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Ha un corpo il testo? La metafora nei casi clinici di Freud · che contribuisce a dare spessore...

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Uno Sguardo Altrove 25-26 Novembre 2011 Ha un corpo il testo? La metafora nei casi clinici di Freud Anna Tortorella Introduzione - Ipotesi di lavoro L’ipotesi parte dalla questione delle modalità di trasmissione di un pensiero alle nuove generazioni, lungo le polarità del consolidare acquisizioni di saperi e del favorire aperture di senso. Se nella trasmissione orale del pensiero e del sentire psicoanalitico – ad esempio nel corso di una supervisione – è agevole cogliere in atto una sorta di dispositivo per la fertilizzazione mentale degli allievi, mi chiedevo per quali vie questo può darsi in una trasmissione scritta, e nello specifico nelle opere di Freud. Sulla la visibilità del pensiero espressa attraverso il linguaggio, ha posto la nostra attenzione Salomon Resnik, quando afferma che “Ogni lettura è una interpretazione, un intervento sul testo, un’ermeneutica. Il testo è ‘corpo letterario’ che si mostra, si muove in un certo modo, parla al lettore e agisce su di lui” (1996, p. 107). Ma come si muove il ‘corpo letterario’ freudiano, sul lettore? Quali gli elementi attraverso i quali tale visibilità si mostra? L’ipotesi qui avanzata è che uno dei modi per tale visibilità, mediante la quale noi lettori possiamo vivere l’incontro ’corpo a corpo’ col testo, sia offerta dalla metafora, figura retorica che contribuisce a dare spessore fisico alla parola, ed insieme esprime una apertura di senso, a significati non sempre pre-visti, metafora di cui è riccamente intessuta l’opera freudiana. Il corpus sui cui tale ipotesi è messa alla prova è dato dall’insieme degli scritti freudiani sui casi clinici; in che modo Freud ha fatto ricorso alle metafore, nel rendere il racconto sui casi? La metafora, nel suo essere ponte tra mondi, potrebbe rappresentare con maggiore evidenza, nel tessuto del linguaggio scritto, un corpo del testo, tale da significare una apertura 1
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Uno Sguardo Altrove 25-26 Novembre 2011

Ha un corpo il testo?

La metafora nei casi clinici di Freud Anna Tortorella

Introduzione - Ipotesi di lavoro

L’ipotesi parte dalla questione delle modalità di trasmissione di un pensiero alle nuove

generazioni, lungo le polarità del consolidare acquisizioni di saperi e del favorire aperture di

senso.

Se nella trasmissione orale del pensiero e del sentire psicoanalitico – ad esempio nel corso di

una supervisione – è agevole cogliere in atto una sorta di dispositivo per la fertilizzazione

mentale degli allievi, mi chiedevo per quali vie questo può darsi in una trasmissione scritta, e

nello specifico nelle opere di Freud.

Sulla la visibilità del pensiero espressa attraverso il linguaggio, ha posto la nostra attenzione

Salomon Resnik, quando afferma che “Ogni lettura è una interpretazione, un intervento sul

testo, un’ermeneutica. Il testo è ‘corpo letterario’ che si mostra, si muove in un certo modo,

parla al lettore e agisce su di lui” (1996, p. 107).

Ma come si muove il ‘corpo letterario’ freudiano, sul lettore? Quali gli elementi attraverso i

quali tale visibilità si mostra?

L’ipotesi qui avanzata è che uno dei modi per tale visibilità, mediante la quale noi lettori

possiamo vivere l’incontro ’corpo a corpo’ col testo, sia offerta dalla metafora, figura retorica

che contribuisce a dare spessore fisico alla parola, ed insieme esprime una apertura di senso,

a significati non sempre pre-visti, metafora di cui è riccamente intessuta l’opera freudiana.

Il corpus sui cui tale ipotesi è messa alla prova è dato dall’insieme degli scritti freudiani sui

casi clinici; in che modo Freud ha fatto ricorso alle metafore, nel rendere il racconto sui casi?

La metafora, nel suo essere ponte tra mondi, potrebbe rappresentare con maggiore evidenza,

nel tessuto del linguaggio scritto, un corpo del testo, tale da significare una apertura

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all’incontro con il lettore/interlocutore? E come poter mantenere tale vitalità dell’evento,

senza cadere nel linguaggio reificato, per eccesso di astrazione?

1. Metafora e uso figurato del linguaggio

Il termine metafora proviene dal greco metaforéin, trasportare, far passare attraverso, il cui

calco latino è transferre, da cui la parola transfert. La metafora è una figura retorica su cui sono

fioriti molti studi, sin dall’antichità, e diverse concezioni.

Secondo quanto riportato alla voce “Metafora” della grande enciclopedia UTET, una di

queste concezioni intendeva la metafora come una sorta di paragone abbreviato, una sorta

di similitudine. Con ’uso traslato del linguaggio’ si intendeva qui la possibilità del parlante di

sostituire una parola con un’altra, con la quale ha rapporti di somiglianza.

Un esempio: il dire “Hans è un piccolo investigatore” al posto di “Hans è un bambino

intelligente, che indaga e si muove come fosse un investigatore”.

Secondo un’altra prospettiva però, questo uso ristretto della metafora non rende ragione della

maggior parte di esse, costruite piuttosto come frasi, ad esempio quella che troviamo in “un

discorso già bell’impacchettato”. In questa prospettiva, la metafora arriva piuttosto a

coincidere con l’uso figurato del linguaggio.

Di fatto, come ci spiegano i teorici della linguistica generativa, la metafora si presta più di

altri artifici retorici ad essere compresa intuitivamente dai parlanti.

Secondo Aristotele, che per primo ne indagò la natura, la metafora consiste “nel trasferire a

un oggetto il nome che è proprio di un altro” (Poetica 21, 1457b), una sorta di trasgressione

dell’uso proprio di una parola, che ne allarga i confini. Aristotele nella Poetica indica come la

capacità di costruire metafore sia segno della dote naturale di “ben vedere le somiglianze”, il

“saper vedere ciò che è simile”.

