disciplina,

deviando probabilmente dalle intenzioni dei suoi autori, sembra aver prodotto l’effetto di indebolire

paradossalmente il canone della democrazia interna, che già la legge n. 96 del 2012 imponeva agli statuti.

Infatti, se da un lato la tendenziale “pubblicizzazione” introdotta dalla disciplina (che regola il contenuto

minimo degli statuti dei partiti, il loro deposito e iscrizione nel registro dei partiti, previo controllo, da

parte della commissione di garanzia), appare un paradosso a fronte della privatizzazione del sistema dei

finanziamenti, l’aspetto più discutibile della legge deriva dall’art. 3.

In base a tale disposizione, le regole riguardanti il contenuto minimo degli statuti (riguardanti aspetti centrali per la

democrazia interna9) poste dallo stesso art. 3 si applicano solo ai partiti e movimenti che vogliano avvalersi del

9 “a) il numero, la composizione e le attribuzioni degli organi deliberativi, esecutivi e di controllo, le modalità della loro elezione e la durata dei relativi incarichi, nonché ((l'organo o comunque il soggetto investito)) della

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9 federalismi.it - ISSN 1826-3534 |n. 13/2018

sistema di finanziamento pubblico indiretto. A seguito di tale disciplina, dunque, il M5S ha potuto

sottrarsi al sistema di controllo e registrazione e quindi a quella pur blanda forma di regolazione leggera

della democrazia interna che il legislatore aveva tentato di introdurre. Un risultato che non è necessario

commentare e che sicuramente non depone a favore del legislatore, il cui intervento del 2014, più che

attuare il principio costituzionale, sembra potersi descrivere come quello di un dottor Stranamore intento

a maneggiare allegramente l’arma finale.

Naturalmente il problema della democrazia interna non riguarda certo un solo partito/movimento,

essendo noto come alcuni tra i principali partiti presentino problematiche di non poco conto da questo

punto di vista (si pensi solo alla totale assenza di congressi del partito Forza Italia sin dalla sua fondazione,

o alla derogabilità delle norme statutarie circa l’impiego delle primarie per il partito democratico, solo per

fare due tra gli esempi più noti). Tuttavia, pare significativo, e merita di essere rilevato, come l’unica forza

politica di qualche rilevanza che, a seguito dell’entrata in vigore della legge n. 13 non ha chiesto l’iscrizione

al Registro dei partiti è la stessa che nel proprio statuto e nello statuto del proprio gruppo parlamentare

ha quindi poi introdotto le discusse disposizioni che oggi leggiamo come contrastanti con l’art. 67, oltre

che con l’art. 49 Cost.

Del resto, la legge stessa presenta un impianto generale debole, poiché, oltre che nel titolo, non riesce a

garantire nel suo disposto efficaci strumenti di garanzia del rispetto del metodo democratico neanche per

i partiti che optino per la registrazione, sembrando anzi quasi ricacciare nella disciplina privatistica

qualunque forza politica, ed in particolare quelle che vogliano approfittare del carattere derogabile delle

disposizioni più rilevanti della legge stessa. Resta da chiedersi, allora, se un nuovo intervento legislativo

potrebbe riuscire a migliorare l’impianto di tale disciplina, facendo almeno in modo che esso non finisca

per disincentivare quella democrazia interna che, nel titolo della legge, si dice di voler promuovere.

rappresentanza legale; la cadenza delle assemblee congressuali nazionali o generali; c) le procedure richieste per l'approvazione degli atti che impegnano il partito; d) i diritti e i doveri degli iscritti e i relativi organi di garanzia; le modalità di partecipazione degli iscritti all'attività del partito; e) i criteri con i quali ((è promossa)) la presenza delle minoranze ((, ove presenti,)) negli organi collegiali non esecutivi; f) le modalità per promuovere ((...)), attraverso azioni positive, l'obiettivo della parità tra i sessi negli organismi collegiali e per le cariche elettive, in attuazione dell'articolo 51 della Costituzione; g) le procedure relative ai casi di scioglimento, chiusura, sospensione e commissariamento delle eventuali articolazioni territoriali del partito; h) i criteri con i quali sono assicurate le risorse alle eventuali articolazioni territoriali; i) le misure disciplinari che possono essere adottate nei confronti degli iscritti, gli organi competenti ad assumerle e le procedure di ricorso previste, assicurando il diritto alla difesa e il rispetto del principio del contraddittorio; l) le modalità di selezione delle candidature per le elezioni dei membri del Parlamento europeo spettanti all'Italia, del Parlamento nazionale, dei consigli delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano e dei consigli comunali, nonché per le cariche di sindaco e di presidente di regione e di provincia autonoma; m) le procedure per modificare lo statuto, il simbolo e la denominazione del partito; n) l'organo responsabile della gestione economico-finanziaria e patrimoniale e della fissazione dei relativi criteri; o) l'organo competente ad approvare il rendiconto di esercizio;”

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6. Modelli regolativi degli statuti e democrazia interna

La riflessione sulla democrazia interna e più in generale sul modello organizzativo dei nostri partiti

richiederebbe ovviamente uno spazio meno limitato, ma sembra utile ricordare almeno qualche dato. A

fronte di una disciplina legislativa elastica infatti, alcuni partiti optano per la rigidità del modello regolativo

interno, come si evince ad esempio dalla vicenda odierna, o dai limiti all’adesione (più stringenti per il

M5S di quelli previsti da altri partiti, ad es. su cittadinanza e maggiore età); o dalla selezione plebiscitaria

del leader e delle candidature, che nel M5S ricorre con metodo di votazione telematica, che per brevità

definirò “opaca”. Analogamente poco rispettosa del metodo democratico si può ritenere invero una

disciplina all’opposto troppo elastica, come quella riscontrabile nel modello seguito dal partito

democratico, che si avvale del carattere “aperto” delle votazioni primarie, non riservate agli iscritti, ma

estese a tutti gli elettori, oltre che della natura derogabile delle norme che le regolano. L’introduzione

delle primarie con tali caratteri sembra avere un duplice effetto negativo, perché da un lato, si viene così

a porre un’enfasi sul solo momento della selezione della leadership, senza tentare alcun recupero della

partecipazione e della militanza, del dibattito sul territorio; allo stesso tempo poi, si finisce con le modalità

richiamate, che hanno caratterizzato nell’ultimo quindicennio le primarie stesse, col sottrarre alla base del

partito alcune scelte fondamentali, che rischiano di venire annacquate tramite la partecipazione se non

addirittura la “scalata” (soprattutto in ambito locale) di soggetti esterni al partito.

Più in generale l’assenza di un reale radicamento popolare e di un decentramento territoriale indebolisce

la democrazia interna per tutti i nostri partiti e molta strada sembra da percorrere prima di giungere a

risolvere questi problemi. A fronte di una crisi senza precedenti che sta colpendo, a seguito delle elezioni

del 2018 il sistema costituzionale e politico, solo una rinascita della partecipazione politica popolare

potrebbe contribuire a rinvigorire la rappresentanza politica. La strada indicata è forse semplicistica e allo

stesso tempo di arduo percorso, ma essa sembra l’unica idonea per tentare di riportare le istituzioni

rappresentative a contrastare l’irrilevanza in cui sono cadute, sullo sfondo della crisi dell’Unione europea

e della prepotente influenza dispiegata dagli equilibri della finanza globalizzata.

7. Ipotesi di violazione del libero mandato e strumenti di tutela

Con le brevi osservazioni che precedono si è tentato di offrire un minimo contributo alla riflessione sul

tema del seminario, principalmente dal punto di vista delle vie di uscita normative dal problema. É ora

necessario tentare, almeno in queste ultime righe, di delineare gli strumenti di tutela suscettibili di essere

azionati a fronte di una eventuale applicazione della norma “incriminata”, contenuta nel regolamento-

statuto del gruppo parlamentare di cui si discute. In questo senso, è necessario esaminare due possibili

livelli di tutela giurisdizionale.

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Data la già richiamata qualificazione giuridica dei nostri partiti come associazioni non riconosciute, sin

dagli anni ’60 gli studi di alcuni tra i migliori civilisti italiani si sono soffermati sulla questione della tutela

giurisdizionale dei diritti del singolo iscritto dalle decisioni del partito e gli strumenti azionabili in tal senso

dinanzi alla giurisdizione ordinaria (P. Rescigno). Di recente, in tale ambito sembra essersi aperto uno

spiraglio alla possibile applicazione diretta di norme costituzionali, ed in particolare dell’art. 49 Cost. La

norma infatti è stata direttamente applicata per risolvere il caso Lusi, deciso dal Tribunale civile di Roma

nel 2015. Nella controversia tra il parlamentare e il partito che lo aveva espulso la decisione a favore del

ricorrente con l’annullamento del provvedimento di espulsione in applicazione dell’art. 49 Cost. è

sembrata mostrare una possibile via di uscita da una lacuna negli strumenti di tutela che oggi si palesa in

maniera sempre più evidente10

Nonostante non risulti essersi poi avuta una ulteriore applicazione della norma costituzionale nella

giurisprudenza ordinaria, analogo risultato a favore dei ricorrenti, tramite lo svolgimento di un sindacato

non meramente formale sui provvedimenti di espulsione, si è avuto con alcune pronunce cautelari,11 poi

confermate nel merito con sentenze del 201812, relative alle espulsioni operate dal M5S nei confronti di

alcuni iscritti in prossimità delle primarie comunali. Tali decisioni sembrano dimostrare la percorribilità

di una verifica non meramente formale del rispetto della democrazia interna tramite l’applicazione delle

norme del codice civile a favore dei singoli espulsi, dato che il “non statuto” non disciplina tali aspetti.

Sebbene tali esiti giurisdizionali possano essere accolti con favore in relazione alla tutela così garantita ai

ricorrenti, non pare tuttavia sufficiente affidare la tutela dei diritti degli espulsi e, più in generale, delle

minoranze interne ai partiti, alla sola disciplina codicistica (e in questi casi, in particolare, all’applicazione

in via analogica delle norme relative alle associazioni riconosciute). La democrazia interna ai partiti politici

non sembra rappresentare un problema che possa essere adeguatamente tutelato tramite una disciplina

come quella prevista per i diritti dei membri delle associazioni non riconosciute, dettata per ben

disciplinare ben altri fenomeni ed avendo in mente un contesto molto diverso da quello odierno. Si

riconferma quindi la potenziale utilità di una disciplina più rigorosa dell’assetto dei partiti, in grado di

10 Tribunale di Roma, III sez. civ., 19 febbraio 2015 il giudice ha infatti ritenuto che "l'esclusione dal partito, comminata senza la preventiva contestazione degli addebiti e senza consentire all'interessato alcuna possibilità di interloquire al riguardo deve considerarsi in contrasto con i principi costituzionali che tutelano la libertà di associazione e il metodo democratico cui devono ispirarsi le associazioni partitiche che concorrono a determinare la politica nazionale, con conseguente invalidità della delibera di espulsione oggetto della presente impugnazione che, pertanto, deve essere annullata". 11 Trib. Roma III sez. civ. 12 aprile 2016, RG n. 19678/2016; Trib Napoli, sez. VII, 14 luglio 2016, RG n. 15161/2016. 12 Trib Roma, XVI sez civ, febbraio 2018 e Trib Napoli, sentenza n. 3773 del 18 aprile 2018.

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produrre effetti di incentivazione e di creazione di dinamiche virtuose, favorevoli alla partecipazione e

compatibili con una sana dialettica interna alle forze politiche.

Per quanto concerne il secondo possibile livello di tutela, è necessario prendere in esame l’ipotesi della

giustiziabilità di tali situazioni dinanzi alla Corte costituzionale.

Da questo punto di vista si può innanzitutto ricordare come un giudizio avente ad oggetto il sindacato

diretto sul rispetto delle norme costituzionali (artt. 67, 49 o anche 68 Cost.) da parte degli statuti dei

gruppi, non sembra potersi ritenere una via percorribile né per la via del giudizio di legittimità

costituzionale, non essendo tali atti compresi tra quelli su cui la Corte può giudicare ex art. 134, né per

altri canali, poiché la fattispecie rappresenterebbe una classica ipotesi di sindacato sugli interna corporis,

come tale da sempre ritenuto inammissibile dalla Corte costituzionale.

Provando allora a verificare l’azionabilità del giudizio per conflitto di attribuzione, anche in questa ipotesi

una serie di ostacoli si palesano immediatamente all’ipotetico percorso processuale. Il primo problema

sembra sorgere dal punto di vista soggettivo, poiché, né il singolo parlamentare né tantomeno i gruppi

parlamentari sono ascritti nella giurisprudenza della Corte tra i poteri dello Stato (né tantomeno tra coloro

che, all’interno di un potere, sono “legittimati a dichiarare in via definitiva la volontà del potere cui

appartengono”, ex art. 37 della legge n. 87 del 1953). Il contrasto dovrebbe quindi sorgere tra l’intera

Camera, che si dovrebbe immaginare possa adottare un ipotetico provvedimento in esecuzione delle

norme statutarie incriminate, e l’autorità giudiziaria investita di un giudizio involgente il provvedimento

stesso. Dobbiamo quindi immaginare che il Presidente della Camera (o del Senato) ad es. dia seguito a

provvedimenti di espulsione da un gruppo parlamentare con annessa sanzione nei confronti di un singolo

deputato (o senatore) prendendoli a presupposto (gli esempi potrebbero essere molteplici13, si pensi al

Caso Villari del 2009). Dal punto di vista oggettivo tuttavia sorgerebbe anche in questo caso il problema

dell’insindacabilità degli interna corporis, con un’unica possibile eccezione. L’inviolabilità della sfera del

diritto parlamentare offre infatti un possibile varco, in base al celebre precedente della sent. n. 379 del

1996, il caso dei parlamentari “pianisti”, che consente all’interno delle Camere l’applicazione del principio

di legalità, la “grande regola dello stato di diritto”, e la sua garanzia giurisdizionale, in una sola ipotesi.

Solo laddove si tocchino diritti fondamentali della persona la Corte ha ritenuto che tale sfera, altrimenti

impenetrabile, si apra al controllo dell’autorità giudiziaria. Dunque, il conflitto tra poteri è ipotizzabile a

queste condizioni, per vero di difficile concretizzazione, nel caso di specie, e solo così il potere

giurisdizionale potrebbe tentare di entrare a mettere in discussione la sovranità e autonomia delle Camere

13 Si pensi al caso Villari del 2009, conclusosi con la revoca di tutti i componenti della Commissione di vigilanza sulla Rai.

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nell’interpretare i propri regolamenti, che disciplinano ruolo dei gruppi, loro statuti, poteri e ruolo del

Presidente.

Pur nella consapevolezza degli ostacoli presenti su questa via, tentare di aprire una breccia nella sfera

impenetrabile del diritto parlamentare a garanzia dei principi fondamentali di cui si è discusso in questo

seminario è un’operazione che può e forse deve essere fatta (come evidenziato in questo seminario tra gli

altri in particolare da B. Caravita) anche solo per segnalarne la centrale rilevanza al dibattito pubblico.

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di Michele Carducci

Professore ordinario di Diritto pubblico comparato Università del Salento

Le dimensioni di interferenza del «contratto» di governo e l'art. 67 Cost.

1 3 G I U G N O 2 0 1 8

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Le dimensioni di interferenza del «contratto» di governo e l'art. 67 Cost. *

di Michele Carducci

Professore ordinario di Diritto pubblico comparato Università del Salento

Sommario: 1. Dubbi e interrogativi 2. La comparazione degli accordi di coalizione 3. Le discontinuità del «contratto» M5S-Lega e il silenzio del Quirinale 4. Le «catture» dell'autonomia politica

1. Dubbi e interrogativi

Al momento dello svolgimento del Seminario, non era stato ancora formato il nuovo Governo e, con

esso, non era ancora "entrato in vigore" - se così può dirsi - il «contratto per il Governo del cambiamento»,

sottoscritto da Luigi Di Maio e Matteo Salvini.

Adesso che il Governo c'è, gestirà il rapporto di fiducia con le Camere, concretizzerà l'indirizzo politico

di maggioranza, sarà possibile osservare le dinamiche conseguenti all'utilizzo e al rispetto (o meno) degli

strumenti regolativo-contrattuali, fortemente voluti e promossi dal "Movimento 5 Stelle": il «contratto»,

da un lato, con cui sono definiti contenuti di azione e metodi di raccordo con le attività dei parlamentari,

e lo Statuto dei Gruppi parlamentari, dall'altro, dove, in particolare agli articoli 2 n. 5 e 21 n. 2 lett. e)-j), si

dispone sull' «adempimento delle proprie funzioni», rispetto al programma del Movimento, e sulle «sanzioni per

mancato adempimento».

Quali vincoli produrrà la combinazione di questi strumenti? Nei confronti di chi? Come? Con quale forza

normativa? Con quali effetti su contenuti e disposizioni di altra natura e provenienza, comprese quelle

costituzionali? Con quale nesso tra obblighi "contrattuali" e sanzioni statutarie? Gli interrogativi sono

inediti non in quanto tali, ma proprio per la "situazione costituzionale" di riferimento1, segnata non più

semplicemente dalla mediazione politica, com'è stato fino ad oggi2, ma dalla "contrattualizzazione

* Intervento alla Tavola rotonda “Gli statuti dei gruppi parlamentari alla prova dell’art. 67della Costituzione”, Roma, 16 maggio 2018. 1 Sul concetto di "situazione costituzionale" nella comparazione diacronica e sincronica delle vicende politico-costituzionali, si v. J.J. Gomes Canotilho, Constituição dirigente e vinculação do legislador, Reimpressão, Coimbra, 1994, 204 ss., ed E. Ostrom, Collective Action and the Evolution of Social Norms, in 14 J. Econ. Perspective, 3, 2000, 137-158. 2 Sul quadro più recente di questo passato, si v.: la Sezione monografica su La riflessione scientifica di Piero Alberto Capotosti sulla forma di governo, in Nomos, 5, 2015, 3-53; V. Tondi della Mura, Il paradosso del «Patto del Nazareno»: se il revisore costituzionale resta imbrigliato nella persistenza di un mito, in Rivista AIC, 2, 2016, 1-32; I. Ciolli, Ascesa e declino dell’attività di mediazione politica. Dai governi di coalizione all’espansione dei poteri monocratici del Presidente del Consiglio, in Costituzionalismo.it. 2, 2017, 1-27, e ivi bibliografia aggiornata.

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formalizzata" dell'indirizzo politico in termini di metodo di controllo - diretto e indiretto, come si vedrà

- dell'azione dei titolari di uffici.

Il contributo che si presenta mira a offrirne alcune molto sintetiche coordinate di risposta, sul fronte

specifico del rapporto tra «contratto» di governo e art. 67 Cost.

Ad oggi, il «contratto» M5S-Lega è stato letto in tre modi diversi: se ne è affermata la sostanziale

riconducibilità ai già noti «accordi di coalizione»3; se ne è stigmatizzata la strumentalità semantica4; se ne

è rimarcata la incostituzionalità (o "extra-costituzionalità") dei contenuti di merito e metodologici,

soprattutto nella loro prima versione resa pubblica5. I contributi di discussione sono transitati pure in sedi

non propriamente scientifiche, alimentando una dossologia molto coinvolta e poco utile a quell'esercizio

intellettuale di distacco, che anche il giurista, in quanto scienziato sociale, dovrebbe garantire. Si pensi alla

ipotizzata "similitudine" tra Gran Consiglio del Fascismo e "Comitato di conciliazione"6, organo

dettagliatamente disciplinato nella prima stesura del «contratto», ma poi sopravvissuto in modo molto

sfumato nel testo definitivo, con rinvio a successivo accordo. La semplice formalizzazione di meccanismi

"para-arbitrali", dichiaratamente ispirati al Paragrafo XIV dell'ultimo Koalitionsvertrag tedesco ma

disinvoltamente decontestualizzati dai parametri costituzionali, elettorali e regolamentari parlamentari del

Paese d'origine, ha comunque indotto ad attribuire a quella "disposizione contrattuale" una propria

inedita forza di condizionamento, che di inedito, invero, rivela ben poco, dato che, nella evidenza delle

prassi di coalizione, sono invece i livelli di trasparenza e verificabilità delle sedi e delle procedure di

confronto interpartitico ad aver segnato tale forza di condizionamento7.

La tendenziale sovrapposizione tra osservazione dei processi e commento di singoli eventi - ricorrenza

tipica dei "nuovi casi" politici8 - ha indotto all' "isomorfismo" nella qualificazione delle forme e dei

processi prodotti dagli attori politici.

Al contrario, io credo che l'esperimento, ormai avviato, di "bipopulismo perfetto di tipo coalizionale e

contrattuale"9 richieda sforzi ulteriori di distacco analitico, allo scopo di verificare se effettivamente gli

strumenti introdotti dal "Movimento 5 Stelle" segnino discontinuità o fratture con il passato

costituzionale dell'Italia.

3 Ad es. V. Baldini, Il contratto di governo: più che una figura nuova della giuspubblicistica italiana, un (semplice …) accordo di coalizione, in Diritti Fondamentali 1, 2018, editoriale 24 aprile 2018, 1-6. 4 O. Chessa, “Contratto di governo”: una riflessione sulle nuove parole del diritto pubblico, in laCostituzione.info, 17 maggio 2018. 5 In tale senso, si caratterizzati i commenti su testate giornalistiche e blog. 6 R. Bin, Il "contratto di governo" e il rischio di una grave crisi costituzionale, in laCostituzione.info, 16 maggio 2018 7 Cfr., per spunti sull'Italia, A. Criscitiello, Alla ricerca della collegialità di governo: i vertici di maggioranza dal 1970 al 1994, in Riv. It. Sc. Pol., XXVI, n. 2, 1996, 365-389. 8 Lo avverte B. Guy Peters, Politica comparata (1998), trad. it., Bologna, il Mulino, 2001, 163 ss. 9 Nella denominazione di M. Mandato, G. Stegher, Il tormentato avvio della XVIII Legislatura e la perdurante crisi di regime, in Nomos, 1, 2018, 4.

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I fenomeni di coalizione possono essere analizzati in molteplici modi10, anche dal punto di vista giuridico,

con riguardo soprattutto alle loro potenzialità di interferenza su quattro fronti: quello delle regole e

regolarità della discrezionalità dei singoli organi costituzionali (si pensi al ruolo del Presidente della

Camera, appartenente al soggetto politico che ha adottato tanto lo Statuto del Gruppo parlamentare

quanto il «contratto»); quello delle formule e contenuti, ai quali si dichiarano vincolati i singoli titolari

degli uffici di quegli organi (si pensi alla formula del giuramento nell'interesse "esclusivo" della Nazione

da parte dei Ministri parlamentari, doppiamente vincolati al «contratto» e allo Statuto del Gruppo di

provenienza)11; quello dei rapporti interorganici e dell'autonomia delle loro funzioni (si pensi all'esercizio

della funzione di controllo parlamentare sul Governo oppure alla sfiducia al singolo Ministro, in nome

del «contratto»); quello dell'attivazione dei canali di "giustiziabilità", con riferimento evidentemente alle

forme di accesso al giudice, compreso quello costituzionale12.

Ma i fenomeni di coalizione possono essere comparati anche nella loro specifica dimensione negoziale13,

ossia analizzando le clausole contenute negli accordi o «contratti»14, da cui traggono origine.

2. La comparazione degli accordi di coalizione

Da tale angolo di visuale, è importante verificare se e come tali clausole, piuttosto che interferire

dall'esterno su funzioni e poteri di organi e uffici, costituiscano invece autoregolamenti dei titolari degli

uffici, in termini di autonoma adesione a condivisi selettori strategici di orientamento e funzionalizzazione

della propria libertà di mandato parlamentare15.

La lettura dei pochi documenti di coalizione resi pubblici, sembrerebbe confermare l'ipotesi. Ne

scaturirebbe anche una minima classificazione di modelli.

10 Cfr. M. Vercesi, Le coalizioni di governo e le fasi della politica di coalizione: teorie e riscontri empirici, in XIX Quad. Sc. Pol., 2, 2012, 233-299. 11 In Italia, tra i primi a cogliere questi due intrecci fu P. Barile, La Costituzione come norma giuridica (1951), Firenze, Passigli, 2017. 12 Gli ultimi due profili richiamati contraddistinguono soprattutto il più recente dibattito tedesco in tema di «contratti» politici come soft law: cfr. I. von Münch, A German Perspective on Legal and Political Problems of Coalition Governments, in 30 VUWLR, 1999, 65-73. 13 Secondo una logica di osservazione dei fenomeni politico-costituzionali, che Guy Peters (op. cit., 24 ss.) ha definito di "doppia entrata". 14 Il termine «contratto» di governo, com'è noto, è stato utilizzato dal M5S sull'esempio della Germania, per indicare l'intesa tra soggetti politici elettoralmente avversari, dettata dalla necessità delle circostanze e finalizzata a sbloccare lo stallo delle fasi prodromiche al procedimento di formazione del Governo. Sembra utile ricordare che un simile lessico sia stato suggerito anche da chi, come Roberto Bin, ha poi aspramente criticato contenuti e metodo del «contratto» effettivamente siglato (Il "contratto di governo". Le procedure vengono prima dei contenuti, in laCostituzione.info, 28 aprile 2018) 15 Sulla complessità ermeneutica dei collegamenti volontari tra libertà, vincoli e mandati, cfr. la prospettiva teorica di F. Maisto, Il collegamento volontario tra contratti nel sistema dell’ordinamento giuridico, Napoli, ESI, 2002.

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Si riscontrano modelli di accordo, improntati soltanto alla formalizzazione e gestione della correttezza

comportamentale dei partiti coalizzati in quanto tali (ossia al di là del ruolo dei singoli soggetti aderenti),

poco dettagliati nel merito e proiettati invece su un metodo comune di lavoro connesso a previsioni

costituzionali che ammettono comunque l'esistenza di coalizioni: è l'esempio del Second Coalition

Government Agreement del 2015, nel Regno del Lesotho, sottoscritto dai rappresentanti di sette partiti per

l'attuazione condivisa, durante la legislatura, dell'art. 87 della Costituzione. In questa situazione, l'accordo

funge da integrazione contingente di una specifica previsione normativa costituzionale, che

indirettamente lo riconosce.

Al contrario, le disposizioni dell' "Accordo 2013-2017 tra ČSSD, ANO 2011 Movement e KDU-ČSL", nella

Repubblica Ceca, risultano molto più dettagliate, in quanto assumono ad oggetto il monitoraggio costante

delle priorità temporali del programma, attraverso un duplice nesso funzionale: il primo, tra "principi" e

"obblighi" disposti dall'accordo e incombenti su più soggetti, singoli o associati, in ragione del ruolo, se

parlamentare o di governo, e della sede, se istituzionale o interna ai singoli partiti (prevedendo persino

forme differenziate di sottoscrizione del documento); l'altro, tra correttezza "negoziata" dei

comportamenti delle parti (per esempio, l'obbligo della forma scritta nelle comunicazioni tra i

rappresentanti dei partiti coalizzati) e correttezza "autonoma" di gestione delle proprie strutture

organizzative (per esempio, per le iniziative dei parlamentari e dei gruppi rispetto all'attuazione del

programma). Qui l'accordo attiva un doppio livello di autoregolazione: di gestione diretta del rapporto di

coalizione; di salvaguardia dell'autonomia politica delle singole organizzazioni coinvolte.

Il modello esclusivamente programmatico ottativo contraddistingue invece l'olandese Coalition Agreement

Confidence in the Future 2017-2021. In questo testo, la leale collaborazione interpartitica è presupposta e

non viene dunque verbalizzata; come non verbalizzato risulta il nesso funzionale tra accordo e azione

parlamentare e di governo. In simili situazioni, l'accordo non è altro che un programma di governo.

Queste tassonomie interne agli accordi, qui sinteticamente accennate, offrono spunti di discussione

interessanti per l'attuale scenario italiano, forse più utili anche rispetto alle consolidate classificazioni che

in Austria e Germania, sin dai tempi di Weimar16, e nel Regno Unito, di recente17, hanno invece

privilegiato l'inquadramento dell'accordo di coalizione come mero "fatto" costituzionale e non come

"atto" volontario di collegamento tra titolari di uffici e funzioni degli organi.

16 Cfr. A. De Petris, Sunt pacta politica etiam servanda?: gli accordi di coalizione nella forma di governo tedesca, in Dir. Pubbl. Comp. Eur., 2, 2014, 761-797, e A Bridge over Troubled Waters?, in Rivista AIC, 2, 2018, 1-46, e ivi biblio. 17 Cfr. V. Bogdanor, The Coalition and the Constitution, London, Hart, 2011, e A. Seldon, M. Finn (eds.), The Coalition Effect, 2010–2015, Cambridge, Cambridge University Press, 2015.

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Infatti, l'atto volontario di collegamento potrebbe anche rintracciare una sua plausibile legittimità

costituzionale in termini, per esempio, di libertà di manifestazione del pensiero e libertà di associazione

appunto dei singoli titolari degli uffici. Una recente decisione della Suprema Corte de Justicia de la Nación

mexicana, riguardante la legittimità degli accordi tra partiti e la incostituzionalità dei possibili vincoli

derivanti sui rappresentanti eletti, sembra averlo ammesso, inquadrando le intese interpartitiche come

manifestazione multidimensionale di facoltà di soggetti privati (i partiti come associazioni e i singoli come

persone fisiche), titolari di uffici non sottoposti a vincoli di mandato e, proprio per questo, non

espropriabili delle libertà costituzionali a tutti riconosciute18.

In altri termini, leggendo gli accordi/«contratti», emergerebbe la constatazione che le loro clausole

potrebbero fungere da verbalizzazione di queste libertà, esercitabili appunto in ragione dell'assenza di

vincoli di mandato e dunque attivate come adesione volontaria delle parti. La "contrattualizzazione", di

conseguenza, non farebbe altro che rendere "visibili" questi antecedenti della dinamica costituzionale,

comunque esistenti tra titolari di uffici, ancorché molte volte relegati nelle "zone grigie" della rilevanza

giuridica19. Del resto, in tale direzione si mosse anche il dibattito tedesco degli anni Settanta e Ottanta sul

rapporto tra autonomia della politica e normatività della Costituzione, nella scansione delle regole

costituzionali in Verfassungsaufträge e Verfassungsbefehlen20: l'atto politico negoziato, piuttosto che

"privatizzare" la politica, la legittimerebbe in termini concreti rispetto agli spazi di discrezionalità e libertà

abilitati dalla Costituzione, dato che la stessa normatività costituzionale non opererebbe aprioristicamente

come monolitico complesso di significati univoci e unitari, ma giostrerebbe tra "imposizioni

costituzionali" su poteri e funzioni, "direttive costituzionali" su diritti e libertà, "determinanti

costituzionali" sui significati, al cui interno orientare le facoltà di azione del soggetto titolare dell'ufficio.

è come se si dovesse leggere l'art. 67 della Costituzione italiana insieme non solo agli articoli 49 o 92-95

Cost., ma anche, se non soprattutto, "in combinato" con gli artt. 18 e 21 Cost., appunto in tema di libertà

intellettuali (quindi di ideazione politica) e di associazione (quindi di libera modalità di ideazione).

Nelle recenti discussioni italiane, non sembra emerso un siffatto orientamento di analisi. Al contrario,

molta dossologia di blog e social è arrivata a invocare l'art. 67 della Costituzione italiana quasi come una

specie di figurino dell'art. 346 bis del Codice penale.

18 Acción de inconstitucionalidad 27/2009, Tesis jurisprudencial 43/2010, Gaceta, Novena Época, Tomo XXXI, abril de 2010, 1561. 19 Sulla importanza di questa area di osservazione dei fenomeni costituzionali, mi permetto di richiamare M. Carducci, Tra "zone grigie" e "antecedenti" della forma di governo, in Riv. Gruppo di Pisa, 22 settembre 2017, 1-10. 20 Cfr. G. Zimmer, Funktion-Kompetenz-Legitimation, Berlin, Duncker & Humblot, 1979, 59 ss., ma si pensi poi all'approccio sistemico di quegli anni sulla "legittimazione attraverso il procedimento".

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3. Le discontinuità del «contratto» M5S-Lega e il silenzio del Quirinale

Proviamo a vedere che cosa succede a inquadrare l'inedito «contratto» M5S-Lega nella prospettiva della

comparazione delle clausole.

Il "Movimento 5 Stelle" non è nuovo alla "contrattualizzazione" formale della proposta e della

mediazione politica21. In un contesto che aveva già conosciuto la personificazione della premiership di

governo, con i simboli elettorali contenenti il nome del "Presidente" del Consiglio dei Ministri, la ricerca

del vincolo diretto con gli elettori, con il c.d. "contratto con gli italiani" di Berlusconi, e la diffusa

diffidenza verso i c.d. "cambi di casacca nel palazzo" - oggetto, quest'ultimo, di tentativi di

formalizzazione negoziale anche da parte della coalizione di centrodestra durante l'ultima campagna

elettorale - anche il "Movimento 5 Stelle" e i suoi singoli componenti non si sono sottratti alle diverse

occasioni loro offerte di dichiararsi formalmente impegnati su determinati contenuti. Lo hanno fatto nei

confronti sia di istituzioni come l'ASVIS, aderendo agli impegni sullo sviluppo sostenibile, sia di specifici

gruppi organizzati, come quello NoTap.

L'introduzione del voto di coalizione nella legislazione elettorale delle camere non ha ostacolato questa

tendenza22: correndo da solo, il "Movimento 5 Stelle" ha cavalcato la propria autonomia di contratto nei

rapporti con l'elettorato e, dopo il risultato elettorale e la composizione dei gruppi parlamentari, ha potuto

far valere questa autonomia nei confronti degli altri partiti, inaugurando l'offerta dei "due forni".

Ma quale legittimazione specifica è stata rivendicata dal Movimento a sostegno della sua offerta

contrattuale? La Relazione, elaborata per conto del Movimento dal gruppo di lavoro coordinato dal Prof.

Giacinto della Cananea, contiene qualche indizio di risposta. È stato commissionato un rapido confronto,

in tempi molto stretti, fra il programma M5S e quelli del PD e della Lega (dunque negando rilevanza al

voto di coalizione ammesso dalla legge ed esercitato dai cittadini nei confronti dell'offerta elettorale di

centrodestra). Questo confronto si è tradotto in una serie di ricorrenze lessicali, tematiche e finalistiche,

riprodotta come quadro sinottico di «ordine dei fini e dei mezzi», redatto nella esplicita presupposizione,

dichiarata dal Coordinatore del gruppo, che l'azione di governo, «prescindendo da ogni considerazione circa i

modi con cui il Parlamento possa esercitare la sua funzione fondamentale di indirizzo politico», si esplicherebbe per

definizione «in un ambito indeterminato e indeterminabile»23, al cui interno proporre uno schema di accordo

finalizzato a far comprendere alle forze politiche «ciò che esse non vogliono, dato ciò che esse non sono» (punti 2,

4 e 5 della Relazione). Neppure un accenno è stato dedicato all'incidenza delle clausole degli accordi di

21 Più in generale, F. Pinto, Politica e contratti: una anomalia italiana, in questa Rivista, 11, 2018. 22 Si v. le condivisibili osservazioni di A. Ferrara, Formazione del Governo e vincoli di coalizione, in questa Rivista, 4, 2018, 1-6. 23 Quindi in una concezione della discrezionalità come attività libera sia nel fine che nelle modalità.

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coalizione su organi, rapporti tra organi, uffici e titolari degli uffici nel quadro della Costituzione italiana,

né al nesso di queste dinamiche con il voto di coalizione "implicito" attivato dai meccanismi della nuova

legge elettorale. Pur rivendicando l'utilità dello «studio comparato delle istituzioni» (punto 5 della Relazione), lo

schema di accordo è offerto al Movimento nella più assoluta decontestualizzazione del suo apparato

regolativo rispetto a regole e regolarità del diritto costituzionale: un prodotto "in vitro". In una logica di

Policy Seeking, si è cercato di impostare il Win Set minimo per soddisfare la richiesta bilaterale dell'intesa (i

"due forni")24.

Questa esperienza di preparazione dell'accordo di coalizione appare ben diversa e discontinua rispetto a

tutte le precedenti, incluse quelle che, anche in passato, sembravano voler conciliare l'inconciliabile (dalle

"convergenze parallele" al "patto della staffetta"). Quegli atti e le loro clausole, nelle diverse modalità e

circostanze in cui venivano rese pubbliche, risultavano serventi alle funzioni costituzionali proprie del

Governo e del Parlamento (dalle dichiarazioni programmatiche del Presidente del Consiglio al rapporto

di fiducia, alla collegialità del Governo). Operavano nella presupposizione della omogeneità reciproca

degli attori contraenti (partiti politici omogeneamente strutturati nella loro organizzazione interna e nella

loro composizione formale verso i cittadini e gli organi costituzionali). Seguivano a meccanismi elettorali

privi del voto di coalizione "implicito". Fungevano, in definitiva, da "garanzia interna" agli organi

costituzionali, nei termini già osservati da Santi Romano durante l'esperienza statutaria, come fondamento

dell'edificazione delle convenzioni costituzionali. La loro eventuali lacune producevano antinomie

apparenti tra disposizioni negoziali e disposizioni costituzionali, in quanto la mancata previsione di un

impegno condiviso non veniva tematizzato come «ciò che [le parti] non vogliono, dato ciò che esse non sono»,

bensì come pieno e autonomo recupero di altre regolarità costituzionali di varia natura e provenienza

(consuetudinaria, di correttezza ecc...)25.

Il «contratto per il Governo del cambiamento» traccia un'altra storia. Per la prima volta concordemente reso

pubblico e liberamente votato dagli elettori dei due partiti contraenti, esso si fonda sulla reciproca

inconciliabilità: una inconciliabilità, si badi, dichiaratamente assiologica, prima ancora che deontologica,

ancorché volutamente ignorata dalla "comparazione" dei programmi commissionata al gruppo del Prof.

della Cananea; una inconciliabilità che né il Koalitionsvertrag tedesco né l'Agreement inglese, entrambi evocati

nella Relazione del gruppo di lavoro, assumono come presupposizione dell'accordo.

24 Sul minimalismo analitico di questo tipo di osservazione delle coalizioni, cfr. G. Capano et al., Manuale di scienza politica, Bologna, il Mulino, 2014, 220 ss. 25 L'imprescindibile studio di A. Ruggeri, Le crisi di Governo tra ridefinizione delle regole e rifondazione della politica, Milano, Giuffrè, 1990, ha offerto un quadro ricognitivo di questa normalità regolativa dei rapporti tra partiti, coalizioni e organi costituzionali, "aggiornata"e "adeguata" nel corso della c.d. "seconda Repubblica".

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Tale inconciliabilità spiega anche la inedita composizione delle clausole del «contratto». Sul piano dei

soggetti, esso parla di "parti", identificate nei due sottoscrittori (i "capi politici" dei due partiti), che si

scambiano «reciprocamente ulteriori impegni metodologici», riguardanti, come oggetto, «il completamento del

programma di governo, la cooperazione tra forze politiche, il coordinamento all'interno del governo, anche in sede europea, e

la verifica dei risultati conseguiti», ma coinvolgenti altre figure soggettive non ben definite (i "contraenti", le

"forze politiche", i "gruppi parlamentari") o addirittura omesse ancorché presupposte (il Presidente del

Consiglio, nella misura in cui si assume il «coordinamento all'interno del governo», previsto dall'art. 95 Cost.,

come «impegno metodologico» dei sottoscrittori). Il nesso tra oggetto e soggetti appare dunque segnato esso

stesso da una serie di presupposizioni contraddittorie: si presuppone che "forze politiche" e "gruppi"

siano di fatto e di diritto ("contrattuale") dipendenti (o almeno condizionabili) dai due sottoscrittori; ma

nel contempo si presuppone che le clausole di carattere appunto metodologico, relative alle ricerca del

consenso per appianare eventuali dissensi, alla definizione di contenuti di merito non esplicitati

dall'accordo, all'onere della reciproca correttezza, all'intesa tra gruppo parlamentare e iniziativa legislativa

del singolo appartenente, derivino tutte dalla incondizionata autonomia politica dei due sottoscrittori e

dei loro rapporti con gli organi e le strutture di provenienza, in una sostanziale pari dignità di tutti i

soggetti parlamentari (in assenza della quale, l'ipotesi stessa di "accordo" per l'iniziativa legislativa,

suggerita dal «contratto», non avrebbe senso). Con questo intreccio di enunciati, il richiamo alla

Costituzione, verbalizzato nel «contratto», si manifesta come un obbligo di stile.

Ecco allora che, dal punto di vista delle sue clausole, il «contratto» M5S-Lega, ancorché discontinuo

rispetto alle prassi negoziali precedenti italiane, appare confusamente meno incisivo e dirompente degli

omologhi modelli rintracciabili in altre esperienze di coalizione, prima accennate. Esso sembra vincolare

personalmente i due "capi partito" piuttosto che produrre effetti esterni di condizionamento di altri

soggetti titolari di uffici. La sua "causa" non risiede nell'uso dei procedimenti costituzionali, bensì nel

rapporto interpersonale (di dichiarata diffidenza) dei due sottoscrittori. Non a caso, il contenuto di merito

risulta ancor più evanescente, dato che le clausole effettivamente "impegnative" per i sottoscrittori, in

termini di tempi e modalità di realizzazione, coprono una parte minima del testo, che permane ottativo e

dilatorio. è vero che il «contratto» è stato votato, a scrutinio segreto, anche dai parlamentari (oltre che dai

cittadini aderenti) nelle consultazioni promosse dai due partiti; ma non è stato da loro specificamente

sottoscritto come "patto parasociale" (a differenza di alcune esperienze straniere richiamate e a differenza

di quanto richiesto per altri tipi di impegno dei parlamentari, come il "codice etico" di M5S), sicché quel

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voto si è nutrito di quella dimensione ibrida e simbolica, ormai diffusa anche nelle sedi istituzionali di

esercizio della funzione deliberativa26.

Forse è stata questa particolare struttura del «contratto» - priva di assiologie condivise e sfilacciata nella

deontologia negoziale - a convincere il Presidente della Repubblica a non manifestare specifiche

considerazioni sul suo conto. Dopo aver acconsentito alla strategia dei "due forni" di Luigi Di Maio,

attivando i due mandati esplorativi corrispondenti, egli ha anche dichiarato, nella comunicazione

conseguente alla rinuncia del Prof. Conte all'incarico, di aver accettato pure la richiesta di consultazione

elettorale sul «contratto». Di fatto, il Quirinale ha preso atto dell'esistenza in sé dello strumento negoziale

M5S-Lega, senza nulla specificare, in un silenzio sintomatico della natura stessa del documento

interpartitico di riferimento: uno strumento dilatorio, prima ancora che un vero e proprio atto vincolante;

una verbalizzazione di impegni interpersonali, piuttosto che un vero e proprio atto di autoregolazione

volontaria della libertà di pensiero, associazione e azione di diversi titolari di uffici; un atto alla fin fine

ininfluente sull'autonomia dei parlamentari (dato che di essi si parla solo sul fronte dell'iniziativa

legislativa, ma non su altri, né su quello della comunicazione e della condivisione degli obiettivi) e solo

indirettamente riferito al ruolo del Presidente del Consiglio.

Con queste premesse, il c.d. "veto presidenziale" alla proposta del Prof. Paolo Savona ha cagionato una

inevitabile tensione con i "contraenti", prima ancora che con il Presidente del Consiglio, fino a quel

momento lasciati liberi di vincolarsi nelle modalità e nei contenuti non contestati dallo stesso Capo dello

Stato. Perché opporsi a un Ministro dell'Economia, non in linea con le "definizioni" di politica economica

e finanziaria della UE (art. 2 n. 3 TFUE), ma inserito in una prospettiva contrattuale pubblicamente

garantita dell'impegno dei due sottoscrittori e non contestata dal Capo dello Stato? Perché non

parlamentare e quindi estraneo al «contratto» al pari del Presidente del Consiglio proponente? Perché

espressivo di un indirizzo politico di governo diverso da quello "contrattualizzato"27? Nonostante

l'invocazione di "precedenti" presidenziali, utilizzati senza alcun Distinguishing, e l'evocazione della teoria

dell' "indirizzo politico costituzionale" di Paolo Barile (nel caso di specie, verosimile se il Capo dello Stato

avesse discusso di metodo e merito del «contratto» in sede di proposte di nomina), l'atto presidenziale ha

manifestato, per esplicita ammissione del suo artefice, una semplice preoccupazione personale, dentro

una cornice di azione resa inedita e confusa da quel «contratto», non indicativo della titolarità della guida

del governo, ma esplicativo delle sue politiche e, indirettamente, del loro coordinamento.

26 Cfr., sul tema, F. Biondi Dal Monte, Svelare il voto. La percezione del voto parlamentare tra comunicazione politica e rappresentanza, in Osservatorio sulle fonti, 1, 2017 (http://www.osservatoriosullefonti.it). 27 Il c.d. "Piano B" del Prof. Savona, invero assai difficilmente concretizzabile in termini costituzionali.

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Se gli atti dei poteri dello Stato manifestano pur sempre una propria Rationabilitas28, quelli del Capo dello

Stato, tra silenzi sugli atti "negoziali" e preoccupazioni personali sui soggetti, hanno certificato un'apertura

a forme di "contrattualizzazione", tanto innovative quanto evanescenti nelle loro ricadute costituzionali;

comunque ammesse, pur di scongiurare uno stallo tra partiti altrimenti irrisolvibile; forse necessarie, per

assenza di un Core Party a causa del nuovo sistema elettorale, se si volesse far propria una recente tesi di

Curini e Pinto29; in ogni caso, alla fine, assunte legittime e legittimate.

4. Le «catture» dell'autonomia politica

Quello delle coalizioni è un campo di innumerevoli variabili30: variabili interne al sistema costituzionale

(regole e regolarità e loro caratteristiche impositive o abilitative, sistemi elettorali, composizione dei partiti

ecc..) e variabili esterne (di condizionamento e "cattura" dei regolatori coalizionali). Se le variabili interne

consentono di decifrare il reciproco potere di coalizione degli attori coinvolti31, quelle esterne offrono la

misura dell'effettiva autonomia politica dei singoli titolari di uffici che autoregolamentano per via

contrattuale i propri selettori di orientamento e funzionalizzazione delle scelte e delle azioni.

La vicenda del «contratto per il Governo del cambiamento» consegna interrogativi e qualche certezza sulla

rilevanza di queste variabili esterne. In un contesto globale di depoliticizzazione della legittimità32, dove

l'indirizzo politico di qualsiasi maggioranza e le funzioni di controllo delle sue regolarità, un tempo

considerate espressioni massime della discrezionalità costituzionale33, appaiono "catturate" dalle ragioni

(anche private) dell'economia34, i singoli sembrano ricorrere al «contratto» come unico residuato di

autonomia politica, una via di connessione diretta tra voto e impegno istituzionale35, una specie di

28 Cfr. M. Perini, Il seguito e l'efficacia delle decisioni costituzionali nei conflitti fra poteri dello Stato, Milano, Giuffrè, 2003, 262 ss. e 366 ss. 29 L. Curini, L. Pinto, Breaking the Inertia: Government Formation Under the Shadow of a Core Party. The Italian Case Throughout the First Republic, in Party Politics online, 2011, 502-522, questa Rationabilitas transita su Core Party. 30 M. Tushnet, Why are there no Coalition Governments in the United States? A Speculative Essay, in Boston Univ. L. Rev., 94, 2014, 961-969. 31 T. König, G. Tsebelis, M. Debus (eds.), Reform Processes and Policy Chance: Veto Players and Decision-Making in Modern Democracies, New York, Springer, 99 ss. 32 Nella rappresentazione "frammentata" della costituzionalità, cara a G. Teubner. 33 Si pensi al dibattito degli anni Settanta e Ottanta sulle funzioni costituzionali di controllo e di garanzia, nelle diverse impostazioni di Mortati, Galizia. Galeotti, Manzella, tutte orientate appunto all'autonomia funzionale della discrezionalità costituzionale. 34 R. Manfrellotti, Il Presidente della Repubblica garante della stabilità economico-finanziaria internazionale. Considerazioni a margine di un Governo che non nacque mai, in Osservatorio AIC, 2, 2018, 1-5. 35 Cfr. spunti in A. Katsanidou, C. Eder, Vote, Party, or Protest: The Influence of Confidence in Political Institutions on Various Modes of Political Participation in Europe, in 16 Comp. Eur. Pol., 2, 2018, 290-309.

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"controlimite politico" agli input europei che rispettano le "identità costituzionali" solo come output di

conformità36.

Con il «contratto» ci si vincola reciprocamente, in modo pubblico e persino votabile dai cittadini; ora

anche certificato come legittimo e legittimato dal Capo dello Stato, ma forse - e comunque per come è

stato congegnato questo «contratto» - largamente ininfluente al di fuori del sinallagma personale dei "due

capi" e della simbolizzazione del consenso e del mandato parlamentare.

36 Cfr. S. Polimeni, L'identità costituzionale come controlimite, in IANUS, 15-16, 2017, 49-90, e la particolare tesi di A. von Bogdandy, S. Schill, Overcoming Absolute Primacy: Respect for National Identity under the Lisbon Treaty, in 48 Common Market L. Rev., 5, 2011, 1417–1454.

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di Augusto Cerri

Professore emerito di Istituzioni di diritto pubblico Sapienza – Università di Roma

Osservazioni sulla libertà del mandato parlamentare

1 3 G I U G N O 2 0 1 8

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Osservazioni sulla libertà del mandato parlamentare*

di Augusto Cerri Professore emerito di Istituzioni di diritto pubblico

Sapienza – Università di Roma

.Sommario: 1. Il divieto di mandato imperativo ed i rimedi esperibili per tutelarlo. 2. Le insuperate ragioni

storiche del divieto di mandato imperativo. 3. Coerenza del divieto di mandato imperativo con il moderno

principio di eguaglianza.

1. Il divieto di mandato imperativo ed i rimedi esperibili per tutelarlo.

Lo statuto dei gruppi parlamentari ha carattere, lato sensu, pattizio. Non saprei dire se ha natura

strettamente contrattuale o integra una “convenzione” che regola anche attività non esaustivamente

valutabili sul terreno patrimoniale. Sul punto, del resto, esiste una qualche discussione in dottrina.

La clausola che prevede una sanzione per inosservanza della disciplina del movimento (clausola penale)

è da ritenere, comunque, radicalmente nulla, perché in contrasto con “l’ordine pubblico” (applicazione

diretta o analogica dell’art. 1343 c. c.) e, segnatamente, con il principio di un esercizio dell’attività

parlamentare esente da vincoli di mandato (art. 67 Cost.).

La nullità di questa clausola potrebbe esser fatta valere in tutte le sedi giudiziarie nelle quali se ne

pretendesse l’adempimento o, comunque, se ne discutesse.

Problema ulteriore è se la nullità di questa clausola possa essere fatta valere (e da chi) anche senza

attendere una pretesa del gruppo parlamentare che tragga fondamento da quanto dispone.

Un’ipotesi potrebbe essere quella di un giudizio incidentale relativo ad una qualsiasi legge approvata dalle

nuove camere che facesse valere come vizio di questa la coartazione del dibattito parlamentare originata

* Intervento alla Tavola rotonda “Gli statuti dei gruppi parlamentari alla prova dell’art. 67della Costituzione”, Roma, 16 maggio 2018. L’Autore ringrazia l’on. Riccardo Magi per avermi inviato a questo interessante incontro di studio. L’incontro nasce dalla sollecitazione dell’on. Magi nei confronti del Presidente della Camera, perché valuti l’opportunità di un suo intervento in relazione allo statuto del gruppo “Cinque stelle”, nella parte in cui prevede una sanzione pecuniaria non lieve per inosservanza della disciplina del “movimento” da cui questo gruppo proviene.

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dallo statuto di un suo gruppo non certo secondario. L’ipotesi è tortuosa e di successo incerto, perché in

genere si nega possa aver rilievo sulla validità della legge lo stato soggettivo dei singoli parlamentari, a

differenza dei vizi che possono inerire alla funzione oggettivamente intesa (difetto di istruttoria

parlamentare, acquisizione di dati inesatti, etc.). Ciò è stato confermato dalla Corte costituzionale con la

sentenza n. 14 del 1965, per cui (punto 2 “in diritto”, alla fine): “L'art. 67 della Costituzione, collocato fra

le norme che attengono all'ordinamento delle Camere e non fra quelle che disciplinano la formazione

delle leggi, non spiega efficacia ai fini della validità delle deliberazioni; ma è rivolto ad assicurare la libertà

dei membri del Parlamento. Il divieto del mandato imperativo importa che il parlamentare è libero di

votare secondo gli indirizzi del suo partito ma è anche libero di sottrarsene; nessuna norma potrebbe

legittimamente disporre che derivino conseguenze a carico del parlamentare per il fatto che egli abbia

votato contro le direttive del partito”. Cfr., in senso conforme, Cons. Stato, sez. V, 10 giugno 2002, n.

3191 (con riguardo a voto dato in Consiglio comunale).

E, peraltro, la condizione soggettiva dei membri delle camere, anche se non rileva ai fini della validità dei

singoli atti, può assumere rilievo ai fini del complessivo corretto funzionamento dell’istituto di

rappresentanza del popolo.

Si tratta di stabilire, in sostanza, se è “praticabile” un’azione di accertamento volta ad ottenerne una

dichiarazione di nullità in via preventiva.

Un’azione di accertamento può essere proposta dal titolare di un diritto o di un interesse protetto (art. 24

Cost.) dinanzi al giudice ordinario, ma anche da un organo dello Stato, nella forma del conflitto tra poteri,

dinanzi alla Corte costituzionale. Il conflitto tra poteri, infatti, non è un giudizio strettamente

impugnatorio.

Penso si possa e si debba privilegiare, in questo contesto, che attiene a pretese e diritti inerenti all’esercizio

di una funzione pubblica di livello apicale, il rimedio del conflitto.

In un’azione di accertamento, quale è quella che si ipotizza, assume un rilievo di particolare intensità il

requisito dell’interesse ad agire, ad evitare un possibile “spreco” di attività giurisdizionale.

L’interesse è dato dalla necessità di un’azione giudiziaria per proteggere un diritto, secondo la ben nota

definizione chiovendiana, e dalla astratta adeguatezza a questo scopo del rimedio prescelto.

Nel presente caso viene in evidenza essenzialmente il primo requisito (necessità del mezzo).

La necessità dell’azione sembra sussistere sotto due profili.

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Perché, come ha osservato l’on. Magi, la clausola statutaria, benché nulla, può ingenerare nei parlamentari

iscritti al gruppo il ragionevole timore di dover subire una sanzione pecuniaria non certo lieve ove

inosservassero le direttive del Movimento; e questo ragionevole timore può perturbare il sereno e corretto

esercizio delle funzioni parlamentari.

Perché, inoltre, ogni altra sede di giudizio o di valutazione sembrerebbe non accessibile. Ho ascoltato le

interessanti considerazioni di altri colleghi che hanno partecipato a questo incontro di studio sostenendo,

con persuasivi argomenti (anche fondati su precedenti parlamentari), una competenza del Presidente della

Camera a sindacare eventuali illegittimità degli statuti dei gruppi. Ciò, dunque, palesa l’opportunità di

insistere, con argomentazioni rinnovate, presso il Presidente perché superi il suo iniziale atteggiamento

negativo. Ma se il Presidente dovesse confermarlo non sussisterebbe, all’interno al “diritto parlamentare”,

nessun rimedio ulteriore per rimuoverlo. Emergerebbe, allora, l’interesse a coltivare un’azione giudiziaria

esterna. L’interesse ad agire, specie nei “conflitti intra potere” (fra organi interni, cioè, ad uno dei tre

poteri tradizionali) presuppone che non esistano rimedi, di rilievo costituzionale, all’interno del potere

medesimo e ciò, dunque, concorre a qualificare il rimedio quale “residuale”, come mi sono permesso di

dire in altra sede.

Se il Presidente della Camera persiste nel ritenere la sua incompetenza ad esercitare una valutazione di

legittimità costituzionale degli statuti dei gruppi parlamentari, nonostante le argomentazioni di certo

plausibili addotte in senso contrario, per ciò stesso conferma che unica via per ristabilire i principi

costituzionali è quella di un conflitto dinanzi alla Corte costituzionale.

Ciò si dice a prescindere da ogni ulteriore considerazione sulla esaustività, in questo caso, dei rimedi

interni, esaustività che talvolta è stata messa in discussione, come nel caso della giurisdizione domestica.

In queste condizioni neppure sarebbe proponibile una eccezione che intendesse far valere la

insindacabilità delle valutazioni effettuate dagli organi delle camere. Ricordo le sentenze n. 78 del 1984 e

379 del 1996.

Nel caso, non ricorrono le condizioni per sottrarre alla valutazione del diritto generale vicende interne al

diritto parlamentare, perché difetta una qualificazione della fattispecie ad opera del regolamento della

Camera (sent. 379/1996: “Quando i comportamenti dei membri delle Camere trovino nel diritto

parlamentare la loro esaustiva qualificazione, nel senso che non esista alcun elemento del fatto che si

sottragga alla capacità qualificatoria del regolamento, non possono venire in considerazione qualificazioni

legislative diverse, interferenti o concorrenti, anche se da queste possa risultare il rafforzamento di un

giudizio di disvalore già desumibile dalla stessa disciplina regolamentare; non può pertanto essere

ammesso, in simili casi, un sindacato esterno da parte dell'autorità giudiziaria. Proprio in ciò consiste,

infatti, la riserva normativa -- che include il momento applicativo -- posta dagli artt. 64 e 72 della

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Costituzione a favore di ciascuna Camera. Si può anzi dire che l'essenza della garanzia contro

l'interferenza di altri poteri che la Costituzione riconosce alle Camere è data proprio dalla esclusività della

capacità qualificatoria che il regolamento parlamentare possiede allorché la disciplina da esso posta sia

circoscritta all'organizzazione interna di ciascuna Camera, ai procedimenti parlamentari e allo svolgimento

dei lavori.”).

In questo caso, infatti, non si tratta di una norma del regolamento della Camera ma di clausola statutaria

di un gruppo. Ed, inoltre, neppure è venuta in essere una valutazione di organo parlamentare competente

di cui si possa ipotizzare una qualche insindacabilità.

Soggetto attivo e passivo di un conflitto può essere il singolo parlamentare o anche il gruppo

parlamentare, in quanto attributari di competenze di livello costituzionale.

La giurisprudenza della nostra Corte non ha mai negato, in astratto, un conflitto promosso dal singolo

parlamentare a tutela dei suoi diritti, facoltà, poteri, del suo status complessivo, anche se poi ha

considerato, di volta in volta, non ammissibili le azioni proposte, ritenendo che veicolassero pretese

proprie anche della camera di appartenenza nel suo complesso e ritenendo, in questa area di

sovrapposizione, assorbente la legittimazione di quest’ultima, al punto tale da escludere anche un

intervento adesivo. Ha riconosciuto, peraltro, in astratto l’ammissibilità di conflitti del singolo

parlamentare in base a sole norme di immediata rilevanza costituzionale e non del regolamento della

camera di appartenenza (ordinanza n. 149/2017; ordinanza n. 280 del 2017).

È stata ammessa, con effetti operativi, una soggettività al conflitto delle commissioni parlamentari

d’inchiesta (cfr., ad es., sentenze n. 13, 231/1975; n. 241/2007; n. 26/2008; ), del Comitato parlamentare

per i servizi di informazione e sicurezza e per il segreto di Stato (decisioni n. 209 del 2003; 384 del 2004,

139 del 2007) e fin anche della Commissione bicamerale di vigilanza sulla radio televisione, non avvalorata

da previsione costituzionale (la Costituzione considera solo le commissioni interne a ciascuna camera e

non quelle bicamerali): cfr. sentenze n. 49 del 1998; n. 69, 174, 175 del 2009.

Deve, dunque, essere ammessa una soggettività al conflitto del gruppo parlamentare come tale, le cui

funzioni sono costituzionalmente avvalorate, ai sensi dell’art. 72, comma 3, Cost.

La giurisprudenza del giudice costituzionale federale tedesco, nell’ambito dei conflitti fra organi

(Organstreitigkeiten) ammette, in via non solo teorica, una soggettività ed una legittimazione del singolo

parlamentare per la difesa del suo complessivo status, per l’esistenza ed il concreto esercizio del mandato

ai sensi dell’art. 38 del Grundgesetz e del regolamento della camera di appartenenza e fin anche per una

eventuale e dimostrata violazione, nei suoi confronti, del principio di eguaglianza (cfr., ad es.,

BVerfGE,80 Band, 188, spec. 218; 94 Band, 351, spec. 366; 99 Band, 19, spec. 28, 30, etc.). Ammette anche

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una soggettività al conflitto di parti dell’organo, come minoranze, cui siano riconosciuti specifici diritti,

non, dunque, delle minoranze che di volta in volta emergono nell’approvazione di una legge (cfr., ad es.,

BVerfGE, 2 Band, 143, spec. 160 ss.; 60 Band, 319, spec. 325; 68 Band, 1, spec. 77, etc.). È implicito in

quanto detto che tale soggettività / legittimazione non può sovrapporsi a quella della camera tutt’intera

(cfr. K. Schlaich – Koriot, Das Bundesverfassungsgericht, München 2007, 56-57).

Le garanzie così assicurate debbono ritenersi, comunque, più penetranti di quelle che risultano dalla

giurisprudenza della nostra Corte in quanto lo scrutinio del Tribunale costituzionale tedesco non si arresta

di fronte ad una decisione degli organi competenti della Camera considerata.

Ma, nel caso, il diritto dei parlamentari e dei gruppi è messo in discussione non da decisioni degli organi

competenti delle Camera, ma dallo statuto di un altro gruppo.

Il diritto fatto valere è un diritto ad un dibattito adeguato, che risulta perturbato da una clausola

contrattuale che pone pesanti sanzioni a carico di chi, nel corso del dibattito, avesse a convincersi di

argomenti portati avanti da parlamentari appartenenti ad un diverso gruppo.

Il Parlamento è un luogo in cui si “parla” e la parola non è pura emissione di suoni inarticolati ma è

enunciato di proposizioni dotate di un significato e di un senso. Se il dibattito parlamentare è parte

inseparabile delle decisioni da prendere non può essere assolutamente sterilizzato da misura preventive.

Il risvolto attivo della libera manifestazione del pensiero si congiunge immancabilmente ad un risvolto

passivo dell’ascolto, senza di cui non ha senso. Impedire questo risvolto passivo significa ostacolare anche

quello attivo (cfr., ad es., sentenza n. 105 del 1972; 225 del 1974; 94 del 1977;112 del 1993). Ed, a fortiori,

non può ammettersi nell’ambito di un organo dello Stato fra le cui funzioni precipue rientra quella di

discutere.

Certo, sarebbe ingenuo pensare a continui mutamenti di opinione in seguito a dibattiti volti piuttosto a

garantire la trasparenza delle istituzioni.

Ma sembra anche innegabile che la circostanza per cui un parlamentare singolo o un insieme di

parlamentari o, addirittura, tutti i parlamentari eletti con una determinata “lista” si discostino, in tutto o

in parte, dalle indicazioni od anche dalle coalizioni elettorali è, nel vigente sistema, fatto da valutare solo

in sede politica, non produttivo, per sé, di conseguenze giuridiche. Ripeto, con la sentenza n. 14 del 1964:

“nessuna norma potrebbe legittimamente disporre che derivino conseguenze a carico del parlamentare

per il fatto che egli abbia votato contro le direttive del partito”. Ed, anche, come è ovvio, nessuna clausola

convenzionale o contrattuale.

Sia detto tra parentesi, il mutamento di casacca di un parlamentare è un fatto possibile ed anche

fisiologico, salvo risvolti penali (che debbono, peraltro, essere attentamente mediatati e dimensionati alla

stregua di una dinamica politica “fisiologica” e non “patologica”).

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L’interesse ad un dibattito corretto e fecondo, risvolto passivo inseparabile della libera manifestazione

del pensiero, sorregge un ricorso per conflitto contro un gruppo parlamentare che, nel suo statuto,

prevede una sterilizzazione dei suoi effetti.

Ragioni di soggettività e legittimazione al conflitto ed anche ragioni pratiche sembrano, invece, precludere

una valutazione, in sede di giustizia costituzionale, della composizione di un governo quando alcuni suoi

membri si ritengano vincolato ad una sorta di mandato imperativo. Legittimate al conflitto sarebbero solo

le camere, ma queste esprimono le medesime tendenze politiche della controparte ipotetica, in altri

termini, del governo.

2. Le insuperate ragioni storiche del divieto di mandato imperativo.

Si adduce in senso contrario la tradizione del mandato imperativo dei Parlamenti medievali ed anche il

sogno, sempre rinnovato, di una democrazia diretta”, da attuare attraverso un “ritorno alle origini”, prima

che la “rivoluzione borghese” ne prevedesse il divieto.

In seguito all’avvento dei grandi partiti di massa, il divieto di mandato imperativo è, senza dubbio, entrato

“in sofferenza”. Sul punto si sono cimentati vari illustri autori. Ricordo solo Georges Burdeau, quando

contrappone l’homme situé, protagonista della democrazia moderna, al citoyen, protagonista di quella

borghese, la difesa dei propri interessi, nel nuovo contesto, al “punto di vista nell’interesse generale”, nel

contesto di partenza (Traité de science politique, 7 voll., Paris 1949-57, passim ; Idem, La democrazia, trad. it.,

Milano 1964). Hanno così assunto rilievo i “programmi”, proposti dal partito come tale e non la sana

gestione dell’esistente affidata ai “notabili” che ispirano maggiore fiducia.

Il nuovo contesto dei partiti di massa fra loro contrapposti ha contribuito a trasformare istituti

tradizionali, come la riserva di legge, che tuttavia conserva risvolti di garanzia dati dalla pubblicità del

dibattuto e dalla trasparenza (ricordo Sergio Fois).

E, tuttavia, un puro ritorno al passato si è rivelato non praticabile ed il divieto di mandato imperativo è

sopravvissuto a tutti gli assalti, in quasi tutte le costituzioni. E, ciò, a tacer d’altro, per alcune ragioni.

Perché le decisioni da prendere in una società come quella attuale sono varie, complesse e, sovente,

impreviste.

