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GRUPPO FOTOGRAFICO ANTENORE, BFI
RASSEGNA STAMPA
Anno 6°, n..6 - Giugno 2013
Sommario: American Way of Life........................................................................(pag. 2)
Andrè Kertész, padre della fotografia contemporanea......................(pag. 4) Antoine d'Agata................................................................................(pag. 7) Aprono le esposizioni di F4/un'idea di Fotografia a Pieve di Soligo...(pag. 9)
Berengo e i giocattol.i, a cominciare da Venezia...............................(pag.11) Bill Brandt, un maestro che realizzò nella sua fotografia una... ........(pag.12)
Camerino: a Palazzo Ducale una mostra di Enzo Carli........................(pag.15) Col fotofonino sul banco... ................................................................(pag.17) Elliott Erwitt, il fotografo narratore dallo stile ironico........................(pag.20)
F4/un'idea di fotografia alla Casa dei Carraresi di Treviso.................(pag.22) Henri Cartier Bresson al Lucca Center of Contemporary Art...............(pag.24)
Il naufrago delle immagini.................................................................(pag.25) Il plagio in fotografia: intervista a Massimo Stefanutti......................(pag.27) Intervista a Erwin Olaf......................................................................(pag.31)
Elio Ciol: conoscersi per riconoscerci.................................................(pag.33) Jacque Henri Lartigue, il fotografo del quotidiano.............................(pag.36)
L'uomo che svestì Bologna ..............................................................(pag.38) La fotografia e il sacro, Salgado e Biasucci........................................(pag.40) Venni, vidi, mangiai...........................................................................(pag.43)
La mostra a Milano/Gianni Berengo Gardin testimone di... ...............(pag.45) Le foto di massa che nessuno guarda................................................(pag.47)
Le prime fotografie aeree a inizio '900 grazie agli aquiloni................(pag.50) Piccola, raffinata e di carta................................................................(pag.52) Storie e personaggi del XX secolo negli scatti di René Burri..............(pag.54)
Storie di Cenerentole.........................................................................(pag.56) Una sola macchina, un solo obiettivo, la pellicola..............................(pag.59)
Vedi Venezia e poi muore..................................................................(pag.60) Edward Steichen: in High Fashion.....................................................(pag.63) Bellissime le donne di Tichy, voyeur con fotocamera di cartone........(pag.64)
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American Way of Life PAOLA MELIGA GALLERIA D'ARTE, TORINO
Comunicato stampa da http://undo.net/it
From the Seventies... Un'esposizione che illustra gli U.S.A. in un arco temporale che spazia dagli anni '70 per arrivare ai giorni nostri attraverso le fotografie di Leslie Krims, Arthur Tress e Roberto Brosan.
La galleria Paola Meliga conclude questo ciclo espositivo – prima delle vacanze estive – proponendo una mostra dedicata allo stile di vita
americano dagli anni 70 in poi.
Una tri-personale di artisti eclettici, realisti, emozionali che hanno vissuto il vero senso del “way of life americano”. Due di loro sono
americani e già conosciuti al pubblico che segue la galleria: Leslie Krims e Arthur Tress, il terzo è un fotografo torinese, ma americano
d’adozione, Roberto Brosan, allievo di Leslie Krims alla fine degli anni ’60.
Un’esposizione che illustra gli U.S.A. in un arco temporale che spazia
dagli anni 70 per arrivare ai giorni nostri.
Gli anni '70 sono anni di libertà, di trasgressione, di lotte politiche, di
contestazioni scaturite dalle tensioni generazionali, e comportamenti aggressivi. Il sesso e, purtroppo, anche le droghe, diventano parte
integrante dello stile di vita tra i più giovani. Gli anni '70 sono stati
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però caratterizzati da un'ondata artistica di tale intensità e creatività
che non ha eguali negli ultimi anni.
Uno spettacolo che, pur iniziando in questo decennio, mette da parte l'accuratezza storica prediligendo un viaggio nei concetti e nei fatti
che precedono e seguono l'epoca. Un viaggio di personaggi tra loro
collegati dal tentativo di uscire dall'ordinario di regole e convenzioni dettate da un potere sempre più distante dalla vita vera.
Leslie Krims
Spregiudicato al di fuori da ogni regola, da quasi 40 anni mette in
discussione e dissacra tutti gli stereotipi della società americana, ridicolizzando i miti, l'american way of life, i riti della middle class,
coinvolgendo criticamente anche gli aspetti religiosi e contro ogni forma di finto perbenismo politico.
I suoi lavori nascono da un umorismo oscuro, sinistro, spietato, il
quale racconta fantasie e realtà sentite a livello individuale quanto collettivo.
Arthur Tress
Una dimensione che si allontana dal semplice aspetto documentaristico per focalizzarsi in un orizzonte molto più ampio.
Tress fotografa il “realismo magico,” che combina elementi tratti dalla
vita quotidiana e dalla sua fantasia scenografica, creando così il marchio distintivo di una regia inventiva.
Tress si inserisce magistralmente con tre sue opere, stacca la realtà
quotidiana inscenando un’America sognatrice. In questi tre scatti in esposizione, i personaggi sono caricaturali ed "emblematici" proprio
dell’America: un surfer, un ragazzo in acqua sotto il ponte di Verazzano (NYC), un anziano immerso nella melma di Central Park
NYC.
Roberto Brosan,
nato a Merano nel 1946, vive e lavora a New York. La sua famiglia si
trasferisce negli anni ’60 negli Usa. Nel 1966 accede – vincendo una borsa di studio – al corso di fotografia presso il Rochester Institut
dove nel 1970 si laurea in fotografia; allievo proprio in questi anni Newyorchesi di Leslie Krims.
A New York inizia a lavorare per vari fotografi, l’ultimo dei quali è Pete
Turner. Dal 1973 avvia il proprio studio professionale occupandosi prevalentemente di pubblicità.
Fra i suoi clienti vi sono: Time (è stato ideatore di molte copertine
divenute famose), Fortune, Smirnoff, Sony ecc… In Italia ha lavorato
per Sorin, Trau ecc…
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A lato della sua attività professionale non ha mai interrotto una sua ricerca personale che vede esclusivamente l’uso del bianco/nero, come
le foto esposte nella presente mostra.
I suoi scatti sono tutti mirati all’identificazione di quella che era (e
che tuttora è) la quotidianità della vita americana.
dal 27 giugno al 14 settembre 2013 alla Paola Meliga Galleria d'Arte - Via Maria Vittoria 46/C - Torino / Cataloghi degli artisti in visione.
Orario: martedì – sabato 10.30/12.30-15.30/19.30, festivi e lunedì
chiuso
Paolo Barosso, Ufficio Stampa Press Passion Tel. 338 4435371
André Kertész, padre della fotografia contemporanea
da http://www.libreriamo.it
Il fotografo ungherese è considerato tra i più grandi maestri del XX
secolo, dotato di una spiccata genialità, influenza e spirito di
osservazione della realtà quotidiana
Un nome come André Kertész rappresenta l’essenza propria della fotografia. Si
tratta infatti di uno dei più grandi maestri del XX secolo, di colui che Henry
Cartier-Bresson definì come il padre della fotografia moderna. Con i suoi scatti
ha dimostrato come qualsiasi aspetto del mondo, anche i più banali ed
apparentemente meno significativi, meritino di essere immortalati. Lontano dal
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mondo del reportage e della cronaca attraverso immagini, con le sue fotografie
fonte di ispirazione per numerosi artisti e fotografi suoi contemporanei.
KERTÉSZ - André Kertész, il più geniale, influente e fantasioso fotografo della
storia, nacque a Budapest il 2 luglio del 1894 da una famiglia della media
borghesia ebraica. Dopo essersi diplomato nel 1912 all'Accademia commerciale
di Budapest, acquistò la sua prima macchina fotografica, una ICA 4.5x6,
apparecchio maneggevole, che gli permise una delle sue tante immagini
celebri, “Ragazzo dormiente”. Arruolatosi nell'esercito austro-ungarico, partì
volontario per il fronte russo-polacco, portando con sé una piccola Goerz Tenax
con obiettivo fotografico da 75mm, con la quale documentò la vita di trincea e
le lunghe marce. Oltre ai suoi commilitoni, soggetti privilegiati sono anche
alcuni scorci che gli ricordano i poveri villaggi della sua Puszta e la gente
semplice che vi abita. Si tratta di tutte inquadrature che mettono in luce la
freschezza e l'originalità del punto di vista di Kertész. Nel settembre del 1925,
a causa della depressione post-bellica dell'Ungheria e al clima che
caratterizzava Budapest, bella ed elegante ma incapace di soddisfare le
aspirazioni di modernità dell’artista, scelse come meta del suo esilio forzato
Parigi. La capitale francese era in quel periodo ricettacolo delle più illustri
personalità appartenenti all'avanguardia artistica, come Germaine Krull, Robert
Capa, Man Ray e Berenice Abbott . Intrecciò una profonda amicizia con Gyula
Halász, conosciuto come Brassaï.
GLI INIZI DELLA CARRIERA FOTOGRAFICA - Nel 1928 acquistò una Leica
ed insieme ad Henri Cartier-Bresson iniziò a lavorare per la rivista Vu. Nel
1929 Kertész partecipò alla prima mostra indipendente di fotografia “Salon de
l'escalier”, insieme a Berenice Abbott, Laure Albin-Guillot, George Hoyningen-
Huene, Germaine Krull, Man Ray, Nadar e Eugène Atget. Nel 1933 la rivista Le
sourire gli offrì cinque pagine da riempire in piena libertà. Per l’occasione il
fotografo ungherese affittò uno specchio deformante e nel suo studio realizzò
numerosi scatti che ritraevano due modelle, Hajinskaya Verackhatz e Nadia
Kasine. La serie, conosciuta con il nome di “Distorsioni”, applica un surrealismo
che nasce da una ricerca sulle possibili alterazioni delle forme corporee.
LA FOTOGRAFIA COME INTERPRETAZIONE - Interessato alle nuove
correnti artistiche americane, decise di accettare l'offerta di Erney Prince
dell'agenzia Keystone si trasferì a New York, nell'ottobre del 1936. Il lavoro alla
Keystone durò solo un anno. Le sue immagini non erano ben accette nel
panorama fotogiornalistico statunitense, che richiedeva uno stile rigoroso e
didascalico. Lo stesso fotografo ammise questa mancanza nel suo stile, “Io non
documento mai. Con le mie foto interpreto. Questa è la differenza tra me e
tutti gli altri”. Lavorò come freelance collaborando per molte riviste, tra cui
Harper's Bazaar, Vogue, Town and Country, The American House, Coller's e
Coronet, Look. La morte della moglie, nonostante il matrimonio nell’ultimo
periodo non fosse stato roseo, lasciò nel fotografo un grandissimo vuoto.
Anziano e solo, si chiuse nel suo appartamento e continuò a fotografare, anche
da malato, facnedo della moglie defunta il soggetto privilegiato. utilizzando un
obiettivo zoom dalla finestra della sua casa affacciata sullo Washington Square
Park. Raccolse le foto nel libro From my Window (1981), dedicandolo alla
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moglie Elisabeth morta di cancro nel 1977. Kertész ha passato tutta la sua vita
alla ricerca dell'accettazione del consenso da parte della critica e del pubblico.
Tuttavia i suoi lavori, la maggior parte delle volte, furono poco apprezzati. La
sua arte non si è mai avvicinata ad alcun soggetto politico ed è rimasta legata
ai lati più semplici della vita quotidiana, con toni molto intimi e lirici. Soltanto
gli ultimi anni della sua vita e i successivi alla morte segnano un rinnovato
interesse verso degli scatti che riescono ad essere senza tempo. Kertész morì
a New York il 28 settembre 1985.
STILE E POETICA UNICI - Considerato da Henry Cartier-Bresson il padre
della fotografia contemporanea e da Brassai il proprio maestro, Kertész ha
dimostrato come qualsiasi aspetto del mondo, dal più banale al più importante,
meriti di essere fotografato. “La fotografia è la mia sola lingua. Io non faccio
semplicemente delle foto. Io mi esprimo attraverso le foto”. I costanti
mutamenti di stile, temi e linguaggio, se da un lato ci impediscono di collocare
il lavoro del fotografo ungherese in un ambito estetico esclusivo, dall’altro ne
dimostrano la versatilità e la continua ricerca comunicativa. Nonostante la
strada sia stata il soggetto principale delle sue fotografie, non era interessato
alla cronaca o agli eventi mondani, quanto alla possibilità di mostrare la felicità
silenziosa dell’intimità quotidianità. Kertész ha mantenuto una linea poetica
che lo tenne distante tanto dallo sperimentalismo di Man Ray, quanto
dall’impegno sociale e politico che avrebbe avuto la sua definitiva
consacrazione con la Guerra di Spagna del 1936. Le sue immagini prediligono
gli attimi, le emozioni passeggere. Si tratta di foto che vivono nel ricordo e che
evocano ricordi. Una delle caratteristiche di Kertész è la grande capacità di
stimolare l’osservatore ad interrogare la foto, a porsi domande alle quali poi
ognuno dà risposte diverse. emergono l'occhio intuitivo e la sensibilità umana
di un Kertész ancora molto giovane, ma già capace di cogliere all'istante,
esaltandoli e nobilitandoli, semplici affetti e momenti della quotidianità.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Tags: André Kertész, maestri della fotografia, storia della fotografia
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Antoine D'Agata
Comunicato stampa da http://undo.net/
FONDAZIONE FORMA PER LA FOTOGRAFIA, MILANO
Anticorpi. Antologica dei lavori fin qui realizzati da D'Agata. Si tratta delle due facce dello stato della violenza nel mondo, come lo stesso
autore ha definito le sue immagini, anche se per molto tempo questa distinzione e' esistita solo a livello inconscio. Lo stesso giorno
inaugura "Trompe l'oeil - I veri inganni della fotografia", con i lavori di
32 studenti di NABA.
a cura di Fannie Escoulen e Bernard Marcadé
D’Agata è sicuramente uno dei personaggi più controversi nella
panorama della fotografia contemporanea, allievo di Nan Goldin e Larry Clark, non ha mai fatto segreto del suo approccio viscerale e
diretto nei confronti della fotografia.
Antoine D’Agata, membro dell’Agenzia Magnum dal 2002, è in fuga da
sempre. Da quando, giovane punk ha lasciato la sua città, Marsiglia, non si è mai fermato, spinto nella sua ricerca da un misto di desiderio
e incoscienza che lo porta da sempre a cercare di superare barriere fisiche e psicologiche del suo stesso essere, oltre ogni possibile
pregiudizio o assennato limite.
Anticorpi presenta una ampia selezione dei lavori fin qui realizzati da D’Agata. Si tratta delle due facce dello stato della violenza nel mondo,
come lo stesso autore ha definito le sue immagini, anche se per molto tempo questa distinzione è esistita solo a livello inconscio.
Il primo gruppo di fotografie è quello realizzato per la stampa in giro per il mondo in luoghi come la Libia, la Palestina, Auschwitz … Il
secondo è quello che testimonia ed evoca il sesso, le droghe, lo
sfruttamento e la prostituzione.
Son diversi aspetti del suo mondo e se l’autore non rinnega le prime, sente i suoi reportage più distanti rispetto al coinvolgimento che prova
nelle sue esperienze più estreme dove e identità sono confuse, le
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azioni colte al massimo della loro potenza e dove il corpo e le sue
forme hanno perduto la loro grazia e armonia.
La mostra presentata a Forma, dopo il successo di Parigi e dell’Aja, catapulta il pubblico all’interno del mondo di d’Agata. Un mondo
complesso e vario, estremo se vogliamo ma profondamente autentico,
vero come pochi altri e esposto con una cruda, spiazzante onestà. Anticorpi è una produzione di Fondazione Forma per la Fotografia in
collaborazione con Le Bal di Parigi e il Fotomuseum Den Haag. La mostra a cura di Fannie Escoulen e Bernard Marcadé è
accompagnata da un catalogo edito da Xavier Barral Editions.
Biografia Nato a Marsiglia, Antoine d’Agata lascia la Francia nel 1983 trasferirsi
a New York. Nel 1990 si iscrive all’ l’International Center of Photography. Dal 1991 al 1992 è stagista presso la redazione
dell’agenzia Magnum a New York. Tornato in Francia, nel 1998 escono i suoi primi due libri, De Mala Muerte e De Mala Noche. L'anno
successivo, la “Vu Galerie” inizia a distribuire le sue fotografie. Nel 2001 pubblica Hometown e vince il premio Niepce. Nel settembre 2003
è inaugura a Parigi la mostra “1001 Nights”, accompagnata da due
libri, Vortex e Insonnia. L'anno seguente entra a far parte della Magnum Photos e pubblica il suo quinto libro, Stigma. Sempre nel
2004, dirige il suo primo cortometraggio, Le Ventre du Monde. L'anno successivo pubblica il volume Manifeste. Nel 2006, gira la sua prima
fiction, Aka Ana, a Tokyo. Dal 2005 Antoine d’Agata non risiede in un luogo costantemente e lavora in tutto i l mondo. Nel 2012 esce il suo
ultimo libro Ice, frutto degli anni trascorsi in Cambogia.
Immagine: © Antoine d’Agata - Magnum photos- Tokyo, 2008
---- TROMPE L'OEIL - I veri inganni della fotografia FORMA e NABA | 27 giugno 2013 -
1 settembre 2013.
In mostra i lavori di 32 studenti del Master in Photography and Visual Design e del
Biennio in Design della Comunicazione di NABA
Giovedì 27 giugno alle ore 18:30 inaugura presso la Fondazione FORMA per la
Fotografia la mostra collettiva “TROMPE L'OEIL: i veri inganni della fotografia”. A
cura di Luca Andreoni e Francesco Zanot l’esposizione raccoglie i lavori di 32
studenti del Master in Photography and Visual Design e del Biennio in Design della
Comunicazione di NABA.
Pedro Almeida, Elena Amici, Immacolata Cante, Alice Caracciolo, Antonio Cormano,
Miryam Cuppone, Alessia D'Alessio, Matteo Damiani, Guadalupe Delgadillo, Silvia
Di Frisco, Martina Garioni, Nicola Genchi, Elena Giandomenico, Kateryna Kovarzh,
Simone Mantovani, Nicole Moserle, Marios Orphanos e al.
----
Fondazione Forma per la Fotografia - piazza Tito Lucrezio Caro, 1, Milano
Orari: Tutti i giorni dalle 10 alle 20 - Giovedì e Venerdì fino alle 22. Chiuso il
Lunedì - Costo biglietto: 7.50 euro Ridotto 6 euro Scuole 4 euro.
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Aprono le esposizioni di F4 / un’idea di Fotografia a
Pieve di Soligo
da Artribune Segnala
La terza edizione di F4 / un’idea di fotografia, festival promosso da
Fondazione Francesco Fabbri, ha la sua seconda tappa con le esposizioni di Villa Brandolini a Pieve di Soligo in provincia di Treviso. Un percorso
composto da tre mostre che presenta l’opera di Leonard Freed, uno dei membri della celebre agenzia Magnum, il fotografo emergente Gianpaolo
Arena con il suo reportage sul Vietnam e una rassegna dedicata al Fondo Munari realizzato in collaborazione con il FAST.
La prima esposizione Leonard Freed. Io amo l’Italia, a cura di Enrica Viganò, presenta cento immagini scattate in diverse località della
Penisola, dalla metà del Novecento agli inizi del nuovo secolo. Una sorta di diario degli oltre quarantacinque soggiorni compiuti dal fotografo in
Italia, terra con la quale intrattenne un rapporto che lui stesso definì “una storia d’amore”.