Aristotele – nello scritto sulla Retorica – ne rileva inoltre il carattere conoscitivo: mediante la

metafora si perviene a conoscenza: noi apprendiamo soprattutto dalla metafora (p.202, ed. 1961). Grazie

al “comporre le cose sotto gli occhi” la metafora fa vedere all’improvviso che questo è quello,

ed in questo, crea conoscenza. Un sapere di altro tipo, rispetto a quello analitico, piuttosto

“un sapere incoativo, poietico, approssimativo” che possa quindi rendere la molteplicità dei

significati dell’essere (Guastini, 2005, p.12).

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Nei trattatisti dei secoli successivi, la concezione legata alla metafora come strumento di

conoscenza venne però surclassata da un’altra concezione, che sottolineava invece di questa

figura retorica il carattere ornamentale, di abbellimento del discorso, o vi notava la capacità

inventiva e creativa dell’autore. Ad esempio nel ‘600 il Tesauro ne sottolinea la “argutezza”

nella “brevità”, che è motivo di novità , grazie alla quale la metafora induce “maraviglia, la

quale t’imprime nella mente il concetto”. Secondo tale visione è dunque un artificio

linguistico, che consente alla mente di ricordare.

La considerazione della originarietà della metafora è centrale in G.B. Vico, autore poi ripreso

da Donald Spence per le sue argomentazioni, come da Arnold Modell. La metafora viene

da Vico concepita quale modo naturale e primitivo, poetico, di spiegare l’ignoto; si tratta

quindi di una forma originaria del linguaggio, che secondo Vico nasce appunto dall’esigenza

di esprimere un sentire commosso.

La linea secondo la quale la metafora non è tanto un ornamento, quanto uno strumento di

conoscenza, riaffiora anche nella posizione di autori, a partire da Lakoff e Johnson (1982) e

nella teoria della metafora concettuale: la metafora è qui considerata quale un ‘modello’,

presente come meccanismo all’interno del linguaggio quotidiano, che nello stesso tempo crea

il nostro modo di vedere la realtà e lo manifesta. Grazie alla metafora concetti di ambiti

lontani possono condensarsi, le idee e le rappresentazioni del mondo possono interagire e

aiutarci a procedere nella comprensione delle cose.

Ovvero, piuttosto che una figura retorica del linguaggio, in tale prospettiva concettuale la

metafora assume la configurazione di una modalità del pensiero di rappresentare ed

organizzare il nostro mondo, mediante la realizzazione di una corrispondenza tra due domini

concettuali (ad esempio, la vita come viaggio). La metafora, secondo la prospettiva della

linguistica cognitiva, nasce ed è radicata nell’esperienza del nostro corpo, è “embodied”. Per

descrivere qualcosa di non noto, il linguaggio – modalità del pensiero - si appoggia ad un

elemento più conosciuto e concreto, che rintraccia nella stessa esperienza della persona

(Evola, p.69). Una ulteriore caratteristica della metafora, secondo i linguisti – caratteristica

che ci tornerà utile nel proseguo delle riflessioni - è che, con l’utilizzo corrente, essa può

sparire nelle pieghe del linguaggio, ovvero non essere più colta come tale (ad esempio, come

nella espressione “Allora, vuoi piantarla?” in cui il richiamo all’ambito botanico non è quasi

più avvertito dai parlanti). Diviene silente, perde la sua carica significativa.

Un altro vertice di osservazione ci è fornito dallo studio della intenzionalità del linguaggio,

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proposta da Searle all’interno della sua teoria sugli atti linguistici (si veda in Sbisà, 1999, rev.

2005). Il dire, il proferire enunciati è considerato come un compiere atti, un ‘fare qualcosa’.

Dire è fare qualcosa: il parlante che compie un atto linguistico intende produrre un effetto

sull’ ascoltatore. A guidare il parlante è una intenzionalità.

Dal suo confronto con la linguistica contemporanea, e in accordo con la teoria moderna

della metafora, Paul Ricoeur, filosofo attento ad interrogare il campo della psicoanalisi, sposa

la tesi che occorra una teoria semantica, legata al significato, e non più retorica, della

metafora: la metafora riguarda l’interazione tra campi di significato Nella metafora “si

esprime un linguaggio che, attraverso un senso doppio, una molteplicità di sensi, crea un

evento di pensiero e lo crea proprio grazie a quella scintilla che scocca quando si incontrano

molteplici campi semantici” (2007, p.121-122). E la associa al linguaggio poetico, alla

dimensione creativa e immaginativa del linguaggio. Nel rompere i legami logici preliminari, il

discorso metaforico gioca una funzione euristica, estende i confini della polisemia. Le

metafore “vive” estendono il vocabolario ed incrementano il nostro modo di sentire (1975,

pp. 250-51).

Queste metafore autentiche sono al medesimo tempo ‘evento’, avvenimento, e vengono

comprese come ‘senso’ (2006, p.262). Sono un nuovo significato che appare in un nuovo

contesto: “un discorso metaforico ha il potere di ridescrivere la realtà, ed è qui, credo, la

funzione ultima del linguaggio poetico, di aprire cioè una nuova visione delle cose rompendo

i legami logici preliminari.” (2006, p. 253). In tal modo, giocando una funzione euristica, le

metafore nuove estendono i confini della polisemia, rompono le categorizzazioni,

stabiliscono nuovi legami logici. L’effetto è però, continua Ricoeur, legato al contesto in cui

l’evento/metafora si produce, in quanto è in quel contesto che essa acquista un senso. Lì la

metafora è “autentica”, ovvero “metafora viva” .

Ricoeur ci dice anche un’altra cosa: che quando la metafora è adottata da una parte influente

della comunità della lingua diventa una significazione usuale, e va ad aggiungersi alla

molteplicità di senso. Ma, in questo momento, diviene metafora morta. Quando ha portato

a compimento il suo processo di accrescimento di senso, diventa “morta”: entra a far parte

di un codice-lingua.

Nella conferenza su “Immagine e linguaggio in psicoanalisi” del 1976, Ricoeur argomenta

come la psicoanalisi estenda il linguaggio, verso i “confini oscuri”, verso “le regioni alogiche

della vita” (2007, p.94), e come l’immagine conservi una dimensione semiotica; vede inoltre

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un procedimento attuato da Freud, nella ricerca di raffigurabilità: definita un “processo

generale per procurare un’immagine al concetto” (ivi, p.109).