Perché le valutazioni dei protagonisti della vita politica e, prima ancora, del corpo elettorale, sono, a loro

volta, complesse e bilanciate, non semplici e “monotone”, a differenza delle valutazioni dei parlamenti

medievali delle origini, che attenevano a pochi temi, fra i quali preminente era quello fiscale. Si è passati

dallo ius dicere allo ius condere e ciò ha comportato un accrescimento delle funzioni della camere non

contenibile in ordini del giorno scarni e semplici da discutere in convocazioni sporadiche. Già nei

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parlamenti “premoderni” , ad un certo punto, il mandato imperativo è entrato in sofferenza, perché

costringere, in seguito all’insorgere di temi nuovi da discutere e decidere, ad un anti economico ritorno

per riferire (ad referendum) alla base elettorale e per ricevere nuove istruzioni di voto, è apparso sempre più

anti economico e sempre meno sostenibile. È nata, così, la prassi del conferimento di una plena potestas,

che ha superato l’istituto del mandato imperativo (cfr.., ad es., G. Post, Studies in Medieval Thought. Public

law and State, Princeton - New Yersey 1964, 91).

Perché la base elettorale di ogni membro del parlamento è complessa e composita, data da un collegio

(constituency) delimitato in ragione del territorio e del numero delle persone residenti e non del ceto e dei

comuni interessi. Si può votare per una lista o una coalizione (controfigure del partito nella sede

elettorale), per vari motivi (perché si condivide una parte e non tutto il programma, ad es.) e non solo per

una condivisione totale del programma stesso.

3. Coerenza del divieto di mandato imperativo con il moderno principio di eguaglianza.

Ed allora, sembra anche si possa sostenere che il divieto di mandato imperativo, in quanto coerente ad

un collegio elettorale non commisurato ad interessi ab origjne omogenei, fondato cioè su una individual

regarding equality e non su di una bloc regarding equality è principio supremo del sistema costituzionale (ricordo

D. Rae, and D. Kates, J. Hocschild, J. Morone, C. Fessler), Equalities, Harward Un. Press, Cambridge

(Mass.) and London (England), 1981, 20 ss., 32 ss.).

Mentre nel diritto medievale il sistema corporativo era immediatamente parte dell’ordinamento generale

(nel senso che poneva norme, prevedeva tribunali cui tutti erano soggetti) nel diritto contemporaneo il

pluralismo sociale non è, di certo, cancellato, ma assume un rilievo indiretto, nel senso che crea vincoli

efficaci in specifici ambiti ma non immediatamente per i “terzi” e nel sistema complessivo.

Talvolta si distingue "égalité devant la loi" ed égalité dans le loi (L. Ingber, in AA. VV., sous la direction de R.

Dekkens, P. Foriers, Ch. Perelman, L'égalité, Bruxelles 1971-79 (voll. 8), I, 31 ss. L’égalitè devant le loi è,

per dirla con Carlo Esposito (Eguaglianza e giustizia nell'art. 3, in La Costituzione italiana - Saggi, Padova,

1954), pari soggezione di tutti i cittadini alle stesse fonti del diritto e agli stessi tribunali, fonti e tribunali

di un ordinamento alla cui formazione tutti partecipano. L’eguaglianza moderna comprende entrambi

questi profili e non si accontenta del secondo. Il passaggio è colto anche da uno studioso svizzero, da

uno studioso, cioè, di un sistema giuridico che è transitato dall’uno all’altro concetto di eguaglianza, in

una apparente continuità (cfr. S. Frick, Die Gleichheit aller Schweizer vor dem Gesetz, Aarau 1945, 54 ss., 74

ss., 105 ss.).

Il principio di eguaglianza moderno non accetta un’efficacia esterna immediata di vincoli che operano

nell’ambito interno di organizzazioni sociali, fuori da “cause contrattuali” socialmente feconde e

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condivise (suscettibili di esser valutate, come tali, dal giudice); cause contrattuali che impegnano, bensì, il

sistema ad offrire i presidi della coercizione (enforcement), ma restano, a loro volta, vincolanti solo fra le

parti e suscettibili di avere effetti solo riflessi per i terzi.

Un vincolo di mandato, invece, proietta il legame che vincola i membri di una organizzazione in una sfera

esterna che coinvolge, in via immediata, tutti coloro che hanno contribuito ad eleggere un deputato o

senatore, indipendentemente dai motivi (che possono esser non identici fra loro) che hanno sorretto la

loro scelta.

Il principio di eguaglianza ed il modo in cui viene declinato nel nostro sistema giuridico sembra essere,

appunto, un principio fondamentalissimo che ne determina l’identità.

In questo nuovo contesto, se si vuole accedere a strumenti di democrazia diretta, occorre impiegare istituti

nuovi come il recall, mentre non è consentito ripercorre le vie di istituti complessivamente superati.

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di Adriana Ciancio

Professore ordinario di Diritto costituzionale Università di Catania

Disciplina di gruppo e tutela del parlamentare dissenziente

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Disciplina di gruppo e tutela del parlamentare dissenziente*

di Adriana Ciancio

Professore ordinario di Diritto costituzionale Università di Catania

Sommario: 1. Premessa – 2. Una questione non meramente politica: la portata dell’art. 67 Cost. nel circuito della democrazia rappresentativa – 3. Sulla natura giuridica dei gruppi parlamentari (cenni) – 4. La recente riforma del Regolamento del Senato e l’opportunità di valorizzare la figura del parlamentare cd. “indipendente” – 5. La natura giuridica dei gruppi ai sensi del Regolamento della Camera: i gruppi parlamentari come autonomie funzionali – 6. Statuti dei gruppi ed efficacia delle relative previsioni – 7. La problematica tutela del dissenso individuale dinanzi al giudice comune – 8. La prospettiva del conflitto costituzionale a tutela dei parlamentari “contro” i gruppi di appartenenza – 9. Attribuzioni del Presidente della Camera e attività di controllo sugli statuti dei gruppi parlamentari

1.Premessa

L’odierno contributo scaturisce dall’iniziativa dell’On. Riccardo Magi (membro della corrente “+Europa-

Centro democratico” del Gruppo Misto) di inviare il 9 aprile u.s. una lettera al Presidente della Camera

dei Deputati, On. Roberto Fico, al fine di conoscere quali iniziative quest’ultimo intendesse adottare con

riferimento alla statuto del gruppo parlamentare del “Movimento 5 stelle” (al quale lo stesso Presidente

dell’Assemblea, peraltro, aveva aderito sin dall’avvio della legislatura), trasmessogli, per la pubblicazione

sul sito Internet della Assemblea, entro 5 giorni dalla sua approvazione, ai sensi di quanto dispone l’art.

15, comma 2bis del Regolamento. In particolare, nella missiva si censurava la previsione contenuta all’art.

21 comma 5 del richiamato statuto (di cui si aveva notizia attraverso gli organi di stampa, nelle more

dell’effettiva pubblicazione), in base al quale “il deputato che abbandona il gruppo parlamentare a causa di espulsione

ovvero abbandono volontario ovvero dimissioni determinate da dissenso politico sarà obbligato a pagare, a titolo di penale,

al Movimento 5 stelle, entro dieci giorni dalla data di accadimento di uno dei fatti sopra indicati, la somma di euro

100.000,00”.

Il timore espresso dallo scrivente, in estrema sintesi, riguardava la circostanza che tale disposizione si

ponesse in palese contrasto con l’art. 67 della Costituzione, nel punto in cui sancisce la libertà del mandato

parlamentare, ritenuto principio fondamentale del vigente sistema di democrazia rappresentativa. Da qui

la sollecitazione rivolta al Presidente dell’Assemblea di intervenire con i provvedimenti ritenuti più

* Intervento alla Tavola rotonda “Gli statuti dei gruppi parlamentari alla prova dell’art. 67 della Costituzione”, Roma, 16 maggio 2018.

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opportuni a garantire l’istituzione nel suo complesso, oltre che la posizione e le prerogative dei singoli

deputati, quali previste dalla Costituzione e dal Regolamento parlamentare.

Di tenore sostanzialmente analogo era, poi, altra missiva, rivolta al medesimo destinatario due giorni

dopo dall’On. Stefano Ceccanti (deputato iscritto al gruppo PD), il quale, peraltro, avrebbe di lì a poco

richiamato in parte il contenuto delle questioni sollevate per iscritto anche nel corso di una successiva

seduta della Camera.

A tali sollecitazioni il Presidente dell’Assemblea rispondeva, a distanza di alcuni giorni, con la precisazione

che l’invio dello statuto dei gruppi è stato previsto, nella riforma regolamentare del 2012, soltanto a fini

di trasparenza e di pubblicità, in connessione agli obblighi di rendicontazione adesso gravanti sui gruppi

in relazione alle contribuzioni finanziarie di cui questi sono destinatari, ma che nessun potere di controllo

sulle manifestazioni di autonomia normativa degli stessi gruppi fosse stato introdotto con le accennate

modifiche del Regolamento generale della Camera. Tantomeno un tale potere sarebbe deducibile dall’art.

8 del medesimo Regolamento, che, nell’enunciare i compiti del Presidente dell’Assemblea, include, come

noto, quello di farne osservare le disposizioni, ma che, tuttavia, non comprenderebbe il sollecitato

intervento sugli statuti dei gruppi parlamentari, come risulterebbe confermato anche dalla recente prassi

parlamentare.

In conclusione, pertanto, il Presidente della Camera si dichiarava privo di un potere di riscontro della

conformità degli statuti dei gruppi alla normativa regolamentare e/o, persino, a quella costituzionale, nella

(invocata) perdurante assenza di specifiche previsioni dei regolamenti camerali, che di tale potere

disciplinino esercizio, limiti ed effetti sul piano dell’ordinamento parlamentare.

La risposta – come prevedibile – non lasciava soddisfatti i firmatari delle citate missive, che anticipavano

al proposito nuove iniziative, sollecitando anche il contributo della dottrina.

2. Una questione non meramente politica: la portata dell’art. 67 Cost. nel circuito della

democrazia rappresentativa.

Ed, invero, la vicenda richiama delicate problematiche di diritto costituzionale, sulle quali, pertanto,

conviene oggi ritornare1.

Tra esse, in ordine logico, non può non venire anzitutto in considerazione il rilievo che è da riconoscere

nell’attuale assetto di democrazia rappresentativa alla formula contenuta nella seconda parte dell’art. 67

della Costituzione, comunemente riassunta nei termini del cd. “divieto di mandato imperativo”. Orbene

– a parte la questione della problematica compatibilità dell’art. 21, V co. St. Movimento 5 stelle con tale

1 Per maggiori approfondimenti in materia può leggersi, sin d’ora, A. CIANCIO, I gruppi parlamentari. Studio intorno a una manifestazione del pluralismo politico, Milano, 2008, passim, spec. Cap. 3, interamente dedicato al tema odierno.

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assunto, da cui prendono spunto queste riflessioni – da tempo ormai, e talora insistentemente, varie forze

politiche rilasciano dichiarazioni ove si ventilano future iniziative di revisione costituzionale, tese ad

abrogare la disposizione secondo cui ciascun parlamentare “esercita le sue funzioni senza vincolo di

mandato”. Invero, tale intendimento sarebbe motivato, fra l’altro, con la necessità di porre un freno ai

frequenti cambiamenti di gruppo (cd. “mobilità parlamentare”)2, anche collettivi e persino trasversali agli

opposti schieramenti di maggioranza e opposizione, che, per lo meno dagli inizi degli anni ’903, hanno

contribuito a determinare un panorama parlamentare estremamente instabile e frammentario e comunque

non coincidente con il quadro politico scaturito dalle elezioni, sfociando non di rado nella costituzione

di nuovi gruppi in corso di legislatura, prodottisi per scissione da altri precedenti raggruppamenti e come

tali privi, al loro sorgere, di qualsiasi legittimazione elettorale. Peraltro, non può disconoscersi che tali

cambiamenti siano stati, anche di recente, provocati da episodi di effettivo dissenso politico dei

parlamentari cd. “transfughi” rispetto al gruppo di appartenenza, tanto più allorquando le cronache

registrano che sia quest’ultimo a discostarsi dai proclami elettorali e dagli enunciati programmatici, sicché

in queste ipotesi il contegno del parlamentare che abbandona il gruppo di originaria adesione andrebbe

interpretato come gesto di estrema coerenza politica nei confronti degli elettori4. E, tuttavia,

frequentemente il “cambio di casacca” dei parlamentari è apparso motivato da ragioni meno nobili, quali

quelle indotte da mero calcolo individuale, ovvero dal tornaconto strettamente personale in termini di

progressione nella carriera politica o, persino, da vantaggi di natura patrimoniale, manifestando in tali casi

i segni di un deprecabile trasformismo politico.

Da qui reiterate e varie sollecitazioni all’adozione di contromisure, che non di rado sono sfociate nei citati

appelli all’abrogazione del divieto di mandato imperativo, sostenuti a livello dottrinale dalla

considerazione del ruolo assegnato ai partiti nell’ordito costituzionale, in correlazione al principio della

sovranità popolare di cui al secondo comma dell’art.1 Cost. Invero, secondo taluni non potrebbe

ammettersi che i parlamentari operino nelle Assemblee in totale libertà sulla scorta di quanto previsto

2 Nella impossibilità di dar conto in questa sede della vastissima dottrina formatasi in proposito, sia consentito far limitato rinvio a A. CIANCIO, L’esercizio del mandato parlamentare nella normativa sui gruppi: disciplina vigente ed esigenze di riforma, in Scritti in onore di M. Scudiero, I, Napoli, 2008, 553 ss., spec. 562 ss., ed ivi gli opportuni richiami ad altra letteratura sul tema. 3 Per una puntuale ricognizione dei cambiamenti di gruppo avvenuti nella XII legislatura, cfr. C. DE CARO BONELLA, I gruppi parlamentari nella XII legislatura, in Rass. Parl., 1996, 360 ss.; e L. VERZICHELLI, I gruppi parlamentari dopo il 1994. Fluidità e riaggregazioni, in Riv. It. Sc. Pol., 1996, 398 ss. Per il riferimento ai dati sulla mobilità parlamentare nella XIII legislatura, cfr., poi, S. CURRERI, I gruppi parlamentari nella XIII legislatura, in Rass. Parl. 1999, 288 ss. 4 Sottolineano la difficoltà di stabilire a priori se siano i parlamentari “transfughi” o non piuttosto il gruppo cui hanno aderito (ovvero lo stesso partito nelle cui fila sono stati eletti) a non rispettare gli impegni elettorali, tra gli altri, A. SPADARO, Riflessioni sul mandato imperativo di partito, in Studi parl. Pol. Cost., 1985, 34; e N. ZANON, Il transfughismo parlamentare: attenti a non toccare quel che resta del libero mandato, in Quad. cost., 2001, 139-140.

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dall’art. 67 Cost., poiché tale conclusione si porrebbe in contrasto con il principio democratico, quale va

ricostruito dal combinato disposto degli artt. 1, 48 e 49 Cost., che sul punto fanno sistema e con cui il

contenuto dell’art. 67, pertanto, andrebbe necessariamente armonizzato. In base a tale ricostruzione, nel

moderno Stato pluralista il sistema sarebbe realmente democratico solo allorché l’apparato statale

recepisce la volontà politica del corpo elettorale attraverso l’intermediazione istituzionalizzata dei partiti,

che, nell’espletamento dei loro compiti, si porrebbero quali elementi di raccordo indefettibile tra la società

e gli eletti, questi ultimi riuniti nelle Assemblee elettive in gruppi. Gli elettori, infatti, non voterebbero

solo il partito, né tantomeno si limiterebbero a scegliere il candidato, a maggior ragione con un sistema

elettorale, come l’attuale, che non contempla il voto di preferenza e, pertanto, non lascia margine oltre

l’individuazione della forza politica per cui votare. In tale modello i gruppi parlamentari costituirebbero

il punto di snodo di un percorso, che muove dai cittadini e dal loro “concorso alla politica nazionale”,

tramite l’intermediazione essenziale dei partiti politici, che quel concorso sono chiamati a realizzare al

momento elettorale, per approdare “ai gruppi e ai comportamenti dei loro membri5. Ciò giustificherebbe,

in ultima analisi, la subordinazione di ciascun parlamentare (nonché dello stesso gruppo cui è iscritto) agli

intendimenti politici del partito (e/o della correlativa coalizione elettorale) e quindi prospettati agli elettori

al momento del voto6. In tal modo il circuito costituito dagli artt. 1, 48 e 49 Cost. fornirebbe i limiti entro

cui ricondurre la portata dell’art. 67, che verrebbe ridotta, allora, a previsione di mera organizzazione

costituzionale7.

A tale tesi si contrappone la dottrina maggioritaria, mettendo in luce la natura del divieto di mandato

imperativo quale principio di struttura dei moderni sistemi di democrazia rappresentativa, in quanto

condizione necessaria a “rendere possibile l’attività rappresentativa, intesa come agire per il popolo nella

sua totalità”8. E tale interpretazione impedisce, di conseguenza la stessa revisione, per così dire, in peius

dell’art. 67 Cost.9, baluardo di quei tentativi di modifica del Testo fondamentale, che, sotto la spinta di

un’aspirazione, per così dire, “moralizzatrice” della vita politico-parlamentare, intenderebbero attenuare

la libertà dei parlamentari, incrinando lo stesso principio del mandato non vincolato. Invero, pur senza

potersi disconoscere la funzione fondamentale dei partiti, destinati a selezionare ed esprimere gli interessi

5 Cfr. P. CARETTI, I gruppi parlamentari nell’esperienza della XIII legislatura, in Democrazia, rappresentanza, responsabilità, a cura di L. Carlassare, Padova, 2001, 54. 6 Così A. MANNINO, L’abuso della mobilità parlamentare: ripensare il divieto di mandato imperativo, in Quad. cost., 2001, 135 ss. 7 Secondo la lettura di A. MANNINO, La mobilità parlamentare tra principio democratico, rappresentanza nazionale e divieto di mandato, in Democrazia, rappresentanza, responsabilità, cit., 69 ss. 8 In tale senso, tra gli altri, E. W. BÖCKENFÖRDE, Democrazia e rappresentanza, in Quad. cost., 1985, 247. 9 Sull’inclusione del “nucleo essenziale” dell’art. 67 Cost. tra i limiti impliciti alla revisione costituzionale, per tutti, N. ZANON, Il libero mandato parlamentare. Saggio critico sull’art. 67 della Costituzione, Milano, 1991, passim, spec. 333.

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generali della collettività, rendendosene intermediari con le istituzioni10, tale funzione va declinata in

coerenza con la trasformazione della rappresentanza registratasi nel passaggio dallo Stato liberale

monoclasse a quello democratico pluriclasse, in cui la libertà del parlamentare, che rappresenta l’intera

Nazione (e non l’uno o l’altro gruppo di elettori o, peggio, gruppo di interessi) senza subire l’imposizione

di mandati vincolati si pone a garanzia della reale dialettica parlamentare e, in definitiva, di effettiva

democraticità del sistema11, nella misura in cui, oltretutto, offre un contrappeso allo strapotere altrimenti

assumibile dalle oligarchie di partito, che, in mancanza del divieto di mandato imperativo, potrebbero

facilmente ottenere la costante ed acritica ubbidienza degli eletti.

Il divieto di mandato imperativo, pertanto, va collocato al cuore dell’odierno sistema di democrazia

rappresentativa, tanto più se si considera che i partiti rappresentano solo uno – probabilmente il più

importante, e tuttavia non l’unico – strumento per consentire la partecipazione politica dei cittadini12. A

maggior ragione, poi, tale affermazione va ribadita nel contesto politico attuale in cui il partito politico

appare profondamente trasformato rispetto alla sua risalente configurazione come formazione sociale13,

avendo ormai in buona parte perso la tradizionale connotazione di partito di massa, per atteggiarsi, nella

maggior parte dei casi della più recente storia politica italiana, come partito “personale”14. Ciò contribuisce

a sfumare, nella nota querelle sul ruolo degli stessi partiti nella democrazia pluralista, la convinzione che

essi costituiscano (la sola) condizione indispensabile al raggiungimento dei compromessi necessari a

ricondurre la pluralità degli interessi individuali all’unità dell’interesse generale, che diversamente

resterebbe un’aspirazione metafisica ed ideale15, lasciando spazio alla diversa conclusione che esclude che

in una società pluralistica essi detengano “il monopolio della mediazione tra società e Stato”16.

10 Di recente in proposito, cfr., ex multis, P. MARSOCCI, Sulla funzione costituzionale dei partiti e delle altre formazioni politiche, Napoli, 2012; e M. GORLANI, Ruolo e funzione costituzionale del partito politico, Bari, 2017, spec. 146 ss. 11 Approfonditamente, sulle origini del divieto di mandato imperativo e sulla sua affermazione parallelamente ai principi della rappresentanza politica, cfr. ancora, per tutti, N. ZANON, Il libero mandato parlamentare, cit., 33 ss. 12 In tal senso già, ex pluribus, T. MARTINES, Partiti, sistema di partiti, pluralismo, in Studi parl. pol. cost., 1979, 15-16; e P. RIDOLA, Partiti politici, in Enc. Dir., XXXII, Milano, 1982, 97. 13 Sui partiti come formazioni sociali, per tutti, C. CHIMENTI, I partiti politici, in Manuale di diritto pubblico. II. L’organizzazione costituzionale, a cura di G. Amato –A. Barbera, V ed. Bologna, 1997, 51 ss. Sulle trasformazioni che hanno interessato negli ultimi decenni i partiti, nella dottrina più recente, v. F. SGRÓ, Legge elettorale, partiti politici, forma di governo, Padova, 2014, 172 ss.; e 209 ss. 14 Secondo la definizione di A. BARBERA, La Costituzione della Repubblica italiana, Milano, 2016, 73 ss. 15 Così, notoriamente, H. KELSEN, Essenza e valore della democrazia, trad. it., III ed., Milano, 1959, 57 ss. 16 Cfr. D. NOCILLA, Il libero mandato parlamentare, in Annuario 2000. Il Parlamento, Atti del XV Convegno annuale dell’A.I.C., Padova, 2001, 70.

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3. Sulla natura giuridica dei gruppi parlamentari (cenni)

Così ribadita la centralità del divieto di mandato imperativo nell’odierno circuito della democrazia

rappresentativa, può cominciare a trovare risposta l’interrogativo sull’efficacia delle previsioni, contenute

negli statuti dei gruppi (e/o di partito), che prevedono sanzioni per l’ipotesi di espulsione e/o di

abbandono volontario dal gruppo (ovvero dal partito).

In tale ottica, invero, le uniche sanzioni praticabili sarebbero di natura politica, tra cui, principalmente, la

mancata ricandidatura del parlamentare dissenziente. Conclusione, che si lega, peraltro, alla natura dei

gruppi, da considerare altra manifestazione – sul piano prettamente istituzionale - di quel pluralismo

politico che, posto a cardine del sistema democratico, si manifesta già sul piano sociale attraverso

l’aggregazione in partiti17. Invero, da tempo abbiamo argomentato la tesi che rinviene nei gruppi natura

associativa, con tutte le conseguenze connesse in termini di efficacia giuridica dei loro statuti18. E ciò,

principalmente, muovendo dal rilievo della non obbligatorietà – a termini di Costituzione formale –

dell’adesione dei parlamentari ai gruppi, a fronte del mero rinvio ad essi contenuto negli artt. 72 e 8219,

quali termini di riferimento per la costituzione delle Commissioni, rispettivamente, legislative e di

inchiesta. Viceversa la necessità di aggregazione in gruppi risulta tradizionalmente presente nelle

disposizioni dei regolamenti camerali20, come depone la previsione, in entrambe le Camere, del gruppo

misto, che avrebbe contribuito a trasformare in un vero e proprio obbligo per il parlamentare, sul piano

della Costituzione materiale, quello che la Carta fondamentale a rigore prefigurava quale un mero onere

per ciascun membro del Parlamento21, che volesse partecipare in tutte le sedi all’attività parlamentare,

dovendosi viceversa ritenere il parlamentare che non aderisse a nessun gruppo escluso solo dall’esercizio

della funzione legislativa (e, per di più, soltanto quando esercitata in sede decentrata) e dall’attività

ispettiva svolta in forma di inchiesta. Ciò che non intaccherebbe, tuttavia, il principio sulla pienezza e

libertà del mandato parlamentare, garantito dal richiamato art. 67 a tutti gli eletti, i quali, pertanto,

dovrebbero poter esercitare le funzioni parlamentari individualmente in tutte le occasioni per le quali non

è previsto l’intervento di Commissioni composte secondo il criterio della proporzionalità ai gruppi.

17 In tal senso anche Corte cost., sent. 9 marzo 1998, n. 49, in Giur. Cost., 1998, 553, che ha definito espressamente i gruppi parlamentari “il riflesso istituzionale del partito politico”. 18 Cfr., se si vuole, A. CIANCIO, I gruppi parlamentari, cit., 213 ss.; spec. 237 ss.; e 304 ss. 19 Nel medesimo senso già G. U. RESCIGNO, Gruppi parlamentari, in Enc. Dir., XIX, Milano, 1970, 781; e D. RESTA, Saggi sui gruppi parlamentari, Città di Castello, 1983, 20. 20 Al punto che l’appartenenza ad un gruppo costituirebbe una “condizione necessaria”, integrativa dello status stesso del parlamentare, così A. MANZELLA, Il Parlamento, II ed., Bologna, 1991, 70. 21 Spunti nel medesimo senso già in N. ZANON, I diritti del deputato “senza gruppo parlamentare” in una recente sentenza del Bundesverfassungsgericht, in Giur. Cost., 1989, II, 1162 ss.; cui, se si vuole, adde A. CIANCIO, I gruppi parlamentari, cit., 97 ss.

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Tuttavia, l’ispirazione, per così dire, “gruppocentrica” della nostra organizzazione parlamentare22, con la

connessa estensione del principio della rappresentanza proporzionale ai gruppi pressoché a tutti gli organi

interni delle assemblee parlamentari (con l’esclusione, alla Camera dei deputati, del solo Comitato per la

legislazione), unitamente alla previsione in entrambe le Camere del gruppo misto e la conseguente,

necessaria distribuzione fra gruppi di tutti i parlamentari hanno comportato che quella facoltà venisse

trasformata, in sede di attuazione regolamentare del Testo fondamentale, in vero e proprio obbligo per

gli eletti di aderire ad un gruppo, così da escludere sul piano della Costituzione materiale l’eventualità di

parlamentari cd. “non iscritti”23.

4. La recente riforma del Regolamento del Senato e l’opportunità di valorizzare la figura del

parlamentare cd. “indipendente”

E ciò per lo meno fino alla recente modifica del Regolamento del Senato dello scorso dicembre24, che ha

introdotto la figura del parlamentare cd. “indipendente”, sia pur limitatamente ai Senatori a vita, tanto di

diritto che di nomina presidenziale (art. 14, I co. Reg. Sen.). Previsione certamente da apprezzare nella

misura in cui inaugura la possibilità per taluni parlamentari di esercitare le proprie attribuzioni anche

singolarmente. Tanto più quando – come previsto nella citata novella – i gruppi si qualifichino

necessariamente come politici, dovendo adesso la loro costituzione al Senato realizzare, sostanzialmente,

la “fotografia” ad inizio della legislatura dei partiti e delle formazioni politiche, che hanno concorso nella

competizione elettorale, conseguendo seggi nel numero minimo richiesto per la formazione di un gruppo

(art. 14, IV co. Reg. Sen.)25, prevedendosi inoltre che la costituzione di nuovi gruppi in corso di legislatura

22 Di Parlamento “gruppocentrico” parla anche R. BIN, Rappresentanza e Parlamento. I gruppi parlamentari e i partiti, in La democrazia dei partiti e la democrazia nei partiti, a cura di S. Merlini, Firenze, 2009, 258. 23 Dubitava addirittura della legittimità costituzionale delle disposizioni regolamentari, che prescrivono la necessaria appartenenza degli eletti ad un gruppo M. BON VALVASSINA, Sui regolamenti parlamentari, Padova, 1955, 72, fondamentalmente per il rilievo che tale obbligatoria riunione in gruppi incrinerebbe il divieto di mandato imperativo, quantomeno impoverendone il significato e la portata. 24 Per un dettagliato esame della riforma cfr., A. CARBONI – M. MALAGOTTI, Prime osservazioni sulla riforma organica del Regolamento del Senato, in federalismi.it, 2018, n.1 25 Tali ultime modifiche della normativa regolamentare del Senato sembrano, pertanto, raccogliere gli auspici di quanti già da tempo ritengono la costituzione di gruppi in base al requisito del “comune indirizzo politico degli aderenti” come “la soluzione più coerente con il mandato politico che grava sugli eletti in base agli artt. 1, 48 e 49 Cost.”, così S. MERLINI, Natura e collocazione dei gruppi parlamentari in Italia, in Rappresentanza politica, gruppi parlamentari, partiti: il contesto italiano, a cura di S. Merlini, II, Torino, 2004, 12 ss. Analogamente, ex multis, V. COZZOLI, I gruppi parlamentari nella transizione del sistema politico-istituzionale. Le riforme regolamentari della Camera dei deputati nella XIII legislatura, Milano, 2002, 139 ss.; e S. CURRERI, Democrazia e rappresentanza politica. Dal divieto di mandato al mandato di partito, Firenze, 2004, 192, il quale, pertanto, valuta positivamente la citata riforma in ID., Osservazioni a prima lettura sulla riforma organica del Regolamento del Senato, in Rass. Parl., 2018, n.1, 637 ss. Contra, sull’esigenza di non conferire rilievo giuridico ai rapporti tra gruppi e partiti, cfr. già G. SILVESTRI, I gruppi parlamentari tra pubblico e privato, in Studi per L. Campagna, II, Milano, 1980, 299 ss.

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possa aver luogo solo come risultato della fusione di quelli già esistenti (art. 15, III co. Reg. Sen.)26. Invero,

per quanto venga mantenuta tutt’oggi l’anomalia del gruppo misto27 (art. 14, IV co. ult. alinea), la citata

modifica regolamentare appare, invero, maggiormente rispettosa della purezza dell’originario disegno

costituzionale, che depone nel senso che i gruppi parlamentari debbano inevitabilmente connotarsi

politicamente, restando altrimenti priva di senso compiuto la necessità di formare Commissioni che, in

omaggio al richiamato principio di corrispondenza proporzionale alla consistenza dei gruppi, ex artt. 72,

IV co. e 82 Cost., finiscano per riprodurre, sia pur in dimensione numerica ridotta, gli stessi rapporti di

forza tra le formazioni politiche esistenti e rappresentate nel plenum28.

Meno comprensibile risulta, invece, la motivazione per la quale quella possibilità di non aderire ad alcun

gruppo non sia stata estesa a tutti gli eletti (recte, senatori), consentendo in tal modo un’apertura, per così

dire, istituzionalizzata alla manifestazione del dissenso individuale dalle linee di azione politica dei gruppi

– ormai individuati come l’effettiva trasposizione in sede istituzionale dei partiti che si sono confrontati

in sede elettorale – che consenta di ricondurre anche il fenomeno della mobilità parlamentare entro i

binari della piena e genuina esplicazione della libertà del mandato parlamentare. Invero, accogliendo

suggerimenti altrove già espressi29, nell’introduzione e/o valorizzazione della figura del parlamentare

“non-iscritto” si potrebbe scorgere il grimaldello, che consentirebbe di scardinare l’apparente

inconciliabilità tra la salvaguardia della piena libertà del mandato parlamentare con l’opposta esigenza di

evitarne gli abusi, che apertamente contraddicono – oltre che il ruolo spettante ai partiti nel vigente assetto

democratico – lo stesso principio fondamentale della sovranità popolare30.

Ebbene, valorizzando il carattere meramente facoltativo dell’adesione ai gruppi, attraverso l’opportuna e

generalizzata introduzione nei Regolamenti camerali di una figura di parlamentare “non iscritto” o,

altrimenti detto “indipendente” ovvero, ancora, “senza gruppo parlamentare”, non soltanto non si

lederebbe il principio del libero mandato, ma altresì si potrebbe conseguire un sensibile contenimento

26 Critico per questo punto della riforma, nella misura in cui, non trovando allo stato corrispondenza nel regolamento della Camera dei deputati, potrebbe condurre ad una vistosa disomogeneità politica tra le due assemblee, pericolosa per la stabilità governativa, N. LUPO, La riforma del (solo) regolamento del Senato alla fine della XVII legislatura, in www.forumcostituzionale.it, 5 gennaio 2018, 2. 27 Definito un vero e proprio “monstrum” giuridico da M. VOLPI, Crisi della rappresentanza politica e partecipazione popolare, in Percorsi e vicende attuali della rappresentanza e della responsabilità politica, a cura di N. Zanon – F. Biondi, Milano, 2001, 124. 28 In questo senso, per tutti, V. CRISAFULLI, I partiti nella Costituzione, in Ius, 1969, 19 nota 30. 29 Sia consentito, anche per tale profilo, rinviare alle più ampie argomentazioni svolte nel nostro I gruppi parlamentari, cit., 298 ss. 30 La difficile conciliazione tra gli artt. 1 e 49 Cost., da un lato, e il successivo art. 67, dall’altro, è problema noto in dottrina, per cui sia sufficiente richiamare V. CRISAFULLI, Partiti, Parlamento, Governo, in La funzionalità dei partiti nello Stato democratico, Milano, 1967, poi in ID., Stato popolo governo. Illusioni e delusioni costituzionali, Milano, 1985, 214, allorché sottolinea come i principi desumibili dalle richiamate disposizioni rispondano a concezioni differenti della rappresentanza.

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del fenomeno della mobilità, sia pur subordinatamente ad altre e connesse modifiche dell’ordinamento

parlamentare, che conducano anzitutto all’eliminazione del gruppo misto, in quanto privo, per sua natura,

della caratterizzazione necessariamente politica, che – secondo la purezza del disegno costituzionale

originario – i gruppi dovrebbero necessariamente possedere al fine della loro costituzione. A ciò dovrebbe

accompagnarsi la previsione del divieto, per il parlamentare che abbandoni volontariamente il proprio

gruppo in corso di legislatura, di confluire in altro e differente gruppo di partito, da cui conseguirebbe la

correlativa posizione di “non iscritto”, con tutte le conseguenze in termini di perdita dei vantaggi

economici e logistici, che normalmente derivano dalla partecipazione ai gruppi. In tal modo, la mobilità

parlamentare, se pure per un verso risulterebbe funzionale all’effettiva garanzia della libertà del mandato

parlamentare, quale manifestazione estrema di dissociazione dalle linee di azione politica del gruppo di

originaria appartenenza, per altri versi – restando preclusa la possibilità di adesione ad altro gruppo,

unitamente ai limiti sulla costituzione di nuovi gruppi in corso di legislatura – eviterebbe di degenerare in

vistosa e deprecabile manifestazione di “mero” trasformismo politico, senza che ciò si risolva in

sostanziale lesione delle prerogative parlamentari, che dovrebbero poter essere esercitate dai membri delle

Camere anche individualmente, in tutte le occasioni in cui la Carta costituzionale non prevede l’intervento

di Commissioni formate in proporzione alla consistenza numerica dei gruppi parlamentari.

Né tale conclusione potrebbe venir inficiata dalla considerazione del pericolo di introdurre

nell’organizzazione dei lavori camerali un’eccessiva frammentazione politica, pregiudizievole alla stessa

funzionalità delle Assemblee e, al limite, in grado di mettere in pericolo persino la stabilità ministeriale.

Invero, pure il diritto comparato converge a dimostrare l’eccessiva ampiezza di tale preoccupazione, come

è possibile desumere già dal solo riferimento agli ordinamenti francese, tedesco e, persino spagnolo (sia

pur in quest’ultimo caso soltanto a livello locale)31, sistemi che – pur accogliendo pienamente il principio

del libero mandato – conoscono tutti altre e diverse forme di organizzazione assembleare, basate su

differenti forme di raccordo dei parlamentari all’assemblea di appartenenza, non necessariamente mediate

dalla confluenza in un gruppo32. E ciò anche a voler tralasciare l’esperienza del Parlamento europeo, la

cui organizzazione interna da sempre prevede la figura dei deputati “non iscritti”33, in connessione alla

31 Per una accurata analisi dei rimedi al fenomeno della mobilità parlamentare adottati in Spagna a livello locale, cfr. S. CURRERI, Partiti e gruppi parlamentari nell’ordinamento spagnolo, Firenze, 2005, 301 ss. Sul transfughismo a livello locale nell’ordinamento spagnolo, in precedenza anche T. GROPPI, La forma di governo a livello regionale e locale in Spagna, in L’organizzazione del governo locale. Esperienze a confronto (Italia, Spagna, R.F.T., Gran Bretagna, Francia, Austria, U.S.A.), a cura di S. Gambino, Rimini, 1992, 166 ss.; e ID., Sistemi elettorali e forma di governo. Il caso spagnolo, in Forme di governo e sistemi elettorali, a cura di S. Gambino, Padova, 1995, 127. 32 Più dettagliatamente in argomento, se si vuole, cfr. ancora A. CIANCIO, I gruppi parlamentari, cit., 277 ss. 33 Specificamente in argomento S. BARONCELLI, Efficienza e deputati indipendenti nel Parlamento europeo, in Nuove strategie per lo sviluppo democratico e l’integrazione politica in Europa, a cura di A. Ciancio, Roma, 2014, 99 ss.

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caratterizzazione – potrebbe dirsi – “necessariamente politica” dei gruppi parlamentari34, ma che, forse,

non sarebbe in questo caso un esempio del tutto conducente, non fosse altro che a livello europeo ancora

non può porsi un problema di stabilità governativa, in mancanza, fra l’altro, di una maggioranza e di

un’opposizione stabili, in quanto politicamente definite35, per quanto la recente modifica del sistema di

designazione del Presidente della Commissione appaia favorire l’evoluzione del sistema di governance verso

un approdo di tipo parlamentare36.

Piuttosto, l’ultima riforma regolamentare del Senato italiano sembra manifestare sul punto un’eccessiva

timidezza, se riguardata quale occasione mancata per prevedere in maniera estesa e generalizzata la

possibilità di non iscrizione ad alcun gruppo. Consapevoli della profonda trasformazione che tale

modifica determinerebbe quantomeno sotto il profilo dell’organizzazione e dell’attività parlamentare –

con la correlativa necessità di adeguare ad essa, nel tempo necessario, la complessiva normativa

regolamentare – non può non osservarsi come quella riforma avrebbe potuto sin da subito

opportunamente riguardare per lo meno il Presidente dell’Assemblea. Ciò invero avrebbe consentito di

ricondurre anche formalmente tale figura istituzionale a quella posizione di rigorosa imparzialità37, ove da

tempo la colloca la dottrina38, ma che nella prassi più recente appare voler essere smentita dalla decisione

dei Presidenti di aderire al gruppo corrispondente al partito di provenienza, anziché al gruppo misto (da

cui comunque derivano legami per lo meno di tipo burocratico-organizzativo con gli altri componenti),

come per consolidata pratica accadeva in precedenza39. Circostanza dalla quale può derivare anche il

semplice sospetto (che non gioverebbe al prestigio dell’istituzione) di un uso delle proprie attribuzioni,

che si faticherebbe a mantenere politicamente indipendente. Come, del resto, secondo taluni,

testimonierebbero già i fatti da cui queste brevi note prendono le mosse40.

34 Diffusamente sul tema, volendo, A. CIANCIO, Partiti politici e gruppi parlamentari nell’ordinamento europeo, in Pol. Dir., 2007, n.2, 153 ss.; e, più recentemente, ID., I partiti politici europei e il processo di democratizzazione dell’Unione, in federalismi.it, 2009, n. 9, 7 ss. 35 Considera remota la possibilità A. SAITTA, Il rapporto maggioranza-opposizione nel Parlamento europeo, in Profili attuali e prospettive di diritto costituzionale europeo, a cura di E. Castorina, Torino, 2007, 14 ss. 36 Cfr, in proposito C. CURTI GIALDINO, L’elezione di Jean-Claude Juncker a Presidente della Commissione europea: profili giuridico-istituzionali, in Le elezioni del Parlamento europeo del 2014, a cura di B. Caravita, Napoli, 2015, 29 ss., spec. 69. 37 La dottrina al riguardo è vastissima, sicché sia consentito in questa sede far limitato rinvio a A. CIANCIO, Riforma elettorale e ruolo garantistico del Presidente di Assemblea parlamentare: un modello in crisi?, in Dir. soc., 1996, 405 ss. 38 Secondo la nota definizione del Presidente di Assemblea, quale “uomo della Costituzione”, cfr. A. MANZELLA, Il Parlamento, III ed., Bologna, 2003, 142. 39 Sulle vicende che hanno riguardato in anni recenti elezione ed esercizio delle funzioni dei Presidenti delle Camere, in connessione alle trasformazioni subite dal sistema politico-partitico, cfr. i contributi raccolti nel volume I Presidenti di Assemblea parlamentare, a cura di e. Gianfrancesco – N. Lupo – G. Rivosecchi, Bologna, 2014. 40 V. retro in Premessa al §1.

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5. La natura giuridica dei gruppi ai sensi del Regolamento della Camera: i gruppi parlamentari

come autonomie funzionali

Per altri versi, l’aver ribadito il carattere meramente facoltativo – almeno a termini di Costituzione formale

– della riunione dei parlamentari in gruppi elide, come anticipato, la maggiore difficoltà che

tradizionalmente si opponeva alla ricostruzione, che individua nei gruppi parlamentari natura associativa

basandosi, principalmente, sul titolo volontario della scelta del gruppo nel quale confluire. Si tratta, invero,

di polemiche dottrinarie note e sulle quali non conviene in questa sede ritornare41, se non per sottolineare

come tale prospettazione sia alla fine refluita nella disciplina data ai gruppi con la modifica apportata nel

2012 al Regolamento della Camera, laddove viene ormai espressamente sancito che i gruppi parlamentari

sono “associazioni di deputati” (art. 14, I co. Reg. Cam.). A tale affermazione si accompagna, peraltro, il

riconoscimento del carattere necessario di tali soggetti rispetto al funzionamento della Camera, secondo

quanto previsto dalla Costituzione e dallo stesso regolamento, con una sottolineatura, pertanto, che pare

recepire le conclusioni cui pure si era giunti in sede di riflessione scientifica alcuni anni prima della

richiamata riforma42, allorché si era ritenuto di intravvedere nel fenomeno dei gruppi parlamentari i

caratteri delle cd. autonomie funzionali – introdotte nell’ordinamento italiano ancor prima della

costituzionalizzazione del principio di sussidiarietà, non solo nella sua dimensione verticale, ma anche,

per quanto qui maggiormente rileva, nella prospettiva orizzontale43– di cui appunto i gruppi

costituirebbero declinazione.

Ed invero il fenomeno ricorrente e consolidato dell’associazione dei membri delle assemblee elettive in

gruppi per il perseguimento di comuni obiettivi politici ricorda molto da vicino la problematica della

presenza nell’ordinamento di varie entità a base associativa, sorte spontaneamente per iniziativa dei

singoli aderenti in vista della realizzazione di interessi particolari e condivisi tra gli associati, cui

l’ordinamento finisce per attribuire funzioni di rilievo pubblicistico44. Infatti, una volta abbandonata la

pretesa di netta cesura tra enti pubblici e privati, su cui era imperniata la teoria tradizionale

sull’organizzazione – in omaggio ad una impostazione, per così dire, “neoliberale” dell’ordinamento a

garanzia del pluralismo sociale45 – non fa specie che accanto ai veri e propri enti pubblici (e al di là della

41 Per le differenti tesi formulate in dottrina sulla natura giuridica dei gruppi parlamentari è possibile leggere l’ampia disamina contenuta nel nostro, I gruppi parlamentari, cit., 30 ss. 42 Cfr. se si vuole, A. CIANCIO, I gruppi parlamentari, cit., 240 ss. 43 Sul tema cfr., almeno, A. POGGI, Le autonomie funzionali “tra” sussidiarietà verticale e sussidiarietà orizzontale, Milano, 2001. 44 Sulle varie ipotesi di attrazione nella sfera pubblicistica dei fenomeni associativi resta importante il riferimento a G. ROSSI, Enti pubblici associativi. Aspetti del rapporto fra gruppi sociali e pubblico potere, Napoli, 1979. 45 Tale filone di pensiero, di matrice cattolica, è deducibile dai numerosi scritti di P. RESCIGNO, Persona e comunità. Saggi di diritto privato, rist., Padova, 1987, ove viene reiteratamente espressa la convinzione che soltanto le forme

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difficoltà di ricostruirne unitariamente la categoria) possano sussistere altre figure compatibili con il

perseguimento di finalità di pubblico interesse, senza che esse debbano rinunciare alla propria natura di

enti di diritto privato. Il problema, semmai, consiste nella ricerca del punto di equilibrio tra le ragioni del

pluralismo e l’intervento pubblico diretto a limitare tali strutture associative. Detto altrimenti, resta da

definire il margine entro cui si può ritenere ammessa l’ingerenza dei pubblici poteri all’interno delle

strutture espressive dell’autonomia privata, senza che ne venga intaccata l’essenza.

Pur non essendo questa la sede per soffermarsi sul fenomeno con gli approfondimenti che pure esso

meriterebbe, sia sufficiente far cenno alla circostanza che si è comunque affermato un modello di

regolazione da parte dell’ordinamento statale di strutture associative, sorte in origine come altrettante

manifestazioni del pluralismo sociale, che hanno finito per essere attratte nella sfera dell’azione pubblica,

in funzione strumentale al perseguimento di interessi, che trascendono quelli particolari dei singoli

associati, attraverso un percorso di evoluzione delle medesime entità, che richiama molto da vicino la

genesi e lo sviluppo dei gruppi parlamentari46. Il diffuso fenomeno di riunione spontanea degli eletti sulla

base di un idem sentire e in vista di comuni finalità di azione politica ha condotto, infatti, l’ordinamento

generale a prestarvi prima riconoscimento e man mano ad attrarli sempre più nell’organizzazione e nel

funzionamento delle assemblee legislative, conferendo ad essi funzioni via via più rilevanti, anche in vista

del perseguimento di importanti finalità di pubblico interesse, senza che per ciò solo ne sia venuta meno

l’intrinseca connotazione di espressione del pluralismo sociale.

Da ciò consegue – e va ancora sottolineato – che le varie forme attraverso cui si esplica la

regolamentazione da parte dell’ordinamento generale degli organismi sociali a differente titolo attratti nel

circuito dell’azione pubblica non conducono di per sé ad escludere, ma semmai in taluni casi a

sovrapporre, i caratteri della formazione sociale47, come, per altri versi, dimostra la circostanza che aver

rinvenuto nell’Università i caratteri dell’autonomia funzionale48, non intacca la configurazione della

comunità scientifica quale fenomeno di natura associativa in cui si manifesta e sviluppa la personalità

dell’individuo, secondo la definizione più nota e generale di formazione sociale. Ciò che pare di dover

appunto ribadire anche con riferimento ai gruppi parlamentari, almeno finché essi condividano della

nozione non soltanto l’elemento cd. materiale, “dato dalla riferibilità del termine ad un insieme di persone

fisiche”, ma altresì l’elemento, per così dire, psicologico, che risiede nella volontà dei membri di appartenervi,

privatistiche ed una sostanziale posizione di immunità dal potere politico (e dalle connesse statuizioni legislative) possano apprestare effettiva garanzia del pluralismo. 46 Da ultimo, un’efficace sintesi di tale evoluzione può leggersi in N. LUPO, La disciplina dei gruppi parlamentari, nel mutare delle leggi elettorali, in Osservatorio sulle fonti, 2017, n.3, 3 ss. 47 In proposito, cfr. E. ROSSI, Enti pubblici e formazioni sociali, in Ente pubblico ed enti pubblici, a cura di V. Cerulli Irelli – G. Morbidelli, Torino, 1994, 111 ss. 48 Così ancora A. POGGI, Le autonomie funzionali, cit., 127 ss.

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cui si lega la possibilità inversa di cessare in qualsiasi momento di farne parte (come garantisce il

richiamato divieto di mandato imperativo), cui si accompagnano gli ulteriori requisiti della tendenziale

“stabilità” dell’aggregato sociale, nonché lo scopo effettivo, che deve in ogni caso trascendere l’interesse

dei singoli componenti49.

6. Statuti dei gruppi ed efficacia delle relative previsioni

Le considerazioni che precedono consentono, pertanto, di dare una risposta più approfondita agli

interrogativi che pongono le norme di autorganizzazione dei gruppi parlamentari, allorché prescrivono

agli aderenti doveri di comportamento e, in connessione, sanzioni per le trasgressioni, cui va riconosciuta

una forza che – come già accennato – è tutta e solamente politica e coma tale priva di corrispondenza sul

piano dell’ordinamento generale. A ciò si collega l’assenza di garanzie giuridiche per il caso di

inosservanza di quelle regole e la connessa inidoneità ad essere azionate.

Invero, tali conclusioni appaiono strettamente collegate alle altre, già raggiunte, sulla natura giuridica dei

gruppi, poiché le convinzioni maturate circa il loro carattere essenzialmente associativo sono già

sufficienti a ricondurre le regole da essi espresse nell’ambito delle manifestazioni di autonomia normativa

delle associazioni private. In tal modo tali prescrizioni, ed in particolare quelle che impongono la cd.

disciplina di gruppo, vanno equiparate alle altre fonti negoziali, la cui vincolatività riposa sulla libera

accettazione da parte dei componenti, i quali possono sottrarsi alla loro obbligatorietà lasciando il gruppo.

Il fenomeno, detto altrimenti, può accostarsi alle altre analoghe espressioni di autonomia normativa dei

gruppi organizzati, la cui efficacia dipende dalla condivisione delle scelte espresse nelle regole approvate

dagli affiliati o, quantomeno, dalla presunzione di tale adesione, finché essa non venga contraddetta da

un atto di aperta dissociazione, quale si manifesta nell’abbandono del consorzio.

Alla conclusione non potrebbe opporsi la considerazione tratta dalla sanzione costituzionale ex artt. 72 e

82 Cost. dell’esistenza dei gruppi e della loro necessità ai fini della migliore organizzazione parlamentare

nello svolgimento dell’attività legislativa e di inchiesta, che non muta la natura, né il rilievo delle norme

da questi espresse, oltre l’ambito ad esse proprio delle manifestazioni di autonomia privata. Ciò è

sufficiente a risolvere il problema della disciplina imposta dagli statuti dei gruppi, che acquistano pertanto

efficacia limitata al loro ordinamento interno, senza riflessi nell’ordinamento generale50, in cui, viceversa,

49 Secondo la ricostruzione fornita da E. ROSSI, Le formazioni sociali nella Costituzione italiana, Padova, 1989, passim, spec. 146 ss. 50 Come anticipato, fra gli altri, da A. SAVIGNANO, I gruppi parlamentari, Napoli, 1965, 221.

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la libertà del parlamentare di aderire agli indirizzi espressi dal gruppo, così come eventualmente di

sottrarsene, rinviene garanzia proprio nella libertà del mandato accordatagli dall’art. 67 Cost. 51.

Tali conclusioni, del resto, trovano il conforto della Corte costituzionale, che, sin dal 1964 – sia pur

incidentalmente nella decisione della nota questione di legittimità sulla legge di nazionalizzazione

dell’energia elettrica (l. 1643/1962) – ebbe modo di affermare che “il divieto di mandato imperativo

importa che il parlamentare è libero di votare secondo gli indirizzi del suo partito ma è anche libero di

sottrarsene; nessuna norma potrebbe legittimamente disporre che derivino conseguenze a carico del

parlamentare per il fatto che egli abbia votato contro le direttive del partito”52. Coerentemente, la

questione – sorta a seguito delle ammissioni di alcuni parlamentari di aver approvato la legge per mera

obbedienza alla disciplina di partito (e di gruppo) – fu giudicata infondata in base alla considerazione che

“l’art. 67, collocato fra le norme che attengono all’ordinamento delle Camere e non fra quelle che

disciplinano la formazione delle leggi, non spiega efficacia ai fini della validità delle deliberazioni; ma è

rivolto ad assicurare la libertà dei membri del Parlamento”53.

La pronuncia, invero, era intervenuta in un momento caldo del dibattito dottrinario, in cui si affrontava

il problema della disciplina di gruppo (e di partito), oscillando nell’alternativa tra la valorizzazione del

diritto (individuale) alla libertà del mandato parlamentare54 e l’opposta visione55, che – sensibile alla

posizione di centralità rivestita dai partiti nella ricostruzione del sistema democratico all’epoca costituente

ed alle connesse implicazioni derivanti dall’adozione di un sistema elettorale proporzionale56 –

sottolineava vigorosamente il ruolo di intermediazione necessaria ricoperto dagli stessi partiti rispetto alla

funzione parlamentare di rappresentanza dell’interesse generale, ritenendo nei casi estremi legittima

persino la perdita del seggio come conseguenza di dimissioni e/o di espulsione dal gruppo (e/o dal

partito) dei parlamentari, per così dire, indisciplinati.

51 In tal senso, per tutti, G.F. CIAURRO, Sulla natura giuridica dei gruppi parlamentari, in Studi per il XX Anniversario dell’Assemblea costituente, IV, Firenze, 1969, 257 ss., allorché chiarisce che l’azione politica deve restare “un’azione di libertà anche nei modi e nelle forme attraverso i quali la volontà delle forze politiche si trasforma in volontà del Parlamento, e quindi in volontà dello Stato”, 259. 52 Corte cost., sent. 7 marzo 1964, n. 14. 53 Corte cost., sent. 14/1964, cit. 54 Emblematica la posizione di accesa critica alla partitocrazia espressa all’epoca da G. MARANINI, in numerosi scritti, tra cui Miti e realtà della democrazia, Milano, 1958, 231 ss.; Id., Stato di partiti non partitocrazia, in St. Pol., 1960, 278 ss.; Id., Il tiranno senza volto, Milano, 1963; Id., Storia del potere in Italia, 1848-1967, Firenze, 1967. 55 Cfr., per tutti, P. RESCIGNO, L’attività di diritto privato dei Gruppi parlamentari, in Giur. Cost., 1961, 300, il quale al riguardo osservava che “il vincolo di gruppo e la disciplina di partito hanno reso praticamente inoperante il divieto di mandato imperativo” e che “se c’è squilibrio tra la realtà e la norma” è alla prima che occorre aver riguardo. 56 Sulla complementarità che si instaura tra partiti e rappresentanza politica nella vigenza di un sistema elettorale di tipo proporzionale, cfr., almeno, V. CRISAFULLI, La Costituzione della Repubblica italiana e il controllo democratico dei partiti, in St. pol., 1960, 269 ss.

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7. La problematica tutela del dissenso individuale dinanzi al giudice comune

Il problema torna di estrema attualità in questi giorni, specificamente in considerazione delle previsioni

statutarie da cui muovono le osservazioni odierne, con particolare riferimento alla citata sanzione

pecuniaria introdotta nello statuto del Movimento 5 stelle, il cui adempimento – alla stregua di tutte le

prescrizioni che danno contenuto alla cd. “disciplina di gruppo” – può, al limite, ricondursi all’alveo delle

obbligazioni cd. “naturali”57, liberamente assunte dal parlamentare all’atto dell’adesione al gruppo, ma il

cui mancato assolvimento non potrebbe trovare alcuna garanzia, tantomeno giudiziaria, sul piano

dell’ordinamento generale. A maggior ragione, si osserva, quando quelle regole associative si pongano in

contrasto con norme imperative, quali quelle che si desumono da disposizioni costituzionali che

enunciano principi fondamentali, secondo l’interpretazione che si è ritenuta di accordare al più volte

richiamato art. 67 Cost.

La mancanza di vere e proprie sanzioni giuridiche per il caso di inosservanza della disciplina di gruppo

non intacca, tuttavia, la condizione di sfavore in cui, sia pur limitatamente al profilo politico, il

parlamentare dissenziente può incorrere allorché si esplichi nei suoi confronti la reazione punitiva del

gruppo, quando esso accerti ipotesi di indisciplina a tal punto gravi da condurre all’espulsione e, con ogni

probabilità, a pregiudicarne la ricandidatura.

A ben guardare, peraltro, si tratta in questo caso di calare il riferimento specifico a tali particolari

manifestazioni del pluralismo, come sono stati ricostruiti poc’anzi i gruppi parlamentari, in un contesto

più generale. Riecheggiano, infatti, in questa occasione i termini dell’annoso problema della tutela del

singolo rispetto ai gruppi organizzati di cui fa parte, in considerazione delle diverse forme di potere che

questi ultimi possono esercitare nei confronti degli aderenti e a cui si connette l’altra questione sulle

garanzie che è possibile apprestare a tutela di chi sia o diventi successivamente “terzo” rispetto al gruppo

organizzato, con particolare attenzione alle posizioni di favore che l’appartenenza al gruppo garantisce e

che è destinato a perdere chi ne esce o ne viene espulso58.

Con specifico riferimento ai gruppi, la questione diviene ancora più delicata aderendo all’interpretazione

proposta, che rinviene in essi i caratteri delle formazioni sociali, almeno seguendo il tenore dell’art. 2

Cost., secondo cui la Repubblica tutta (nella totalità, cioè, delle sue istituzioni) è impegnata a riconoscere

i diritti individuali dell’uomo non solo come singolo, ma anche all’interno delle stesse formazioni e,

persino, contro di esse, come è stato perspicuamente sottolineato59.

57 L’affermazione trae spunto dell’autorevole pensiero di P. VIRGA, Il partito nell’ordinamento giuridico, Milano, 1948, 170 ss. 58 Resta in proposito magistrale l’insegnamento di M. NIGRO, Formazioni sociali, poteri privati e libertà del terzo, in Pol. Dir., 1975, 579 ss. 59 Così, ancora, M. NIGRO, op. cit., 581.

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Il problema, pertanto, si traduce in quello dell’individuazione delle forme di tutela, che, sotto il profilo

pratico, il parlamentare dissenziente potrebbe ricevere avverso il gruppo di appartenenza, che pretendesse

di limitarne, attraverso rigide regole comportamentali espresse nello statuto, la piena libertà di azione

politica nell’assolvimento del mandato elettivo.

In tal caso, invero, scarsamente realistica appare l’ipotesi di ricorso alla magistratura ordinaria, per quanto

negli ultimi anni siano divenuti sempre più frequenti gli interventi nel circuito dell’interpretazione e

applicazione diretta delle disposizioni costituzionali del giudice comune, il quale, pertanto, come giudice

del fatto, si dimostra assai attivo nel garantire i diritti fondamentali, quali si traggono dal Testo

costituzionale, anche in mancanza dell’intermediazione del legislatore, di cui non di rado finisce per

anticipare l’intervento60. E, tuttavia, nell’ipotesi ora presa in considerazione, l’indubbia lesione dell’art.67

Cost. e del principio di garanzia che esso esprime difficilmente sfuggirebbe al cono d’ombra che il retaggio

offerto dal mito degli interna corporis tuttora frappone alla giustiziabilità delle situazioni giuridiche

individuali al di fuori dei casi di giurisdizione domestica, versandosi in una sfera che attiene comunque

all’articolazione fondamentale delle assemblee parlamentari.

La conclusione ancora una volta risulta avallata dalla Consulta, che, sia pur nella diversa sede della

risoluzione di un conflitto di attribuzione tra la magistratura ordinaria e la Camera di appartenenza di

alcuni deputati (cd. “pianisti”), sospettati di aver espresso in forma elettronica il voto anche in sostituzione

di altri colleghi assenti dalla seduta, ha avuto modo di ribadire l’esistenza di limiti all’intervento del giudice

(in quel caso penale) su attività e procedure interamente riconducibili all’ordinamento parlamentare (sent.

n. 379/1996).

E ciò anche a tacere dell’efficacia (limitata al caso concreto) delle decisioni eventualmente ottenibili in

sede di giudizio ordinario, idonee eventualmente a garantire le posizioni individuali, senza, tuttavia,

incidere sulla permanenza, all’interno del complessivo ordinamento parlamentare, di disposizioni,

espressione dell’autonomia normativa dei gruppi, apertamente lesive di principi fondamentali e/o di

diritti costituzionali. Per quanto all’analisi comparata non sia ignota l’eventualità che venga riconosciuta

la legittimità del controllo giudiziario sulla decisione di un gruppo politico di espellere uno dei suoi

componenti, come a suo tempo ammesso dal Tribunale Supremo spagnolo, sia pur con la motivazione

che tali tipi di provvedimenti avrebbero una rilevanza di ordine pubblicistica idonea a renderli oggetto di

sindacato giurisdizionale61.

60 Sul tema, cfr. P. MEZZANOTTE, La giurisdizione sui diritti tra Corte costituzionale e giudice comune, in federalismi.it, 2011, n.25. 61 Trib. Supremo, sent. 8 febbraio 1994, in Ar., 1994, 991.

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8. La prospettiva del conflitto costituzionale a tutela dei parlamentari “contro” i gruppi di

appartenenza

Le difficoltà di ordine pratico appena evidenziate non escludono, tuttavia, che, in linea di principio, la

garanzia offerta dall’art. 2 agli individui comprenda l’obbligo dello Stato di apprestare idonea tutela

giurisdizionale in tutti i casi in cui i diritti fondamentali siano suscettibili di essere lesi, e quindi anche

all’interno e nei confronti dei gruppi sociali organizzati di cui i singoli soggetti facciano parte62.

Con più specifico riferimento ai membri delle Camere e alle lesioni che ai loro diritti, prerogative e

funzioni possano derivare da specifiche previsioni degli statuti dei gruppi parlamentari, tale tutela appare

naturalmente riposare nell’alveo del giudizio costituzionale, non certo nelle forme della questione di

legittimità, per l’indubbia inidoneità delle norme statutarie di costituirne oggetto, ma nella diversa

occasione del conflitto di attribuzione, in questo caso – e con evidenza – per menomazione.

Né a tale conclusione63 sembra possa efficacemente opporsi la posizione sostanzialmente di chiusura

finora manifestata dalla Corte costituzionale rispetto ai ricorsi individuali presentati dai parlamentari per

la tutela delle proprie prerogative costituzionali, allorché essa ha avvertito che il giudizio per conflitto di

attribuzione non può essere usato quale strumento generale di tutela dei diritti costituzionali, ulteriore

rispetto a quelli offerti dal sistema giurisdizionale”64. Infatti, non è sfuggito ad accorta dottrina che tale

preclusione a rinvenire nella figura del singolo parlamentare un “potere” dello Stato, ai fini

dell’instaurazione del conflitto, ha riguardato l’area dei rapporti tra i membri delle Camere e l’autorità

giudiziaria in relazione all’applicazione dell’art. 68, I co. Cost. 65. E ciò in base alla considerazione che le

garanzie predisposte dalla disposizione sono rivolte alla tutela della complessiva funzione politico-

legislativa, di cui, allora risultano titolari le Camere nella loro interezza, e non già a privilegiare la posizione

personale del singolo parlamentare in quanto tale, la cui libertà di espressione riceve pertanto garanzia

solo in via indiretta, dovendosi di converso ricostruire le immunità parlamentari in termini di

62 Antesignano, in un certo senso, di tale problematica in generale, nella dottrina costituzionalistica, G. LOMBARDI, Potere privato e diritti fondamentali, Torino, 1970. Di recente, con specifico riferimento alle possibilità di tutela giudiziaria degli iscritti nei confronti dei partiti politici, in particolare avverso ai provvedimenti di espulsione, cfr. F. SCUTO, La democrazia interna dei partiti: profili costituzionali di una transizione, Torino, 2017, 163 ss. 63 Già raggiunta in A. CIANCIO, I gruppi parlamentari, cit., 224 ss., spec. 229 ss., cui sia consentito ancora rinviare per ulteriori argomentazioni a sostegno. 64 Cfr. Corte cost., ord. 14 aprile 2000, n. 101, in cui refluiscono le considerazioni già svolte in Corte cost., ord. 12 luglio 1999, n. 359. 65 Cfr. N. ZANON, La rappresentanza della nazione e il libero mandato parlamentare, in Storia d’Italia, Annali 17, Il Parlamento, a cura di L. Violante, Torino, 2001, 691 ss. Sulla problematica dell’ammissibilità dei ricorsi individuali dei singoli parlamentari per la tutela delle proprie prerogative, con particolare riferimento al cd. “caso Previti”, cfr. almeno AA. VV., Il “caso Previti”. Funzione parlamentare e giurisdizione in conflitto davanti alla Corte, a cura di R. Bin – G. Brunelli – A. Pugiotto – P. Veronesi, Torino, 2000.

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inammissibile rottura del principio di eguale soggezione di tutti gli individui dinanzi alla legge, anziché

come vere e proprie guarentigie parlamentari66.

Ne resta, tuttavia, “impregiudicata la questione se in altre situazioni siano configurabili attribuzioni

individuali di potere costituzionale, per la cui tutela il singolo parlamentare sia legittimato a ricorrere allo

strumento del conflitto tra i poteri dello Stato”, come, con cauta apertura, la stessa Consulta sembra

ammettere67.

Ed invero la risposta affermativa all’interrogativo sulla possibilità di riconoscere la legittimazione

soggettiva del singolo parlamentare a sollevare conflitto per la tutela delle proprie attribuzioni

costituzionali pare di poter ricavare, anzitutto, proprio dalla portata dell’art. 67 della Costituzione68,

allorché esso individua “una sfera di tutela, costituzionalmente definita, della libertà del parlamentare come tale,

nell’esercizio del proprio mandato”, come si deduce già dal tenore letterale della disposizione “che fa

riferimento ad «ogni membro del Parlamento» e non all’organo nel suo complesso”, in ciò

differenziandosi, anche sotto il profilo testuale, dagli artt. 68, I comma e 69, che riservano le prerogative

in essi espresse “ai «membri del Parlamento»”69. Resterebbe così individuato il necessario presupposto

per superare le perplessità che possano essere addotte a rinvenire nella figura un “potere” dello Stato, ai

fini dell’instaurazione del conflitto, in considerazione della necessità per il parlamentare di venire

ammesso alla tutela della propria fondamentale funzione di rappresentanza politica ogniqualvolta essa

risulti illegittimamente compressa70.