La selezione di scatti di Leonard Freed – dal 1972 membro della Magnum
– spazierà dagli esordi fino alla maturità, abbracciando le numerose tappe della sua prestigiosa carriera. Il percorso espositivo, attraverso immagini
analogiche rigorosamente in bianco e nero, consentirà di cogliere il lato
più profondo di Freed, capace di ritrarre la nostra società senza usare stereotipi, con scenari che descrivono uno spaccato umano nel quale sono
evidenti le influenze maturate grazie agli incontri che il fotoreportage ha reso possibili.
Quando fra il 1952 e il 1958, mosso dall’interesse per l’arte, compie i suoi
primi viaggi in Europa, Freed scopre la passione per la fotografia - che inizialmente costituisce solo un espediente per procurarsi da vivere - e
viene conquistato dall’Italia. Un Paese, quest’ultimo, con il quale l’artista entra in contatto dapprima nella Little Italy di New York e che diventa
presto un luogo anche figurato di ricerca interiore e,
contemporaneamente, un campo di osservazione in cui “il passato è sempre presente non solo nei luoghi ma nella vita quotidiana delle gente”.
Molto più che per l’arte, l’architettura o il paesaggio, l’amore di Freed è per gli italiani. È affascinato dalla vita della gente comune, dal calore e
dalla spontaneità - colta nei lavoratori siciliani, nei soldati seduti su un ponte a Firenze o tra gli aristocratici veneziani e romani - che non
mancano mai nelle sue fotografie.
La ricerca di Leonard Freed, sensibile all’antropologia culturale e all’indagine etnografica, scaturisce dalla necessità di ritrovare il senso
delle proprie origini attraverso lo studio di comunità cosiddette
tradizionali. Come sostenne lo stesso artista: “Sono come uno studente curioso, che vuole imparare. Per poter fotografare devi prima avere
un’opinione, devi prendere una decisione. Poi quando stai fotografando, sei immerso nell’esperienza, diventi parte di ciò che stai fotografando.
Devi immedesimarti nella psicologia di chi stai per fotografare, pensare
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ciò che lui pensa, essere sempre molto amichevole e neutrale.” E ancora: “Voglio una fotografia che si possa estrapolare dal contesto e appendere
in parete per essere letta come un poema.”
A seguire, la mostra personale del fotografo Gianpaolo Arena intitolata My
Vietnam, a cura di Carlo Sala. Un percorso di oltre quaranta scatti che propone in anteprima il reportage realizzato in Vietnam nel 2013. Già dal
titolo si percepisce come l’autore abbia compiuto un viaggio dai forti connotati personali, dando una interpretazione inedita del paese che va
oltre gli stereotipi. Appaiono le grandi città e gli scenari naturali in una serie di fotografie che alternano visioni paesistiche a ritratti, ma anche
frammenti di realtà all’apparenza secondari che sono pregni di significati. Il fruitore si trova di fronte alle caotiche e rumorose Ho Chi Minh e Hanoi,
le bianche spiagge di Nha Trang, gli altipiani delle regioni centrali, l’aristocratica cittadella imperiale di Hué, la cittadina fluviale di Hoi An, i
paesaggi mistici circondati da verdi risaie di Tam Coc, il maestoso delta del Mekong. Emerge una società sospesa tra passato e presente, tra
tradizione e desiderio di rinnovamento, tra tensione e rivelazione.
Frammenti di realtà all’apparenza marginali sono indizi rivelatori del cambiamento in atto.
Il FAST (Foto archivio storico trevigiano) è un patrimonio inestimabile di
foto d’autore e vernacolari con fondi ancora da scoprire. Attraverso le sue raccolte viene creato un affascinante percorso che espone una serie di
ritratti realizzati a inizio novecento dallo Studio Munari di Pieve di Soligo. Volti ritrovati. Ritratti dal fondo Munari propone scatti in bianco e nero,
tra contesti storici e abiti desueti. Un percorso che fa emerge l’intensità dei volti di uomini e donne di una società carica di valori, oramai
scomparsa. Un viaggio alla scoperta delle proprie radici, tra immagini
nuovamente svelate che raccontano l’identità dei territori.
F4 / un’idea di Fotografia
Leonard Freed. Io amo l’Italia
A cura di Enrica Viganò
Gianpaolo Arena. My Vietnam
Volti ritrovati. Ritratti dal fondo Munari
A cura di Carlo Sala
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Villa Brandolini, Pieve di Soligo (Tv) Piazza Libertà, 7
Dal 23 giugno al 11 agosto 2013 - Orari di apertura: da giovedì a sabato 16.00-20.00;
domenica 10.00-13.00 e 16.00-20.00. Chiuso il 28/29/30 giugno). Evento promosso da
Fondazione Francesco Fabbri e Comune di Pieve di Soligo. Con il patrocinio di FIAF,
Landscape Stories, TRA e Enzimi, con il supporto di Associazione Amici Fondazione Fabbri,
Admira e FAST. Rassegna inserita in RetEventi Cultura Veneto realizzata da Provincia di Treviso e Regione del Veneto. Con il sostegno di Promotreviso.
Ingresso unico delle mostre di Treviso e Pieve di Soligo: Intero euro 7,00. Ridotto euro 5,00
dai 13 ai 25 anni; over 65; studenti universitari; aderenti FIAF, soci Touring club, TRA,
Enzimi e Amici Fondazione Fabbri; gruppi di almeno 15 persone. Gratuito minori di 12; portatori di handicap con accompagnatore; giornalisti con tesserino.
Catalogo Admira.Info mostra e prenotazioni:
[email protected] - www.fondazionefrancescofabbri.it
Immagini:
Gianpaolo Arena, Ho Chi Minh, Vietnam. Marzo 2013
Leonard Freed, Firenze 1958
Leonard Freed, Roma 1958
Berengo e i giocattoli, a cominciare da Venezia.
di Fulvio Bortolozzo da http://lastampa.it
Gianni Berengo Gardin non ha davvero bisogno di presentazioni. Se c'è un
uomo che può incarnare con la propria vita il mestiere del fotogiornalista è senza dubbio lui. Da sempre punta le sue Leica su tutto quanto possa essere
motivo di riflessione. Innumerevoli le sue fotografie e tutte dedicate al
desiderio di vedere bene ciò che accade per dare modo a se stesso e agli altri di provare a capire. Mai fazioso, sempre un passo indietro, disposto a
nascondersi dietro l'umiltà dell'artigianato piuttosto che prevaricare un'immagine con la sua personalità e i suoi preconcetti artistici o ideologici,
posto che ne abbia.
Berengo rappresenta ancora il meglio dell'utilità sociale di un fotografo, a fronte del diluvio di fotografanti che la tecnologia digitale riproduce come tanti
vanesi e autoreferenziali robot oculari tutti uguali tra loro. Mentre l'editoria nazionale e internazionale, vedi la recente vicenda del Chicago Sun Times, si
arrende al consumismo visivo licenziando i propri fotoreporter e sostituendoli con un noto smartphone di moda consegnato ai suoi giornalisti, Berengo
Gardin continua imperterrito a osservare cosa accade e a tradurlo in immagini coerenti, culturalmente utili e storicamente necessarie. Di recente è tornato
alla sua Venezia, ma non per aggiungere qualche perla alla sua infinita collana
d'immagini che ne scrutano e rivelano la bellezza più inattesa. Tra le quali,
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quella che più vorrei possedere è l'interno del vaporetto, realizzato nel 1960.
Montaggio caleidoscopico raggiunto con una sintesi istantanea davvero mirabile.
Stavolta a richiamare Berengo a Venezia è uno degli sfregi maggiori che
l'industria del crocerismo di massa sta portando alla Serenissima: il transito nel
bacino di San Marco e nel canale della Giudecca di quei giganteschi condomini galleggianti che sovrastano per mole e altezza la città lagunare trasformandola
in un modellino di se stessa, quasi fosse una giocattolo di plastica di gusto statunitense o nipponico da poter consumare e dimenticare come qualsiasi
altro prodotto di questo junk system in cui siamo sempre più infognati. Se qualche dubbio ancora restava, se gli interessi corporativi di chi campa sul
turismo, e per farlo sarebbe anche disposto a vendere la madre, davano una parvenza di legittimità a questo vero e proprio stupro culturale e ambientale,
con le fotografie di Berengo l'evidenza dei fatti mette tutti con le spalle al muro.
Il potere del fotografico di insegnare a vedere ciò che prima non si vedeva così
chiaramente, trova in Gardin un suo estremo cultore. E con questo, Gianni Berengo Gardin insegna anche che nel mondo di giocattoli che ci propinano
sempre più massicciamente, saper ritrovare la forza di guardare il proprio
quotidiano e saper trarne delle tracce fotografiche coerenti con l'esperienza che se ne fa non è affatto un esercizio superato. Anzi, a fronte della falsificazione
dei luoghi e delle vite operata dagli agenti mediatici del pensiero unico che trasforma l'umanità in numeri e profitti, proprio questo esercizio individuale e
collettivo di riappropriazione del visibile diventa fondamentale per recuperare coscienza critica e, con essa, capacità di azione e contrasto al destino
cellophanato e prezzato in cui stiamo morendo.
Bill Brandt, il maestro che realizzò nella sua fotografia una perfetta fusione tra forma e contenuto
da http://www.libreriamo.it
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La vita e le opere del più famoso fotografo inglese del secolo scorso,
dagli esordi come assistente in uno studio fotografico alla
consacrazione tra i grandi maestri di quest'arte
MILANO – “Un fotografo deve possedere e mantenere il potere ricettivo di un
bambino che vede il mondo per la prima volta”. Era quanto affermava Bill
Brandt, il più illustre tra i fotografi inglesi del Novecento, tedesco di nascita,
uno dei grandi maestri che hanno fatto la storia della fotografia. La sua
produzione è stata multiforme ed eterogenea. Brandt si è abilmente
confrontato con generi come il reportage, il ritratto ed il paesaggio, oltre al
nudo per il quale è divenuto noto.
BILL BRANDT, LA VITA - Brandt nacque il 3 maggio 1904 ad Amburgo da
padre inglese e madre tedesca. Dopo la prima guerra mondiale si ammalò di
tubercolosi e passò gran parte della sua giovinezza prima in un sanatorio
svizzero e poi a Vienna per trattamenti di psicoanalisi. Dichiarato guarito, iniziò
a lavorare come assistente in uno studio fotografico della capitale austriaca. Il
fratello lo presentò alla dottoressa Eugenie Schwarzwald, che spinse il giovane
Bill a dedicarsi alla fotografia. Frequentando la sua casa, Brandt ebbe modo
d’incontrare l’élite culturale del tempo, fra cui Ezra Pound. Grazie al suo aiuto
divenne assistente, a Parigi, del grande fotografo Man Ray, il quale gli fornì un
fortissimo impulso creativo. Trasferitosi a Londra nel 1933, Brandt iniziò a
lavorare a documentari riguardanti le divisioni all’interno della società inglese.
Nel 1940 fu lo stesso Ministero dell'Informazione a commissionargli un
documentario sui rifugi sotterranei anti bombe. Al termine della Seconda
Guerra Mondiale, Brandt cominciò il suo studio riguardante nudi e paesaggi. Il
resto della sua carriera fotografica vide una fusione tra i suoi due soggetti, con
l'utilizzo del nudo nel paesaggio. Il corpo è infatti spesso distorto, al fine di
creare prospettive e profondità che si sposino perfettamente con il paesaggio.
Brandt morì a Londra il 20 dicembre 1983.
L’AMORE PER LA FOTOGRAFIA - Bill Brandt è stato uno dei primi fotografi
ad aver creato una propria forma di espressione unica. Nonostante si sia
cimentato con numerosi stili totalmente agli antipodi, è stato capace di creare
un linguaggio innovativo e creativo, basato sulla fusione tra forma e contenuto.
Si tratta del risultato di un’ampia ed approfondita sperimentazione, che ha
avuto al centro dell’indagine l’immagine stessa. Gli inizi della sua carriera di
fotografo furono fortemente influenzati dalla scoperta delle immagini di Eugène
Atget, il grande fotografo del Novecento spesso definito il "Balzac della
fotografia". La semplicità delle immagini ed il loro senso metafisico
affascinarono Brandt. Durante tutto il corso della sua carriera il fotografo mutò
notevolmente il suo stile, pur rimanendo legato agli insegnamenti e
all’influenza ricevuti in giovane età da Man Ray, che lo avvicinò al mondo del
Surrealismo. Di questa corrente il Brandt apprezzò sia i dettami artistici che il
pensiero e l’ispirazione. Un peso sull’ispirazione formale di Brandt fu coperto
anche da film quali “Un chien andalou” e “L’âge d’or” di Luis Buñuel e Salvador
Dalì.
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LA FOTOGRAFIA COME IMPEGNO SOCIALE - La capacità di cogliere tutte le
situazioni che passano inosservate agli occhi della gente comune è, secondo
Brandt, appannaggio del buon fotografo, e frutto di un distacco, grazie al quale
il mondo può apparire sempre nuovo ed inconsueto ai suoi occhi. La prima
fotografia di Brandt ha, in un periodo storico particolarmente delicato, lo scopo
di lotta contro il capitalismo fondato sulle divisioni di classe, e contro i
condizionamenti repressivi provenienti dall’alta borghesia. La protesta
brandtiana, nonostante la sua forza, di manifesta tuttavia in modo sottile e
pervasivo. Durante il periodo della Depressione e della Guerra mondiale Brandt
vestì i panni non di fotografo o di reporter ma di vero e proprio comunicatore
sociale. Ciò che sta a cuore al grande maestro non è una denuncia politica
bensì culturale. L’apice della denuncia sociale è quella rappresentata dalle
fotografie che ritraggono Jarrow, la cittadina mineraria del nord dell’Inghilterra,
divenuta tristemente famosa per il suo primato record di disoccupazione.
GLI STRUMENTI TECNICI AL SERVIZIO DELL’ARTE - Brandt ha potuto
veicolare il proprio messaggio, guidando lo sguardo dello spettatore sia grazie
alla sua abilità personale che ai nuovi strumenti tecnici a sua disposizione. Tra
questi, primo tra tutti il flash, che il fotografo usa d’appoggio alla luce
ambientale naturale, e la famosa Rolleiflex, una reflex biottica che egli sceglie
perché alla maneggevolezza unisce un formato (5,7 x 5,7) adatto ai tagli della
stampa e all’accurato lavoro di camera oscura cui si dedicava personalmente.
Rimase dapprima fedele ai canoni imposti dalla stampa, che volevano una
fotografia dalla semplice leggibilità, per poi convertirsi al bianco e nero dai
contrasti forti. Fedele alla sua celebre frase “Un fotografo deve possedere e
mantenere il potere ricettivo di un bambino che vede il mondo per la prima
volta”, acquistò una Kodak dal grande formato, con un obiettivo
grandangolare, che gli permise in questo modo di riprendere il mondo a tutto
tondo.
PAESAAGGIO E RITRATTO – L’impronta del surrealismo divenne molto
chiara e manifesta sia a livello estetico che formale, e cominciò a manifestarsi
anche nei paesaggi. Il ritrarre questo tipo di soggetto fu una sorta di omaggio
del fotografo alla propria grande passione letteraria. Il paesaggio viene definito
dall’autore stesso come un “trionfo dello spirito gotico e romantico”. Lo spirito
fortemente surreale emerse in particolar modo nel ritratto di celebrità
appartenenti al mondo della cultura. Qui composizioni ed effetti luministici si
fondono con i principali dettami tecnici della cinematografia di Orson Welles e
Alfred Hitchcock, caratterizzata da piani sequenza e primi piani unici.
FORMA E CONTENUTO SI FONDONO NEL NUDO – Il momento maturo della
carriera di Brandt coincide con l’inizio della raffigurazione di nudi, nei quali
forma e contenuto si fondono in maniera perfetta. La rappresentazione
particolare dei corpi all’interno dello spazio è il frutto non di una distorsione o
di un gioco ottico fine a se stesso, bensì della ricerca di una maggiore artisticità
e comunicatività delle sue immagini. Brandt attraverso questo genere di
raffigurazioni giunge ad una totale libertà dai canoni formali, e trovando nel
corpo femminile il soggetto ideale per poter esprimersi al meglio ed in totale
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libertà. Spesso nelle fotografie di Brand sono stati rintracciati e letti simboli
psicoanalitici tipicamente freudiani, riconducibili all’essenza della vita stessa.
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Tags: Bill Brandt, fotografia, maestri della fotografia, storia della fotografia
Camerino: a Palazzo Ducale una mostra fotografica
del fotografo senigalliese Enzo Carli
da http://www.viveresenigallia.it
E' stata inaugurata venerdì 28 giugno alle ore 18 presso il Palazzo Ducale di Camerino, una mostra fotografica del noto
fotografo senigalliese, studioso e critico di fotografia Enzo Carli.
Alla presentazione della mostra sono intervenuti, oltre allo stesso autore, il
Rettore dell’Università di Camerino Flavio Corradini, l’antropologo Mario De Tommasi, e il docente di estetica dell’Università di Urbino Galliano Crinella, con
la coordinazione di Mario Tesauri. La mostra sarà aperta fino al 14 luglio 2013. L’esposizione consiste in un racconto fotografico suddiviso in due parti:
“Archeologia dei Sentimenti”, presentato per la prima volta nel 2009 all’Ikona Gallery di Venezia e poi a seguire a Parigi (Saint-Nom-La-Breteche), a Reggio
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Emilia, a Berlino (Kopenick), a Caltagirone (galleria Ghirri), e “Crisalidi”,
racconto inedito che viene per la prima volta proposto al pubblico.
Crisalidi
Ogni riferimento alla crisalide non può prescindere, nel sapere diffuso, dal
concetto intrinseco di trasformazione in qualche modo associato alla massima alchemica che le conferirebbe, sulla base del principio che “ciò che
continuamente si trasforma non può deperire”, un’aura di immortalità. Poiché, è vero, non è il bruco, né la crisalide a morire, e forse nemmeno la
farfalla, se il tutto è visto in una più ampia prospettiva di mutamento. Come lo stesso Carli afferma, le fotografie “..simboleggiano l’opera
trasmutativa.. la continua e inarrestabile trasformazione. Una forma come canto effimero, transitorio e circoscritto nel tempo… come poesie, meravigliose
farfalle, reticoli di memoria..”.
Trasformazione, dunque, pur attingendo al medesimo microcosmo emozionale che ha ispirato “Archeologia dei Sentimenti” e tutta la produzione fotografica di
Enzo Carli fin qui conosciuta. Mai si è vista infatti una sua rappresentazione, ricerca estetica o linguistica,
riproposizione realistica, astrazione o proposizione concettuale, che non sia
fortemente intrisa di rimandi affettivi. Una trasformazione che si evince dall’apparentemente effimero “contenuto” di
ogni singolo scatto: giochi di luce e di ombre, equilibri e riflessi che invitano l’occhio a soffermarsi un istante in più poiché al successivo batter di palpebre
potrebbero essere non più tali.
Una trasformazione, ancora, che si rafforza nella proposizione accoppiata delle fotografie, quasi una serie di rappresentazioni dicotomiche in cui l’immagine “in
divenire” viene accostata al suo successivo - non ultimo- divenire, idealmente proiettato a un “continuo divenire”, non come realtà che muta, e in
quanto tale ogni istante è irripetibile, ma come percezione di essa che è in continuo evolvere, in balìa di una precarietà di equilibri tra sentimenti,
emozioni, ricordi e altre umane instabilità. Vi è un attimo in cui il filtro della percezione è capace di trasformare un
insieme più o meno armonico di elementi visivi in poesia. Questo è intrinseco
nella natura umana. La missione del fotografo, in quella che è la concezione di fotografia di Enzo
Carli, che si rifà al Manifesto “Passaggio di Frontiera”, è quella di cristallizzare l’istante della poesia nel continuo mutamento di realtà e sentimenti.