Un’altra prospettiva ce la apre Curi (2009), quando, risalendo alle radici dei modi per dire

‘parola’, ci mostra una distinzione assai meno assiomatica di quella che appare nel linguaggio

comune. Nel linguaggio comune infatti, il termine ‘mitico’ indica abitualmente qualcosa che

appartiene ad un passato irrazionale, una creazione fantastica in contrasto con le conquiste

della scienza, che si avvale invece del discorso logico e razionale, del lógos. Ma nei poemi

omerici, i primi documenti scritti della nostra cultura, il lógos è ciò su cui si è ponderato, e può

essere usato per convincere, mentre mýthos indica “la parola che fornisce notizie oggettive e

che è investita di una particolare autorità” (p.11), equivalente di ‘storia’.

Di più, cogliendo le sfumature della intenzionalità del linguaggio – che sgorga, risuona,

convince, testimonia - la lingua greca ricorreva a quattro termini principali, per indicare il

termine parola: accanto a lógos e mýthos, anche rhema ed épos.

Se “rhema (da rheo, scorro) designa propriamente la parola ‘che sgorga dalla bocca’, épos (come

il latino vox) è la parola come sonorità vocale, il discorso nella sua successione, lógos è la parola

nel senso di ciò che è pensato, espressione dell’intelletto che calcola, mentre mýthos è la

testimonianza immediata di ciò che è stato, è e sarà, insomma il discorso nella sua

oggettività.” (p. 12). Così che per indicare la parola di verità del re Priamo si ricorre al termine

mýthos, mentre i discorsi astuti di Ulisse sono detti lógoi. E però il discorso del mýthos – forse

da mýo, onomatopeico per ‘parlare con labbra serrate’, indicherebbe un discorso formulato

in modo tale da dovere essere interpretato – da cui poi deriverà la distorsione di significato

nell’erroneo.

2. Qualcosa su metafora e psicoanalisi

Che si dice delle metafora, in psicoanalisi? I vertici di osservazione della metafora, nel

contesto analitico, sono molteplici: secondo gli assi linguaggio parlato/testo scritto, metafora

viva/metafora morta. Ovvero:

- metafora nel dialogo clinico, nell’uso che ne fa la coppia analitica;

- metafora come è utilizzata da Freud, per poter dire là dove non c’erano ancora parole;

- metafora come espressione di vita, di apertura ad ulteriori significazioni;

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- metafora nel suo abuso, nell’eccesso di metaforizzazione all’interno della costruzione

teorica freudiana.

L’aspetto vitale, di apertura verso il reale del linguaggio analitico, è un tema ben avvertito

all’interno del rapporto dialogico tra paziente ed analista.

Come parola sentita – a partire dal Freud di rappresentazione di cosa e di rappresentazione

di parola - come ricorda Bolognini (2008), ovvero parola che non sia sconnessa da altre

rappresentazioni, dagli affetti e dalle pulsioni. Isolata dalla traccia mnestica, la parola diviene

invece vuota, “un frammento freddo senza vita e senza senso” (p. 51).

La centralità di un linguaggio che riesca a veicolare l’affetto era stata sottolineata anche da

André Green (1991).

Green ricorda come la funzione principale della lingua non risieda nell’ambito della logica,

ma della vita. E pone la distinzione tra due aspetti, che vede compresenti nella lingua: un

primo aspetto è quello creativo, in cui si mostra l’impatto della tendenza espressiva, a partire

dalla soggettività e dalla affettività.

Un secondo aspetto è quello invece della tendenza analitica, che opera per trasformare la

parola in segno; mentre il primo aspetto, quello espressivo, è teso a compiere un’azione (ad

esempio di difesa, di ritiro o di offesa), il secondo mira a ristabilire rapporti di causalità.

La necessità di parole che rimangano vive e possano veicolare la vita dell’esperienza umana

è espressa anche da Ogden (1997). In questa “forma d’arte” (p.11) come quest’autore

definisce la psicoanalisi, occorre che le parole siano vive, ovvero che conservino una certa

indeterminatezza, e riescano ad aprire alla immagine; è in questo modo che il linguaggio, dice

Ogden, può significare “l’esperienza umana vitale” (p. 8).

“Il discorso analitico richiede che la coppia analitica sviluppi un linguaggio metaforico

adeguato alla creazione di suoni e significati” (p. 112). Il linguaggio evocativo può comunicare

che non esiste un punto fermo di significato, e in questo “abbia in sé la tensione di un

costante processo di creazione di senso” (p. 117).

Ogden contrappone dunque a tale linguaggio vivo, parlato dall’analista con la propria voce

allo scopo di comunicare la propria esperienza come processo in divenire, un altro linguaggio,

quello trito e stereotipato. Un linguaggio saturo di ideologia. In definitiva, un linguaggio

morto.

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Arnold Modell (2003) vuol evidenziare la funzione creatrice e trasformativa della metafora.

Ricongiungendosi a G.B.Vico, come poi agli studi di linguistica ed a scoperte delle moderne

neuroscienze, presenta la metafora come una forma primaria del pensiero, poi incorporata

nel linguaggio, una abilità cognitiva basilare e propria dell’uomo, che funziona come un

legame tra l’esperienza conscia e la memoria inconscia. E in tale processo metaforico

inconscio va collocata, per Modell, la fonte dell’immaginazione. Oltre al trasferimento di

significato tra domini diversi, vi sarebbe anche la possibile trasformazione di significato e la

generazione di nuove percezioni. Il corpo è la fonte iniziale, ed anche la fonte che alimenta

l’immaginazione autonoma: Modell arriva a definire la metafora una sorta di immaginazione

corporea.

Il ricorso e la lettura del linguaggio metaforico nella coppia analitica è stato affrontato anche

da Casonato (2003), proprio a partire dalla nozione di metafora concettuale della linguistica

di stampo cognitivo.