Tale conclusione risulterebbe tanto più rafforzata se si accogliesse la ricostruzione – qui proposta –dei

gruppi parlamentari in termini di formazioni sociali, almeno a seguire il tenore del richiamato art. 2 della

Costituzione, laddove esige che la garanzia dei diritti fondamentali riguardi i singoli anche all’interno dei

66 Sul tema, volendo, A. CIANCIO, Estensione dell’insindacabilità parlamentare e tutela della dignità dell’uomo, in Rass. Parl., 1999, n.2, 393 ss., ed ivi gli opportuni approfondimenti dottrinari. 67 Corte cost., ord. 20 maggio 1988, n. 177, annotata in posizione adesiva da N. ZANON, “Sfere relazionali” riservate a Parlamento e Magistratura e attribuzioni individuali del singolo parlamentare: una distinzione foriera di futuri sviluppi?, in Giur. Cost., 1998, 1481 ss. 68 In tal senso, tra gli altri, G. ZAGREBELSKY, Le immunità parlamentari. Natura e limiti di una garanzia costituzionale, Torino, 1979, 98-99; N. ZANON, I diritti del deputato “senza gruppo parlamentare”, cit., 1181 ss.; ID., Il libero mandato parlamentare, cit., 312 ss.; M. MANETTI, La legittimazione del diritto parlamentare, Milano, 1990, 163-164; R. BIN, L’ultima fortezza. Teoria della Costituzione e conflitti di attribuzione, Milano, 1996, 142-143; M. MEZZANOTTE, “Pregiudizialità parlamentare” e legittimazione al conflitto tra poteri del singolo parlamentare, in Giur. It., 2000, 148-149, sia pur limitatamente al conflitto cd. “interno”, cioè rivolto dal parlamentare contro la Camera di appartenenza. Conformemente, più di recente, A. RUGGERI – A. SPADARO, Lineamenti di giustizia costituzionale, V ed., Agg, Torino, 2014, 295, che riferiscono la possibilità di tutela attraverso il conflitto costituzionale anche all’eventuale lesione del diritto di iniziativa legislativa ex art. 71 Cost. 69 Così D. NOCILLA, Il libero mandato parlamentare, cit., 65, a cui risalgono le frasi virgolettate nel testo. 70 Così anche A. SAITTA, Conflitti di attribuzioni, poteri dello stato, garanzia dell’insindacabilità e tutela costituzionale del singolo parlamentare, in Riv. trim. dir. pubbl., 2001, 325 ss.

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gruppi organizzati cui aderiscono e persino contro di essi, fornendo allora il citato art. 2 Cost. ulteriore

parametro nell’ipotesi prospettata che un membro del Parlamento adisca il Giudice costituzionale contro

il gruppo di appartenenza.

Piuttosto altra difficoltà potrebbe riguardare l’individuazione degli stessi gruppi come possibili termini

passivi del conflitto71. In tal caso le maggiori perplessità deriverebbero non tanto dalle strettoie di un

giudizio previsto per risolvere conflitti tra “poteri diversi”, e non tra organi del medesimo potere, giacché

notoriamente l’area dei conflitti interorganici si è ormai dilatata, per effetto della stessa giurisprudenza

costituzionale, ”a ricomprendere tutti gli organi ai quali sia riconosciuta e garantita dalla Costituzione una

quota del potere organizzato al massimo livello”72, dal che si può comprendere l’eventualità di un conflitto

fra poteri “riguardante organi che pure esercitano la stessa funzione, limitatamente – beninteso – alla

specifica «sfera di attribuzioni costituzionali» riconosciuta (e dunque garantita) a ciascuno di essi” 73. Ciò

che tipicamente può accadere all’interno di poteri, per così dire, “complessi”, in cui all’unicità della

funzione corrisponde una pluralità di organi con proprie attribuzioni costituzionalmente protette74.

Semmai l’ostacolo maggiore potrebbe sorgere dalla difficoltà ad ammettere che parte di un conflitto di

attribuzione possa essere un soggetto che si considera espressione del pluralismo politico-sociale, come

si sostiene del gruppo parlamentare75, giacché la giurisprudenza costituzionale ancora di recente si è

dimostrata ostile ad ampliare il novero delle figure cd. esterne allo Stato-apparato legittimate al conflitto76,

oltre al Comitato promotore del referendum abrogativo. In particolare, la Consulta, pur ribadendo le

ragioni che sin dal 1978 hanno consentito di riconoscere nei firmatari di una richiesta referendaria un

potere dello Stato (e sia pur ai limitati fini dell’ammissibilità del conflitto costituzionale)77 ha finora escluso

che tale natura possa per le medesime finalità rinvenirsi in altri soggetti, in particolare respingendo la

71 Esclude che il gruppo parlamentare possa essere riconosciuto quale “potere dello Stato” al fine di ammetterne la legittimazione soggettiva al conflitto di attribuzione, A. PISANESCHI, I conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato. Presupposti e processo, Milano, 1992, 275 ss. Possibilista, invece, l’opinione di E. MALFATTI – S. PANIZZA – R. ROMBOLI, Giustizia costituzionale, V ed., Torino, 2016, 243; e, senz’altro affermativa, la risposta di R. BIN, L’ultima fortezza, cit., 140 ss. In posizione dubitativa A. RUGGERI – A. SPADARO, Lineamenti, cit., 294-295, che, tuttavia, aprono alla possibilità di una legittimazione soggettiva al conflitto dei gruppi in funzione di tutela delle minoranze, in attesa di una chiara riforma costituzionale che esplicitamente garantisca queste ultime “processualmente”. Specificamente su tale problematica, volendo, A. CIANCIO, Il controllo preventivo di legittimità sulle leggi elettorali ed il prevedibile impatto sul sistema italiano di giustizia costituzionale, in federalismi.it., 2016, n.1, 18 ss. 72 Così E. MALFATTI – S. PANIZZA – R. ROMBOLI, Giustizia costituzionale, cit., 240. 73 A. RUGGERI – A. SPADARO, Lineamenti, cit., 279. 74 Ibidem. 75 V. supra § 3. 76 Per la dottrina più risalente, favorevole a riconoscere la qualifica di potere dello Stato ad “elementi che non fanno parte dello Stato-apparato”, cfr. M. MAZZIOTTI DI CELSO, I conflitti di attribuzione fra i poteri dello Stato, I, Milano, 1972, 283 ss., in particolare 318 ss. 77 Il riferimento è, notoriamente, a Corte cost., ord. 3 marzo 1978, n. 17; e la successiva sent. 23 maggio 1978, n. 69.

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legittimazione delle associazioni politiche78. Pertanto, potrebbe apparire plausibile che la medesima

posizione di rigore il Giudice costituzionale mantenga nei confronti di tutte le forme di manifestazione

del pluralismo politico, come si estrinseca non solo a livello di società civile attraverso l’organizzazione

in partiti, ma altresì all’interno del Parlamento, con la riunione (e divaricazione) degli eletti nei gruppi. E,

tuttavia, in questo secondo caso, le convinzioni già espresse sulla natura di questi ultimi e il loro possibile

inquadramento tra le autonomie funzionali lasciano auspicare una possibile apertura del Giudice

costituzionale nel senso di intravvedere anche nei gruppi parlamentari figure organizzative, che, per

quanto non qualificabili come organi delle Camere in senso proprio, appaiano, tuttavia, titolari di funzioni

di riconosciuto rilievo costituzionale la cui imputazione finale sia riferibile allo Stato-autorità79, come tali

tutelabili con lo strumento adesso in esame, previa la riconosciuta loro legittimazione (attiva e,

correlativamente, passiva) al conflitto di attribuzione.

9. Attribuzioni del Presidente della Camera e attività di controllo sugli statuti dei gruppi

parlamentari

E’, peraltro, evidente che la tutela del parlamentare dissenziente contro il gruppo di appartenenza

attraverso lo strumento del conflitto di attribuzione è opzione per intero consegnata alla disponibilità del

Giudice costituzionale, oltre che all’iniziativa del singolo eletto.

In attesa che si concretizzi tale evenienza non può, pertanto, restare senza risposta l’interrogativo da cui

hanno preso le mosse queste osservazioni, con riferimento al potere (ed eventualmente dovere) del

Presidente di Assemblea di esercitare un controllo sugli statuti dei gruppi al fine di garantire la conformità

di essi al diritto, in primis, costituzionale e, quindi, parlamentare, anche in relazione alla generale funzione

che spetta all’organo di far osservare il regolamento camerale (artt. 8 Reg. Cam. e 8 Reg. Sen.).

Peraltro, la circostanza che la riforma del regolamento della Camera del 2012 non abbia previsto in forma

“specifica” una tale attribuzione per il Presidente di quella Assemblea non esclude che la norma

corrispondente si debba considerare sussistente, quale norma implicita, ricavabile attraverso una

78 Cfr. Corte cost., ord. 24 febbraio 2006, n. 79, con cui è stata negata la legittimazione dell’associazione denominata “La Rosa nel Pugno – Laici Socialisti Liberali Radicali”, annotata da P. RIDOLA, La legittimazione dei partiti politici nel conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato: organamento dei soggetti del pluralismo o razionalizzazione dei processi costituzionali del processo politico?, in Giur. Cost., 2006, I, 668 ss.; S. CURRERI, Non varcate quella soglia!, in www.forumcostituzionale.it (18 aprile 2006); e A. MANNINO, La “Rosa nel pugno” davanti alla Corte costituzionale, in Quad. cost., 2006, 564 ss. Cfr., inoltre, Corte cost., ord. 23 marzo 2007, n.117 con cui la Consulta ha confermato la posizione di chiusura verso la legittimazione dei partiti, dichiarando inammissibile il ricorso presentato dalla “Lista Consumatori C.O.D.A.Cons. – Democrazia Cristiana”. 79 Si darebbe, in tal modo, seguito alle aperture manifestate da Corte cost., ord. s.n. del 24 maggio 1990, con cui la Consulta ha precisato che sulla base del presupposto ricordato nel testo anche altre figure soggettive esterne allo Stato-apparato (oltre ai Comitati promotori dei referendum) potrebbero assurgere al rango di potere, pur non scendendo nel concreto ad individuare tali ulteriori soggettività per ammetterle al conflitto.

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interpretazione logico-sistematica dei commi 2bis, 2ter e 3 dell’art. 15 Reg. Cam. Invero, tali disposizioni

rispondono ad un disegno unitario, ove l’obbligo di trasmissione degli statuti dei gruppi al Presidente

della Camera non potrebbe certamente considerarsi fine a sé stesso, sia pur in connessione al previsto

adempimento della pubblicazione sul web, pena la riduzione dell’organo esponenziale dell’assemblea

legislativa a “mero passacarte” tra il gruppo parlamentare e i gestori del sito internet della Camera.

Viceversa tale obbligo di comunicazione (e di connessa pubblicità) appare con evidenza correlato al

contributo finanziario di cui sono destinatari i gruppi80 (e al conseguente onere di rendicontazione

sull’utilizzo delle somme, art. 15ter Reg. Cam.). Da ciò è naturale concludere che i richiesti adempimenti

in termini di trasmissione e pubblicità degli statuti siano in prima battuta finalizzati proprio a consentire

l’esplicazione della generale attività di vigilanza sul corretto funzionamento del complessivo ordinamento

camerale81 – di cui il Presidente dell’Assemblea è il naturale garante – in relazione alla successiva

distribuzione dei finanziamenti.

Ne consegue la possibilità per il Presidente di intervenire anche in tale occasione a presidio del rispetto

delle norme camerali e, ancora più a monte, a tutela delle fondamentali prerogative costituzionali dei

parlamentari, al punto che non appare peregrino individuare tra le pieghe di quelle disposizioni persino

le sanzioni applicabili per le ipotesi di violazione, riconducibili alle contribuzioni finanziarie ottenibili dai

gruppi, “secondo le modalità stabilite dall’Ufficio di Presidenza”, ai sensi di ciò che dispone il terzo

comma dell’art. 15bis. Invero, il rinvio a criteri di volta in volta determinabili, piuttosto che l’automatico

riferimento alla consistenza numerica dei gruppi parlamentari (com’è invece stabilito per le diverse

dotazioni di locali e attrezzature nella prima parte della medesima disposizione) lascia evincere una

discrezionalità nella determinazione delle risorse da destinare alle attività dei gruppi, che non può non

essere condizionata (anche) dal perseguimento dell’interesse generale al buon andamento dei lavori

camerali, nell’osservanza della Costituzione e del Regolamento, tanto più che oggi quelle contribuzioni

sono destinate “esclusivamente” a perseguire gli “scopi istituzionali riferiti all’attività parlamentare” dei

gruppi, oltre che alle funzioni di studio, comunicazione ed editoria ad essa ricollegabile (art. 15bis, IV co.

Reg. Sen.). La conclusione risulta suffragata dalla considerazione che il Presidente non è lasciato solo in

tali valutazioni, giacché esse sono rimesse all’intero Ufficio di presidenza, ove – val la pena ricordare –

sono rappresentati tutti i gruppi parlamentari (art. 5, commi 3 e 5 Reg. Cam.). Verrebbe, pertanto,

80 Cfr., a commento della riforma regolamentare del 2012 sul punto, F. BIONDI, Disciplina dei gruppi parlamentari e controlli sui bilanci: osservazioni alle recenti modifiche ai regolamenti di Camera e Senato, in Osservatorio sulle fonti, 2012, n.3, 5 ss.; e F. FABRIZZI, Partiti politici e gruppi parlamentari ai tempi delle riforme, in federalismi.it, 2015, n. 8, 9 ss. 81 Sulla nozione di vigilanza, quale relazione riassuntiva della “visione integrata” degli interessi di un’istituzione, e la sua differenza, sotto il profilo tecnico-giuridico, dalla figura del controllo, cfr. L. ARCIDIACONO, La vigilanza nel diritto pubblico, Aspetti problematici e profili ricostruttivi, Padova, 1984.

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rispettato quell’elementare principio di civiltà giuridica, che è da ritenersi il contraddittorio, in tal modo

garantito pure nell’eventualità – qui ammessa – dell’irrogazione di sanzioni di natura finanziaria

(consistenti in una riduzione nell’ammontare delle contribuzioni o, persino, nella loro esclusione) nei

confronti dei gruppi che apertamente violassero, nei loro statuti, principi costituzionali e/o diritti

fondamentali dei propri membri, prima ancora che le stesse norme del diritto parlamentare.

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di Gian Luca Conti

Professore ordinario di Diritto costituzionale Università di Pisa

Sfera pubblica e sfera privata della rappresentanza.

La giustiziabilità dell’art. 67, Cost. nella sua attuazione da parte dello statuto di

un gruppo parlamentare.

1 3 G I U G N O 2 0 1 8

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Sfera pubblica e sfera privata della rappresentanza La giustiziabilità dell’art. 67, Cost. nella sua attuazione da

parte dello statuto di un gruppo parlamentare *

di Gian Luca Conti Professore ordinario di Diritto costituzionale

Università di Pisa

1 – Per la prima volta, in settant’anni di Parlamento repubblicano, un gruppo parlamentare, sia alla Camera

che al Senato, ha previsto nel proprio statuto1 una penale economica per il membro che lo abbandona o

ne viene espulso in virtù di un dissenso sulla linea politica del partito sottostante2.

Questa previsione apre un faro sulla tempesta della rappresentanza, sul valore normativo dell’art. 67,

Cost. e sulla sua attualità, in questa fase della storia repubblicana.

E’ impossibile nascondersi che la penale nasce da un esigenza diffusamente avvertita da una parte non

più marginale del corpo elettorale e che l’equilibrio fra Costituzione materiale e Costituzione formale

stenta a trovare un assestamento attraverso la dinamica della rappresentanza partitica.

* Intervento alla Tavola rotonda “Gli statuti dei gruppi parlamentari alla prova dell’art. 67della Costituzione”, Roma, 16 maggio 2018. 1 Gli atti di autorganizzazione dei gruppi parlamentari sono definiti “statuto” dall’art. 15, comma 2 bis, r.C., mentre l’art. 15, comma 3 bis, r.S. usa il diverso lemma “regolamenti”. Ai sensi del secondo comma dell’art. 15, r.S. i gruppi parlamentari si costituiscono comunicando alla Presidenza del Senato: (i) la propria denominazione; (ii) l’elenco dei propri componenti, sottoscritto dal Presidente del gruppo; (iii) il nominativo del Presidente, dei Vice presidenti e dei Segretari. Nel regolamento della Camera, ciascun deputato deve comunicare a quale gruppo intende aderire entro due giorni dalla prima seduta della Legislatura e il Presidente dell’assemblea convoca la prima riunione di ciascun gruppo che ha all’ordine del giorno l’elezione del Presidente del Gruppo e dei Vice – Presidenti (art. 15, r.C.). Il gruppo deve quindi comunicare la costituzione dei propri organi al Presidente della Camera e nei successivi trenta giorni adottare uno statuto. Il regolamento del Senato costituisce i gruppi che disciplinano se stessi attraverso l’autonomia regolamentare prevista dall’art. 15, comma 3 bis, r.S. Nel regolamento della Camera, invece, spetta al Presidente convocare i membri dei gruppi affinché gli stessi costituiscano il gruppo, nominando i propri rappresentanti e adottando uno statuto. Sottigliezze? 2 Sul tema, fra gli altri, E. GIANFRANCESCO, Chi esce paga: la «penale» prevista dallo statuto del MoVimento 5 Stelle alla Camera, in Quad. Cost. 2018, part. 484 e ss. (il fascicolo è il due), che dubita fortemente della legittimità costituzionale della penale e ritiene che il Presidente della Camera possa intervenire sullo statuto del gruppo parlamentare ai sensi dell’art. 8, r.C., ma anche che il singolo parlamentare potrebbe proporre un conflitto di attribuzione nei confronti dell’atto di applicazione della penale impugnando lo statuto del gruppo di appartenenza. Mancherebbe invece la possibilità di utilizzare la via del giudizio incidentale di legittimità costituzionale. Sul tema si tornerà.

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3 federalismi.it - ISSN 1826-3534 |n. 13/2018

Si è detto, con una parola che un po’ disturba3, che l’art. 67, Cost. sta conoscendo una seconda

“giovinezza”4.

L’infanzia dell’art. 67, Cost. è Corte cost. 14/1964, quando la Corte investita della questione di legittimità

costituzionale di una legge, la legge sulla nazionalizzazione dell’energia elettrica, approvata con una

maggioranza di cui facevano parte parlamentari che dichiaravano di votare a favore della legge non per

convinzione personale ma per disciplina di partito, affermò che il divieto di mandato imperativo non

riguarda la formazione delle leggi ma l’organizzazione delle Camere e non impedisce a un parlamentare

di rispettare le direttive del partito che lo ha eletto ma solo che non può essere sanzionato se non le

rispetta5.

Il divieto di mandato imperativo è tornato di moda quando la Corte lo ha usato contro le leggi elettorali,

sia con la sentenza 1/2014 che con la 35/2017.

Corte cost. 1/2014 ha dichiarato l’incostituzionalità delle liste bloccate previste dalla legge 270/2015,

perché impedendo agli elettori di conoscere gli eletti che hanno contribuito a eleggere rappresentano un

ostacolo al corretto formarsi della rappresentanza e quindi violavano l’art. 67, Cost. e lo stesso principio

è stato affermato da 35/2017, nella parte in cui ha respinto i dubbi di legittimità costituzionale relativi alla

ipotesi di traslazione dei seggi da un collegio all’altro perché tale ipotesi era del tutto residuale e non

faceva venire meno il collegamento fra la rappresentanza e il collegio (par. 10.2 del Considerato in diritto).

3 Giovinezza era la canzone che la Camera dei Deputati usava nel periodo fascista, fra l’altro, per approvare una mozione professando entusiasmo. Vedi F. GIULIANI, Il discorso parlamentare, in AA.VV. Storia d’Italia. Annali 17. Il Parlamento, Torino, 2001, part. 869 ss. 4 In questi termini, N. ZANON, La seconda giovinezza dell’art. 67, Costituzione, in Quad. Cost., 2014, 383 (Fasc. 2), cui adde ovviamente Id., Il libero mandato parlamentare. Saggio critico sull’art. 67 della Costituzione, Milano – Giuffré, 1991. 5 Vedi E. Lopane, Lopane Emilio, Il mandato parlamentare e i partiti, in Democrazia e diritto, 1964, p. 144-147. La sentenza è nota più che altro per la ricostruzione dei rapporti fra diritto interno e diritto comunitario, aspetti sui quali si concentrarono gli sforzi dei commentatori. Per quanto di interesse a queste righe, al par. 2 del Considerato in diritto si legge: La prima questione si riferisce alla violazione dell'art. 67 della Costituzione. - Secondo l'ordinanza, il vizio deriverebbe dal fatto che la legge è stata approvata da parlamentari i quali avevano dichiarato di dare il loro voto favorevole soltanto in obbedienza alle direttive del loro rispettivo partito politico. È da precisare che, come del resto la difesa dell'attore ha messo esattamente in evidenza, la questione non è stata posta in riferimento a vizi della volontà dei singoli votanti. Difatti, l'ordinanza non denunzia l'invalidità delle deliberazioni delle Camere legislative perché la volontà dei votanti fosse viziata, ma perché la votazione era stata influenzata da imposizioni dei partiti in dispregio della norma costituzionale che proclama la libertà dell'eletto e pone il divieto del mandato imperativo. - Ora, la Corte osserva che proprio da questa corretta impostazione dell'ordinanza si trae la prova dell'infondatezza della questione. - L'art. 67 della Costituzione, collocato fra le norme che attengono all'ordinamento delle Camere e non fra quelle che disciplinano la formazione delle leggi, non spiega efficacia ai fini della validità delle deliberazioni; ma è rivolto ad assicurare la libertà dei membri del Parlamento. Il divieto del mandato imperativo importa che il parlamentare è libero di votare secondo gli indirizzi del suo partito ma è anche libero di sottrarsene; nessuna norma potrebbe legittimamente disporre che derivino conseguenze a carico del parlamentare per il fatto che egli abbia votato contro le direttive del partito. - Da quanto premesso appare chiaro che la discussione circa i rapporti fra parlamentari e partiti, che si è svolta nel presente giudizio, non ha rilevanza ai fini della questione proposta. La quale deve essere risolta nel senso che nel caso in esame non sussiste violazione dell'art. 67.

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4 federalismi.it - ISSN 1826-3534 |n. 13/2018

Le sentenze elettorali della Corte costituzionale sono perfettamente consapevoli della crisi della

democrazia dei partiti e di come la stessa sia divenuta probabilmente irreversibile, ma anche di quanta

distanza vi sia fra i partiti politici che componevano la Costituzione materiale nel momento in cui la

Costituzione è stata elaborata e i partiti politici con cui si confrontano gli elettori oggi6.

Il mandato parlamentare, sia nella sua prospettiva liberale che in quella democratica, è stato messo in

profonda discussione per effetto della crisi della repubblica dei partiti e la sua base – nobile e antica, ma

anche fragile e ambigua – si è progressivamente dissolta7.

Il divieto di mandato imperativo fa sistema con la libertà di associarsi in partiti per concorrere con metodo

democratico a determinare la politica nazionale (49) e ne è fortemente influenzato8: il sistema dei partiti

politici e il loro ruolo nella costruzione dell’indirizzo politico di maggioranza è il presupposto

materialmente storico che consente di determinare il contenuto normativo del libero mandato

parlamentare.

Questo sistema, nella cultura dell’Assemblea costituente, era composto di partiti fortemente ideologici,

ciascuno dei quali proponeva un orizzonte di valori non negoziabili e la cui affermazione postulava il

superamento dei valori proposti dagli altri partiti. Sturzo, ad esempio, era fermamente convinto della

propria idea di Stato e i suoi ideali non erano e non sarebbero mai stati conciliabili con quelli propugnati

da Togliatti. Potevano trovare un punto d’intersezione per mezzo del dialogo parlamentare, utilizzando

la procedura per individuare compromessi su singole scelte che potevano essere oggetto di consenso

perché ciascuna delle parti vedeva quella scelta come tattica di avvicinamento ai propri obiettivi, che

restavano non negoziabili e destinati a una lotta mortale9.

In questo modello, il principio del libero mandato parlamentare, così come il voto segreto

nell’approvazione finale dei disegni di legge, sono razionalmente di difficile comprensione e appaiono

6 Cfr. G. RIVOSECCHI, I partiti politici nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Amministrazione in cammino (rivista on line), 29 ottobre 2017, facilmente reperibile in rete. 7 A. PIZZORNO, La sfera pubblica e il concetto di mandante immaginario, in Sociologica, 3/2008, part. 1 e ss., ricorda come la proposta della libera rappresentanza, contrapposta alla rappresentanza per mandato di un principale, tipica dell’antico regime, era inserita da Luigi XVI nei Cahiers de dolèance ma fu respinta dalla quasi unanimità dei rappresentanti del terzo stato e, d’altra parte, pochi anni dopo, il più spietato interprete della rivoluzione considerava il voto segreto come l’inganno oscuro al riparo del quale prosperano i nemici della rivoluzione. 8 V. CRISAFULLI, I partiti nella Costituzione, in Studi per il XX anniversario dell’assemblea costituente, vol. II, Le libertà civili e politiche, Firenze, 1969, 111 e ss. 9 Scrive A. Pizzorno, Il sistema politico italiano, in Pol. Dir., 1971, part. 204 che una classe politica si definisce ideologicamente in termini di fini a lunga scadenza o non negoziabili, cioè di fini che non possono non venire perseguiti pena la caduta dell’identità stessa del soggetto per la quale lo stesso viene riconosciuto dagli altri, cioè la sua riconoscibilità e la sua distinguibilità rispetto agli altri soggetti collettivi. [...] Quando questi fini non negoziabili cadono e l’azione del soggetto collettivo si esaurisce in una successione di fini negoziati e continuamente rinnovantisi si determina certamente un maggiore realismo, ma pure una incapacità di proporre i propri fini ai nuovi individui che devono scegliere quel soggetto, proprio perché non si sceglie un soggetto collettivo per la sua capacità di negoziare certi fini, ma invece perché ha dei fini non negoziabili.

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delle finzioni, secondo le note osservazioni di Kelsen sul compromesso fra maggioranza e minoranza

come strumento di coesione sociale reso possibile dalle procedure parlamentari10: costruire attraverso il

libero mandato parlamentare la deliberazione maggioritaria dell’assemblea legislativa come volontà della

nazione è un modo per affermare un dogma, non uno strumento per comprendere il funzionamento

concreto del sistema politico.

Nella realtà, il libero mandato parlamentare e, finché è durato, il voto segreto imposto dai regolamenti

parlamentari per l’approvazione finale dei disegni di legge, erano funzionali a consentire l’integrazione

delle minoranze nella maggioranza e il progressivo mutamento dello schema di governo, attraverso

l’inclusione delle minoranze nelle scelte politiche della maggioranza e il cambiamento della formula di

governo.

L’impostazione che il Movimento 5 Stelle ha inteso imprimere al proprio statuto, prevedendo una penale

per il caso in cui un parlamentare intenda allontanarsi dalla linea politica del movimento si può leggere

attraverso queste premesse.

Ciò che viene messo in discussione è la funzione di integrazione delle minoranze nella maggioranza svolta

dal libero mandato parlamentare, più che la sua giustificazione democratico – liberale, tesa a dimostrare

che la volontà della maggioranza costituisce la volontà della nazione.

L’idea di rappresentanza politica affermata dagli statuti dei gruppi parlamentari, e resa evidente anche dal

meccanismo di applicazione della sanzione11, è basata sulla concezione del parlamentare come un

mandatario che trasmette in Parlamento il risultato di una consultazione svolta attraverso la rete e una

piattaforma appositamente dedicata a questo fine.

Il tramonto dell’ideologia come fine non negoziabile ha determinato il sorgere di un movimento il cui

fine non negoziabile è il principio per cui i parlamentari costituiscono lo strumento con cui questo

soggetto collettivo fa ascoltare la propria voce, di talché lo statuto del movimento organizza la

partecipazione dei propri aderenti, dalla partecipazione degli aderenti al movimento nasce la volontà

generale del soggetto collettivo, la volontà generale del soggetto collettivo deve essere trasferita dal

parlamentare nell’assemblea in cui svolge la propria funzione di trait d’union fra il soggetto collettivo e la

volontà generale della nazione.

10 H. KELSEN, Essenza e valore della democrazia, ed. it. Bologna – Il Mulino, 1995, part. cap. III. 11 Ad eccezione del caso in cui l’espulsione sia giustificata dall’adesione a un altro gruppo parlamentare o al gruppo misto, l’espulsione deve essere ratificata da una votazione on lne sul portale del movimento, a maggioranza dei votanti (in questi termini, sia l’art. 21 dello Statuto del gruppo al Senato che la stessa disposizione del regolamento alla Camera).

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Il mandato imperativo non può essere accettato perché non può essere accettata l’idea di compromesso

e di integrazione delle minoranze nella maggioranza che questo principio svolge nella dialettica

parlamentare.

Sulla base di queste premesse, è evidente che la vera questione non è semplicemente se il principio del

libero mandato parlamentare possa essere messo in discussione dallo statuto di un gruppo parlamentare,

inteso come negozio giuridico di diritto privato riconosciuto dall’ordinamento giuridico parlamentare,

bensì se la libertà dei cittadini di associarsi in partiti politici per concorrere con metodo democratico a

determinare la politica nazionale possa costruire un modello di rappresentanza politica diverso da quello

previsto dalla Costituzione formale.

2 – Nel sistema costituzionale della rappresentanza ricostruito a partire dalla giurisprudenza costituzionale

che si è richiamata (Corte cost. 14/1964, 1/2014, 35/2017), chi viene eletto non è cieco nei confronti dei

propri elettori. Sa chi sono i suoi elettori e sa di essere politicamente legato agli stessi12.

Il membro del Parlamento deve conoscere chi lo elegge perché deve sapere a chi non può non sentirsi

legato.

Senza vincolo di mandato, nel tessuto letterale dell’art. 67, Cost., significa che: (i) esiste un mandato e

che il “principale”, per usare l’espressione abituale nel secolo in cui si formavano le dottrine con cui ci si

sta confrontando, deve essere individuabile, ma che (ii) quel mandato è essenzialmente politico e non

può essere considerato giuridicamente vincolante, perché (iii) il voto è segreto e quindi l’eletto può

conoscere la comunità di cui fanno parte i suoi elettori ma non può sapere chi sono i suoi elettori.

Per l’art. 67, Cost. la sanzione per colui che viola il mandato degli elettori spetta al principale, e quindi

agli elettori stessi, la cui volontà si esprime esclusivamente attraverso il voto politico e può essere

interpretata nei limiti e con le peculiarità con cui si può interpretare l’esito di una consultazione popolare.

12 Zanon (Id., La seconda giovinezza, cit.) ricorda che l’ideale del libero mandato parlamentare è stato costruito da Edmund Burke e che Burke era stato eletto dai cittadini di Bristol, i quali non lo rielessero per un secondo mandato. Vale la pena ricordare le parole di Burke: Certainly, gentlemen, it ought to be the happiness and glory of a representative to live in the strictest union, the closest correspondence, and the most unreserved communication with his constituents. Their wishes ought to have great weight with him; their opinion, high respect; their business, unremitted attention. It is his duty to sacrifice his repose, his pleasures, his satisfactions, to theirs; and above all, ever, and in all cases, to prefer their interest to his own. But his unbiassed opinion, his mature judgment, his enlightened conscience, he ought not to sacrifice to you, to any man, or to any set of men living. These he does not derive from your pleasure; no, nor from the law and the constitution. They are a trust from Providence, for the abuse of which he is deeply answerable. Your representative owes you, not his industry only, but his judgment; and he betrays, instead of serving you, if he sacrifices it to your opinion (E. BURKE, Speech to the Electors of Bristol, facilmente reperibile in rete). La libertà del parlamentare di seguire la propria coscienza anziché le istruzioni dei suoi elettori non lo rende irresponsabile verso gli stessi, che dovranno confermare o meno il suo seggio, valutando serenamente il suo operato.

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Questa disposizione è stata interpretata dagli atti di organizzazione dei gruppi parlamentari del

Movimento 5 Stelle nel senso che la stessa non impedirebbe di applicare una penale nei confronti del

parlamentare che abbandona o viene espulso dal gruppo parlamentare a causa di un dissidio politico.

Si tratta di un meccanismo non molto diverso da quello che si usa nei sindacati di voto organizzati da un

accordo parasociale: il patiscente che non rispetta le indicazioni del comitato direttivo del sindacato può

essere obbligato al pagamento di una penale nei confronti del sindacato stesso, magari garantita con una

fideiussione bancaria a prima richiesta, ma questo, anche prima del riconoscimento positivo dei patti

parasociali avvenuto nel 2001, non determina l’invalidità del patto parasociale, perché questo negozio

giuridico si pone al di fuori dell’organizzazione societaria lasciando libero il patiscente di darvi attuazione

o meno13.

La giurisprudenza ritiene che questi accordi siano validi perché hanno efficacia meramente obbligatoria

e quindi danno vita ad un vincolo che si colloca su “un terreno esterno a quello dell'organizzazione

sociale”, che gli stessi non rappresentano un impedimento per il socio che è libero “di determinarsi in

assemblea come meglio creda”, che il vincolo riveniente da questi accordi “opera non dissimilmente da

qualsiasi altro possibile motivo soggettivo che possa spingere un socio ad esprimere il suo voto in

assemblea in un determinato modo”.

Se le sanzioni previste dal regolamento del gruppo parlamentare Movimento 5 Stelle al Senato e dallo

statuto del gruppo corrispondente alla Camera dovessero essere interpretate secondo questo canone

13 In questi termini, Cass., Sez. I, 23 novembre 2011, n. 14865, nella quale si legge: I patti parasociali (e, in particolare, i cosiddetti sindacati di voto) sono, nella loro composita tipologia (che non consente, pertanto, la riconduzione ad uno schema tipico unitario), accordi atipici, volti a disciplinare, in via meramente obbligatoria tra i soci contraenti, il modo in cui dovrà atteggiarsi, su vari oggetti (nella specie, circa la nomina di amministratori societari), il loro diritto di voto in assemblea. Il vincolo che discende da tali patti opera, pertanto, su di un terreno esterno a quello dell'organizzazione sociale (dal che, appunto, il loro carattere "parasociale" e, conseguentemente, l'esclusione della relativa invalidità "ipso facto"), sicché non è legittimamente predicabile, al riguardo, né la circostanza che al socio stipulante sia impedito di determinarsi autonomamente all'esercizio del voto in assemblea, né quella che il patto stesso ponga in discussione il corretto funzionamento dell'organo assembleare (operando il vincolo obbligatorio così assunto non dissimilmente da qualsiasi altro possibile motivo soggettivo che spinga un socio a determinarsi al voto assembleare in un certo modo), poiché al socio non è in alcun modo impedito di optare per il non rispetto del patto di sindacato ogni qualvolta l'interesse ad un certo esito della votazione assembleare prevalga sul rischio di dover rispondere dell'inadempimento del patto. Sulla sentenza, vedi R. COSTI, La Cassazione e i sindacati di voto: tra dogmi e natura delle cose, in Riv. it. dir. lav., 2002, 666 (fasc. 4), il quale, molto opportunamente, ad avviso di chi scrive, osserva: Inutile sottolineare che appare un po' paradossale far discendere la validità del patto con il quale il socio si obbliga ad esercitare il diritto di voto in una determinata direzione, dalla possibilità, per il socio medesimo, di non adempiere all'obbligo così contratto. Inutile anche rilevare che questa libertà di non adempiere è una libertà che si pagherebbe per lo più a caro prezzo (sia sul piano risarcitorio sia sul piano dell'immagine). Utile rilevare invece che, se la Suprema Corte argomenta la validità del sindacato di voto dalla sua efficacia meramente obbligatoria, la stessa dovrebbe escludere la validità dei patti dotati di strumenti capaci di impedire che il voto in assemblea assuma una direzione diversa da quella decisa nell'ambito del sindacato (sindacato c.d. ad efficacia reale). Questa impostazione sarà seguita nel testo. Va da sé che il riferimento ai patti parasociali a natura reale (in cui i patiscenti conferiscono i diritti di voto in un soggetto collettivo appositamente costituito e il comitato direttivo del sindacato esercita i diritti di voto dei patiscenti senza che questi vi si possano opporre) è del tutto estraneo alla logica della rappresentanza politica, anche se taluno ha talvolta proposto di far votare i capigruppi con un voto corrispondente alla consistenza dei gruppi parlamentari da essi rappresentati.

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giurisprudenziale, la questione della loro legittimità sarebbe di pronta soluzione: sarebbero legittimi

perché non imporrebbero alcun comportamento rilevante all’interno dell’organizzazione parlamentare,

lasciando il parlamentare libero di determinarsi in assemblea come meglio crede e il vincolo derivante da

questi negozi giuridici opererebbe non dissimilmente da qualsiasi altro motivo soggettivo che possa

indurre il parlamentare a comportarsi in un determinato modo anziché in un altro.

L’argomento, però, è paradossale. In campo societario, probabilmente, può, forse, non essere impossibile

affermare che esiste una libertà se questa deriva dalla possibilità di non adempiere, anche se non può

esistere un diritto a non adempiere e questo rende l’affermazione molto discutibile anche in questo settore

dell’ordinamento. Sul piano delle libertà parlamentari, però, affermare che un parlamentare è libero di

esercitare le sue funzioni di rappresentante dell’intera nazione anche se sa che il suo comportamento sarà

oggetto di una penale non indifferente sul piano economico e sottoposto all’ordalia della rete non può

essere considerato ragionevole.

Il punto essenziale di questa giurisprudenza è la separazione della sfera pubblica dalla sfera privata: i patti

parasociali appartengono alla sfera privata e operano all’interno di questa, essi, nella sfera pubblica –

ovvero con riferimento ai voti dati e alle opinioni espresse dai patiscenti –, non rilevano in alcun modo,

sicché l’esistenza di un patto parasociale che condiziona la libertà di voto o di un codice etico che

condiziona l’esercizio del mandato politico sono rilevanti sul piano dei rapporti fra patiscenti ma

irrilevanti per le sfere pubbliche nelle quali i patiscenti operano14.

La questione, quindi, è se le norme degli atti di autorganizzazione dei soggetti collettivi attraverso i quali

il Movimento 5 Stelle si proietta in Parlamento e che prevedono una penale a carico dell’eletto che

abbandoni o sia espulso dal gruppo possono essere considerate legittime e quindi se questa penale, ove

ne ricorrano i presupposti, possa essere considerata esigibile.

La soluzione di questo problema pone tre questioni di carattere processuale, nessuna delle quali può

essere considerata irrilevante e ciascuna delle quali ha dei riflessi sul problema di diritto sostanziale che

14 E’ l’impostazione fatta propria dal Tribunale Roma, Sezione (1 Sezione civile, Ordinanza 17 gennaio 2017, n. 779, udienza 12 gennaio 2017), per la quale: Le cause di ineleggibilità, in quanto eccezione al generale e fondamentale principio del libero accesso, in condizioni di eguaglianza, di tutti i cittadini alle cariche elettive, devono essere tipizzate dalla legge con determinatezza e previsione sufficienti ad evitare quanto più possibile situazioni di persistente incertezza, incidente sulla pari capacità elettorale passiva dei cittadini. Le cause limitative del diritto, costituzionalmente garantito, all'elettorato passivo sono norme di stretta interpretazione, di talché deve escludersi che un'ipotesi di ineleggibilità possa essere interpretata estensivamente al fine di ricomprendervi fattispecie testualmente non previste dalla disciplina positiva, con conseguente esclusione di qualsiasi interpretazione analogica delle cause tipiche. In tal senso, nel caso concreto deve escludersi che costituisca condizione di ineleggibilità l'avvenuta sottoscrizione, da parte del sindaco eletto, del Codice di comportamento per candidati ed eletti di un determinato partito (specificamente il Movimento 5 Stelle), sul rilievo che a ciò conseguirebbe la violazione del principio, costituzionalmente garantito, del divieto di vincolo di mandato imperativo, nonché la violazione degli artt. 3, 51 e 97 della Costituzione.

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s’indaga: chi è il giudice competente a conoscere di questa controversia, chi è legittimato a sollevare la

questione e quando chi ha la legittimazione può agire per la tutela dei propri diritti.

La giurisdizione è del giudice ordinario perché non può essere invocata l’autonomia costituzionale del

Parlamento.

Di conseguenza della legittimità di queste clausole non può giudicare il Presidente dell’assemblea cui gli

statuti dei gruppi parlamentari devono essere trasmessi ai sensi degli artt. 15, comma 2 bis, r.C. e 15.,

comma 3 bis, r.S.

Sul piano formale, i regolamenti parlamentari non prevedono un sindacato sul contenuto degli statuti e

dei regolamenti dei gruppi parlamentari da parte del Presidente15: si limitano a stabilire che gli statuti sono

trasmessi al Presidente (per il r.S., alla “Presidenza”) e che successivamente sono pubblicati sul sito della

Camera o del Senato: la sequenza approvazione (da parte dell’autonomia dei gruppi) / trasmissione (al

“Presidente”, secondo il r.C., alla “Presidenza”, secondo il r.S., che quindi prevede un intervento

dell’ufficio e non dell’organo) / pubblicazione (sul sito della Camera o del Senato, senza alcuna soluzione

di continuità rispetto allo statuto come trasmesso) non pare lasciare spazio per un sindacato del Presidente

più volte e da più parti evocato e che costituirebbe un controllo di legalità affine all’omologa notarile, ma

unicamente una sorta di moral suasion con cui il Presidente può segnalare i propri dubbi affinché gli stessi

possano essere adeguatamente presi in considerazione dall’autonomia dei gruppi16.

Sul piano sostanziale, l’affermazione di un potere presidenziale di omologa degli statuti dei gruppi

parlamentari sarebbe ragionevole se si sostenesse che gli statuti dei gruppi costituiscono fonti del diritto

15 L’art. 15, commi 2 bis e ss., r.C si limita a prevedere che lo statuto sia trasmesso al Presidente il quale potrà verificare il rispetto dei requisiti di cui ai commi seguenti (lo statuto del gruppo deve prevedere nell’assemblea del gruppo l’organo competente a deliberare sul bilancio e indicare quali sono i soggetti che provvedono all’amministrazione del gruppo). Lo stesso vale per l’art. 15, comma 3 bis, r.S.: Entro trenta giorni dalla propria costituzione, l’Assemblea di ciascun Gruppo approva un regolamento, che è trasmesso alla Presidenza del Senato nei successivi cinque giorni. Il regolamento è pubblicato nel sito internet del Senato. La sequenza logica degli adempimenti previsti da queste norme – trasmissione dello Statuto alla Presidenza e pubblicazione dello stesso sui siti internet di Camera e Senato – non sembra consentire un sindacato del Presidente il cui compito sembra esaurirsi nella pubblicazione degli statuti e non avrebbe senso prevedere la pubblicazione dello statuto trasmesso se il Presidente potesse esercitare un sindacato sullo stesso. In generale, sui rapporti fra Presidente e gruppi parlamentari, F. BIONDI, Presidenti di assemblea e gruppi parlamentari, in E. Gianfrancesco, N. Lupo, G. Rivosecchi (ed.), I presidenti di assemblea parlamentare: riflessioni su un ruolo in trasformazione, Bologna – Il Mulino, 2014, 127-153. Su queste modifiche regolamentari, F. BIONDI, Disciplina dei gruppi parlamentari e controlli sui bilanci : osservazioni alle recenti modifiche ai regolamenti di Camera e Senato, in Osservatorio sulle fonti, 2012, n. 3. 16 In questo senso, sembra si possa interpretare il precedente del 1996, quando il Presidente della Camera dei Deputati Luciano Violante non accettò le denominazioni del gruppo formato dai deputati aderenti alla Lega Nord (si trattava di Lega-Parlamento della Padania e Lega Nord-Padania indipendente) e l’accordo sulla denominazione fu raggiunto in un colloquio fra il presidente del gruppo (Pagliarini) e lo stesso Violante (Lega Nord per l’indipendenza della Padania). Nel tempo occorso alla soluzione della querelle, i deputati leghisti si astennero dai lavori parlamentari. Lo stesso comportamento fu seguito al Senato da Mancino, che rifiutò di accettare il nome di Lega – Parlamento della Padania, accettando la denominazione di Lega Nord per l’indipendenza della Padania.

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parlamentare17 e, soprattutto, che sia possibile ricavare una riserva a favore dell’autonomia parlamentare

nell’interpretazione, attuazione ed esecuzione dei principi normativi di cui all’art. 67, Cost.

La giurisdizione parlamentare trova il proprio fondamento nell’autonomia dei due rami del Parlamento,

che come può porre le norme relative alla propria organizzazione e all’esercizio delle sue funzioni, nonché

quelle necessarie ad assicurare la propria indipendenza, così le deve poter interpretare e darvi attuazione

al di fuori dell’interferenza di qualsiasi altro potere dello Stato18.

La disciplina derivante dall’intarsio fra le diverse norme dei regolamenti sui gruppi (art. 14, comma 01;

15, comma 2 ter; r.C. e 15, comma 3 bis e 53, comma 7, r.S.) e il d.l. 149/2013 non sembra poter essere

interpretata in questi termini.

Per affermare la competenza delle Camere, ovvero del loro Presidente, si dovrebbe ritenere che il

principio normativo di cui all’art. 67, Cost. debba trovare il proprio svolgimento esclusivamente nei

regolamenti parlamentari, sicché ogni interpretazione di questa disposizione potrebbe avvenire

esclusivamente all’interno dell’ordinamento giuridico parlamentare, ma l’art. 67, Cost. non è una norma

che riguarda esclusivamente l’organizzazione e il funzionamento del Parlamento, ovvero la sua

indipendenza nei confronti dei terzi, è, piuttosto, una norma che concorre a definire l’atteggiarsi della

rappresentanza politica e quindi il rapporto fra coloro che sono rappresentati e coloro che li

rappresentano.

Il contenuto della rappresentanza politica è estraneo al diritto parlamentare, che ha per oggetto l’esercizio

della rappresentanza da coloro che sono stati designati come membri del Parlamento, ma non anche il

tipo di rapporto che intercorre fra costoro e quanti li hanno eletti attraverso l’esercizio del diritto di voto.

La Corte costituzionale ha usato l’art. 67, Cost. come parametro per giudicare delle leggi elettorali in Corte

cost. 1/2014 e 35/2017, perché la definizione del contenuto costituzionale della rappresentanza politica

è uno dei parametri sulla base dei quali si deve verificare la legittimità costituzionale delle leggi elettorali,

che sono a monte del diritto parlamentare per come si esprime nei regolamenti adottati dall’autonomia

costituzionale dei due rami del Parlamento.

Queste osservazioni, ad avviso di chi scrive, valgono anche a escludere la possibilità per il Presidente della

Camera o del Senato di esercitare un sindacato sul contenuto degli statuti, non dissimile all’omologa

notarile, benché gli consentano un intervento di moral suasion su genere di quello esercitato dal Presidente

Violante nel 1996, con l’adesione di Mancino al Senato.

17 Così A. CIANCIO, I gruppi parlamentari come manifestazioni del pluralismo, Milano – Giuffrè, 2008, part. 238, ma vedi anche A. MANNINO, Diritto parlamentare, Milano – Giuffré, 2010 e R. BIN, La disciplina dei gruppi parlamentari, in AIC, Annuario 2000, Atti del XV convegno annuale, Firenze, 12 – 14 ottobre 2000, Padova – Cedam, 2011, 87 e ss. 18 Cfr. F.G. SCOCA, Autodichia e stato di diritto, in Dir. proc. amm., 2011, 25 ss. e A. D’ANDREA, Autonomia costituzionale delle Camere e principio di legalità, Milano - Giuffrè, 2004.

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Si può aggiungere che l’autonomia regolamentare dei due rami del Parlamento attribuisce a ciascuna

camera il potere di regolare diversamente dall’altra i profili di attuazione della Costituzione relativi alla

propria organizzazione e funzionamento e non sarebbe ragionevole ipotizzare due diverse giurisprudenze

parlamentari sul contenuto normativo dell’art. 67, Cost.

Al Presidente dell’Assemblea non spetta, perciò, né interpretare né dare attuazione all’art. 67, Cost., il cui

contenuto normativo oltrepassa gli ambiti del diritto parlamentare, ma questo compito spetta al giudice

ordinario19.

Il secondo problema e il terzo problema di carattere processuale sono connessi fra di loro perché

riguardano la legittimazione al processo in cui si intenda contestare il contenuto dello statuto del gruppo

parlamentare perché lesivo dell’art. 67, Cost. e l’interesse ad agire.

Si può ragionevolmente ritenere che la legittimazione ad agire spetti a colui che viene espulso e al quale

è applicata la sanzione pecuniaria prevista dalle disposizioni che si sono richiamate20. L’espulso potrà far

valere i propri diritti associativi e potrà anche sostenere l’illegittimità della pattuizione per effetto della

violazione di una norma imperativa di legge (l’art. 67, Cost.).

L’espulso fa valere il proprio diritto a non essere sanzionato con una penale per l’inadempimento a un

patto associativo che viola il principio del libero mandato parlamentare.

Si può dubitare che il membro del gruppo parlamentare, invece, possa agire a prescindere dall’esistenza

di una lesione effettiva, concreta ed attuale della propria libertà: il suo interesse ad agire sorge nel

momento in cui viene deliberata l’espulsione nei suoi confronti e non prima quando la lite sarebbe

unicamente ipotetica e potenziale perché la vaghezza delle ipotesi in cui l’esclusione dal gruppo può essere

19 Se la giurisdizione è del giudice comune, questi difficilmente abbandonerà gli indirizzi maturati dal Tribunale di Napoli nella sua sentenza del 18 aprile 2018, n. 3773, facilmente reperibile in rete, come pure facilmente reperibile in rete è il precedente della XVI Sezione civile del Tribunale di Roma del 5 febbraio 2018, che ha considerato illegittima l’espulsione deliberata per mezzo di una consultazione sulla rete, dovendosi pronunciare l’assemblea degli iscritti, secondo le norme generali di diritto comune sulle associazioni. 20 Vedi T. Genova, 10 aprile 2017, in Giur. it., 2017, 1887 (fasc. Agosto / Settembre 2017), per il quale Le deliberazioni assunte dall’organo amministrativo di un’associazione non riconosciuta sono impugnabili da parte dell’associato qualora ne risulti direttamente leso un suo diritto, in quanto la regola dettata in materia di società per azioni dall’art. 2388 c.c. costituisce un principio generale dell’ordinamento (nella fattispecie, il di- ritto leso è rinvenuto nella possibilità di concorrere alla competizione elettorale interna all’organizzazione politica in base a previsioni statutarie dell’ente, che sono in realtà attuative del diritto costituzionale di elettorato passivo sancito dall’art. 48 Cost.). L’associato potrà lamentarsi del fatto che lo statuto prevede l’applicazione delle sanzioni da parte del Presidente del gruppo, sentito il comitato direttivo, anziché da parte dell’assemblea, come sembra necessario ai sensi dell’art. 23, c.c., che però riguarda le associazioni riconosciute, come pure del ruolo procedimentale del voto popolare previsto dal quarto comma dell’art. 21, il quale sembra essere oggetto di una convocazione da parte del capo politico del Movimento, in casi eccezionali, che però non si comprende bene quando si verifichino.

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deliberata impedisce di prevedere se un comportamento (ad eccezione dell’adesione a un diverso gruppo)

possa essere considerato come un illecito21.

Il vero dubbio, però, è se sia legittimato a contestare lo statuto del gruppo anche un qualsiasi cittadino,

elettore del Movimento o meno.

La disposizione costituzionale sul divieto di mandato imperativo non costituisce una norma posta

nell’esclusivo interesse dei rappresentanti e quindi nella loro disponibilità.

Rappresenta uno dei cardini su cui si poggia l’idea costituzionale della rappresentanza politica e la

previsione di un limite al suo estendersi è una lesione arrecata al diritto di voto esercitato dai cittadini, in

termini non molto diversi da quanto statuito con riferimento alla legislazione elettorale da Corte cost.

1/2014 e 35/201722.

Non sarebbe ragionevole consentire al mandatario di mettere in discussione la validità del proprio

mandato senza riconoscere lo stesso diritto d’azione anche al mandante.

Se il mandatario ha interesse a contestare il contenuto vincolante del mandato definito dagli atti di

autorganizzazione dei gruppi parlamentari del Movimento 5 Stelle solo nel caso in cui sia applicata nei

suoi confronti una sanzione per aver violato gli obblighi a suo carico, il “principale” ha interesse a

contestare il contenuto vincolante di questi obblighi per il solo fatto che gli stessi sono stati posti.

Dal punto di vista della legittimazione del mandante, ciò che viene leso è il diritto ad essere rappresentati

da membri del Parlamento che rappresentino l’intera nazione e non solo una frazione del suo corpo

elettorale e l’interesse a reagire contro questa lesione sorge nel momento stesso in cui il mandato diventa

giuridicamente vincolante e perciò con l’approvazione dello statuto alla Camera e del regolamento al

Senato.

21 Il Presidente del Gruppo può deliberare l’espulsione, sentito il comitato direttivo, nel caso di: a) reiterate ed ingiustificate assenze dai lavori della Camera e del Gruppo; b) reiterate violazioni al presente Statuto e del Codice etico; c) mancate dimissioni dalla propria carica in caso di condanna penale, ancorché non definitiva; d) mancato rispetto delle decisioni assunte dall’assemblea degli iscritti con le votazioni in rete; e) mancato rispetto delle decisioni assunte dagli altri organi del MoVimento 5 Stelle; f) mancata contribuzione economica alle attività del MoVimento 5 Stelle; g) comportamenti suscettibili di pregiudicare l’immagine o l’azione politica del MoVimento 5 Stelle o di avvantaggiare altri partiti; h) comportamenti connotati da slealtà e scorrettezza nei confronti degli altri iscritti e eletti; i) mancata cooperazione e coordinamento con gli altri iscritti, esponenti e eletti, anche in diverse assemblee elettive, per la realizzazione delle iniziative e dei programmi del MoVimento 5 Stelle, nonche per il perseguimento dell’azione politica del MoVimento 5 Stelle; j) tutte le condotte che violino, del tutto o in parte, la linea politica dell’Associazione “MoVimento 5 Stelle” (art. 21, comma 3, Statuto Gruppo Camera). Stabilire se vi sia slealtà nei confronti del partito o degli eletti o se vi sia una violazione della linea politica dell’associazione non è semplice e della difficoltà si rende conto anche lo Statuto che prevede, al comma 4 dell’art. 21, la convocazione di una votazione on line da parte degli iscritti “in casi eccezionali” e “su indicazione del Capo Politico”. 22 C. CONSOLO, Azione di accertamento e giudizio di incostituzionalità della legge elettorale, l’antefatto della sentenza della consulta: l’azione di accertamento della “qualità” ed “effettività” del diritto elettorale, in Corriere giuridico, 2014, fasc. 1, pp. 7-16

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In questo momento, il mandante ha interesse a contestare allo statuto del gruppo della Camera e al

regolamento del gruppo al Senato la loro nullità per violazione del contenuto normativo dell’art. 67, Cost.

ed il giudice dovrà stabilire se l’art. 67, Cost. pone una norma imperativa nel senso dell’art. 1418, c.c., ma

soprattutto se gli statuti dei gruppi parlamentari possono condizionare la libertà di voto e di linea politica

dei parlamentari che aderiscono al gruppo perché le previsioni in essi statuite operano su una sfera diversa

rispetto a quella nella quale i parlamentari adempiono al proprio dovere di rappresentare la nazione.

3 – Nel primo paragrafo, si è detto che nelle previsioni con cui gli statuti dei gruppi parlamentari del

Movimento 5 Stelle limitano la libertà di linea politica dei propri parlamentari vi è una riflessione profonda

sull’idea stessa di rappresentanza politica: il membro del Parlamento, al pari di ogni altro iscritto al

Movimento, è considerato come uno strumento per affermare la linea politica del Movimento e, di

conseguenza, deve essere sanzionato nel momento in cui se ne discosta.

Sarebbe ingenuo probabilmente ritenere che questa sia una novità del Movimento 5 Stelle: i partiti

condizionano da sempre l’operato degli eletti, anche se in forma sottile e non facilmente percepibile

dall’opinione pubblica e non è una penale, per quanto di ammontare ingente, che cambia la sostanza di

questo fenomeno23.

La novità rappresentata dal Movimento è che alla pretesa di condizionare esplicitamente l’operato dei

suoi parlamentari attraverso l’espressione di votazioni da parte degli iscritti (il parlamentare viene

sanzionato, perché manca al proprio ruolo di intermediazione fra la volontà dei suoi elettori e la

formazione della volontà delle assemblee parlamentari) si accompagna il rifiuto del principio

maggioritario come strumento di integrazione e coesione attraverso le procedure parlamentari che è una

delle ragioni più profonde del divieto di mandato imperativo e del suo rango di principio generale.

Questa novità ha una forza materialmente costituzionale perché impatta sul contenuto della

rappresentanza politica, come disegnato dalla Costituzione, e sul rapporto fra gli elementi di democrazia

diretta e di democrazia rappresentativa nella Costituzione materiale, trasformando la democrazia

rappresentativa in uno strumento di attuazione della democrazia diretta.

23 Si deve anche ricordare che le recenti modifiche del regolamento del Senato hanno inciso sulla libertà dei parlamentari, sia nella parte in cui la possibilità di costruire un nuovo gruppo è stata condizionata all’esistenza di un partito politico sottostante (art. 14, comma 4 e art. 15, comma 3, r.S.), sia perché è prevista la decadenza dalla carica di segretario, Vice Presidente, Questore o Presidente di commissione in ogni caso di abbandono del gruppo parlamentare diverso dall’espulsione (art. 13, comma 1 bis e 27, comma 3 bis, r.S.). Sul punto, anche per riferimenti al rapporto fra le modifiche regolamentari e il principio del divieto di mandato imperativo, A. CONTIERI, La nuova disciplina dei gruppi parlamentari a seguito della riforma del Regolamento del Senato, in Forum di Quaderni Costituzionali (6 marzo 2018), facilmente reperibile in rete.

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Questo modello ideale, che per il Movimento 5 Stelle costituisce, perciò, un fine non negoziabile, non è

un necessario svolgimento del modello costituzionale di democrazia fondato sulla rappresentanza e nel

quale la democrazia diretta costituisce un correttivo.

Rappresenta un’eversione del modello costituzionale, ovvero un’evoluzione della Costituzione materiale

interdetta dai limiti posti dalla Costituzione formale.

Nella seconda parte di questo lavoro, si è cercato di dimostrare che questa mutazione del modello di

rappresentanza è stata sviluppata per mezzo di un atto di autonomia privata, lo statuto/regolamento del

gruppo parlamentare, e che il giudizio sulla legittimità dello stesso sembra essere di competenza del

giudice ordinario.

In dottrina, si è autorevolmente ipotizzata la via del conflitto fra poteri dello Stato24. Ma sembra molto

difficile configurare il parlamentare che agisce a tutela del proprio mandato come un potere dello Stato e

lo stesso vale per il gruppo, mentre sul piano pratico un conflitto dell’autorità giudiziaria sull’atto di

autodichia della Camera presuppone che il parlamentare, soccombente nel suo reclamo contro

l’applicazione della penale, chieda al giudice ordinario la disapplicazione della decisione della Camera di

appartenenza, quando potrebbe direttamente rivolgersi al giudice ordinario.

La sostanza, il vero conflitto, riguarda il mutamento dell’idea di rappresentanza politico attuato per mezzo

delle norme statutarie e questo conflitto ha per protagonista, per titolare della sfera di attribuzione lesa,

il potere di revisione costituzionale, dal momento che si è mutato il significato del principio maggioritario

come strumento di integrazione e coesione per mezzo delle procedure parlamentari in senso oppositivo

e divisivo.

Un conflitto che ha per oggetto la tutela della Costituzione contro un mutamento del suo contenuto

normativo imposto al di fuori del procedimento di revisione costituzionale può essere risolto nelle forme

del giudizio incidentale di legittimità costituzionale25.

La penale imposta dagli statuti parlamentari dei gruppi formati dal Movimento 5 Stelle si può giustificare

solo se si considera il contenuto di questi statuti come non vincolante sul piano parlamentare, ma

unicamente nei rapporti fra gli aderenti – patiscenti, secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione

che si è ricordata criticamente, perché altrimenti le norme degli statuti/regolamenti che prevedono la

24 In questi termini, E. GIANFRANCESCO, Chi esce paga, cit., part. 486, che ipotizza la via del conflitto di attribuzione sollevato dal deputato verso il gruppo di appartenenza per ottenere l’annullamento della sanzione che gli è stata inflitta, ovvero del potere giudiziario verso la Camera che agisce in via di autodichia sull’applicazione della sanzione. 25 Si deve ricordare che l’abolizione del divieto di mandato imperativo costituisce da sempre una delle bandiere elettorali del Movimento 5 Stelle: G. GRASSO, Mandato imperativo e mandato di partito: il caso del MoVimento 5 Stelle, in AIC, Osservatorio costituzionale, Fasc. 2/2017; V. PAZÉ, Crisi della rappresentanza e mandato imperativo, in Teoria politica, 2014, part. 285.

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penale potrebbero essere considerate nulle ai sensi dell’art. 1418, c.c., per contrasto con una norma

imperativa (l’art. 67, Cost.).

In questa giurisprudenza, ciò che ci si deve chiedere è se l’art. 1372, c.c., per il quale il contratto ha forza

di legge fra le parti, può valere anche nel caso in cui dall’esecuzione del contratto derivi la violazione

dell’art. 67, Cost.: il giudice ordinario che, per le ragioni ricordate dalla Corte di cassazione, non ritenesse

nullo il contratto associativo del gruppo parlamentare, potrebbe dubitare della legittimità costituzionale

della sua forza e questo dubbio non potrebbe essere considerato manifestamente infondato.

Vi è un’esigenza di giustizia costituzionale che gli statuti dei gruppi parlamentari costituiti dal Movimento

5 Stelle pongono con forza e questa esigenza riguarda il movimento verso il diritto privato della

Costituzione materiale, che ha trovato la sua manifestazione estrema nel contratto di governo e nel

procedimento di formazione dello stesso al di fuori delle consultazioni.

La Costituzione, per come tradizionalmente si è abituati a considerarla, parla a sfere di attribuzioni

pubbliche e disciplina il potere pubblico attraverso moduli pubblicistici: il Parlamento e il governo, nella

nostra tradizione, non possono essere considerati attraverso modelli di diritto privato fondati sul

consenso, perché si basano sul principio maggioritario.

La penale prevista dagli statuti dei gruppi parlamentari opera su un piano diverso, innestando una sfera

privata all’interno della sfera pubblica: la sfera pubblica continua ad essere assoggettata alle regole del

diritto parlamentare che la disciplinano, mentre la sfera privata, che assomiglia molto a un accordo di

natura parasociale, in cui i patiscenti trovano un accordo relativamente all’esercizio del diritto di voto per

assicurare alla società la coesione dei soci necessaria per l’attuazione del piano industriale, condiziona il

funzionamento della sfera pubblica.

La sfera privata è interna alla sfera pubblica, come il nucleo vitale di una cellula che ne determina lo

sviluppo, e il suo scopo, in questo caso, è far sì che i parlamentari eletti con il Movimento 5 Stelle adottino

comportamenti coerenti con la linea politica decisa dal Movimento, evitando, quindi, che il principio

maggioritario possa svolgere la sua funzione di integrazione per mezzo delle procedure parlamentari e

assicurando il funzionamento dialetticamente oppositivo di questo principio.

La questione di legittimità costituzionale, quindi, riguarda il valore normativo dell’art. 1376, c.c. e non la

penale contenuta dello statuto/regolamento del gruppo. Riguarda la capacità di un contratto fra

parlamentari di condizionare il loro ruolo di rappresentanti della nazione, introducendo un diverso ideale

di rappresentanza politica, ma non il contenuto di questo contratto. Ha per oggetto la norma che consente

di stipulare il contratto e non il contratto.

La questione evoca un forte bisogno di giustizia costituzionale – una questione di giustizia costituzionale

che ha bisogno dell’efficacia erga omnes delle sentenze della Consulta e non della forza di precedente

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politico che caratterizza la giurisprudenza parlamentare – perché riguarda sia la capacità degli attori politici

di modificare il contenuto dei precetti costituzionali, cercando un equilibrio fra Costituzione formale e

materiale al di fuori dei limiti esplicitamente posti dalla Costituzione formale attraverso moduli privatistici,

sia la legittimità di una lettura oppositiva anziché integrativa del principio maggioritaria.

Di questo bisogno, che potrà essere risolto o nelle vie che si sono suggerite con queste pagine

direttamente dal giudice comune o per mezzo di una questione di legittimità costituzionale posta in via

incidentale sull’art. 1376, c.c., o per mezzo di un conflitto di attribuzione fra poteri, come sembra più

difficile a chi scrive, si deve dire un’ultima cosa.

E’ un bisogno che deve ricevere una risposta più tempestiva possibile, in modo da chiarire

definitivamente se l’autonomia costituzionalmente negoziale dei gruppi parlamentari può o meno

concorrere a determinare il significato normativo dell’art. 67, Cost. e se il principio maggioritario debba

perdere la sua forza di giunto fra maggioranza e minoranze, sia per l’importanza che ha questa

disposizione nel tessuto della Costituzione, sia per l’importanza che ha la soluzione di questo dubbio con

riferimento agli sviluppi della Costituzione materiale e quindi alla tenuta del principio di rigidità della

Costituzione formale.

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di Salvatore Curreri

Professore associato di Istituzioni di diritto pubblico Università Kore di Enna

Costituzione, regolamenti parlamentari e statuti dei gruppi politici: un rapporto da ripensare

1 3 G I U G N O 2 0 1 8

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Costituzione, regolamenti parlamentari e statuti dei gruppi politici: un rapporto da ripensare*

di Salvatore Curreri

Professore associato di Istituzioni di diritto pubblico Università Kore di Enna

Sommario: 1. Una necessaria premessa: la natura giuridica dei gruppi parlamentari – 2. L’attuale confine tra regolamenti parlamentari e statuti interni dei gruppi) – 3. Regolamenti parlamentari e disciplina di gruppo – 4. Il contrasto degli statuti interni dei gruppi politici del M5S con: a) i regolamenti parlamentari – 5. (segue): b) l’art. 67 della Costituzione) – 6. In particolare: l’incostituzionalità della proposta introduzione del vincolo di mandato – 7. Vincolo di mandato e giuramento dei ministri – 8. Il controllo del Presidente d’Assemblea – 9. In particolare: il ricorso sulla costituzione del gruppo all’Ufficio di Presidenza – 10. Il possibile conflitto di attribuzioni – 11. Considerazioni conclusive: ripensare il confine tra regolamento parlamentare e statuto interno del gruppo

1. Una necessaria premessa: la natura giuridica dei gruppi parlamentari

Qual è la natura giudica dei gruppi parlamentari? Associazioni private che, in forza della loro autonomia

politica, possono liberamente organizzarsi e decidere al proprio interno? Oppure enti che, in ragione della

natura pubblica delle funzioni esercitate, possono vedere tale autonomia limitata dai regolamenti

parlamentari? Qual è il rapporto tra questi due profili? Qual è, cioè, il confine tra autonomia politica dei

gruppi e regolamenti parlamentari? Se tale confine viene oltrepassato, chi e con quali procedure può

intervenire?