In una precedente serie di immagini (“Così Come La Morte”, 1999), Carli
affrontava insieme ai suoi compagni di ricerca (I Fotografi del Manifesto) il tema della “morte” intesa come termine e rinnovamento, metaforicamente
riferita alla vitalità dell’arte. Rivedendo quelle immagini non posso non scorgere, in seme, ciò oggi egli
esprime, forse con maggior chiarezza, con le sue Crisalidi: la vitalità dell’arte –e in particolare della fotografia- non può prescindere dalla sua capacità di
rinnovarsi nella forma e nel linguaggio.
Del resto una cosa molto simile la sosteneva anche Mario Giacomelli: “Uno si
esprime attraverso la forma. E’ questa forma che va di continuo rinnovata
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perché il linguaggio venga ad essere dentro il tempo” (Spazi Interiori, Ed.
Adriatica, 1990). Ecco che quindi, spogliandolo dei facili connotati esoterici, possiamo
comprendere il significato dell’accostamento alla simbologia della crisalide nell’opera fotografica di Enzo Carli.
Ciò che continuamente si trasforma non può deperire. Fotografia compresa.
Col fotofonino sul banco
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Credo si chiami ancora Educazione artistica la materia di insegnamento a cui i
programmi ministeriali riservano la miseria di poche decine di ore l’anno nella
scuola dell’obbligo.
Già il nome depone male. La materia che insegna ai nostri figli a parlare
meglio, ancheleggendo e studiando i grandi scrittori, non si chiama Educazione
letteraria: si chiama semplicemente Italiano.
Fin dai banchi di scuola, invece, il sapere che riguarda la comunicazione
visiva è assegnato abusivamente in usufrutto esclusivo al campo dell’arte.
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Ho conosciuto in verità alcuni insegnantidi educazione artistica e vedo che
spesso fanno i miracoli, nel loro microscopico limbo, per insegnare non tanto a
diventare artisti della matita o del pennello ma, come il prof di Italiano non
cerca di fabbricare scrittori, a usare bene gli strumenti del comunicare, in
questo caso a vedere, guardare, osservare. Come spesso accade, la classe
insegnante italiana è migliore dei programmi che le vengono assegnati.
Non riesco a capacitarmi di un vuoto così clamoroso che, ne sono certo,
qualcuno di questi insegnanti capaci avrà senz’altro colmato (se me lo fa
sapere, ne sarò felice).
Mi riferisco a un’evidenza: oggi, a differenza anche solo di dieci o cinque
anni fa, gli studenti delle scuole dell’obbligo hanno a che fare tutti i giorni, fuori
dalla scuola, con un’esperienza diretta di produzione di immagini. Di cui
l’educazione visuale impartita a scuola si disinteressa completamente. Come se
l’insegnante di Italiano non si occupasse di come i suoi alunni, effettivamente,
quotidianamente, usano l’italiano.
È ovvio, sto parlando delle foto fatte con il cellulare. Non sono forse
immagini? Non sono forse comunicazione visuale? Certo che lo sono, e nel
modo più travolgente che si possa pensare, visto che imprese miliardarie
prosperano su quei loro scatti quotidiani.
Bene, cosa aspetta la scuola a lavorare su quelle immagini? Non dico di
smettere di bagnare i pennelli e appuntire i pastelli e fare tante altre cose
(magari un po’ meno noiose dell’ “illustrate questa poesia secondo la vostra
sensibilità” dei miei tempi).
Dico che se la scuola non vuole essere, come sempre, il regno delle cose
scolastice, quelle che si fanno solo lì, solo per dovere, e che poi fuori dal
portone non esistono più, ma un luogo dove l’esperienza reale dei ragazzi
diventa comprensibilie, analizzabile, consapevole, ecco, questa è un’occasione
forse più unica che rara.
E sento già le voci, come Giovanna D’Arco: fate studiare i grandi maestri,
invece, educate al bello, alla qualità, ci manca solo che quelle schifezze di
fotografie stile Facebook diventino materia di studio scolastico.
Be’, sì. Proprio così. La lingua che il prof di italiano cerca di correggere nelle
sue ore di lezione è la stessa che i ragazzi apprendono quando
guardano Amici in tivù, o no? Un buon prof di italiano lo sa, e parte da lì, anche
quando legge Calvino o Manzoni.
Come si dovrebbe lavorare sulle neo-foto dei ragazzi? Non sono un
insegnante, avrei però alcuni suggerimenti sui consigli che a mio modesto
avviso sarebbe bene che i ragazzi si sentissero dare, prima o poi. Eccoli.
- Le cose del mondo possono sembrarvi bellissime farfalle, ma la vostra
fotocamera non è una reticella per acchiapparle. Le fotografie non servono per
appropriarsi della sensazione di uno sguardo e di un momento. Se la pensate
così, quando aprirete la reticella ci troverete dentro una farfalla morta e
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scolorita. Se vedete qualcosa di bello, per prima cosa godetevelo con i vostri
occhi.
- Le fotografie sono oggetti nuovi, che entrano a far parte del mondo, dove
prima non esistevano. Li evocate e li fabbricate voi, anche se per fabbricarli
avete usato cose prese dal mondo. Dovete metterci del vostro. Se chiedete
loro di dare delle emozioni, saranno emozioni nuove. Le fotografie non
siprendono, si fanno usando (anche) cose prese. Altrimenti, quel che c’è di
nuovo ce lo metterà il telefonino: e allora farete le sue foto, non le vostre.
- Quindi, quel pezzo di voi (o dei vostri amici) che è preso in una fotografia,
quando la fotografia esiste non è più un pezzo di voi. È un’immagine di voi o di
altri, che può mostrare, quasi sempre mostra, cose diverse da quelle che
mostrate voi di persona. Se affidate a loro un importante messaggio per gli
altri, siate consapevoli che non siete più voi a parlare, ma parla un oggetto che
spesso non vi rappresenta.
- Tuttavia, dovete sapere che gli altri vedranno voi, e non quell’oggetto.
Attribuiranno a voi tutti i messaggi in più, tutti i significati nuovi che la vostra
fotografia crea attorno alle apparenze che ha preso. E quindi, le vostre
immagini mentiranno, almeno in parte, deformeranno il vostro messaggio e
l’immagine di voi che pensate di aver affidato loro. Per quanto facciate, in gran
parte non sarete capaci di controllare e governare quell’immagine.
- Siatene dunque consapevoli, sorvegliate quell’oggetto che state
producendo, non fidatevi ciecamente di lui. Se sarete più ingenui delle vostre
foto, quelle vi inganneranno. Se sarete più furbi di loro, potranno servirvi.
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Elliott Erwitt, il fotografo narratore dallo stile ironico
da http://www.libreriamo.it
Elliott Erwitt, membro della celebre agenzia Magnum Photos, ha fatto la storia
della fotografia mondiale attraverso i suoi scatti in bianco e nero che ritraggono
situazioni ironiche ed assurde di tutti i giorni
Elliott Erwitt è universalmente annoverato tra i grandi maestri della fotografia
mondiale di tutti i tempi. Il suo stile inconfondibile, caratterizzato dal bianco e
nero e dal carattere ironico, è sempre mosso da un unico grande dogma:
l’osservazione come punto di partenza per la realizzazione di qualsiasi tipo di
scatto, da quello per un fotoreportage, sino al personale, che Erwitt ha per
lungo tempo eseguito con la sua celebre Leica M3.
ELLIOTT ERWITT - Erwitt è nato nel 1928 in Francia da una famiglia di
emigranti russi. Ha trascorso la sua infanzia in Italia, sino al ritorno in Francia
e poi al definitivo trasferimento negli Stati Uniti ed in particolare a New York,
città che qualche anno dopo ha designato come sua residenza, anche se la sua
concezione di domicilio è sempre stata quella di “luogo dove ti trovi in un dato
momento, dal momento che non stai andando in nessun altro luogo”. La sua
passione per il viaggio, dettata anche dal suo mestiere, lo ha portato a girare il
mondo. Durante il periodo di studi alla Hollywood High School, Erwitt ha
lavorato presso un laboratorio di fotografia con la mansione di addetto alla
camera oscura. La sua carriera di fotografo professionista è iniziata tuttavia nel
1949 quando, durante un viaggio tra l’Italia e la Francia, ha realizzato scatti
degni di nota. Nel 1951 è stato chiamato dall’esercito americano. In questo
periodo non ha comunque mai smesso di fotografare. La grande opportunità
per la sua carriera di professionista è venuta dall’incontro con personalità di
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spicco del mondo della fotografia dell’epoca, tra cui Roy Stryker e Robert Capa.
Fu proprio quest’ultimo ad offrigli l’opportunità di unirsi alla Magnum
Photos in qualità di membro. Da allora Erwin svolge grandi servizi per
l’agenzia, occupandosi sia di attualità sia di campagne pubblicitarie per aziende
famose, ma seguendo sempre un doppio percorso: durante i suoi spostamenti,
accanto alle voluminose attrezzature professionali non dimentica mai di portare
con sé una Leica M3, piccola e maneggevole, di cui fa un uso strettamente
personale, registrando tutto ciò che lo colpisce in modo particolare. Molte delle
immagini per cui è diventato famoso nel mondo sono state scattate proprio da
quest’apparecchio. Nel 1968 è divenuto presidente della Magnum, carica che
ha ricoperto per tre volte. Ancora oggi è membro attivo, e resta una delle sue
figure leader. Accanto alla fotografia, negli anni Settanta Erwitt svolge anche
un’intensa attività di documentarista e sceneggiatore di serie televisive. Tra i
titoli più celebri, ricordiamo Beauty Knows No Pain e Red White and Blue
Grass, premiato dall’American Film Institute. Anche i suoi libri, all’interno dei
quali ha raccolto tutto il suo sapere in materia di fotografia, hanno fatto la
storia di quest’arte.
FOTOGRAFIA ED IRONIA – Erwitt ha realizzato la totalità dei suoi scatti in
bianco e nero, con i quali ci offre una visione del mondo molto personale, che
ignora per lo più il paesaggio, per concentrarsi quasi esclusivamente su
persone e animali, colti in atteggiamenti apparentemente insignificanti e a
volte anche comici, ma sempre in grado di suscitare empatia nell’osservatore.
Ciò che emerge da queste fotografie sono le emozioni proprie degli esseri
umani, viste e rappresentate in modo semplice e sincero, e sempre
caratterizzate da un tocco di umorismo. “Uno dei risultati più importanti che
puoi raggiungere, è far ridere la gente. Se poi riesci, come ha fatto Chaplin, ad
alternare il riso con il pianto, hai ottenuto la conquista più importante in
assoluto. Non miro necessariamente a tanto, ma riconosco che si tratta del
traguardo supremo”. La sua visione fotografica si è sviluppata e rafforzata
durante il secondo dopoguerra, periodo che ha visto dominare in modo quasi
incontrastato il genere del fotogiornalismo documentario. Questo gli ha
permesso di crearsi il proprio stile.
L’ELOQUENZA IMPAREGGIABILE DELLE IMMAGINI – “Chiunque può
diventare un fotografo con l'acquisto di una macchina fotografica, così come
chiunque può diventare uno scrittore con l'acquisto di una penna, ma essere
un buon fotografo richiede più che la semplice perizia tecnica. Basta poco per
capire se qualcuno è dotato di senso di stile, senso della composizione e un
grande istintività. Tuttavia, tutte le tecniche del mondo non possono
compensare l'impossibilità di notare le cose”. Al centro della poetica dell’artista
sta proprio l’anima della fotografia, ovvero l’osservazione. L’attenta analisi
della realtà che lo circonda. Questo gli ha permesso di giocare e schernire,
sempre in modo benigno, i difetti propri dell’essere umano, eliminando tutte le
velleità aleatorie, per giungere alla vera sostanza. Il suo è un mondo gentile,
forse un po’ troppo ottimistico e vagamente fuori dal tempo, nel quale non c’è
mai spazio per violenza, guerre, crudeltà e dove non compaiono né quartieri
degradati né dimore sontuose, ma dominano cani, bambini e famiglie
numerose, mentre anche i personaggi famosi sono ritratti nella massima
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spontaneità Lo spirito che muove l’artista e che ci permette di comprendere la
sua passione per la fotografia è come le immagini abbiano un’eloquenza senza
pari, non eguagliabile a quella propria delle parole e dei discorsi.
Tags: Elliott Erwitt, Magnum Photos, maestri della fotografia, storia
della fotografia
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F4/ Un'idea di fotografia
da http://www.daringtodo.com
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La personale di Francesco Jodice (della quale vi abbiamo già parlato) è
solo una parte, pure significativa, di questa terza edizione di F4 / un’idea di
Fotografia, il festival promosso da Fondazione Francesco Fabbri, che tra
mostre, workshop e incontri propone uno sguardo sulle trasformazioni del
mondo attraverso l’obiettivo di grandi fotografi. E’ su questo aspetto in
particolare che s’accentra “L’eredità dei precursori” la mostra curata
da Carlo Sala che offre alla visione oltre duecento lavori dalle origini del
mezzo fino ai nostri giorni provenienti dalla collezione privata di Dionisio
Gavagnin, finora rimasta inedita al pubblico. Un percorso costellato da “nomi
assoluti” dell’arte fotografica, come Henri Cartier Bresson, Robert Capa,
Candida Höfer, Robert Mapplethorpe, Félix Nadar, Man Ray, Thomas
Ruff, Sebastião Salgado.
Uno sguardo sulla condizione sociale, nei ritratti dell’alta borghesia di Félix
Nadar, nei volti della gente comune del tedesco August Sander, e nelle
immagini patinate uscite dalle riviste di moda di Robert Mapplethorpe
e Irving Penn. Una carrellata sui tempi eroici della consapevolezza piena della
carica creativa dell’immagine fotografica in una serie di scatti dai primi
Novecento: le distorsioni di André Kertész, i graffiti di Brassaï, le bambole
di Hans Bellmer, i ritratti “solarizzati” di Man Ray, i collage di Raoul
Hausmann, le visioni razionali del Bauhaus.
E se dal suo stesso nascere la fotografia porta con sé il nodo della
corrispondenza tra realtà vera e realtà fotografata; il problema neanche si
pone quando vita entra nell’obiettivo di grandi reporter e allora la Storia
diventa semplicemente racconto, narrazione straordinaria come negli scatti di
“nera” della New York notturna di Weegee; nei fronti di guerra “coperti”
da Robert Capa, nella Cipro descritta da Donald McCullin. L’arte nobile della
documentazione, anche negli scatti realizzati dalla NASA l’11 luglio 1969 per
celebrare lo sbarco sulla luna; o l’attentato al presidente Ronald Reagan colto
da Sebastião Salgado e le scene di mafia della palermitana Letizia
Battaglia.
Luoghi come scrigni d’identità prima ancora che geografie nelle fotografie
dell’America di Walker Evans, dell’Italia di Mario Giacomelli, della Francia
narrata da Robert Doisneau e Henri Cartier-Bresson. Uno spazio solo per
la fotografia italiana, qui presentata come un mosaico di varie esperienze,
partendo da una delle immagini simbolo del dopoguerra, “Il Tuffatore” di Nino
Migliori. Un’Italia dai tanti volti che alterna immagini rurali alla Dolce Vita
colta dal “paparazzo” Tazio Secchiaroli. Ma anche la stagione della mutata
coscienza del paesaggio con Luigi Ghirri,Gabriele Basilico, Vincenzo
Castella, Guido Guidi, Franco Fontana e Walter Niedermayr.
Con le sperimentazioni dagli anni ’60 alla contemporaneità, la mostra trova le
sue immagini conclusive, ecco allora le immagini di archivio rielabaorate
da Franco Vaccari e Mario Cresci, per “Ritratti reali”; ecco il corpo umano
come forma di emancipazione e scardinamento degli assetti sociali con Vito
Acconci, gli azionisti viennesi Hermann Nitsch, Günter Brus, e Arnulf
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Rainer, fino ai lavori di Cindy Sherman con uno dei celebri camuffamenti
della serie “Murder Mystery”. Arrivando agli ultimi anni ecco infine gli autori
della scuola di Düsseldorf con i lavori di Thomas Ruff e Candida Höfer; le
tensioni grottesche di Joel Peter Witkin, la forza simbolica di Andres
Serrano e ancora, le prospettive più attuali sull’arte italiana, specchio di un
ibridazione culturale e sociale, testimoniata tra gli altri dai lavori di Vanessa
Beecroft, Stefano Cagol, Silvia Camporesi e Alessadra Tesi.
http://www.fondazionefrancescofabbri.it (g.m)
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Henri Cartier-Bresson al Lucca Center of Contemporary Art
di Daniele Micheli da http://www.loschermo.it
LUCCA, 21 giugno - Inaugura oggi nelle sale del Lu.C.C.A (Lucca Center of Contemporary Art) la mostra "Henri Cartier-Bresson. Photographer", che
rimarrà aperta al pubblico fino al 3 novembre. Realizzata in collaborazione con la Fondazione Henri Cartier-Bresson e con la Magnum Photos di Parigi e curata
da Maurizio Vanni, la personale racconta la storia dei“momenti decisivi” che
hanno contraddistinto la vita artistica di un personaggio nato per rubare le immagini al tempo e cresciuto per testimoniare, in modo assolutamente
personale, alcuni degli istanti che sarebbero diventati storici, mitologici e memorabili.
L’esposizione accoglie 133 scatti che l’artista stesso scelse negli anni Settanta per la realizzazione del volume "Henri Cartier-Bresson. Photographer" e che
venne pubblicato nel 1979 in cui si documenta la lucida imprevedibilità di un artista che non ha mai permesso alla ragione di disciplinare l’istinto e di lenire
la forza delle coscienti illusioni che, con la sua pazienza e maestria, si sono trasformate negli scatti immortali e infiniti di attimi in divenire.
La mostra è patrocinata dalla Regione Toscana, dalla Provincia di Lucca, dalComune, dall’Opera delle Mura, da Assindustria Lucca, dalla Camera di
Commercio, dalla Confcommercio, dalla Confesercenti, e dalla Confartigianato; è realizzata anche con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di
Lucca, della Fondazione Banca del Monte di Lucca e Gesam Gas.
“Henri Cartier-Bresson. Photographer” - Dal 22 giugno al 3 novembre - Lucca Center of Contemporary Art, Via della
Fratta 36 - Orario di apertura: dal martedì alla domenica 10:00-19:00, chiuso il lunedì e il 15 di agosto
Biglietto intero 9 euro / ridotto 7 euro - Per ulteriori informazioni www.luccamuseum.com
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Il naufrago delle immagini
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Garry Winogrand, World’s Fair, New York City, 1964. © The Estate of Garry Winogrand, g.c.
Quando Garry Winogrand morì prematuramente, nel 1984, a soli 56 anni, nel
suo studio di Tijuana lasciò 2500 rullini fotografici non sviluppati, altri 6500
sviluppati ma non stampati, e altri 2000 stampati su provini ma non
selezionati. Per un totale di oltre trecentomila scatti, un magma di creatività
informe che mandò in crisi gli eredi, i critici, i curatori.
Che fare di quella massa di immagini d’autore ma non “autorizzate”?
Considerarle meri abbozzi di lavoro, utili solo ai filologi, o tentare di metterci le
mani nella speranza di scoprire qualche capolavoro inedito di uno dei più
destabilizzanti, inclassificabili, affascinanti street-photographer della storia?
Ma questo è il problema con Winogrand, che la parola capolavoro con lui
non ha senso. Che il suo fotografare compulsivo, bulimico, esagerato, non
terminava con la produzione di un oggetto estetico perfetto. È stato il perfetto
anti-Cartier-Bresson. La sua opera è tutta insieme la sua opera.