Ma, più in generale, posto che possiamo guardare alla metafora come un atto dotato di senso,

sia nella interazione comunicativa, che nella costruzione di un pensiero, direi che in questa

linea concettuale la metafora ci rimanda ad uno strumento/possibilità di apertura del

discorso verso l’indicibile, verso quello che non ha ancora parole per essere detto. Rispetto a

questa modalità di apertura, di rendere più aperti e dilatati i confini dell’esprimibile, a Paul

Ricoeur dobbiamo la nozione di “metafora viva”, nella contrapposizione a “metafora

morta”.

Le figure del discorso sono ciò che amplia la possibilità della parola di essere viva, di

trasmettere, far germinare….

Con le parole di Aldo Gargani la metafora viva “è una vera e propria trasgressione del

linguaggio di codice, in quanto apre costruttivamente un nuovo contesto di senso” (1995).

Qui vediamo quindi sottolineata la facoltà germinativa della metafora viva. Evocatività,

apertura, parola carica di connotazioni e di affetti…. La metafora sembra uno strumento del

linguaggio che consente di legare la componente più immaginativa, sensoriale, vitale alla parola/segno. Ciò

che consente di ampliare la dicibilità del fondo dell’essere.

Nel citare il Progetto per una psicologia freudiano (1895, p.281), Semi (2003) paragona l’uso della

metafora al “giocherellare tra la cosa con i suoi attributi e le informazioni provenienti dal proprio

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corpo, per cercare di definire queste ultime” (p.87) e formula l’ipotesi che la metafora

riproduca il linguaggio ‘sfocato’, ciò che rimane del tentativo, nella crescita, di descrivere

l’esperienza del proprio corpo.

D’altra parte, ancora a proposito dell’utilizzo in analisi della metafora, Semi se ne sottolinea

l’effetto di allargamento rispetto al significato di una comunicazione (p. 87), segnala che però

tale allargamento non è libero: la metafora imprime al significato anche una determinata

direzione (p.93).

Emerge qui, a proposito della metafora e dei suoi effetti, piuttosto che la libertà creativa, il

concetto di vincolo, la predeterminazione. Posizione espressa poi anche da Spence nella sua

critica al testo freudiano.

Se ora ci spostiamo di vertice, dallo scambio in presenza alla lettura: se nell’uso che ne fanno

l’analista, o il paziente in seduta, siamo nell’ordine della comunicazione orale, possiamo

chiederci quale effetto la metafora produca nella trasmissione di un pensiero tramite la parola

scritta.

Se infatti anche le metafore sono ‘embodied’, fondate sul corpo, è anche veicolata dal corpo

la trasmissione e la comunicazione intenzionale, nell’incontro psicoanalitico che dice della

disponibilità dell’analista: come disponibilità ad andare verso l’altro, a partire dal proprio

corpo (Schiappadori, 2000).

Se il linguaggio è azione, nel parlato - evocatività, interpretazione, trasmissione, aspetto

connotativo del linguaggio, parola carica di risonanze emotive - il testo scritto ci pone dinanzi

ad un interrogativo; possiamo chiederci a chi si rivolge l’autore, e che cosa intende veicolare,

e che cosa arrivi a veicolare, aldilà delle proprie intenzioni. E come noi lettori di oggi siamo

chiamati a leggere quel testo.

3. Sulla scrittura metaforica in Freud

Il dibattito vede contrapporsi una prima prospettiva, di chi ritiene l’utilizzo della metafora

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nella scrittura e teorizzazione freudiana un residuo non degno di una moderna posizione

scientifica, ed una seconda prospettiva, che richiama invece da un lato all’ineludibile

questione del linguaggio clinico intriso di immagini, e dall’altro invita a cogliere nelle metafore

freudiane la vitalità di modelli ancora utili per la progressione del pensiero psicoanalitico.

Conviene innanzitutto, con Petrella (1988), proporre una ripartizione tra due generi del

corpus freudiano: testo clinico, che lavora sulle osservazioni e pone in connessione le

evidenze, e testo metapsicologico, deputato al compito della costruzione teorica della

psicoanalisi.

E’ stato criticato l’abuso del ricorso ad un linguaggio metaforico in psicoanalisi (ad esempio

è la posizione espressa da Falci, 2009), dal punto di vista di chi ritiene che la psicoanalisi

odierna necessiti di integrare le nuove acquisizioni derivanti dalle scienze della mente e di

procedere ad uno smontaggio dall’eccesso di metaforizzazione che è sentito caratterizzare

oggi i modelli psicoanalitici.

Tale posizione fa risalire tale prevalenza metaforizzante agli scritti metapsicologici di Freud,

gli scritti attorno al 1915 in cui Freud elabora un modello teorico della mente, in grado di

spiegare il funzionamento dell’apparato psichico (In nota: ma anche, elenca Petrella 1988: il

cap. 7 dell’Interpretazione dei sogni, del 1899, Precisazioni sui due princìpi dell’accadere psichico del

1911, Metapsicologia, del 1915, Al di là del principio del piacere, del 1920, L’Io e l’Es del 1922, il

Compendio di psicoanalisi del 1938.)

La metafora viene respinta, in quanto segnale di un versante non scientifico, che conferisce

un’aura di sacralità al testo, che diviene non-discutibile. Nel rifiuto della metapsicologia c’è

l’avversione ad un eccesso di linguaggio metaforico, di un sistema conoscitivo che viene

considerato come basato su metafore.

Una lettura dell’aspetto ideologico, in quanto insito e proprio di una costruzione teorica, ci

era stato offerto da Franco Fornari (1986).

Il suo esempio di un procedimento di lettura del testo in chiave metaforica ci ha mostrato

come ogni teoria sia in realtà passibile di una lettura sintomale-ideologica, grazie alla stessa

“struttura metaforica del testo” (p. 51) che ci può dire qualcosa sulla visione del

mondo/ideologia che lo sottende.

Percorrendo il testo come fosse un sintomo, Fornari trova le metafore della vita e della morte

nel testo freudiano che descrive il costituirsi della teoria scientifica; il linguaggio scientifico

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stesso contiene infatti un “transfert onirico inconsapevole” (p. 54) e l’autore ci accompagna

nella lettura delle metafore utilizzate da Freud: la lettura del testo come sintomo mostra una

scena in cui la resistenza viene presentata con le modalità linguistiche proprie del parto: la

resistenza è qualcosa che ‘lega’.