Sono queste, alla radice, le questioni ultime che traspaiono dallo scambio epistolare tra i deputati Magi e

Ceccanti (1) e il Presidente della Camera Fico (2) circa l’asserito contrasto tra alcune disposizioni dello

statuto interno del gruppo parlamentare alla Camera del MoVimento 5 Stelle (St. M5S) e taluni articoli

del regolamento di Montecitorio e della Costituzione.

* Intervento alla Tavola rotonda “Gli statuti dei gruppi parlamentari alla prova dell’art. 67della Costituzione”, Roma, 16 maggio 2018. 1) Per i testi delle lettere degli on. Magi (9 aprile) e Ceccanti (11 aprile) v., rispettivamente, https://www.huffingtonpost.it/riccardo-magi/caro-presidente-fico-il-regolamento-del-tuo-gruppo-parlamentare-viola-la-costituzione-non-puoi-far-finta-di-nulla_a_23409654/ e http://stefanoceccanti.it/lettera-al-presidente-della-camera-sui-problemi-che-pone-lo-statuto-del-gruppo-camera-m5s/ 2) Per il testo della risposta del Presidente Fico (17 aprile) v. http://stefanoceccanti.it/la-risposta-del-presidente-fico-alle-lettere-magi-e-ceccanti/

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Quella della natura giuridica dei gruppi parlamentari è questione notoriamente complessa, che qui può

solo ovviamente essere evocata (3), alla quale i giuristi nel tempo, anche a causa di una giurisprudenza

incerta, hanno dato risposte diverse a seconda del profilo – privato o pubblico – ritenuto prevalente.

Così, chi tende ad evidenziare il rapporto non solo politico (4) ma anche giuridico (5) tra gruppo

parlamentare e il corrispondente partito politico, ritiene trattarsi di un suo organo privato, seppur investita

di pubbliche funzioni. Chi all’opposto, invece, tende a rimarcare queste ultime, ritiene il gruppo

parlamentare soggetto pubblico (organo dello Stato e/o delle camere; associazione di diritto pubblico;

ente pubblico indipendente) (6).

Sono ricostruzioni che, in definitiva, colgono solo un aspetto del problema e che, anche per questo, sono

criticate da quanti invece ritengono le due dimensioni – privata e pubblica – inscindibili. Secondo tale

tesi, ormai maggioritaria in dottrina, i gruppi parlamentari hanno natura giuridica mista, essendo

contemporaneamente organi dei rispettivi partiti e, quindi, “riflesso istituzionale del pluralismo politico”

3) Per un’esposizione delle distinte posizioni della dottrina e dei suoi sostenitori v. P. PETTA., Gruppi parlamentari e partiti politici, in Riv. it. sc. giur., 1970, 230 s.; G.U. RESCIGNO, Gruppi parlamentari, in Enc. dir., XIX, Milano, 1970, 794 ss.; C. ROSSANO, Partiti e Parlamento nello Stato contemporaneo, Napoli, 1972, 285 ss.; G.F. CIAURRO, G. NEGRI, Gruppi parlamentari, in Enc. giur., XV, Roma, 1989, 1 ss.; S. BANCHETTI, La natura giuridica dei gruppi parlamentari, in Il Parlamento della Repubblica. Organi procedure apparati, n. 12, Roma, II, 2008, 659 s.; A. CIANCIO, I gruppi parlamentari. Studio intorno a una manifestazione del pluralismo politico, Milano, 2008, 30 ss. e 88 ss. Per la dottrina spagnola v. A. SAIZ

ARNÁIZ, Los grupos parlamentarios, Madrid, 1989, 289 ss.; J.L. GARCÍA GUERRERO, Democracia representativa de partidos y grupos parlamentarios, Madrid, 1996, 31 ss. e 231 ss. 4) A partire dal fatto che gli esponenti dei direttivi dei gruppi fanno parte degli organi direttivi previsti dagli statuti del partito: cfr. C. DECARO, La struttura delle Camere, in T. MARTINES, G. SILVESTRI, C. DE CARO, V. LIPPOLIS, R. MORETTI, Diritto parlamentare, II, ed., Milano, 2011, 114. Sul rapporto tra partiti politici e gruppi parlamentari v. R. BIN, Rappresentanza e parlamento. I gruppi parlamentari e i partiti, in S. Merlini (a cura di), La democrazia dei partiti e la democrazia nei partiti, Firenze, 2009, 253 ss.; G.M. RAFFA, I rapporti tra i partiti politici e i gruppi parlamentari, in E. Rossi, L. Gori (a cura di), Partiti politici e democrazia: riflessioni di giovani studiosi sul diritto dei e nei partiti, Pisa, 2011, 87 ss. Sul ruolo a tal fine strategico del comitato direttivo, come organo di raccordo tramite cui il partito impartisce le direttive al gruppo v. S. TOSI, Diritto parlamentare, II ed. a cura di A. Mannino, Milano, 1993, 168. 5) Cfr. gli articoli: a) 18-bis.2 D.P.R. n. 361/1957 che esenta dalla sottoscrizione delle liste elettorali “i partiti o gruppi politici costituiti in gruppo parlamentare in entrambe le Camere all’inizio della legislatura in corso al momento della convocazione dei comizi” (v. anche art. 2.36 l. 52/2015 c.m. dall’art. 6 l. 165/2017); b) 3.6 e 4.2.a) l. 28/2000 che prevedono la ripartizione paritaria rispettivamente dei messaggi gratuiti e degli spazi di comunicazione politica ai soggetti politici rappresentati nelle assemblee oppure, nel secondo caso, presenti nel Parlamento europeo o in uno dei due rami del Parlamento; c) 14.4 R.S. per cui ciascun gruppo, oltreché “composto da almeno dieci Senatori” - requisito numerico che, laddove esclusivo, sancirebbe “l’autonomia dei gruppi parlamentari rispetto ai partiti” (C. DECARO, La struttura, cit., 102, corsivo nel testo) – deve anche “rappresentare un partito o movimento politico (…) che abbia presentato alle elezioni del Senato propri candidati con lo stesso contrassegno, conseguendo l’elezione di Senatori”; condizione quest’ultima che l’art. 14.2 R.C. prevede solo per i gruppi autorizzati perché composti da meno di venti deputati. È stato invece abrogato l’3.5 l. 195/1974 che obbligava “i presidenti dei gruppi parlamentari (…) a versare ai rispettivi partiti una somma non inferiore al 95 per cento del contributo” pubblico ricevuto” (ma per S TOSI, A. MANNINO, Diritto parlamentare, nuova edizione, Milano, 1999, 158 tale disposizione mantiene la sua “validità teorica, perché la funzione dei partiti nel sistema costituzionale è rimasta inalterata”), ed anzi oggi è espressamente previsto che i contributi finanziari erogati ai gruppi devono essere destinati esclusivamente per loro attività (artt. 15.4 R.C. e 16.2 R.S.), senza quindi poter essere trasferiti ai partiti. 6) Cfr. A. MANZELLA, Il Parlamento, II ed., Bologna, 1991, 70.

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(C. cost. 49/1998, 4° cons. dir.: v. anche 298/2004), e soggetti costituzionalmente necessari ex artt. 72 e

82 Cost. per l’organizzazione ed il buon andamento delle attività parlamentare. Le camere trovano, quindi,

nei gruppi parlamentari l’elemento cardine portante in base a cui strutturarsi, ricapitolare le posizioni

politiche e svolgere le loro funzioni. Del resto, tale duplice profilo è insito nei membri dei gruppi

parlamentari, contemporaneamente membri del partito e della camera alla quale sono stati eletti. Tale

impostazione trova oggi conferma nella definizione felicemente ambigua (7) contenuta nell’art. 14.01 R.C.

secondo cui i gruppi parlamentari “sono associazioni di deputati” (profilo privatistico) che danno vita a

“soggetti necessari al funzionamento della Camera” (profilo pubblicistico) (8).

La compresenza di tale due profili rende i gruppi parlamentari oggetto di una duplice disciplina: quella

privatistica dettata dai loro regolamenti interni e, in misura ridotta, dagli statuti dei partiti nella cui

organizzazione sono inseriti; quella pubblicistica dei regolamenti parlamentari che sono le sole fonti di

diritto statale sulla loro organizzazione interna e sulle funzioni pubbliche loro attribuite (9). Tali

disposizioni regolamentari sono, quindi, estremamente significative perché individuano il punto di

equilibrio tra autonomia statutaria dell’associazione e tutela delle prerogative dei singoli rappresentanti e,

loro tramite, dell’attività parlamentare nel suo complesso.

2. L’attuale confine tra regolamenti parlamentari e statuti interni dei gruppi

Al pari di quanto previsto fino a pochi anni fa per i partiti politici (10), i gruppi parlamentari godono oggi

d’una autonomia statutaria pressoché assoluta e riservata. I regolamenti di Camera e Senato, infatti,

7) Per un’accezione invece negativa di tale “ambigua definizione” v. N. LUPO, La disciplina dei gruppi parlamentari, nel mutare delle leggi elettorali, in Osservatoriosullefonti.it, n. 3/2017, 12 (disponibile in: http://www.osservatoriosullefonti.it), secondo cui essa entra, ma non risolve, l’annosa questione della natura giuridica dei gruppi parlamentari. Invece, per L. DI MAJO, M. RUBECHI, Gruppi parlamentari, in Digesto disc. pubbl., Aggiornamento, vol. VI, Torino, 2015, 233 s., tale definizione, ancorché prevista nel solo regolamento della Camera, sancisce definitivamente la “natura ambigua” dei gruppi parlamentari, con il conseguente “abbandono della posizioni più polarizzate” e la conversione “sulla loro natura giuridica ibrida e del tutto peculiare in ragione delle funzioni da essi svolte all’interno delle assemblee elettive”. Sulla natura di “sintesi” di tale definizione concorda F. BIONDI, Disciplina dei gruppi parlamentari e controlli sui bilanci: osservazioni alle recenti modifiche ai regolamenti di Camera e Senato, in Osservatoriosullefonti.it, n. 3/2012, 4. 8) In ciò, la disciplina italiana differisce da quella tedesca che definisce i gruppi parlamentari (Fraktionen) “associazioni dei membri del Bundestag” (v. art. 10.1 reg. Bundestag; art. 45 Legge federale sui rapporti giuridici dei membri del Parlamento tedesco (Abgeordnetengesetz – AbgG), dotate di capacità giuridica ma che “non esercitano alcun potere pubblico” (art. 46); v. F. BILANCIA, I regolamenti dei gruppi parlamentari del Bundestag, in S. Merlini (a cura di), Rappresentanza politica, gruppi parlamentari, partiti: il contesto europeo, Torino, 2001, 163 ss. 9) S. TOSI, Diritto parlamentare, cit., 167. 10) Oggi, infatti, i partiti che vogliano avvalersi delle agevolazioni fiscali previste per i contributi privati o presentare liste di candidati alle elezioni politiche, pena loro ricusazione (art. 22.1-bis TUCD), devono dotarsi e depositare uno statuto che contenga taluni elementi essenziali di democrazia interna e di trasparenza nei confronti degli elettori (art. 3 d.l. 149/2013), ovvero, in mancanza, un’apposita dichiarazione sostitutiva indicante taluni elementi minimi di trasparenza (art. 14.1 TUCD; questa seconda opzione – di cui si avvale il Movimento 5 Stelle che rifiuta il c.d.

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prevedono al riguardo una disciplina timida e minimale (11), nel segno di un prudente rispetto, giudicato

“eccessivo”, verso l’autonomia politica, organizzativa, amministrativa e procedurale dei gruppi,

rinunciando ad esercitare nei loro confronti “alcuna funzione, neppure di indirizzo” (12).

In primo luogo, infatti, per regolamento, i gruppi parlamentari devono nominare nella loro prima

riunione (13): il Presidente (e, alla Camera, i – massimo tre - suoi sostituti) (14); i vicepresidenti; il comitato

direttivo (solo alla Camera); uno o più Segretari (solo al Senato). Di tali nomine e di ogni loro successivo

mutamento va data comunicazione alla Presidenza (artt. 15.2. R.C. e R.S.). I regolamenti parlamentari,

pertanto, si limitano ad imporre ai gruppi, all’atto della loro costituzione, “un primo abbozzo

organizzativo (…), al fine di attuare un minimo di uniformità nella identificazione degli organi direttivi

dei gruppi all’interno di ciascuna camera, in considerazione soprattutto delle importanti funzioni che i

regolamenti assegnano a questi” (15).

A tali organi direttivi obbligatori, le riforme regolamentari approvate da Camera e Senato rispettivamente

il 25 settembre e il 21 novembre 2012 ne hanno aggiunto altri, in relazione alla gestione contabile dei

contributi finanziari che i bilanci di Camera e Senato prevedono ogni anno a favore dei gruppi

parlamentari e giustificati dalla rilevanza pubblica delle funzioni da loro ivi svolte: gli organi responsabili

della gestione amministrativa e contabile del gruppo: distinti al Senato (art. 15.3-ter R.S.), unico alla

Camera (art. 15.2-bis R.C.); l’Assemblea quale organo espressamente competente ad approvare il

rendiconto di esercizio annuale (artt. 15.2-bis e 15-ter.3 R.C.; art. 15.3-ter e 16-bis.1 R.S.) (16). Il che dimostra

come tale riforma, in scia a quella notoriamente “gruppo centrica” del 1971, abbia considerato i gruppi

finanziamento pubblico indiretto - non era prevista dall’art. 2.7 l. 52/2015 che, più efficacemente, obbligava tutti i partiti a dotarsi d’uno statuto per partecipare alle elezioni politiche). 11) Cfr. A. MANZELLA, Il Parlamento, I ed., Bologna, 1977, 33 s.; R. BIN, La disciplina dei gruppi parlamentari, in Annuario 2000. Il Parlamento, a cura dell’Associazione italiana dei costituzionalisti, Atti del XV Convegno Annuale Firenze 12-14 ottobre 2000, Padova, 2001, 87 ss.; per la Spagna v. A. TORRES DEL MORAL, Los grupos parlamentarios, in Rev. de Derecho Politico, n. 9/1981, 57 s. che critica la mancanza nei regolamenti parlamentari di disposizioni sulla disciplina di gruppo. 12) Così A. P. TANDA, Le norme e la prassi del Parlamento italiano, II ed., Roma, 1987, 53. Anche S. ANTONELLI, I gruppi parlamentari (spunti critici del diritto pubblico «vivente»), Firenze, 1979, 41 ss. ha criticato la mancanza di norme sulla disciplina e sull’organizzazione interna dei gruppi parlamentari, nonostante le ampie facoltà di attuazione pubblica loro riconosciute, evidenziando sin da allora il rischio che ciò avrebbe potuto portare a convertire i gruppi in istituzioni non democratiche. Per l’A. tale lacuna è un fatto insolito “se non unico, nel nostro diritto pubblico, caratterizzato, in generale, da una sovrabbondanza di regole di competenza, organizzative e procedurali, per determinare i processi di formazione della volontà da parte dei titolari dei poteri pubblici”. 13) Tale prima riunione va convocata dal Presidente d’Assemblea “entro quattro giorni dalla prima seduta” alla Camera (art. 15.1 R.C.), “entro sette giorni dalla prima seduta” al Senato (art. 15.1 R.S.). 14) Sui poteri di tali “supplenti” v. A. P. TANDA, Le norme, cit., 56 s. 15) A. P. TANDA, Le norme, cit., 50. 16) Mentre alla Camera è direttamente il regolamento a stabilire che tale rendiconto va approvato “a maggioranza” (art. 15.2-bis), al Senato “i termini” e “le modalità” con cui “ciascun gruppo approva un rendiconto di esercizio annuale” sono “stabiliti dal Consiglio di Presidenza mediante un apposito regolamento di contabilità” (art. 16-bis.1)

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parlamentari “tendenzialmente (…) organi delle camere” (17), superando così la dimensione

esclusivamente privatistica a favore della loro natura giuridica ibrida (18). Inoltre, ai gruppi parlamentari è

stato formalmente imposto di approvare un loro statuto interno (regolamento al Senato) entro trenta

giorni dalla loro costituzione (vigendo il principio di discontinuità tra legislature) – statuto di cui invero i

gruppi di fatto si sono quasi sempre dotati in virtù dell’obbligo in tal senso previsto dall’abrogato art. 5.1

l. 195/1974 (19). Tale statuto, infine, è pubblico perché va trasmesso entro cinque giorni al Presidente

d’Assemblea e pubblicato sui siti internet di Camera e Senato (artt. 15.2-bis e 2-ter R.C. e 15.3-bis R.S.). La

scomparsa del mitico alone di segretezza che fino ad allora circondava tali statuti (20) è ulteriore riprova

della rilevanza pubblica, e non solo privata, dei gruppi parlamentari (21). Tale disciplina trova

evidentemente spiegazione con l’esigenza, particolarmente avvertita dopo la riforma del finanziamento

pubblico dei partiti politici (l. 96/2012, poi abrogata), approvata a seguito di noti scandali, d’imporre

anche ai gruppi parlamentari specifici obblighi di trasparenza, rendicontazione e controllo sui contributi

finanziari ricevuti esclusivamente per la loro attività parlamentare e politica, pena, in caso di mancato

rispetto, al limite la decadenza dal diritto alla loro erogazione (artt. 15-ter.7 R.C. e 16-bis.8 R.S.). Però, è

significativo notare come in quell’occasione, al contrario di quanto previsto per i partiti (art. 2.2 d.l.

149/2013), l’erogazione di tali contributi è stata subordinata all’introduzione di maggiori obblighi di

trasparenza dei gruppi all’esterno ma non di requisiti di democrazia interna, come dimostra il fatto che le

proposte in tal senso furono respinte (22).

17) L. GIANNITI, N. LUPO, Corso di diritto parlamentare, II ed., Bologna, 2013, 106. 18) Cfr. E. GRIGLIO, La natura giuridica dei gruppi consiliari: dal parallelismo all’asimmetria con i gruppi parlamentari, in Rass. parl., n. 2/2015, 331 s., specie 351 ss., cui si rimanda per l’analisi di tale riforma. 19) “I partiti politici ed i gruppi parlamentari che intendono ottenere i contributi previsti dalla presente legge devono indicare nei loro statuti e regolamenti i soggetti, muniti di rappresentanza legale, abilitati alla riscossione”. 20) Alcuni furono pubblicati nell’opera ormai datata di M. D’ANTONIO, G. NEGRI, Raccolta degli statuti dei partiti politici in Italia, Milano, 1958; C.E. TRAVERSO, V. ITALIA, M. BASSANI, I partiti politici. Leggi e statuti, Milano, 1966, XV nt. 1, decisero di non pubblicarli perché non autorizzati da tutti i gruppi parlamentari; v. anche A. MANZELLA, Note sull’organizzazione parlamentare, in Tempi moderni, n. 32, 1967-68, 30. Per un’analisi comparativa tra i diversi statuti v. P. MARSOCCI, La disciplina interna ai gruppi parlamentari, in S. Merlini (a cura di), Rappresentanza politica, gruppi parlamentari, partiti. Volume II. Il contesto italiano, Torino, 2004, 147 ss. Nella seduta della Camera del 2 febbraio 1971 l’emendamento per rendere pubblici gli statuti interni fu respinto perché in essi “vi è una parte che deve essere lasciata riservata e segreta, cioè non sottoposta al controllo di altri gruppi, in quanto non attinente alla vita di quella comunità che è la Camera” (così il relatore A. BOZZI , in Il nuovo regolamento della Camera dei deputati, a cura della Camera dei deputati. Segretariato Generale, Roma, 1972, 289). Per considerazioni più generali, v. J.M. MORALES ARROYO, Los grupos parlamentarios en las Cortes generales, Madrid, 1990, 123 s. 21) …se, al contrario, la facoltà di tenere segreto il regolamento interno era invece “sintomo del carattere privato dei Gruppi” (V. DI CIOLO, Il diritto parlamentare nella teoria e nella pratica, II ed., Milano, 1987, 268). 22) Cfr. F. BIONDI, Presidenti di Assemblea e gruppi parlamentari, in E. Gianfrancesco, N. Lupo, G. Rivosecchi (a cura di), I Presidenti di Assemblea parlamentare. Riflessioni su un ruolo in trasformazione, Bologna, 2014, 135 s.

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Oltre la previsione di tali organi interni al gruppo, i regolamenti parlamentari non si spingono. Nulla,

infatti, essi dispongono circa le loro modalità di deliberazione, quando invece il regolamento della Camera

del 21 luglio 1920 prevedeva “un penetrante intervento della Presidenza della Camera per controllare le

condizioni di valida costituzione del gruppo” (23), imponendo, per designare i loro “delegati nelle singole

Commissioni permanenti”, il numero legale in prima convocazione di almeno un terzo dei componenti

(art. 2) e lo scrutinio segreto (art. 3.1).

Spetta, dunque, solo agli statuti interni dei gruppi disciplinarne: a) la composizione: requisiti per

l’iscrizione; cause d’espulsione (24); eventuale differente status tra effettivi e affiliati a seconda del vincolo

di disciplina; b) l’organizzazione: organi del gruppo; rispettive competenze e relazioni reciproche;

articolazione del gruppo in base ai criteri della competenza o della provenienza territoriale; c)

funzionamento: rapporti con il partito corrispondente; rapporti con i singoli membri, inclusi i mezzi con

cui far valere la disciplina di gruppo; le sanzioni disciplinari, gli organi di garanzia chiamati ad applicarle

e i casi di coscienza in cui si consente invece libertà di voto; i rapporti con il corrispondente gruppo

dell’altra camera dello stesso partito, inclusa la creazione di organismi intergruppo (25); le funzioni

istituzionali, come le consultazioni e le designazioni nelle commissioni) (26).

Il quadro delineato sembrerebbe contraddetto dall’art. 53.7 R.S. che, penetrando per la prima volta

all’interno della potestà statutaria dei gruppi, impone loro di stabilire “procedure e forme di

partecipazione che consentano ai singoli Senatori di esprimere i loro orientamenti e presentare proposte

sulle materie comprese nel programma dei lavori o comunque all’ordine del giorno”. Come noto, tale

disposizioni fu approvata in occasione della riforma del 1988 che ha generalizzato il voto palese,

nell’implicito presupposto che ad esso si dovesse necessariamente unire una maggiore democrazia nei

gruppi parlamentari così da consentire al dissenso di esprimersi al loro interno e non in Aula grazie

all’usbergo dello scrutinio segreto (27). Qualunque limitazione prevista dagli statuti interni dei gruppi

parlamentari che non consentisse ai suoi membri di partecipare all’organizzazione dei lavori parlamentari

e, più in generale, di esercitare le loro funzioni violerebbe pertanto tale disposizione regolamentare e,

ancor prima, come vedremo, l’art. 67 Cost. (28). Ma è altrettanto noto che, nonostante le sue non

23) Cfr. A. MANZELLA, Il Parlamento, I ed. cit., 33 s. 24) Cfr. R. BIFULCO, Osservazioni in tema di espulsione del parlamentare dal gruppo, in amministrazioneincammino.it, 29 settembre 2017. 25) Cfr. G.U. RESCIGNO, Gruppi parlamentari, in Enc. dir., XIX, Milano, 1970, 785; J. WALINE, Les groupes parlementaires en France, in Rev. dr. publ. sc. pol., 1961, 6, 1207. 26) Sull’organizzazione interna dei gruppi prima della riforma regolamentare del 2012 v. G. GIRELLI, G. MARRONE, L'autonomia dei gruppi parlamentari nell'ambito dell'autonomia delle Camere, in E. Rossi (a cura di), Studi pisani sul Parlamento, Pisa, 2007, 323 ss. 27) Cfr. A. MANZELLA, Il Parlamento, III ed.,Bologna, 2003, 97. 28) Cfr. C. DECARO, La struttura, cit., 115.

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indifferenti potenzialità, tale disposizione è rimasta inapplicata, sia perché essa non prevedeva forme di

controllo e sanzioni in caso di mancato rispetto da parte degli statuti interni, sia perché il Presidente del

Senato non l’ha mai utilizzata come parametro per valutare la democrazia all’interno dei gruppi

parlamentari (29). Il che, però, potrebbe ora accadere dinanzi agli interrogativi, analoghi a quelli avanzati

dai deputati Ceccanti e Magi, formulati il 30 aprile 2018 dal sen. Parrini in merito al regolamento interno

del gruppo parlamentare del MoVimento 5 Stelle al Senato, identico a quello della Camera (30).

Né, infine, appare in contrasto con il quadro delineato il fatto che una componente politica del gruppo

misto alla Camera possa chiamare il Presidente a decidere se sia stato “pregiudicato un proprio

fondamentale diritto politico” da una deliberazione dei suoi organi direttivi assunta in violazione della

sua consistenza proporzionale (art. 15-bis.2 R.C.). Tale disposizione, infatti, pare dipendere in modo

decisivo dalla natura obbligatoria e non volontaria del vincolo associativo che lega i deputati che si sono

iscritti al gruppo misto perché non hanno potuto o voluto aderire o costituire un gruppo autonomo. La

natura specifica di tale disposizione, quindi, non ne rende estensibile in via analogica l’applicazione ai

gruppi politici veri e propri (31).

3. Regolamenti parlamentari e disciplina di gruppo

I regolamenti parlamentari si arrestano quindi dinanzi all’autonomia politico-organizzativa del gruppo,

anche quando la loro disciplina può incidere sullo svolgimento delle funzioni del singolo parlamentare ad

esso iscritto (32). Così le sue iniziative, legislative e no, sono sottoposte al vaglio preventivo degli appositi

organi del gruppo (33) per valutarne la conformità e/o l’opportunità rispetto alla linea politica perseguita

(34).

29) N. LUPO, Il Presidente di Assemblea come “giudice” del diritto parlamentare, in Scritti in onore di Franco Modugno, Napoli, 2011, III, 2067 s. e ivi nt. 43 (ripreso nella voce Presidente d’Assemblea, in Dig. Disc. Pubbl.. Aggiornamento, IV, Torino, 2010, 455 ss.). 30) Il sen. Parrini, infatti, ha chiesto al Presidente del Senato “di esprimere una chiara valutazione sulle disposizioni contenute” in tale regolamento. Al momento in cui scriviamo (31 maggio 2018) non vi è stata risposta. 31) Cfr. L. GIANNITI, N. LUPO, Corso, cit., 107; F. BIONDI, Presidenti, cit., 135; L. GORI, I gruppi parlamentari: profili organizzativi, in E. Rossi (a cura di), Studi pisani sul Parlamento, Pisa, 2007, 385. 32) Cfr. C. DECARO, La struttura, cit., 114 s. 33) L’art. 18 St. M5S prevede un Ufficio Legislativo, il cui capo è nominato dal Presidente del gruppo in accordo con il Capo Politico, che “provvede all’analisi dei testi sottoposti all’esame parlamentare” e “redige i progetti di legge, gli emendamenti, gli atti di indirizzo e gli schemi di parere”. 34) Cfr. art. 21.2.i) St. M5S su cui v. subito infra. Sul tema v. M.L. MAZZONI HONORATI, Lezioni di diritto parlamentare, Torino, 2005, 114.

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Tale disciplina di gruppo, è bene precisare, è legittima perché essenziale per la tutela della identità politica

del gruppo e la coerenza e l’incisività della sua attività politico-parlamentare (35), specie in sede di voto

(36). Essa è vincolante nella misura in cui costituisce il punto di sintesi del dibattito politico nel gruppo,

introducendo così un elemento di semplificazione del confronto in commissione e in Aula di cui beneficia

il funzionamento del regime parlamentare moderno, a sua volta indispensabile per l’azione di governo.

Inoltre, essa non viola l’art. 67 Cost. perché il parlamentare che vota secondo gli indirizzi e le direttive

del suo gruppo e del suo partito, rimane pur sempre “libero di sottrarsene” senza che da ciò possano

legittimamente derivare conseguenze giuridiche a suo carico (C. cost. 14/1964, 2° cons. dir.), quale, ad

esempio, la decadenza dal mandato. Le limitazioni all’esercizio delle funzioni imposte dalla disciplina di

gruppo al singolo parlamentare sono legittime nella misura in cui hanno natura non giuridica ma solo

politica. Il punto di equilibrio tra la tutela della libertà di mandato del singolo parlamentare (art. 67 Cost.)

e il ruolo di sintesi e unità politica svolto dal gruppo parlamentare al quale aderisce (artt. 1, 49, 72 e 82

Cost.) sta nella facoltà del primo di aderire al secondo fin quando si riconosca nella sua linea politica e

quindi di poter continuare ad esercitare il suo mandato anche dopo averlo abbandonato o essere stato da

esso espulso.

Alla luce di ciò, non mi pare possano destare scandalo le regole di disciplina interna dei gruppi

parlamentari del MoVimento 5 Stelle che sanzionano gli iscritti per le “reiterate violazioni al presente

Statuto e del Codice etico” (art. 21.2.b), il “mancato rispetto delle decisioni assunte dall’assemblea degli

iscritti con le votazioni in rete” (art. 21.2.d), o “dagli altri organi del MoVimento 5 Stelle” (art. 21.2.e),

oppure, infine, per la “mancata contribuzione economica alle attività del MoVimento 5 Stelle” (art. 21.2.f).

Comportamenti che, “sulla base della gravità dell’atto o del fatto”, possono essere sanzionati con “il

richiamo, la sospensione temporanea o l’espulsione dal Gruppo” (art. 21)

Inoltre, gli statuti dei gruppi possono prevedere regole di disciplina interna per così dire più esigenti

rispetto a quanto previsto dalla Costituzione o dai regolamenti parlamentari. Così, rientra nell’autonomia

politica del gruppo sanzionare le “mancate dimissioni dalla propria carica in caso di condanna penale in

primo grado, ancorché non definitiva” (art. 21.2.c) St. M5S), benché secondo l’art. 68.2 Cost. il

parlamentare resti in carica anche dopo una sentenza definitiva di condanna, a meno che la camera

d’appartenenza ex art. 66.1 Cost. ne deliberi la decadenza per incandidabilità sopravvenuta (art. 3.1 d.lgs.

35) Cfr., per tutti, M. DUVERGER, Les partis politiques, Paris, 1951, 211 ss.; A. PIZZORUSSO, I gruppi parlamentari come soggetti di diritto, Pisa, 1969, 70; S. TOSI, Diritto parlamentare, cit., 170 ss.; A. MANNINO, Diritto parlamentare, Milano, 2010, 69 ss. 36) Che la disciplina di gruppo si basi sulla comune militanza politica e si esplichi al momento del voto trova conferma nell’art. 36 del regolamento del Folketing danese, secondo cui “i membri dell’Assemblea si dividono in gruppo, ciascuno dei quali comprende tutti coloro che hanno notificato al Presidente la loro intenzione di votare uniti nei casi determinati durante un certo periodo o fino a nuovo avviso”.

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235/2012). Analogamente si possono sanzionare le “reiterate ed ingiustificate assenze dai lavori della

camera” (oltreché del gruppo: art. 21.2.a)) anche quando inferiori rispetto a quelle consentire dai

regolamenti camerali (artt. 48-bis.3 R.C. e 1.2 R.S.). Oppure, sempre ai sensi del citato art. 21.2 St. M5S:

“g) comportamenti suscettibili di pregiudicare l’immagine o l’azione politica del Movimento 5 Stelle o di

avvantaggiare altri partiti; h) comportamenti connotati da slealtà e scorrettezza nei confronti degli altri

iscritti e eletti; i) mancata cooperazione e coordinamento con gli altri iscritti, esponenti e eletti, anche in

diverse assemblee elettive, per la realizzazione delle iniziative e dei programmi del Movimento 5 Stelle,

nonché per il perseguimento dell’azione politica del Movimento 5 Stelle; j) tutte le condotte che violino,

in tutto o in parte, la linea politica dell’Associazione ‘Movimento 5 Stelle’”. Certamente, per la loro

eccessiva genericità, tali ipotesi lasciano margini discrezionali d’intervento che ben si potrebbero ritenere

eccessivi alla luce dei criteri di tipicità, tassatività e determinatezza con cui esse dovrebbero essere

formulate. È pur vero, però, che il ricorso a concetti-valvola (non ignoti al nostro ordinamento giuridico)

se non a vere proprie clausole di chiusura (come sub j)) risponde alla comprensibile esigenza di poter in

tal modo valutare ed eventualmente sanzionare comportamenti o condotte che in politica sono quanto

mai, per così dire, prevedibilmente imprevedibili.

4. Il contrasto degli statuti interni dei gruppi politici del M5S con:

a) i regolamenti parlamentari

L’autonomia statutaria dei gruppi parlamentari non è illimitata. Essa, infatti, va esercitata nel rispetto delle

disposizioni dei regolamenti parlamentari che li riguardano le quali, proprio perché basilari (§ 2), sono

vincolanti ed inderogabili. Contro tale conclusione non vale obiettare che la libertà del parlamentare

iscritto al gruppo di potersi sempre sottrarre alla disciplina di gruppo, abbandonandolo, la renda di per

sé comunque legittima. Se così fosse, infatti, gli statuti interni potrebbe impunemente violare gli obblighi

loro imposti dal regolamento, divenendo di fatto una zona franca sottratta al sindacato di qualunque

autorità, innanzi tutto parlamentare. I problemi sollevati in tal senso dall’attuale statuto/regolamento dei

gruppi parlamentari del M5S sono in tal senso estremamente eloquenti.

Innanzi tutto, secondo l’art. 4.7 St. M5S “l’Assemblea ratifica a maggioranza assoluta dei propri

componenti la nomina del Presidente del gruppo proposta dal Capo Politico” (mio il corsivo, non le

maiuscole…) (37). Il Gruppo, quindi, non può autonomamente nominare il proprio Presidente ma solo

37) Il Capo Politico è, infatti, eletto direttamente in rete dagli iscritti (art. 4 Statuto dell’Associazione denominata MoVimento 5 Stelle). Sulle sue competenze v. il successivo art. 7, ed in particolare la lett. c) secondo cui “il Capo Politico si coordina con gli eletti del MoVimento 5 Stelle e, in particolare, concerta l’azione politica con i capigruppo parlamentari ed i membri del Governo espressi dal MoVimento 5 Stelle”.

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pronunciarsi a scrutinio palese (38) sul nominativo proposto dal Capo Politico, il quale è soggetto rispetto

ad esso istituzionalmente esterno ed estraneo, indipendentemente dal fatto che possa esserne eventuale

componente (39). Sempre al Capo Politico spetta inoltre proporre i Vicepresidenti, i Segretari e il Tesoriere

(tutti membri del Comitato direttivo) che il Presidente del gruppo deve nominare (art. 6.1 St. M5S). Infine

– e ancor più grave – solo il Capo Politico può revocare il Presidente del gruppo (art. 5.2, ultimo periodo,

St. M5S) (40). Il Gruppo, e per esso l’Assemblea dei suoi iscritti, non può quindi né esercitare tale potere

di revoca, né opporsi al suo esercizio da parte del Capo Politico. Il Presidente della Camera potrebbe,

dunque, trovarsi nell’inedita ed imbarazzante posizione di dover decidere sulla sorte del Presidente del

gruppo parlamentare contemporaneamente revocato dal Capo Politico ma non dal Gruppo, la

maggioranza dei cui iscritti potrebbe anzi confermargli la fiducia tramite un documento sottoscritto e

inoltrato allo stesso Presidente (41).

I suddetti poteri di nomina e di revoca attribuiti al Capo Politico sollevano seri dubbi di conformità con

gli artt. 15.2 R.C. e R.S.. Questi, infatti, attribuiscono espressamente ai membri del “Gruppo” – e quindi

non a soggetti ad esso esterni – il potere di nomina (e, sottinteso, di revoca) dei titolari dei suoi organi

direttivi previsti nei regolamenti parlamentari, così come del resto è proprio di qualunque associazione

con un’organizzazione democratica al proprio interno e come sempre finora accaduto nella storia

parlamentare. Che sia chiaro: qui non si nega la direzione politica del Capo politico, con cui i capigruppo

devono coordinarsi e concertare l’azione politica (art. 7.c) St. M5S), quanto le sue interferenze su decisioni

che per i regolamenti parlamentari sono d’esclusiva competenza del gruppo. Per quanto azzardato possa

sembrare, vale la pena chiedersi se si è in presenza di un’associazione che persegue direttamente scopi

politici con un’organizzazione gerarchica interna di tipo militare (artt. 18.2 Cost. e 1.4 d.lgs. 43/1948), in

cui gli organi direttivi non sono contendibili perché non espressione esclusiva del volere dei suoi iscritti.

5. (segue) b) l’art. 67 della Costituzione

Ancora più grave e, se possibile, preoccupante è l’incostituzionalità della disposizione statutaria interna

secondo cui il parlamentare “che abbandona il gruppo parlamentare a causa di espulsione ovvero

38) “Salvo che il Presidente disponga la votazione segreta” (art. 4.4 St. M5S). Infatti, in mancanza di esplicite norme degli statuti interni, dovrebbe valere la norma generale che vuole a scrutinio segreto le votazioni riguardanti le persone (artt. 49.1 R.C. e 113.2 R.S.; v. G.F. CIAURRO, Gli organi della Camera, in Il regolamento della Camera dei deputati. Storia, istituti, procedure, a cura del Segretariato generale della Camera dei deputati, Roma, 1968, 249). 39) Nel caso specifico, l’on. Di Maio, Capo Politico del M5S, fa parte del gruppo parlamentare del M5S alla Camera (e quindi, ovviamente, non di quello del Senato). 40) Ad esempio, secondo l’art. 11.l) dello Statuto dell’Associazione denominata “MoVimento 5 Stelle” il capogruppo può essere espulso dal partito e dal gruppo se non provvede ad allontanare l’iscritto espulso. 41) V. l’espresso interrogativo rivolto in tal senso dall’on. Ceccanti.

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abbandono volontario ovvero dimissioni determinate da dissenso politico sarà obbligato a pagare, a titolo

di penale, al MoVimento 5 Stelle, entro dieci giorni dalla data di accadimento di uno dei fatti sopra indicati,

la somma di 100.000,00 euro” (art. 21.5 St. M5S) (42).

Innanzi tutto, non può non rilevarsi la contraddizione tra il vincolo di mandato, presupposto dall’appena

citato art. 21.5, e la libertà di mandato invece prevista nel precedente art. 1, secondo periodo, secondo

cui “eventuali richieste di adesione provenienti da [parlamentari] precedentemente iscritti ad altri Gruppi

potranno essere valutate, purché siano incensurati, non siano iscritti ad altro partito, non abbiano già

svolto più di un mandato elettivo oltre quello in corso, ed abbiano accettato e previamente sottoscritto il

‘Codice etico’”. Si nega, pertanto, ai parlamentari del M5S quella libertà di mandato consentita invece a

quelli altrui. Il che è tipico dei partiti politici antisistema che chiedono la libertà in nome degli altrui

principi per negarla in nome dei loro.

Ciò premesso, sotto il profilo costituzionale una simile penale si pone palesemente contro il divieto di

mandato imperativo sancito dall’art 67 Cost., secondo cui “il parlamentare é libero di votare secondo gli

indirizzi del suo partito ma é anche libero di sottrarsene”. In forza di tale disposizione, infatti, “nessuna

norma potrebbe legittimamente disporre che derivino conseguenze a carico del parlamentare per il fatto

che egli abbia votato contro le direttive del partito” (C. cost. 14/1964, 2), come ad esempio i patti di

dimissioni o le lettere di dimissioni in bianco. Le sanzioni disciplinari interne, quindi, sono irrilevanti per

l’ordinamento giuridico statale per cui siamo dinanzi ad una clausola radicalmente nulla per illiceità

dell’oggetto (art. 1346 c.c.) e della causa perché contraria a norme imperative e all’ordine pubblico (art.

1343 c.c.) (43), come qualunque giudice cui si volesse temerariamente ricorrere non esiterebbe a dichiarare.

Anzi, da questo punto di vista, paradossalmente, la notoria non sanzionabilità giuridica di siffatte clausole

a mio modesto parere le rendono prive di qualunque minimo contenuto intimidatorio ai fini dell’esercizio

del mandato parlamentare.

Sotto il profilo politico, l’imposizione di simili sanzioni pecuniarie costituisce un modo rozzo e sciatto di

affrontare il ben più delicato problema del transfughismo parlamentare che nelle nostre camere ha

assunto, specie nella trascorsa legislatura, dimensioni numeriche e politiche (con la creazione di nuovi

gruppi parlamentari) sconosciute a tutte le democrazie europee . Tale fenomeno, che a mio parere denota

un evidente alterazione del mandato che l’eletto riceve in quanto candidato per un partito di cui condivide

42) In conformità a quanto previsto dall’art. 5.5 del Codice etico del MoVimento 5 Stelle del dicembre 2017. Ciò nondimeno, non si può non notare come beneficiario della sanzione sia il partito, e non il gruppo parlamentare. 43) Per P. VIRGA., Il partito nell’ordinamento giuridico, Milano, 1948, 172, si tratta di “obbligazione politica e morale per un determinato comportamento dentro la Camera”, però non “coattivamente esigibile”; per. R. BIN, La sanzione pecuniaria ai voltagabbana ha un sapore acre, in lacostituzione.info, 16 aprile 2018, il quale aggiunge che tale pretesa non potrebbe farsi valere “attraverso strumenti ‘interni’ al Parlamento, perché non esiste nessuna procedura per richiederne e ottenerne il pagamento attraverso le forme tipiche di autodichia parlamentare”.

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il programma e la linea politica, va affrontato nella sua complessità; diversamente, le misure atte a

contrastarlo – come esattamente quelle previste dagli statuti interni dei gruppi parlamentari del M5S –

denoterebbero solo un profilo repressivo gravemente lesivo della libertà di mandato. Da un lato, quindi,

si potrebbero ipotizzare soluzioni regolamentari, come ad esempio l’estensione anche alla Camera dei

deputati della disciplina oggi finalmente prevista dall’art. 14.4 R.S. circa la corrispondenza tra liste

elettorali e gruppi parlamentari, così da disincentivare il frazionismo parlamentare (44); oppure,

sull’esempio della disciplina spagnola dei gruppi parlamentari (45), l’introduzione di limiti che

circoscrivano la libertà del parlamentare di trasferirsi a gruppi parlamentari diversi rispetto a quello del

partito per cui è stato candidato ed eletto, fino all’introduzione dello status del c.d. “parlamentare non

iscritto” ad alcun gruppo (46).

Dall’altro lato, tale misure andrebbero necessariamente abbinate a regole che, come detto, prendendo

ispirazione dall’art. 53.7 R.S., garantiscano la democrazia all’interno del gruppo, così da rendere il singolo

parlamentare in grado effettivamente di partecipare alla sua vita politica interna. I limiti fissati dalla potestà

regolamentare del gruppo all’attività parlamentare dei suoi iscritti e, più in generale, la sua disciplina

possono giustificarsi solo essa è frutto di una loro reale partecipazione all’approvazione di quelle decisioni

comunque rilevanti ai fini dello svolgimento di quelle attività conferite agli stessi gruppi dai regolamenti

parlamentari (47).

6. In particolare: l’incostituzionalità della proposta introduzione del vincolo di mandato

Si potrebbe ipotizzare – come ventilato nel sesto quesito (48) - che le sanzioni previste per i parlamentari

espulsi potrebbero trovare un domani applicazione qualora si modificasse l’art. 67 Cost. per introdurre il

vincolo di mandato, come del resto (genericamente) proposto in campagna elettorale dal M5S e dalle

44) Un precedente in tal senso si potrebbe forse rintracciare nella precisazione del Presidente della Camera Violante, quando respinse la denominazione Lega Padania indipendente del gruppo parlamentare dei deputati della Lega Nord (v. infra, nota 62) anche perché essa non era corrispondente a quella della lista al cui interno erano stati eletti, giacché “se la denominazione fosse stata quella, avre[bbe] dovuto necessariamente accettarla” (Assemblea, seduta del 15 maggio 1996, resoconto stenografico, p. 60). A tale corrispondenza, se ritenuta eccessivamente rigida dinanzi alla fluidità delle dinamiche politiche, si potrebbe derogare qualora la richiesta di formazione di nuovi gruppi parlamentari fosse formulata da un numero di parlamentari superiore al minimo richiesto, il che lascerebbe ragionevolmente presumere che essi siano il risultato non di trasformismi individuali ma di scissioni provocate dal radicale mutamento di linea politica del partito di riferimento che abbiano un’effettiva corrispondenza in parte del suo elettorato; cfr., volendo, il mio Osservazioni a prima lettura sulla riforma organica del regolamento del Senato, in Rassegna parlamentare, n. 3/2017, 647. 45 ) Su cui v., volendo, il mio Partiti e gruppi parlamentari nell’ordinamento spagnolo, Firenze, 2005, spec. 301 ss. 46) Come oggi consentito ai senatori di diritto e a vita dall’art. 14.1 R.S. 47) Cfr. S. TOSI, Diritto parlamentare, cit., 174 s. 48) “Se l’art. 67 sia revisionabile o se il divieto di mandato imperativo rientri fra i "principi fondamentali e diritti inviolabili" che la Corte cost. pone come limite allo stesso processo di revisione costituzionale”.

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forze politiche del centro destra, con conseguente decadenza dell’eletto dimessosi dal partito o da esso

espulso (49).

Si tratterebbe di una soluzione semplificatoria e demagogica. Per quanto ispirata ad una condivisibile

esigenza di coerenza politica dell’eletto verso gli elettori che l’hanno votato perché candidato in e per un

determinato partito, essa sarebbe peggiore del male da curare, perché condannerebbe ogni assemblea

elettiva alla paralisi decisionale e, quindi, alla sua stessa negazione, vittima della reciproca incomunicabilità

tra forze politiche ingessate nel rigido rispetto dei cahiers de doléance ricevuti dai loro elettori (come avveniva

nelle assemblee feudali non a caso dotate di funzioni consultive ma non deliberative). Il vincolo di

mandato finirebbe per negare il valore della rappresentanza politica, e con essa delle istituzioni

parlamentari, luogo di confronto e di mediazione, in nome di una pretesa volontà generale degli elettori,

dietro alla quale spesso si celano – come la stessa esperienza del MoVimento Cinque Stelle dimostra -

meccanismi decisori fortemente centralizzati ed opachi.

Saremmo in presenza, quindi, d’una modifica costituzionale incostituzionale. Il divieto di mandato

imperativo, infatti, è funzionale alla natura nazionale della rappresentanza dei parlamentari e, di

conseguenza, alla democrazia rappresentativa, che nel Parlamento, espressione della volontà sovrana del

popolo, trova la sua massima sede. È attraverso il libero confronto parlamentare, infatti, che la

rappresentanza politica si esprime e trova compimento. L’introduzione del vincolo di mandato, quindi,

segnerebbe “la morte dei Parlamenti” (50). Siamo dinanzi ad un principio costituzionale supremo, sottratto

al potere di revisione costituzionale perché facente parte della “forma repubblicana” ex art. 139 Cost. (C.

cost. 1146/1988), la quale implica la presenza di un’assemblea elettiva i cui componenti, nell’essere

chiamati a perseguire gli interessi della comunità nazionale, non devono essere vincolati da mandati

particolari.

Tale conclusione trova, peraltro, particolare, ma significativa conferma nell’art. 4.1.c) l. 165/2004

Disposizioni di attuazione dell’articolo 122, primo comma, della Costituzione che include il “divieto di mandato

imperativo” tra i “principi fondamentali” che le regioni devono rispettare nel disciplinare “con legge il

sistema di elezione del Presidente della Giunta regionale e dei consiglieri regionali”.

Che si tratti di un vincolo invalicabile mi pare sia dimostrato dal contratto di programma alfine

sottoscritto da M5S e Lega che, dopo aver abbandonato formulazioni più radicali, prevede piuttosto

l’introduzione di “forme di vincolo di mandato per contrastare il sempre crescente fenomeno del

49) Sul tema, anche sotto il profilo storico, v. il mio Democrazia e rappresentanza politica. Dal divieto di mandato al mandato di partito, Firenze, 2004, 140 ss. 50) Così L. Einaudi come ricordato dal Presidente della Repubblica nel suo intervento alla cerimonia in sua memoria svoltasi a Dogliani lo scorso 12 maggio (http://www.quirinale.it/elementi/Continua.aspx?tipo=Discorso&key=831).

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trasformismo” al fine di “impedire le defezioni e a far sì che i gruppi parlamentari siano sempre

espressione di forze politiche presentatesi dinanzi agli elettori” (51).

In questa direzione, si potrebbe anche ipotizzare una riforma dell’art. 67 Cost. che, sul modello della

Costituzione portoghese (52), pur affermando la libertà di mandato del parlamentare (art. 155.1), preveda

la decadenza dal mandato del parlamentare iscritto ad un partito diverso da quello per cui si è presentato

alle elezioni, fermo restando quindi il suo diritto a rimanere in carica in caso di trasferimento al gruppo

misto (art. 160.1.c)) (53). Ma anche in tal caso, tale riforma andrebbe necessariamente abbinata

all’approvazione di una legge che garantisca la democrazia all’interno dei partiti (54).

7. Vincolo di mandato e giuramento dei ministri

Il tema del divieto di vincolo di mandato nei confronti dei parlamentari consente di fare una breve

variazione sul tema, riguardante i possibili profili d’incostituzionalità che potrebbe sollevare la nomina a

ministri di parlamentari del M5S vincolati da contratti privati, come evidenziato nel terzo quesito.

Non c’è dubbio che, al pari dei parlamentari, anche i ministri non possono essere soggetti a vincoli di

natura particolare. Il loro giuramento è un impegno vincolante, infatti, sotto il profilo non solo morale

ma anche giuridico, tanto più se si ricorda che la sua formula è stata modificata nel 1988 affinché

l’interesse della nazione che essi devono rispettare nell’esercizio delle loro funzioni non sia più “supremo”

ma “esclusivo” (art. 1.3 l. 400/1988).

Contro tale impegno contrastano gli obblighi che i ministri dovessero assumere non nei confronti del

partito, associazione che per sua natura offre una visione particolare degli interessi generali, ma di ogni

altra associazione che persegua interessi particolari, tanto più se essa, in modo non trasparente e con

un’organizzazione non contendibile, cercasse di condizionare l’attività degli organi costituzionali ex art.

18.2 Cost. per come attuato dalla l. 17/1982 sul divieto di associazioni segrete.

8. Il controllo del Presidente d’Assemblea

51) Cfr. Contratto per il governo del cambiamento, paragrafo 20 su “Riforme istituzionali, autonomia e democrazia diretta”. 52) Il modello portoghese si ritrova anche in altri ordinamenti lusofoni come l’art. 152.2.c) Cost. Angola del 2010, l’art. 130.1.d) Cost. Capo Verde del 1980 (rivista nel 1992), l’art. 178.2.b) Cost. Mozambico del 2004 (rivista nel 2007). 53) Cfr., volendo, il mio Democrazia e rappresentanza politica. Dal divieto di mandato al mandato di partito, Firenze, 2004, 149 ss.. Di “breccia nel solido impianto teorico-dommatico dell’assolutezza del libero mandato parlamentare accolto dal costituzionalismo europeo dalla metà circa del secolo scorso in avanti” parla R. ORRÙ, Divieto di mandato imperativo e anti-defection laws: spunti di diritto comparato, in Diritto pubblico comparato ed europeo, n. 4/2015, 1104. 54) Cfr. R. BIN, La disciplina, cit., 87 ss.; da ultimo A. MORELLI, Mandato parlamentare alla portoghese? Il “contratto di governo” non è chiaro, in lacostituzione.info, 17 maggio 2018.

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I profili di contrasto tra lo statuto/regolamento del gruppo politico del M5S, da un lato, e i regolamenti

parlamentari e, ancor prima, la Costituzione, dall’altro sembrano incontrare un insormontabile ostacolo

nel fatto che tali regolamenti, anche dopo la riforma del 2012 (v. supra, § 2), non prevedono, come

ricordato dal Presidente Fico nella lettera di risposta agli on. Ceccanti e Magi, “alcuna forma di controllo

sul contenuto degli statuti dei Gruppi parlamentari da parte della Presidenza della Camera o di altri organi

parlamentari, nel pieno rispetto dell’autonomia spettanti in materia ai Gruppi. Né appare possibile

desumere da norme regolamentari di carattere generale – quale è quella recata dall’articolo 8 del

Regolamento [potere del Presidente di fare osservare il regolamento] un implicito potere di controllo del

Presidente sulle disposizioni che di quella consolidata autonomia costituiscono espressione”. Di

conseguenza, “un eventuale potere di controllo della Presidenza sugli statuti nei termini invocati non

potrebbe che discendere da una nuova, specifica previsione regolamentare, volta altresì a disciplinarne

compiutamente l’esercizio, i limiti e gli effetti sul piano dell’ordinamento parlamentare”.

A sostegno di tale conclusione il Presidente della Camera fa appello all’unico precedente esistente in

materia, e cioè alla delibera dell’Ufficio di Presidenza del 26 giugno 2013 con cui, alla luce della nuova

disciplina regolamentare approvata l’anno prima, si prese concordemente atto delle conclusioni formulate

dal Collegio dei Questori a favore della mancanza, a normativa vigente, d’un organo parlamentare

competente a controllare la conformità a regolamento di talune disposizioni contenute nello statuto del

gruppo parlamentare del M5S. Precedente (55), però, che si sarebbe potuto ritenere non vincolante.

Innanzi tutto, perché non formulato dall’organo cui per regolamento spettano “i pareri sulle questioni di

interpretazione del Regolamento medesimo” (art. 16.2 R.C.), e cioè la Giunta per il Regolamento. In

secondo luogo, perché riferito ad uno statuto – quello del gruppo parlamentare del M5S alla Camera nella

XVII legislatura – che non presentava le criticità evidenziate, giacché, correttamente, prevedeva il potere

dell’Assemblea di eleggere e revocare in ogni momento a maggioranza assoluta tutti gli organi interni nel

rispetto del principio di rotazione, per cui, ad esempio, il Presidente veniva eletto ogni anno (art. 3).

Infine, non si trattava, come allora, di prospettare un sindacato generale ed astratto sullo statuto interno

del gruppo ma, al contrario, di valutare nello specifico se il Presidente, nell’adempimento dell’obbligo di

55) Sul valore dei precedenti e sulla loro “tirannia” v. N. LUPO (a cura di), Il precedente parlamentare tra diritto e politica, Bologna, 2013; ID., Emendamenti, maxi-emendamenti e questione di fiducia nelle legislature del maggioritario, in E. Gianfrancesco, N. Lupo (a cura di), Le regole del diritto parlamentare nella dialettica tra maggioranza e opposizione, Roma, 2007, 42; ID., Sull’iter parlamentare del “lodo Alfano”: una legge approvata in gran fretta sulla base dei “peggiori” precedenti, in Amministrazioneincammino, 2009; D. PICCIONE, Metodi interpretativi per il parlamentarismo (Per una prospettiva di evoluzione del metodo di studio nel diritto parlamentare), in Giur. Cost., n. 1/2007, 533 s. Sulla consolidata tendenza, complice lo stallo del processo di revisione regolamentare, a fare appello ai precedenti fino a farli prevalere sul dettato costituzionale e regolamentare, capovolgendo la tradizionale gerarchia delle fonti del diritto parlamentare, v. C. BERGONZINI, La piramide rovesciata: la gerarchia tra le fonti del diritto parlamentare, in Quad. Cost., n. 4/2008, 741 ss.

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far osservare il Regolamento a lui esclusivamente riservato (artt. 8 R.C. e R.S.), possa ritenere non valida

l’elezione o la revoca degli organi interni avvenuta sulla base di disposizioni degli statuti interni ritenute

in insanabile contrasto con esso. Nulla di creativo, dunque, ma solo l’applicazione del regolamento

dinanzi ai tentativi, più o meno surrettizi, di violarlo (56). Ritenere in tal senso il potere del Presidente

precluso sol perché non previsto dalla riforma del 2012 è un modo parziale di affrontare il problema, sia

perché essa verteva sui contributi finanziari dei gruppi, sia perché il potere di controllo del Presidente,

come detto, non è circoscritto a quelle fattispecie ma deriva, più in generale, dal suo essere giudice primo

ed ultimo del diritto parlamentare (57) nei confronti di atti di cui, peraltro, non a caso egli viene

formalmente a conoscenza in forza dell’obbligo di trasmissione previsto, come detto (§ 2), dagli artt. 15.2-

bis R.C. e 15.3-bis R.S.. In questo senso, il potere di sindacato del Presidente d’Assemblea sugli statuti

interni dei gruppi parlamentari non si tradurrebbe, come si potrebbe temere, in un’indebita ingerenza

nella loro organizzazione e nel loro funzionamento interno - la cui autonomia politica va garantita nei

confronti di qualsiasi grave ed indebita intromissione nella loro vita interna (58) - ma nel far valere la

superiorità del regolamento camerale nei confronti di quelle disposizioni statutarie interne in contrasto

con la pur scarna disciplina in materia da esso prevista (59).

Sotto questo profilo, lascia fortemente perplessi il richiamo del Presidente della Camera al “pieno

rispetto” della “consolidata autonomia (…) spettante in materia [di statuti interni] ai Gruppi”,

evidentemente ritenuta così insindacabile – una riproduzione in scala, si direbbe, della insindacabilità degli

interna corporis della camera in cui i gruppi sono inseriti – da precludere qualsiasi attività di controllo o,

volendo, di early warning. Un simile richiamo, evidentemente, presuppone una netta separazione di

competenza tra sfera regolamentare e sfera statutaria che non trova riscontro nei regolamenti

parlamentari. Difatti, come i regolamenti parlamentari sono subordinati ai pochi articoli della

Costituzione in tema di organizzazione e funzionamento delle Camere, godendo per il resto di ampia

autonomia normativa ex art. 64.1 Cost., allo stesso modo gli statuti dei gruppi politici sono subordinati a

56) Il Presidente, dunque, potrebbe intervenire solo in questi casi, e non nel gruppo per imporre coattivamente il rispetto del suo statuto interno, per quanto fonte di diritto parlamentare; v. G. FALCON, C. PADULA, Il problema del rapporto tra gruppi consiliari e partiti politici,in Le Regioni, n. 2/2008, 256 ss. 57) Cfr. N. LUPO, Il Presidente, cit., 2067 ss. 58) Al sen. Villari che lamentava l’illegittima esclusione dal gruppo del PD, il Presidente del Senato Schifani rispose che “la presidenza del Senato non può in alcun modo entrare nelle valutazioni e nelle decisioni di un gruppo perché, se così facesse, invaderebbe uno spazio di autonomia costituzionalmente garantito” (Giunta per il regolamento, seduta del 22 dicembre 2008). 59) Cfr. L. BARTOLUCCI, I gruppi parlamentari nella XVII legislatura: cause e conseguenze della loro moltiplicazione, p. 7 s. del paper.

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quei pochi, ma significativi articoli dei regolamenti parlamentari, sopra illustrati, riguardanti la loro

organizzazione ed il loro funzionamento interno (60), godendo per il resto di ampia autonomia

Pertanto, nei casi sopra esposti, il Presidente d’Assemblea, nel suo ruolo di garante della legalità

regolamentare e costituzionale all’interno della camera, dovrebbe, qualora la sua opera di moral suasion non

dovesse sortire gli esiti sperati (61), dichiarare nulle le disposizioni statutarie contrarie a regolamento e,

ancor prima, a Costituzione (62) e inefficaci gli atti prodotti sulla base di essi, come la nomina degli organi

direttivi dei gruppi parlamentari del M5S e la (eventuale) revoca da parte del Capo Politico del loro

Presidente (63).

Bene dunque hanno fatto i deputati Ceccanti e Magi, nella loro nota di replica al Presidente del 18 maggio

(64) a chiedere che il tema del controllo sulle disposizioni di Statuti di gruppo ritenute in contrasto con la

Costituzione ed il regolamento sia sottoposto alla Giunta per il regolamento perché “possa pronunciarsi

su quella che al momento appare essere una inaccettabile zona grigia rispetto alla legalità costituzionale e

regolamentare”.

In tutta questa vicenda, infine, non ci si può esimere dall’osservare che il Presidente della Camera, al

contrario di quello del Senato, si trovi in una situazione di oggettivo imbarazzo poiché iscritto al gruppo

del cui statuto dovrebbe valutare la legittimità. Per prevenire simili situazioni, ed evitare che, come

60) Cfr. A. P. TANDA, Le norme, cit., 53 secondo cui, più limitatamente, l’autonomia normativa ed organizzativa dei gruppi parlamentari va esercitata “sempre entro i limiti generali dettati dai regolamenti delle Camere in esecuzione delle norme della Costituzione”.. 61) Opera che potrebbe manifestarsi eventualmente in forme meno riservate tramite speech informali (dichiarazioni alla stampa, interviste, comunicati o una circolare, come ipotizzato nel secondo quesito) in cui, ad esempio, evidenziare la natura sola morale e non giuridica degli impegni politici sottoscritti all’atto dell’adesione al gruppo del M5S o esplicitare le sue riserve sul procedimento di nomina dei suoi organi direttivi. 62) Per N. LUPO, Il Presidente, cit., 2068 s., il Presidente può giudicare, oltreché in base ai regolamenti parlamentari anche alla Costituzione, specie quando le sue violazioni difficilmente potrebbero essere sindacate (tempestivamente) dalla Corte costituzionale. A fianco dei casi citati (ivi, nt. 48 e 49), si possono aggiungere le decisioni con cui i Presidenti delle Camere Violante (Assemblea, sedute del 15 e 22 maggio 1996) e del Presidente del Senato Mancino (quest’ultimo in applicazione diretta della Costituzione, senza che il regolamento gli attribuisse espressamente tale competenza: v. infra, nota 68), respinsero inappellabilmente la scelta dei parlamentari della Lega Nord di denominare il loro gruppo parlamentare Lega Parlamento della Padania (o, in alternativa nella sola Camera, Lega Padania Indipendente) perché in contrasto con il principio fondamentale dell’unità e indivisibilità della Repubblica sancito dall’articolo 5 della Costituzione. Alla fine, i gruppi parlamentari assunsero in entrambe le camere la denominazione Lega Nord per l’indipendenza della Padania. Sulla vicenda v. F. BIONDI, Presidenti, cit., 128 s. Per la dottrina tedesca prevalente le deliberazioni dei gruppi adottate in violazione degli statuti interni sono invalide se e in quanto violano disposizioni costituzionali (cfr. F. BILANCIA, I regolamenti dei gruppi parlamentari del Bundestag, in S. Merlini (a cura di), Rappresentanza, cit., 170 ed Autori ivi citati) 63) F. BIONDI, Presidenti, cit., 133 ss., pur escludendo gli statuti interni dalle fonti di diritto parlamentare, ritiene che l’assenza di una disposizione espressa non impedirebbe al Presidente d’intervenire se i gruppi non approvassero i loro statuti entro trenta giorni o non si conformassero a quanto previsto dal regolamento generale, specie riguardo agli obblighi procedurali volti ad assicurare trasparenza e controllo sulla gestione dei contributi erogati ai gruppi, senza però ingerirsi sulla loro vita politica interna. 64) In http://stefanoceccanti.it/la-controreplica-ceccanti-magi-alla-risposta-del-presidente-fico/

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accaduto nelle ultime legislature, il Presidente d’Assemblea usi a fini politici il prestigio, l’autorità e la

visibilità, anche mediatica, che gli deriva dalla carica ricoperta (65), andrebbe quantomeno ripresa la

commendevole prassi, purtroppo abbandonata dalla XV legislatura, che voleva il Presidente d’Assemblea,

ancorché non obbligato, iscriversi sempre al gruppo misto in osservanza di “un’apprezzabile sensibilità

istituzionale” (66). In tal senso, a tutela della sua imparzialità (67), si potrebbe consentire al Presidente di

non iscriversi ad alcun gruppo, come oggi previsto dall’art. 14.1 R.S. per i soli senatori di diritto e a vita.

9. In particolare: il ricorso sulla costituzione del gruppo all’Ufficio di Presidenza

Nei casi sopra prospettati, sarebbe peraltro opportuno che la decisione non fosse rimessa al solo

Presidente ma ad un organo collegiale ristretto in cui siano rappresentati tutti i gruppi parlamentari, come

l’Ufficio di Presidenza. Un’indicazione in tal senso, si ritrova nell’art. 12.2 R.C. (68) secondo cui tale organo

“decide i ricorsi circa la costituzione o la prima convocazione dei Gruppi” (69); “costituzione” che

comprende non solo la dichiarazione di appartenenza ad esso dei deputati (art. 14.4 R.C.) ma anche, come

detto (§ 2), la nomina nella prima riunione dei suoi organi direttivi (art. 15.2 R.C.).

Si tratta certamente di un controllo temporalmente limitato, ma di contro previsto per tutti i gruppi – e

non solo per quelli autorizzati, alla cui costituzione è dedicato lo specifico art. 14.2 R.C. – nell’esercizio

del quale potrebbero ben essere sollevati problemi relativi non solo, come accaduto, alla denominazione

del gruppo (70), ma anche alla legittimità delle procedure seguite per la nomina dei suoi organi direttivi, a

65) Senza con ciò indulgere ad una certa visione “mistica” della imparzialità del Presidente: v. S. CECCANTI, I Presidenti di Assemblea e la “mistica” dell’imparzialità, in V. Lippolis, N. Lupo (a cura di), Le trasformazioni del ruolo dei Presidenti delle Camere. Il Filangieri. Quaderno 2012-2013, Napoli 2013, 293 ss, in cui si vedano anche i contributi di V. LIPPOLIS, Le metamorfosi dei Presidenti delle Camere, 3 ss. e C FUSARO, Personalizzazione della politica e Assemblee parlamentari, 15 ss. 66) G. ROMANO, I presidenti delle Camere: vecchi miti, nuove certezze ed un’ipotesi di futuro, in V. Lippolis (a cura di), Il Parlamento del bipolarismo. Un decennio di riforme dei regolamenti delle Camere, Il Filangieri. Quaderno 2007, Napoli, 2008, 325 nt. 50; sul punto v. anche N. LUPO, Presidente di Assemblea, in Dig. Disc. Pubbl., Torino, Utet, 2010, 451 s.; Id., Funzioni, organizzazione e procedimenti parlamentari: quali spazi per una riforma (coordinata) dei regolamenti parlamentari?, in federalismi.it, 23 febbraio 2018, 23 secondo cui l’iscrizione del Presidente ad un gruppo parlamentare diverso dal misto dovrebbe essere un fatto eccezionale. Contra L. BARTOLUCCI, I gruppi, cit., 7 del paper che, sintetizzando il dibattito svoltosi in Assemblea nella seduta del 15 maggio 1996, ritiene invece l’iscrizione del Presidente ad un gruppo politico “perfettamente accettabile”. 67) Certo non assicurata dall’ampiezza della maggioranza che l’ha eletto: v. A. CIANCIO, Riforma elettorale e ruolo garantistico del Presidente di assemblea parlamentare: un modello in crisi?, in Dir. soc., n. 3/1996, 430. 68) Tale competenza non è infatti attribuita al Consiglio di Presidenza del Senato (art. 12 R.S.); v. però il precedente di cui alla nota 70. 69) L’emendamento soppressivo di tale inciso, presentato dall’on. Caprara, fu ritirato nella seduta antimeridiana del 2 febbraio 1971 dopo che il relatore A. Bozzi fece presente che sui casi dubbi a decidere fosse “un organo collegiale, ma ristretto e nello stesso tempo rappresentativo di tutta la Camera, qual è l’Ufficio di Presidenza” (v. Il nuovo regolamento, cit., 264). 70) V. supra, nota 62. In quell’occasione il Presidente Violante ammise che contro la propria decisione i deputati della Lega Nord potevano fare ricorso all’Ufficio di Presidenza ex art. 12.2 R.C.