Certo, anche lui fece dei libri, delle mostre, dunque dovette scegliere,
selezionare, distinguere, trovare un ordine e un senso nella sua vorace raccolta
di «frammenti del mondo reale», come li definì il suo scopritore, il guru
fotografico del MoMa John Szarkowski che lo lanciò nel ‘67 in una celebre
mostra in trio con Diane Arbus e Lee Friedlander.
Ed anche per allestire la grande retrospettiva che gli ha appena dedicato
il MoMa di San Francisco (in arrivo anche a Parigi fra un anno) l’amico e
curatore Leo Rubinfien ha dovuto e potuto fare una scelta nella “tremenda
sfida” del suo immenso archivio.
Del resto sembrano esistere una direzione, un progetto, alcune tematiche
ricorrenti, nelle sue prime opere. Gli piacciono le donne (Women are Beautiful,
1975), le automobili, i bambini, va a caccia dell’incongruo, del grottesco nel
quotidiano teatro di strada delle relazioni umane, scopre le ironiche affinità fra
uomini e bestie (The Animals, 1969), sembra a volte pendere verso l’analisi del
paesaggiosociale (Public Relations, 1977), come nella fulminante istantanea di
quella lunga panchina in cui sembrano essersi date appuntamento tutte le
energie giovanili della società americana.
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Ma quando cerchi di definire uno stile Winogrand, un’estetica, una
poetica Winogrand, ti ritrovi sempre, deluso, a stringere un pugno d’aria.
Winogrand non è una tematica, non è un’estetica, anche le sue provocazioni
stilistiche (orizzonti pendenti, primi piani sfocati, composizioni caotiche) erano
già state tutte sperimentate un decennio prima di lui dal suo grande mito,
Robert Frank.
Winogrand non fotografa il mondo. Fotografa l’atto di fotografare il mondo.
Fotografa il mondo che si mostra alla macchina fotografica. Fotografa «per
vedere come appare il mondo quando è stato fotografato», come suona il suo
aforisma più famoso, tanto ripetuto dai fotoamatori quanto incompreso.
Winogrand si getta nel mondo come un esploratore nella giungla, come un
pescatore sull’oceano, raccoglie reperti, getta la rete della sua Leica con
grandangolare, porta a casa un carniere bruto pieno di cose da decifrare poi.
Da farsi decifrare, da farsi raccontare.
Digiuno di tecnica, Winogrand (direbbe Franco Vaccari, grande teorico della
fotografia come protesi della conoscenza) chiede alla sua fotocamera di fargli
vedere quel che non conosce. Accompagna la sua fotocamera in giro per il
mondo, servizievole come uno chaperon, chiedendole in cambio la cortesia di
spiegarglielo.
Garry Winogrand, da Women Are Beautiful, 1975, © The Estate of Garry Winogrand, g.c.
Chi lo vide in azione, come il suo grande amico e compagno di
esplorazioni Joel Meyerowitz, lo racconta così, con divertito affetto: un
«corpulento e sciatto», taciturno, quasi sgarbato camminatore instancabile sui
marciapiedi di New York, a caccia di corpi in azione, con un istinto percettivo
affamato e sicuro, consapevole di un limite: «so cos’è quel che vedo, ma cosa
significa?».
La fotografia gli serve per trovare quel che non cerca: «quel che so già, mi
annoia». E per tornare a casa, una casa dove «gli scatoloni di foto alla rinfusa
arrivavano fino al soffitto» con montagne di reperti misteriosi, da decifrare, da
afferrare a manate, a pacchi, «mi diceva: guarda anche queste, e me ne
porgeva un centinaio».
Per i suoi critici più severi, Winogrand era solo «un instancabile primate
con fotocamera annessa, inconsapevole, irresponsabile e disinteressato al
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risultato» (A. D. Coleman). Ma questa è la reazione di chi è abituato a pensare
che la fotografia sia (come per tanti autori è stata) la consapevole messa in
forma del mondo da parte di uno sguardo pensante.
E invece no, la fotografia ammette anche un altro rapporto con il mondo:
una ricerca rabdomantica, casuale, condotta con stupore e senza
premeditazione. «Non ho nulla da dire nelle mie fotografie. Se sono fortunato,
ho qualcosa da imparare».
Angosciato dalle incertezze della sua epoca (visse malissimo, come
un’angoscia personale, la crisi dei missili di Cuba del ‘62), Winogrand anticipò,
negli anni Sessanta, lo sgretolamento delle sicurezze eccessive della fotografia
umanista (anche se due sue fotografie erano state scelte da Edward Steichen
per l’epocale mostra The Family of Man), la svolta del ruolo del fotografo da
costruttore a cercatore di senso.
Ma la sorte dei pionieri è a volte ingrata. Winogrand visse i suoi ultimi anni
in preda a una furia acquisitiva ormai fuori controllo. Centinaia di immagini al
giorno (alla fine erano quasi sei milioni) si accumulavano nel suo laboratorio,
più di quante potesse ragionevolmente sviluppare, stampare, guardare.
La fotografia a cui aveva chiesto di spiegargli il mondo lo travolgeva con
l’eccesso del mondo fotografabile. Il caos del visibile tornava ad essere un caos
inguardabile, impossibile da maneggiare.
Anche in questo, forse, con vent’anni di anticipo, Winogrand sperimentò
artigianalmente, su di sé, gli effetti devastanti dell’esplosione termonucleare
delle immagini incontrollate che oggi, con centinaia di miliardi di foto pronte a
debordare dalla gran pancia della Rete, rischia di travolgere anche noi.
Tag: A.D. Coleman, Diane Arbus, Edward Steichen, Franco Vaccari, Garry Winogrand, Henri Cartier-
Bresson, Joel Meyerowitz, John Szarkowski, Lee Friedlander, Leo Rubinfien, SFMoMa, The Family of
Man
Scritto in Venerati maestri, street photography | 19 Commenti »
Il plagio in fotografia: intervista a Massimo Stefanutti
di Nicola Maggi da http://www.collezionedatiffany.com
Photissima Art Fair è una fiera coraggiosa che non ama parlarsi addosso. Un coraggio che ha dimostrato non solo decidendo di dar vita ad una “doppia”
edizione veneziana (Fiera + Festival) proprio nei giorni dell’inaugurazione della
Biennale, ma anche nei temi da trattare negli incontri in programma nella sede che l’ha ospitata dal 29 maggio al 2 giugno (VEGA – Parco Scientifico
Tecnologico di Venezia) e che hanno dato un contributo prezioso alla nascita di un collezionismo di fotografia che possa dirsi consapevole. Uno fra tutti quello
dedicato al Plagio in Fotografia, tema delicato che ha sviscerato con maestria l’avvocato Massimo Stefanutti, esperto di Diritto della fotografia e della
proprietà intellettuale, assieme a Michele Smargiassi, giornalista de La Repubblica, redattore del Blog Fotocrazia e autore di “Un’autentica bugia – La
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fotografia, il vero, il falso”; e a Guido Cecere, fotografo ed insegnante al Corso
di Fotografia all’Accademia di Belle Arti a Venezia. Per approfondire il tema, Collezione da Tiffany ha raggiunto l’avvocato Stefanutti nel suo studio di
Marghera per una chiacchierata decisamente illuminante…
Nicola Maggi: Avvocato, è possibile dare una definizione di “plagio”?
Massimo Stefanutti: «“Plagio” è un termine generalista, direi nazional-
popolare o, senza offesa, di utilizzo giornalistico, che preso da solo non vuol
dire assolutamente nulla. La sua specificazione deve essere il contesto
“artistico-fattuale” nel quale opera, contesto che diventa ancora più importante
di una ipotetica definizione del termine. Per il diritto (le c.d. legal norms),
“plagio” non è una parola giuridica, in quanto nessuna norma – a mia
conoscenza - cita, o meglio, definisce il “plagio”. Per cui il “plagio” è da
considerarsi un concetto negativo, addirittura un concetto di “confine” che deve
esser ricostruito partendo dai confini (incerti) che alcune norme ci danno».
L’inaugurazione di Photissima Art Fair al VEGA di Venezia il 29 maggio scorso
N.M.: Chi sono i “soggetti” del “plagio”?
M.S.: «Essenzialmente tre ed esattamente l’autore primario, l’autore
secondario e il fruitore, ai quali io aggiungerei la collettività. L’autore primario
crea, immette in circuito, poi si accorge che qualcuno si è appropriato delle sue
opere o delle sue idee ed ha delle reazioni, anche legali; l’autore secondario
vede opere altrui, se ne appropria (altro termine che non ha una precisa
definizione giuridica, nel settore specifico), le rielabora, crea un’opera (vicina
o distante dalla precedente), subisce la reazione dell’autore primario. Infine c’è
il fruitore, che spazia dal critico eccelso alla casalinga di Voghera».
N.M.: Che però non è detto sia in grado di capire che si trova di fronte
ad un plagio…
M.S.: «Quello della riconoscibilità del plagio all’interno o all’esterno di un
contesto è un tema delicatissimo perché quello che io riconosco qui come
plagio, potrebbe non esser riconosciuto come tale fuori da questo ambito.
Anche se poi non è facile cogliere la differenza (anche temporale) tra autore
primario e autore secondario, e pure anche in noi stessi, intendo che la
medesima persona può essere autore primario e autore secondario. E poi c’è la
collettività, ingannata dall’autore secondario. Pensiamo all’appropriazione
materiale dell’opera con la lesione del diritto morale di paternità: per esempio,
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prendo un fotomosaico di Maurizio Galimberti e ci metto il mio nome. Chi
saprà di chi è tra 50 anni?»
Un momento dell’incontro sul Plagio in Fotografia del 1° giugno scorso a Photissima. Da sinistra:
l’avvocato Massimo Stefanutti, il giornalista Michele Smargiassi e il fotografo Guido Cecere.
N.M.: Ma allora da che parte dobbiamo guardare questo “plagio”: mi
sembra di capire che ci sia un “plagio delle idee” e un “plagio delle opere”…
M.S.: «Certamente, ed anche un “plagio” all’interno del diritto, nelle legal
norms, ed un plagio esterno al diritto, nelle social norms. Mi spiego meglio: io
penso che le idee siano il motore del progresso dell’uomo e che, una volta
espresse in qualche forma, sia essa l’arte o la letteratura, diventino “commons”
e cioè patrimonio di tutti. Le opere, espressione di tali idee, sono tutelate
dall’appropriazione da parte di terzi ma fino ad un certo punto: tutti gli
ordinamenti giuridici prevedono la possibilità di utilizzare opere altrui (opere,
non idee) per crearne di nuove. In Italia c’è l’art. 4 della Legge 633/1941
(quella sul diritto d’autore, ndr), negli Stati Uniti ci sono le norme sul
cosiddetto “fair use”. Quest’ultime richiedono un’attività “trasformativa” perchè
il nuovo prodotto sia lecito: occorre, però, anche sottolineare la profonda
diversità dei sistemi giuridici italiani e americani. In Italia non può
concettualmente esistere un sistema di “fair use” in quanto ci si incentra sulle
eccezioni e sulle limitazioni alle norme sul diritto di autore. Se dobbiamo, per
forza, dare qui una definizione di “plagio”, valida un po’ per tutto e che vada
al di là della classica appropriazione della paternità dell’opera – che per me non
è plagio ma lesione del diritto morale d’autore -, si può dire che consiste in
una “forma di appropriazione degli elementi creativi di un’opera preesistente o
di una parte di essa”».
N.M.: In fotografia come si considera questo “plagio”?
M.S.: «Nel nostro paesello, l’approccio giuridico alla fotografia, nella Legge
633/1941, è particolare. Innanzitutto va ricordato che la fotografia è stata
assunta alla tutela – alla pari delle altre opere dell’ingegno – solo nel 1979 e
che fino a quell’epoca la tutela era solo attraverso i cosiddetti diritti connessi.
Attualmente, invece, vi è una ripartizione tra fotografia creativa, fotografia
semplice e fotografia documentaria. I tre livelli si differenziano per l’esistenza
(o meno) di una “creatività” all’interno dell’immagine fotografica. La creatività
è un concetto giuridico molto complesso che ha avuto varie interpretazioni
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(novità – parziale o assoluta – originalità) e che oggi ha un contenuto
abbastanza preciso, inteso come individualità della rappresentazione, come
impronta personale dell’autore. E in fotografia, è un concetto pesante, proprio
perchè, come sopra detto, la Legge sul diritto di autore prevede tre livelli di
tutela».
Collage fotografico con opere di Friedrich Seidenstucker, Auf dem Sprung (1930); Henri Cartier
Bresson, Gare Saint-Lazare (1952) e Mike Stimpson, Behind the Gare Saint Lazare (2010). Fotografie
riprodotte ex art. 70 comma 1 bis L. 633/1941, senza fine di lucro e per fini didattico/scientifici.
N.M.: Ma come si fa a dire se una foto è o meno creativa?
M.S.: «Nell’interpretazione giurisprudenziale attuale non esistono, salvo
qualche sporadico esempio, foto non creative: io che sono dalla parte dei
fotografi, potrei dire che ogni prelievo della realtà è una scelta, è atto di
creazione, di produzione individuale, con un’impronta personale, anche se
inconscia; ogni scatto è atto fondante della creatività, così come ogni
intervento o manipolazione su immagini altrui. Ma come faccio a “plagiare” la
realtà? Posso riprodurla, come posso e come voglio, ed ogni riproduzione sarà
diversa dalla precedente, magari di poco, ma lo sarà e magari l’intenzione è
differente. Se riprendo due persone sotto un lungo porticato che si baciano e
sono in prospettiva (è una famosa foto di Gianni Berengo Gardin) la mia è pur
sempre una foto diversa, una diversa realtà, una diversa scelta, con una
diversa ispirazione alla base. E’ sempre una creazione originaria. Ma se tutte
le foto sono creative ci rendiamo conto che il plagio, in fotografia, non esiste?
Mi rendo conto che un’affermazione del genere sarebbe coraggiosa (e, per certi
versi, pericolosa) e che mi esporrebbe al linciaggio: ma potrei anche dire che
il diritto non può, né deve, porre limiti all’arte».
N.M.: Una prospettiva del genere è da considerarsi valida anche per il
“plagio” in ambito extragiuridico?
M.S.: «Fin qui abbiamo parlato di diritto, di “legal norms”. Ma esistono anche
le “social norms”: il nostro comportamento è governato da regole sociali, che
non sono quelle strettamente giuridiche. Ci sono regole forti, non scritte, che
disciplinano i comportamenti all’interno delle comunità e che sono integrative
ma anche oppositive alle regole giuridiche. La nostra condotta all’interno di un
gruppo sociale ben definito è spesso più importante e definita da regole interne
al gruppo, che con riferimento a quelle esterne. La comunità fotografica, e
anche quella dell’arte, ha le proprie regole (e le proprie sanzioni !!), spesso
molto più cogenti e pesanti di quelle giuridiche e di quelle poi riportate dalle
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sentenze. E all’interno di queste social norms ci sono le copynorms (Solum)
che, rispetto al diritto di autore, distinguono comportamenti accettati o non
accettati. Per esempio, le creative commons sono copy norms). Chi copia, o dà
l’impressione di aver copiato, all’interno della comunità viene bollato per
sempre. Anche se a livello amatoriale, il vecchietto con le rughe, le architetture
in b/n tanto contrastate o le indecenti “photoshoppate” sono la normalità
(tanto il fine è vincere un concorso…)! Cosa può accettare del “plagio” la
comunità fotografica, in senso esteso (editori, fotografi,ecc.)? Mercato e
collezionisti hanno spesso un’altra visione: il “plagio” appartiene al mercato, fa
vendere. Quanti sono i fotografi che scattano architettura con il banco ottico, a
colori e sovraesposto? Quanti si occupano di fotografare il vero che sembra
falso o il falso che sembra vero?»
N.M.: In un mondo (e un mercato) dell’arte praticamente senza
confini, un collezionista come può tutelarsi dall’acquisto di opere che
poi risultano il plagio di altre?
M.S.: «Posto che “Nulla si crea, tutto si trasforma e si ricicla” (Blisset), il
collezionista (che non è il mercante) deve sempre settorializzare la propria
collezione, andando alla ricerca di autori ed opere all’interno di particolari filoni.
Sarà sempre la conoscenza del settore e la competenza (propria o degli esperti
che lo assistono) a dare valore alla collezione e ad evitare acquisti impropri.
Sarebbe poi molto difficile fare una causa perché l’opera comprata è simile ad
un’altra».
N.M.: L’artista, invece, come può difendersi dall’accusa di “plagio”?
M.S.: «E’ sempre una questione di densità concettuale della propria opera: di
autori che hanno realizzato segni primigeni ce ne sono stati tanti, ma ora le
opere d’arte valgono, spesso, più per il mercato che le sostiene che per il loro
reale valore artistico. Per la fotografia, per quanto ho già detto, è un discorso
sostanzialmente diverso». © Riproduzione riservata
Intervista a Erwin Olaf
di Alessia Glaviano da http://www.vogue.it
Erwin Olaf, olandese, classe 1959, è uno dei protagonisti più stimati del panorama fotografico internazionale, grazie a uno stile particolarmente
riconoscibile, diventato la sua firma anche nella diversità dei soggetti affrontati.
Olaf ha scoperto la fotografia durante gli studi di giornalismo ad Utrecht, capendo che documentare la realtà non lo interessava quanto invece
ricostruire e trasmettere attraverso le immagini il proprio mondo interiore, compito che gli riesce da subito molto bene qualunque sia l'obiettivo del suo
lavoro: progetti personali, pubblicità, redazionali di moda, video.
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"I want to create my own world, I don't want to follow reality, because I
like to dream my own life".
Le immagini di Olaf lavorano su diversi livelli, hanno innanzitutto un forte
impatto estetico: sono perfette, ben composte, nelle sue inquadrature tutto è esattamente dove dovrebbe essere, la luce sembra scolpire le figure, niente è
lasciato al caso e ogni sua immagine è in grado di indurre l'osservatore verso
un'esperienza estatica.
Ma le fotografie di Olaf vanno oltre questo: osservandole con attenzione
c'è sempre un dettaglio, uno sfasamento temporale, o anche solo il modo in cui sono costruite che spinge a interrogarsi su temi pregnanti come l'ipocrisia, la
violenza, il dolore, la solitudine... Olaf esplora le diverse forme che l'uomo assume indossando maschere imposte sia da se stesso che dalla società,
e sviscera nelle sue foto numerosi temi sociali, portando avanti una feroce critica alla società capitalistica contemporanea.
Mi diverte che alla mia domanda su come avvenga il suo processo creativo, Olaf risponda che le idee gli vengono stando sdraiato sul divano a
guardare programmi televisivi orribili - "The worst the television program is, the better the idea"-. Mi diverte perché invece la sua è una fotografia molto
colta, in cui riferimenti culturali e pittorici sono molto evidenti, dalla pittura della Golden Age olandese, ai surrealisti, e ancora a Caravaggio, Otto Dix e
George Grosz, per non parlare poi dei rimandi alla filmografia di Visconti,
Pasolini, Fellini…
Quello che Erwin cerca di evitare è di guardare troppo alla contemporaneità,
a cosa fanno gli altri fotografi e artisti perchè "I'm afraid it will go too much in my mind and then I would start to imitate it: I want to dream my own
dreams".
Le immagini di Olaf sono davvero un momento sospeso nel tempo di cui
non possiamo conoscere il prima e dopo, sono cariche di intensità emotiva: un esempio calzante di quanto tutto ciò che viene lasciato fuori dal frame è
altrettanto - se non più - importante di quanto ciò che in esso vi è incluso.