Così, nella Introduzione alla psicoanalisi le metafore del ‘legare ‘ e dello ‘sciogliere’ rimandano

ad una scena in cui il compito del medico è come una liberazione da legami (‘sciogliere le

libido dai suoi legami attuali, sottratti all’Io” (e cita il Freud, 1915-1917, p. 408), una

ricomposizione in altri legami, nel transfert, e una successiva liberazione. Una sorta di scena

mitica in cui il padre-che cura sottrae alla madre incarcerante il bambino e lo libera.

In un altro contesto culturale, troviamo la posizione di Kopp (1995), che sottolinea come le

interpretazioni che fanno ricorso a concetti teorici (e riporta esempi come il parlare di oggetti

interiorizzati, o di seno buono e seno cattivo ecc.) utilizzino “metafore teoriche che

riflettono la struttura metaforica della teoria.” (p. 124, in corsivo nel testo).

Quindi, un uso ‘ideologico’ della metafora, che riflette in realtà un modo ‘ideologico’ di

riferirsi alla teoria. Chiuso.

Una serrata critica della teorizzazione freudiana è mossa da Donald Spence (1987) ne La

metafora freudiana: negli scritti freudiani, secondo Spence, le metafore, scambiate per assunti

di tipo scientifico, sono divenute parte integrante di un sistema teorico. Quando sono

assunte come realtà, e non come provvisorie costruzioni che facilitano il pensiero, scambiate

per teorie, per una realtà realmente descritta, divengono morte.

Certo, inizialmente Spence riconosce “la natura poetica del linguaggio di Freud” (p. 19), in

quanto creativa e innovativa, necessaria a mettere in parole l’indicibile e l’impensabile, poi

però mette in guardia dalla deriva di significato che la metafora, in modo insidioso, porta con

sé.

Vi è infatti – nota Spence - una caratteristica infida, insita nella stessa metafora. La metafora,

sostiene Spence, non è neutra, in quanto piuttosto predispone il lettore (che non rimanga

consapevole del fatto che di metafore si tratta), ad una visione del mondo pre-formata. – ad

es. conduce ad una visione di inconscio come profondità/nascondimento. Queste metafore,

fissate, irrigidite, divengono secondo l’autore un impedimento allo sguardo libero sulla realtà,

al vedere altro, al notare il nuovo.

Spence si sofferma in particolare sulla visione proposta dell’inconscio, dell’attenzione

fluttuante, dell’analista come investigatore alla Sherlock Holmes, che si muove alla ricerca di

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una verità che è pensata esistere, dietro il mistero. Ma sono metafore, non assiomi.

Trasformarle in verità, in pseudo-scienza, è come reificarle in una religione/stereotipo. E’

quel che è accaduto nello sviluppo della teoria.

La metafora di inconscio. Spence mostra come, nello sviluppo della teoria, le metafore divengano

più reificate. Ad esempio, a proposito di inconscio, distingue tra la nozione di inconscio come

sostantivo: qualcosa, dotato di struttura, con proprie regole di funzionamento; e inconscio

usato come aggettivo, che corrisponde a qualcosa di non accessibile alla consapevolezza. Se

nel 1915 l’inconscio è una immagine circoscritta, nel 1932 diviene “crogiuolo”. Il passaggio

a divenire un postulato, per il quale non c’è bisogno di prove, è breve. Diviene una ‘entità’

con vita propria, e dà luogo ad una particolare lettura del materiale clinico, ad esempio

quando trattato come un vero campo di forze, anziché come ipotesi di lavoro.

Svincolate dall’osservazione, assunte come realtà, le metafore vengono camuffate da scienza.

Limitano inoltre la nostra visione del mondo: e porta l’esempio, tra gli altri, della metafora

archeologica. E’ connessa con un significato di profondità, di vero come nascosto, sepolto.

Altra cosa dal processo di comprensione, di chiarificazione che coinvolge la nostra

intenzionalità. La sfida proposta da Spence è di mantenere le metafore del testo vive,

mediante la presa di coscienza della loro provvisorietà. Occorre usarle, non farsene usare.

Nell’assunto idealizzante di super-concetti che già dovrebbero contenere il loro sviluppo,

Gargani nota “un insidioso mito filosofico”, dove “abita la seduzione della sicurezza, abita il

delirio di onnipotenza della sistematizzazione epistemologica” (Gargani, 2000, p. 251).

Semi (2003) segnala la cautela già di Breuer, che avvertiva il rischio di dimenticare che si tratta

di una metafora, e di manipolarla come reale, e indicava il rischio che la parola rappresentativa

collassasse in un secondo momento sul termine concreto, “venga giudicata come se fosse

reale” (p. 94).

Scriveva Breuer: “E’ fin troppo facile cadere nell’abito mentale di supporre una sostanza

dietro un sostantivo, di vedere poco per volta un oggetto dietro il concetto di “coscienza”, e

quando ci si è abituati a usare metaforicamente relazioni locali, come nel caso di

“subconscio”, con l’andar del tempo si sviluppa realmente una rappresentazione ove la

metafora è dimenticata e che possiamo manipolare facilmente come fosse reale. Allora la

mitologia è completa”. (Breuer, Considerazioni teoriche, p. 372).

Ma questa mitologia secondo Semi fu assunta da Freud in modo consapevole: si avvaleva

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delle metafore come di “rappresentazioni ausiliarie, strumenti” (p.33), nell’attesa di vedere

dove va il pensiero.

D’altro canto, avvertendo come abbia una notevole importanza, “la scelta delle metafore

durante il compito teoretico” (p.109), Semi invita a spogliarsi delle metafore neurologiche,

oggi a suo avviso non più utili.

Ad un utilizzo critico della metafora invita Petrella, che ha dedicato numerosi contributi alla

metafora in Freud, e ad un suo uso creativo e imprescindibile nella clinica; è appunto il

“ricordare e valorizzare l’essenza metaforica del lessico psicoanalitico” (2010, p.379) che può

sciogliere, egli afferma, le cristallizzazioni della terminologia metapsicologica. Alla fine, la

metapsicologia è “la nostra mitologia” (1988, p.106).