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partire, come detto, dal divieto che in esso possano influire soggetti esterni ai membri del gruppo.

Restringere la titolarità di un simile ricorso ai soli membri del gruppo interessato significherebbe di fatto

degradare gli eventuali contrasti insorti a proposito della costituzione del gruppo a questioni interne anche

quando, invece, per i profili di illegittimità e incostituzionalità, essi meriterebbero comunque di essere

portati all’attenzione dell’Ufficio di Presidenza, tanto più quando il Presidente non voglia o ritenga di non

poter decidere, come nel caso in questione.

10. Il possibile conflitto di attribuzioni

È possibile – ci si chiede al quarto punto - portare la violazione dell’art. 67 Cost. (e, se del caso, di altre

norme costituzionali), dinanzi alla Corte costituzionale? Se si, in via incidentale o attraverso il conflitto di

attribuzioni tra poteri dello Stato? In quest’ultima ipotesi, tra chi potrebbe insorgere tale conflitto: tra il

parlamentare “sanzionato” ed il gruppo parlamentare d’appartenenza? Tra l’autorità giudiziaria e la

camera che “pretende di agire in autodichia sull’applicazione della previsione statutaria”?

Premesso che, come diremo (§ 10), un simile ricorso alla Corte costituzionale dovrebbe rappresentare la

soluzione finale, in assenza di precedenti controlli, mi sembra sia assolutamente da escludere la via della

questione incidentale di costituzionalità, essendo consolidatissima la giurisprudenza costituzionale in base

a cui i regolamenti parlamentari non sono atti aventi forza di legge ex art. 134.1 Cost. e non possono

quindi essere né oggetto, né parametro del giudizio di costituzionalità (71). L’unica soluzione, quindi,

sembrerebbe il conflitto di attribuzioni. Al riguardo, va ricordato che la Corte costituzionale non ha mai

escluso in astratto la possibilità per il singolo parlamentare di sollevare conflitto di attribuzioni a tutela

delle sue prerogative, senza però mai specificare in concreto quali siano le “attribuzioni individuali di

potere costituzionale per la cui tutela il singolo parlamentare sia legittimato a ricorrere allo strumento del

conflitto tra poteri dello Stato” (ordinanza n. 177/1998) (72). Anzi, finora, tutti i tentativi in tal senso sono

falliti, avendo la Corte negato l’ammissibilità dei conflitti di attribuzioni sollevati dal singolo parlamentare

a tutela delle prerogative della insindacabilità ex art. 68.1 Cost. (v., da ultimo, ordinanza n. 222/2009) e

della immunità penale ex art. 68.2 Cost. (ordinanze n. 101-102/2000) o del diritto al giusto procedimento

legislativo ex art. 72 Cost. (ordinanza n. 149/2016) (73), perché riguardanti attribuzioni spettanti alle

71) Cfr. almeno Corte cost. 9/1959, 78/1984, 154/1985, 391/1995, 379/1996 e 120/2014. Sul tema, v., per tutti, M. MANETTI, La legittimazione del diritto parlamentare, Milano, 1990, 162 ss. 72) V., per tutti, A. CERRI, Conflitti di attribuzione. I) Conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato, in Enc. Giur., Treccani, aggiornamento 1996, 4 73) Su cui v. il mio In memoriam dell’art. 72, comma 1, Cost. (ordinanza n. 149/2016), in Quad. cost., n. 2/2017, 384 ss.

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camere nel loro complesso e non ai suoi singoli componenti. Il che lascia francamente poco speranzosi

sull’ammissibilità di tale conflitto, benché a mio parere ne ricorrano i presupposti.

Difatti, poiché le disposizioni statutarie interne, ancor di più dei sovrastanti regolamentari parlamentari,

non sono dotate di forza di legge e, di conseguenza, non possono essere oggetto di giudizio incidentale,

ciò potrebbe indurre la Corte ad ammettere un simile conflitto di attribuzioni, quale unico rimedio

residuale esperibile a fronte di violazioni non denunciabili dinanzi all’autorità giudiziaria. Lo stesso si

potrebbe dire per un conflitto di attribuzioni sollevato dal gruppo parlamentare (74), indipendentemente

dalla sua qualificazione giuridica (75), contro il Presidente qualora, come detto, questi dovesse revocare il

Capogruppo contro la volontà della maggioranza dei suoi componenti giacché il diritto del gruppo di

designare il proprio Presidente sarebbe un’attribuzione che, benché non espressamente prevista in

Costituzione, sarebbe indispensabile per il regolare svolgimento dell’attività parlamentare (76).

11. Considerazioni conclusive: ripensare il confine tra regolamento parlamentare e statuto

interno del gruppo

Dinanzi alle incertezze che solleva il possibile conflitto di attribuzioni, mi pare che la soluzione prima e

principale per porre rimedio ai contrasti tra statuti interni e disposizioni regolamentari e costituzionali

vada individuata nella modifica al Regolamento che attribuisca al Presidente e all’Ufficio di Presidenza

espressi poteri di controllo sui primi.

Certo, come si ammette al quinto quesito, questa è “la strada più lunga e dall’esito più incerto, soprattutto

in questa legislatura, ma anche l’unica che in futuro potrebbe evitare il ripetersi” di simili contrasti. Non

si può, infatti, sottovalutare il pericolo che le disposizioni sopra stigmatizzate siano espressione di una

pericola tendenza che – sull’onda di partiti politici e gruppi parlamentari sempre meno democratici sia

loro interno sia per gli obiettivi politici perseguiti, frutto a loro volta di un inquietante indebolimento

della cultura costituzionale del paese – potrebbe un domani portare all’introduzione negli statuti interni

dei gruppi di clausole in radicale contrasto con il regolamento e, prima ancora, con i principi

costituzionali, ad esempio in materia d’eguaglianza come nelle ipotesi oggetto del primo quesito (77)

74) In Germania partiti, gruppi e singoli parlamentari possono sollevare conflitto di attribuzioni: v. A. CERRI, Corso di giustizia costituzionale, V ed., Milano, 2008, 399 s. 75) Per F. BIONDI, Disciplina, cit., 4 nt. 10, l’ammissibilità del conflitto di attribuzioni sollevato dal gruppo parlamentare non dipende dalla sua natura giuridica ma dall’individuazione dell’attribuzione costituzionale concretamente idonea a creare il potere. 76) R. BIN – G. PITRUZZELLA, Diritto costituzionale, XVI ed., Torino, 2017, 504 s. 77) “Cosa succederebbe se le norme statutarie di un Gruppo vietassero alle deputate che vi appartengono di prendere la parola in Aula o di presentare proposte di legge?”

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Dinanzi a questo futuribile, ma non per questo purtroppo inverosimile scenario, l’attuale scarna disciplina

regolamentare sull’organizzazione interna dei gruppi, frutto come detto di una precisa scelta rispettosa

della loro autonomia politica, rischia ora di palesare tutta la propria inadeguatezza. Di qui l’esigenza di

riconsiderare l’attuale confine tra l’autonomia interna del gruppo e la sua regolamentazione parlamentare

esterna, al fine di evitare che i gruppi parlamentari, proprio perché “associazioni di deputati”, possano

interferire indebitamente sull’esercizio delle funzioni loro tramite esercitate. In definitiva, come ai partiti,

anche ai gruppi parlamentari andrebbe espressamente imposto di agire nel rispetto della Costituzione,

cioè non dei suoi fini ma dei suoi metodi e principi democratici (78). Occorre, quindi, individuare quali

elementi dell’organizzazione e del funzionamento interno dei gruppi parlamentari siano essenziali a loro

volta per l’organizzazione ed il funzionamento delle camere, e quali invece debbono essere lasciati

all’autonomia del gruppo e del corrispondente partito politico, egualmente protetta sotto il profilo

costituzionale

Così, per un verso, ai gruppi parlamentari andrebbero estese quelle stesse minime regole procedurali di

democrazia interna oggi previste per gli statuti dei loro corrispondenti partiti (79), pena la paradossale

conseguenza di partiti all’interno democratici che però agiscono in Parlamento tramite gruppi

parlamentari all’interno non democratici. Nell’architettura costituzionale del circuito della rappresentanza

politica, infatti, il gruppo parlamentare è espressione di partiti politici presentatisi alle elezioni tramite cui

i cittadini concorrono alla determinazione della politica nazionale. A tal fine, democratici al loro interno

devono essere non solo i partiti politici ma anche i gruppi politici composti dai parlamentari facenti parte

ed eletti per lo stesso partito. Il primo fondamento costituzionale dell’obbligo di democrazia interna ai

gruppi parlamentare sta dunque nel metodo democratico all’interno dei partiti politici ricavabile dagli artt.

1 (sovranità popolare), 2 (tutela dei diritti fondamentali nelle formazioni sociali) 18, comma 2 (divieto di

associazioni con organizzazioni di carattere militare) e 49 Cost. (80).

Se così è, è evidente che gli statuti interni che i gruppi parlamentari approvano per organizzarsi al loro

interno sono espressione di un’autonomia che incontra però dei limiti in quei punti che riguardano

l’esercizio del mandato parlamentare, a cominciare da quelle condizioni di democrazia interna che sono

il presupposto perché la posizione del gruppo sia effettivamente espressione della maggioranza dei suoi

componenti. È bene, infatti, a tal proposito ricordare che la dialettica parlamentare si basa

prevalentemente sul confronto tra le posizioni politiche non dei singoli – fatto salvo il diritto dei

78) Per L. Elia la ricerca di maggiore garanzie “dovrebbe inquadrarsi in un discorso più ampio, quello dell'articolo 49 della Costituzione sulla garanzia del metodo democratico all'interno dei partiti e all'interno dei Gruppi parlamentari” (in Senato, Assemblea – resoconto stenografico, seduta antimeridiana del 22 novembre 1988, 27 ss.). 79) V. supra, nota 10. 80) V., in tal senso, A. P. TANDA, Le norme, cit., 50.

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dissenzienti, anche sui motivi (81), di esprimersi in Aula, non riconoscendo i regolamenti parlamentari altri

vincoli all’attività dei parlamentari se non quelli da essi stabiliti – ma dei gruppi, espressi dai loro Presidenti

o oratori. Di ciò ne trae beneficio l’attività parlamentare nel suo complesso, in termini sia organizzativi

(a cominciare dal risparmio dei tempi) che di sintesi politiche.

In tal senso, potrebbe riprendersi l’obbligo di scrutinio segreto per eleggere le cariche direttive del gruppo,

previsto dal regolamento della Camera del 1920 per l’elezione del suo Presidente (82). Oppure prevedere

il diritto di minoranze significative del gruppo di convocarne l’Assemblea e/o gli organi direttivi per

deciderne la posizione posizioni sulle materie all’ordine del giorno o previste nel programma dei lavori.

Per altro verso, gli obblighi di disciplina di gruppo imposti ai suoi membri circa l’esercizio delle funzioni

parlamentari non possono tradursi in trattamenti discriminatori, ancorché politicamente motivati, che si

risolverebbero in illegittime compressioni dell’esercizio del mandato del singolo parlamentare. Ancor

prima che ai regolamenti parlamentari, gli statuti interni dei gruppi politici sono soggetti alla Costituzione,

per cui non potrebbero introdurre limitazioni all’esercizio del mandato parlamentare (art. 67 Cost.) per

motivi discriminatori, lesivi della pari dignità sociale (art. 3 Cost.) e dei diritti inviolabili che la Repubblica

riconosce ad ogni uomo nelle formazioni sociali in cui svolge la sua personalità (art. 2 Cost.). In altri

termini, lesive del principio d’eguaglianza possono essere a tutto concedere associazioni private “di

tendenza”, quando ciò risulti ragionevolmente giustificato dallo scopo perseguito (ad esempio, le

associazioni di sole donne vittime di stalking), ma non associazioni pubbliche, tanto più quando tali

limitazioni andrebbero ad interferire in modo oggettivamente discriminatorio con l’esercizio delle

funzioni parlamentari. Di fronte ad un simile scenario, la garanzia per il parlamentare di abbandonare il

gruppo, pur conservando il seggio, sarebbe chiaramente rimedio insufficiente e parziale, per cui, a sua

tutela, simile clausole discriminatorie andrebbero annullate, in sede di verifica dello statuto interno, dal

Presidente.

Sotto il profilo procedurale, il modello da adottare dovrebbe riprodurre lo schema, cui sopra si è

accennato (§ 2), previsto per i contrasti tra le componenti politiche del gruppo misto (art. 15-bis, comma

2, r.C.). Il Presidente, cioè, all’atto del deposito dello Statuto, dovrebbe valutarne la loro conformità a

regolamento e a Costituzione, intervenendo nei casi di palese contrasto. Per evitare valutazioni arbitrarie,

la decisione dovrebbe essere assistita dal parere obbligatorio ma non vincolante dell’Ufficio di Presidenza

e, in caso di questioni interpretative, della Giunta per il regolamento. Alla sanzione dell’annullamento

81) Cfr. C. DECARO, La struttura delle Camere, in T. MARTINES, C. DE CARO, V. LIPPOLIS, R. MORETTI, Diritto parlamentare, Rimini, 1992, 140 s.; A. MANZELLA, Diritto parlamentare, II ed., cit., 71. 82) V. supra, nota 38.

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della disposizione giudicata non conforme potrebbe anche unirsi, a seconda del caso, la riduzione o

l’azzeramento dei contributi erogati al gruppo.

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di Gianmario Demuro

Professore ordinario di Diritto costituzionale Università di Cagliari

Il diritto individuale al libero mandato parlamentare

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Il diritto individuale al libero mandato parlamentare *

di Gianmario Demuro Professore ordinario di Diritto costituzionale

Università di Cagliari

Grazie tante per l'invito ed anche per l'occasione per i miei studenti di approfondire in aula questo tema,

consegnerò all'onorevole Magi un breve scritto degli studenti del mio corso e, in ragione delle

argomentazioni già svolte da chi mi ha preceduto, dialogherò con i colleghi che ho ascoltato con

attenzione. Intanto voglio ricordare a me stesso che a volte ci dimentichiamo che i principi costituzionali

sono al contempo un limite al comportamento dei poteri pubblici e una garanzia a tutela delle

responsabilità individuali. Da questo punto di vista l'idea fondamentale è che la costituzione può essere

una costituzione dei poteri ma, anche, una costituzione dei diritti; la nostra è una costituzione moderna e

mette insieme i poteri con i diritti e, quindi, i due profili non possono essere disgiunti. Sotto questo

aspetto ancora di più in una Costituzione democratica che nasce da un compromesso virtuoso tra i partiti;

partiti che paiono oggi scomparsi improvvisamente dal contesto prescrittivo della rappresentanza politica.

I partiti, invece, ci sono ancora e sono gli eredi democratici di quelli che hanno fondato e reso possibile

l'approvazione della Costituzione quindi io ripartirei da là e ripartirei dall’art. 49 Cost. È stato molto bene

sottolineato dalla professoressa Calvano il ruolo dei partiti e non aggiungo nulla rispetto alle sue

considerazioni, vorrei soltanto dire che l’art. 49 stabilisce un diritto associativo e prescrive un diritto

individuale fondamentale a partecipare alla determinazione della politica nazionale. Attenzione un diritto

individuale, un diritto che è in capo ad ognuno di noi, che spetta ad ogni simpatizzante, a ogni singolo, a

ogni militante, a ogni dirigente e, ancor di più è un diritto che deve avere un parlamentare. Senza questo

diritto individuale si perde completamente la prospettiva di ciò che significa democrazia nell’art. 49. Rimane

sullo sfondo il tema della necessaria attuazione dell’art. 49; basti ricordare Elia che lo diceva con chiarezza

sin dagli anni ‘60 nei suoi scritti di diritto costituzionalee e nel ’64, anche nell’assemblea della Democrazia

Cristiana: l’art. 49 doveva essere attuato come garanzia del diritto individuale senza il quale si perde nel

nostro ordinamento costituzionale la declinazione democratica dei partiti. Da questo punto di vista l’idea

che, sostanzialmente, i partiti possano, mi scuso per la parola tranchant, fare quello che vogliono delle

minoranze è francamente inaccettabile. Se è accettabile che ogni partito possa liberamente scegliere una

linea politica e costruire la propria ideologia; è altrettanto chiaro che l'essenza della democrazia sta nella

* Intervento alla Tavola rotonda “Gli statuti dei gruppi parlamentari alla prova dell’art. 67della Costituzione”, Roma, 16 maggio 2018.

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possibilità di dissentire, nella facoltà di stare in minoranza e di portare una voce diversa all'interno della

stessa attività di partito. Per tale motivo ancor prima della violazione del “divieto di vincolo di mandato”

vi è una violazione dell'idea di democrazia cosi come è scritta nell’art. 49 che, come diceva prima bene il

professor Curreri, è anche la base dell’art. 1 della nostra Costituzione. Il punto di partenza

dell’argomentazione rispetto alla violazione del libero mandato parlamentare è, quindi, l’art. 49.

Il secondo argomento parte, ovviamente, dal significato dell’Art. 67. Io sono affezionato all'idea che il

divieto di mandato imperativo mantiene l'asse del riconoscimento individuale del diritto, secondo

un'antica ragione del costituzionalismo settecentesco nella libertà di esprimersi liberamente, uso questa

espressione alla francese, una volontà di esprimersi per la Nazione e di rappresentare il bene comune nel

dibattito pubblico. Bene ha fatto qui l’On. Magi ad organizzare un dibattito pubblico su questo tema, cioè

un dibattito che va alle radici del costituzionalismo e che si occupa, appunto, delle ragioni sulla base delle

quali questo dibattito è possibile. E allora se è un diritto fondamentale ad agire in maniera politicamente

orientata secondo l’art. 49, altrettanto lo sarà agire con metodo democratico per raggiungere un fine che è definito

dall’art. 67; dobbiamo difendere il combinato disposto dell’art. 49 e dell’art. 67 in collegamento, sempre,

con l’art. 1. Da questo punto di vista io non ho dubbi che il principio di divieto del mandato imperativo

sia un principio supremo, non ho nessun dubbio che lo sia, perché non si può pensare di avere una

rappresentanza politica senza il rispetto delle minoranze, senza il rispetto dei partiti con un ordinamento

a base democratica, senza il rispetto del libero mandato parlamentare.

Un terzo argomento, sempre sulla linea della violazione delle basi fondative della democrazia

rappresentativa, lo si può ricavare dall’art. 68, e devo questa suggestione alle discussioni che ho avuto con

i miei studenti. L’art. 68, voi sapete e non ho bisogno di ricordarlo a nessuno, che la garanzia di immunità

per i voti e le opinioni espresse è strettamente legata all'esercizio della funzione di parlamentare, secondo

una copiosissima giurisprudenza costituzionale che collega il primo comma dell’art. 68 all'esercizio della

funzione parlamentare. Il singolo parlamentare può esprimere voti e opinioni che possono anche essere,

come dire, urticanti ma, sempre e comunque, nel rispetto dei limiti della altrui sfera individuale e, sempre

e comunque, nell’esercizio della funzione di parlamentare che è funzione di rappresentanza politica. Se

non fosse garantito il libero mandato parlamentare che senso avrebbe la quarentigia della prima parte

dell'art. 68 Cost.? Se così non fosse raggiungeremmo il paradosso che la Camera deve poter garantire il

diritto di opinione ed il diritto di espressione del voto, ma non la garanzia al deputato o al senatore

all'interno del suo gruppo. Sarebbe veramente inaccettabile garantire ciò che è un giudizio fuori dal

Parlamento e non garantire il giudizio all'interno del Parlamento.

Arrivando alle conclusioni, sono state dette moltissime cose e non le voglio ripetere, però c'è un profilo

che mi interessa e che mi è stato sollecitato dalle due sentenze della Corte costituzionale sulle leggi

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elettorali; io non condivido una argomentazione, soprattutto della seconda sentenza, del superamento

dell'inammissibilità delle questioni di lgittimità costituzionale poste in contesti di lis ficta; come posso

impugnare una legge elettorale che ancora non è entrata neanche in vigore? Appare un ragionamento che,

se fossimo ancora sotto la vigenza del diritto romano, potremmo definire di equitas, se vogliamo utilizzare

questa espressione, ma certamente siamo di fornte all'introduzione di un recurso de amparo non previsto

dalla Costituzione. Allora se è vero che si può ammettere un recurso de amparo senza che la Costituzione lo

preveda espressamente rispetto ad una legge elettorale, perché non dovrebbe ammettersi la lacuna per il

libero mandato parlamentare come assenza di tutela di un diritto fondamentale che, altrimenti, non ne

avrebbe altra se non quella del giudizio davanti alla Corte? Sotto questo aspetto non si tratta di costruire

lis fictae, tuttavia nella discussione di fronte ad un giudice ordinario di una questione di questo genere si

potrebbe proporre un'eccezione di incostituzionalità in applicazione del principio costituzionale del libero

mandato parlamentare. Da sconsigliare invece, e vado veramente a concludere, l'impervia via della

revisione del regolamento parlamentare; in alternativa si potrebbe valorizzare un articolo che già esiste

del regolamento del Senato, l’art. 53 al co. 7, che così dispone: “I regolamenti interni dei gruppi

parlamentari stabiliscono…procedure e forme di partecipazione che consentano ai singoli senatori di

esprimere i loro orientamenti e presentare proposte sulle materie comprese nel programma di lavori o

comunque all'ordine del giorno”. Laddove è scritto “consentano ai singoli senatori” vi è una base

normativa che può far ripartire un dibattito pubblico intorno ai regolamenti parlamentari che danno

attuazione al principio della rappresentanza politica mi sembra che possa essere questa la migliore

occasione per riportare la politica al centro della discussione.

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di Roberto Di Maria

Professore ordinario di Diritto costituzionale Università degli studi di Enna “Kore”

Una “clausola vessatoria” in bilico fra la democrazia rappresentativa e la

tutela giurisdizionale dei diritti

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Una “clausola vessatoria” in bilico fra la democrazia rappresentativa e la tutela giurisdizionale dei diritti*

di Roberto Di Maria

Professore ordinario di Diritto costituzionale Università degli studi di Enna “Kore”

Sommario: 1. Premessa: a quali questioni rispondere? 2.1. La natura della clausola contenuta nello Statuto del Gruppo parlamentare del M5S, fra diritto civile e diritto pubblico (e penale). 2.2. Ipotesi sul controllo, anche para-giurisdizionale, sugli Statuti dei Gruppi parlamentari. 3. Una modifica ai Regolamenti parlamentari: “soluzione di tutti mali”? 4. La garanzia dell’ordinamento repubblicano, ovvero sui limiti alla revisione costituzionale. 5. Conclusioni: le risposte.

1. Premessa: a quali questioni rispondere?

Le riflessioni contenute nel presente, breve, lavoro sono il frutto delle sollecitazioni recepite in occasione

della tavola rotonda su “Gli Statuti dei gruppi parlamentari alla prova dell’articolo 67 della Costituzione”;

e si articolano intorno a tre, specifici, quesiti posti alla attenzione ed allo studio dei convenuti: la questione

della “giustiziabilità” della eventuale violazione dell’art. 67 Cost.; la ipotizzabilità di una modifica del

Regolamento parlamentare con cui si attribuiscano, al Presidente d’Assemblea, poteri di controllo sugli

Statuti dei Gruppi; ed infine, quella della eventuale revisione del suddetto art. 67 Cost., tale da sopprimere

il c.d. “divieto del vincolo di mandato”1.

* Intervento alla Tavola rotonda “Gli statuti dei gruppi parlamentari”, Roma, 16 maggio 2018. 1 Si riporta di seguito, per completezza, il testo dei sei quesiti oggetto della suddetta tavola rotonda: «1. In primis, si

pone il problema della stesura e della potenziale applicazione di disposizioni di Statuti dei gruppi – regole di diritto privato – in palese contrasto con la Costituzione e con il Regolamento. Cosa succederebbe se le norme statutarie di un Gruppo vietassero alle deputate che vi appartengono di prendere la parola in Aula o di presentare proposte di legge? 2. Possiamo dire che la sola circostanza che uno o più parlamentari iscritti al gruppo Movimento 5 Stelle esercitino il loro mandato con il timore d’esser sanzionati economicamente in ragione delle proprie condotte e scelte in parlamento costituisce un vincolo di mandato e impone all’istituzione parlamentare di intervenire scongiurando questa ipotesi ab origine? Se sì, come? Dal momento che la norma è conosciuta formalmente dalle Camere perché contenuta in statuti il cui deposito è obbligatorio, possiamo dire che non è il difetto di una norma specifica che impedisce al Presidente di manifestare formalmente ai colleghi parlamentari l’inconsistenza, nullità e illiceità di una previsione regolamentare (ad oggi sottoscritta dallo stesso Presidente Fico), ad esempio con una circolare inviata a tutti i deputati? 3. Può il Capo dello Stato nominare Ministro un parlamentare del Movimento 5 Stelle vincolato da un “contratto privato” in contrasto non solo dell’art. 67 Cost. ma anche con il giuramento prestato di fronte allo stesso Presidente della Repubblica di esercitare le proprie funzioni nell'interesse esclusivo della nazione, oltre che con la con legge 400/1988 in ordine all’autonoma collegialità del Consiglio dei Ministri e al suo compito di risoluzione dei conflitti tra Ministri? Come opererebbe questo condizionamento nell’esercizio della funzione di controllo da parte dei dai parlamentari nei confronti dei ministri del loro partito? Può tale problema essere evidenziato direttamente all’attenzione del Presidente della Repubblica, nella sua qualità di garante della Costituzione? 4. Questione della “giustiziabilità” della violazione dell’art. 67 Cost. in esame. Come un tentativo di applicazione dell’istituto della clausola penale prevista dalla disposizione statutaria in esame potrebbe

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Le argomentazioni con cui si riscontrano i suddetti quesiti sono dunque compendiate nei tre paragrafi

che seguono – con la sintesi che si confà ad un contributo pro quota di un più ampio, e generale,

approfondimento tematico – a corredo del quale si sviluppa un ulteriore, ed ultimo, paragrafo di sintetiche

e riepilogative conclusioni; i riferimenti bibliografici e giurisprudenziali sono stati ridotti, pertanto, al

minimo (ritenuto) indispensabile.

In sede di premessa sia consentito, soltanto, richiamare le disposizioni statutarie del Gruppo parlamentare

del Movimento 5 Stelle (di seguito “M5S”) dalle quali ha tratto origine il confronto oggetto della

summenzionata tavola rotonda: gli interrogativi sul valore e sulla efficacia dell’art. 67 Cost. – nella parte

in cui statuisce che ciascun parlamentare esercita le proprie funzioni «senza vincolo di mandato» – si

appuntano, in particolare, sul tenore dell’art. 21, co. 5, del richiamato Statuto, per cui «il deputato che

abbandona il gruppo parlamentare a causa di espulsione ovvero abbandono volontario ovvero dimissioni

determinate da dissenso politico sarà obbligato a pagare, a titolo di penale, al MoVimento 5 Stelle, entro dieci giorni

dalla data di accadimento di uno dei fatti sopra indicati, la somma di euro 100.000,00»; formula che riprende –

pressoché testualmente – quella dell’art. 5 del Codice etico, allegato al medesimo Statuto, ai sensi del

quale «in considerazione del fatto che, ad eccezione del contributo di cui al terzo comma del presente

articolo, gli oneri per l’attività politica e le campagne elettorali sono integralmente a carico del MoVimento

5 Stelle, ciascun parlamentare, in caso di: espulsione dal Gruppo Parlamentare del MoVimento 5 Stelle e/o dal

MoVimento 5 Stelle; abbandono del Gruppo Parlamentare del MoVimento 5 Stelle e/o iscrizione ad altro

Gruppo Parlamentare; dimissioni anticipate dalla carica non determinate da gravi ragioni personali e/o di salute

ma da motivi di dissenso politico; sarà obbligato pagare al MoVimento 5 Stelle, entro dieci giorni dalla data di

accadimento di uno degli eventi sopra indicati, a titolo di penale, la somma di € 100.000,00 quale indennizzo per gli oneri

sopra indicati per l’elezione del parlamentare stesso [tutti i corsivi sono aggiunti, ndr.]».

giungere all’esame della Corte costituzionale? Attraverso la via del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato (Deputato “sanzionato” vs. Gruppo parlamentare di appartenenza oppure Autorità giudiziaria vs. Camera dei Deputati che pretende di agire in autodichia sull’applicazione della previsione statutaria). Attraverso un giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale? 5. È chiaro come una modifica del Regolamento che attribuisca al Presidente poteri di controllo sugli Statuti dei Gruppi sia la strada più lunga e dall’esito più incerto – soprattutto in questa legislatura – ma anche l’unica che in futuro potrebbe evitare il ripetersi di casi come quello di cui si discute oggi; per questo annuncio fin da ora la mia intenzione di presentare una proposta di modifica in tal senso. Chiedo allora a chi interverrà oggi di ipotizzare i passaggi di tale procedimento di verifica degli Statuti, l’organo o gli organi che ne dovrebbero essere incaricati, i parametri di riferimento e le conseguenze in caso di mancato rispetto degli stessi. 6. Infine: non solo il Movimento 5 Stelle, ma anche Forza Italia, Lega Nord e Fratelli d’Italia hanno affermato in campagna elettorale di voler modificare l’articolo 67 della Costituzione, e proposte di legge in tal senso sono già state presentate in passato; la differenza, oggi, è che una tale riforma costituzionale potrebbe essere approvata a maggioranza dei due terzi di ciascuna Camera. Il quesito che allora si pone è se l’art. 67 sia revisionabile o se il divieto di mandato imperativo rientri fra i “principi fondamentali e diritti inviolabili” che la Corte cost. pone come limite allo stesso processo di revisione costituzionale».

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Dal superiore combinato disposto, dunque, l’ipotizzata violazione dell’art. 67 Cost. e le – conseguenti –

considerazioni di merito.

2.1. La natura della clausola contenuta nello Statuto del Gruppo parlamentare del M5S, fra diritto

civile e diritto pubblico (e penale).

Il tema della “giustiziabilità” (sic) dell’art. 67 Cost. rinvia, necessariamente, alla preliminare valutazione

della “natura” della disposizione – ovvero della clausola – prevista dall’art. 21, co. 5, St. M5S; e sul punto

quanto mai precise – se non già, addirittura, concludenti – appaiono le considerazioni recentemente

licenziate da Roberto Bin, il quale ha sostenuto che «la questione della sanzione che il regolamento del

Gruppo parlamentare del M5S minaccerebbe […] di applicare agli eletti che intendono cambiare gruppo

è davvero semplice […] si tratta di una norma (a) inutile e (b) inaccettabile»; in particolare «inutile perché di

applicazione impossibile [né] attraverso strumenti “interni” al Parlamento, perché non esiste nessuna

procedura per richiederne e ottenerne il pagamento attraverso le forme tipiche di autodichia parlamentare

[né attraverso il] giudice civile, per chiedere che il “transfuga” sia obbligato a pagare la penale» trattandosi

di un contratto viziato da “illiceità della causa”2.

Sebbene tale asserzione sembri non lasciare alcuno spazio ad ulteriori considerazioni – bollando de iure la

relativa disposizione statutaria, de minimis, come “inapplicabile” – può comunque provarsi ad interpretare

quest’ultima, seppur paradossalmente, alla stregua di una “clausola vessatoria” e valutarne indi la

potenziale cogenza ove calata nello statuto di una associazione.

Andando quindi oltre le considerazioni di Roberto Bin, deve rammentarsi che l’inserimento di una

clausola vessatoria nello statuto di una associazione è stata ritenuta, dalla giurisprudenza civile,

pienamente legittima: infatti lo statuto, o atto costitutivo, di una associazione costituisce «espressione di

autonomia negoziale» ed è indi regolato «dai principi generali del negozio giuridico» di talché «non può

configurarsi, nei rapporti associativi, la presenza di un contraente più debole, meritevole della particolare

tutela prevista per le clausole vessatorie, presupponendo, al contrario, la partecipazione ad

un’associazione una comunanza di interessi e di risorse, finalizzati al raggiungimento degli scopi previsti

dall’atto costitutivo, in funzione dei quali sono utilizzati tutti i mezzi disponibili»3.

2 Cfr. art. 1343 c.c. ai sensi del quale «la causa è illecita quando è contraria a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume»; nel qual caso ricorrerebbe – evidentemente – la contrarietà alla norma imperativa versata nell’art. 67 Cost. Per la lettura integrale del testo, da cui sono tratti i virgolettati, si rinvia a R. BIN, La sanzione pecuniaria ai voltagabbana ha un acre sapore, in lacostituzione.info (corsivi aggiunti). 3 Così Cass., sez. III civ., 8372/2010. In ogni caso la disciplina civilistica della adesione ad una associazione rinvia alla autonomia contrattuale, ex art. 16 c.c.

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Laddove si volesse equiparare un Gruppo parlamentare ad una associazione (di diritto civile) dovrebbe

porsi in dubbio, allora, non tanto (o soltanto) la legittimità della clausola in sé quanto, invero, anche quella

derivante dalla (necessaria) determinatezza delle circostanze di fatto che ne comportano la concreta

applicazione; e sotto questo profilo ciò che desta maggiore perplessità – anche in ordine alla peculiare

convergenza fra gli artt. 18 e 49 Cost.4 – è proprio il “catalogo” delle suddette circostanze: sebbene, infatti,

la identificazione delle «cause di sanzione» dovrebbe rispondere al principio di “tipicità dell’illecito” –

costituzionalmente sancito, ex artt. 25 Cost. ed 1 c.p., per tutte le prescrizioni aventi natura lato sensu

penale – dal combinato disposto dallo Statuto e dal Codice etico del M5S, si ricava invece che l’espulsione

e la (conseguente) imposizione della sanzione possono ricorrere – inter alia – per «tutte le condotte che

violino, del tutto o in parte, la linea politica dell’Associazione “MoVimento 5 Stelle”»5.

Evidentemente la relativa “causa” – che può indurre, ut supra, alla «espulsione» del deputato – ha

contenuto assolutamente indefinito; e quindi non consente al medesimo di conoscere in anticipo – in

ossequio al summenzionato principio di “tipicità” – da quali condotte astenersi, onde evitare di incorrere

nella ingiunzione al pagamento della penale. E, per quanto funzionale ad assicurare la omogeneità

dell’indirizzo politico all’interno del Gruppo parlamentare, tale indeterminatezza appare però tanto più

grave – rivalutando ora la natura eminentemente pubblicistica dei fini perseguiti dalla predetta

“associazione”, aldilà della sua mera natura giuridica – ove si consideri la rilevanza costituzionale del bene

giuridico eventualmente leso, ovverosia il “libero esercizio del mandato parlamentare”, nonché l’antico e

cristallino insegnamento della Corte costituzionale in materia: «l’art. 67 della Costituzione […] è rivolto

ad assicurare la libertà dei membri del Parlamento. Il divieto del mandato imperativo importa che il

parlamentare è libero di votare secondo gli indirizzi del suo partito ma è anche libero di sottrarsene; nessuna norma potrebbe

legittimamente disporre che derivino conseguenze a carico del parlamentare per il fatto che egli abbia votato contro le direttive

del partito»6.

Oltre alla illiceità sotto il profilo civilistico, emerge allora un ulteriore (seppur pleonastico) limite

all’inserimento, nello statuto di un Gruppo parlamentare, di una clausola (vessatoria) di natura “penale”

sì come formulata – perlomeno – nei termini e con le modalità di cui all’art. 21, co. 1 e 5, St. M5S.

4 Com’è noto, disposizioni costituzionali che salvaguardano – rispettivamente – la libertà di associazione, ivi compresa quella «in partiti politici» 5 Le altre cause, più puntualmente espresse, sono: «mancato rispetto delle decisioni assunte dall’assemblea degli iscritti con le votazioni in rete […] mancato rispetto delle decisioni assunte dagli altri organi del MoVimento 5 Stelle […] mancata cooperazione e coordinamento con gli altri iscritti, esponenti e eletti, anche in diverse assemblee elettive, per la realizzazione delle iniziative e dei programmi del MoVimento 5 Stelle, nonché per il perseguimento dell’azione politica del MoVimento 5 Stelle» (cfr. art. 21, co. 1, St. M5S). 6 Cfr. la ben nota Corte cost., sent. 14/1964 (corsivo aggiunto).

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2.2. Ipotesi sul controllo, anche para-giurisdizionale, sugli Statuti dei Gruppi parlamentari.

Inequivocabilmente accertata la natura penale della clausola – nonché la sua “astratta” illegittimità – si

pone indi la questione della sua “concreta” (ed effettiva) “giustiziabilità”, in ordine alla quale pare di non

potersi sfuggire alla alternativa secca: o controllo “interno” alla Camera, o controllo “esterno” di natura

giurisdizionale costituzionale.

Quanto alla prima ipotesi, deve ancora una volta registrarsi una puntuale precisazione di Roberto Bin il

quale osserva – indirettamente replicando al Presidente della Camera, On.le Roberto Fico, sollecitato in

argomento – che «l’autonomia dei gruppi parlamentari non è affatto un principio sancito in Costituzione»

essendo questi, appunto, «secondo lo stesso Regolamento della Camera […] delle semplici “associazioni

di deputati” che operano nell’istituzione parlamentare»; e che, pertanto, il riconoscimento di «un potere

di sindacato sugli statuti dei Gruppi parlamentari» o, vieppiù, di «un obbligo o un potere del Presidente,

o di altri organi parlamentari, di esercitare “alcuna forma di controllo sul contenuto degli statuti dei

Gruppi parlamentari”» non si porrebbe affatto in antitesi con il preteso «pieno rispetto dell’autonomia

spettante in materia ai Gruppi»7.

Al contrario, proprio attingendo al Regolamento della Camera può intanto rilevarsi che al Presidente di

Assemblea spetta di garantire il «buon andamento» dei lavori8; ma è stato anche correttamente osservato

– in relazione al ruolo per quest’ultimo delineato, tanto dalle norme di diritto positivo quanto dalla prassi

parlamentare – come egli sia altresì titolare di «poteri monocratici sull’organizzazione dei lavori

parlamentari e, di conseguenza, sull’attuazione dell’indirizzo politico di governo» (per esempio «nel caso,

quasi costante, in cui la Conferenza dei Capigruppo non raggiunga la maggioranza dei tre quarti richiesta

per l’approvazione del programma dei lavori e del relativo calendario») sì da configurarsi quale «snodo

decisivo per l’attuazione del programma di governo», vieppiù alla luce della «tendenza di questi ultimi

anni» a considerare il Presidente di Assemblea più un «uomo della maggioranza (come il Presidente del

Senato statunitense)» che non, invece, un «soggetto assolutamente terzo ed imparziale (come lo “speaker”

britannico)»9.

7 Cfr. sempre R. BIN, La strana risposta del presidente Fico: è così che si rilancia il ruolo del Parlamento?, in lacostituzione.info. Si veda, in particolare, quanto disposto dall’art. 15 bis, co. 2, del Regolamento della Camera dei deputati in materia di poteri di controllo del Presidente di Assemblea nei confronti del c.d. “Gruppo misto”: «qualora alcuna fra le componenti politiche costituite nel Gruppo ritenga che da una deliberazione […] risulti pregiudicato un proprio fondamentale diritto politico, può ricorrere al Presidente della Camera avverso tale deliberazione. Il Presidente decide […] ovvero sottopone la questione all’Ufficio di Presidenza». 8 Cfr. art. 8 Regolamento della Camera dei deputati. 9 Virgolettati tutti tratti da S. CURRERI, L’elezione dei nuovi Presidenti delle Camere: ritorno al consociativismo o verso un nuovo bipolarismo?, editoriale in www.federalismi.it, n. 7/2018.

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Pare così prendere vigore l’ipotesi di un controllo – sebbene di natura non strettamente “giurisdizionale”

– effettuato dal Presidente di Assemblea; il quale però, nell’attuale silenzio del Regolamento, è comunque

privo di strumenti sanzionatori e – quindi – di “effettività” (sul punto cfr. infra, §3).

Quanto invece alla seconda ipotesi – ovverosia al controllo della Corte costituzionale – anche in tal caso

non pare di potersi sfuggire ad una ipotesi secca: il ricorso al sindacato per conflitto di attribuzione fra

Poteri dello Stato (c.d. “interorganico”).

Se però, sotto il profilo “strutturale”, tale sindacato corrisponderebbe perfettamente allo scopo del

giudizio – poiché utile a colmare una lacuna dell’apparato di controllo sull’esercizio di funzioni

costituzionalmente rilevanti10 – deve tuttavia rilevarsi come la Corte costituzionale sia, da sempre,

alquanto restia ad “aprire le porte del conflitto” a vicende che si consumano entro le mura del Parlamento:

è stato non casualmente osservato, infatti, che proprio «in questi anni di bipolarismo conflittuale e

muscolare, i governi e le maggioranze parlamentari di turno hanno forzato regole e procedure, alla

rincorsa del peggior precedente, col tempo sempre più distante dal testo regolamentare, profittando in

ciò anche del criticabile self-restraint della Corte costituzionale, anche quando si trattava di difendere i pochi

ma essenziali capisaldi del procedimento legislativo posti dall’art. 72 Cost.»11; ed in effetti, tale self-restraint

si è manifestato – soprattutto – in una giurisprudenza pressoché monoliticamente orientata ad escludere

la legittimazione del singolo parlamentare a sollevare un conflitto di attribuzioni12.

È pur vero che – nonostante le premesse perplessità – in un’ottica eminentemente forense potrebbe

essere comunque utile sollevare il conflitto ed attendere, poi, la risposta della Consulta; non v’è infatti

dubbio che, almeno sul piano formale, ricorrano tutti gli elementi che connotano – ex art. 37, l. 87/1953

– il conflitto interorganico: legittimazione attiva e passiva; oggetto e natura “di accertamento” della

azione, ovvero la “menomazione” della funzione parlamentare, filtrata dall’art. 67 Cost.13. Né v’è dubbio

che – anche tramite tale “canale” giurisdizionale – al Potere legislativo potrebbe essere finalmente

10 Sul punto si rinvia al classico R. BIN, L’ultima fortezza. Teoria della Costituzione e conflitti di attribuzione, Milano, 1996. 11 Cfr. sempre S. CURRERI, cit. 12 Se non limitatamente alla difesa delle proprie prerogative ex art. 68 Cost.; cfr. Corte cost., sentt. 225/2001, 263/2003, 284/2004, 451/2005. Più recentemente, alcuni spunti anche in Corte cost., ord. 149/2016, a commento della quale si segnala – volendo – L. ARDIZZONE e R. DI MARIA, L’ordinanza 149 del 2016: un’occasione (mancata) per ripensare la struttura processuale – ed indi, la funzione – del giudizio per conflitto di attribuzioni fra Poteri dello Stato?, in Consulta online (www.giurcost.org), ove gli Autori osservano che «la legittimazione attiva del singolo parlamentare [potrebbe] indurre la enucleazione di “buone prassi” – a complemento delle regole che presidiano il procedimento legislativo e pienamente coerenti con i relativi principi costituzionali – appunto finalizzate ad evitare ipotesi di ricorso alla Corte» che richiederebbe «un bilanciamento alquanto delicato […] fra la salvaguardia, da un lato, dei principi costituzionali che filtrano la natura “democratica” dell’ordinamento repubblicano attraverso i meccanismi tipici della c.d. “rappresentanza indiretta” e, d’altro lato, del principio (supremo) di autonomia del Parlamento compendiato – tradizionalmente – negli interna corporis acta». 13 Cfr. R. DI MARIA, I conflitti di attribuzione fra Poteri: il contraddittorio, in A. Pizzorusso e R. Romboli (a cura di), Le Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale dopo quasi mezzo secolo di applicazione, Torino, 2002.

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restituita, nonché salvaguardata, la “centralità” istituzionale da tempo ormai smarrita ed, altresì, essere

recuperato il suo «ruolo di “perno” del dibattito politico nazionale, funzionale alla selezione delle public

choices e policies, sia quello (conseguenziale) di “produttore” della normativa di attuazione delle

medesime»14.

Purtuttavia – ove si volesse davvero percorrere la strada del conflitto di attribuzioni – una formale

“apertura delle porte” potrebbe conseguire ad una, altrettanto formale, modifica dei Regolamenti

parlamentari in cui sia codificata una espressa “competenza” in materia di salvaguardia della libertà di

autodeterminazione dei parlamentari.

3. Una modifica ai Regolamenti parlamentari: “soluzione di tutti mali”?

Dalla superiore conclusione emerge la connessione fra la questione della “giustiziabilità” dell’art. 67 Cost.

e quella inerente ad una, eventuale, modifica o integrazione del Regolamento della Camera dei deputati;

ciò perché – nella prospettiva suggerita (cfr. supra, §1) – tale modifica sarebbe comunque funzionale ad

assicurare il controllo sul contenuto degli Statuti dei Gruppi parlamentari, ovverosia la loro coerenza con

i principi costituzionali cui è lato sensu ispirata l’attività parlamentare.

In estrema sintesi – con la consapevolezza, espressa in premessa, che «una modifica del Regolamento che

attribuisca al Presidente poteri di controllo sugli Statuti dei Gruppi sia la strada più lunga e dall’esito più

incerto» (cfr. nota 2) – può allora affermarsi che il precipuo scopo della armonizzazione fra le regole

cristallizzate negli Statuti e la normativa costituzionale, che tratteggia i profili essenziali del diritto

parlamentare repubblicano, non possa che essere efficacemente perseguito mediante la evocata riforma

regolamentare.

Indifferentemente dal fatto che tale modifica attribuisca ad un organo, specificamente individuato15, il

compito di effettuare il controllo direttamente – riconoscendogli altresì il correlativo e congruo potere

sanzionatorio – oppure di svolgere il ruolo di mero “intermediario” nei confronti della Corte

costituzionale – indi legittimato a sollevare il conflitto – pare innegabile che soltanto per tale via potrebbe

efficacemente perseguirsi la salvaguardia della funzione parlamentare compendiata nell’art. 67 Cost.; è

appena il caso di notare – peraltro – che una siffatta modifica dovrebbe essere congiuntamente apportata

sia al Regolamento della Camera dei deputati sia a quello del Senato della Repubblica, vieppiù se destinata

a canonizzare una formale competenza ad interloquire con la Corte costituzionale.

14 Così in L L. ARDIZZONE e R. DI MARIA, cit. 15 Forse il Presidente di Assemblea, monocraticamente; oppure un organo collegiale ad hoc, come il Collegio dei Questori (cfr. art. 10 Reg. C. «i Questori curano collegialmente il buon andamento dell’amministrazione della Camera, vigilando sull’applicazione delle relative norme e delle direttive del Presidente»).

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4. In conclusione: la garanzia dell’ordinamento repubblicano, ovvero sui limiti alla revisione

costituzionale.

Un’ultima notazione – molto breve – sulla ammissibilità della revisione dell’art. 67 Cost.; in specie nel

senso della soppressione del c.d. “divieto di mandato imperativo”.

Sul punto si ritiene sufficiente disarticolare la questione in due profili: se il suddetto divieto sia

“fisiologicamente connaturato” ad un ordinamento autenticamente democratico e, quindi, ne costituisca

strutturalmente condicio sine qua non; o se, quantomeno, esso sia connaturato all’ordinamento democratico

delineato dalla Costituzione repubblicana italiana.

Quanto al primo profilo, è forse sufficiente richiamare i casi degli Stati che hanno previsto «forme di

responsabilità giuridica dell’eletto» – generalmente tradottesi nella previsione dell’istituto del c.d. “recall”16

– per affermare che, fin dai tempi del “discorso agli elettori di Bristol” di Edmund Burke, il vincolo di

mandato può essere istituzionalmente temperato dal ricorso a strumenti che, pur assicurando la libertà

del parlamentare, lo richiamino ai propri doveri di fedeltà e rappresentatività – intanto etici, prima che

giuridici – efficacemente compendiati nel concetto di “accountability” politica.

Quanto al secondo profilo, pare incontrovertibile che il divieto di mandato imperativo sia

indissolubilmente connesso ad altre disposizioni costituzionali dalle quali emerge una chiara opzione

sistematica, da parte del Costituente italiano, per un modello di democrazia rappresentativa in cui – in

ragione della necessaria intermediazione dei partiti – non può esservi spazio per la evocata “responsabilità

personale”: dall’art. 1 Cost. (cfr. «la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti

della Costituzione») all’art. 49 Cost. (n.b. sulla “centralità” dei partiti nella determinazione della «politica

nazionale»); fino all’art. 139 Cost., ai sensi del quale «la forma repubblicana non può essere oggetto di

revisione costituzionale».

In tal senso, dunque, il ricorso al procedimento ex art. 138 Cost. per emendare l’art. 67 Cost. pare

formalmente inibito; né convincente appare il richiamo ad altri modelli – anche europei17 – in mancanza

16 Per esempio, il Bill 36 della British Columbia del 1994; nonché l’attuale condizione di alcuni Stati federati degli USA (i.e. Alaska, Arizona, California, Colorado, Idaho, Nevada, Kansas, etc.). Sul punto si rinvia alla lettura di P. RONCHI, Una forma di democrazia diretta: l’esperienza del recall negli Stati Uniti d’America, in Quaderni dell’Osservatorio Elettorale, n. 61/2009, p. 99-129, ed al ricco corredo bibliografico ivi contenuto. 17 Di recente cfr. A. MORELLI, Mandato parlamentare alla portoghese? Il “contratto di governo” non è chiaro, in lacostituzione.info, in cui si riferisce della Costituzione portoghese del 1976 in cui è prevista «una anti-defection clause all’art. 160, comma 1, il quale stabilisce che i deputati perdono il seggio, tra le altre cause, qualora s’iscrivano a un partito diverso da quello per il quale si sono presentati alle elezioni […] qualora essi vengano a trovarsi in situazioni d’incapacità o incompatibilità previste dalla legge, se non frequentano l’Assemblea o superano il numero di assenze previste dal Regolamento e qualora siano condannati in giudizio per determinati delitti»; ed in cui l’Autore – inquadrando la superiore clausola nel contesto ordinamentale portoghese – opportunamente osserva che «non è vero che in Portogallo è previsto un vincolo di mandato per i parlamentari» considerato che l’art. 152,

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della correlativa introduzione di adeguati meccanismi di checks&balances rispetto ai quali, però, la

questione non sarebbe più riducibile ad una revisione costituzionale puntuale – o “chirurgica” – bensì

assumerebbe i connotati di una revisione di ordine davvero sistematico, che – si ritiene – è invero in

aperto contrasto con la tradizione giuridica che ha ispirato la stesura della intelaiatura istituzionale della

Costituzione repubblicana.

5. Conclusioni: le risposte.

Riepilogando, infine, le superiori questioni problematiche e le correlative risposte: la ipotizzata

“giustiziabilità” dell’art. 67 Cost. pare indissolubilmente legata, da un lato, al valore di “principio

fondamentale” del medesimo che – pertanto – innerva l’intero ordinamento costituzionale, pur in

mancanza di un esplicito rimedio giurisdizionale o para-giurisdizionale; d’altro lato, alla ipotizzabilità –

ovvero, alla concreta possibilità – di introdurre una modifica nei Regolamenti parlamentari,

espressamente finalizzata a colmare una “zona d’ombra” della giustizia costituzionale; sicché i due profili

– quello inerente al controllo sugli Statuti dei Gruppi parlamentari e quello inerente alla formalizzazione

del medesimo nei Regolamenti parlamentari – finiscono inevitabilmente per sovrapporsi e condurre ad

una, identica, suggestione: la introduzione di una disposizione regolamentare che disciplini – in modo

espresso – il suddetto potere di controllo. Ed è ugualmente intercettata dalle superiori considerazioni

anche quella, ulteriore, sulla abrogazione del divieto del vincolo di mandato: se tale disposizione deve

infatti intendersi, ut supra, alla stregua di un principio fondamentale – vieppiù ritenuta la sua correlazione

sistematica con altre, ed altrettanto fondamentali, disposizioni costituzionali (i.e. artt. 1, 49 e 139 Cost.) –

allora la ineludibile conclusione è che la stessa sia sottratta al procedimento di revisione costituzionale, e

che il suo ipotetico emendamento dovrebbe invece comportare una sostanziale trasformazione

dell’ordinamento repubblicano tout court.

comma 2 «stabilisce che “i deputati rappresentano tutto il Paese e non le circoscrizioni nelle quali sono stati eletti”, mentre l’art. 155, comma 1, prevede che gli stessi deputati “esercitano liberamente il proprio mandato”»; e che, pertanto, «misure come quella portoghese sono compatibili con il divieto di mandato imperativo (previsto, com’è noto, anche dall’art. 67 della Costituzione italiana […])». Così esplicitamente criticando il punto 19 del c.d. “contratto di governo” in cui – rinviando appunto al suddetto art. 160, co. 1, della Costituzione portoghese – si sostiene che sia «necessario introdurre espressamente il “vincolo di mandato popolare” per i parlamentari, per rimediare al sempre più crescente fenomeno del trasformismo. Del resto, altri ordinamenti, anche europei, prevedono il vincolo di mandato per i parlamentari».

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di Giorgio Grasso

Professore associato di Istituzioni di diritto pubblico Università degli Studi dell’Insubria

Qualche riflessione su statuti e regolamenti dei Gruppi parlamentari,

tra articolo 49 e articolo 67 della Costituzione

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Qualche riflessione su statuti e regolamenti dei Gruppi parlamentari, tra articolo 49 e articolo 67 della Costituzione *

di Giorgio Grasso

Professore associato di Istituzioni di diritto pubblico Università degli Studi dell’Insubria

Dopo aver rivolto i miei più sinceri ringraziamenti all’onorevole Riccardo Magi per l’invito a questa

Tavola rotonda, vorrei partire nelle mie brevi osservazioni dal titolo del nostro incontro, rivolto appunto

a studiare gli statuti dei gruppi parlamentari in rapporto all’articolo 67 della Costituzione, sul divieto di

mandato imperativo.

In proposito, mi pare che, negli interventi precedenti, ci si sia soffermati soltanto sul recente statuto

adottato dal gruppo parlamentare del MoVimento 5 Stelle, con la sua contestata previsione di una

inammissibile sanzione economica, a titolo di penale, verso il deputato che lascia il gruppo parlamentare

perché espulso, o per abbandono volontario ovvero per dimissioni determinate da dissenso politico.

Tuttavia, forse, si deve provare a compiere anche qualche rapida considerazione sugli statuti e/o i

regolamenti degli altri gruppi parlamentari, secondo la denominazione assunta da questi atti nelle due

Camere, guardando in particolare alla disciplina sanzionatoria nei confronti degli appartenenti ai singoli

gruppi parlamentari, che è un po’ l’argomento da cui è partita tutta la vicenda su cui stiamo oggi

discutendo insieme.

L'onorevole Magi ci ha fornito un’utilissima “scaletta” di questioni e di domande su cui ragionare; su di

esse i colleghi che mi hanno preceduto hanno in parte già risposto: ora tocca a me fornire una prospettiva

e qualche soluzione interpretativa.

Mi pare che dentro i temi di riflessione suggeriti nel testo della lettera di invito manchi completamente

l’articolo 49 della Costituzione, quello che riguarda la disciplina costituzionale dei partiti politici, su cui

sono intervenuti tra gli altri anche Roberta Calvano e Gianmario Demuro; se non ci si rivolge anche a

questa disposizione costituzionale, mi pare che sia molto difficile poter cogliere completamente il

significato di quell’orientamento molto netto che il MoVimento 5 Stelle ha manifestato sin dall'inizio della

sua storia politica, con ciò riferendomi, ovviamente, all’aperta contestazione del principio costituzionale

del divieto di mandato imperativo dell’articolo 67. E forse, a sistema, accanto agli articoli 49 e 67 andrebbe

collocato anche l’articolo 54, nel punto in cui afferma il dovere, per i cittadini cui sono affidate funzioni

* Intervento alla Tavola rotonda “Gli statuti dei gruppi parlamentari alla prova dell’art. 67della Costituzione”, Roma, 16 maggio 2018.

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pubbliche, di adempierle con disciplina e onore, perché certamente i parlamentari, tutelati dall’articolo 67

(e da altre note disposizioni costituzionali), nel momento in cui esercitano le funzioni che la Costituzione

loro assegna sono tenuti anch’essi a un rispetto rigoroso dell’articolo 54 (una traccia è anche nell’articolo

2, comma 5, dello statuto del gruppo parlamentare del MoVimento 5 Stelle).

Il tema del nostro incontro non è solo italiano. Cesare Pinelli ricordava, non a caso, Gerhard Leibholz:

quest’ultimo, Ernst Forsthoff e Konrad Hesse sono stati in Germania tra i protagonisti di un dibattito

molto ricco riguardante i rapporti tra l’articolo 21 del Grundgesetz sui partiti politici e il successivo articolo

38 relativo al divieto del mandato imperativo.

Un dibattito, che accanto alla dottrina ha coinvolto anche la giurisprudenza del Tribunale costituzionale

federale, e che ha finito per mettere al centro quel profilo della democrazia interna dei partiti politici, di

cui i gruppi parlamentari sono tendenzialmente proiezione nelle aule parlamentari, su cui oggi ha insistito,

per esempio, particolarmente Roberta Calvano.

Dicevo che credo che non si possano tenere separati l’articolo 49 dall’articolo 67 del testo costituzionale,

sulla base di un intreccio molto stretto tra le due disposizioni, che mi porterà peraltro a sostenere

conclusioni in parte diverse, da quelle che ci ha fornito poco fa, su tutti, Gianmario Demuro.

La premessa è allora che in Italia non esiste ancora una buona legge sui partiti; neppure sono convinto

che quelli presenti nel panorama politico del nostro Paese siano davvero tutti partiti democratici, come

pure sosteneva qualcuno prima di me. Così, poiché non abbiamo una (buona) legge sui partiti, chiediamo

che siano le regole interne dei gruppi parlamentari, chiamate talora statuti, talora regolamenti, a

conformarsi e a rispondere a tutta una serie di principi e di valori “forti” del testo costituzionale. Ma c’è

un legame, non solo fattuale, tra partiti e gruppi parlamentari: la riforma che è stata approvata

recentemente da parte del Regolamento del Senato ne è un esempio, laddove ha escogitato come

soluzione per bloccare quel cambio continuo di “casacca” dei parlamentari, dall’uno all’altro gruppo

parlamentare, e soprattutto per impedire la costituzione di effimeri gruppi parlamentari, dai nomi più

fantasiosi, come ha scritto Salvatore Curreri, l’obbligo della necessaria corrispondenza tra i gruppi

parlamentari medesimi e quei partiti politici che si erano presentati nel momento della competizione

elettorale e che hanno ottenuto la rappresentanza in Parlamento.

Quella riforma, indubbiamente, dà più forza all’articolo 49 che all’articolo 67, quasi a indicare una spinta

verso una sorta di partitizzazione dei gruppi parlamentari medesimi. L’intensità di quel legame può

contribuire a ricostruire anche la struttura complessiva dei regolamenti e degli statuti dei diversi gruppi

parlamentari.

In tale contesto, è ovvio che una disposizione come quella dell’articolo 21, comma 5, dello statuto del

gruppo parlamentare del MoVimento 5 Stelle, alla Camera dei deputati, che impone una sanzione

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pecuniaria di 100 mila Euro, per i deputati che lasciano il gruppo, o sono espulsi dal gruppo o si dimettono

per un dissenso di natura politica, come è già stato ricordato, è nulla e inefficace al tempo stesso, per la

sua incompatibilità con fonti di grado superiore, a partire dalla Costituzione e dal regolamento della

Camera dei deputati. É anche una disposizione che esula da tutte quelle suggestioni comparatistiche che

talora ambiscono a vincolare il mandato, citandosi il caso portoghese, della Costituzione del 1976, e

ancora prima alcune risalenti esperienze, successive alla Prima Guerra Mondiale, a partire dalla legge

elettorale del 1920 di applicazione della Costituzione cecoslovacca che stabiliva la decadenza dal mandato

parlamentare dei deputati che durante la legislatura lasciassero il partito politico nelle cui fila erano stati

eletti, per poi citare analoghe disposizioni nella legge elettorale del Land tedesco del Württemberg del

1924 o del Land austriaco del Tirolo del 1933.

Del resto per il MoVimento 5 Stelle aver prefigurato una disposizione come quella, oggetto della nostra

discussione, non è del tutto storia nuova, perché esisteva già all'interno del codice di comportamento per

gli eletti al Parlamento europeo del 2014 una norma che, a garantire l’obbligo di dimissioni per il

parlamentare europeo condannato per un reato penale o ritenuto inadempiente al codice di

comportamento o all’impegno al rispetto delle sue regole, assunto presentando la candidatura nei

confronti degli iscritti al MoVimento 5 Stelle, imponeva il pagamento di una sanzione di 250 mila Euro

(150 mila Euro, nel codice di comportamento per le elezioni amministrative a Roma del 2016).

Tuttavia, al di fuori di un’ipotesi come questa, vorrei ribadirlo del tutto giuridicamente inefficace, e

guardando invece al sistema sanzionatorio complessivo, disegnato nell’articolo 21 dello statuto del

gruppo parlamentare del MoVimento 5 Stelle, ci si deve interrogare se esso non rappresenti forse,

attraverso l’estremo dettaglio delle cause di sanzione, un primo tentativo di assicurare una qualche

maggiore responsabilizzazione dei parlamentari.

Non si tratta, evidentemente, soltanto di colpire colui che rappresentasse in Parlamento la Nazione in

modo immeritevole, per il quale si potrebbe anche prefigurare una qualche forma di revoca dal mandato

parlamentare; ma piuttosto di costruire, nella cornice di un fascio di sanzioni potenzialmente irrogabili,

un meccanismo che, nel pieno rispetto della democrazia interna, assicuri poi una coerenza del

parlamentare, rispetto alla linea politica del gruppo parlamentare, decisa democraticamente.

Manifestazione del dissenso, quindi, ma anche una volta che il dissenso è stato liberamente espresso

individuazione di una formula che garantisca l’unitarietà della linea politica. Nel 1958, Konrad Hesse

addirittura sosteneva che, all’interno delle formazioni partitiche, la libertà di informazione è assoluta,

mentre la libertà di opinione deve essere garantita, soltanto sino a quando non sia stata adottata una

decisione in merito alla questione discussa.

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Ritengo allora che alcune delle cause che possono determinare l’irrogazione di sanzioni, dal richiamo, alla

sospensione temporanea, sino all’espulsione dal gruppo parlamentare, che si possono leggere proprio

nell’articolo 21 dello statuto del gruppo parlamentare del MoVimento 5 Stelle, possano offrire un primo

contributo sul tema, con una impostazione che non sembra affatto generica, come qualcuno pure oggi

ha sostenuto, anche perché non mi pare che ci sia nulla di particolarmente interessante o di maggiore

garanzia, per gli appartenenti al gruppo parlamentare, dentro agli statuti e ai regolamenti degli altri gruppi

parlamentari della presente legislatura, non tutti ancora pubblicati sui siti internet delle rispettive Camere,

dove ci si limita a colpire le assenze ingiustificate o reiterate, piuttosto che le violazioni, talora gravi, dello

statuto o del regolamento del gruppo parlamentare (spiccano, peraltro, nel regolamento del gruppo

parlamentare al Senato del Partito democratico il richiamo al rispetto del codice etico del partito e nel

regolamento, sempre al Senato, del gruppo parlamentare Lega-Salvini Premier la possibilità di adottare

sanzioni anche indipendentemente dalle gravi violazioni del regolamento o dalle reiterate assenze

ingiustificate).

Il tentativo, da parte dello statuto del gruppo parlamentare del MoVimento 5 Stelle, di predeterminare

un significativo elenco di cause, che possono portare all’adozione della sanzione, da parte del presidente

del gruppo medesimo, sentito il comitato direttivo, e che riguardano tutta una serie di comportamenti

che manifestano una difformità nei confronti di un responsabile esercizio della funzione parlamentare

(come le reiterate e ingiustificate assenze dai lavori della Camera o del gruppo o la slealtà e scorrettezza

nei confronti degli altri iscritti e eletti) o, soprattutto, che cercano di stringere le maglie dell’appartenenza

al gruppo e alla sua linea politica (come il mancato rispetto delle decisioni assunte dall’assemblea degli

iscritti con le votazioni in rete o l’adozione di comportamenti suscettibili di pregiudicare l’immagine o

l’azione politica del MoVimento 5 Stelle o di avvantaggiare altri partiti), non va accolto negativamente.

La stessa tripartizione dell’ultimo comma dell’articolo 25 dello statuto citato, che, disciplinando le

sanzioni più gravi, distingue tra espulsione, abbandono volontario o dimissioni determinate da dissenso

politico, oltre a evocare un fascio di distinzioni proprie del diritto comparato, se non si legasse

illegittimamente alla previsione della più volte ricordata sanzione pecuniaria, potrebbe rappresentare un

modo per orientare il comportamento del deputato, consapevole sino in fondo delle conseguenze dei

comportamenti che possono violare lo statuto del gruppo parlamentare o il codice etico del partito,

allegato al primo.

Che cosa posso ancora aggiungere, per avviarmi a concludere?

Vorrei ricordare che come ci ha insegnato molto bene Nicolò Zanon l’articolo 67 della Costituzione

certamente garantisce il diritto di esercitare liberamente il mandato parlamentare, ma allo stesso tempo

richiede anche il dovere di esercitare effettivamente quel mandato, in modo conforme alla pretesa della

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citata disposizione costituzionale. E’ anche per tale ragione che, all’inizio del mio intervento, ho citato

l’articolo 54 e il dovere di adempiere le funzioni parlamentari con disciplina e onore.

Rispetto alla “scaletta” della lettera di invito, devo allora provare a rispondere alla sollecitazione finale,

riguardante la possibilità di ammettere o meno una revisione costituzionale dell’articolo 67, secondo una

linea di pensiero su cui è già intervenuto prima di me Roberto Di Maria.