Quello che l'artista vorrebbe riprodurre con la fotografia è la capacità di emozionare del cinema, ed è per questo che ha iniziato a produrre anche
bellissimi short film che funzionano in modo strumentale alle immagini fisse, così che le sue mostre diventano per lo spettatore un'esperienza
tridimensionale, in grado di proiettarlo in un mondo che esso stesso contribuirà a creare con la propria immaginazione.
"What I would like to achieve is to create emotions in one bit of a second, not in a longer period, so when you look it is a world created only in one bit of a
second, one minute before, one minute after, it was completely different and that is what I really love about photography, that you lie with your camera...I
love personally that in my view I see a world that is perfect, and next to it there is mess and chaos".
Per quanto riguarda le differenze fra il lavoro svolto su commissione e quello artistico, Erwin è molto grato ai clienti e magazine con cui ha collaborato, che
gli hanno sempre permesso grande libertà e la possibilità di sperimentare e
avere i fondi per finanziare i propri progetti personali: per Olaf il lavoro
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commerciale e quello artistico si influenzano stimolandosi reciprocamente.
Se l'obiettivo della fotografia commerciale è ovviamente quello di vendere
qualcosa, le immagini di Olaf sono un perfetto esempio di come questa proposta possa essere calibrata su una miscela di componenti pratiche
ed estetiche, in cui ognuno dei due livelli cede qualcosa all'altro, in
modo tale che la proposta di vendita diventi meno brutale e la componente estetica - a differenza di quanto spesso accade nell'arte pura - diventi più
concreta e a portata di tutti, non distaccata e lontana dalla realtà.
Gli chiedo infine cosa consiglia ai giovani fotografi, e lui mi risponde che l'unico
modo per sopravvivere in questo mondo sovraffollato, l'unica cosa possibile per creare qualcosa ed essere riconosciuti, è di restare più fedeli possibile
alla propria personalità "because this is the only thing I have, I only have
my own life and my own history… Know yourself, know your shit, go inside
and then you can slowly start to develop your own style by also looking at the
history of photography, the history of art, use some elements of that and
combine them with your own personality".
L'antidoto all'essere sopraffatti dalla costante orgia visiva in cui siamo immersi,
per Erwin, sta nell'avere il coraggio di fare un passo indietro, non lasciarsi influenzare da tutto ciò che vediamo ma piuttosto allontanarsi dal frastuono
e connettersi con la propria essenza.
"Let's say you have a little idea and a little idea can be wonderful, but if you're
always on internet, you're always reading the latest books and magazines then the little idea is gone within a second because you will discover within a minute
that is already been done twenty times, it's not new, not unique, but you only can make it unique by doing it from the heart, from your heart, but many
young photographers I see are getting disappointed and then they never create anything and you have to make a lot of mistakes and repeat a lot of the
history, the photographers from the history to get your own identity, so I lock myself up".
video e immagini: http://www.vogue.it/vogue-starscelebsmodels/vogue-masters/2013/06/erwin-olaf
Elio Ciol – Conoscersi per riconoscersi
di Fausto Raschiatore da http://www.fiaf.net/agoradicult
FOTOGRAFIA CONTEMPORANEA. IMMAGINI PER UN DIALOGO “Coloro che emigrano portano con sé sentimenti di fiducia e di speranza che
animano e confortano la ricerca di migliori opportunità di vita. È vero che il
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viaggio migratorio spesso inizia con la paura, soprattutto quando persecuzioni
e violenze costringono alla fuga, con il trauma dell’abbandono dei familiari e dei beni che, in qualche misura, assicuravano la sopravvivenza. Tuttavia, la
sofferenza, l’enorme perdita e, a volte, un senso di alienazione di fronte al futuro incerto non distruggono il sogno di ricostruire, con speranza e coraggio,
l’esistenza in un Paese straniero” (Papa Benedetto XVI). Una riflessione sulla
migrazione da cui emerge il sentimento profondo i cui gangli vitali sono la Fede e la Speranza, valori inscindibili che dominano nei cuori dei migranti, animati
“dalla profonda fiducia che Dio non abbandona le sue creature e tale conforto rende più tollerabili le ferite dello sradicamento e del distacco”.
La globalizzazione ha determinato cambiamenti profondi che a loro volta hanno generato ulteriori problematiche e investito i cittadini di tutto il mondo a tutti i
livelli. Alla fotografia, con questo studio-progetto, è stato affidato il compito di “leggere” nel cuore della dimensione indagata. Ed è quello che ha fatto Ciol nel
pordenonese. Ha sviluppato, in linea col suo stile, una trama iconica capace di proiettarsi con l’obiettivo oltre la descrizione. E’ riuscito a penetrare nell’intimo
delle situazioni osservate, in linea con gli scopi del progetto: rappresentare la realtà attraverso lo strumento fotografico per tentare di quantificare lo
spessore visibile della diffidenza reciproca esistente tra autoctoni e migranti. Cogliere, tra i componenti delle diverse comunità presenti in provincia di
Pordenone, momenti che riassumano sentimenti che sono valori fondamentali
per tentare di svelare quei tratti comportamentali innati e universali. Come sintesi a queste riflessioni prende corpo l’idea di una mostra fotografica
intesa come lettura e interpretazione di uno o più contesti friulani, come analisi di una serie di comportamenti, affidata a una persona attenta e sensibile qual è
Ciol, il quale è riuscito nell’intento, perché artista vero, che “vede” oltre il visibile. Come ha scritto Charles-Henri Favrod, “Ciol figura tra coloro che ci
hanno insegnato a vedere meglio e ci hanno fatto condividere le loro scoperte”. Il territorio della provincia di Pordenone è un laboratorio sociale e
antropologico singolare. Al suo interno vanno consolidandosi eventi nuovi che riguardano i rapporti tra gli italiani e gli stranieri. Si tratta di istanze che
mettono in moto lo spirito di emulazione dando al contesto indagato serenità ed equilibrio, moltiplicando lo spirito di adattamento, il tutto in un quadro che
guarda al futuro con fiducia. Ciol ha compiuto la sua indagine con discrezione e rispetto. Ha dato una lettura
del contesto indagato autentica e ha saputo catturare le atmosfere degli spazi
esplorati. Attraverso queste immagini, l’autore ha disegnato un contesto in cui si snodano i segni di un progetto strutturato con l’obiettivo di dare alimento
nuovo all’integrazione e, quindi, al miglioramento dei rapporti sociali e maggiore vitalità alle relative dinamiche. La spiritualità che traspare dalle
immagini è autentica e lineare e lo guida nelle indagini più delicate dove gli stimoli più genuini nascono e si percepiscono solo perché si è sorretti
dall’amore verso il prossimo. L’intero corpus di immagini è pervaso da un’atmosfera positiva che irradia
fiducia e serenità. Dominano senso di appartenenza, rispetto e solidarietà. Italiani e immigrati sono seguiti, ascoltati, rispettati, bene inseriti, ognuno
sembra parte di un processo produttivo che applica le sue regole nel rispetto di tutti. Dalle immagini si “legge” come vivono gli immigrati, si ascoltano le
riflessioni intime, si vivono le atmosfere dell’ambiente. Non diverso il comparto dedicato alla spiritualità: rispetto della persona e della propria storia, della
propria cultura, della propria religiosità, chiave di un’integrazione che passi
attraverso l’espressione di se stessi, soprattutto con riferimento al profilo spirituale. Ben rappresentata e interpretata la sezione dedicata alla
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socializzazione e alla solidarietà. Visibile nell’ambiente-lavoro l’armonia e il
clima di collaborazione, la gestione del tempo libero, della scuola. Ciol ha costruito una trama linguistico-espressiva di raffinata narratività, in un
quadro in cui si apprezzano, oltre alla composizione, una sequenza visiva ritmica e una tessitura cromatica di qualità. Una fotografia collegata con la
realtà, con il compito di scandagliare il processo d’integrazione, di una
situazione in movimento che Ciol ha interpretato facendoci vivere sensazioni, emozioni e stati d’animo. Visioni e visualizzazioni che l’autore considera come
doni che “riceve” e che condivide con gli altri. Egli vive con trasporto lo scatto fotografico e con intensità il suo compiersi. E’ un testimone della nostra
contemporaneità che estrae dai contesti che indaga emozioni che condivide sempre con gli altri. E questa è una visione della sua personalità, del suo
essere, della sua attenzione verso i più deboli, i meno fortunati, gli Ultimi, i Protetti, come li definiva Padre David Maria Turoldo.
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Jacques Henri Lartigue, il fotografo del quotidiano
da http://www.libreriamo.it
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Amante della fotografia e della pittura, attraverso i suoi scatti ha
immortalato la borghesia e le innovazioni tecnologiche del Novecento
Nel giorno dell’anniversario della sua nascita , vogliamo ricordare uno dei più
significativi fotografi del secolo scorso, Jacques Henri Lartigue. Grande
sperimentatore, pioniere di nuove soluzioni tecniche che hanno permesso
esaltare le potenzialità della luce e rendere l’immagine in movimento, Lartigue
si presentò sempre al grande pubblico in qualità di pittore.
LA VITA - Jacques Henri Lartigue nacque il 13 giugno 1894 a Courbevoie da
una famiglia facoltosa. Dopo il trasferimento nella capitale francese, nel 1902,
all'età di sette anni, Lartigue ricevette in regalo dal padre, appassionato di
fotografia, la sua prima macchina fotografica, in legno e con l’otturatore
manuale. La sua attività di fotografo iniziò proprio in questo periodo.
Incominciò a scattare e sviluppare le proprie foto dapprima con l'aiuto dei
genitori, per poi diventare autonomo e ritrarre, a suo gusto, tutto ciò che lo
circondava. Sempre in questo periodo iniziò la scrittura di un diario che porterà
avanti per tutta la vita e che rappresenterà una sorta di didascalia e
descrizione delle sue immagini, spesso corredate da abbozzi di disegni. A
partire dal 1904 iniziò con alcuni esperimenti fotografici. L'esempio più
rappresentativo di queste prove è costituito dalle sovrimpressioni, fatte per
creare foto che rappresentassero soggetti simili a fantasmi. Iniziò inoltre a
scattare immagini stereoscopiche con una macchine apposite. La passione per i
motori, per i marchingegni, per la tecnologia che all'epoca era ai suoi albori,
era un elemento che caratterizzava un po' tutta la famiglia dei Lartigue. In
questo contesto il piccolo Jacques fu affascinato in particolar modo dal
movimento, che divenne tra i soggetti ritratti e preferiti da Lartigue, tanto che
in vacanza vicino alla Manica fotografò sulla spiaggia di Merlimont il primo volo
di Gabriel Voisin sull’aliante Archdeacon. Un altro dei soggetti prediletti da
Lartigue furono le eleganti dame a passeggio al Bois de Boulogne, che inizierà
a fotografare a partire dal 1910, all'età di sedici anni. Ed è proprio grazie a
queste immagini che successivamente verrà considerato come uno dei
precursori della fotografia di moda. Dopo la Prima Guerra Mondiale, che non lo
coinvolse in prima persona, Jacques si sposò nel 1919 con Madeleine
Messager, dalla quale ebbe il figlio Dani. Nel 1911 Lartigue realizzò i suoi primi
ritratti di personaggi famosi durante la villeggiatura a Saint Moritz, e produsse
il suo primo film amatoriale con una cinepresa regalatagli dal padre.
LA POETICA DELL’IMMAGINE - Lartigue è stato definito in modi diversi e
talvolta opposti, ovvero come il fotografo della felicità, dell’ottimismo, del
buonumore. Si tratta di caratteristiche costitutiva della sua immagine, ma che
non lo collocano nella sua più vera dimensione psicologica. Nelle periodiche e
costanti revisioni ai suoi diari personali, egli li ha ripuliti dalle frequenti
annotazioni tristi, dagli episodi duri che anche a lui la vita ha imposto. Infatti le
fotografie erano essenzialmente, per l’alchimista JHL, l’esito di una lotta, di un
corpo a corpo contro l’inesorabile panta rei, nel tentativo di usare il mezzo che
per definizione ferma e cristallizza il tempo.
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DAL MOVIMENTO ALLE DAME DELLA BELLE EPOQUE - Grazie ad una
precoce iniziazione alla fotografia da parte del padre, come pure alla
veneranda età raggiunta, Jacques Henri Lartigue può vantare una carriera
fotografica di oltre ottanta anni. I suoi soggetti prediletti furono i membri del
suo ceto sociale elevato, dedito a sport e viaggi, appassionato al dinamismo e
alla meccanizzazione, desideroso di essere sempre all’avanguardia in ogni
sorta d’invenzione della tecnica creata per correre e volare. L’immagine che
emerge di Lartigue è quella di un eterno fanciullo, spinto all’opera da un
intramontabile entusiasmo piuttosto naïf. A partire dal secondo dopoguerra le
foto di Lartigue divennero sempre più diffuse, soprattutto sulla stampa
cattolica. Particolarmente celebri sono i suoi ritratti di Pablo Picasso e Jean
Cocteau dell'epoca. Lartigue aveva incontrato Kennedy, nel 1953, quando
ancora era un giovane senatore, e per ironia della sorte i loro destini si
incrociano di nuovo dieci anni dopo: l'evento tragico dell'omicidio del
presidente degli Stati Uniti determinò un'altissima tiratura del numero della
rivista in questione, che a sua volta determinò una grandissima pubblicità per il
fotografo stesso. Nel 1966, in concomitanza con una mostra al Photokina di
Colonia, pubblicò l'Album de Famille. Tale opera, divulgata in tutto il mondo,
rappresenterà la consacrazione del Lartigue fotografo. Jacques Henri Lartigue
morì a Nizza il 12 settembre del 1986 all'età di 92 anni.
Tags: Jacques Henri Lartigue, maestri della fotografia, storia della fotografia
L’uomo che svestì Bologna
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Paolo Monti, Via Castiglione, © Fondazione BEIC Milano, g.c
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Un principe azzurro, anzi no, un principe in bianco e nero, venne a salvare la
bella addormentata, le schiodò dalle caviglie i ceppi di lamiera colorata e la
mostrò a tutti nella sua splendida, casta nudità.
L’amor cortese di Paolo Monti per il centro storico di Bologna, oggetto di
recente di nuovi studi e di un progetto di digitalizzazione da parte dell’Istituto
per i Beni Culturali della Regione Emilia Romagna, si può davvero raccontare
come una fiaba. Se non ci restassero diecimila negativi, si potrebbe pensare
che in quell’agosto del 1968, mentre nel mondo accadevano cose epocali, nelle
strade antiche della città sia avvenuto un miracolo, o un sogno.
Non era mai accaduto (e a parte una piccola serie di repliche, tutte in questa
regione e tutte firmate sempre da Monti, non sarebbe accaduto mai più) che
una grande città si fermasse, si spogliasse dei suoi abiti sdruciti e si offrisse in
posa a un fotografo.
Fu Pier Luigi Cervellati, l’assessore di un’epoca pioniera dell’urbanistica
storica bolognese, a volere quel rilevamento per immagini. La tesi da
dimostrare: che il centro storico di Bologna fosse «un monumento nel suo
insieme», che la basilica San Petronio e l’ultima delle casupole di via Avesella
fossero da proteggere e da salvare insieme.
Per dimostrare, bisognava mostrare. Con documenti. «Un documento»,
scriveva Monti in quegli anni, non è un oggetto sacro, «è la registrazione di
una cosa importante a cui siamo ancora interessati».
Monti era già, allora, uno dei più importanti fotografi italiani, ossolano
cresciuto a Venezia, uscito dalle schiere dei fotoamatori (fu tra i fondatori del
circolo La Gondola, nel ‘47) per farsi solidamente professionista fin dal 1954,
un fotografo eclettico, capace di spaziare dal reportage alla sperimentazione,
«tutto il visibile mi attrae, si può fotografare tutto», era un «analitico
visionario» (la definizione è di Roberta Valtorta, del MuFoCo di Milano), ma gli
mancava ancora un’esperienza da fotografo dell’urbanistica, quella che
Cervellati gli propose dopo averlo visto lavorare sulle vecchie dimore
dell’Appennino.
Non poteva dire di no a una cosa del genere. Ti svuoto Bologna, gli disse
l’assessore, e tu la fotografi metro per metro. E così fu.
Complice l’agosto desertificato dalle ferie del benessere, scattò una vera
ma incuruenta operazione militare: i vigili urbani chiudevano la strada, già
nella notte svuotata dalle automobili, gli operai smontavano cartelli stradali e
pubblicitari, era una mobilitazione di decine di persone che richiamava
l’attenzione dei passanti, sembrava un set cinematografico in allestimento, e
invece a un certo punto sbucava fuori questo signore mite, coi baffetti bianchi
e i capelli avviati all’indietro come un attore dell’era dei telefoni bianchi,
maneggiando una macchina di piccolo formato, quasi sempre una Nikon F, una
fotocamera da reportage, perché usare ovunque la Linhof dei professionisti non
si poteva, non c’era tempo.
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E clic dopo clic, con scelta sicura e senza pentimenti, in un’esplosione di
«furore visivo», nelle due o tre ore che erano il tempo massimo per tener
bloccato il traffico, una strada era «fatta». Si comiciò alle parti del Baraccano,
ma la signora che Monti amò spogliare con passione fu via Castiglione, con
tutte quelle sue curve sensuali.
Monti dovette inventarsi un metodo insieme agile (macchine di piccolo
formato), rigoroso (rispetto quasi religioso della verticalità delle linee,
omogeneità, comparabilità) ed evocativo (immaginava il risultato finale come
«un ideale vagabondaggio su itinerari urbani»), un metodo che avrebbe fatto
scuola per decenni.
E fu così che l’architettura storica di Bologna, per pochi giorni ma
eternizzati nelle immagini, ritrovò la sua «quarta dimensione», quell’appoggio
a terra degli edifici, quel dialogo fra disegno e spazio che trasforma l’edilizia in
urbanistica, liberato dal rosario infame delle carrozzerie che lo assediavano, e
lo assediano ancora, a dispetto di quel referendum sul traffico che qualche
anno dopo chiese a gran voce che le fotografie di Monti potessero diventare
paesaggio di ogni giorno.
A questo, in fondo, servirono quelle foto. Diciamo la verità: Cervellati non
ne aveva bisogno per progettare il suo intervento di conservazione storica. Ne
aveva bisogno per comunicarlo, per renderlo popolare. Si fecero mostre,
pubblicazioni. Le magiche strade piene solo di storia ed eleganza di Monti
servirono a creare il consenso sociale attorno a un’operazione, sacrosanta, di
tutela del patrimonio urbano.
Quell’uomo che si definiva con ironia «un timido armato», forse l’unico
«fotografo intellettuale» (assieme a Luigi Ghirri) della nostra Italia, a cui prima
o poi qualcuno a Bologna (dove poi insegnò fotografia all’Università, fra i primi)
dovrà dedicare una delle strade del «suo» centro storico, quell’uomo prestò la
sua sapienza, la «rapacità» del suo occhio.
Quella Bologna senza l’aggressione degradante della cultura dell’automobile
non è diventata realtà, ma non è rimasta neppure del tutto una favola. È
piuttosto, come ama ancora dire Cervellati, «un futuro non ancora realizzato».