Secondo Petrella, la psicoanalisi non può abbandonare le immagini, per la pretesa di esser

più scientifica: e non va nemmeno relegata, la metafora, a livello rudimentale di pensiero, o

ad ostacolo epistemologico. Perché il desiderio di costruire immagini è proprio dell’uomo,

quando attua donazioni di senso, e “con lo psichico ci si muove essenzialmente entro

paradigmi metaforici” (Petrella 2008, p. 189).

E considerare le immagini del testo freudiano ci aiuta a comprendere come Freud configuri

il campo analitico (ad esempio, nell’intendere la interpretazione come puzzle, o l’analisi come

attività archeologica); le metafore freudiane sono appunto “rivelatrici” (1987, p. 186), aiutano

a comprendere alcuni aspetti teorici essenziali. Le metafore divengono delle sorti di modelli-

guida per entrare nella visione di cura e di mente di Freud. Inoltre, per Petrella la concezione

idraulica-energetica consente un linguaggio ad esempio per le “piene degli affetti” (1990,

p.963), la metafora archeologica per mostrare il ruolo del passato, ma anche che “tutto rivive

nel presente, in un’animazione sorgiva e relazionale” come nella attualizzazione narrata in

Gradiva (ivi, p.963).

Le metafore, in un contesto di linguaggio scritto, possono mantenere una valenza di

strumenti comunicativi che lasciano un alone di apertura e sono ponte a nuovi significati,

non sempre pre-visti? O nella scrittura, inevitabilmente finiscono per collassare nel

linguaggio ‘naturale’, ‘ovvio’, non essere più avvertite come tali, con il rischio di una deriva

da comunicazione efficace a strumenti di spiegazione di una presupposta realtà?

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4. Comunicazione tra analisti e rapporto con il testo

Freud si indirizzò ai contemporanei, discepoli, detrattori, mondo scientifico… ma anche ai

lettori a venire; era presente il problema di comunicare rispetto ad un ambito di sapere in

costruzione. In questa opera di costruzione, come ha fatto ricorso alle metafore? Quale lo

scopo, e quali gli effetti?

Come è attraversato, il discorso freudiano, dal vertice parola viva/parola morta?

Può avere un effetto vivificante, germinativo sul lettore? O di chiusura prospettica, di

predeterminazione del pensiero a venire?

In una prospettiva che consideri il punto di vista dell’allievo /prosecutore, che si ponga in

un rapporto di filiazione, qual è il compito della nuova generazione?

Parlando della tradizione biblica, Michel de Certeau, gesuita tra i fondatori del gruppo

lacaniano, segnala un compito, da parte dei prosecutori di una tradizione: il “dovere attuale

di inventare” il presente linguaggio (1993, p.103).

Il rischio insito in un linguaggio del passato è di essere preso altrimenti “dalla generazione

successiva come un ‘dato’ che la dispenserebbe dal fare essa stessa il movimento che quello

esprime” (ivi, p.103).

Quindi in qualche modo il lettore e interprete nell’oggi è invitato ad un dovere, quello di

ripercorrere un movimento esplorativo, di rendere vivo per sé un linguaggio, e un pensiero,

che non è solo un ‘già dato’.

H.G. Gadamer, in Verità e metodo, del 1960, si sofferma sul diritto di ogni generazione di

interrogare il testo della tradizione, e dell’importanza di essere consapevoli di un proprio pre-

giudizio, o meglio pre-comprensione, in quanto anche l’interprete è calato in una storia, e

deve essere cosciente di tale determinazione storica. Ciò che è tramandato è contemporaneo

di qualunque presente (2004, p.448), e comprendere un testo è riattualizzarne il senso,

renderlo partecipe ad un senso presente. E anzi, ci ricorda come non sia lecito delimitare il

significato di un testo in quanto diretto agli allora contemporanei, o quale espressione della

sola soggettività dell’autore: “L’orizzonte di significato della comprensione non può lasciarsi

circoscrivere né dall’intendimento originario dell’autore, né dall’orizzonte effettivamente

proprio del destinatario per cui il testo fu originariamente composto” (ivi, p. 454).

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Cosa accade nella lettura e interpretazione di un’opera? Posto che conviene distinguere tra la

relazione tra parlare-ascoltare e la relazione tra scrivere-leggere, Paul Ricoeur propone una

concezione di circolo ermeneutico in cui il testo scritto è un mondo, un insieme aperto, con

il quale il lettore si confronta.

A partire da Gadamer e dal suo concetto di “fusione degli orizzonti”, scrive Ricoeur “di

fronte ad un’opera “io mi faccio disponibile alla possibilità d’essere al mondo che il testo apre

e scopre per me“ (2006, p. 271). Questo confrontarsi, non è un atto di proiezione, o un

semplice incontro tra due soggettività, “è piuttosto lasciare l’opera e il proprio mondo elargire

l’orizzonte della comprensione, che prendere da se stessi” (ivi, p.272). Di fronte al testo, il

lettore si comprende.

Salomon Resnik nei saggi Sul Fantastico ci presenta una modalità di rapporto a tu per tu con

l’opera d’arte. Attraverso l’opera, l’autore parla. Il testo scritto dall’autore, dice Resnik

riferendosi alla sua lettura di Dostojevski, “è ‘corpo letterario’ che si mostra, si muove in un

certo modo, parla al lettore e agisce su di lui” (1996, p.106).

Di lettori-interpreti di fronte all’opera freudiana parla d’altro canto Petrella (1987, p. 187).

Ci si può anche chiedere se l’obiettivo della trasmissione di un linguaggio che rimanga vivo,

dotato di proprietà germinative (idealmente, una eredità da far fruttare), non si scontri quasi

inevitabilmente con un’altra tendenza, che vede la preminenza di un interesse per la

sistematizzazione di un sapere, quindi di un linguaggio più spostato sul versante definitorio,

utile alla creazione di una scuola e di discepoli. Un problema di tipo conflittuale.

O forse ha a che fare con la tendenza della metafora a non farsi più notare, venire colta come

un termine letterale, senza che venga più colta la concezione sottostante? Ad essere una sorta

di ovvio, banale non visto?