Forse si potrebbe immaginare, senza uno sconvolgimento del collegamento esistente tra l’articolo 67,

l’articolo 49 e l’articolo 1 della Costituzione, di innestare qualche ipotesi di revoca del mandato

parlamentare, ovviamente non da parte del partito politico di appartenenza, ma da parte del corpo

elettorale, all’interno del collegio o della circoscrizione che ha eletto il parlamentare. Sempre il

MoVimento 5 Stelle aveva ideato, per esempio, in occasione delle elezioni per il Parlamento europeo del

2014, la possibilità di prevedere un recall, da parte di un certo numero di iscritti alla formazione politica,

per il deputato europeo ritenuto gravemente inadempiente al codice di comportamento e all’impegno al

rispetto delle regole del codice, assunto accettando la candidatura per il MoVimento 5 Stelle. Soluzione

insoddisfacente, perché non è ovviamente accettabile la revoca di un deputato del Parlamento europeo,

se lo decidono poche centinaia di iscritti, utilizzando una piattaforma telematica, sulla cui gestione vi è

molta opacità, quando quei deputati sono stati eletti in circoscrizioni enormi, come sono le circoscrizioni

per l’elezione dei rappresentanti italiani al Parlamento europeo. Ma soluzione che, sul crinale dei problemi

che pone la revoca parlamentare, senza entrare necessariamente in contrapposizione con un assetto di

governo fondato sulla democrazia rappresentativa, potrebbe essere perseguita al fine di far valere

maggiormente, accanto alla libertà del mandato, anche la doverosità (e la responsabilità) del suo esercizio.

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di Paola Marsocci

Professore associato di Diritto costituzionale Sapienza – Università di Roma

Lo status dei parlamentari osservato con la lente della disciplina interna dei gruppi. Gli argini (necessari) a difesa

dell’art. 67

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Lo status dei parlamentari osservato con la lente della disciplina interna dei gruppi.

Gli argini (necessari) a difesa dell’art. 67*

di Paola Marsocci Professore associato di Diritto costituzionale

Sapienza – Università di Roma

Condivido, di base, la forte preoccupazione per i molteplici segni dell’indebolimento (altrettanto forte)

della cultura costituzionale nel nostro Paese espressa sia nella lettera di invito a questa tavola rotonda

inviata dall’on. Riccardo Magi, sia negli interventi dei colleghi che abbiamo appena ascoltato.

E' noto che entrambi i Regolamenti parlamenti disciplinano la struttura dei Gruppi all'insegna di un

minimalismo che tradisce la prudenza nel non affrontare e magari contribuire a risolvere l’antica querelle

circa la loro natura giuridica1 (ancora oggi c’è in dottrina chi sostiene ognuna di queste tre diverse

soluzioni: natura privatistica, pubblicistica e mista).

In risposta al discredito generato dalla diffusione delle notizie sui fatti e sulle condotte, anche

penalalmente rilevanti, relative alla gestione finanziaria di alcuni Gruppi, con le riforme dei Regolamenti

delle Camere del 2012 e, di nuovo, del Senato del 20172 sembra che si sia scelta una soluzione di

“compromesso”.

Oggi tale prudenza degli estensori dei regolamenti parlamentari continua ad apparire almeno

comprensibile, tanto è complesso il sistema su cui retroagiscono le disposizioni che riguardano i Gruppi.

Innanzitutto la legge elettorale: quando il sistema era sostanzialmente maggioritario e favoriva la

bipolarizzazione degli schieramenti politici, si è, ad esempio, cercato di spingere l’interpretazione dell’art.

72 Cost. (principio di proporzionale rappresentanza in seno ai collegi parlamentari) nel senso di garantire

il necessario predominio numerico delle maggioranze3 nel controllo di ciascuna Commissione

parlamentare e, con esso, di offrire un aiuto alla stabilità del governo; oggi le cose sono molto cambiate.

* Intervento alla Tavola rotonda “Gli statuti dei gruppi parlamentari alla prova dell’art. 67della Costituzione”, Roma, 16 maggio 2018. 1 D. Piccione, I Gruppi parlamentari alla prova delle (auto)riforme regolamentari, in RivistaAIC, n. 2/2012; 3. 2 Sul punto, recentemente, N. Lupo, Funzioni, organizzazione e procedimenti parlamentari: quali spazi per una riforma (coordinata) dei regolamenti parlamentari?, in Federalismi.it, n. 1/2018, spec. 21 ss., che mette in evidenza le asimmetrie che il mancato coordinamento delle regole procedurali dei due rami del Parlamento produce proprio e soprattutto sulla disciplina dei Gruppi. 3 E. Catelani, Manutenzione dei regolamenti parlamentari come strumenti di inizio di una mediazione politica, in Costituzionalismo.it, n. 2/2017, 23 ss.

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Cosa accadrà vigente l’attuale sistema elettorale o anche con la sua possible ed ausicabile ulteriore

modifica? Quale tipo di corrispondenza tra gruppi e forze politiche che si sono presentate alle elezioni

sarà giudicata strategicamente più efficace?

Ai Gruppi parlamentari nessuno contesta ampia autonomia normativa e di organizzazione, politica e

amministrativa. Così come, tutti rilevano che (finalmente) oggi li si è fatti uscire dalla opacità che in parte

caratterizzava appunto il loro modello organizzativo. I Gruppi sono ora obbligati a portare alla luce

esistenza e contenuto dei rispettivi statuti (così li chiama la Camera) e regolamenti (così, invece, il Senato).

In un volume coordinato da Stefano Merlini nel 20044, avevo tentato un’analisi comparativa dei

regolamenti dei Gruppi (allora) presenti alla Camera dei Deputati e la prima evidenza scientifica fu il

carattere non pubblico di quegli atti.

Nessuna pubblicazione ufficiale imputabile al Parlamento ne conteneva traccia e solo in un caso (quello

dell’UdC) la diffusione era avvenuta direttamente, attraverso il sito internet del partito. A fronte di una

mia richiesta esplicita inviata agli uffici di ciascun Gruppo, ero riuscita ad ottenere alcuni regolamenti: in

pochi casi i Gruppi erano stati disposti a fornire i testi (Democratici di sinistra-l’Ulivo e Rifondazione

comunista); più spesso al documento (ufficialmente coperto da segreto) ero arrivata “per vie traverse”

(Alleanza nazionale e della Margherita) o non ero arrivata affatto, ricevendo un cortese ma fermo diniego

all’accesso (Lega Nord Padania), oppure risposte vaghe che non permisero neanche di avere prova

dell’esistenza del regolamento (come nel caso di Forza Italia che dichiarò di avere come diretto

riferimento il Regolamento della Camera).

Quella sorta di “semiclandestinità” oggi è vietata dall’ordinamento giuridico, mentre si conferma

l’estremo interesse per lo studio di un tema che, apparentemente minuto, continua a stimolare riflessioni

sulla forma di governo e non solo. E, se oggi discutiamo di come e quanto alcuni di quei testi forzino la

lettera e lo spirito della Costituzione, rendendo «trasparente l’illegalità» – come abbiamo sentito

commentare in un precedente intervento questa mattina –, dobbiamo farlo con la consapevolezza di

avere anche noi l’onere di portare alla luce queste contraddizioni.

Personalmente sono tra coloro che ritengono che i Gruppi parlamentari (analogamente ai partiti politici)

siano associazioni senza personalità giuridica, come indica chiaramente la loro struttura. Il fatto che gli

associati (ossia i Parlamentari) svolgano una funzione pubblica non implica la natura pubblica della loro

associazione. Anche se operano all’interno delle Camere, i GP poi non fanno parte di esse in virtù di un

rapporto di immedesimazione organica, perché non curano gli interessi dell’istituzione, ma curano i

propri (che possono essere anche in conflitto con quelli delle Assemblee); non possono cioè essere

4 P. Marsocci, La disciplina interna dei gruppi parlamentari, in S. Merlini (a cura di), Rappresentanza politica, gruppi parlamentari, partiti: il contesto italiano, vol. 2, Torino, Giappichelli, 143 ss.

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considerati organi delle Camere, se non con significato atecnico. Infine, la presenza dei controlli sull’uso

del finanziamento erogato dalle Camere non basta a farli considerare neanche enti pubblici.

In quanto associazioni, si applica il codice civile (artt. 36, 37 e 38). Il fatto che siano attori fondamentali

del diritto parlamentare e sottoposti ai Regolamenti parlamentari e soggetti agli organi chiamati ad

applicarli (in particolare l’Ufficio o il Consiglio di Presidenza), non ne muta la natura giuridica.

Premesso questo, vorrei fare alcune brevi considerazioni riguardo all’ultima delle sollecitazioni che ci ha

inviato l’on. Magi, commentando parti dell’attuale statuto del Gruppo del M5S alla luce delle norme

costituzionali che riguardano lo stutus di parlamentare. Nella sua lettera osservava che: «non solo il

Movimento 5 Stelle, ma anche Forza Italia, Lega Nord e Fratelli d’Italia hanno affermato in campagna

elettorale di voler modificare l’articolo 67 della Costituzione, e proposte di legge in tal senso sono già

state presentate in passato; la differenza, oggi, è che una tale riforma costituzionale potrebbe essere

approvata a maggioranza dei due terzi di ciascuna Camera. Il quesito che allora si pone è se l’art. 67 sia

revisionabile o se il divieto di mandato imperativo rientri fra i "principi fondamentali e diritti inviolabili"

che la Corte cost. pone come limite allo stesso processo di revisione costituzionale».

Con esplicito riferimento ai Gruppi parlamentari, la nostra Carta dispone il già ricordato principio di

proporzionale rappresentanza in seno ai collegi parlamentari, su cui improntare la formazione delle

Commissioni permanenti e delle Commissioni di inchiesta (artt. 72 e 82 Cost.). Rispetto ai principi

fondamentali contenuti nei primi 12 articoli della Carta, tale principio si connette a quello di sovranità

popolare, espresso nelle forme e nei limiti della rappresentanza politica in una democrazia pluralista (art.

1 Cost.).

La vita dei Gruppi è, inoltre, ovviamente “condizionata” da tutti i principi che riguardano lo status di

parlamentare, in quanto propria componente soggettiva. Devono essere tenuti in massima considerazione

i principi contenuti nelle disposizioni degli articoli 68 e 69 Cost. E’ appena il caso di ricordare che ciascun

parlamentare può esercitare la propria funzione solo se pienamente garantito nell’esercizio dei diritti di

libertà individuali (parola, critica, segretezza della comunicazione personale, riunione, associazione ecc.).

Solo un esempio: non si potrebbe a mio avviso eliminare la indennità parlamentare ...

Così pure, deve essere tenuto in massima considerazione appunto il divieto di mandato imperativo (art.

67 Cost.), che – anche nella ipotesi non sia considerato “principio fondamentale” –, non si può non

ritenere corollario ineludibile all’art. 1. Da questo discende il divieto, tra gli altri, di imporre alcun vincolo

in capo al singolo parlamentare, per effetto di determinazioni assunte dalla propria forza politica di

appartenenza (così insegnavano i nostri maestri, ricordo per tutti, Livio Paladin). In altri termini, in quanto

associazioni, i Gruppi come I partiti o le altre formazioni politiche possono decidere le regole che

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stabiliscono i motivi di allontanamento di un proprio associato ed applicarle (e l’associato, ovviamente,

potrà in caso adire il giudice civile), ma senza alcuna conseguenza giuridica sul suo status di eletto.

Ciascun componente delle Camere, in base alla pura disciplina costituzionale ossia in base a norme

direttamente applicabili e ovviamente prevalenti, è libero di richiedere l’adesione ad ogni Gruppo

parlamentare già costituito nella propria Assemblea, così è sempre libero di uscirne senza che ne

discendano obblighi inerenti la carica parlamentare (molti richiamano in contrapposizione l'esempio del

recall di matrice anglosassone) o oneri giuridicamente coercibili quali il versamento di contributi

economici, la restituzione di somme di denaro a qualunque titolo percepite.

Credo sia oltremodo necessario difendere l’art. 67.

Tuttavia, anche se il divieto di mandato imperativo è operante pienamente come limite al legislatore e

come motivo di nullità civilistica dei negozi tra privati (ad esempio nel caso della previsione di «dimissioni

in bianco» o appunto di sanzioni pecuninarie in caso di comportamento in dissenso dal proprio gruppo

o partito), pragmaticamente questi spostamenti hanno conseguenze sull’organizzazione degli organi

camerali (Commissioni permanenti; organismi bicamerali; Uffici di presidenza) e dunque chiamano in

causa problemi da osservare non muovendo dal solo articolo 67 Cost. In questo senso, paradossalmente

gli statuti dei gruppi (come quello del M5S) che legano a doppio filo liste elettorali, partiti e gruppi

concorrono a dare attuazione all’art. 72 Cost5.

A preoccupare molto, in realtà, è la “filosofia” sottesa all’intero statuto del Gruppo M5S. In quel testo si

afferma in sostanza la piena dipendenza del gruppo rispetto al partito, fino ad assimilare il primo al

secondo.

E’ la prova della intenzione politica di negare alla radice l’effettività del principio del libero mandato

parlamentare. Tendenza che, generalizzata, emerge anche a mio avviso dalla cronaca della formazione del

nuovo governo, laddove si è reso evidente quanto in particolare i Gruppi – che proprio in queste

circostanze hanno un loro specifico peso – siano rimasti sullo sfondo, in secondo piano.

Sicuramente questo quadro basta e avanza per far giudicare ogni modifica della seconda parte della Carta,

che vada in senso opposto o anche solo indebolisca quegli assunti, rientrante nei casi di superamento dei

limiti alla revisione costituzionale, in termini di "principi fondamentali e diritti inviolabili" (come ribadito

dalla Corte cost. nella sentenza 1146/88).

5 A questo proposito, resta complicato dire una parola definitiva sul ruolo dei Presidenti di Assemblea circa un eventuale “sindacato” sulla compatibilità tra disciplina interna dei gruppi e regolamenti parlamentari (e Carta costituzionale), anche tenuto conto della recente pronuncia della Corte (sentenza n. 262 del 2017) relativamente al procedimento legislativo, «le eventuali violazioni di mere norme regolamentari e della prassi parlamentare [...] debbono trovare all’interno delle stesse Camere gli strumenti intesi a garantire il corretto svolgimento dei lavori, nonché il rispetto del diritto parlamentare, dei diritti delle minoranze e dei singoli componenti».

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Invocare l’intervento della Corte come rimedio estremo è possible, ma molto più realisticamente occorre

ricordare che l’argine resta l’art. 138, ossia la procedura aggravata (se non la si travolge con deroghe ed

anomalie procedurali come è successo, in particolare, nell’ultima occasione), unita al vaglio delicato del

Presidente della Repubblica in sede di promulgazione, soprattutto laddove non fosse possible ricorrere

al referendum popolare oppositivo (e molto bene fa Riccardo Magi a ricordare che nell’attuale Parlamento

si potrebbero aggregare maggioranze tali da decidere da sole, superando I due terzi, la revisione

costituzionale).

Ci sarebbe poi un altro argine: quello della responsabilità politico-istituzionale (in termini che chiamerei

di etica democratica) dei partiti. Il passato recente e la strtta attualità hanno dimostrato quanto, riguardo

al sistema dei partiti nel suo complesso, nessuna speranza o conforto siano all’orizzonte, al momento!

A preoccupare sono il linguaggio e le azioni che oggi senza infingimenti portano troppe forze politiche a

sostenere, senza nessun timore di essere contrastate (almeno dialetticamente), una sorta di privatizzazione

delle dinamiche non solo politiche, ma costituzionali. Mi riferisco all’uso della espressione “contratto di

governo” ampiamente ripresa ed enfatizzata, ma anche alle cose di cui qui stiamo discutendo: l’uso della

regolamentazione interna di Gruppi e partiti a mo’ di negozio tra privati, con tanto, appunto, di clausole

vessatorie o ricorso a collegi arbitrali.

La battaglia riguarda, torno a dire, la riaffermazione della cultura del costituzionalismo democratico e va

proseguita, se mi è consentito, sul piano dello smascheramento delle incongruenze e contraddizioni tra

comportamenti politici (e di etica o pedagogia politica) e lettera e spirito della Costituzione. E quindi

battaglia rispetto alla quale ciascuna istituzione pubblica dovrebbe porsi in prima linea. E’ battaglia nostra,

come docenti e studiosi e lo è del sistema della informazione giornalistica, che – anche al tempo dei social

network – ha un suo ruolo (responsabilità) enorme in democrazia.

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di Claudio Martinelli

Professore associato di Diritto pubblico comparato Università degli Studi di Milano Bicocca

Libero mandato e rappresentanza nazionale come fondamenti della

modernità costituzionale

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Libero mandato e rappresentanza nazionale come fondamenti della modernità costituzionale*

di Claudio Martinelli

Professore associato di Diritto pubblico comparato Università degli Studi di Milano Bicocca

Sommario: 1. L’articolo 67 della Costituzione come principio fondamentale del costituzionalismo. 2. Libero mandato e partiti politici 3. Natura giuridica di Statuti e Regolamenti dei Gruppi parlamentari. 4. Il contrasto con la Costituzione e con i Regolamenti parlamentari. 5. Il ruolo del Presidente della Camera e della Giunta per il Regolamento.

1. L’articolo 67 della Costituzione come principio fondamentale del costituzionalismo

Ringrazio gli organizzatori per l’invito a partecipare a questa preziosa occasione di confronto su un tema

di particolare rilievo giuridico e interesse politico. Credo sia un compito specifico degli studiosi di materie

costituzionalistiche riflettere sugli aspetti cruciali della vita istituzionale e contribuire a chiarirne gli

eventuali nodi, soprattutto quelli più intricati e controversi che impattano sul mondo politico.

E allora, mi permetto di invertire l’ordine di presentazione dei punti in questione impostato dall’On. Magi

per iniziare le mie riflessioni dal tema fondamentale, e cioè dal valore giuridico dell’articolo 67 della

Costituzione, dalla cui rilevanza farò discendere a cascata considerazioni più specifiche sui problemi di

diritto parlamentare proposti.

In quest’ottica, vorrei sottolineare subito e prima di qualunque altro concetto che il cuore delle questioni

che stiamo affrontando si colloca nella centralità del rapporto tra libero mandato parlamentare e

rappresentanza nazionale. Ovvero, credo importante ribadire con forza che i due istituti contemplati nella

norma costituzionale debbono essere letti in modo coordinato perché è proprio dalla loro relazione

biunivoca che si genera il carattere imprescindibile del principio costituzionale di cui stiamo trattando. Il

libero mandato, cioè, non deve essere visto solo come un diritto individuale di chi occupa uno scranno

parlamentare ma come la necessaria conseguenza di un cambio di paradigma: dalla rappresentanza cetuale

alla rappresentanza nazionale. Il rapporto tra libero mandato e rappresentanza nazionale è un

insostituibile spartiacque della modernità costituzionale e pertanto risulta evidente come l’eventuale

introduzione di limiti costituzionali all’esercizio del libero mandato parlamentare metterebbe in

discussione anche il principio della rappresentanza nazionale.

* Intervento alla Tavola rotonda “Gli statuti dei gruppi parlamentari alla prova dell’art. 67della Costituzione”, Roma, 16 maggio 2018.

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Siamo di fronte ad un principio cardine dell’ordinamento costituzionale, tale da collocarsi nel novero dei

“principi supremi dell’ordinamento costituzionale” di cui parla la Corte costituzionale, per esempio nella

celebre sentenza n. 1146 del 1988. Una centralità ordinamentale che porta a considerare come prive di

fondamento giuridico le ventilate proposte di ritorno a forme di mandato imperativo, sia immaginando

vincoli verso gli elettori, sia verso i partiti di appartenenza.

2. Libero mandato e partiti politici

Proposte che purtroppo hanno fatto il loro ingresso nei programmi elettorali di alcune forze politiche e

nel cosiddetto “Contratto per il governo del cambiamento” stipulato tra Lega e Movimento 5 Stelle. In

quest’ultimo caso appare del tutto improprio il riferimento ad ordinamenti stranieri che conterrebbero

soluzioni di questo tipo. In particolare, appare discutibile l’evocazione dell’esperienza portoghese con il

richiamo all’art. 160 della Costituzione, secondo cui, al 1° comma, il deputato perde il seggio se si iscrive

ad un partito diverso da quello per cui si era presentato alle elezioni. Infatti, la dottrina ha spiegato più

volte (da ultimo, A. Morelli, Sovranità popolare e rappresentanza politica tra dicotomia e dialettica, in Diritto

costituzionale. Rivista quadrimestrale, n. 1/2018, pp. 118-121) che per coglierne gli esatti contorni è necessario

valutare quella previsione nel complesso contesto costituzionale in cui si colloca e che una lettura

combinata di tutte le norme coinvolte nel tema, da una parte, segnala una specificità portoghese che

abbraccia anche altri istituti e, dall’altra, non configura affatto l’introduzione di limiti al vincolo di

mandato ma è invece figlia di una concezione diversa, rispetto al caso italiano, del ruolo costituzionale

dei partiti politici nella società e nelle istituzioni parlamentari.

Naturalmente, nelle riflessioni sull’attualità del libero mandato non possiamo trascurare il dato

storicamente inoppugnabile secondo cui il principio si andò affermando sul finire del Diciottesimo

secolo, ossia in una fase del costituzionalismo in cui non esistevano ancora i partiti come li avremmo

conosciuti solo nel Ventesimo, ovvero soggetti politici organizzati e protagonisti della vita istituzionale.

E non vi è dubbio che l’irrompere sulla scena dei partiti novecenteschi nel quadro dell’affermazione delle

democrazie di massa ha modificato alcuni paradigmi del rapporto tra elettore ed eletto.

Cionondimeno, tutte le Costituzioni contemporanee hanno conservato questo principio proprio perché

coessenziale alle dinamiche costituzionali e perché la sua negazione comporterebbe il ritorno a forme di

rappresentanza premoderna di matrice feudale. Fu proprio per uscire dai paradigmi di quel mondo che

nei dibattiti Settecenteschi, interni, da una parte, alla cultura britannica e, dall’altra, alla Rivoluzione

francese, prevalsero i fautori della nuova concezione. I concetti espressi dai grandi teorici della

rappresentanza nazionale, da perseguire attraverso il libero mandato parlamentare, come Edmund Burke

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ed Emmanuel Sieyès, hanno definito in quel trono di tempo i contorni della modernità costituzionale, di

cui ancora oggi ci gioviamo.

Ovviamente tutte queste considerazioni non impediscono agli ordinamenti di porre in essere norme di

natura regolamentare che mirino a razionalizzare il rapporto tra singolo parlamentare e Gruppo di

appartenenza, come per esempio ha appena fatto il Senato con la modifica approvata sul finire della

scorsa legislatura. Ma interventi riformatori che si spingessero oltre, per esempio prevedendo l’automatica

decadenza dalla carica per il parlamentare che decidesse di abbandonare il proprio Gruppo per insanabili

contrasti politici, risulterebbero in palese contrasto con la norma costituzionale.

3. Natura giuridica di Statuti e Regolamenti dei Gruppi parlamentari

Su questo composito e delicato quadro, fatto di grandi principi costituzionali che identificano la storia

del costituzionalismo, si inseriscono ora alcune peculiari norme contenute nello Statuto di un Gruppo

parlamentare, il più numeroso della XVIII legislatura repubblicana, che pongono il tema di un potenziale

contrasto con quel quadro di riferimento. Ma questo caso, che certamente presenta spunti di singolarità

che analizzeremo, non costituisce un evento assolutamente isolato, tale da indurre a ritenerlo una

trascurabile eccezione. In realtà, il tema della sostanziale corrispondenza tra norme dei regolamenti

parlamentari generali e norme statutarie si sono poste anche in passato, soprattutto in tema di limitazioni

dei diritti del singolo nella sua attività parlamentare, anche se in termini molto meno espliciti e clamorosi.

Dunque, appare doveroso proporre qualche considerazione sulla natura giuridica di questi atti. Ma

innanzitutto, qualche interrogativo. Infatti, sappiamo come in dottrina non vi sia identità di vedute sul

punto, in particolare sulla natura privatistica o pubblicistica di questi atti, denominati Statuti dal

Regolamento della Camera e Regolamenti da quello del Senato. Come rilevano Luigi Gianniti e Nicola

Lupo (L. Gianniti, N. Lupo, Corso di diritto parlamentare, il Mulino, Bologna, seconda edizione, 2013, p.

58), la «qualificazione di tali atti come fonti del diritto parlamentare appare tutt’altro che pacifica,

dipendendo strettamente dalla scelta di campo operata dai diversi autori circa la natura giuridica dei gruppi

parlamentari […]: se si propende per la lettura dei gruppi come associazioni tra privati o come organi dei

partiti politici, è ben difficile qualificare come fonti del diritto, anche in senso lato, i relativi regolamenti;

se invece si opta per considerare i gruppi come organi delle Camere, è arduo sostenere che le regole che

si danno, e che spesso limitano anche molto incisivamente i diritti attribuiti al singolo parlamentare dalla

Costituzione, dal regolamento parlamentare e dalla legge (si pensi alla limitazione del diritto di iniziativa

legislativa, di quello di presentare emendamenti, del diritto di prendere la parola, ma anche alla

decurtazione delle indennità), siano giuridicamente del tutto irrilevanti, almeno nell’ambito

dell’ordinamento delle due Camere».

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Preferisco evitare di entrare in questa diatriba con un ragionamento in astratto. Mi permetto, però, di

rilevare come uno dei principali elementi di discontinuità tra il costituzionalismo liberale e il

costituzionalismo democratico, nella storia costituzionale italiana ancor più che in quella di altri Paesi

europei, consiste proprio nel passaggio da un Parlamento di notabili ad un Parlamento di partiti e nella

conseguente trasformazione del diritto parlamentare da ordinamento a valenza esclusivamente interna a

parte integrante dell’ordinamento generale dello Stato. Una cesura che si riflette perfettamente nei lavori

di grandi Maestri del diritto costituzionale e parlamentare; tra gli altri, si pensi, da una parte, a Santi

Romano (p. es.: Sulla natura dei regolamenti delle Camere parlamentari, in Archivio giuridico, 1906, ora in S.

Romano, Scritti minori. I. Diritto costituzionale, Giuffrè, Milano 1950, pp. 213 e ss.) e, dall’altra, a Temistocle

Martines (Sulla natura giuridica dei regolamenti parlamentari, Tipografia del Libro, Pavia 1952). Trasformazioni

che hanno segnato passaggi epocali e che hanno portato la grande maggioranza della dottrina ad

annoverare i Regolamenti parlamentari tra le fonti generali del diritto.

In questo contesto concettuale e normativo ritengo che, soprattutto dopo la riforma del 1971 che ha

posto esplicitamente il soggetto “Gruppo parlamentare” al centro dell’attività delle due Camere, sia molto

difficile negare la dimensione pubblicistica delle norme che ne disciplinano le dinamiche interne,

trattandole ancora come una sorta di “disciplinare” da applicare ai soci di un club esclusivo.

4. Il contrasto con la Costituzione e con i Regolamenti parlamentari

Ma perfino prescindendo da questi approdi quanto alla natura giuridica, il fatto in sé che ai Gruppi siano

attribuite funzioni rilevantissime della vita parlamentare basta a escludere che questo soggetto possa

dotarsi di norme in contrasto sia con la Costituzione sia con i Regolamenti parlamentari, pena la

certificazione di un vulnus, in generale, alla coerenza dell’ordinamento e, in particolare, alla necessaria

armonia tra principi costituzionali e concreto espletamento delle funzioni parlamentari.

Nel caso in esame, la norma di cui maggiormente si discute (ossia, l’art. 21, c. 5 dello Statuto del Gruppo

M5S della Camera, che trova riscontro anche nell’analogo Regolamento del Gruppo del Senato) consiste

nella previsione della sanzione di un obbligo a pagare, a titolo di penale, 100.000 euro in caso di

abbandono o espulsione dal Gruppo. Si badi: pagare al Movimento 5 Stelle, cioè al partito politico,

nemmeno al Gruppo parlamentare. Una costatazione che esclude qualunque ipotetica argomentazione a

sostegno della norma che eventualmente si fondasse su un supposto risarcimento a favore del Gruppo

per la riduzione pro-quota dei finanziamenti al Gruppo stesso che, come sappiamo, sono parametrati alla

sua consistenza numerica.

Nella norma in oggetto il palese contrasto con l’articolo 67 della Costituzione si sostanzia

nell’introduzione di un condizionamento posto in essere sul libero dispiegarsi della volontà politica del

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singolo parlamentare nella conduzione della propria attività. E non basta evocare la plausibile contrarietà

di qualunque giudice di merito a rendere esigibile tale somma poiché gli effetti perniciosi di tale norma

rispetto ai dettami costituzionali si dispiegherebbero in modo strisciante e implicito; ovvero, se la norma

non arrivasse mai di fronte ad un tribunale non vorrebbe dire che non ha prodotto effetti, bensì, al

contrario, che il potenziale condizionamento sul singolo parlamentare è risultato efficace e dunque è stato

intaccato il corretto svolgimento della vita parlamentare nel suo complesso.

Per apprezzare fino in fondo quest’ultimo aspetto è importante tenere nel dovuto conto la collocazione

dell’articolo 67 nella Carta costituzionale, e cioè all’interno di un complesso di norme che delineano lo

status di parlamentare. Verifica dei poteri (art. 66), libero mandato (art. 67), immunità (art. 68) e indennità

(art. 69), sono tutte prerogative costituzionali che, al fine di assicurare poteri, competenze e garanzie

proprie della funzione, vengono poste dal Costituente a tutela dell’attività di ciascuna Camera, e quindi

del Parlamento nel suo insieme, e non istituiscono mere posizioni giuridiche soggettive a favore della

persona del parlamentare. Ovvero, il bene che si vuole perseguire è l’espletamento libero e autonomo

della funzione parlamentare, non le aspettative del singolo componente sganciate dalla funzione che è

chiamato a svolgere. Pertanto, sono in ultima analisi i meccanismi imprescindibili della democrazia che si

intende proteggere: un momento cruciale nella costruzione dell’architettura costituzionale.

E, appunto, proprio su questo decisivo profilo sembra intervenire la norma in discussione, con una

disposizione talmente abnorme da risultare in aperto contrasto con i fondamenti concettuali di

quell’architettura. Alla radice del suo tenore letterario sembra di scorgere un equivoco che sta prendendo

sempre più piede nel dibattito pubblico italiano e negli indirizzi di alcune forze politiche: la sostituzione

della dimensione costituzionale e pubblicistica delle dinamiche politiche con forme e stilemi propri dei

rapporti intercorrenti tra soggetti privati, da perseguire attraverso l’applicazione di istituti tipici del diritto

civile e del diritto penale. Una tendenza alquanto preoccupante che, ancora una volta, pone in questione

la modernità costituzionale, se si pensa che uno dei momenti cardine del passaggio dall’ordinamento

medievale allo Stato assoluto, poi ereditato e perfezionato dallo Stato liberal-democratico, consistette

proprio nell’affermazione della distinzione tra la dimensione pubblicistica della “cosa pubblica” e la

proprietà dei beni disponibili per i privati. Introdurre elementi di confusione in tal senso credo che non

sia opportuno e non aiuti a perseguire miglioramenti nella vita politica del Paese.

5. Il ruolo del Presidente della Camera e della Giunta per il Regolamento

Il Presidente della Camera On. Roberto Fico ha certamente ragione quando fa notare come non esista

una norma specifica del Regolamento che conferisca al Presidente poteri di controllo o sanzionatori in

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relazione all’approvazione e al deposito degli Statuti dei Gruppi, disposti dall’art. 15 del Regolamento

stesso.

Ma questa lacuna di per sé non dimostra l’esistenza di un principio di insindacabilità assoluta delle

normative dei Gruppi derivante da una loro supposta totale autonomia, come invece sembrerebbe di

poter ricavare dal tenore della risposta del Presidente Fico ai deputati Magi e Ceccanti. Da questo punto

di vista, mi pare che anche il richiamo all’unico precedente del 2013 appaia molto debole e non in grado

di fondare una linea interpretativa consolidata e irreversibile, poiché i contorni di quella vicenda erano

più sfumati e non toccavano direttamente valori costituzionali così irrinunciabili come quelli che invece

presenta il caso attualmente in questione. E si tenga presente che l’assenza di una norma di questo tipo

non può stupire più di tanto se si considera che fino a qualche tempo fa era difficile immaginare che

potessero essere introdotte negli Statuti, pur, come detto, non sempre esenti da disposizioni

giuridicamente discutibili, norme in così palese contrasto con la tradizione parlamentaristica come quella

di cui ci stiamo occupando.

Inoltre, non si deve trascurare l’effetto positivo determinato dalla recente introduzione dell’obbligo di

pubblicazione di questi atti sul sito web della Camera, mentre prima gli stessi erano avvolti da un alone

di riservatezza che non giovava alla trasparenza delle procedure democratiche.

Tutte queste innovazioni, ordinamentali e di contesto, hanno mutato alcuni parametri tradizionali,

rendendo più stringente la necessità di una piena corrispondenza degli Statuti ai principi costituzionali,

legislativi e regolamentari.

Del resto, è la realtà che determina la necessità di interventi giuridici ed è importante sottolineare come

il diritto parlamentare abbia sempre avuto una natura flessibile in grado di adattarsi alle mutate condizioni.

Ebbene, tenuto conto di tutte queste considerazioni e necessità, e premesso che la strada maestra per

intervenire su questi problemi consisterebbe in una modifica regolamentare che introducesse una norma

ad hoc (strada lunga e difficile che suggerirei pertanto di intraprendere subito), non vi è però nulla, a mio

parere, che precluda la possibilità di individuare, attraverso un’interpretazione dell’ordinamento

parlamentare vigente, forme di controllo ed eventualmente di sanzione da parte degli organi competenti,

come, per esempio, il diniego di deposito dello Statuto o perlomeno l’obbligo di stralcio di quelle norme

che sostanzino palesi violazioni di principi costituzionali o che si pongano in aperto contrasto con

disposizioni del Regolamento della Camera.

L’art. 15, c. 2-bis, introdotto nel Regolamento della Camera nel 2012, non esclude affatto un ruolo del

Presidente della Camera in relazione queste procedure. Anzi, la norma dispone che lo Statuto, approvato

dal Gruppo, sia prontamente trasmesso al Presidente, mentre il successivo comma 2-ter dispone che sia

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reso pubblico. La lettura di queste due norme postula un coinvolgimento del Presidente che si sostanzia

in una funzione di primo controllo del contenuto dell’atto, prodromico alla sua pubblicazione.

In questo contesto funzionale, nel caso in cui il Presidente ritenga di riscontrare gravi anomalie, come

quella oggetto della nostra discussione, mi pare che una lettura combinata degli articoli 8 e 16 del

Regolamento della Camera non ponga ostacoli al fatto che, grazie ad una interpretazione estensiva dell’art.

16, c. 2, possa essere investita del problema la Giunta per il Regolamento, appunto su impulso del suo

Presidente (ovvero il Presidente della Camera); per concludere poi con una eventuale deliberazione

dell’Ufficio di Presidenza.

La funzione di interpretazione del Regolamento dovrebbe infatti abbracciare concettualmente la sua

custodia; ovvero, la custodia del principio per cui tutte le norme che, a diverso titolo, concorrono a

disciplinare la vita parlamentare siano compatibili con i principi cardine del costituzionalismo, con le

norme costituzionali e con le disposizioni regolamentari.

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di Cesare Pinelli

Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico Sapienza – Università di Roma

Libertà di mandato dei parlamentari e rimedi contro il transfughismo

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Libertà di mandato dei parlamentari e rimedi contro il transfughismo*

di Cesare Pinelli

Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico Sapienza – Università di Roma

I regolamenti dei gruppi parlamentari del Movimento 5 Stelle prevedono che il membro della Camera o

del Senato che abbandona il gruppo “a causa di espulsione, ovvero abbandono volontario, ovvero

dimissioni determinate da dissenso politico sarà obbligato a pagare, a titolo di penale, al MoVimento 5

Stelle entro dieci giorni dalla data di accadimento di uno dei fatti sopra indicati, la somma di euro

100.000,00”. E’ evidente il contrasto con l’art. 67 della nostra Costituzione, secondo il quale “Ogni

membro del Parlamento rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”.

Da oltre due secoli il libero mandato parlamentare è l’espressione per eccellenza della rappresentanza

politica, proprio perché consente in principio al parlamentare di non dover sottostare a istruzioni, ordini

o sanzioni nell’esercizio delle sue funzioni. Quando, circa un secolo fa, si formarono partiti politici di

massa e si affermò il suffragio universale maschile, il divieto di mandato imperativo apparve un relitto del

passato a grandi giuristi quali Hans Kelsen e Gerhard Leibholz. Eppure, dopo i totalitarismi, l’istituto

venne nuovamente riconosciuto in tutte le Costituzioni democratiche, mentre lo Stato dei partiti era al

suo apice, e ha continuato ad esserlo fino ad oggi in tutto il mondo. Come si spiega la sua vitalità? Il fatto

è che la democrazia deve poter funzionare anzitutto in parlamento. Se gli elettori potessero revocare i

parlamentari in corso di mandato, la composizione politica dell’assemblea parlamentare sarebbe

costantemente soggetta a variazioni durante la legislatura, col risultato che i parlamentari subentranti

potrebbero sempre ridiscutere le decisioni adottate dai predecenti titolari del medesimo seggio in ordine

alla programmazione dell’attività parlamentare, e quindi mettere a repentaglio lo svolgimento delle

funzioni costituzionalmente riservate all’assemblea. Lo stesso concetto di legislatura perderebbe allora

significato.

Se invece fossero i partiti a poter revocare i parlamentari, a perdere di significato sarebbe il concetto di

elezione. Infatti Kelsen si chiedeva: “perché costringere i partiti politici a mandare in Parlamento un certo

numero permanente di deputati – singolarmente determinati – in rapporto alla consistenza del relativo

partito, i quali – sempre i medesimi – si trovano a dover cooperare in merito alle questioni anche più

* Intervento alla Tavola rotonda “Gli statuti dei gruppi parlamentari alla prova dell’art. 67della Costituzione”, Roma, 16 maggio 2018.

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diverse? Non sarebbe meglio permettere ai partiti di delegarvi, secondo la natura delle leggi da discutere

e da votare, gli esperti di cui dispongono, avendo questi una parte nella decisione finale corrispondente

alla consistenza del partito rappresentato? Una riforma di tal genere risponderebbe all’accusa che assai di

frequente, oggigiorno, si sente fare al Parlamento di essere estraneo al popolo”.

Ma il mantenimento del divieto di mandato imperativo nelle democrazie costituzionali ha svolto un’altra

funzione. Quella di lasciare una certa autonomia ai parlamentari nei confronti dei partiti nelle cui liste

sono stati eletti. E’ vero che in qualsiasi democrazia i partiti controllano la conformità degli eletti alla

linea del partito attraverso i corrispondenti gruppi parlamentari, costituiti dagli eletti all’inizio di ciascuna

legislatura dei parlamentari eletti in tali liste (c.d. disciplina di partito). Tuttavia si tratta di un controllo

di fatto, che non obbliga giuridicamente il parlamentare a uniformarvisi, assistita da una sanzione

anch’essa di fatto come la molto probabile mancata presentazione del parlamentare dissenziente nella

lista dello stesso partito nella successiva tornata elettorale. Ancora, le dimissioni presentate da un

parlamentare, che soggiacciono alla regola dell’accettazione dell’assemblea di appartenenza, vengono

respinte nella prassi ove siano motivate da dissensi col partito nelle cui liste sia stato eletto. Così come si

ritengono nulle eventuali lettere di dimissioni con data lasciata in bianco, che i parlamentari abbiano

firmato a garanzia della disciplina di partito.

Ecco perché, fin dalla sentenza n. 14 del 1964, la Corte costituzionale ha affermato che il divieto di

mandato imperativo “è rivolto ad assicurare la libertà dei membri del Parlamento”, e “importa che il

parlamentare è libero di votare secondo gli indirizzi del suo partito ma é anche libero di sottrarsene;

nessuna norma potrebbe legittimamente disporre che derivino conseguenze a carico del parlamentare per

il fatto che egli abbia votato contro le direttive del partito”.

Anche secondo l’orientamento prevalente in sede scientifica, l’istituto del divieto del mandato imperativo

si configura oggi soprattutto quale limite a un’interpretazione dell’art. 49 Cost. che legittimasse un potere

assoluto dei partiti sugli eletti nelle proprie liste: i regolamenti dei gruppi parlamentari, infatti, possono

prevedere l’espulsione dal gruppo del parlamentare dissenziente, ma non dal Parlamento.

Si dirà che un assetto del genere riflette l’epoca in cui i partiti esprimevano concezioni e valori politici

ben definiti ed erano fortemente strutturati al loro interno: in effetti, essi hanno perduto da tempo tali

caratteristiche, con un conseguente aumento di parlamentari che transitano da un gruppo all’altro nel

corso della legislatura o ne costituiscono di nuovi e il ritorno a un trasformismo risalente al Parlamento

del Regno d’Italia, che svilisce la figura del parlamentare e danneggia il rendimento democratico delle

istituzioni rappresentative. Sono perciò venute meno le ragioni del divieto di mandato imperativo? O non

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sono piuttosto ipotizzabili rimedi interni all’ordinamento parlamentare volti a disincentivare il

trasformismo?

Al primo interrogativo non può non rispondersi negativamente, dal momento che le prestazioni

dell’istituto non si esauriscono come si è visto nel limitare la disciplina di partito, investendo tanto il

rapporto fra elettori ed eletti quanto la funzionalità interna delle camere. Sono invece possibili rimedi al

trasformismo che mantengano il divieto di mandato imperativo.

Occorre considerare che un potente incentivo al trasformismo è costituito dalla regola della necessaria

appartenenza del parlamentare a un gruppo, risalente a una modifica del regolamento della Camera del

1920 onde assicurare una proiezione in parlamento della forza e dell’organizzazione dei partiti di massa

allora in ascesa. La regola, che non si può ritenere costituzionalmente obbligatoria né trova riscontro

nella gran parte degli ordinamenti democratici, si è prestata a un uso sempre più distorto, dal momento

che consente al parlamentare, non solo in caso di dissenso dal gruppo originario ma soprattutto quando

ritenga di poter ottenere ricompense dalla sua mutata collocazione politica, di trasferirsi ad altro gruppo,

o di formarne con altri uno nuovo che raggiunga il tetto minimo previsto dai regolamenti parlamentari,

senza subire alcuna conseguenza negativa. La stessa strutturazione del gruppo misto risente della regola

ora detta. Vi confluiscono infatti i parlamentari che non abbiano dichiarato di voler appartenere a un

gruppo, oltre a quelli che si riconoscano in forze politiche che non abbiano raggiunto il requisito minimo

di consistenza numerica di un gruppo (che alla Camera è fissato in venti membri e al Senato in dieci

membri). Tuttavia, laddove si tratti di un partito organizzato nel Paese che abbia ottenuto un certo

numero di eletti, l’Ufficio di presidenza della Camera può autorizzare la costituzione in gruppo di un

numero di parlamentari inferiore al requisito minimo: ciò incoraggia ulteriormente il trasformismo. L’art.

14 Reg. Senato, nel testo approvato il 20 dicembre 2017, disincentiva invece il fenomeno, sia col vietare

la formazione di gruppi in corso di legislatura, sia col subordinare la costituzione di “gruppi autonomi”

alla condizione che corrispondano a partiti o a movimenti presentatisi alle elezioni uniti o collegati.

La tendenza al trasformismo verrebbe ulteriormente scoraggiata se, in luogo della regola della necessaria

appartenenza di ogni parlamentare a un gruppo, al parlamentare non aderente a un gruppo venisse

riservato, come stabilisce il regolamento del Bundestag (la camera rappresentativa nella Repubblica

federale tedesca), un trattamento deteriore rispetto a quello che a un gruppo aderisca, sia per le funzioni

assegnate ai soli gruppi relativamente ai lavori parlamentari, sia per l’accesso ai finanziamenti. Oppure si

può guardare all’ordinamento spagnolo, che è un interessante teatro di sperimentazioni volte a

combattere il “transfuguismo” senza toccare il divieto costituzionale di mandato imperativo.

E’ sicuramente possibile, anche alla luce di altre esperienze europee, contrastare i frequenti e deprecabili

fenomeni di trasformismo senza toccare il libero mandato parlamentare. Ma questa attitudine costruttiva,

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che porterebbe a salvare il bambino gettando l’acqua sporca, non interessa minimamente al Movimento

5 Stelle, che dopo aver previsto la sanzione dei 100.000 euro a carico dei parlamentari dissenzienti nei

regolamenti interni dei gruppi, ha proposto, nel “Contratto per il governo del cambiamento” stipulato

con la Lega, di “introdurre forme di vincolo di mandato per i parlamentari, per contrastare il sempre

crescente fenomeno del trasformismo”. Se è vero che questo fenomeno si può contrastare in altri modi

e con efficacia non minore, si capisce che l’obiettivo è proprio quello di gettare il bambino, ossia di ridurre

i parlamentari, non meno dei ministri, a esecutori di ordini impartiti da una società privata. Qualcuno ha

spiegato loro che, fino a quanto resterà in vigore l’art. 67, questo obiettivo non sarà raggiungibile. E

proprio per ciò ne propongono l’abrogazione.

La proposta si presenta come misura “anti-casta”, e ha perciò dalla sua il vento favorevole di un’opinione

pubblica che si vuole mantenere in uno stato di continuo risentimento verso chi “ha il potere e i privilegi”.

Ma il discorso va ribaltato. Proprio eliminando il libero mandato parlamentare, infatti, verrebbe fuori una

casta ristretta e potente, che giocando coi privilegi, questa volta privatistici, farebbe della nostra

Repubblica un Frankestein che uscirebbe fuori dai radar del mondo.

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di Salvatore Prisco

Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico Università degli Studi di Napoli Federico II

Elogio della mediazione. Statuti dei gruppi parlamentari e libertà di mandato politico nelle democrazie

rappresentative. Brevi annotazioni

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Elogio della mediazione. Statuti dei gruppi parlamentari e libertà di mandato

politico nelle democrazie rappresentative. Brevi annotazioni*

di Salvatore Prisco

Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico Università degli Studi di Napoli Federico II

«Notre vie est un voyage dans l'hiver et dans la nuit.

Nous cherchons notre passage dans le ciel où rien ne luit».

(Canzone delle Guardie svizzere, 1793, esergo di Louis Ferdinand Céline, Voyage au bout de la nuit)

«Sentinella, quanto resta della notte?»

(Isaia, 21, 11)

«Adda passa’ ‘a nuttata»

(Eduardo De Fiilippo, Napoli milionaria)

Sommario: 1. L’occasione del lavoro e i precedenti immediati del caso. – 2. I quesiti posti per il seminario. – 3. I termini “classici” del problema nel suo sviluppo storico. 4. La situazione odierna: il mandato politico tra crisi della rappresentanza, “trasfughiamo” nei gruppi parlamentari, istanze di “democrazia immediata”. – 5. Un cenno conclusivo all’attualità costituzionale italiana: una forma di governo in trasformazione?

1. L’occasione del lavoro e i precedenti immediati del caso

L’onorevole Riccardo Magi, segretario dei Radicali italiani e deputato al Parlamento per la XVIII

Legislatura, eletto nella lista +Europa, ha indetto per il giorno 16 maggio 2018 alla Camera dei Deputati

una tavola rotonda tra costituzionalisti sul tema Gli statuti dei gruppi parlamentari alla luce dell’art. 67 della

Costituzione.

* Intervento alla Tavola rotonda “Gli statuti dei gruppi parlamentari alla prova dell’art. 67della Costituzione”, Roma, 16 maggio 2018. L’Autore ringrazia l’on. Riccardo Magi per averlo inviato a questo interessante incontro di studio. Il paragrafo conclusivo tiene presenti – come si vede – eventi anche successivi al suo svolgimento, fino alla formazione e al giuramento del Governo Conte e in esso è stato utilizzato con piccole modificazioni formali un testo dell’autore apparso nel blog FB Lab di FB& Associati, Advocay and Lobbing, 31 maggio 2018.

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L’iniziativa era nata a seguito di una lettera indirizzata il 9 aprile dallo stesso al Presidente della Camera,

onorevole Roberto Fico, il cui oggetto era l’invito a verificare se lo statuto del gruppo della Camera del

Movimento Cinque Stelle – cioè dello stesso entro le cui fila era stato eletto – integri o meno una violazione

della Carta Costituzionale, nella parte in cui prevede (art. 21, comma 5) che «Il deputato che abbandona il

gruppo parlamentare a causa di espulsione ovvero abbandono volontario ovvero dimissioni determinate da dissenso politico

sarà obbligato a pagare, a titolo di penale, al MoVimento Cinque Stelle, entro dieci giorni dalla data di accadimento di

uno dei fatti sopra indicati, la somma di Euro 100.000, 00».

Detta disposizione riproduce l’art. 5 del Codice etico del movimento, a tenore del quale, tra l’altro,

«Ciascun parlamentare italiano, europeo e Consigliere Regionale eletto all’esito di una competizione elettorale nella quale si

sia presentato sotto il simbolo del MoVimento 5 Stelle si obbliga … ad erogare un contributo economico destinato al

mantenimento delle piattaforme tecnologiche che supportano l’attività dei gruppi e dei singoli parlamentari e consiglieri e del

finanziamento del cd. ‘Scudo della Rete’ (ovvero il fondo per gli oneri necessari per la tutela legale) da determinarsi con

Regolamento del Comitato di Garanzia emanato ai sensi dell’art. 9 comma b) dello Statuto, prima di ciascuna consultazione

elettorale (comma 3°); Ciascun parlamentare italiano, europeo e Consigliere Regionale eletto all’esito di una competizione

elettorale nella quale si sia presentato sotto il simbolo del MoVimento 5 Stelle si obbliga a rinunciare ad ogni trattamento

pensionistico privilegiato e all’assegno di fine mandato, a doppie indennità e a doppi rimborsi (Comma 4°); In

considerazione del fatto che, ad eccezione del contributo di cui al terzo comma del presente articolo, gli oneri per l’attività

politica e le campagne elettorali sono integralmente a carico del MoVimento 5 Stelle ciascun parlamentare, in caso di

espulsione dal gruppo parlamentare del MoVimento 5 Stelle e/o dal MoVimento 5 Stelle, abbandono del gruppo

parlamentare del MoVimento 5 Stelle e/o iscrizione ad altro gruppo parlamentare, dimissioni anticipate dalla carica non

determinate da gravi ragioni personali e/o di salute, ma da motivi di dissenso politico, sarà obbligato a pagare al MoVimento

5 Stelle, entro dieci giorni dalla data di accadimento di uno degli eventi sopra indicati, a titolo di penale, la somma di €

100.000,00 quale indennizzo per gli oneri sopra indicati per l’elezione del parlamentare stesso» (comma 5°)».

Per completezza di informazione, va qui ricordata anche la vicenda giudiziaria che aveva opposto in

precedenza a questo movimento politico l’avvocato Venerando Morello, il quale aveva chiesto, con un

ricorso ex art. 702 c. p. c., che venisse dichiarata ineleggibile a sindaco di Roma l’avvocato Virginia Raggi,

per avere (come del resto i candidati della lista al consiglio comunale a lei collegata) sottoscritto con la

società Casaleggio e Associati, in vista delle elezioni amministrative della capitale in cui era appunto

candidata alla carica, alla quale era riuscita effettivamente eletta nel turno di ballottaggio, uno stringente

“contratto”, che ne vincolava pesantemente anche l’esercizio delle prerogative istituzionali. In esso era

previsto inoltre un risarcimento per danni di immagine, preventivamente e forfettariamente quantificato

in almeno 150. 000 Euro, se ella fosse fuoriuscita anzitempo dalla predetta formazione politica di

riiferimento.

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Il testo del ricorso era stato integralmente pubblicato come inserto del quotidiano Il Foglio del 4 gennaio

2017, mentre quello del’atto denominato Regolamento e codice di comportamento dei candidati ed eletti del

MoVimento Cinque Stelle alle elezioni amministrative di Roma capitale del 2016 (che appare alla lettura avere i

caratteri di un contratto per adesione, unilateralmente predisposto), come ogni altro atto interno del

movimento è rinvenibile online sul cosiddetto Blog delle Stelle e venne pubblicato in copia fotostatica, con

firme autografe ai margini dei sottoscrittori, dal sito online del quotidiano La Repubblica.

La clausola specifica dello stesso da richiamare al riguardo (punto 9) recita – con disposizione dal

contenuto in sostanza omogeneo con quelle sopra riportate, trattandosi sempre di vincoli derivanti dal

codice etico del movimento – «Ciascun candidato si dichiara consapevole che la violazione di detti principi comporta

l’impegno etico alle dimissioni dell’eletto dalla carica ricoperta e/o il ritiro dell’uso del simbolo e l’espulsione dal M5S e che

pertanto a seguito di una eventuale violazione di quanto contenuto nel presente Codice, il M5S subirà un grave danno alla

propria immagine che in relazione all’importanza della competizione elettorale, si quantifica in almeno Euro 150.000»,

onde egli (punto 10) «si impegna pertanto al versamento del predetto importo, non appena gli sia notificata formale

contestazione a cura dello staff coordinato da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio».

Il Tribunale di Roma, I sezione civile, aveva nella specie rigettato il ricorso per motivi di rito, senza

pronunciarsi sulla validità del “contratto”, del quale – in alternativa alla domanda di dichiarare ineleggibile

la prima cittadina – era stata richiesta nel ricorso la declaratoria di nullità per contrarietà a norme

imperative, ossia fondamentalmente per contrasto – anche in questo caso – con l’art. 67 della

Costituzione sulla libertà, in linea di principio, dei mandati elettivi politici e amministrativi.

Tornando alla vicenda oggi in esame, il mittente domandava di conoscere «quali iniziative intenda

adottare» il destinatario della missiva «perché i principi costituzionali vigenti vengano rispettati in primis

nell’istituzione che ha l’onore di presiedere, cuore della nostra democrazia».

Una lettera di tenore analogo, in ordine a tale rilievo, ma che muoveva anche altre censure al regolamento

del medesimo gruppo, con riferimento tanto a norme costituzionali, quanto ad altre del Regolamento

della Camera, era stata indirizzata al Presidente, appena due giorni dopo la prima, anche dall’onorevole

Stefano Ceccanti, già senatore e oggi deputato del Partito Democratico, autorevole costituzional-

comparatista.

Il Presidente della Camera rispondeva agli interlocutori che avevano sollevato le questioni con lo stesso

mezzo da loro scelto, vale a dire attraverso una sua lettera del 17 aprile, negando che l’art. 8 del

Regolamento della Camera assegni al Presidente dell’Assemblea – come invece ritenuto in particolare

dall’onorevole Ceccanti – il potere di sindacare la conformità degli statuti che i gruppi sono tenuti ad

approvare entro trenta giorni dalla loro costituzione e a depositare nei successivi cinque presso il predetto

ufficio, a seguito di una riforma di tale fonte normativa intervenuta nel 2012 ed improntata a garantire la

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trasparenza sulle attività dell’organo costituzionale complesso e delle sue articolazioni interne (tant’è che

anche dei regolamenti dei gruppi va disposta la pubblicazione sul sito internet della Camera dei Deputati)

e questo per il dichiarato motivo della necessità di tutelare l’autonomia politica e organizzativa dei gruppi

parlamentari. Aveva all’uopo richiamato una deliberazione conforme dell’ufficio di Presidenza della

precedente legislatura, resa in data 26 giugno 2017.

2. I quesiti posti per il seminario.

In vista della discussione di cui si è detto, ai professori del settore che –- appositamente invitati ad essa

con un’e-mail circolare – avevano assicurato la loro presenza al seminario è pervenuta un’ulteriore

comunicazione del promotore del dibattito, che invitava a concentrarsi possibilmente, ai fini della

discussione, su alcuni interrogativi, il cui testo viene di seguito riprodotto.

«1. In primis, si pone il problema della stesura e della potenziale applicazione di disposizioni di Statuti dei

gruppi  – regole di diritto privato – in palese contrasto con la Costituzione e con il Regolamento. Cosa

succederebbe se le norme statutarie di un Gruppo vietassero alle deputate che vi appartengono di

prendere la parola in Aula o di presentare proposte di legge?

2. Possiamo dire che la sola circostanza che uno o più parlamentari iscritti al gruppo Movimento Cinque

Stelle esercitino il loro mandato con il timore d’esser sanzionati economicamente in ragione delle proprie

condotte e scelte in Parlamento costituisce un vincolo di mandato e impone all’istituzione parlamentare

di intervenire scongiurando questa ipotesi ab origine? Se sì, come? Dal momento che la norma è conosciuta

formalmente dalle Camere perché contenuta in statuti il cui deposito è obbligatorio, possiamo dire che

non è il difetto di una norma specifica che impedisce al Presidente di manifestare formalmente ai colleghi

parlamentari l’inconsistenza, nullità e illiceità di una previsione regolamentare (ad oggi sottoscritta dallo

stesso Presidente Fico), ad esempio con una circolare inviata a tutti i deputati?

3. Può il Capo dello Stato nominare Ministro un parlamentare del Movimento Cinque Stelle vincolato

da un “contratto privato” in contrasto non solo con l’art. 67 della Costituzione, ma anche con il

giuramento prestato di fronte allo stesso Presidente della Repubblica di esercitare le proprie funzioni

nell'interesse esclusivo della Nazione, oltre che con la con legge 400/1988 in ordine all’autonoma

collegialità del Consiglio dei Ministri e al suo compito di risoluzione dei conflitti tra Ministri? Come

opererebbe questo condizionamento nell’esercizio della funzione di controllo da parte dei parlamentari

nei confronti dei ministri del loro partito? Può tale problema essere evidenziato direttamente

all’attenzione del Presidente della Repubblica, nella sua qualità di garante della Costituzione?

4. Questione della “giustiziabilità” della violazione dell’art. 67 della Costituzione in esame. Come un

tentativo di applicazione dell’istituto della clausola penale prevista dalla disposizione statutaria in esame

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potrebbe giungere all’esame della Corte costituzionale? Attraverso la via del conflitto di attribuzione tra

poteri dello Stato (Deputato “sanzionato” versus gruppo parlamentare di appartenenza oppure Autorità

giudiziaria versus Camera dei Deputati che pretende di agire in autodichia sull’applicazione della previsione

statutaria)? Attraverso un giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale?

5. È chiaro come una modifica del Regolamento che attribuisca al Presidente poteri di controllo sugli

Statuti dei Gruppi sia la strada più lunga e dall’esito più incerto - soprattutto in questa legislatura - ma

anche l’unica che in futuro potrebbe evitare il ripetersi di casi come quello di cui si discute oggi; per

questo annuncio fin da ora la mia intenzione di presentare una proposta di modifica in tal senso. Chiedo

allora a chi interverrà oggi di ipotizzare i passaggi di tale procedimento di verifica degli Statuti, l’organo

o gli organi che ne dovrebbero essere incaricati, i parametri di riferimento e le conseguenze in caso di

mancato rispetto degli stessi.

6. Infine: non solo il Movimento Cinque Stelle, ma anche Forza Italia, Lega Nord e Fratelli d’Italia hanno

affermato in campagna elettorale di voler modificare l’articolo 67 della Costituzione, e proposte di legge

in tal senso sono già state presentate in passato; la differenza, oggi, è che una tale riforma

costituzionale potrebbe essere approvata a maggioranza dei due terzi di ciascuna Camera. Il quesito che

allora si pone è se l’art. 67 sia revisionabile o se il divieto di mandato imperativo rientri fra i “princìpi

fondamentali e diritti inviolabili” che la Corte costituzionale pone come limite allo stesso processo di

revisione costituzionale».

3. I termini “classici” del problema nel suo sviluppo storico

L’ordine in cui rispondere ai quesiti posti deve essere ribaltato, in ragione della loro concatenazione logica;

non è infatti chi non veda come il più radicale – è il caso di dire – e decisivo sia l’ultimo.

Se infatti si ritenesse che rientri tra i princìpi caratterizzanti della forma di governo e tra i diritti

fondamentali del singolo parlamentare la libertà di esercizio del mandato politico, da svolgere in nome

della Nazione e non già dello stretto interesse del partito che ne aveva assicurato l’elezione, al punto che

non sarebbe possibile abolirla o limitarla significativamente nemmeno attraverso il procedimento di

revisione costituzionale (a maggiore ragione, dunque, non potendola condizionare nemmeno ad

investiture rigide in proposito dei militanti, raccolte con l’ausilio determinante del web), è chiaro che

risulterebbe fissato da questa conclusione il presupposto concettuale per orientare la risposta ai punti che

lo precedono.

Soccorre al riguardo una risalente e nota sentenza della Consulta, la n. 14 del 1964:

«L’art. 67 della Costituzione, collocato fra le norme che attengono all’ordinamento delle Camere e non fra quelle che

disciplinano la formazione delle leggi, non spiega efficacia ai fini della validità delle deliberazioni, ma è rivolto ad assicurare

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la libertà dei membri del Parlamento. Il divieto del mandato imperativo importa che il parlamentare è libero di votare

secondo gli indirizzi del suo partito, ma è anche libero di sottrarsene; nessuna norma potrebbe legittimamente disporre che

derivino conseguenze a carico del parlamentare per il fatto che egli abbia votato contro le direttive del partito».

Si è tuttavia osservato1 che anche l’assai più recente sentenza 1/ 2014 della Corte Costituzionale ha

contribuito, in più luoghi della motivazione, a sottoporre a lifting l’ormai nobile, ma vetusto, parametro,

spianandogli qualcuna delle molte rughe accumulatesi sul volto, in ragione della equazione che lì è scolpita

tra “rappresentanza” nazionale e “rappresentatività”, di modo che – non assicurata che fosse dalla legge

elettorale la seconda – ne sarebbe colpita inevitabilmente la prima.

Ricordiamo in sintesi, di seguito, le tappe della storia gloriosa attraversate dalla garanzia in esame.

Una brillante studiosa della più giovane generazione ha ribadito come «l’istituto in questione (sia) il

“cuore” del mandato parlamentare, così come lo conosciamo – almeno in Europa continentale – dalla

Rivoluzione francese», proseguendo quindi a descriverne il percorso tendenziale come scandibile in tre

fasi, che per lei sono, testualmente, «il cammino verso la “cogenza”; la presunta “obsolescenza”

all’indomani della nascita di partiti di massa; l’attuale fase di “convalescenza” dell’istituto tra “distrazione”

della responsabilità politica e impieghi eterodossi»2.

In effetti, i mandati prerivoluzionari, attraverso i quali comunità e ceti presentavano al sovrano – in

assemblee parlamentari irregolarmente convocate – petizioni, suppliche, cahiers de doléances, erano

privatistici e tendenzialmente vincolanti, salvi cioè e comunque i casi di istruzioni vaghe dei mandanti,

nonché revocabili dagli stessi.

Fin dal celebre discorso agli elettori di Bristol del 3 novembre 1774, Edward Burke aveva però

incisivamente chiarito che «Il Parlamento non è un congresso di ambasciatori di opposti e ostili interessi,

interessi che ciascuno deve tutelare come agente o avvocato; il Parlamento è assemblea deliberante di una

Nazione, con un solo interesse, quello intero, dove non dovrebbero essere di guida interessi e pregiudizi

locali, ma il bene generale», o quantomeno che dai primi (pur in esso presenti) esso deve riuscire a

svincolarsi, per tendere a persegure il secondo.

L’Assemblea Nazionale francese ribaltò su questa medesima scia, pochi anni dopo, il quadro concettuale

in cui si inserivano le pratiche che fino ad allora erano state in proposito usuali.

Il 30 giugno 1789 taluni nobili avevano in effetti rifiutato di partecipare alle sue sedute proprio in nome

dei mandati vincolati dei quali erano portatori, ponendo il problema di dovere ricevere dai mandanti sui

1 N. ZANON, La seconda giovinezza dell’art. 67 della Costituzione, n Forum di Quaderni Costituzionali, 5 marzo 2014. 2 F. GRANDI, Il divieto di mandato imperativo: tra cogenza, obsolescenza e convalescenza, in Aperta Contrada, 9 gennaio 2014.

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singoli terrtitori adeguate direttive, che in ipotesi ne integrassero le lacune di fronte a nuove questioni

presentatesi.

Non era trascorsa piùì di una settimana da quel giorno, quando Sieyès condusse l’organo ad approvare la

sua proposta di considerare irrilevante il problema, non potendo certo l’assise fermare i propri lavori in

ragione della mancanza occasionale di qualche suo componente.

Nella riunione dell’8 gennaio 1790 il principio fu dunque ribadito, «les mandates impératifs étants contraires à

la nature du Corps lègislatif qui est essentialment délibérant, à la libertè des suffrages dont chacun de ses membres doit jouir

pour l’intérêt général» e venne ulteriormente confermato dall’art. 7, titolo III, della Costituzione del 3

settembre 1791, in cui si legge che «Les représentants nommés dans les départements ne seront pas représentants d’un

département particuleier, mais de la Nation entière, et il ne pourra leur être donnè aucun mandat».

Molteplici e pregevoli sono state le ricostruzioni storiche al riguardo, ognuna di esse proponendosi

opportunamente di non effettuare semplicemente una sterile panoramica del passato, ma di prendere atto

di uno sviluppo che nel corso del tempo si è mostrato ineluttabile: il lento, ma sicuro, sostituirsi – nella

dinamica effettiva del campo problematico – di un (perciò di nuovo tendenzialmente vincolato)

“mandato di partito” al “libero mandato parlamentare” affermato dalla Rivoluzione francese3.

Si è dunque dai diversi autori articolato il giudizio sulla garanzia, in rapporto al palesarsi via via di nuove

esigenze e altresì della loro faccia oscura, vale a dire anche delle patologie che le si accompagnano,

richiedendone la rilettura e/o l’adattamento.