Tag: Bologna, centro storico, La Gondola, Paolo Monti, Pierluigi Cervellati
Scritto in Venerati maestri, architettura, fotografia e società | 8 Commenti »
La fotografia e il sacro. Salgado e Biasucci
di Giulio de Martino da http://www.korazym.org
In questi giorni si possono vedere, tra Napoli e Roma, due importanti e
interessanti mostre fotografiche: Sebastião Salgado (Minas Gerais, Brasile
1941) con Genesi al Museo dell’Ara Pacis a Roma - fino al 15 settembre 2013 - ed Antonio Biasiucci (Caserta, Italia 1961) con Sacrificio, tumulto, costellazioni
alla Casa della Fotografia a Villa Pignatelli a Napoli. Due mostre di successo: la fotografia trova nei musei uno spazio espositivo che le dona aura e attrattività,
esaltandone i contenuti profondi. Qui la fotografia si propone come arte e non
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più come informazione poiché diventa veicolo di cultura e di riflessione. D’altra
parte, due caratteristiche rendono la pittura e la fotografia arti visive antitetiche: in pittura è la realtà che viene risucchiata verso il pittore che la
rielabora all’interno del quadro; in fotografia è invece il fotografo che si deve muovere verso il reale per poi lasciare che esso si disponga all’interno
dell’immagine fotografica, come fa il cacciatore con la sua preda. E – come nel
mito di Diana ed Atteone – l’arte capovolge i ruoli e il cacciatore diventa lui stesso preda.
Altra differenza: alla pittura si giunge attraverso un curriculum formativo e tecnico specificamente artistico, nel mondo della fotografia, invece, ci troviamo
di fronte ad un’arte eclettica. Salgado ha studiato da economista, Biasiucci è
un antropologo: entrambi, però, hanno trovato nell’immagine fotografica lo
strumento più congeniale per il proprio discorso artistico e culturale. Salgado è
un fotografo di rilevanza mondiale, Biasiucci è già noto a livello italiano ed anche internazionale: entrambi sono giunti, con queste mostre, a trovare la
profondità dell’immagine fotografica all’interno dello spazio sacrale della natura
e nella connessione misteriosa che lega l’uomo e le forme naturali. Si tratta di
mostre solenni, nelle quali grandi immagini, di un raffinato e sgargiante
bianco-nero, avvincono lo spettatore e imprimono dentro di lui il segno silenzioso, ma possente, della scoperta e della contemplazione.
Sebastião Salgado, Antartide
Nelle cinque sezioni che raccolgono le circa 200 fotografie di Salgado esposte
all’Ara Pacis viene in luce una sensibilità drammatica e di grande scenario che
stravolge lo sguardo antropocentrico e trionfalistico della fotografia
naturalistica degli anni ’60 del Novecento.
Dalle foreste tropicali dell’Amazzonia, del Congo, dell’Indonesia e della Nuova
Guinea ai ghiacciai dell’Antartide, dalla taiga dell’Alaska ai deserti dell’America
e dell’Africa fino ad arrivare alle montagne dell’America, del Cile e della Siberia,
Genesi di Salgado ci parla della Wilderness, di un pianeta Terra che vive e si
riproduce in un abissale silenzio anche senza l’umanità. In esso animali-uomini
e uomini-animali si confondono con alberi e fiumi, cieli e montagne. Il progetto esplicito della mostra ha un contenuto ecologista (salvare il Pianeta vivente),
ma le fotografie di Salgado vanno oltre e raggiungono lo svelamento del sacro
mostrando l’altro senso della Terra: quello che essa possiede quando la natura
diventa l’assoluto teatro di se stessa e la fotografia si fa sguardo aereo e
ininfluente di fronte alla voce tonante e poderosa del Pianeta.
42
Antonio Biasiucci, Ex voto.
Il tema meta-antropologico del sacro emerge anche in Sacrificio, tumulto,
costellazioni di Biasiucci. Qui il background è la fotografia antropologica degli anni ’60 e ’70; ma di nuovo stravolta. Non c’è lo sguardo analitico dei Levi-
Strauss, Riefenstahl, Pinna: l’antropologia si è avvicinata al nostro luogo urbano e scava nel sottosuolo. La fotografia di Biasiucci parte dalla natura, ma
è lavorata in studio: i reperti naturali ed etnologici sono decontestualizzati e indagati, con l’obiettivo, in piegature che fanno smarrire il significato manifesto
a vantaggio di quello latente. Dal corpo umano, gravido, ammalato, rituale e sacrificale si passa al magma e al fango, alla materia terrestre amorfa e
metamorfica ed ancora si giunge, con lievi slittamenti simbolici, a rocce ed asteroidi, a schegge laviche, a frammenti di vasi e infine a maschere di argilla
che rivelano come il volto umano sia la manifestazione precaria e superficiale di una profondità abissale.
Nelle foto: Sebastião Salgado, Antartide;
Venni, vidi, mangiai
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
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In quanti modi si può fotografare un currywurst? Cinque anni fa l’ottimo
Joachim Schmid li contò: più di trentamila. Ma il tempo è passato, e adesso, a
me, Google Images dà oltre un milione di record.
Il currywurst è un cibo prevedibile e, me lo consentano i tedeschi, senza
offesa, piuttosto noioso. Arrostisci la salsiccina, la copri di ketchup, la spolveri
di curry e la soffochi di patatine. Le variazioni sono molto, molto limitate.
Insomma, fotografare per la milionesima volta un currywurst non aggiunge
molto, diciamo, al sapere condiviso dell’umanità.
Ma non è per questo che si fotografa un currywurst, Schmid lo sa bene e vi
consiglio di leggere le considerazioni che ne ricava sulla fotografia nell’era della
condivisione.
Io ho ripensato a questo suo piccolo illuminante saggio quando mi è arrivata
copia del libro di Ferdinando Scianna, Ti mangio con gli occhi.
Tutt’altra cosa, si capisce. È un libro di scrittura, divagazioni, memorie,
riflessioni, filosofie, e Scianna si rivela un ottimo scrittore, evocativo,
affabulatore piacevolissimo. Le sue fotografie di cibo in questo caso fanno, se il
gioco di parole è consentito, da contorno alla pietanza verbale.
Tuttavia anche Scianna sente il bisogno di farci vedere quel che ama
mangiare. I cibi che ha incontrato nel suo peregrinare professionale sul
pianeta. I cibi proustiani che lo riportano all’infanzia, alla Sicilia, alla natura
stessa.
Eppure, mostrare il cibo mangiato è quasi una cosa oscena. Dopo la
sessualità e le funzioni intestinali, l’atto del mangiare è la cosa più corporale,
ctonia, animale della nostra vita di specie umana. La condividiamo (come il
sesso, e a volte come il cesso) solo con persone con cui siamo in estrema
confidenza.
L’esibizione dell’atto del mangiare può essere un’irriverenza (vedi le
trasparenti perfidie di Martin Parr) oppure un gesto di sopraffazione e di
potere: il pasto pubblico dei re. Ma Scianna fa un’altra cosa, è chiaro, fotografa
e racconta storie di cibo, ambienti di cibo, relazioni col cibo, le sue immagini
trasportano il cibo in una dimensione mitica, poetica, culturale.
Le immagini di cibo, a pensarci bene, ci circondano. Una mostra che si può
visitare a Eataly di Roma (dalla quale prendo in prestito le immagini di questa
pagina) ci ricorda quanto precoce sia stata la promozione del cibo e con il cibo
nella pubblicità, nelle cartoline, nei giornali.
Ma quel cibo di carta, lo sappiamo, è quasi irreale, è cibo fra virgolette, cibo
“citato”, non commestibile, lo sanno bene i food photographers dalla
professionaità sfisticatissima che spesso, per rendere il cibo appetitoso in
immagine, lo mettono in posa con trucchi e additivi che lo renderebbero nella
realtà immangiabile o perfino velenoso.
E invece, questo milione di currywurst (e i milioni di pizze, pasta, bistecche,
wurstel eccetera), sono proprio cibo da mangiare. Anzi, in procinto di essere
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mangiato. Ecco, è tornato il pasto del re. Solo che il re siamo noi, e i sudditi
sono i nostri amici di Facebook ai quali spediamo la foto scattata al piatto
appena recapitato in tavola. Con un minimo di commenti gastro-pepto-salivari.
Quel cibo non è il cibo generico, è il nostro cibo: non è un universale, è un
particolare. Stiamo per divorarlo. Sparirà. Non è nutrimento terrestre
trasfigurato: è la nostra singolare preda. Quella foto è dunque lo sguardo del
grande felino cacciatore sull’antilope appena catturata?
No, non mi convince del tutto. La fotografia è strumento predatorio, siamo
d’accordo, ma quel piatto non è il nostro trofeo. Non siamo più cacciatori. Non
abbiamo rincorso ilcurrywurst nella savana, ce l’ha portato il cameriere.
Pagheremo il conto. Che merito abbiamo? Di che cosa dobbiamo vantarci?
Perché allora, ossessivamente, i miei amici di Facebook mi sbattono sotto il
naso la pizza che stanno per divorare? Cosa vogliono farmi sapere davvero?
Bisogna ripartire dall’antropologia del gesto fotografico, per capirlo.
Allora: arriva la pizza, fumante. È un momento di gioia animale. Mi sento reale,
fisico, esistente. Voglio condividere questa gioia atavica del pregustare il
primo boccone. È naturale. dimsolito si fa con i commensali presenti, con
commenti, battute e auguri di buon appetito.
Ma ormai non ci bastano più i commensali. No, chi ha una dannata
stazione multimediale in tasca si sente virtualmente seduto a tavola con tutti i
suoi ”amici” online. La condivisione potenziale diventa obbligo di vivere una
vita cndivisa, una vita online.
Ma cosa si può condividere con loro? Un profumo di basilico, un sapore di
mozzarella e carciofini? Sappiamo che no. Abbiamo a disposizione solo
l’immagine. Una visione, sì, ma siamo seri: mangereste le pizze che vedete
fotografate su Facebook? Sembrano quadri di Pollock passati sotto un tram.
In verità non si condivide online la pizza, reale o virtuale. Non è a questo
che servono i social network, a condividere esperienze reali. Online si condivide
l’Io. Il proprio Io in frmato standard, diffondibile, esponibile.
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Ogni “stato”, ogni “tweet”, dice Io esisto. Ma abbiamo sempre la
sgradevole sensazione che sia, come è, è un Io debole, tyelematico,
disincarnato. A meno che io non possa affermare con wualche prova a
supporto che quell’Io ha un corpo.
Bene, il cibo lo dimostra meglio di ogni altra cosa. Ovvia, anche il sesso e
il cesso potrebbero dimostrarlo ancora meglio, ma orsù, a parte qualcuno che
ama il genere, si sa che quelle cose non si fotografano e soprattutto non si
condividono online.
Però sl terzo posto viene il cibo, e quello invece si può mostrare senza
pudori. Clic. Ecco fatto. Lamia pizza, che fra un attimo sarà dentro di me, sarà
parte del mio corpo reale e tangibile, è online. Il mio Io viaggia nella Web-sfera
agganciato alla cruda concretezza di quell’atto di appropriazione corporale
quasi mistico (non vorrei essere blasfemo, ma non è un caso se il
cristianesimo, con la comunione, ha inventato la teofagia).
Noia e ridondanza non c’entrano. Dire che sono foto brutte, ripetitive e
sciocche, è ripetitivo e sciocco. Ognuna di quelle fotografie ha il suo preciso
significato rituale e svolge la sua singola funzione magico-realista: affermare Io
sono perché mangio, ovvero Io sono mangiante. Cioè, Io sono. Credeteci. Buon
appetito.
Tag: cartoline, cibo, Eataly, Ferdinando Scianna, Joachim Schmid, Martin Parr
Scritto in condivisione, fotografia e società | 5 Commenti
La mostra a Milano/ Gianni Berengo Gardin,
testimone di un’epoca: le immagini di una vita
di Simonetta M. Rodinò da http://www.affaritaliani.it
A Palazzo Reale “Gianni Berengo Gardin. Storie di un fotografo”
Le immagini in bianco e nero di Gianni Berengo Gardin sono uno
spaccato della vita politica, sociale, economica e culturale dell’Italia
dagli anni del boom a oggi, sia nei suoi risvolti felici, sia nelle sue
pieghe drammatiche e a volte tragiche. Una selezione di 183
straordinari scatti del fotografo, delicato e poetico e dalla naturale
predisposizione alla narrazione, una delle figure più rappresentative
della fotografia italiana, è ospitata nella mostra “Gianni Berengo
Gardin. Storie di un fotografo”, al Palazzo Reale di Milano. La superba
antologica, da non perdere, non segue un percorso cronologico, ma tematico,
che si arricchisce, dopo la rassegna tenutasi a Venezia, di un segmento
dedicato proprio al capoluogo lombardo. Nato a Santa Margherita nel 1930, ma
trasferitosi in seguito a Roma, Venezia e Parigi, l’autore che ama definirsi “non
un artista e nemmeno un grande oratore. Preferisco che a parlare siano le mie
immagini”, ha sempre letto molto e, per sua ammissione, il lato di “fotografia
sociale” gli viene dalla lettura dello scrittore americano dal grande impegno
civile e politico John Dos Passos. Con la sua morbida erre moscia, spiega
che l’obiettivo migliore è il grandangolo perché permette di avvicinarsi
al centro della scena e riprendere l’ambiente intorno al soggetto senza
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isolarlo dal contesto; solo così si può garantire l’autenticità
storica.Fermamente convinto della superiorità della pellicola, per lui meno
metallica e fredda del digitale, sostiene da sempre la profonda differenza tra
belle e buone fotografie: le prime possono essere tecnicamente perfette, ma
prive di significato, le seconde raccontano una storia. Ecco allora il percorso
delle sue storie, che inizia proprio da una sezione dedicata a Milano, all’interno
della quale, sotto il titolo “gente di Milano” due omaggi speciali: uno scatto che
ritrae il grande Ugo Mulas – con cui cominciò la sua carriera – mancato 40 anni
fa, e uno dolcissimo a Gabriele Basilico, morto il febbraio scorso. Poi la sua
Venezia, con le calli, i locali, i vaporetti, le piazze ammantate di neve… Un
segmento è dedicato ai riti religiosi e tra questi una processione in
Spagna del 1960, “che Henry Cartier-Bresson gli chiese come foto di
scambio, perché più vicina alla storia dei due grandi interpreti”, spiega
il curatore della mostra Denis Curti. Un altro segmento “Dentro le case”
diventa una sorta di reportage condiviso con le persone riprese. Una sala
ospita poi le immagini dei “baci”, in cui è presentata l’unica foto realizzata in
digitale, sempre in bianco e nero. Sì, perché secondo l’artista il colore
disturba: “Un fotografo come uno scrittore, ha il suo stile e va avanti con
quello”, sostiene. In una stanza, montate a specchio, gli scatti sulle comunità
Rom e sugli ospedali psichiatrici, denunciandone la drammatica condizione dei
ricoverati. La mostra si chiude con un segmento dedicato al lavoro e uno
riepilogativo della sua carriera artistica. “Ciò che m’interessa è essere
testimone di un’epoca”, afferma Berengo Gardin. Che ha creato un archivio di
oltre 1milione500mila foto e realizzato oltre 200 libri.
Venezia, in vaporetto,
1960 ©Gianni Berengo Gardin / ContrastoGuarda la gallery
“Gianni Berengo Gardin. Storie di un fotografo” - Palazzo Reale - Piazza Duomo 12 - Milano
14 giugno – 8 settembre 2013 / Orari: lunedì 14.30 - 19.30; martedì, mercoledì, venerdì e domenica 9.30-
19.30; giovedì e sabato 9.30-22.30 / Ingressi: € 8 intero; € 6,50 ridotto
Infoline: 02/54917 - Catalogo: Marsilio Editori - www.mostraberengogardin.it
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Le foto di massa che nessuno guarda
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Fotofonino che fotografa un tablet che fotografa un fotofonino
Album addio. Una fotografia non è per sempre.
“Una foto che non fai è un ricordo che non hai”, scandiva un fortunato
slogan pubblicitario, ricattandoci moralmente per venderci più rullini. Si
chiamavano Kodak Moments, quegli attimi di felicità da verbalizzare
obbligatoriamente con un clic, ma si supponevano invece eterni, o almeno
lunghi come una vita. Invece no, nell’era digitale sono diventati davvero
momenti, attimi, da scattare e consumare e perdere.
Poco più di due fotografanti su dieci, dice una recentissima ricerca Ipsos-
Aifoto, pensano che una foto sia “un istante da conservare per sempre”. Meno
di uno su tre pensa che le fotografie siano un serbatoio di ricordi. Quasi uno su
cinque, ed è una tendenza in crescita, le vede invece come “emozioni da
condividere”, e le emozioni sono effimere, vanno colte e consumate ancora
calde.
L’album di famiglia è un oggetto del secolo scorso, questo è scontato.
Quelli superstiti, quando le persone che davano senso a quelle pagine con i
loro racconti e la loro stessa esistenza non esisteranno più, seguiranno il loro
destino. Che è raramente passare agli eredi, più spesso perdersi magari
durante un trasloco, se va bene finire nei mercatini, in qualche caso
miracoloso recuperati e “ri-mediati”, altre volte direttamente in pattumiera.
Di album nuovi, ne nascono ben pochi. Secondo un sondaggio britannico
pubblicato dal Telegraph, poco più di un adolescente su dieci ha nel cassetto
qualcosa che vagamente gli somigli, anche solo una busta con foto di carta.
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Per forza, risponde il luogo comune: colpa dei foto-cellulari, della foto
compulsiva e banale, oggi tutti fotografi e nessun fotografo, la massa ha
travolto la qualità sotto valanghe di foto ridondanti inutili, che non vale la pena
di conservare…
Un mese fa Marissa Mayer, Ceo di Yahoo, che controlla Flickr, la comunità di
fotoamatori più frequentata nella Websfera, ha abolito l’opzione “Pro”, a
pagamento, sostenendo più o meno questo, che “oggi, con l’ubiquità delle
fotocamere, non esistono più concretamente fotografi professionisti”.
Piano, piano. Professionisti o no, c’è ancora chi ama fare buone fotografie.
Dare ai fotocellulari tutta la colpa del decadimento della fotografia è un errore
come quello che fecero un secolo fa i fotografi-artisti guardando dall’alto in
basso le prime Brownie in mano ai bambini. Molti dei quali sarebbero diventati
i grandi fotografi del Novecento.
Anche adesso, quattro ragazzi su dieci dicono di aver “scoperto una
passione per la fotografia” grazie a quell’aggeggio multiuso che hanno in tasca.
E quando comprano una reflex, poi, fotografano cinque volte più spesso che col
fotocellulare. E se l’idea della foto come ricordo è in declino, quella di foto
come oggetto estetico, come arte, è in sensibile crescita, conquista più di un
italiano su quattro.
Proprio per questo, si pensava che sarebbe rinato dalle sue ceneri anche
l’album, se non arte certo artigianato della memoria privata, manufatto
multimediale (immagini, disegni, parole), affabulazione familiare e memento ai
posteri. Rinato magari in formato digitale, come slideshow elettronico, con titoli
dissolvenze e musica, o almeno come presentazione ordinata di immagini
selezionate e ordinate da riguardare periodicamente.
Tablet che fotografa un fotofonino che fotografa un tablet
Invece, ennesima previsione sbagliata, non è andata così. Solo una
fotografia su tre oggi finisce su un cd o un dvd. Non è che le altre si buttino,
no: c’è ancora un fondo antropologico di superstizione che ci impedisce di
distruggere le foto di cose e persone care, solo gli amanti delusi stracciano le
foto degli ex, e anche loro per una specie di magia vendicativa.
Le conserviamo, ancora (sempre meno però: solo il 70% dei fotografanti
non ne elimina neanche una), nel fondo degli hard disk dei nostri computer
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casalinghi: che sono soffitte elettroniche, depositi di stoccaggio, non album
pronti da mostrare.
Ma la sorpresa vera è che neppure i social network sono diventati davvero i
nostri nuovi album di immagini di affezione. Sembra difficile da credere, viste
le dimensioni pantagrueliche della scorpacciata di immagini in Rete: solo i 24
milioni di utenti italiani hanno già caricato su Facebook la bellezza di cinque
miliardi di foto.