5. Alcune metafore e immagini freudiane

Freud si trovò di fronte al compito di inventare un nuovo linguaggio, per trasmettere nuovi

significati, e fece ampio ricorso alle figure del discorso, come analogie, metafore, similitudini;

come vediamo in questo brano della Introduzione alla psicoanalisi, si mostrava ben consapevole

dell’uso della parola come atto:

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“Originariamente le parole erano magie e, ancor oggi, la parola ha conservato molto del suo

antico potere magico. Con le parole un uomo può rendere felice l'altro o spingerlo alla

disperazione, con le parole l'insegnante trasmette il suo sapere agli allievi, con le parole

l'oratore trascina con sé l'uditorio e ne determina i giudizi e le decisioni. Le parole suscitano

affetti e sono il mezzo comune con il quale gli uomini si influenzano tra loro. Non

sottovaluteremo quindi l'uso delle parole nella psicoterapia e saremo soddisfatti se ci verrà

data l'occasione di ascoltare le parole che si scambiano l'analista e il suo paziente.”

(OSF VIII, p. 201).

Ne Il problema dell’analisi condotta da non medici (1926), ne aveva data una versione meno

compassata, scrivendo, a proposito della cura tramite solo parole, che però non dileguano

magicamente la malattia: “Del resto, non dobbiamo neppur disprezzare la parola. Essa è uno

strumento potente, il mezzo col quale comunichiamo i nostri sentimenti, la via attraverso la

quale possiamo influire sul nostro prossimo. Le parole possono fare un bene indicibile e

ferire nel modo più sanguinoso. Certo in principio era l’Azione; e il verbo è venuto solo più

tardi, e gli uomini hanno sotto un certo riguardo fatto un gran passo nella via della civiltà

quando l’azione si è attenuata in parola. Ma la parola era pure un sortilegio, un atto magico;

ed essa ha tuttora conservato gran parte della sua antica efficienza.” (p. 356).

Che utilizzo delle metafore, analogie, immagini del discorso?

Come ha sottolineato Bolognini (2008, p.56) anche Freud metteva sull’avviso, rispetto al

rischio di pensare in termini astratti, di parlare di parole sconnesse dalle emozioni, e gli

riconosce la capacità di farsi intendere da tutti “grazie alla sua straordinaria creatività come

inventore di metafore” (p. 58), e cita L’inconscio, del 1915: “Se pensiamo in termini astratti

corriamo il rischio di trascurare le relazioni delle parole con le rappresentazioni inconsce

delle cose; e non si può negare che il nostro filosofare acquista allora un’indesiderata

somiglianza, nell’espressione e nel contenuto, con il modo di fare degli schizofrenici” (OSF

VIII, pp. 87-88).

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In Pulsioni e loro destini del 1915 Freud, come ci ricorda Petrella (2010) narra la dinamica che

porta da una situazione iniziale di indeterminatezza a “concetti chiari ed estesamente

definiti”, (OSF VIII, p. 13) attraverso una fenomenologia di raccolta di dati osservabili.

E in Introduzione al narcisismo del 1914, a proposito del ricorso a nozioni come la libido dell’Io,

energia delle pulsioni dell’Io, Freud aveva ricondotto la psicoanalisi alle scienze fondate

sull’interpretazione empirica, che si accontenta “di alcuni sfuggenti e nebulosi principi di

fondo di cui non riesce quasi a farsi un concetto, sperando che essi si chiariscano strada

facendo e ripromettendosi di sostituirli eventualmente con altri” (OSF VII, p. 447).

Nell’affermare poi che tali principi sono come il tetto di una costruzione, da cui sa di essere

partito, anziché le fondamenta, Freud qui sembra dimostrarsi consapevole del carattere di

provvisorietà proprio di quelli che chiama concetti, ma che potremmo anche chiamare

metafore.

Negli Studi sull’isteria del 1895, all’interno del capitolo teorico Psicoterapia dell’isteria, Freud

aveva parlato esplicitamente del suo servirsi di similitudini, pur riconoscendone la limitata

somiglianza con il tema e tra di loro neppure concordanti, in quanto guidato dall’intenzione,

afferma, “di rendere intuibile da vari punti di vista una situazione mentale estremamente

complessa e mai sinora descritta, per cui mi prendo la libertà di far uso di paragoni” (OSF I,

p. 426-427).

Le similitudini, quindi al plurale, sono esplicitamente utilizzate come strumenti utili ad

ampliare i punti di vista.

E del resto, il versante più narrativo che rigoroso della produzione clinica era stato così

indicato, sempre negli Studi: “che le storie cliniche che scrivo si leggono come novelle e che

esse sono, per così dire, prive dell’impronta rigorosa della scientificità” (OSF I, p.313).

Nel 1918, in Vie della terapia psicoanalitica, si serve peraltro dei limiti del linguaggio e dei

paragoni, per rigettare la “psicosintesi” come nuovo compito, dopo il lavoro della analisi:

“Lo psichico è qualcosa di così peculiarmente unico, che non c'è similitudine particolare che

possa rendere la sua natura. Il lavoro psicoanalitico presenta delle analogia con l’analisi

chimica, ma anche con l’intervento del chirurgo, con l’opera dell’ortopedico, o con l’influsso

dell’educatore” (OSF IX, p. 21)

Il “pensiero visivo” che pure viene considerato ne L’Io e l’Es del 1923 un “modo assai

incompleto di divenire cosciente” (OSF IX, p. 484), in quanto, sostiene Freud appoggiandosi

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a quanto si constata nello studio dei sogni e delle fantasie preconsce, è il materiale concreto

del pensiero a divenire cosciente, e non le relazioni del pensiero – è anche riconosciuto come

più vicino ai processi inconsci; è accolto anche il dato di fatto che per molte persone “il

diventare cosciente dei processi di pensiero si realizzi attraverso il ritorno di residui visivi”

(ivi, p. 484). ”Un tale pensare è inoltre in certo modo più vicino ai processi inconsci di quanto

lo sia il pensiero in parole, ed è indubbiamente più antico di questo sia ontogeneticamente

che filogeneticamente”.

Quindi una sorta di antecedente primitivo del pensiero per parole.