Si può osservare come il principio che nega il vincolo di mandato per riferire quest’ultimo alla

rappresentanza generale o nazionale conservi un’originaria impronta liberale e individualistico-borghese,

3 Fra i molti autori che hanno operato le ricostruzoni diacroniche alle quali si accennava (e che sono state tenute presenti per le poche righe in tema del presente testo), come premessa a una riconsiderazione attuale del problema, si vedano almeno – nella dottrina italiana più recente e senza pretesa di completezza, in aggiunta a quella richiamata – R. MORETTI, Art. 67, in Commentario breve alla Costituzione, prima ed., diretta da V. Crisafulli e L. Paladin, Padova, 1990, 407 ss.; N. ZANON, Il libero mandato parlamentare. Saggio critico sull'articolo 67 della Costituzione, Milano, 1991 (che è, tra gli studi della più vicina stagione in argomento, quello indubbiamente fondativo, non solo sul piano cronologico); P. PERLINGIERI – M. PARRELLA, Art. 67, in Commento alla Costituzione italiana, a cura del primo, Napoli, 1997, 424 ss.; A. PAPA, La rappresentanza politica. Forme attuali di esercizio del potere, Napoli, 1998; S. CURRERI, Democrazia e rappresentanza politica. Dal divieto di mandato al mandato di partito, seconda edizione rivista e accresciuta, Firenze, 2004; R. SCARCIGLIA, Il divieto di mandato imperativo. Contributo a uno studio di diritto comparato, Padova, 2005; L. CIAURRO, Art. 67, in Commentario alla Costituzione, a cura d R. Bifulco, A, Celotto, M. Olivetti, Torino, 2006, 1287 ss.; G. AZZARITI, Cittadini, partiti e gruppi parlamentari: esiste ancora il divieto di mandato imperativo?, in Costituzionalsmo.it, 3/ 2008; C. BOLOGNA, Art. 67, in Commentario breve alla Costituzione, seconda ed., diretta da S. Bartole e R. Bin, Padova, 2008, 617 ss,; A. CIANCIO, I gruppi parlamentari. Studio intorno a una manifestazione del pluralismo politico, Milano, 2008; L. PRINCIPATO, Il divieto di mandato imperativo da prerogativa regia a garanzia della sovranità assembleare, in Rivista AiC, 4/ 2012; C. DE FIORES, Sulla rappresentazione della Nazione. Brevi note sul divieto di mandato imperativo, in Dr Soc. 1/ 2017, 19 ss.; L. RINALDI, Divieto di mandato imperativo e disciplina dei gruppi parlamentari, in Costituzionalismo.it, 2/ 2017; C. MARTINELLI, Art. 67, in La Costituzione italiana. Commento articolo per articolo, a cura di F. Clementi, L. Cuocolo, F. Rosa, G. A. Vigevani, Bologna, 2018, II, 72 ss.

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risultando ancor oggi canonizzato in tale veste nella maggior parte di tutte le Costituzioni basate sul

connesso modello di rappresentanza politica.

Si è peraltro notato, quanto al nostro testo del 1948, che a rigore dovrebbe giuridicamente parlarsi

letteralmente per esso non di “divieto”, bensì di “assenza” di vincolo di mandato, essendo caduta in sede

di coordinamento formale del testo dell’ Assemblea Costituente una formulazione che invece ne

conteneva proprio un’esplicta proibizione4.

Ad ogni modo, non si fece sull’istituto in quella sede una discussione profonda, forse per le riserve di

parte comunista, illustrate da Terracini e Grieco e per la freddezza di Mortati, relatore sul tema in seconda

sottocommissione il 19 settembre 1946, con parole lungimiranti, nelle quali non è difficile intravedere i

nodi essenziali anche del dibattito successivo, addirittura fino al testo della riforma Renzi, che come noto

faceva del Senato un’assemblea elettiva di secondo grado, espressione di quelle regionali, ma in raccordo

col panorama politico espresso dalle rispettive aree territoriali.

Gioverà pertanto riportare le espressioni che furono da lui usate:

«(Il relatore osserva che) Qui si dovrebbe affrontare la questione del divieto del mandato imperativo.

Sottrarre il deputato alla rappresentanza di interessi particolari significa che esso non rappresenta il suo

partito o la sua categoria, ma la Nazione nel suo insieme. (Egli) Si domanda se la disposizione da lui

proposta si possa omettere o meno, perché potrebbe anche assumere una particolare importanza, se, ad

esempio, si facesse del Senato la rappresentanza della regione o di categorie, e perché non si può

dimenticare che oggi i deputati sono espressione dei partiti con i quali hanno un diretto legame. Sta di

fatto che il problema esiste ed ha anche avuto un riflesso negli ordinamenti in cui è stabilita la decadenza

del deputato quando è sconfessato dal suo partito».

Lo sguardo lungo del Maestro di Corigliano Calabro quasi prevedeva così le eccezioni alla tendenza allora

e anche oggi prevalente, che sono emerse negli anni a noi più vicini: cioè quelle della vigente Costituzione

portoghese del 1976 (artt. 155 e 160) e quelle estranee o periferiche rispetto alla tradizione del

costituzionalismo liberaldemocratico occidentale, che pure le ispira (come la Costituzione del Bangladesh

del 1972, art. 70, il 52° emendamento – del 1985 – alla Costituzione indiana del 1949, o ancora gli artt.

150 e 151 di quella panamense del 1972) e la antidefection clause delle esperienze australiana, canadese e

sudafricana.

Al di là dell’impossibile esercizio di divinazione, egli era peraltro sicuramente consapevole delle soluzioni

costituzionali di area culturale socialista vigenti al tempo della Costituente ed ispirate tutte al principio

opposto alla libertà del mandato politico rappresentativo: la stessa Costituzione lusitana vigente individua

4 L. CIAURRO, op. cit., 1290.

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del resto come suo fine tra gli altri, nel preambolo, proprio quello «de assegurar o primado do Estado de

Direito democrático e de abrir caminho para uma sociedade socialista»5.

Come Mortati avvertiva lucidamente in quella sede, la storia ha in effetti proceduto nel senso di

costituzionalizzare il partito politico, attraverso il percorso – sfasato rispetto al precedente – che

dall’ostilità dello Stato era approdato, dopo una valutazione intermedia di indifferenza, alla sua

incorporazione nelle Costituzioni totalitarie e appunto in quelle socialiste, fino a valorizzarlo come base

dell’organizzazione pluralista del popolo politicamente organizzato, ad opera del costituzionalismo

democratico generalizzatosi – in varie fasi temporali, ma tendenzialmente omogenee – nella traiettoria

emersa dopo la seconda guerra mondiale6.

5 G. DAMELE, Vincoli di mandato dei parlamentari e carattere democratico dei partiti. Spunti a partire dall’articolo 160 della Costituzione portoghese, in Forum di Quaderni Costituzionali, 18 maggio 2017; più in generale, F. GIULIMONDI, Il vincolo di mandato parlamentare ha ancora un senso? Un tentativo di risposta fra istanze nazionali e modelli ordinamentali stranieri, in Foro Europa, 3/ 2016. 6 Classico, naturalmente, il riferimento all’ampio e ricco dibattito weimariano in argomento, mirabilmente sintetizzato da N. ZANON, Il mandato…, cit., 89 ss e in particolar modo alla teorizzazione del Parteienstaat, su cui si vedano soprattutto le posizioni di H. KELSEN, ad es. ne Il problema del parlamentarismo, in La democrazia, trad. it., a cura di M. Barberis, Bologna, 1998, 155 ss. e quelle di G. LEIBHOLZ, come ricostruibili attraverso i i saggi raccolti in La rappresentazione nella democrazia, a cura di S. Forti, con introduzione di P. Rescigno, Milano, 1989 e , nella nostra letteratura recente, almeno A. SPADARO, Riflessioni sul mandato imperativo di partito, in Studi parlamentari e di politica costituzionale, 67 (1985), 21 ss. e P. RIDOLA, Divieto del mandato imperativo e pluralismo politico, in Scritti su le fonti normative e altri temi di vario diritto in onore di Vezio Crisafulli, II, Padova, 1985, 679 ss. Si veda inoltre R. ORRÙ, Nota introduttiva a «Il principio del divieto di mandato imperativo: antico feticcio o baluardo irrinunciabile?» (seminario 2014 dell’Atelier 4 Luglio - G.G. Floridia), nel volume La rappresentanza in questione. Giornate di Diritto e Storia costituzionale, V, a cura del medesimo, di F. Bonini e A. Ciammariconi, Napoli, 2016, 135 ss., che ha messo in evidenza l’importanza dell’analisi storico-comparativa «al fine di mettere a fuoco i punti di attrito, in un contesto democratico- pluralistico, tra la logica del “libero mandato parlamentare” e le condizioni di coerenza interna dello “Stato di partiti”». Il suo ragionamento prosegue, osservando appunto che «la questione dell’inammissibilità di istruzioni vincolanti per i rappresentanti (il divieto di mandato imperativo) si colloca ormai da tempo sullo sfondo della presenza di un duplice legame degli eletti: con il popolo e con i partiti» e rilevando che «le cospicue dimensioni di recente assunte nel nostro ordinamento dal ricorrente fenomeno del c. d. trasformismo o transfughismo parlamentare conferiscono particolarmente rilievo al tema del vincolo tra eletto e partiti (che sono strumenti della sovranità popolare). In altri e più diretti termini, ricorrente è l’interrogativo – egli osserva – se il negare l’opportunità dell’esistenza di un qualsiasi vincolo tra eletti e partiti non finisca per vulnerare, anziché rafforzare, il principio della sovranità popolare. La strutturazione della responsabilità degli eletti nei confronti degli elettori consentita da un’incontrastata mobilità parlamentare, in un contesto in cui i partiti hanno smarrito molto del loro spessore ideologico e persa molta della loro consistenza organizzativa tipici dei primi decenni successivi alla secondo conflitto mondiale, sembra essere elemento decisivo nel favorire la trasformazione delle élites politiche in oligarchie». La conclusione dell’Autore sul punto è che «l’interrogativo che periodicamente ritorna è se nella cornice del Parteienstaat (pur se oggigiorno colto in declinazioni fattuali diverse da quelle presenti all’elaborazione concettuale di G. Leibholz, nel 1929) sia ammissibile l’esistenza di un vincolo tra eletto e partito tale per cui la conservazione del mandato parlamentare risulti in funzione del perdurare dell’affiliazione nel partito all’interno del quale è avvenuta l’elezione. In non pochi ordinamenti si è aperto il dibattito intorno alle misure atte a contenere il c.d. floor-crossing, e in alcuni sono state in effetti accolte. Misure di anti-defezione partitica tra gli eletti e si ravvisano, tra gli altri, nei sistemi costituzionali del Sudafrica, dell’India e del Brasile». Nel volume da cui si sta citando, esse sono analizzate in particolare da V. CORNELI, Lo stato dell’arte del dibattito sulla anti-defection clause in Canada, Australia, Nuova Zelanda e Italia, 131 ss.; da F. GIRINELLI, I rapporti tra elettori, eletti e partiti politici in Brasile: la

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La tensione e contraddizione tra i due ordini di circuiti e rapporti appena indicati e da noi entrambi

costituzionalmente legittimati (in sostanza ex artt. 1 e 67 il primo, ex artt 1 e 49 il secondo)7 si ricompone

e si scioglie, per la dottrina maggioritaria non solo italiana, nel senso che – come è stato notato, seppure

con accento parzialmente critico verso questa ricostruzione tradizionale – «il divieto di vincolo di

mandato non vieta l’esistenza di mandati, ma la loro vincolatività giuridica. Esso, quindi, non impedirebbe

al rappresentante d’intrattenere rapporti e di stipulare accordi sia con gli elettori sia con il partito nella

misura in cui li rende giuridicamente irrilevanti, e come tali non giustiziabili»7.

La sottrazione al mandato di partito o la sua elusione non sono insomma sanzionabili dalla compagine

parziale, che ha natura di associazione non riconosciuta, disciplinata agli art.36 e seguenti del codice civile

sulla base di accordi fra gli aderenti, come conferma una costante giurisprudenza e dunque essa non ha

azione per fare rispettare l’obbligazione contratta da chi non l’osservi spontaneamente, che perciò può

qualificarsi in questo senso come “naturale”.

4. La situazione odierna: il mandato politico tra crisi della rappresentanza, “trasfughiamo” nei

gruppi parlamentari, istanze di “democrazia immediata”.

L’intensificarsi attuale della discussione in merito, rimasta per lungo tempo sopita, trova peraltro il suo

motivo politico più stingente – talora implicito, talora apertamente enunciato da chi in essa interviene –

nel palesarsi sulla scena pubblica, non solo italiana, di movimenti anti-rappresentativi e (come si dice

ormai da tempo nella volgarizzazione giornalistica, ma altresì nella riflessione teorica) “populisti”8.

Sia consentito abusare in proposito – le scuse preventive sono dovute alla sua lunghezza – di una

citazione9, peraltro assolutamente conferente e troppo gustosa nella ironica formulazione verbale per

potere essere trascurata proprio nel caso che ne occupa:

«È l’onda anti-istituzionale e anti-rappresentativa che trova espressione nel movimento guidato da Beppe

Grillo a ricollocare sulla scena – beninteso: come miti negativi – gli istituti che l’art. 67 cost. scolpisce in

Costituzione. Se ne comprende bene la ragione, in termini concettuali e, appunto, di storia delle dottrine

politiche: per un movimento che fa idolatria della presenza fisica dei “cittadini” (contemporanea e forse

inconsapevole caricatura dei citoyens della tradizione giacobina) nelle istituzioni, del controllo costante del

titolare della sovranità (identificato tecnologicamente, ma oscuramente, nel “popolo della rete”) sui

«Fidelidade Partidaria », 157 ss.; da M. TEDDE, La vicenda sudafricana intorno al “floor crossing”, 167 ss. ; da D. PAOLANTI, L’introduzione dell’“anti-defection clause” nell’ordinamento indiano, 179 ss. 7 S. CURRERI, Democrazia e rappresentanza politica, 107. 8 Ex plurimis, si leggano, per l’inerenza al tema di questo lavoro, V. PAZÈ, Crisi della rappresentanza e mandato imperativo, in Teoria Politica, Annali IV, 2014, 277 ss. e Il populismo tra storia, politica e diritto, a cura di R. Chiarelli, Soveria Mannelli, 2015. 9 N. ZANON, La seconda giovinezza dell’art. 67…, cit., 2 s.

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“portavoce” o “delegati” nelle istituzioni, è il concetto stesso di rappresentanza politica ad essere

incomprensibile e, comunque, inammissibile. Se rappresentare significa “rendere presente ciò che è

assente”, e se la rappresentanza politica comporta l’assunzione di libere decisioni – certo in nome e per

conto del popolo

rappresentato, ma quale frutto di autonome valutazioni del rappresentante – l’ideologia grillina si colloca

agli antipodi di tutto questo. La presenza fisica dei sanculotti alla sedute

della Convenzione è qui sostituita dai flash-mob, dalle riunioni plenarie, ma soprattutto dal

controllo costante del “popolo del web”, che con un click approva o contraddice, sostiene e loda oppure

delegittima e condanna senza appello. Non ha senso avere parlamentari che “rappresentano”, valutano

liberamente, discutono con i colleghi, accettano di avvicinarsi dialogicamente alla “verità”, e magari, alla

fine, votano in segreto (ah, il voto segreto! Inganno oscuro al riparo del quale, diceva Robespierre,

prospera l’intrigo dei traditori della Rivoluzione!). Ha senso, invece, avere portavoce o nunzi, che

ratificano le decisioni dei cittadini, non possono dissentire, e se dissentono devono essere

immediatamente espulsi».

Ancora più risalente era stata del resto, nella letteratura giuridica, la presa d’atto del progressivo

polverizzarsi dei partiti di massa, in grado di imporre agli eletti una solida disciplina di partito e di

minimizzare dissensi dalla linea ufficiale, o di circoscriverli a isolati “motivi di coscienza”, tutelati dal voto

segreto, ovvero “normalizzati” dalla esplicita previsione regolamentare della possibilità di intervento e

voto in dissenso dall’indirizzo del gruppo.

Nel corso del tempo si sono manifestate o comunque rafforzate tendenze degenerative in seno ai partiti

stessi – ormai divenuti sempre più “personali” e a militanza “virtuale” – e nell’ambito della medesima

istituzione parlamentare, ridotta perlopiù a sede ratificatrice di decisioni prese altrove, per lo sviluppo

prevalente dell’attività anche normativa del Governo, tanto più in tempi di crisi economica che in esso le

accentra e altresì per l’effetto congiunto di diverse tendenze che concorrono alla sua emarginazione, come

il potenziamento dell’azione di organismi tecnico-amministrativi indipendenti, l’influenza crescente –

nella conformazione della dialettica politica – di sentenze e in genere di provvedimenti della magistratura

di merito e di legittimità e degli organi di giustizia costituzionale, la constatazione infine che i luoghi, le

sedi e le circostanze di esercizio concreto della sovranità sono ormai da tempo collocate verso il basso

(nelle Regioni) e verso l’alto (nell’Unione Europea), rispetto alle assemblee parlamentari.

Severissimo è il giudizio al riguardo di uno studioso molto attento e acuto di simili fenomeni di

frammentazione del sistema partitico, “transfughismo” dei parlamentari (ossia il cambio, insolitamente

intenso nel numero dei casi registrabilii, delle affiliazioni in corso di legislatura a gruppi diversi da quelli

dei partiti ne quali si era stati eletti), conseguente abnorme crescita del gruppo misto, scoperta di vicende

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frequenti di corruzione e di uso a fini personali della funzione, laddove egli si interroga sulle cause di

quanto comunemente osservabile (anche qui sia consentita una citazione non breve, ma altrettanto

icastica della precedente):

«Al di là di quelle contingenti, correlate al quadro politico dell’attuale legislatura – si è infatti osservato10

– ve ne sono certamente altre, ben più profonde, legate alla crisi dei partiti politici, cioè dei soggetti su

cui si fonda la rappresentanza politica. Fenomeno non solo italiano, perché legato alla crisi d’identità

culturale, sociale e politica che attraversa, ancor prima dei rappresentanti, i rappresentati, ma che nel

nostro Paese si manifesta in modo affatto peculiare, attraverso tendenze disgregatrici e individualiste non

presenti in tal misura negli altri partiti politici europei. Sotto questo profilo, il transfughismo parlamentare

è in certa misura espressione dell’insopprimibile vocazione individualista e trasformista inscritta nel

patrimonio storico della nostra classe politica, se non, forse, della nostra coscienza nazionale, attraverso

cui, talora anche indipendentemente dalle prospettive di governo, i parlamentari, unendosi in gruppi

politici, tendono ad acquisire quella visibilità e peso politico che altrimenti, da soli, non avrebbero».

La pretesa di intervenire su fenomeni del genere essenzialmente attraverso un diritto giustiziabile sembra

tuttavia debole, o comunque da non assecondare in toto, perché le controindicazioni sono peggiori del

male che con essa si vorrebbe curare.

«I titolari degli organi (si intenda: quelli costituzionali, n. d. r.), attraverso i loro comportamenti,

comunicano – ha osservato uno studioso11 – oltre i “luoghi” delle relazioni interorganiche, attivando

circuiti di condizionamento dell’esercizio formale delle funzioni, che non si riuscirebbe a focalizzare se si

continuasse a descrivere la forma di governo con il solo ausilio delle fonti (scilicet: formali, n. d. r.) del

diritto».

Altri12 – nel contesto di una riflessione condotta proprio sul tema dei gruppi parlamentari – aveva dal

suo canto rilevato: «Non credo che sia opportuno introdurre una disciplina normativa (legislativa o

regolamentare che sia) “in positivo”, che cerchi di regolare la vita democratica dei partiti o dei gruppi

parlamentari: non perché sia di ostacolo il testo dell’art. 49 (o la sua genesi), ma perché è più che lecito

dubitare dell’effettività di tali discipline, dato che la politica è per sua natura “esuberante” e non è

produttivo cercare di ingessarne le modalità di funzionamento. Soprattutto in Italia, dove è del tutto

10 Ancora da S. CURRERI, Gruppi politici, libertà di mandato e norme anti-transfughismo, in Federalismi.it, 6/ 2017, 4, cui adde – per un ordine di idee convergente – C. MEOLI, Che cosa resta oggi del dveto di mandato imperativo?, in Giust. Amm., 9/ 2016. 11 M. CARDUCCI, Tra “zone grigie” e “antecedenti” della forma di governo, in Gruppo di Pisa, Dibarrito aperto siul Diritto e la Giurisprudenza costituzionale, on line, ad nomen auctoris. 12 R. BIN, I gruppi parlamentari e i partiti, relazione al Convegno La democrazia dei partiti e la democrazia nei partiti, Firenze, 19 ottobre 2007, in Forum di Quaderni Costituzionali, s. d. e negli Atti dello stesso, a cura di S. Merlini, Firenze, 2009, 201 ss.

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normale che persino le norme dei regolamenti parlamentari siano sistematicamente violate in nome delle

esigenze politiche o possano essere disapplicate con il consenso unanime (“nemine contradicente”): come se

le regole parlamentari avessero solo un “uso interno” e non fossero a presidio di valori universali di

legalità».

Aggiungeva peraltro questa dottrina che se, da un lato, «anche di fronte a violazioni dei regolamenti che

hanno suscitato dure reazioni delle opposizioni, si è preferito sbrigare il conflitto in sede politica piuttosto

che provare a far valere il rigore delle regole davanti alla Corte costituzionale», dall’altro una qualche

forma regolatoria minima va trovata e introdotta, perché quanto in precedenza osservato «non significa

però che non possano essere utilmente definite condizioni minime di trasparenza, che garantiscano la

regolarità dei rapporti e della gestione».

Le due ultime citazioni sono state scelte con una certa accuratezza, in ragione di una condivisione di

intenti – se chi scrive non ha male inteso – col caveat manifestato dai loro rispettivi autori.

Pretendere di illuminare ogni “zona grigia” od “oscura” dei rapporti tra soggetti (in senso tecnico) e

comunque attori dei rapporti costituzionali con la sola o prevalente luce del diritto, come oggi si invoca

diffusamente, sembra fallace e irrealistico e non fa bene né al diritto stesso, che nell’illusione di espandersi

in realtà diviene fragile ed esposto più facilmente a pratiche elusive della sua cogenza, né alla politica, che

si offre oltre ogni limite al sindacato giurisdizionale (anche sui generis, quanto alla Corte Costituzionale),

confessando dunque la propria impotenza.

Siffatta tendenza non è positiva, quantomeno in relazione alla dinamica concreta della forma di governo,

che non può tollerare supplenze para-giurisdizionali rispetto a un’auspicabile ripresa appunto di centralità

e dunque di “responsività” della politica (che nella sua essenza è misura di rapporti di forza, determinati

dal consenso elettorale, raffinati in seguito dalla mediazione operante nelle diverse sedi potestative e

verificati in ultima analisi ancora nelle successive elezioni) nel sistema, mentre trova ragioni forti per

venire sostenuta quando si tratti di garantire nell’effettività diritti fondamentali della persona (italiana e

straniera).

Consegnare le chiavi della propria casa ad un amico, senza la ferrea certezza che il suo soggiorno sia breve

e discreto, ossia che egli le restituisca e, avendolo fatto, non pretenda in seguito di dettare comunque in

essa legge dall’esterno è imprudente, per chi ambisca a goderne in autonomia l’uso, dopo avere avuto un

atteggiamento di liberale ospitalità, ma non abbia la forza di opporsi all’insana pretesa.

Fuor di metafora, questo è ad esempio accaduto quando la Corte Costituzionale, evocata dal giudice a

quo e ritenendosi legittimata a farlo da un’ordinanza di dubbia ammissibilità, ha in sostanza dettato le

linee della legislazione elettorale nell’ultimo periodo di tempo, il che si era a lungo guardata dal fare in

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precedenza e il legislatore ha quindi – per propria debolezza – aderito al lodo propostogli, senza mostrare

un reale e apprezzabile margine di apprezzamento e valutazione autonoma dell’oggetto del contendere.

Laddove si condividessero le preoccupazioni di “invasione di campo” o di rischio di abuso di ruoli appena

manifestate, relative ad un arbitro la cui personalità è costretta a risaltare eccessivamente perché le squadre

in campo non si impegnano davvero nella partita, o sono troppo fallose (sul punto si tornerà alla fine),

se ne dovrebbe forse derivare che il quesito di cui al punto n. 4 della griglia predisposta per il seminario,

che tende a individuare le vie per una “giustiziabilità” del contrasto tra mandato vincolante di partito e

libertà costituzionale del parlamentare, è mal posto.

Se una strada in tale senso volesse individuarsi – lo si dice per completezza – essa sarebbe plausibilmente,

più che nel sollevare una questione di legittimità costituzionale in via incidentale di leggi dichiaratamente

approvate in osservanza di vincoli di mandato partitico (tale via è infatti ostruita, dopo il diniego della

Corte nel leading case del 1964, già richiamato), nel costruire le prerogative del singolo parlamentare come

a lui spettanti in ragione della sua qualifica di “potere diffuso” – simile, per questo aspetto, a quello

giudiziario – e abilitato pertanto anche a sollevare conflitto di attribuzione a difesa delle stesse, secondo

una nota ricostruzione13.

Tuttavia, se il problema del conflitto sul piano logico tra mandato di partito e (ormai relativa) libertà di

esercizio di quello politico esiste, o meglio se si palesa l’esigenza di evitare abusi nell’applicazione della

prerogativa, è sbagliata – per le ragioni appena sopra evidenziate – la strada che si vorrebbe imboccare

per risolverlo.

Miglior partito – è il caso di dire – sarebbe quello di operare invece per ridurlo attraverso la legislazione

elettorale cosiddetta “di contorno” e le disposizioni di regolamento parlamentare, come ammette lo stesso

censore forse più aspro (e certamente acuto) del transfughismo parlamentare che si è sopra ricordato,

allorché avverte che «semplificatoria e demagogica sarebbe l’introduzione del vincolo di mandato. Per

quanto ispirata ad una condivisibile esigenza di coerenza politica dell’eletto verso gli elettori che l’hanno

votato perché candidato in e per un determinato partito, tale soluzione sarebbe peggiore del male da

curare, perché condannerebbe ogni assemblea elettiva alla paralisi decisionale e, quindi, alla sua stessa

negazione, vittima della reciproca incomunicabilità tra forze politiche ingessate nel rigido rispetto dei

cahiers de doléances ricevuti dai loro elettori (come avveniva nelle assemblee feudali non a caso dotate di

funzioni consultive ma non deliberative). Il vincolo di mandato finirebbe per negare il valore della

rappresentanza politica, e con essa delle istituzioni parlamentari, luogo di confronto e di mediazione, in

nome di una pretesa volontà generale degli elettori, dietro alla quale spesso si celano – come la stessa

13 N. ZANON, Il mandato…, cit., 321 ss.

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esperienza del Movimento Cinque Stelle dimostra - meccanismi decisori fortemente centralizzati ed

opachi»14.

In definitiva, potrebbe trovarsi un equilibrio tra opposte esigenze, nessuna da sola irragionevole, nella

sede di una snella – lo si scrive in adesione di chi scrive alle sopra riportate osservazioni realistiche di chi

le aveva formulate – ma ormai inevitabile normazione di principio sulla democrazia interna dei partiti e di

una regolazione delle lobbies, che cioè non tanto imponesse ai partiti e ai gruppi di pressione un modello

unico e uniforme di organizzazione, ma contenesse garanzie minime di tutela delle minoranze interne e

di trasparenza del gioco degli interessi che si scaricano sulle sedi delle decisioni pubbliche ed inoltre in

una almeno parziale sterilizzazione in sede regolamentare di finanziamenti parlamentari ad attività

organizzative degli eletti “transfughisti”, in un’ inibizione ad esempio della loro permanenza in cariche

che avessero ricoperto in precedenza, con le relative indennità di funzione – ma, appunto, si tratterebbe

di sanzioni previste da regolamenti parlamentari, a tutela delle istituzioni, non da statuti di gruppo –

nonché ancora imponendo l’osservanza rigorosa del divieto di costituire gruppi parlamentari non

corrispondenti a formazioni vagliate dall’elettorato, almeno se al di sotto di un certo numero di aderenti.

In quest’ottica (se si volesse infine prendere atto della logica degli “accordi” tra soggetti privati con effetti

sul “politico” che ormai sembra, come si è visto, dominare il campo), si potrebbe anche guardare all’

Acuerdo sobre un código de conducta politica en relación con el transfuguismo en las corporazione slocales” del 7 luglio

1998 in Spagna, aggiornato il 26 settembre 2000 e il 23 maggio 200615.

Il Senato italiano ha già lodevolmente incominciato, del resto, ad auto-riformare in tale direzione i propri

regolamenti, una volta superata la grande paura di essere ridotto a un’Assemblea minore.

Per il resto, se le scissioni intra-partitiche non sono mai augurabili, in un’ottica sistemica e se l’appello alla

disciplina di gruppo vale ad evitare frammentazioni eccessive e dunque fenomeni patologici della vita

parlamentare, la causa profonda sembra risiedere innanzitutto nella scadente qualità dei ceti politici e nella

lentezza e/o incapacità dei rappresentanti nel cogliere le istanze e il disagio dei rappresentati, che dal loro

canto sono assai meno di prima inquadrabili nei “macro-contenitori categoriali” delle età precedenti, in

ragione delle trasformazioni che tutte le società occidentali hanno subito – e con moto accelerato – per

effetto di fenomeni di complessiva, epocale «grande trasformazione» (per dirla con Polanyi) di natura

economco-produttiva, tecnologica, etico-culturale16.

14 Ancora S. CURRERI, Gruppi politici…. , cit., 5. 15 Sintesi comparate delle soluzioni realizzate nei diversi ordinamenti per comtemperare libertà di esercizio del mandato politico e sua “cattura” da parte dei partiti sono in S. CURRERI, Democrazia e rappresentanza politica, cit., 129 ss.; R. SCARCIGLIA, l divieto di mandato imperativo, cit., spec. 138 ss.; A. CIANCIO, I gruppi parlamentari, cit., 259 ss. 16 La letteratura in argomento è immensa; per i limitati fini di questa nota, c si limita a fare rinvio a pregevol opere recenti, che riflettono su di esso appunto sul piano giuridico-costituzonale: Percorsi e vicende attuali della rappresentanza e della responsabilità politica. Atti del Convegno di Milano, 16 – 17 marzo 2000, a cura di N. Zanon e F. Biondi, introd.

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Oltre un certo limite, la norma di diritto non può tuttavia avere realisticamente la pretesa di ingessare gli

sviluppi della vita – politica, e non solo – come del resto, in quella familiare, l’assenza di una legittimazione

del divorzio prima della sua introduzione nell’ordinamento giuridico non salvaguardava davvero i nuclei

affettivi, ma al più serviva in molti casi ad arrendersi al tormento di unioni forzate e sopravvissute alle

ragioni che le avevano motivate o a mantenere il silenzio dell’ipocrisia su accomodamenti pragmatici di

varia natura.

5. Un cenno conclusivo all’attualità costituzionale italiana: una forma di governo in

trasformazione?

L’esame del tema specifico non può tuttavia concludersi, in una riflessione comunque rapida, senza porre

in evidenza alcuni profili utili a inquadrarlo – e a spiegarlo perciò meglio – all’interno di un panorama più

generale di trasfomazione che appare in corso (si vedrà meglio nel corso del ragionamento in quale senso)

della nostra forma di governo e, prima ancora, della qualità della democrazia, dunque della stessa forma

di Stato.

Si avverte infatti opportunamente che «sono le forme complessive che in concreto assume la democrazia

che vengono in considerazione quando si riflette sulle modalità di svolgimento dei mandati politici e

rappresentativi»17.

Una suggestione dalla cronaca recentssma: tra il seminario alla Camera dei Deputati che ha motivato le

riflessioni finora svolte e la stesura del testo definitivo del presente intervento si è interposto un evento

lieto, che ha interessato la casa reale britannica, come la cerimonia del royal wedding, in casa Mountbatten

- Windsor, tra il principe Harry e la signora Rachel Meghan Markle, bellissima ex attrice afro-americana,

cioè quelli che sono diventati ora – dopo il matrimonio – i duchi del Sussex.

Benché chi scrive non sia interessato per nulla al gossip e alle toilettes degli invitati, al contrario lo è molto

alla funzione e al significato sociale dei simboli.

Quella casa reale, dopo la tragica conclusione della vicenda umana della principessa del Galles, ha

imparato ad aprirsi e sono ormai ancora più lontani, perfino nella sua mentalità – anche se non molto,

quanto ad anni trascorsi da allora – i tempi in cui un Re dovette abdicare per il rifiuto della Corte al suo

desiderio di impalmare una commoner.

Nell’attuale circostanza la sposa è entrata in cattedrale da sola, durante il rito si sono esibiti un coro gospel

e un giovane violoncellista afro-inglese, in esso ha predicato appassionatamente un vescovo – nero,

di G. Zagrebelsky, Milano, 2001; La democrazia raèèresentativa; declino di un modello?, a cura di A, Morelli, Milano, 2015; La rappresentanza in questione. Giornate di Diritto e Storia costituzionale, V, Napoli, 2016, cit. 17 Così G. AZZARITI, op. cit., 1.

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discendente di schiavi e difensore di cause sociali – della Chiesa episcopale di Chicago, che è disponibile

a celebrare unioni tra omosessuali, al momento dello scambio delle promesse nuziali la formula

tradizionale di «obbedienza al marito» da parte della moglie (che da parte sua si proclama orgogliosamente

femminista) è stata evitata, il cantante Elton John è stato pacificamente presente tra gli invitati e si è poi

esibito al successivo ricevimento, non essendo più ritenuto una pietra dello scandalo, come gli era

accaduto ai funerali della povera principessa Diana. Se ne può concludere che solo le istituzioni che

riescono a integrare (anche simbolicamente) le novità sopravvivono.

Tornando ora in Italia, ma resi consapevoli della verità di siffatto assunto, osserviamone la scena, per

lasciare memoria degli eventi agli studosi che verranno.

a) La tradizionale dialettica destra - centro - sinistra appare ormai (in realtà dovunque) recessiva e in via

di tendenziale ricambio, in favore di una diversa, che si svolge piuttosto tra nazional-populisti ed

europeisti /globalizzatori, ossia tra forze che assumono di rappresentare il “popolo” incorrotto e vessato

ed altre che in tale nuovo schema vengono accusate dalle prime di difendere l’esistente, vale a dire élites

privilegiate, di destra o di sinistra che esse siano E poiché l’ancoraggio comune d queste ultime è

l’orizzonte di senso dell’Unione Europea, seppure soggetta a critiche e di una globalizzazione non

demonizzata e ritenuta irreversibile, sia pure da fronteggiare con prudenza negli effetti indesiderabili, la

nuova contrapposizione diventa quella tra europeisti /globalisti e “sovranisti”, come si è preso a dire,

ossia nazionalisti ed economicamente protezionisti.

Ci si può ragionevolmente attendere in Italia – o, meglio, se l’aspetta chi scrive – l’accelerazione di un

processo di unificazione o comunque di ravvicinamento, rispettivamente tra il ceto dirigente partitico di

ispirazione “renziana” e quello “berlusconiano”, che culmini nella nascita di una nuova formazione (o

quantomeno di un blocco) centrista ed europeista, nonché di riflesso (se questo accadesse) nella

costituzione per ulteriore scissione di un partito di sinistra “classico” tra esponent “non renziani” del PD

e altri, che oggi si collocano fuori e contro di esso.

b) La dinamica prima elettorale e quindi di formazione del nuovo governo ha mostrato pertanto

l’evaporazione già da tempo in corso del fattore “politico” tradizionale e l’emersione di sue nuove forme,

tradottesi in differenti convenzioni costituzionali, con sostituzione delle precedenti, sicché oggi si assiste

al palesarsi di un modello funzionale e di una logica di carattere giusprivatistico: in essa ha posizione

centrale appunto l’’istanza di un mandato rappresentativo in realtà vincolato ed eventualmente revocabile

da popular recall, di cui si è sopra detto.

È questo il punto in cui le riflessioni puntuali che l’nvito a dibattere su un tema specifico si ricollegano

alla ricostruzione più complessiva di contesto, che qui stiamo tentando.

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«Robespierre, sulla scia dell’insegnamento rousseauviano – è stato sagacemente rammentato18 – dà per

scontato che la sovranità non può essere rappresentata. “Il dominio del popolo dura un giorno solo” e,

in ogni caso, “i suoi delegati sono corruttibili” enuncerà il rivoluzionario con tono acceso. Diventa allora

fondamentale la predisposizione di strumenti di partecipazione e controllo all’attività dei mandatari, un

sistema che permetta di rimanere “egualmente lontani sia dalle bufere della democrazia assoluta sia dalla

perfida tranquillità del dispotismo rappresentativo”. In conformità a questi presupposti filosofici e teorici,

le considerazioni di Robespierre sono tutte dominate dall’esigenza di garantire che i “manadataires”

rispondano della loro gestione al popolo».

V’è comunque oggi di più, anche se quello appena individuato è il cuore del problema: è stata infatti

coerentemente avanzata anche l’ulteriore e connessa istanza di nuove articolazioni della democrazia

diretta (un apposito incarico ministeriale senza portafoglio collega del resto insieme «rapporti col

Parlamento e democrazia diretta» e sul tema si ricorderà come fosse già prevista dalla riforma Renzi una

sua implementazione, con riserva a future leggi costituzionali della concreta articolazione) e si è inoltre

data la stipulazione, tra le forze emerse come assunte vincitrici – il dubbio viene espresso perché un esito

vittorioso in assoluto sarebbe potuto in realtà scaturire solo da un sistema elettorale con premio di

maggioranza, non da uno proporzionale, che al massimo può dislocare le forze uscite dalle elezioni in

posizoni di rispettivo vantaggio o svantaggio – di un “contratto di governo”, che appunto sottomette le

future decisioni pubbliche ag uno strumento convenzionale di natura tipicamente privatistica.

Tale atto di carattere negoziale, che prevede tra l’altro anche un organismo a composizione paritaria dei

conflitti tra le parti, in sostanza un collegio arbitrale, ha visto il procedimento della sua formazione

culminare nell’individuazione, solo nella fase finale, del nome di un Presidente del Consiglio incaricato

che ha le caratteristiche professionali di un valente avvocato, costituito quale garante e mero esecutore di

un lodo, non a caso professore universitario di diritto privato.

«Sarò l’avvocato difensore dei cittadini» è stata la testuale espressione del professore Conte nell’accettare

l’incarico (in un primo tempo senza buon esito) di formare il Governo, confermando in tale modo

l’intervenuto salto tendenziale delle tradizionali mediazioni rappresentativo-parlamentari.

L’ispirazione culturale potrebbe a buon diritto dirsi peronista e tutti gli aspettti via via elencati e che si

collegano tra loro in un disegno coerente trovano il loro punto di rinsaldamento nella torsione del

mandato politico rappresentativo in uno schema giuridico che è in realtà ad esso estraneo.

18 Ancora da G. AZZARITI, op, cit., par. 4. Non sfuggirà la circostanza che la piattaforma operativa del movimento pentastellato, gestita in concreto dalla società privata Casaleggo&Associati, sia appunto intitolata al filosofo ginevrino, ispiratore di Robespierre. Su questi aspetti (oltreché su quelli più generali dell’istituto), di particolare efficacia appaiono le osservazioni polemiche di G. GRASSO, Mandato imperativo e mandato di partito: il caso del MoVimento 5 Stelle, in Osservatorio AiC, 2/ 2017.

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Va qui sottolineato il carattere enfatico ed impreciso, sul piano giuridico, della denominazione italiana

dell’accordo scritto di coalizione, già in realtà concluso tra forze politiche diverse in molti Paesi.

Ci si è ispirati al riguardo come si è esplicitamente dichiarato dai contraenti, al Koalitionsvertrag, che dal

1961, ma con precedenti che risalgono all’immediato secondo dopoguerra, indica in Germania il

documento programmatico stipulato, dopo le elezioni del Bundestag, dalle forze che intendono governare

il Paese in un assetto elettorale proporzionalistico. Orbene, in chiave critica, può rilevarsi che:

- Esso non può contenere solo disposizioni di natura patrimoniale, alle quali a rigore un contratto – se

fosse davvero tale – dovrebbe limitarsi;

- non può essere obbligante in diritto, a pena di impingere appunto nell’esplicito divieto costituzionale di

mandato rappresentativo vincolato, previsto in Germania come in Italia e che non è superabile, secondo

i più, nemmeno emendando formalmente la disposizione, posto che la libertà dell’eletto, pur in presenza

di un’organizzazione della vita parlamentare fondata su gruppi perlopiù riferibili a partiti, è – come si è

all’inizo di questo scritto rilevato – incomprimibile;

- contraenti non ne sono i gruppi parlamentari, se non di riflesso e tendenzialmente, essendo stato

stipulato dai leaders politici19;

- non può contenere, specificamente, multe per chi abbandoni il gruppo, o voti in dissenso da esso (come

nel riportato codice etico del Movimento Cinque Stelle, tradotto – come si è visto – in vincoli

regolamentari di gruppo per i loro eletti in assemblee politico-amministrative), proprio per il rilevato

carattere assorbente del divieto di vincolo di mandato. Una clausola che dunque le preveda vitiatur, sed

non vitiat e in effetti, ad una prima lettura del documento, può rilevarsi che anche diverse altre sue

statuizioni potrebbero in realtà cadere sotto la scure della Consulta, se venissero tradotte in atti legislativi

e prima ancora nella censura del Presidente della Repubblica, in sede di controllo preordinato alla loro

promulgazione

Per completezza e correttezza analitica, va segnalato peraltro che l’istanza di investitura popolare del capo

dell’Esecutivo viene in Italia da lontano, in età repubblicana e si traduce – nella cultura costituzionale di

19 Si vedano sul punto V. BALDINI, Il contratto di governo: più che una figura nuova della giuspubblicistica italiana, un (semplice…) accordo di coalizione, in Diritti fondamentali, 1/ 2018, nonché A. DE PETRIS, Il modello tedesco, in FB Lab, 31 Maggio 2018, ma se ne erano in precdenza conclusi normalmente anche altrove, sempre come accordi di mera natura politica: si vedano ad esempio per la Gran Bretagna – e dunque in ambente maggioritario – già C. FUSARO, C. MARTINELLI, P. RONCHI, Tre letture sul Coalition Agreement, in Quaderni Costituzionali, 3/ 2010. Per le difficoltà spagnole, in mancanza di una solida cultura e prassi di patti di coalizione, si legga invece ad esempio L. FROSINA, La mancata formazione del governo in Spagna e le vie inesplorate dell’articolo 99 della Costituzione, in Nomos, 1/ 2016. L’Italia è al contrario tradizionalmente aperta a simili patti: si leggano ad esempio, fra i molti, G. FERRARA, Il Governo di coalizione, Milano, 1973; M. CARDUCCI, L’accordo di coalizione, Padova, 1989. Per una panoramica complessiva recente delle difficoltà di formare i governi dopo le elezioni, che coinvolgono ormai molti Paesi, con sistemi tanto proporzionali, quanto maggioritari, si legga altresì C. FUSARO, Governabilità, un decalogo sulle coalizioni post-elettorali, in Repubblica, 22 dicembre 2017.

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destra – nel favore verso la forma di governo presidenziale ed in quella di centrosinistra dei tempi più

recenti nella ricerca di un’investitura, da parte dell’elettorato, non solo del Parlamento (da ridurre,

secondo la riforma costituzionale non approvata dal corpo elettorale, a una sola Camera politica, con

l’altra formata su basi e competenze regionali, o per altri corporativamente, cui doveva essere comunque

sottratto l’intervento nel circuito fiduciario), ma anche del Governo e appunto del suo “Capo” – il

modello è il cosiddetto “premierato”, di ispirazione britannica – e di una legge elettorale maggioritaria

semplificatrice e stabilizzatrice del sistema politico, in forza della quale (come è stato a lungo ripetuto) la

sera delle elezioni si conosca il nome del premier, appunto il capo del partito e/o della coalizione risultati

vincenti alle elezioni.

Ne è residuato nel dibattito pubblico attuale, pur dopo le note vicende che hanno portato a superare una

legge elettorale mai applicata e a tanto diretta, il cosiddetto Italicum, la (tecnicamente infondata)

insofferenza di taluni verso “governi non eletti”, tema polemico sul quale hanno molto insistito sia il

“capo politico” del Movimento Cinque Stelle, sia il leader leghista.

Il ruolo del Presidente della Repubblica – in tale contesto – ha oscillato nel tempo, per la voluta

indeterminatezza delle disposizioni formali della Carta fondamentale relative alla figura, tra una sua

interpretazione – innanzitutto da parte di ciascun protagonista pro tempore – che ne assicurava prestazioni

di garanzia e un’altra che ne permetteva o imponeva all’occorrenza una presenza ben più attiva.

Questa seconda tendenza appare ad uno sguardo retrospettivo essere stata in formazione - in detta

direzione - già con Gronchi e Pertini (con una premessa in Einaudi, garantista pressocché silente in

pubblico, ma che dopo le dimissioni di De Gasperi nominò tuttavia Pella Presidente del Consiglio senza

effettuare consultazioni), chiara nella “pars destruens” in Cossiga, evidente nella “pars (ri)construens”

nell’esperienza di Napolitano, fino a sfiorare un ambiguo “parlamentarismo a direzione presidenziale”,

secondo una formula che chi scrive aveva usato in un proprio libro di saggi (anche) sulla forma di

governo, se è permesso auto-citarsi20 ed oggi non può essere nei fatti facilmente rinnegata, come se non

si fosse all’occorrenza resa disponibile nello strumentario costituzionale, allo stesso modo per cui non

può essere rimessa nel tubo che la conteneva la pasta dentifricia che ne sia sortita.

La Corte Costituzionale, a sua volta – soprattutto intervenendo sulla legge elettorale, ciò che

precedentemente si era ben guardata dal fare – ha dal suo canto e in sostanza sempre aperto nel tempo

20 S. PRISCO, Costituzione, Diritti umani, forma di Governo, Torino, 2014. Sul rilievo decsivo di Prassi, convenzioni e consuetudini nel diritto costituzionale (in special modo nello strutturare la dinamica effettiva della forma di governo) sono fondamentali gli Atti del XXIX Convegno annuale dell’Associazione dei Costituzionalisti di Catanzaro, 16 – 18 ottobre 2014, ora nel volume così appunto intitolato, Napoli, 2015.

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al nuovo che veniva maturando, come aveva già del resto fatto allorché ritenne ammissibili i due

referendum promossi dall’onorevole Mario Segni.

La metafora dell’ “arbitro”, che si è usata in precedenza nel testo, può dunque trovare nell’effettività

un’applicazione molto larga e dinamica – se guardiamo all’operato (nello sviluppo effettivo della forma

di governo) degli organi di garanzia costituzionale nel corso del tempo – ed è stata ad esempio impiegata

proprio dall’attuale Presidente della Repubblica durante il lungo e controverso procedimento che ha

infine condotto alla formazione del Governo, essendo egli stato costretto ad un attivismo a cui sarebbe

stato per indole forse riluttante dall’inconcludenza a lungo mostrata da forze politiche intente a trovare

un accordo – o il “contratto” di cui si è detto – per dotare il Paese di un Esecutivo e avviare finalmente

il lavoro della legislatura da poco incominciata.

Un duro scontro aveva contrapposto i leaders dei partiti destinati a comporre la maggioranza di governo

al Presidente della Repubblica, intorno alle caratteristiche programmatiche e alla composizione personale

del gabinetto, coi primi – portatori di una logica da sistema elettorale maggioritario, mentre il loro

successo è stato semmai il frutto di una legge elettorale iper-proporzionalistica – che pretendevano di

avere su entrambi gli àmbiti una sostanziale mano libera e il secondo che intendeva fare valere il suo

ruolo nella nomina dei ministri, su proposta del presidente incaricato dell’organo collegiale (cui

sembravano e tuttora sembrano difettare le opportune capacità di mediazione sul punto, per il suo profilo

finora “impolitico”), rivendicando un esercizio non puramente notarile di questa sua attribuzione, attesa

la sua natura di organo monocratico di rappresentanza e di garanzia degli interessi unitarî del Paese.

Esse superano – come si è assunto dai suoi difensori – l’azione di contingenti maggioranze e opposizioni

politiche, specialmente nell’ambito dell’amministrazione della giustizia (egli è infatti anche Presidente del

Consiglio Superiore della Magistratura), della coesione territoriale (dovrebbe sottoscrivere il decreto di

esercizio dei poteri sostitutivi nei confronti di Regioni ed enti autonomi che vi dessero causa, nonché

quello di scioglimento del Consiglio regionale e di rimozione del Presidente della Giunta, ai sensi

rispettivamente degli artt. 120 e 126 della Costituzione), rispetto al quadro delle alleanze internazionali e

della difesa nazionale (è Presidente del Consiglio Supremo di Difesa), delle opzioni generali di politica

economica, anche in ragione degli impegni internazionali che abbiamo assunto, vincolanti ex art. 80 e 117

della Carta, infine in vista della tutela dei diritti fondamentali (promulga le leggi, anche di spesa e in tale

controllo compie valutazioni di “alto merito costituzionale” e può spingersi a rinviare le leggi alle Camere

con messaggio motivato)

Invero, anche nell’art. 92, oltreché negli artt. 87, penultimo alinea (grazia e commutazione delle pene),

88 (scioglimento di una o di entrambe le Camere), 89 (controfirma), della Carta Costituzionale, è presente

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una “doppia chiave” per serrature – fuor di metafora: attribuzioni – diverse. Si tratta cioè di istituti che

prevedono un esercizio di poteri differenti, ma cospiranti al risultato.

Diversamente che nel testo – anche se non nella tendenziale prassi evolutiva fin dall’età liberale – dello

Statuto Albertino, che vedeva il Re nominare ed eventualmente revocare il “suo” governo, si è oggi

benvero nella diversa situazione di essere proiettati alla formazione di un Esecutivo che riceva la fiducia

delle Camere. La prassi è stata finora nel senso di circoscrivere il rifiuto di nomina, che si è dato21

unicamente a ragioni attinenti alla contingente condizione soggettiva dell’aspirante ministro, che va

valutata dal Presidente della Repubblica con stretto rigore formale (ad esempio, la pendenza di

procedimenti penali nel nominando, o la ritenuta inopportunità di affidare il ruolo di Guardasigilli a un

magistrato in servizio, per evitare in radice conflitti di interesse).

In realtà, non può escludersi che, oltre a una resistenza motivata da posizioni “euroscettiche” e quindi

contrarie agli impegni euro-unitari del Paese attribuite al pur illustre tecnico che la coalizione in

formazione intendeva ricomprendere nella compagine governativa quale ministro dell’Economia, il

Presidente Mattarella sia stato costretto a “scoprire il fianco” (ma pur sempre esercitando al più un

“indirizzo politico costituzionale”, secondo la nota teorizzazione di Paolo Barile, in ragione del suo ruolo

di rappresentante dell’unità repubblicana oltre le singole fazioni, non già compiendo un’invasione di

campo in quello di maggioranza) dalla necessità di rafforzare, nella circostanza specifica, l’autorevolezza

politica del soggetto formalmente incaricato di costituirla, che come si è sopra rilevato non ha seguito un

cursus honorum politico, nei confronti delle rigidità dei partiti della maggioranza in itinere, che avevano

ridotto a meramente formali le sue prerogative di doverosa mediazione, in contrasto col chiaro dettato

dell’art. 95.

21 Casi trapelati nel tempo sono stati ad esempio quello di Scalfaro di nominare Previti – poi finito alla Difesa – nel I Governo Berlusconi, di Ciampi nei confronti di Maroni – poi finito al Lavoro – nel nuovo Governo del medesimo esponente politico e quelli di Napolitano nei confronti di Delrio, giudicato di scarso peso internazionale, o di Gratteri, Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, per entrambi in realazione al Governo Renzi. Si veda, per tale elencazione parziale, A. GAGLIARDI – A. MARINI, Da Previti a Gratteri, tutte le volte che il Quirinale ha stoppato la nomina di un ministro, Il Sole 24 Ore, 25 Maggio 2019. Un’integrazione di questa casistica, riferita anche ad altri episodi che hanno avuto come protagonisti Presidenti della Repubblica diversi, è ora in S. CURRERI, Le ragioni di Mattarella nel rifiutare quella nomina, ma lo ha fatto nella sede sbagliata, in la Costituzione.info, 29 maggio 2018, che replica a R. BIN, L’arroganza di Salvini e la fermezza di Mattarella: una lezione di diritto costituzionale ivi, 27 maggio 2018 e ID., Mattarella non poteva, ma doveva rifiutare la nomina, 29 maggio 2018. Nel dibattito complessivo di questo blog di commenti sull’attualità costituzionale, sul punto particolarmente intenso, si leggano altresì O. CHESSA, Il (presunto) veto presidenziale sul ministro dell’economia è legittimo?, 23 maggio 2018; ID., Nomina del primo ministro e nomina dei ministri: quali sono le differenze?, 27 maggio 2018; C. CARUSO, Mattarella e il veto presidenziale: quando la Costituzione resta in silenzio, 29 maggio 2018; A. ALBERTI, Perché il decreto di nomina dei ministri proposti dal Presidente del Consiglio incaricato non ha natura “sostanzialmente governativa”; A. GIGLIOTTI, In tema di nomina dei ministri e poteri del Presidente della Repubblica, entrambi in data 31 maggio 2018.

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Si aggiunga inoltre che peraltro la moral suasion del Presidente della Repubblica ha quoad essentiam bisogno

– per sortire una qualche efficacia – di doverosa riservatezza (come si evince in modo assai chiaro dalla

sentenza 1/ 2013 della Corte Costituzionale sulle intercettazioni casuali delle conversazioni telefoniche

del Capo dello Stato), il che mal si accorda con la pretesa di divulgare ogni passaggio della crisi ai militanti,

tramite il web e i social network.

Per fortuna, dopo essere giunti nella specie sull’orlo di uno scioglimento precoce delle Camere,

determinato dall’incrudirsi della polemica e che avrebbe dovuto trovare sbocco, in ipotesi, in una fase

transitoria gestita da un Esecutivo “tecnico” destinato alla singolare ventura di non vedersi

presumibilmente accordata la fiducia da nessun gruppo parlamentare e dopo le avventate dichiarazioni di

taluno relative ad un assunto “attentato alla Costituzione” del Presidente della Repubblica, cadute però

nell’imbarazzo generale e subito ritirate, si è evitato con la formazione del Governo che si materializzasse

l’ombra di un precedente funesto.

Nel caso in cui si fossero infatti date effettive elezioni a breve e nell’ipotesi di una riconferma, a seguito

di esse, dei rapporti di forza usciti dalle elezioni da poco celebrate, di fronte alla possibile e anzi

prevedibile riproposta per un incarico ministeriale del nome del soggetto che era stato occasione della

crisi, al Presidente non sarebbe restato infatti che «ou se soumettre, ou se demettre», come recitava il noto

motto di Léon Gambetta, nella vicenda che in Francia ebbe come esito appunto le dimissioni del

Presidente della Terza Repubblica Mac Mahon nel 1878, dopo che – da monarchico – egli aveva sciolto

un Parlamento repubblicano e se lo era visto riconfermare dagli elettori.

Il fatto è che, con un sorprendente paradosso, nella situazione attuale l’istanza diffusa e in precedenza

ricordata di un maggiore intervento popolare nelle singole e fondamentali opzioni di governo, tramite un

incrementato ricorso alla democrazia diretta nelle decisioni – legittimate quantomeno attraverso interpello

dei militanti via web o sotto gazebi e comprendendo fra esse una sorta di investitura popolare del “capo

dell’Esecutivo” (invero non corretta, per quanto detto in precedenza), insomma la richiesta di una almeno

apparente disintermediazione (la riserva verbale va esplicitata, giacché, anche nella richiesta di una

consultazione popolare su un quesito, un influencer decisivo esiste ed è chi formula il tenore letterale della

domanda cui rispondere e stabilisce il momento in cui sottoporla a chi è chiamato a rispondervi) – ha

avuto per il momento una realizzazione controintuitiva, rispetto a quanto era implicito in (e conseguente

a) siffatta visione.

Un referendum costituzionale (dunque ancora uno strumento di democrazia diretta, ma praticato secundum

ordinem) ha difeso in definitiva la Costituzione esistente, ma non poteva essere un argine alla sua

reinterpretazione, tant’è che i due partiti di governo appaiono oggi gramscianamente essi i “moderni

prìncipi” e il “capo del Governo” un mero esecutore del loro accordo programmatico.

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Il richiamo a Gramsci non è casuale: egli ci ha appunto insegnato a leggere la realtà socio-politica in

termini di processi di egemonia e quello che ora sta avvenendo è proprio un cambio di fase, all’insegna

di un ringiovanimento del ceto politico - in parte avviato da tempo - e di una nuova lettura del modello

costituzionale complessivo (anche senza il suo mutamento formale, allo stato), che nasce dalla

insoddisfazione di ceti medi, operai, giovani impoveriti e precarizzati, dunque incattiviti dagli effetti

(vissuti come solo o prevalentemente negativi) dei processi di globalizzazione e di scarso controllo

dell’immigrazione e dal sostanziale fallimento delle élites interne e sovranazionali, oggi in via di

sostituzione nella direzione dei processi di decisione politica, nel rimediare a una lunga crisi economica.

Bruxelles, Berlino, Parigi (non si dice Londra: non abbiamo il Commonwealth e non usciremo

realisticamente dall'Unione Europea) appaiono oggi più lontane, mentre Budapest e Vienna sono più

vicine22.

* * *

«Autunno. Già lo sentimmo venire/ nel vento d’agosto,/ nelle piogge di settembre / torrenziali e piangenti / e un brivido

percorse la terra / che ora, nuda e triste, /accoglie un sole smarrito. / Ora passa e declina,/ in quest’ autunno, che incede

/ con lentezza indicibile, / il miglior tempo della nostra vita / e lungamente ci dice addio».

La poesia di Vincenzo Cardarelli può aiutare a concludere questa riflessione. Non l’abbiamo sentita

arrivare la nuova stagione, o ne abbiamo sottovalutato in troppi i segni con cui essa si preannunciava. Per

alcuni è un inverno desolato («l’inverno del nostro scontento», si direbbe con lo Shakespeare del Riccardo

III), per altri la promessa di una primavera imminente. Solo chi vivrà vedrà.

22 Acuti svolgimenti in proposito sono ora quelli di S. FABBRINI, Se l’Italia diventa il laboratorio sovranista, ne Il Sole 24 Ore, 3 giugno 2018.

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di Ciro Sbailò

Professore ordinario di Diritto pubblico comparato Università degli Studi Internazionali di Roma – UNINT

Presidenzialismo contro populismo: col mandato imperativo si dissolve la democrazia costituzionale, ma non

basta dire “no”

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Presidenzialismo contro populismo: col mandato imperativo si dissolve la democrazia

costituzionale, ma non basta dire “no”*

di Ciro Sbailò Professore ordinario di Diritto pubblico comparato

Università degli Studi Internazionali di Roma – UNINT

1. In primis, si pone il problema della stesura e della potenziale applicazione di disposizioni di

Statuti dei gruppi – regole di diritto privato - in palese contrasto con la Costituzione e con il

Regolamento. Cosa succederebbe se le norme statutarie di un Gruppo vietassero alle deputate

che vi appartengono di prendere la parola in Aula o di presentare proposte di legge?

La costruzione del moderno concetto di “democrazia parlamentare” fa leva sul principio dell’assenza di

vincolo di mandato per i membri del corpo legislativo.

Mi limito a richiamare brevemente due circostanze storiche.

La prima: nell’Inghilterra del XVI secolo, la nozione di “Parlamento”, nel significato attuale di assemblea

legislativa che esercita un controllo sull’Esecutivo, si sviluppa all’interno del passaggio dallo scambio

corporativo, che presuppone la finalizzazione dell’attività parlamentare a interessi particolari, alla

rappresentanza vera e propria, che è incompatibile con il vincolo di mandato. Un’efficacissima sintesi di

questo processo la troviamo nelle parole rivolte da Edmund Burke agli elettori di Bristol, nel novembre

del 1774: «Parliament is not a Congress of Ambassadors from different and hostile interests; which

interests each must maintain, as an Agent and Advocate, against other Agents and Advocates; but

Parliament is a deliberative Assembly of one Nation, with one Interest, that of the whole; where, not local

Purposes, not local Prejudices ought to guide, but the general [[12]] Good, resulting from the general

Reason of the whole. You chuse a Member indeed; but when you have chosen him, he is not Member

of Bristol, but he is a Member of Parliament».

La seconda: agli albori del costituzionalismo euro continentale contemporaneo, alla fine del XVIII secolo,

il vincolo di mandato si presenta come un ostacolo alla determinazione del carattere nazionale della

rappresentanza parlamentare, laddove tale determinazione si rivela necessaria per la costruzione d’una

nozione di interesse pubblico libera dalle dinamiche cetuali e da ogni altra forma di particolarismo sociale.

* Intervento alla Tavola rotonda “Gli statuti dei gruppi parlamentari alla prova dell’art. 67della Costituzione”, Roma, 16 maggio 2018. Il testo è stato redatto seguendo la traccia che l’on. Magi ha inviato ai partecipanti alla tavola rotonda. Le domande sono numerate e riportate in corsivo seguite dalle risposte. Alle risposte sono state aggiunte alcune considerazioni finali e una breve nota bibliografica.

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In altre parole, il vincolo di mandato è di ostacolo alla ricerca di soluzioni che rispondano all’interesse

generale ed è, dunque, in conflitto con la stessa idea di “Nazione”.

Passando ai nostri giorni, va rilevato come la comparazione giuspubblicistica confermi il legame

inscindibile tra libertà di mandato e carattere politico della rappresentanza.

Anche a tale riguardo, mi limito a due casi particolarmente emblematici.

Il primo caso riguarda la Germania. Il diritto costituzionale tedesco, come accade in ogni ordinamento di

stampo liberal-democratico, prevede il divieto di mandato imperativo per i membri della Camera eletta

dal popolo («I deputati del Bundestag sono eletti a suffragio universale, diretto, libero, uguale e segreto.

Essi sono i rappresentanti di tutto il popolo, non sono vincolati da mandati né da direttive e sono soggetti

soltanto alla loro coscienza», art. 28 della Grundgesetz, GG). Diverso il caso del Bundesrat, il Consiglio

federale. Vale la pena qui riportare per intero l’art. 51 della Costituzione tedesca, dedicato, per l’appunto,

alla composizione del Consiglio: «1. Il Bundesrat è composto da membri dei governi dei Länder, che li

nominano e li revocano. Essi possono farsi rappresentare da altri membri dei rispettivi governi. 2. Ogni

Land ha almeno tre voti, i Länder con più di due milioni di abitanti ne hanno quattro, i Länder con più di

sei milioni di abitanti cinque, i Länder con più di sette milioni di abitanti sei voti. 3. Ogni Land può inviare

tanti membri quanti sono i suoi voti. I voti di un Land possono essere espressi solo unitariamente e solo

dai membri presenti o dai loro rappresentanti». Si comprende bene come i consiglieri federali tedeschi

siano sottoposti a un rigoroso vincolo di mandato. Una nota sentenza della Corte costituzionale tedesca

ha, infatti, stabilito che il Bundesrat «non è né parte di un “Parlamento federale” unitario né una seconda

Camera del Parlamento nel senso tradizionale di un secondo corpo legislativo» (BVerfGE 37, 363, 25

luglio 1974).

Tuttavia, sono previsti almeno due circostanze, particolarmente significative, in cui tale vincolo si spezza.

La prima è quella della partecipazione dei consiglieri federali alla Gemeinsame Ausschuß o “Commissione

comune” (art. 53, GG). I membri del Bundesrat sono chiamati a occupare 1/3 dei posti della Commissione,

ma in questa veste, essi «non sono vincolati da direttive» (art. 53° GG). La spiegazione più semplice e

immediata di questa eccezione al principio del vincolo di mandato la si può trovare nella medesima carta

costituzionale. Quella Commissione, tra le altre cose, è chiamata a svolgere un ruolo fondamentale

quando il territorio federale sia aggredito o seriamente minacciato di aggressione (Verteidigungsfall, o «stato

di difesa», art. 115a GG). Essa, infatti, può decidere che il Bundestag si trovi nell’impossibilità di operare e

«prende il posto del Bundestag e del Bundesrat», assumendone «unitariamente i poteri» (115e). La seconda

circostanza è quello della Vermittlungauschuss, la “Commissione di conciliazione”, composta

pariteticamente da membri del Bundestag e del Bundesrat, che deve svolgere attività di mediazione nel caso

in cui vi sia un veto del Bundesrat nei confronti di leggi deliberate dal Bundestag (art. 77, c.2). Anche in

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questa circostanza, «i membri del Bundesrat nominati in detta Commissione non sono vincolati da

direttive». Qui la spiegazione della rescissione del vincolo di mandato può essere più complessa, ma a noi

pare abbastanza chiara: la mediazione di cui la Commissione si deve occupare, evidentemente, va cercata

nel nome dell’interesse dell’intera nazione. In altre parole, i consiglieri federali sono chiamati a partecipare

a un sotttoprocedimento legislativo volto a superare l’opposizione dello stesso Bundesrat. Evidentemente,

nello svolgere questo ruolo essi rappresentano l’interesse nazionale e non delle maggioranze politiche

formatesi nei rispettivi territori di provenienza.

In sintesi: il vincolo di mandato per i membri del Bundesrat viene meno quando questi esercitano u ruolo

politco.

Il secondo caso emblematico del nesso tra libertà di mandato e carattere politico della rappresentanza

riguarda i membri del Congresso degli Stati Uniti d’America.

Negli USA non esiste vincolo di mandato per i parlamentari. Tuttavia, per quel che riguarda i senatori,

all’inizio era previsto un certo vincolo con lo Stato di provenienza: «Il Senato degli Stati Uniti sarà

composto da due senatori per ciascuno Stato, eletti dai locali corpi legislativi per sei anni» si legge nella

formulazione originaria dell’art. art. 1 sec. 3 della Costituzione del 1787. Il sistema fu adottato in analogia

con il meccanismo usato per l’elezione dei delegati alla Convenzione costituzionale. Ma si rivelò presto

poco efficiente e poco consono a un Paese in veloce evoluzione sociale (erano frequenti i casi di seggi

vacanti, a causa di conflitti tra partiti e gruppi di interesse all’interno dello stesso Stato). La politicizzazione

del ruolo dei senatori è stata una costante della vita pubblica americana, in particolare nel periodo

compreso tra la fine della Guerra civile (1865) e l’entrata in guerra degli Stati Uniti (1917), caratterizzato

da una veloce nazionalizzazione della battaglia politica, dalla crescita del ruolo della stampa e dalla

diffusione di movimenti populisti. Di fatto, in alcuni stati si cominciò ad adottare la consultazione diretta

dell’elettorato per eleggere i senatori. Nel 1913 la formula fu così modificata: «Il Senato degli Stati Uniti

sarà composto di due senatori provenienti da ciascuno Stato, eletti dal relativo popolo, per sei anni».