Ma a ben vedere, la media è bassa: poco più di duecento foto online in
media a testa, anche negli “album” (che si chiamano proprio così) di chi è
online da anni. Infatti, i dati Ipsos-Aifoto confermano: solo il 15 per cento di
tutte le foto scattate viene caricato sul Web.
Ma allora, questa voglia travolgente, di condivisione, questa ansia del “ti
faccio vedere” tutto, la pizza che sto mangiando, i miei piedi, le mie smorfie,
questi milioni di fotografie scattate dai cellulari? Si condividono, spesso, sui
cellulari. Sul display da quattro pollici, scorrendo la memory card con colpetti
del pollice, in spiaggia, al bar, seduti sul muretto, “guarda qui, ti faccio
vedere”, clic clic.
Due italiani su dieci confessano di lasciare sistematicamente le loro foto
nelle schede di memoria degli stessi apparecchi che le hanno scattate. Che non
è come dimenticare il rullino in fotocamera, è una scelta. Non c’è bisogno di
scaricarle altrove, quando alla fine è proprio quella dello smartphone la miglior
superficie di esibizione e condivisione.
E quando avranno esaurito loro funzione di “comunicare l’emozione”,
basterà un “cancella tutto” e si ricomincia. Forse non è poi morto il buon
vecchio album da sfogliare in compagnia: ce l’abbiamo in tasca. Però dura il
tempo di una risata.
_____________________________________
Ma all’album della storia ci pensiamo noi Intervista a Roberto Koch
Roberto Koch
Non vi preoccupate, consumate pure le vostre foto: agli album del nostro
tempo ci pensiamo noi professionisti. Roberto Koch, fotografo, fondatore
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dell’agenzia e della casa editrice Contrasto, non pensa che la slavina delle foto
effimere travolgerà la memoria visuale collettiva.
Sono i fotografi professionisti i nuovi archivisti dell’occhio?
“Ma lo sono sempre stati. Oggi come sempre un fotografo consapevole passa
molto tempo a selezionare, ordinare, archiviare le proprie immagini, e continua
a stamparle su carta, perché la comprensione del valore di una fotografia
passa anora per l’attenzione e il dettaglio che solo una stampa può dare”.
Non hai paura che le dimensioni e gli strumenti della fotografia di
massa travolgano il senso della vostra professione?
“Un fotografo vero può usare anche uno smartphone, la differenza è quel che
fa, dopo, delle sue immagini. Conosco grandi fotografi che addirittura simulano
i vecchi provini a contatto, ovvero ricostruiscono e conservano la sequenza del
servizio, perché sanno che non tutto si vede subito in una fotografia, che il
tempo può far maturare nuovi sguardi e far emergere un nuovo valore in
immagini vecchie. Per questo conservare è un dovere culturale. Niente paura,
non perderemo traccia visiva della storia. I fotografi esistono ancora”.
Tag: Aifoto, condivisione, Facebook, Flickr, Ipsos, Kodak, Marissa Meyer, massificazione, Roberto Koch
Scritto in Immagine e Internet, condivisione, conservazione, fotografia e società, fotografie private | 14
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Le prime fotografie aeree a inizio ’900, grazie agli
aquiloni
Per ottenere delle fotografie aeree, oggi, non serve molto: una fotocamera
digitale (ma anche analogica), un biglietto aereo e un posto al finestrino. Una volta decollati si può scattare liberamente dando sfogo alla fantasia, magari
supportati da uno zoom adeguato. Ma a inizio ’900 ossia ai primordi della fotografia, serviva davvero ingegno e abilità nel fai-da-te tecnologico. Ad
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esempio George R. Lawrence, guadagnò 15.000 dollari equivalenti a circa
300.000 euro attuali per la sua foto aerea di San Francisco dopo il tremendo terremoto del 1906. Come la ottenne? Appendendo una macchina fotografica
opportunamente comandata e modificata a un aquilone di grandi dimensioni. Nella fotogallery qui sopra possiamo ammirare altri esempi da New York a
Chicago fino a Kansas City. Ma c’era un altro metodo per fotografare dall’alto…
Un’altra mirabile tecnica arrivava dal fotografo tedesco chiamato Julius Neubronner che aveva escogitato un’idea davvero spettacolare: aveva
confezionato una macchina fotograficaabbastanza minuta da essere trasportabile da un piccione. E come ha fatto a scattare foto a distanza dato
che il pennuto non era ammaestrato abbastanza per premere l’otturatore? C’era chi si era affidato alle mongolfiere, lui ha pensato ai piccioni dato che li
utilizzava normalmente per inviare medicinali ai pazienti (era un farmacista, anche). Ha personalmente realizzato una fotocamera in miniatura con
alluminio e legno (per abbassare al minimo valore il peso) e ha confezionato una sorta di bretella da fissare al busto dei volatili, opportunamente addestrati
per volare e ritornare a casa.
Una volta preparato il tutto, Neubronner ha portato i piccioni a 100 chilometri di distanza e li ha liberati. I volatili sono poi diligentemente tornati a casa
volando a un’altitudine compresa tra 60 e 120 metri. Ok tutto molto bello, ma come è riuscito a azionare l’otturatore della fotocamera senza intervenire
personalmente? Ha perfezionato un sistema pneumatico che sostanzialmente riproduceva
l’azione del dito sul pulsante a intervalli regolari, ottenendo così una sorta di autoscatto programmato. Le foto hanno permesso a Julius di brevettare
l’invenzione, dato che l’ufficio per le registrazioni non era fiducioso sull’effettivo funzionamento della sua idea.
Nel 1909 mostrò poi gli scatti all’Esibizione Internazionale di Fotografia di
Dresda, una sorta di antesignano di Photokina, e infiammò la folla facendo
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volare i piccioni tra gli stand per poi sviluppare le foto e consegnarle ai
visitatori come souvenir. A proposito di fotografia della “preistoria” ecco la prima foto in assoluto mai scattata e la prima fotografia a ritrarre un essere
umano.
Piccola, raffinata e di carta
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
È un oggettino minuto e pesante, tre etti di
carta patinata opaca o lucida (alternativamente) in formato libro tascabile, che
girano per l’Europa. Una rivista in carta e inchiostro che nell’epoca del tutto-
online sta diventando un piccolo caso editoriale controcorrente.
Image in Progress è uno one-man-magazine, visto che Emanuele Cucuzza,
trentottenne, romano, giornalista e fotografo, dal 2010 ne è il direttore,
l’editore e il redattore pressoché unico («uso alcuni pseudonimi…»), anche se
non ama tanto dirlo in giro, perché non vuole rubare la scena alla sua creatura.
Duecento pagine curate come un oggetto artigianale, italiane ma in lingua
inglese, fitte di interviste in esclusiva, testi, immagini in alta qualità di stampa,
tutto quanto spedito in 30 paesi del mondo, oggetto: la fotografia creativa in
tutte le sue forme, pubblicità, moda, arte.
Quarto numero appena uscito, cadenza irregolare, poco più di un numero
per anno, mille copie che si vendono nelle librerie e nelle edicole internazionali,
finora sempre esaurite, Iip è una idea italiana originale di cui l’Italia si è
accorta ben poco: ovvero l’idea di dare alla comunità dei creatori di immagine
una vetrina di qualità, un accurato “bollettino di collegamento”, una
piattaforma di scambio di idee.
Un sito e una web-tv presto affiancheranno il progetto, ma la carta resterà
sovrana. Una scelta snob? No, di marketing: «Chi va in libreria ha un’idea
precisa, sceglie e compra, sul Web spendi un sacco di soldi solo per
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pubblicizzare il sito, spesso con pochi risultati». Non è tutto oro quel che
è online.
È una rivista di immagine per gente di immagine, dove la gelosia dei singoli
creatori si ribalta in condivisione di progetti, tecniche, metodi. In copertina,
alla pari, i nomi di tutti, le foto-star (nel numero quattro parla ad esempio
Albert Watson, ritrattista tra i più ricercati al mondo) come i giovani emergenti
sulla scena, anche non-professionisti, ai quali la rivista offre uno spazio, “Artist
Diary”, in cui spiegare in prima persona il proprio lavoro.
Ma è anche un periscopio eccellente per chi vuole farsi un’idea di cosa sia
lavorare con la fotografia in questi anni di rivoluzione tecnologica. Si capisce
con molta chiarezza, ad esempio, che la fotografia è, per il mondo
dell’immagine “finalizzata”, mediatizzata e commerciale, una materia prima
molto, molto duttile e malleabile. Che non esiste ormai immagine in questo
circuito che non sia sottoposta a un più o meno radicale ritrattamento in
postproduzione.
Ma questo lo sapevamo già. Quel che è interessante notare, e fa piacere
leggere, è la sincerità, la totale assenza di imbarazzo con cui i creatori di
queste immagini ci informano della qualità e della intensità dei loro interventi
sul “testo” originario della fotografia. Ce ne informano, ce li spiegano, ne
discutono con noi l’opportunità, non in termini moralistici, ma di efficacia del
risultato.
Non trovo, nelle interviste e nei testi di autopresentazione di questi
fotografi-illustratori, la stessa reticenza, la stessa suscettibilità che si trova
troppo spesso presso altri fotografi, anche in quabnti sono loro a loro volta
professionisti dell’immagine.
La postproduzione come la leggo qui è un attrezzo del mestiere che a
nessuno passa per la testa di negare o minimizzare. Perché invece vedo tanti
imbarazzi in giro, come può dimostrare qualche polemica che ha attraversato
anche Fotocrazia?
Ovvio che per un fotogiornalista non sia facile ammettere di avere
saturato, desaturato, spianato, levigato, e addirittura aggiunto o tolto porzioni
dell’immagine uscita dalla fotocamera. Hanno a che fare con un materiale
delicato, l’informazione, che si svaluta rapidamente se troppo investito di
rielaborazioni a posteriori. Alla loro coscienza sta essere onesti con i loro
lettori. Non tutti sono all’altezza.
Ma la stessa reticenza si trova anche in alcuni fotografi, spesso al confine fra
professionismo e amatorismo, che producono immagini eticamente più libere
da doveri di rispetto delle informazioni visuali raccolte, immagini di tipo
illustrativo, decorativo, “artistico”.
Ebbene, sono a volte fotografi tanto orgogliosi delle proprie creazioni
quanto insicuri di sé, che vivono come una diminutio oltraggiosa il semplice
sospetto che un intervento abbastanza intenso di modifica sia avvenuto, sulle
loro immagini, dopo lo scatto. Temono di dover ammette l’uso degli strumenti.
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Temono che questo voglia dire ammettere che la creatività sta negli
strumenti. Temono la creatività degli strumenti. A volte, devo dire, non hanno
torto. Proprio chi ha di questi timori ne diventa vittima.
Consiglio caldamente la lettura di Iip a questi amici, convinto che possa
fornire una piccola lezione di umiltà e assieme di professionalità ai fotografi che
si vergognano delle proprie postproduzioni. Come ripeto ormai troppo spesso,
in fotografia la menzogna non è alterare l’immagine della fotocamera (che è
già alterata di per sé), è farlo e poi negare o minimizzare di averlo fatto.
Tag: Albert Watson, Emanuele Cucuzza, fotografia creativa, Image in Progress, riviste
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Storia e personaggi del ventesimo secolo negli scatti di Renè Burri
da http://www.libreriamo.it
“Renè Burri. Retrospettiva” ripercorre, attraverso oltre duecento
scatti, la carriera del grande fotografo svizzero
MILANO -“Renè Burri. Retrospettiva” è una mostra prodotta da Magnum
Photos e curata da Hans-Michael Koetzle, allestita presso Il Centro
Internazionale di Fotografia Scavi Scaligeri di Verona. L’esposizione,
visitabile sino al prossimo 22 settembre, racconta in circa duecento scatti
realizzati dal famoso fotografo svizzero René Burri, la storia e i personaggi del
ventesimo secolo. Con le sue fotografie Burri ha testimoniato le guerre di
Corea e del Vietnam, la crisi di Cuba con gli Stati Uniti e ritratto alcune delle
personalità più influenti del XX secolo: straordinari i suoi reportage su Picasso
al lavoro, Le Corbusier e Giacometti.
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RENE’ BURRI - René Burri è un uomo “sul campo”: un giornalista fotografo.
Se si analizza il suo lavoro compreso in un arco di più di 40 anni, si trovano
tutti i generi della fotografia documentaria. Il suo nome è collegato a
reportages classici e saggi generali sotto forma di libro, alle immagini isolate
che diventano icone, sia a colori che in bianco e nero, a serie e sequenze, alle
fotografie “notizia”, e alle creazioni fotografiche indipendenti. Ha realizzato
innumerevoli ritratti, trasformato ambienti in composizioni grafiche, riassunto il
divenire del mondo in formule iconografiche assurte a parabola. Nonostante
questo esiste però qualcosa che si può riconoscere come Burri tipico, che non
ha nulla a che vedere con uno stile, una maschera o il puro estetismo. Si tratta
piuttosto di curiosità, di indomabile voglia di vivere, ma anche di un
atteggiamento, una acuta consapevolezza del modo nel quale ci si deve porre
davanti agli uomini, alle culture e agli avvenimenti. Hans –Michael Koetzle,
curatore della mostra.
L’ANIMA DEL FOTOREPORTER - Suo è il notissimo ritratto, del 1963, di Che
Guevara con il sigaro tra le labbra. Fotografie, reportages e saggi di Burri sono
stati pubblicati dalle più prestigiose testate internazionali: Life, Look, Fortune,
Paris Match, Jour de France, Epoca, Bunte Illustrierte, Stern, New York Times e
Sunday Times, in quella che si può definire come l’età dell’oro delle riviste
illustrate. Burri è considerato un grande fotoreporter, soprattutto per la
particolarità del suo sguardo: nonostante sia stato a contatto con la violenza
della guerra e la disperazione delle vittime, ha sempre evitato le immagini
crude e tragiche. Ciò che lo ha sempre interessato è di riuscire a cogliere il
momento nel quale nascono le idee o muoiono le utopie, le vite vissute.
L’ESPOSIZIONE - L’esposizione si articola in nove sezioni, che ripercorrono le
tappe salienti dell’evoluzione e dell’approccio artistico di Burri. Dagli inizi, dove
emerge un rigore formale che caratterizzerà molti suoi lavori, all’influenza che
grandi artisti ebbero sulla sua concezione dell’immagine, tanto da valergli la
fama di cronista infaticabile dell’arte del XX secolo. In mostra anche scatti che
testimoniano il suo interesse per l’arte cinematografica, altri che appartengono
strettamente al genere della “fotografia d’autore”, e altri che raccontano la
grande passione di Burri: viaggiare per il mondo e raccontare, con la sua
macchina fotografica, la creazione delle cose, le idee che prendono vita, le
visioni che aprono spazi sul futuro. Per la prima volta sono esposte una serie di
cartoline-collage che Burri realizzava per trascorrere il tempo durante i lunghi
spostamenti aerei o nelle soste in attesa di un volo e spediva dalle più varie
località del mondo all'amico e curatore delle sue opere, Hans Michael Koelze.
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Tags: Retrospettiva Renè Burri, magnum Photos, Cento Internazionale
di Fotografia Scavi Scaligeri di Verona, fotografia, mostra fotografica
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Storie di Cenerentole
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
René Burri, foglio di provini, servizio su Che Guevara, gennaio 1963, René Burri / Magnum Phhotos, g.c.
Bang-bang-bang! È un attimo. Muhammad Alì sta per salire sul ring di una
palestra di Londra, è un normale allenamento, vede il fotografo, paziente, in un
angolo d’ombra, la sua vanità non resiste: alza la guardia, e molla tre colpi,
finti, in direzione dell’obiettivo.
«Per fortuna avevo un grandangolo sulla Leica», ricorda Thomas Hoepker,
ancora emozionato, «ma non feci in tempo a regolare la distanza. Bang-bang-
bang, clic-clic-clic. Quando vidi i negativi, erano sfocati».
Sui provini di Hoepker, quei fogli di carta fotografica dove si stampavano i
rullini così com’erano per scegliere lo scatto buono, la foto più famosa di
Cassius Clay, forse la sua icona immortale, è impietosamente “biffata” da una
croce a matita rossa. «Non era uno di quei ritratti in posa, con le luci giuste, gli
assistenti e decine di scatti».
Solo dopo molti anni, riguardando quel foglio di scarti, Hoepker si disse:
«perché no?». Il volto di Alì, in secondo piano, è nebuloso ma riconoscibile, ma
il pugno, il micidiale destro, enorme, è nitido, le nocche nitide e contundenti,
sembra che ti sbattano sul muso. La stampò, la vendette. Ed eccola oggi, su
milioni di magliette, poster, siti Internet, se ne volete una copia originale vi
costerà molto.
Storie così, le vecchie camere oscure ne saprebbero raccontare a migliaia.
Ora invece i provini non esistono più, le foto che appaiono “sbagliate” o banali
al primo sguardo vengono cancellate subito dalle memorie elettroniche, e
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perdono la miracolosa prova d’appello. Ma nell’era delle pellicole e della
fotografia umida, i provini, meglio detti “stampe a contatto”, erano veri e
propri allevamenti di brutti anatroccoli pronti a diventare, un giorno, splendidi
cigni, casette di Cenerentole in attesa di una fata.
La mostra Magnum Contact Sheets inauguata ieri al Forte di Bard, Valle
d’Aosta (con il magnum-catalogo edito da Contrasto, La scelta della foto, che è
un autentico corso di fotogiornalismo storico-pratico) è affascinante per molte
ragioni, prima fra tutte perché, mostrandoci le grandi immagini dei grandi
autori accanto alle strisciate dei rullini da cui provengono, ci fa passare dietro
le loro spalle, ci svela il loro modo di lavorare, di pensare e costruire
l’immagine; i provini sono come «un taccuino dello psicanalista», diceva
Cartier-Bresson che non per nulla non voleva mostrare a nessuno i suoi (ma
pretendeva di vedere e giudicare quelli degli altri: guardatelo, nella mostra,
sbirciare con la lente un foglio, seduto chissà perché su uno sgabello coricato
nella sede di Magnum a New York).
In mostra, i visitatori restano molto più che nelle comuni mostre di
fotografie. Si avvicniano al foglio dei provini, ficcano letteralmente il naso fra
quelle miniatura. Donare come gadget assieme al biglietto (o come biglietto)
una lente d’ingrandimento a ogni visitatore sarebbe stato grandemente
apprezzato.
La sequenza numerata mostra come il fotografo si avvicina al soggetto,
provando e riprovando fino a trovare la foto “giusta”. Ma ci fanno anche capire
che il concetto di “foto giusta” è relativo, fluttuante, cambia col tempo e forse
anche col caso, tant’è che, più spesso di quel che si pensa, evangelicamente, la
pietra scartata dal costruttore diventa poi pietra angolare.
Gli scaffali di Magnum a Parigi (foto Michele Smargiassi 2012 licenza Creative Commons)
A Magnum, storico Olimpo del fotogiornalismo, la scelta della foto spesso
era affare di pochi minuti, spesso non era neppure compito del fotografo che,
si chiamasse pure Capa o Bischof o Cartier-Bresson, spediva i suoi rullini al
quartier generale di Parigi, dove qualcun altro tirava i provini, e da quelli
sceglieva stampava e spediva ai giornali ciò che riteneva il meglio. Più tardi,
con più agio e meno stress, il “secondo sguardo” spesso scoprì capolavori
timidi, rinnegati perché poco appariscenti nei 24×36 millimetri di quelle miniature.
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Elliott Erwitt per esempio non “vide”, sui provini, quel bacio
nello specchiettoretrovisore che è diventata una delle cartoline d’amore più
spedite nel mondo. «Erano due amici, non era una fotografia su commissione,
la misi da parte e me ne dimenticai», spiega oggi, «la ritrovai venticinque anni
dopo e mi dissi be’, può venirne fuori una foto carina».
Fu proprio la fretta di mandare “buoni scatti” nelle redazioni che impedì a
Bruno Barbey di capire che le foto più eloquenti del Maggio ’68 parigino erano
proprio quelle che, «dense e un po’ troppo scure, nei provini non si vedevano».
Dovette arrivare il quarantesimo anniversario delle barricate perché, frugando
meglio, apparisse un tesoro così fiabesco da poterne ricavare un intero libro di
inediti.
A volte sono i meccanismi del giornalismo a condannare grandi foto al limbo
dei cassetti. Paul Fusco salì al volo sul treno che nel 1968 trasferiva da New
York a Washington il feretro di Bob Kennedy assassinato, e davanti al finestrino
gli si dispiegò la commozione di migliaia di americani schierati lungo i binari
per salutare il loro quasi-presidente. Scattò tutti i rullini che aveva. Ma Look, il
rotocalco per cui lavorava, essendo un quindicinale, usciva una settimana dopo
il concorrente Life, e preferì una retrospettiva di foto storiche. I negativi
di Funeral Train, emozionante ritratto di un’America dai sogni spezzati, furono
recuperati solo nel 2008 per diventare un libro e una mostra che sta ancora
girando il mondo.
Ma pressoché tutti i grandi di Magnum hanno la loro storia di resurrezioni e
di agnizioni fotografiche da raccontare. Il reportage di Abbas sugli ostaggi
americani in Iran era strepitoso, ma «solo più tardi mi accorgo che in
uno scatto scartato, dietro gli “studenti di teologia” che gridano, spunta,
incredibile, il profilo della Statua della libertà».
Thomas Hoepker, busta di diapositive, New York 11 settembre 2011, © Thomas Hoepker / Magnum Photos
Ancora Hoepker non si sarebbe mai aspettato che la foto dei ragazzi di
Brooklyn che chiacchierano apparentemente rilassati sullo sfondo delle Torri
Gemelle in fiamme, che lui trovò sconveniente e mise da parte, sarebbe
diventata una delle più simboliche tra quelle dell’11 settembre. E che dire del
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Che Guevara con il sigaro issato sulle labbra come un’asta di
bandiera, ritratto di René Burri ripescato cinque anni dopo per diventare l’icona
della rivoluzione cubana?
Materiali umili di lavorazione, i provini potevano cambiare la storia. Quelli
che scattò Gilles Peress nel corso della Bloody Sunday di Derry, nel 1972, lo
fecero. Peress testimoniò al primo processo per l’uccisione di quattordici
militanti indipendentisti irlandesi da parte dell’esercito britannico, ma fu solo
dopo dodici anni, quando mostrò i suoi fogli di contacts a una seconda
commissione d’inchiesta, che tutti videro che le vittime non erano armate, e il
verdetto di assoluzione degli sparatori fu ribaltato.
Ma forse, più commoventi di tutti sono i provini che non cambiarono la
storia, ma cambiarono una vita. Quella di Jacob Aue Sobol, un Ulisse fotografo
catturato dalla sua Calipso, l’eschimese Sabine, con cui visse per tre anni a
Tiniteqilaaq, in Groenlandia,fotografandola di continuo. Quando l’idillio finì,
tornare nella sua Itaca per Jacob fu dura. Ma i provini di quell’autentico poema
d’amore per Sabine erano con lui, e sfogliarli «ancora ed ancora, fu un modo
per restare con lei e conservare l’amore che avevamo condiviso», per ritrovare
la voglia di vivere, e anche di fotografare.
Tag: Abbas, Bruno Barbey, contact sheet, Elliott Erwitt, Gilles Peress, Henri Cartier-Bresson, Jacob Aue
Sobol, Magnum, Paul Fusco, provini, René Burri, Robert Capa, Robert Kennedy, Thomas
Hoepker,Werner Bischof
Scritto in Autori, analogico, inediti | 6 Commenti »
Una sola macchina, un solo obiettivo, la pellicola.
di Francesco Sala da http://www.artribune.com
Mimmo Jodice alla Triennale di Milano
La chiamano lectio magistralis, ma l’ambiente è quello caldo – non solo per l’anticipo d’estate che soffoca Milano – del consesso tra vecchi amici,
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l’atmosfera pacifica e rilassata. Non manca mai in situazioni del genere
il nerd di turno, pungolato dall’irresistibile tentazione di dimostrare che lui ne sa: e così arriva la domanda tecnica che più tecnica non si può. Meglio il 6×6 o
i 35 millimetri? E il banco ottico? Il nostro non si scompone, risponde con il candore che fa pendant con quella barba bianca da vecchio eroe omerico: “Uso
una macchina, un obiettivo, la pellicola. E basta”. Così parlò Mimmo Jodice, e
il nerd dello scatto è bello e sistemato. Cinquant’anni di carriera raccontati in una serata di inizio estate alla Triennale di Milano, partendo dall’esperienza
come docente all’accademia d’arte di Napoli e arrivando al più recente progetto su Le città sublimi, scorci inediti di paesaggi urbani partiti da Montreal – 48mila
visitatori in quattro mesi, bei numeri – e ora in giro per il mondo. Un racconto senza fronzoli, appassionato e coinvolgente, introdotto da Lella Costa e a
fatica indirizzato dal vicedirettore di Grazia Daniele Bresciani. Jodice, davanti alla proiezione delle sue fotografie, si fa incontenibile, procede a ruota libera,
forte di una capacità di fascinazione dialettica che è figlia di chi sa con tanta efficacia parlare per immagini.
Ecco quello straordinario atlante della sofferenza raccolto nella Napoli di fine Anni Sessanta, quando riesce ad ottenere un insegnamento in Accademia
sfruttando l’escamotage offerto dal corso di scenografia, che finge di aver bisogno di un tecnico per elaborare proiezioni che animino le quinte teatrali.
L’aula è gremita, dimostrando come sia ora di cominciare a insegnarla, la
fotografia. E poi via di corsa tra vicoli e piazze, seguendo il miraggio di Magritte e Delvaux, che invitano a indovinare paesaggi irreali: porte
murate, finestre cieche, inquieti giochi d’ombra, auto protette da teloni che trasformano parcheggi in nuvole fantasmagoriche. La reazione alla “natura
morta borghese, da salotto” che si traduce negli scorci rubati alle botteghe di macellaio; la seduzione della classicità e quella del mare, “vissuto però come
orizzonte, così come è stato per millenni da parte dei marinai”. I paralleli tra la collezione di Capodimonte e la gente dei vicoli, con i guappi di oggi discendenti
delle stesse facce che hanno ispiratoCaravaggio e de Ribera; e sempre a proposito di volti quelli del progetto Les yeux du Louvre, che valgono una
personale – con proroga, fatto rarissimo – nel museo più visitato al mondo. E pure, tanto per gradire, un cavalierato.
Vedi Venezia e poi muore
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Il sacrificio è stato svegliarsi alle cinque del mattino per diverse settimane.
«Volevo fotografare i mostri mentre arrivano, mentre fanno la posta alla loro
preda».
Gianni Berengo Gardin, doge della fotografia italiana, è nato a Genova ma ha
vissuto a lungo a Venezia, la città di suo padre, dove ha perfino gestito per
alcuni anni il negozio di famiglia, di vetri e collane di Murano, nella strategica
Calle Larga di San Marco, «allora chi diceva Berengo Gardin pensava alle perle
di vetro… Ora invece c’è un caffè».
Tutto cambia a Venezia, non sempre per il meglio, ma questo non è un
cambio, «questo è un disastro, una tragedia…». Il veneziano che c’è in lui si è
ribellato. L’esito è un reportage duro, severissimo sulle, anzi contro le
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gigantesche navi da crociera che traversano la Laguna e sfiorano la regina del
mare con i loro inchini interessati e «spaventosi».
Ti sarà costato qualcosa, dare questa immagine della città che ami…
«Proprio perché amo Venezia, da molti anni non sopporto di vederla stuprata
da orde di turisti che vengono a Venezia solo perché “bisogna andare a vedere
Venezia” ma in realtà non gliene frega niente. Ma Venezia vive anche di
questo, e mi sono sempre trattenuto. Però di fronte a questi mostri non ce l’ho
fatta. Qui non è più solo questione di scempio del paesaggio veneziano, di
sporcizia per le strade, di folla rumorosa che straripa, qui c’è un pericolo, un
pericolo reale e incombente. Ci vuol niente che succeda come a Genova, che
uno di questi grattacieli orizzontali vada a sbattere su Palazzo Ducale, su San
Giorgio, sulla Punta della Dogana. Li ho fotografati così perché si vedesse non
solo che sono orrendi, ma che fanno terrore».
Un reportage di denuncia, un gesto politico?
«A Venezia c’è un gruppo di cittadini, mi pare si chiami “No Grandi Navi”, che
si batte contro i mostri del mare, ma io mi sono mosso per conto mio. Sì, ho
fatto un reportage di denuncia, schierato, i reporter fanno anche questo, è un
dovere civile, ma è un lavoro giornalistico. Se poi mi chiederanno queste foto
per appoggiare la loro battaglia, sarò lieto di dargliele».
Perché, per una volta, non hai usato la fotografia a colori? Non sarebbe
stato più forte l’impatto?
«Al contrario. Il colore distrae. Un cielo azzurro brillante sistema molte cose. Il
libro che dedicai a Venezia, nel ’62, era in bianco e nero, era per raccontarla
davvero, oltre la cartolina, anche se quella Venezia ora sembra irreale. Il
bianco e nero dà quello scarto rispetto alla visione naturale che ti costringe a
fare più attenzione, a guardare meglio. Quel muro bianco che chiude la
prospettiva della strada sembra un cielo e invece qualcosa non quadra, è pieno
di oblò, è un cielo di metallo appiccicato alle case veneziane grigie con le loro
finestre gotiche. In questo caso il mio bianco e nero è il pittoresco ribaltato.
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Volevo che fosse un effetto di shock anche per i veneziani che sanno a
memoria la loro città».
Hai usato qualche attrezzo del mestiere per dare più forza al tuo
sdegno?
«In alcuni casi ho usato un teleobiettivo, ma molto moderato, un 80 millimetri,
in altri un normale 50. Non c’è affatto bisogno di forzare l’immagine, chiunque
passeggi per Venezia avrà coi suoi occhi le stesse impressioni che ha
guardando queste immagini».
Eppure i passanti nelle calli e nelle piazze sembrano indifferenti a
quella massa di metallo che incombe.
«Ne passano anche quattro al giorno. I veneziani purtroppo ci stanno facendo
l’abitudine. Per i turisti invece sta diventando la nuova meraviglia veneziana, li
vedi tutti a fotografare le navi sullo sfondo delle calli, con i loro telefonini…
Guardano più lo spettacolo delle navi che Venezia, ormai. I mostri hanno preso
il sopravvento anche nell’immaginario».
Ma Venezia è una città di mare. Ha sempre fatto i conti con le barche e
con le navi.
«In un libro di inediti ho pubblicato un anno fa la fotografia di una nave
mercantile che diversi decenni or sono vidi ormeggiata sulla Riva dei sette
Martiri. La fotografai perché mi sembrò enorme, impressionante. Era niente al
confronto con queste qui. Non c’è più alcuna misura, capisci? Sono navi
smisurate rispetto alle proporzioni della città, non c’è comune misura. Sono
alte il doppio di palazzo Ducale, lunghe il doppio di piazza San Marco. Nessun
luogo resiste a questa sproporzione, a questa prepotenza visuale».
Perché lo fanno?
«Io posso anche immaginare che, vista da lassù, Venezia sia uno spettacolo
meraviglioso. Ma nn è più una città, non è più questo luogo unico al mondo.
Offerta agli sguardi in questo modo, vista così, Venezia diventa un modellino,
una miniatura, un giocattolo. E i giocattoli non sono cose vere, sono copie
moltiplicabili all’infinito. Non c’è più differenza fra questa Venezia vista dal
dorso del mostro e le Venezie artificiali che hanno rifatto in America. Sono la
stessa cosa, ormai. Anzi quelle resisteranno meglio e fra un po’ saranno più
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vere. Modellino per modellino, non ci sarà più bisogno di scomodarsi a vedere
la Venezia reale. Lasciamo stare un momento gli incidenti, che restano
drammaticamente possibili: ma già adesso queste navi stanno sgretolando
Venezia, anche senza toccarla materialmente».
Tag: ambiente, Gianni Berengo Gardin, No Grandi navi, Venezia
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Edward Steichen In High Fashion, the Conde' Nast Years, 1923-1937
Comunicato stampa da http://undo.net (traduz. di G.M.)
FOAM PHOTOGRAPHY MUSEUM, AMSTERDAM A cura di William A. Ewing, Todd Brandow and Nathal ie Herschdorfer
Foam è estremamente orgogliosa di presentare questa estate la mostra "Edward Steichen nell’alta moda, gli anni Condé Nast, 1923-
1937, con Più di 200 stampe originali d'epoca, che rappresentano il culmine della lunga carriera fotografica di Steichen (1879-1973). Le
opere che ha eseguito in questo periodo per le autorevoli riviste Vogue e Vanity Fair sono alcune delle più eccezionali creazioni del XX secolo.
Esposte nei Paesi Basis per la prima volta, sono state riunite appositamente, per questa mostra.
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Edward Steichen (1879-1973) era già un celebre pittore e fotografo da
entrambi i lati dell'Oceano Atlantico, quando nei primi mesi del 1923 gli fu offerta uno dei più prestigiosi e sicuramente dei più redditizi
impieghi (incarichi) nel campo della fotografia commerciale quale responsabile per la fotografia del gruppo Condé Nast (editore di riviste
autorevoli e rinomate come Vogue e Vanity Fair). Durante questi
quindici anni Steichen ha sfruttato al meglio il suo eccezionale talento, ritraendo la cultura (la civiltà culturale) dell'epoca ed i rappresentanti
più importanti di letteratura, giornalismo, danza, sport, politica, teatro e cinema. La sua più grande fama, tuttavia, è arrivata dalle sue
foto di alta moda.
Molto più che i suoi predecessori, Steichen ha lanciato la fotografia di moda a nuove altezze, con un significato simile al passaggio del film
da muto a sonoro. Ha abbandonato gli sforzi artistici nei movimenti dell'Impressionismo fotografico, dell'Art Nouveau e del Simbolismo ed
è divenuto il più eminente fotografo nell'Art Déco nonché il fondatore della moderna fotografia glamour.
Oltre alle foto straordinari per case di moda come Worth e Poiret, così
come per le più ben note case come Chanel e Schiaparelli, l'Archivio
Steichen di Condé Nast a New York contiene ritratti eccezionali tra cui quelli di Greta Garbo, Cecil B. DeMille, Winston Churchill, Marlene
Dietrich, George Gershwin, Frank Lloyd Wright, Luigi Pirandello, Walt Disney e centinaia di altre celebrità.
Il genio di Steichen, però, non si limitava alla fotografia di moda anni
‘30 e di glamour. Steichen è stato il più grande pioniere nel mezzo fotografico dalla fine del XIX secolo fino a gran parte del
ventesimo. Era un fotografo nel pieno senso: prima di tutto un fotografo d'arte indipendente, ma ha anche lavorato come fotografo
militare durante la prima e la seconda guerra mondiale. E' stato socio fondatore della rivista d'avanguardia Camera Work (1903-1917),
insieme con Alfred Stieglitz, con il quale ha anche introdotto, per la prima volta negli Stati Uniti, artisti come Rodin, Matisse e Brancusi. E
'stato anche curatore della famosa mostra itinerante internazionale
The Family of Man, iniziata nel 1955, e divenne direttore del dipartimento di fotografia del MOMA.
"Edward Steichen: In High Fashion" è stato prodotto dalla Fondazione
per le esposizioni della Fotografia di Minneapolis, in collaborazione con FOAM, Keizersgracht 609 - 1017 DS Amsterdam . Aperto tutti i
giorni 10:00-18:00, gio / ven 10:00-09:00 Biglietti: € 8,75
Foto: L'attrice Mary Heberden 1935 © Edward Steichen / Courtesy Condé Nast Publications
Bellissime le donne di Tichý, fotografo voyeur con
fotocamera di cartone
di Damiano Laterza da http://www.ilsole24ore.com/art/cultura
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Miroslav Tichý (1926-2011) è stato un fotografo cecoslovacco che dal 1960
fino al 1985 ha scattato migliaia di immagini surrettizie, nella sua città natale
di Kyjov, con una macchina fotografica fatta in casa utilizzando scatole di
scarpe assemblate con tubi di cartone e lattine, nastro adesivo, tappi di
bottiglia e lenti in plastica lucidata col dentifricio. Tutto quello che Tichý sapeva
sulla fotografia lo apprese da autodidatta, arrivando a creare opere di grande
originalità e di notevole qualità formale.
Il motivo centrale della sua produzione sono le donne che egli ha immortalato,
a loro insaputa, in piscine pubbliche, in strada, in situazioni banali di tutti i
giorni: forme femminili in bilico tra le ambizioni amatoriali di un voyeur e una
riflessione ininterrotta – ma mai indiscreta o sessista - sulla primordiale
funzione muliebre quale oggetto scultoreo e apoteosi di naturalezza. Come
detto, la maggior parte dei suoi soggetti non erano consapevoli di venire
fotografati, forse non rendendosi conto che quella parodia di fotocamera fosse
reale. Lo stesso Tichý provvedeva poi alle stampe, montando le immagini in
passepartout di cartone fatti a mano.
La messa a fuoco dolce, gli scorci fugaci, nebulosi e obliqui, i segni lasciati dal
processo di produzione - viziati dai limiti di un'attrezzatura preistorica - e una
serie di errori di elaborazione deliberati (o causati dalle circostanze in cui
l'eccentrico artista visse) fanno raggiungere a queste fotografie livelli di
perfezione poetica esaltanti. Il laboratorio di Tichý era un angolo della
catapecchia ove abitava, separato dal resto con pezzi di stracci, con la finestra
offuscata per mezzo di un pennarello nero e una lampadina dipinta con vernice
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rossa. L'ingranditore era fatto dello stesso materiale riciclato con cui egli
costruiva le sue macchine fotografiche. Tichý viveva tra cumuli di foto, vi
camminava sopra, tra ratti che rincorrevano scarafaggi, e spesso ne bruciava
un po' per scaldarsi.
Messo sotto sorveglianza e perseguitato politicamente a causa delle sue prese
di posizione da dissidente, Tichý si ritirò completamente dalla vita pubblica e
dalla scena artistica, finendo in un stato di quasi abbandono, finché non venne
scoperto - solo nel 2008 - dal celebre critico Harald Szeemann. Tichý è oggi un
autore di culto assoluto (un suo scatto costa fino a 10.000 dollari), celebrato
da musei come il Centre Pompidou di Parigi o l'International Center of
Photography di New York.
Le straordinarie immagini di Miroslav Tichý - scattate in condizioni di fortuna,
sfocate, rare, sporche, espressioni di una mente schizofrenica, capaci di
suscitare uno straniante effetto di lurida malinconia - sarà possibile ammirarle
durante tutta l'estate, nel corso di una imperdibile sezione speciale della
Biennale di Praga (giunta quest'anno alla sesta edizione). Un omaggio dovuto a
un genio oscuro, che ha reinventato la fotografia.
Prague Biennale 6 - Praga, Repubblica Ceca
A cura di Nicola Trezzi - Dal 6 giugno al 15 settembre 2013 - www.praguebiennale.net
Rassegna Stampa del Gruppo Fotografico Antenore BFI a cura di Gustavo Millozzi, MFIAP-HonEFIAP-SemFIAF
www.gustavomillozzi.it
www.fotoantenore.org [email protected]