Quale reperto di “archeologia costituzionale” dell’originario vincolo tra il senatore e corpo politico dello

Stato di elezione è rimasto, in alcuni casi, il potere, in capo all’Esecutivo dello stesso Stato, di nominare

un senatore “temporaneo”, in attesa di nuova elezione, quando il seggio diventi vacante.

Insomma, l’unico possibile fondamento di una qualche forma di vincolo di mandato per un membro del

Congresso – vale a dire l’elezione di secondo grado – è stato bruciato sull’altare della nazionalizzazione e

della politicizzazione della vita pubblica.

Non sono mancati, tuttavia, tentativi di creare qualche vincolo giuridico tra l’eletto al Congresso e il corpo

elettorale. Emblematica, al riguardo, la vicenda del recall. L’istituto è previsto in alcuni Stati, per la

rimozione o la sostituzione di un public official, ovvero di funzionari o titolari di cariche pubbliche, di

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norma a carattere elettivo. I vari tentativi di estendere il recall agli eletti al Congresso, anche in forme

molto blande, sono stati tutti senza successo. È molto istruttiva, in questo senso, la vicenda dell’Arkansas,

dove nel 1992, attraverso una modifica costituzionale, si vietò la candidatura al Congresso a chi fosse

stato eletto per tre volte alla Camera o per due volte al Senato (Arkansas Constitution, 73 § 3), facendo leva

sul X emendamento della Costituzione federale, secondo il quale «i poteri che la costituzione non

attribuisce agli Stati Uniti né inibisce agli Stati, sono riservati ai singoli Stati o al popolo».

La Corte suprema dichiarò incostituzionale la norma (U.S. Term Limits, Inc. v. Thornton et al., 514 U.S. 779

[1995]). Secondo l’opinione della Corte, la restrizione imposta dallo Stato dell’Arkansas era contraria al

principio fondamentale della democrazia rappresentativa, in base al quale è il popolo a dover scegliere da

chi essere governato. Riconoscere a ciascuno Stato la potestà di adottare propri criteri per l’elezione al

Congresso sarebbe incoerente con il principio di «una Legislatura nazionale uniforme» che rappresenti «il

popolo degli Stati Uniti». E nella sua dissenting Opinione, il giudice Clarence Thomas precisava: «In coerenza

con la complessità del sistema federale, una volta scelti dal popolo, i rappresentanti di ciascuno Stato al

Congresso, formano un corpo nazionale e sono al di fuori del controllo dei singoli Stati fino alle

successive elezioni».

2. Possiamo dire che la sola circostanza che uno o più parlamentari iscritti al gruppo Movimento

5 Stelle esercitino il loro mandato con il timore d’esser sanzionati economicamente in ragione

delle proprie condotte e scelte in parlamento costituisce un vincolo di mandato e impone

all’istituzione parlamentare di intervenire scongiurando questa ipotesi ab origine? Se sì, come?

Dal momento che la norma è conosciuta formalmente dalle Camere perché contenuta in statuti

il cui deposito è obbligatorio, possiamo dire che non è il difetto di una norma specifica che

impedisce al Presidente di manifestare formalmente ai colleghi parlamentari l'inconsistenza,

nullità e illiceità di una previsione regolamentare (ad oggi sottoscritta dallo stesso Presidente

Fico), ad esempio con una circolare inviata a tutti i deputati?

La proposta regolamentare del M5S mette in discussione il principio della libertà del mandato

parlamentare, ma non ritengo che possa vulnerarlo, per la semplice ragione che non esistono strumenti

di nessuna natura per applicare la sanzione minacciata dei pentastellati a quelli che “cambiano casacca”.

Mi si chiede: che cosa accadrebbe se le norme statutarie di un gruppo vietassero alle donne di parlare?

Rispondo: nulla. Le donne continuerebbero a parlare e probabilmente uscirebbero dal gruppo, mettendo

in seria difficoltà, anche di immagine, l’estensore di quella norma. Ciò sarà più chiaro se si tiene conto

della natura “contrattuale” degli statuti dei gruppi politici e, in maniera particolare, dei documenti statutari

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del Movimento 5 stelle. Se, infatti, la causa di un contratto è illecita, in conflitto con i principi generali

dell’ordinamento o comporta condizioni inique per uno dei contraenti, il contratto è nullo.

3. Può il Capo dello Stato nominare Ministro un parlamentare del Movimento 5 Stelle vincolato

da un "contratto privato" in contrasto non solo dell'art. 67 Cost. ma anche con il giuramento

prestato di fronte allo stesso Presidente della Repubblica di esercitare le proprie funzioni

nell'interesse esclusivo della nazione, oltre che con la con legge 400/1988 in ordine all'autonoma

collegialità del Consiglio dei Ministri e al suo compito di risoluzione dei conflitti tra Ministri?

Come opererebbe questo condizionamento nell’esercizio della funzione di controllo da parte dei

parlamentari nei confronti dei ministri del loro partito? Può tale problema essere evidenziato

direttamente all'attenzione del Presidente della Repubblica, nella sua qualità di garante della

Costituzione?

Può e, come abbiamo visto, lo ha fatto. Quel vincolo non sussiste, come detto sopra. È travolto dal

principio della libertà di mandato.

4. Questione della "giustiziabilità" della violazione dell'art. 67 Cost. in esame. Come un

tentativo di applicazione dell’istituto della clausola penale prevista dalla disposizione statutaria

in esame potrebbe giungere all’esame della Corte costituzionale? Attraverso la via del conflitto

di attribuzione tra poteri dello Stato (Deputato “sanzionato” vs. Gruppo parlamentare di

appartenenza oppure Autorità giudiziaria vs. Camera dei Deputati che pretende di agire in

autodichia sull’applicazione della previsione statutaria). Attraverso un giudizio di legittimità

costituzionale in via incidentale?

L’elezione del parlamentare non è nella disponibilità del Partito o del Movimento nelle cui liste s’è

candidato. Essa non può essere rivendicata da nessuna organizzazione come una prestazione alla quale

debba rispondere un impegno o un vincolo. La questione è lampante se si adottano categorie di tipo

privatistico: la procedura che porta dalla candidatura all’elezione non è ricostruibile giuridicamente come

una prestazione specifica del Partito o del Movimento, se non altro perché il momento decisivo di questa

procedura è il voto popolare diretto, che è sottratto per definizione a ogni condizionamento (art. 48 c. 1

Cost.).

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5. È chiaro come una modifica del Regolamento che attribuisca al Presidente poteri di controllo

sugli Statuti dei Gruppi sia la strada più lunga e dall’esito più incerto - soprattutto in questa

legislatura - ma anche l’unica che in futuro potrebbe evitare il ripetersi di casi come quello di

cui si discute oggi; per questo annuncio fin da ora la mia intenzione di presentare una proposta

di modifica in tal senso. Chiedo allora a chi interverrà oggi di ipotizzare i passaggi di tale

procedimento di verifica degli Statuti, l’organo o gli organi che ne dovrebbero essere incaricati,

i parametri di riferimento e le conseguenze in caso di mancato rispetto degli stessi.

Credo che se ne possa e debba parlare. Nulla può impedire al Parlamento di stabilire al proprio interno

procedure e regole per l’approvazione degli statuti dei gruppi, proprio in forza dell’autonomia

regolamentare, più volte ribadita dalla Corte costituzionale (vedi da ultimo, Corte cost. 120/2014). Per

limitarci alla Camera dei Deputati, si potrebbe prendere in esame l’ipotesi di investire della questione la

Giunta del Regolamento, di cui all’art. 16 del RCDD, presieduta dal Presidente della Camera, il quale può

integrarne la composizione ai fini di una più adeguata rappresentatività tenendo presenti, per quanto

possibile, criteri di proporzionalità tra i vari Gruppi. Si potrebbe chiedere a ciascun gruppo di depositare

presso la Giunta copia del Regolamento, decorso un certo tempo dalla sua costituzione. A questo punto,

potrebbe iniziare la trattativa tra il Gruppo e la Giunta, per eventuali modifiche. In caso di stallo, la parole

potrebbe essere data all’Assemblea. Proporrei, però, maggioranze semplici, non qualificate, calcolate con

riferimento all’elettorato attivo e non ai presenti in Aula. Tutto questo, ovviamente, rientra pienamente

nell’autonomia delle Camere.

6. Infine: non solo il Movimento 5 Stelle, ma anche Forza Italia, Lega Nord e Fratelli d’Italia

hanno affermato in campagna elettorale di voler modificare l’articolo 67 della Costituzione, e

proposte di legge in tal senso sono già state presentate in passato; la differenza, oggi, è che una

tale riforma costituzionale potrebbe essere approvata a maggioranza dei due terzi di ciascuna

Camera. Il quesito che allora si pone è se l’art. 67 sia revisionabile o se il divieto di mandato

imperativo rientri fra i "principi fondamentali e diritti inviolabili" che la Corte cost. pone come

limite allo stesso processo di revisione costituzionale.

Ritengo che la libertà di mandato non possa essere messa in discussione. C’è un limite alla revisione

costituzionale, per quel che riguarda i principi fondamentali dell’ordinamento, come ha chiarito a più

riprese la Corte costituzionale (v. sentenze 18/1982, 170/1984, 1146/1988, 238/2014). Concordo con

quella parte della dottrina, secondo cui i «limiti» di cui all’art. 1 della Costituzione non vanno interpretati

come limitazioni intervenute ex post (in senso logico, prima ancora che storico) bensì come una definizione

implicita della stessa nozione di sovranità popolare e, per certi versi, di “sovranità” in generale. Per

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semplificare: quei limiti non si giustappongono alla sovranità, ma sono la condizione per cui è possibile

parlare di una “sovranità” (compresa la sovranità popolare). Le «forme e i limiti della Costituzione», entro

cui la sovranità popolare deve essere esercitata, sono essenzialmente ricavabili dai principi dello Stato di

diritto, intesi come presidio ai «diritti inviolabili dell’uomo» (riconosciuti come preesistenti

all’ordinamento). Questi principi – tra cui rientra, come sopra si diceva, l’assenza del vincolo di mandato

per i parlamentari – definiscono la stessa forma dello Stato italiano. Per cui la loro messa in discussione

equivarrebbe a una messa in discussione dello stesso ordinamento della Repubblica. Questo non vuol

dire che l’art. 67 Cost. sia da ritenersi immodificabile: drafting costituzionale e revisione costituzionale sono

processi non completamente sovrapponibili. Ma la messa in discussione della libertà di mandato

comporterebbe l’annichilmento dell’istituzione parlamentare e la dissoluzione dello Stato di diritto.

Note conclusiva

I. L’idea che bastino la volontà politica e il consenso della maggioranza degli elettori per mettere i

discussione i principi su cui si regge l’ordinamento è ovviamente incompatibile con il moderno concetto

di “costituzione”. In un certo senso, gli studi comparatistici potrebbero mostrare come essa sia

confliggente anche con la stessa nozione di “spazio pubblico”. Quell’idea, ad esempio, nella storia del

mondo islamico è stata adottata, nel passato, per giustificare la tirannia e, nell’età contemporanea, per

legittimare l’islamizzazione forzata dello spazio pubblico. Tale uso strumentale, però, risulta in

contraddizione con gran parte della dottrina classica, secondo cui l’islamicità dell’ordinamento non può

essere ricostruita come risultato dell’adesione di una determinata parte della popolazione all’Islam, bensì

come presupposto di origine trascendente dell’esistenza dell’ordinamento stesso (il che, paradossalmente,

crea i presupposti per la tolleranza religiosa e politica). Ne consegue che la volontà politica e la stessa

volontà della maggioranza sono inquadrati dentro confini considerati come originari rispetto allo (e

costitutivi dello) spazio pubblico. Questo per dire che il principio secondo il quale esistano dei limiti

costitutivi al Legislatore (anche al Legislatore costituente, il che comporta limiti impliciti alla revisione

costituzionale) può essere considerato universale, ben oltre i confini dell’esperienza giuspubblicistica

dell’Occidente moderno.

II. L’idea che la vita politica debba scorrere sempre dentro il flusso della “volontà popolare” – intesa nel

suo immediato, ancorché frammentario, palesarsi – è il tratto distintivo di quello che oggi si chiama

“populismo”. In questo senso, il caso italiano va inquadrato in una tendenza di carattere globale: la tecnica

(intesa come fenomeno culturale, da non confondersi con la mera tecnologia, che è solo un aspetto

secondario della tecnica stessa) oggi asseconda e incoraggia molteplici e varianti forme cosiddette di

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“democrazia diretta”, dove mediazioni e razionalizzazioni vengono bruciate e superate nella corsa verso

la democrazia immediata e totale. In questo processo il rapporto tra “totalità” e “democrazia” si ribalta:

la prima, da categoria concettuale per la guida del pieno dispiegarsi della seconda diventa il fine di

quest’ultima, che tende a dissolversi nel totalitarismo democratico, inteso come perfetta antitesi della

democrazia costituzionale. Non si tratta certo di un problema nuovo: una parte significativa dell’opera

platonica, soprattutto nella seconda fase, ruota intorno al tema della comune radice – il rifiuto di limiti

costitutivi del linguaggio e dello spazio pubblico – del nominalismo politico e del dispotismo. Il tema non

può essere esaurito in questa sede. Qui vorrei solo richiamare l’attenzione sul superamento delle

tradizionali procedure di acquisizione del consenso, basate su una visione meccanica “classica” dello

spazio pubblico, dove la causa precede sempre l’effetto, ogni effetto è ricostruibile sulla base di una

procedura complessa quanto si vuole, ma sempre basata sull’idea che esista una causa specifica,

temporalmente determinata, per ciascun effetto. Il ruolo dell’”annuncio” nella battaglia politica è forse

l’aspetto più noto – ma, a mio avviso, non il più importante – di questo processo. Del resto, già da molto

tempo, nelle scienze cosiddette “dure”, ogni limite al mutamento è posto solo per essere travolto

dall’apertura della possibilità di una sua ricostruzione come “opzione” o “convenzione”. E nella finanza,

ormai, siamo ben al di là di ogni linearità nei processi decisionali (il solo annuncio di un “effetto” incide

sulla ricostruzione di un dato evento come “causa”). L’esigenza crescente di fluidificazione e

immediatezza dei processi decisionali politici andrebbe letta, a mio avviso, in questo orizzonte epocale.

Le stesse istanze populiste, sovraniste e riterrritorializzanti sono dentro questa dinamica, poiché anche la

globalizzazione, a suo modo, è un ordine (i.e.: un limite), che come tale viene messo in discussione: chi

contesta i processi di globalizzazione in nome degli interessi e delle identità locali, spesso non si rende

conto di muoversi nella medesima logica di quella hýbris – ovvero, di destrutturazione e superamento dei

limiti – che ha animato i processi di globalizzazione.

III. Di fronte a queste istanze di immediatezza e fluidificazioni dei processi politici, il divieto di mandato

imperativo si presenta come un ostacolo da bruciare. Anche se la campagna per la revisione di quel

principio segnerà – come penso sia probabile – una battuta d’arresto per contingenti ragioni politiche (ad

esempio, perché all’inizio di una Legislatura e di un’esperienza di governo ci son troppe cose a cui

pensare), la questione cova sotto la cenere ed è destinata a riproporsi. Il linguaggio, al riguardo, offre

segnali preziosi. La democrazia diretta – come giustamente osserva Stefano Ceccanti (Intervista su La

presse, 9 giugno 2018) – è da intendere qui nel duplice significato, di democrazia immediata, ma anche

“diretta”, nel senso del participio passato di dirigere. Si veda, a tale proposito, la proposta di legge

costituzionale presentata nella XVII legislatura dall’on. Riccardo Fraccaro, esponente del Movimento 5

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Stelle e poi ministro “per i rapporti con il Parlamento e la democrazia diretta” del Governo Conte

(“modifiche agli articoli 73, 75, 80 e 138 della Costituzione, in materia di democrazia diretta”, AC 3124 /

XVII). La proposta prefigura una democrazia diretta, nella quale l’attività normativa è sottoposta continue

verifiche da parte della “volontà popolare”. Non si tratta di una proposta irrealizzabile. Quello che oggi

il Movimento 5 stelle fa sulla rete – con i suoi sondaggi e le sue consultazioni e interazioni continue –

sembrava irrealizzabile pochi anni fa. La tecnologia si evolve in progressione geometrica. L’idea del

referendum continuo è, dunque, realistica. Il superamento del voto cartaceo – che è, a nostro avviso, un

presupposto implicito della formulazione della proposta – non è, qui, questione di mera tecnologia. La

sottoposizione di un ordinamento a continue e illimitate verifiche e innovazioni (l’ulteriore

“irrigidimento” delle procedure di revisione, contenuto nella riformulazione dell’art. 138 Cost., è bruciato,

come rileva Ceccanti nell’intervista, dall’introduzione «di un referendum costituzionale senza limiti»)

porterebbe a una fluidificazione totale dei processi politici e, in ultima analisi, a un’incrinatura della stessa

idea di “ordinamento costituzionale”, inteso appunto come ordinamento costruito sull’idea di limiti

costitutivi dello spazio pubblico.

IV. Opporsi all’odierno populismo appellandosi ai “valori” del costituzionalismo e inarcando le

sopracciglia contro i “barbari” serve solo a salvare la propria coscienza democratico-costituzionale. Ci

sarebbe piuttosto da chiedersi come incanalarlo dentro le strutture dello Stato di diritto. In questo senso,

ritengo che il diritto pubblico comparato possa dare – e in parte abbia già cominciato a dare – un

significativo contributo per l’inquadramento della questione in una chiave prettamente costituzionale – e

non solo politologica, come prevalentemente si fa, soprattutto sulla stampa – anche attraverso l’analisi di

quanto accade nelle altre democrazie costituzionali. A tale riguardo, credo sia particolarmente utile

studiare quanto accade negli Stati Uniti e in Francia. Chi conosce la storia del populismo americano, sa

che Donald Trump ha poco a che fare con gli esponenti storici del populismo (tipo Pat Buchanan, George

Wallace, William Jennings Bryan) e ancor meno con i leader delle rivolte degli agricoltori tra la fine del

XIX e l’inizio del XX secolo. Fino a poco prima di candidarsi, l’attuale capo dell’Esecutivo statunitense,

in materia di diritti civili e di economia, aveva posizioni compatibili con quelle più liberali dei repubblicani

e dei democratici. Ci sarebbe, dunque, da chiedersi se il successo di Trump non consista soprattutto

nell’avere bene interpretato il vento antipolitico e rivoltoso che sta soffiando nella potenza leader

d’Occidente (detentrice – questo spesso si dimentica – del più potente e distruttivo apparato bellico che

si sia mai potuto immaginare nella storia), tanto da disinnescarne, almeno in parte, il potenziale eversivo.

Ancora più interessante, per l’Italia, è il caso della Francia, la cui storia e morfologia politico-ideologiche

sono molto vicine a quelle dell’Italia. Il presidente francese s’è mosso su una piattaforma, in qualche

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modo, nata proprio dall’esigenza duplice, presentatasi nella Francia del secondo dopoguerra, di

razionalizzare le dinamiche parlamentari, per un verso, e di canalizzare le istanze populiste e plebiscitarie

verso soluzioni di tipo costituzionale. La piattaforma è stata perfezionata negli anni, fino alle recenti

riforme di questo inizio secolo. Essa è diventata una sorta di “scheda madre”, sulla quale ogni processo

politico e sociale può trovare una collocazione compatibile con la tenuta del sistema repubblicano.

Questo, a mio avviso, ha consentito ai francesi di superare, finora con successo, la crisi della politica

tradizionale.

V. In Italia, la necessità di una razionalizzazione costituzionale delle istanze populistiche che agitano la

società contemporanea, attraverso l’elezione diretta del vertice dell’Esecutivo, non è stata mai seriamente

posta dai grandi leader politici, con alcune illustri eccezioni, tra le quali ricordiamo, per un verso, Marco

Pannella, con la sua lunga battaglia per la riforma “americana” del sistema politico nazionale, e, per l’altro,

Bettino Craxi, con la sua proposta di “Grande riforma”, negli anni Ottanta-Novanta (v. in particolare i

Congressi XLII [Palermo, 22-26 aprile 1981], XLV [Milano 13-15 maggio 1989] e XLVI [Bari, 27-30

giugno 1991] del Partito Socialista Italiano). Ma sul piano parlamentare l’ipotesi non ha avuto successo.

Nelle commissioni di riforma costituzionale succedutesi a partire dall’inizio degli anni Ottanta in poi è

generalmente prevalsa l’opzione per la razionalizzazione della forma di governo parlamentare. La

bocciatura per via referendaria della riforma costituzionale del centrodestra nel 2005 (Legge costituzionale

recante «modifiche alla Parte II della Costituzione», GU 269 del 18 Novembre 2005) che non era per

nulla presidenzialistica, ma puntava a un certo rafforzamento dell’Esecutivo – credo che abbia poi

contribuito a orientare il ceto politico verso ipotesi di riforme minimalistiche. In questa chiave credo si

possa leggere anche la riforma Renzi-Boschi (Legge costituzionale concernente «disposizioni per il

superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei

costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del Titolo V della parte

II della Costituzione», GU 88 del 15 aprile 2016), che è stata ingiustamente accusata di contenere uno

stravolgimento dell’ordine costituzionale. Sono del parere opposto: quella riforma era sbagliata non

perché voleva troppo, ma perché voleva troppo poco. Essa, cioè, si muoveva ancora nel solco di una

parziale razionalizzazione della forma di governo parlamentare, senza toccare il nucleo del problema che

abbiamo oggi di fronte: la costituzionalizzazione delle istanze plebiscitarie e il contenimento delle

tendenze alla frammentazione delle dinamiche consensuali e rappresentative (i.e., la razionalizzazione

totale e coerente della forma di governo parlamentare). Per questo, a mio avviso, suscitò scarso

entusiasmo e fu percepita dall’elettorato come un’operazione strumentale – e sono convinto che non lo

fosse – pensata al solo fine di rafforzare la posizione della leadership governativa del tempo. Ero e resto

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del parere che una proposta radicale, di stampo semipresidenzialistico, avrebbe in un primo momento

scioccato l’elettorato e creato un grande scompiglio nel Parlamento e nel mondo accademico, ma avrebbe

avuto maggiori probabilità di successo. Ed è questa, ritengo, la direzione nella quale si dovrebbe lavorare.

Riferimenti bibliografici essenziali

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di Filippo Scuto

Professore associato di Istituzioni di diritto pubblico Università degli Studi di Milano

I pericoli derivanti da uno svuotamento dell’art. 67 Cost. unito ad

un “irrigidimento” dell’art. 49 Cost. Alcune considerazioni a partire dalla

vicenda dello Statuto del Gruppo parlamentare “Movimento 5 Stelle”

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I pericoli derivanti da uno svuotamento dell’art. 67 Cost. unito ad un “irrigidimento” dell’art. 49 Cost. Alcune

considerazioni a partire dalla vicenda dello Statuto del Gruppo parlamentare “Movimento 5 Stelle”*

di Filippo Scuto

Professore associato di Istituzioni di diritto pubblico Università degli Studi di Milano

Sommario: 1. Dai codici etici dei partiti agli statuti dei gruppi parlamentari. I vincoli ammissibili nel quadro costituzionale e le relative problematiche. – 2. La necessità di recuperare un rapporto virtuoso tra art 67 e art. 49 Cost. – 3. Una nuova centralità dell’art. 49 Cost. come forma di tutela dell’art. 67 Cost. e della democrazia rappresentativa.

1. Dai codici etici dei partiti agli statuti dei gruppi parlamentari. I vincoli ammissibili nel quadro

costituzionale e le relative problematiche

La vicenda della disposizione contenuta nello Statuto del Gruppo parlamentare del Movimento 5 Stelle

alla Camera dei Deputati, approvato il 27 marzo 2018, che prevede una sanzione applicabile ai deputati

nel caso di espulsione o abbandono volontario del Gruppo per dissenso politico1 pone numerose

questioni di rilievo costituzionale senz’altro riconducibili agli attuali nodi problematici della

rappresentanza politica e al modello di democrazia rappresentativa delineato dalla Costituzione italiana.

Un primo elemento da tenere in considerazione riguarda il fatto che la disposizione statutaria si pone in

continuità con la direzione intrapresa da tempo da parte del MoVimento 5 Stelle ed indirizzata nel senso

di una radicale critica nei confronti del principio del divieto di mandato imperativo tutelato dall’art. 67

Cost. in base al quale ogni parlamentare è libero di esercitare le sue funzioni senza vincolo di mandato.

Principio del libero mandato parlamentare che, come noto, è peraltro tutelato dalle principali costituzioni

europee e che il M5S auspica da tempo di superare proponendo riforme costituzionali finalizzate ad

introdurre il vincolo di mandato. Opzione, quest’ultima, pienamente confermata dal c.d. “contratto di

* Intervento alla Tavola rotonda “Gli statuti dei gruppi parlamentari alla prova dell’art. 67della Costituzione”, Roma, 16 maggio 2018. 1 Si fa riferimento all’art. 21, comma 5, dello Statuto del Gruppo parlamentare Movimento 5 Stelle su cui si tornerà a breve.

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governo” recentemente sottoscritto da M5S e Lega nel tentativo di dar vita ad un Governo sostenuto in

Parlamento dalle due forze politiche2.

L’origine di questo percorso che ha portato il M5S ad introdurre nello statuto del Gruppo parlamentare

vincoli all’esercizio del libero mandato può essere ricollegata alla precedente adozione da parte del

movimento dei c.d. codici etici e di comportamento che contengono un insieme di regole di condotta

indirizzate agli iscritti, ai candidati e agli eletti alle cariche interne e alle cariche istituzionali. Regole che,

generalmente, trovano il loro fondamento nelle disposizioni statutarie dei partiti politici e che associano

al loro mancato rispetto l’adozione di sanzioni da parte degli appositi organi interni (generalmente i collegi

dei probiviri). L’utilizzo crescente dei codici etici da parte di partiti e movimenti politici registratosi negli

ultimi anni (in particolare Partito Democratico e MoVimento 5 Stelle) può essere letto come un tentativo

di risposta alla sfiducia nei confronti della politica da parte della società civile legata alla crisi della

tradizionale rappresentanza politica e al dilagare dei fenomeni di corruzione. Sotto questo profilo, la

funzione del codice etico appare legata alla necessità di garantire che gli attori politici del partito che lo

adotta agiscano nel rispetto dei doveri di disciplina ed onore prescritti dall’art. 54 della Costituzione e di

individuare quei comportamenti che generino discredito per il partito e siano ritenuti riprovevoli dal

punto di vista dell’etica politica e morale del partito stesso. Si tratta, dunque, di un insieme di regole di

condotta interne che richiedono agli iscritti di assumere comportamenti conformi ai valori portanti del

partito di appartenenza, alla luce della declinazione che da esso viene data al concetto di etica politica.

L’adozione di codici etici e codici di comportamento interni rientra tra le libere scelte dei partiti

nell’ambito della loro autonomia organizzativa tutelata dagli artt. 49 e 18 Cost. Si tratta di disposizioni

che possono avere ricadute sull’accesso all’elettorato passivo e sull’esercizio degli incarichi elettivi e di

governo. Ma che non possono in nessun caso porsi in contrasto con la Costituzione. I partiti sono dunque

legittimati a limitare l’azione politica dei propri iscritti in relazione alla loro candidabilità e a richiedere

agli eletti determinati comportamenti nell’esercizio delle proprie funzioni. Quel che non possono fare è

introdurre, in generale, limiti costituzionalmente illegittimi e, in particolare, standard di condotta che

limitino l’esercizio del libero mandato di cui all’art. 67 Cost. o che siano l’espressione di un’organizzazione

interna del partito non democratica e verticistica in contrasto con lo “spirito” dell’art. 49 Cost. Sotto

questo profilo, i codici di comportamento del MoVimento 5 Stelle indirizzati negli ultimi anni ai propri

eletti sollevano diverse questioni problematiche.

2 Ci si riferisce al “Contratto per il governo di cambiamento” presentato dalle due forze politiche il 18 maggio 2018 nel quale si legge, a p. 35, nel paragrafo dedicato alle riforme istituzionali, che “occorre introdurre forme di vincolo di mandato per i parlamentari, per contrastare il sempre crescente fenomeno del trasformismo”.

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Il codice adottato per i candidati e gli eletti del M5S alle elezioni del Parlamento europeo del 2014

obbligava i deputati alle dimissioni non solo in caso di condanna (anche non definitiva) per reati penali,

ma anche nel caso in cui essi fossero ritenuti gravemente inadempienti riguardo al rispetto delle regole

contenute nel codice stesso. Il codice, richiamando in maniera piuttosto impropria3 il principio del “recall”

utilizzato negli Stati Uniti, prevedeva che la competenza per dichiarare l’inadempienza del parlamentare

spettasse agli iscritti della circoscrizione in cui era stato eletto o alla votazione in rete degli iscritti4. Ciascun

candidato, prima delle selezioni per la composizione delle liste elettorali, è stato chiamato a sottoscrivere

formalmente l'impegno al rispetto del codice. Inoltre, a garanzia del rispetto di quest’obbligo è stata

prevista, in mancanza di dimissioni, una sanzione di 250000 euro.

Il codice di comportamento del M5S adottato per i propri candidati alla carica di sindaco, assessore e

consigliere comunale in vista delle elezioni amministrative di Roma del 2016 non si è limitato a ricalcare

il contenuto del codice indirizzato ai parlamentari europei. Una specifica disposizione ha previsto che

sindaco, assessore e consiglieri debbano assumere l’impegno di dimettersi qualora siano ritenuti

inadempienti rispetto al codice di comportamento sulla base di una decisione assunta da Beppe Grillo e

Gianroberto Casaleggio (scomparso nel 2016) o dagli iscritti mediante consultazione on-line5. In questo

caso, dunque, la decisione sulle dimissioni può anche non essere assunta da alcun organo assembleare

degli iscritti, ma semplicemente dai leader del M5S. Inoltre, si prevede che, in caso di violazione del

contenuto del codice che «contiene principi etici e giuridici fondamentali e inderogabili del M5S» da cui

deriva «un impegno etico e giuridico» al suo rispetto, l’eletto si impegni a versare a favore del M5S 150000

euro. Ciò in ragione del grave danno di immagine che ne deriverebbe per il movimento il quale, si precisa,

è legittimato ad agire in giudizio per la corretta esecuzione del contenuto del codice sottoscritto

formalmente con atto notarile dai candidati prima delle elezioni6.

3 Numerose sono le differenze rispetto al recall statunitense, tra cui il fatto che in questo caso la procedura è tutta interna al movimento e riservata ai soli iscritti. Per un approfondimento della questione si rinvia a E. VIGILANTI, Prove tecniche di recall: la revoca del mandato “intramovimento” (il caso, non riuscito, del M5S), in Forum di Quaderni costituzionali, 2014. In tema di recall, v. L. CARLASSARE, Problemi attuali della rappresentanza politica, in N. ZANON, F. BIONDI (a cura di), Percorsi e vicende attuali della rappresentanza e della responsabilità politica, Milano, 2001, 42 ss. 4 “Il deputato sarà ritenuto gravemente inadempiente laddove, secondo il principio della democrazia diretta, detto “recall”, già applicato negli Stati Uniti: i) almeno 500 iscritti al MoVimento 5 Stelle alla data del 31/12/2012 residenti nella circoscrizione nella quale il deputato è stato eletto abbiano motivatamente proposto di dichiararlo gravemente inadempiente; ii) la proposta sia stata approvata mediante votazione in rete a maggioranza dagli iscritti al MoVimento 5 Stelle al 30/6/2013 residenti nella circoscrizione nella quale il deputato è stato eletto”. 5 Art. 9, lett. b) del Codice di comportamento. 6 Art. 10 del Codice di comportamento

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Il richiamo a vincoli di carattere giuridico e non soltanto etico al rispetto del codice, la necessaria

sottoscrizione formale di tali regole richiesta ai candidati e la sanzione pecuniaria in caso di inadempienza7

che va ben oltre le sanzioni politiche come la non-ricandidatura, contengono profili di sostanziale

illegittimità rispetto all’art. 67 Cost. relativo all’esercizio del libero mandato parlamentare ed alla lettura

che di esso ha dato la Corte costituzionale8. Va precisato che le disposizioni contenute nei codici di

comportamento richiamati non sono riferite alla carica di parlamentare italiano e, quindi, non rientrano

formalmente nella disciplina dell’art. 67 Cost. Tuttavia, esse sono comunque in contrasto con le

disposizioni previste dall’Unione europea che tutelano il libero mandato dei parlamentari europei9 e con

il regolamento del consiglio comunale capitolino, anch’esso chiaro nello stabilire il divieto di mandato

imperativo10.

La questione del “contratto” previsto dal codice di comportamento per gli eletti al Comune di Roma è

stata peraltro sottoposta al Tribunale di Roma. Un elettore romano ha presentato ricorso popolare

impugnando l’elezione del Sindaco Virginia Raggi e chiedendo di verificarne le condizioni di ineleggibilità

a causa del contratto firmato con il M5S, nonché di dichiarare la nullità di tale contratto per violazione

degli artt. 3, 67 e 97 Cost. Con una ordinanza del gennaio 201711, il giudice di Roma ha seguito un percorso

lineare anche alla luce della debolezza dell’impianto con cui gli era stata sottoposta la questione. È stata

rigettata la domanda diretta ad ottenere la dichiarazione di ineleggibilità del Sindaco poiché la sussistenza

del suo rapporto contrattuale con il M5S non sarebbe potuta rientrare tra le cause di ineleggibilità che

sono tassativamente previste dalla legge e che, pertanto, non consentirebbero interpretazioni estensive12.

In relazione alla questione della nullità del Codice di comportamento, il giudice ha ritenuto di non doversi

pronunciare. La domanda di nullità è stata dichiarata inammissibile poiché il ricorrente, estraneo al M5S

e non sottoscrittore dell’accordo, non era ritenuto portatore di un concreto interesse ad agire e non aveva

comunque assolto all’onere di allegare alla domanda la dimostrazione che quel Codice arrecasse

7 Un atto di impegno forse inquadrabile nello schema delle promesse unilaterali disciplinate dall’art. 1987 c.c. e più specificamente delle promesse di pagamento di cui all’art. 1988 c.c. secondo E. VIGILANTI, Prove tecniche di recall: la revoca del mandato “intramovimento” (il caso, non riuscito, del M5S), cit. 8 Ci si riferisce alla nota sent. n. 14/1964 con cui la Corte costituzionale ha evidenziato che «il divieto di mandato imperativo importa che il parlamentare è libero di votare secondo gli indirizzi del suo partito, ma è anche libero di discostarsene; nessuna norma potrebbe legittimamente disporre che derivino conseguenze a carico del parlamentare per il fatto che egli abbia votato contro le direttive del partito». 9 Cfr. art. 2 del regolamento del Parlamento europeo; art. 2 e art. 3 dello statuto dei deputati al Parlamento europeo; art. 6 dell’Atto relativo all’elezione dei membri del Parlamento europeo a suffragio universale diretto del 1976. 10 Art. 3 del regolamento del Consiglio comunale di Roma. 11 Tribunale Ordinario di Roma, Prima sezione civile, ordinanza n. 779 del 17 gennaio 2017, RG n. 53473/2016. Per un commento all’ordinanza alla luce delle questioni sollevate dal Codice di comportamento del M5S, v. A. PESCARELLI, Profili costituzionali del Codice di comportamento M5S per Roma Capitale. Un breve commento a partire da Trib. Civ. Roma ord. n. 779 del 17.01.2017., in Osservatorio Costituzionale, fasc. 2, 2017. 12 E, in particolare, dall’art. 60 del d.lgs. n. 267/2000.

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un’incidenza negativa alla sua sfera giuridica. La pronuncia del giudice sulla questione è stata, poi, ritenuta

ultronea alla luce del rigetto della domanda principale relativa all’ineleggibilità13.

Del resto, la nullità di questi accordi appare piuttosto evidente data la loro natura privatistica che

comporta la nullità di un contratto contrario a norme imperative per l’illiceità della causa ex art. 1343

c.c.14. La mancanza di efficacia giuridica di queste clausole renderebbe, peraltro, priva di fondamento la

legittimazione ad agire in giudizio per la riscossione della sanzione pecuniaria15.

Il contenuto della disposizione dello Statuto del Gruppo parlamentare Movimento 5 Stelle alla Camera

dei Deputati approvato di recente si pone dunque in continuità rispetto alle scelte adottate negli ultimi

anni dal M5S. L’art. 21, comma 5, in base al quale «il deputato che abbandona il gruppo parlamentare a

causa di espulsione ovvero abbandono volontario ovvero dimissioni determinate da dissenso politico sarà

obbligato a pagare, a titolo di penale, al Movimento 5 stelle (…)la somma di euro 100000» rappresenta in

un certo senso la logica conseguenza dell’indirizzo da ultimo fornito dal nuovo Codice etico del

MoVimento 5 Stelle approvato nel Dicembre 2017 in vista delle elezioni politiche del 4 Marzo. L’art. 5

del Codice prevede infatti alcuni «obblighi specifici» per i parlamentari italiani ed europei e per i consiglieri

regionali eletti sotto il simbolo del M5S tra i quali rientra l’obbligo di versare al M5S la somma di euro

100000 in caso di espulsione, abbandono del gruppo, dimissioni anticipate non determinate da gravi

ragioni personali. La sanzione pecuniaria viene in questo caso considerata dall’art. 5 come una forma di

«indennizzo per gli oneri relativi all’attività politica e alla campagna elettorale a carico del M5S». Va

peraltro evidenziato che nel nuovo Codice etico, all’art. 3, sono indicati ulteriori vincoli per gli eletti del

M5S quali, ad esempio, l’obbligo di dimissione dalla carica elettiva in caso di espulsione dal movimento

13 Inoltre, secondo il giudice, poiché la domanda di in eleggibilità, nella prospettazione del ricorrente, aveva il suo presupposto nella nullità del patto sottoscritto da Virginia Raggi, il rigetto della domanda principale rendeva ultronea la pronuncia sulla domanda di nullità dell’accordo in questione non essendo la pronuncia richiesta in ogni caso rilevante ai fini della decisione della lite. 14 Come prescrive lo Statuto dei deputati europei: “Eventuali dichiarazioni con cui i deputati assumono l’impegno di cessare il mandato a un determinato momento oppure dichiarazioni in bianco per le dimissioni dal mandato, che un partito possa utilizzare a sua discrezione, sono incompatibili con la libertà e l’indipendenza dei deputati e pertanto non possono avere alcun valore giuridico vincolante” (punto 22). 15 Cfr. R. BIN, Ma mi faccia il piacere! La “multa” del M5S ai “ribelli”, in Lacostituzione.info, 2017. Come evidenzia N. ZANON, Il divieto di mandato imperativo e la rappresentanza nazionale: autopsia di due concetti, in N. ZANON, F. BIONDI (a cura di), Percorsi e vicende attuali della rappresentanza e della responsabilità politica, cit. 138, esiste un potere privato di conformazione del rapporto di rappresentanza politica che ammette in via di fatto di stipulare patti e accordi e far valere vincoli di fedeltà, ma vincoli e accordi di questo tipo non possiedono alcuna garanzia giuridica e non sono azionabili in sede giudiziaria. Sull’inconfigurabilità di vincoli giuridici veri e propri nei confronti del parlamentare alla luce dell’art. 67 Cost si vedano, inoltre, le osservazioni di E. GIANFRANCESCO, Triepel ed i partiti politici: ieri, oggi, domani, in E. GIANFRANCESCO, G. GRASSO (a cura di), H. Triepel - La Costituzione dello Stato e i partiti politici, Napoli, 2015, 34 ss.

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e l’obbligo di votare in ogni circostanza la fiducia a governi presieduti da un Presidente del Consiglio

«espressione del M5S».

Si tratta, evidentemente, di un insieme di disposizioni in aperto contrasto rispetto al contenuto dell’art.

67 Cost. relativamente all’esercizio del libero mandato parlamentare.

La questione della richiamata disposizione statutaria del Gruppo parlamentare si pone pertanto in termini

non dissimili da quanto rilevato in precedenza riguardo ai codici di comportamento per gli eletti alla carica

di parlamentare europeo e al Comune di Roma. Si tratta di una norma che non può essere considerata

giuridicamente vincolante e che, comunque, non è compatibile con l’art. 67 Cost.

2. La necessità di recuperare un rapporto virtuoso tra art 67 e art. 49 Cost.

Il contenuto dei codici di comportamento del M5S e, da ultimo, dello Statuto del Gruppo parlamentare

del movimento inducono a svolgere alcune considerazioni che, si ritiene, debbano essere condotte non

soltanto in relazione al principio del divieto di mandato imperativo, quanto, piuttosto, alla luce del

rapporto tra l’art. 67 e l’art. 49 Cost. in riferimento alle attuali dinamiche della rappresentanza politica.

Da molto tempo e, in particolare, negli ultimi anni, il dilagante fenomeno del trasformismo parlamentare

ha contribuito ad accentuare il distacco tra politica e società civile e ad indebolire ulteriormente il

funzionamento della democrazia rappresentativa. Non si possono sottovalutare le evidenti criticità che

derivano, anche sul piano costituzionale, dagli eccessi di irresponsabilità degli eletti nei confronti degli

elettori. Sotto questo profilo, l’introduzione di forme di controllo del mandato parlamentare che

avvengano, però, nel rispetto del contenuto dell’art. 67 Cost., non appare, di per sé, da escludere a priori.

Per perseguire questo obiettivo la strada più corretta dovrebbe condurre all’intervento sui regolamenti

parlamentari al fine di scoraggiare il passaggio da un gruppo parlamentare ad un altro e la creazione di

nuovi gruppi che hanno caratterizzato l’ultimo ventennio. Sino ad oggi, invece, le norme regolamentari

in vigore hanno finito per assecondare, se non incoraggiare, la formazione di nuovi gruppi ai quali sono

stati garantiti una serie di privilegi e incentivi finanziari16. In questo senso, va dunque valutata

positivamente la riforma del regolamento parlamentare del Senato approvata di recente al termine della

XVII Legislatura e finalizzata a disincentivare la frammentazione e il trasformismo parlamentare. Riforma

che, però, necessita di essere accompagnata quanto prima da una revisione del regolamento della Camera

dei Deputati che vada nella stessa direzione.

Del resto, appare condivisibile l’impostazione secondo cui l’art 67 Cost. non vada letto né in un’ottica

ideologica di impianto liberale ottocentesco che finisca per mettere eccessivamente in secondo piano il

16 Cfr. R. BIN, Ma mi faccia il piacere! La “multa” del M5S ai “ribelli”, cit.

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principio della sovranità popolare, né in un’ottica di tipo plebiscitario che sia «schiacciata sulla dimensione

purificatrice della volontà popolare»17. La tensione dinamica esistente tra l’art. 67 Cost. ed il ruolo

essenziale dei partiti nella loro funzione rappresentativa riconosciuto dall’art. 49 Cost.18 non può dar

luogo a scorciatoie che comprimano la portata dell’una o dell’altra norma costituzionale. Entrambe sono

funzionali al modello di democrazia rappresentativa delineato dalla Costituzione italiana: non è

ammissibile un’interpretazione dell’art. 67 che porti a disconoscere il ruolo dei partiti nella rappresentanza

politica e ad eliminare ogni tipo di rapporto tra eletto ed elettore; non è neppure ammissibile una forzatura

dell’art. 49 che riduca parlamentari ed eletti a meri esecutori di una non ben definita volontà popolare

vincolati da mandati imperativi.

Indubbiamente, un esercizio troppo “disinvolto” e poco responsabile della libertà di mandato può dar

luogo ad evidenti criticità sul piano politico-costituzionale, tanto più nell’attuale contesto di crisi della

rappresentanza politica. La risposta a questi problemi, però, non può certamente essere individuata

nell’adozione di atti di natura privatistica che pretendano di imbrigliare l’attività politica degli eletti anche

mediante sanzioni di carattere pecuniario.

Vi è poi un secondo problema che lega la questione sottesa all’art. 67 Cost. all’art. 49 Cost. e al rispetto

del metodo democratico all’interno dei partiti, in un contesto in cui l’impianto verticistico e “leaderistico”

dei modelli organizzativi dei partiti è andato sensibilmente accentuandosi negli ultimi decenni.

L’impostazione dei codici di comportamento del M5S e dello Statuto del Gruppo parlamentare appare

chiaramente legata alla volontà di garantire un controllo perenne ed esteso da parte della leadership del

movimento nei confronti degli eletti e di rimuovere in qualsiasi momento dal proprio incarico

rappresentanti divenuti “sgraditi” in caso di contrasti sulla linea politica decisa dai vertici. Oltre all’impatto

negativo all’”esterno” che questo schema comporta per quanto riguarda la possibilità che gli eletti

esercitino le proprie funzioni negli interessi della Nazione senza condizionamenti sulla base del libero

17 Cfr. C. DE FIORES, Da rappresentanti della nazione a rappresentanti dei gruppi parlamentari, in www.gruppodipisa.it, 2016. 18 Una relazione, quella fra l’art. 49 e l’art. 67 che, come rilevava V. CRISAFULLI, Partiti, Parlamento, Governo in Stato, Popolo e Governo, Milano, 1985, 213, conferma l’impianto democratico basato sul modello di democrazia rappresentativa delineato dalla Costituzione italiana. Si veda sul punto anche P. RIDOLA, Divieto di mandato imperativo e pluralismo politico, in Studi in onore di Vezio Crisafulli, II, Padova, 1995, 696. Il tema del rapporto, non di facile lettura, tra l’art. 49 Cost. e l’art. 67 Cost., e quindi del rapporto tra partiti politici, rappresentanza politica e divieto di mandato imperativo è stato da tempo approfondito in dottrina. Si veda, sul punto, N. ZANON, Il libero mandato parlamentare. Saggio critico sull’art. 67 della Costituzione, Milano, 1991: P. RIDOLA, La rappresentanza parlamentare tra unità politica e pluralismo, in Studi in onore di Manlio Mazziotti di Celso, Padova, 1995; G. AZZARITI, Cittadini, partiti e gruppi parlamentari: esiste ancora il divieto di mandato imperativo?, in Costituzionalismo.it, 2008; S. CURRERI, Democrazia e rappresentanza politica. Dal divieto di mandato al mandato di partito, Firenze, 2004.

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mandato parlamentare, esso produce una ricaduta negativa anche all’interno del movimento politico

poiché ne accentua la struttura verticistica e poco democratica19.

Nella sostanza, uno “svuotamento” dell’art. 67 Cost. in relazione all’esercizio del libero mandato

parlamentare (eventualmente portato all’estremo dell’introduzione di un vincolo di mandato) e, in

parallelo, un “irrigidimento” dell’art. 49 Cost. generato da organizzazioni fortemente verticistiche dei

partiti che comprimono eccessivamente i livelli di democraticità interna, finiscono per produrre, insieme,

degli effetti assai peggiori rispetto ad alcune delle attuali degenerazioni della politica come il trasformismo

parlamentare giustificate in nome dell’esercizio del libero mandato.

Inoltre, è opportuno evidenziare il nesso esistente tra la questione delle modalità con cui vengono

selezionate le candidature, tema centrale in relazione ai requisiti di democraticità interna dei partiti, e

l’esercizio del libero mandato parlamentare. L’introduzione di procedure effettivamente democratiche e

aperte alla partecipazione dal basso degli elettori per la selezione delle candidature alla carica di

parlamentare20, unite all’adozione di una legge elettorale che consenta un soddisfacente collegamento tra

eletto ed elettore, potrebbero forse ridurre gli attriti attualmente esistenti tra rappresentanti e

rappresentati anche per quanto riguarda l’esercizio del libero mandato, in ragione di un riavvicinamento

tra i soggetti della rappresentanza.

In ogni caso, le questioni delicate che possono presentarsi alla luce di interpretazioni “distorsive” del

principio del libero mandato, letto anche in connessione con la dimensione costituzionale dei partiti alla

luce dell’art. 49 Cost., non possono essere affrontate proponendo di eliminare dall’ordinamento il divieto

di mandato imperativo e adottando clausole e accordi di natura privatistica come quelli contenuti nei

Codici di comportamento e nello Statuto del Gruppo parlamentare del M5S.

3. Una nuova centralità dell’art. 49 Cost. come forma di tutela dell’art. 67 Cost. e della democrazia

rappresentativa

Le considerazioni che sono state presentate in maniera sintetica in questa sede portano a ritenere

inopportuna una modifica dell’art. 67 Cost. volta ad introdurre vincoli di mandato. Appare, invece,

opportuno e necessario concentrarsi su altri interventi. In primis, occorre recuperare e rafforzare la

dimensione puramente rappresentativa dell’art. 67 per quanto riguarda il rapporto tra eletto ed elettore.

19 Sulle attuali problematiche relative all’organizzazione dei partiti in relazione al rispetto del “metodo democratico” al loro interno sia consentito rinviare a F. SCUTO, La democrazia interna dei partiti: profili costituzionali di una transizione, Giappichelli, Torino, 2017. 20 Sino all’adozione di norme di legge su primarie non obbligatorie e magari “incentivate” mediante forme di finanziamento pubblico, questione su cui si rinvia a F. SCUTO, La democrazia interna dei partiti, cit., 196 ss.

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La recente giurisprudenza costituzionale in materia elettorale sembra aver fornito alcune conferme in tal

senso. Nella nota sentenza n. 1/2014, con cui è stata dichiarata la parziale incostituzionalità della legge

elettorale n. 270 del 2005 (c.d. legge Calderoli), la Corte costituzionale ha messo in risalto il rapporto tra

eletto ed elettore per tutelare la libertà e l’eguaglianza del voto e la rappresentanza politica. L’art. 48 Cost.

e l’art. 67 Cost. sono stati utilizzati come parametro per dichiarare l’incostituzionalità del premio di

maggioranza così come disciplinato da quella legge21 e delle disposizioni sulle liste “bloccate lunghe”.

Queste ultime, a giudizio della Corte, ostano alla realizzazione di un rapporto eletto-elettore che consenta

una consapevole realizzazione della rappresentanza politica. La disposizione relativa alle liste “bloccate

lunghe” era l’espressione di un forte potere garantito da quel sistema elettorale ai partiti politici e, in

particolare, alle leadership dei partiti nell’attività di selezione delle candidature. Vista da questo punto di

vista, la sentenza ha dunque contribuito a ridimensionare parzialmente, più che il ruolo dei partiti nel

procedimento elettorale alla luce dell’art. 49 Cost., una posizione di forza oggettivamente eccessiva dei

leader dei partiti che incideva negativamente sul corretto funzionamento della rappresentanza politica di

cui all’art. 67 Cost. Nella sostanza, la Corte ha dichiarato l’illegittimità della disciplina elettorale che

consentiva un arbitrio pressoché assoluto alle oligarchie di partito nella composizione delle liste elettorali.

Sotto questo profilo, lo sviluppo di una disciplina pubblicistica sull’organizzazione dei partiti e sulla loro

democrazia interna, in questo caso per quanto riguarda la selezione delle candidature, potrebbe essere

uno degli elementi che contribuiscono, oltre, ovviamente, alle regole elettorali, ad un più corretto

funzionamento della rappresentanza ex art. 67 Cost. nel rapporto eletto-elettore.

Una delle chiavi per recuperare l’essenza dell’art. 67 nell’ambito del modello di democrazia

rappresentativa delineato dalla Costituzione italiana ed attenuare alcune criticità legate ad un utilizzo

“disinvolto” del libero mandato sembra dunque risiedere nello sviluppo di un rapporto virtuoso tra art.

67 e art. 49 il cui elemento imprescindibile appare, oltre alla tutela del libero mandato, l’effettiva

applicazione della norma costituzionale relativa ai partiti politici.

In questo contesto, l’art 49 Cost., che individua nella partecipazione alla politica dei cittadini un diritto

fondamentale di questi ultimi di associarsi in partiti per concorrere con metodo democratico a

determinare la politica nazionale, va dunque interpretato come una disposizione costituzionale finalizzata

a dar vita ad un modello di partecipazione tendenzialmente “dal basso”, sulla base di una logica di tipo

“bottom-up”. Da questa impostazione deriva l’esigenza naturale di implementare il metodo democratico

all’interno dei partiti, al fine di impedire lo sviluppo di organizzazioni politiche troppo verticistiche e

oligarchiche che si allontanano dal modello dell’art. 49.

21 Premio che veniva assegnato automaticamente alla lista o coalizione di maggioranza relativa dei voti senza che fosse necessario il raggiungimento di una soglia minima di voti da parte di quella stessa lista o coalizione.

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Questa impostazione, peraltro, viene rafforzata se si ricollega l’art. 49 Cost. ai principi fondamentali della

Costituzione. L’attività dei cittadini all’interno dei partiti – per concorrere a determinare la politica

nazionale – è certamente una delle forme di esercizio del principio della sovranità popolare espresso

dall’art. 1 Cost. È anche un diritto fondamentale che si concretizza nella partecipazione all’interno di una

delle formazioni sociali – il partito politico, in questo caso – ove l’individuo possa svolgere la sua

personalità di cui parla l’art. 2 Cost. L’art. 49, inoltre, è strettamente collegato al principio di eguaglianza

sostanziale affermato dall’art. 3, secondo comma, Cost., poiché rappresenta lo strumento attraverso il

quale lo sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica del Paese si

può concretizzare22.

Allo stato attuale, pertanto, non appare più possibile considerare i partiti soltanto come associazioni

private e il metodo democratico come proiezione solo esterna della loro azione. Ed anzi, questa

interpretazione riduttiva della dimensione pubblica dei partiti, legata in Italia ad un contesto storico e

politico da tempo superato, ha probabilmente finito per accentuare la disaffezione e il calo di fiducia dei

cittadini nei confronti dei partiti e, più in generale, delle istituzioni .

È anche alla luce di queste considerazioni che appare opportuno un intervento legislativo in materia. Il

legislatore può e deve avere un ruolo per contribuire a colmare l’ampia distanza esistente tra il modello

prefigurato dall’art. 49 Cost. e la realtà organizzativa della maggioranza dei partiti e movimenti politici

italiani. Sotto questo profilo, le evoluzioni della passata legislatura che hanno portato ai primi interventi

sull’organizzazione dei partiti contenuti nella legge n. 13 del 2014 sono ancora insoddisfacenti23. Del resto,

in considerazione dello stretto legame esistente tra partiti e gruppi parlamentari, non è ovviamente casuale

che forze politiche non democratiche al loro interno diano luogo in Parlamento a gruppi parlamentari

egualmente poco democratici che tentano di comprimere con vari mezzi l’esercizio del libero mandato

parlamentare da parte dell’eletto.

La soluzione di alcune delle problematiche riconducibili alla questione della democrazia nei partiti non

rappresenterebbe certamente la panacea di tutti i mali e, da sola, non potrebbe risollevare le sorti della

democrazia rappresentativa24. Al tempo stesso, però, una buona legge potrebbe generare alcuni effetti

22 Rileva, a riguardo, M. LUCIANI, Sul partito politico, oggi, in Dem. dir., n. 3-4, 2010, 165, che in particolare per le classi sociali meno abbienti e/o escluse dal circuito della produzione culturale, il partito è inteso, nella Costituzione, come il grimaldello per scardinare gli ostacoli individuati dallo stesso art. 3, comma 2, sul percorso che conduce dall’astratta proclamazione dell’eguaglianza alla concreta realizzazione di una parità di opportunità: dall’eguaglianza formale a quella sostanziale. 23 Per un approfondimento di questi aspetti si rinvia nuovamente a F. SCUTO, La democrazia interna dei partiti, cit., 100 ss. 24 Per una riflessione sulle possibili evoluzioni alla luce della crisi della democrazia rappresentativa si veda P. BILANCIA, Crisi nella democrazia rappresentativa e aperture a nuove istanze di partecipazione democratica, in Federalismi.it, n. spec. 1, 2017. Come sottolinea l’A., lo sviluppo completo della democrazia in un ordinamento statale non si basa

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benefici sul sistema dei partiti, soprattutto se fosse indirizzata a renderli più aperti all’esterno

disciplinandone il funzionamento nell’ottica di un miglioramento del livello di democraticità interna. Si

tratterebbe di un’evoluzione che, come si accennava in precedenza, potrebbe influire positivamente sulle

dinamiche della rappresentanza nel rapporto tra eletto ed elettore delineato dall’art. 67 Cost.

Lo sviluppo della democraticità interna dei partiti dovrebbe auspicabilmente essere parte di un intervento

più ampio finalizzato a rinvigorire la democrazia rappresentativa e rilanciare la partecipazione

democratica con nuove forme inclusive che incentivino il confronto pubblico dal basso e la

partecipazione popolare. In quest’ottica, l’approvazione di una legge sui partiti equilibrata ma anche

rigorosa può essere considerata come una forma di tutela della democrazia rappresentativa. Se si

riconosce, come appare opportuno, che rinnovare il modello di democrazia rappresentativa con elementi

di democrazia deliberativa e nuove forme di partecipazione allargata non deve comunque aprire la strada

a scenari orientati al superamento della rappresentanza politica: le spinte in questa direzione tendono

infatti a basarsi, dietro ai richiami alla funzione salvifica della volontà popolare, su impostazioni di tipo

plebiscitario. Del resto, l’adozione di nuovi strumenti che favoriscano la partecipazione popolare non è

certo incompatibile con il sistema rappresentativo25. Al tempo stesso, è però evidente che il superamento

dell’art. 67 Cost. mediante l’introduzione del vincolo di mandato inciderebbe pesantemente sulla tenuta

del modello di democrazia rappresentativa delineato dalla Costituzione italiana.

Gli attuali rischi di “sistema” sembrano richiedere, oggi più di ieri, una particolare attenzione. I populismi,

gli eccessi di leaderismo ed i partiti personali, gli attacchi alla democrazia rappresentativa si rispecchiano

in un sistema dei partiti che, nel suo insieme, ha dato vita a forze politiche assai poco democratiche al

loro interno. Partiti che risultano, oggi, meno democratici se paragonati all’esperienza dei partiti di massa

delle prime fasi della storia repubblicana che colmavano i deficit di democraticità interna con una capacità

di rappresentare la società italiana neppure lontanamente paragonabile rispetto a quella delle attuali forze

politiche. L’adozione di norme interne come quella contenuta nello Statuto del Gruppo parlamentare del

M5S possono essere considerate come la logica conseguenza di questo percorso involutivo.

solo sulla rappresentanza politica o sull’attuazione degli istituti tradizionali di democrazia diretta, ma si realizza anche attraverso la partecipazione dei cittadini alle decisioni che li riguardano e negli spazi in cui possono esercitare questi diritti. 25 Cfr. P. BILANCIA, Crisi nella democrazia rappresentativa e aperture a nuove istanze di partecipazione democratica, cit. Sull’applicazione delle pratiche della democrazia deliberativa anche alle istituzioni della democrazia rappresentativa v. R. BIFULCO, Democrazia deliberativa e principio di realtà, in Federalismi.it, n. spec. 1, 2017. Sul binomio tra rappresentanza e democrazia diretta nel quadro costituzionale italiano, in particolare alla luce delle più recenti evoluzioni, v. E. CASTORINA, Democrazia diretta e democrazia rappresentativa in Italia: crisi dei tradizionali istituti di partecipazione politica e riforme mancate, in Federalismi.it, n. spec. 1, 2017.

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Per queste ragioni appare opportuno e forse persino necessario, oggi, riconoscere una nuova centralità

all’art. 49 Cost. nel sistema rappresentativo, anche nell’ottica di preservare e tutelare la rappresentanza

politica e l’art. 67 Cost., dando completa attuazione a questa essenziale norma costituzionale dopo

decenni di attesa, in particolare per quanto riguarda l’effettiva partecipazione dei cittadini alla politica26.

È un percorso che vale la pena di perseguire poiché ancora oggi i partiti e i movimenti politici sono un

elemento fondamentale della democrazia e, non a caso, la loro crisi ha contribuito ad indebolire e sfibrare

ulteriormente il modello di democrazia rappresentativa delineato dalla Costituzione.

26 Come osserva M. LUCIANI, Sul partito politico, oggi, cit., 168, i partiti politici possono ancora giocare il ruolo loro assegnato dall’art. 49 Cost. e «la democrazia compatibile con il modello di trasformazione sociale disegnato dall’art. 3, comma 2, Cost., non può essere quella in cui ogni chance di determinare, davvero, la politica nazionale è cancellata e la partecipazione alla politica si riduce, schmittianamente, all’acclamazione di un leader, nazionale, regionale o locale che sia». Sul punto, come evidenzia l’A., funziona il richiamo al dover essere che non è scelto sulla base di inclinazioni personali, ma è definito ed indicato direttamente dalla Costituzione.

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di Nicolò Zanon

Giudice della Corte costituzionale

La “Rinascita” dell’articolo 67 della Costituzione e i censori delle parole

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La “Rinascita” dell’articolo 67 della Costituzione e i censori delle parole*

di Nicolò Zanon

Giudice della Corte costituzionale

Riflettevo ultimamente sulle giuste costrizioni che impediscono (o dovrebbero impedire: sono note prassi

discordanti) ad un giudice costituzionale in carica di pronunciarsi pubblicamente su questioni giuridiche

ed istituzionali cruciali e discusse nell’attualità. E pensavo, per contro, con rimpianto ed un poco d’invidia,

alla condizione dello studioso, che di ogni questione può scrivere in libertà, con ampiezza di giudizio.

Mi capitava di fare questi pensieri in relazione alla meritoria iniziativa, assunta da un deputato, di chiamare

vari costituzionalisti a riflettere sul destino del libero mandato parlamentare, al cospetto di regole

statutarie deliberate da un gruppo parlamentare, che parrebbero porsi in una qualche tensione con quel

principio.

Mi sarebbe piaciuto partecipare all’iniziativa (avevo ricevuto l’invito), ma non potevo farlo, per ovvie

ragioni. Così, ancora un poco recriminando sui vincoli derivanti dalla mia attuale condizione, mi sono

dedicato alla lettura degli scritti presentati dagli studiosi che a quell’iniziativa hanno aderito, altrettanto

meritoriamente pubblicati da Federalismi.

Al tema del libero mandato sono del resto affezionato, culturalmente e personalmente, anche perché mi

ricorda anni lontani, quelli della mia giovinezza (sottolineo la parola, per le ragioni che dirò), quando si

studiava e basta, e non c’era altro cui pensare, e si credeva che tutto ruotasse intorno alle nostre ricerche,

e si era così ingenui da credere che le sorti del mondo dipendessero da queste. Beata ingenuità della

giovinezza (ri-sottolineo la parola)…

Non ho potuto tuttavia cullarmi a lungo in dolci ricordi, perché mi sono imbattuto, sempre nell’antologia

di Federalismi, nello scritto di Gianluca Conti (Sfera pubblica e sfera privata della rappresentanza. La giustiziabilità

dell’art. 67 Cost. nella sua attuazione da parte dello statuto di un gruppo parlamentare, in Federalismi, n. 13/2018).

L’Autore mi dedica alcune righe davvero sorprendenti, leggendo le quali mi sono definitivamente, e

bruscamente, risvegliato da nostalgie melanconiche.

Il Collega ricorda e cita (p. 3 dello scritto citato, anche alle note 3 e 4) un mio scrittarello del 2014,

intitolato “La seconda giovinezza dell’articolo 67 della Costituzione” (credo peraltro che ne abbia letto solo il

* Riceviamo e volentieri pubblichiamo.

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titolo, come testimonia un’ulteriore citazione - nota 12 di p. 6 - nella quale sostiene che mi sarei occupato,

in quell’articoletto, di Burke, ciò che invece non è).

In tale scritto, osservavo il recente ricorso della Corte costituzionale al parametro di cui all’art. 67 Cost.

per risolvere questioni di legittimità costituzionale: cosa invero inusuale, che mi aveva indotto a ragionare

di una sua “seconda giovinezza”.

Ma quel breve scritto accennava soprattutto ad alcune sfide lanciate, proprio dalla cultura politica

“grillina”, alla concezione tradizionale della democrazia rappresentativa: un tema, credo, rilevante nel

simposio organizzato dal deputato. Eppure, il Collega ignora del tutto questo aspetto, e si concentra

unicamente sul titolo dello scritto, e sulla parola che in esso lo ha evidentemente colpito: “giovinezza”.

Scrive il Collega (e si percepisce che freme di sdegno): «si è detto, con una parola che un po’ disturba,

che l’art. 67 Cost. sta conoscendo una seconda “giovinezza”». Per spiegare e suggellare l’indignazione che

l’utilizzo di questa parola dovrebbe suscitare, appresta la seguente nota al testo: «Giovinezza era la

canzone che la Camera dei deputati usava nel periodo fascista, fra l’altro, per approvare una mozione

professando entusiasmo» (segue dotta citazione di uno storico che attesta il fatto).

Inizialmente tutto contento di leggere contributi sull’art. 67 della Costituzione, sono rimasto basito.

La prima reazione, a caldo, è stata un sorriso un poco incredulo: che gli è preso, al Collega, per imbarcarsi

in una così cervellotica accusa?

Poi, però, mi sono preoccupato, sono nati sensi di colpa, ed è scattata la ricerca degli argomenti a difesa.

Ho così pensato agli usi correnti dell’espressione “vivere una seconda giovinezza”; poi, ho cercato di

ricordare l’utilizzo colto dell’espressione, ad esempio nella storia letteraria (mi è venuto in mente, ma è

banale, “quant’è bella giovinezza, che si perde tuttavia” ecc.). Ho persino scoperto, andando su Google,

che Giorgio Benvenuto, non propriamente una camicia nera, ha scritto un libro intitolato “La seconda

giovinezza”…

Ma non riuscivo a darmi pace, perché il tarlo del dubbio ormai aveva minato le mie certezze. Sarò incorso

in apologia di fascismo? Per un giudice costituzionale in carica sarebbe grave.

Alla fine, sempre più pervaso dai sensi di colpa, ho pensato che, col capo cosparso di cenere, avrei dovuto

chiedere all’editore della rivista di modificare (retroattivamente: si potrà fare?) il titolo dell’articoletto. E

mi è in particolare venuto in mente che, forse, avrei potuto proporre di sostituire “La seconda giovinezza

dell’art. 67 Cost.” con “La Rinascita dell’art. 67 Cost.” (forse la parola Rinascita ha più accettabili

assonanze…).

Scherzi a parte. Vi sono cose sulle quali sorridere e cose invece assai serie. Gli attacchi proditori, e

francamente immotivati, sono cose serie.

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Soprattutto, vorrei dire, in un contesto istituzionale non facile e gravido di rischi, c’è bisogno di idee e

serietà. Non è facendo i censori delle parole che si difende il destino dell’art. 67 Cost. e della democrazia

rappresentativa.

Temo però che se questo impegno è svolto da questi difensori, con questi argomenti, il destino dell’art,

67 sia segnato


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