Lo scritto dialogico di difesa della psicoanalisi e della possibilità per i non medici di esercitarla

(Il problema dell’analisi condotta dai non medici, del 1926) appare particolarmente illuminante per

comprendere sia il ricorso voluto, da parte dei Freud, al linguaggio-immagine, sia anche come

viene operato il passaggio di queste immagini ai concetti teorici.

Ad esempio, per illustrare le connessioni e il funzionamento dell’apparato psichico, e in

particolare per “rendere intuibile la relazione fra l’Io e l’Es” Freud comunica al suo

immaginario interlocutore che “Le descrizioni in psicologia possono farsi solo con l’aiuto di

paragoni.” che poi si è “costretti a mutare frequentemente” in quanto non risultano utili a

lungo (OSF X, p.363). Il punto di vista spaziale e i termini collegati (avanti e indietro,

superficiale e profondo) sono dapprima un invito a rappresentarsi tale relazione:

“Volendo rendere intuibile la relazione fra l’Io e l’Es, La pregherei di rappresentarsi l’Io come

una sorta di facciata dell’Es, come un avancorpo, o come lo strato esterno, superficiale

dell’Es.” (ivi, p. 363).

L’analogia viene portata avanti: l’Io è quello strato dell’Es che è stato modificato dall’azione

della realtà e conclude: “Lei vede bene con ciò come noi in psicoanalisi prendiamo sul serio

i concetti spaziali. L’Io è per noi veramente la superficie, e l’Es il profondo, considerato dall’esterno

naturalmente. L’Io si trova intercalato fra la realtà e l’Es, che è propriamente lo psichismo.”

(ivi, p. 363, in corsivo mio).

Quello che era una immagine utile a rappresentarsi una modalità di relazione, con ricorso ad

una metafora spaziale, passa a statuto di realtà. Il ‘come se’, il livello ipotetico, passa a

concezione teorica.

Alla ricerca di un principio esplicativo rispetto al così assiduo ricorso all’uso delle metafore

da parte di Freud, Bruno Bettelheim (1984) individua tre ordini di motivi, che coinvolgono

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anche la natura della psicoanalisi stessa. In primo luogo, le metafore servirebbero a gettare un

ponte sullo scarto tra gli eventi e ciò che sta loro dietro, gli aspetti immaginativi. In secondo

luogo, “l’inconscio si rivela in simboli o metafore e la psicoanalisi, per entrare in contatto con

l’inconscio, cerca di usare il suo linguaggio metaforico” (p. 38). In terzo luogo, la metafora nello

stimolare le nostre emozioni riesce ad agire a livello di una comprensione non solo intellettuale

delle cose.

Propongo di cercare nella produzione clinica di Freud le modalità di ricorso al linguaggio-

immagine. L’ipotesi parte da una prospettiva fenomenologica: che considera problema dal

punto di vista dell’autore, di dare corpo e consistenza al proprio dire, di allargare il senso a

partire da un ambito già noto. E che pone il problema per il lettore/interprete di oggi, di

recuperare la vitalità del dire nella scrittura, rinnovando l’incontro con il testo.

Osserviamo la produzione di casi clinici di Freud: essa occupa una parte certo non

maggioritaria degli scritti freudiani.

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Anno di

pubblica

zione

Titolo e pazienti Modalità

incontro col

paziente

Ambito

diagnostico

Dall’Indice delle

analogie

Altre, non

indicate

1892-95

(di

Breuer:

Sig.na

Anna O.)

Studi sull’isteria

Sig.ra Emmy von N.

Miss Lucy R.

Katharina

Sig.ina Elisabeth von

R.

Di persona ISTERIA 15 immagini – con 18

ricorrenze

Breuer:

9 immagini – 14

ricorrenze

Almeno

altre 10

immagini

1895 Minuta J. Signora P.J.:

Età 27 anni

Di persona ISTERIA 0

0

1896 Osservazione di un

caso grave di

emianestesia in un

paziente isterico

Di persona ISTERIA 0 0

1901 –

Pubblicat

o 1905

Frammento di

un’analisi d’isteria

(Caso clinico di Dora)

Di persona

Inviata dal

padre

ISTERIA 7 immagini – 11

ricorrenze

Almeno 23

1906 Il delirio e i sogni nella

“Gradiva” di Wihlelm

Jensen

Su opera scritta ISTERIA 1 immagine Altre:

almeno 4

1908 Analisi della fobia di

un bambino di cinque

anni (Caso clinico del

piccolo Hans)

Di persona 1

incontro-

Comunicazioni

scritte del padre

FOBIA 0 immagini Almeno 10

1909 Osservazioni su un

caso di nevrosi

ossessiva (Caso

Di persona NEVROSI

OSSESSIVA

4 immagini

Altre 2

negli

Appunti

19

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clinico dell’uomo dei

topi)

1910 Osservazioni

psicoanalitiche su un caso

di paranoia (dementia

paranoides) descritto

autobiograficamente

(Caso clinico del

presidente Schreber)

Su opera scritta PARANOI

A

8 immagini Altre:

almeno 4

1914 Dalla storia di una

nevrosi infantile

(Caso clinico

dell’uomo dei lupi)

Di persona ZOOFOBI

A -

NEVROSI

OSSESSIVA

INFANTIL

E

4 immagini Almeno

altre 10

1915 Comunicazione di un

caso di paranoia in

contrasto con la teoria

psicoanalitica

Di persona

Inviata da

avvocato–

2 colloqui

0 immagini Almeno 3

1920 Psicogenesi di un caso

di omosessualità

femminile

Di persona

Inviata dai

genitori

OMOSESS

UALITA’

1 immagine Altre 12

20

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Che significato ha il ricorso al linguaggio-immagine? Come è utilizzato da Freud?

Per quanto concerne il ricorso alle immagini nel testo freudiano, sembra di poter distinguere

due modalità: una prima, là dove Freud ricorre esplicitamente in particolare a paragoni e

similitudini. L’Indice delle Analogie all’opera freudiana può considerarsi portatore di questa

visione più ristretta. L’analogia diviene per Freud, alle prese con il problema di inventare un

nuovo linguaggio e di farsi comprendere su un nuovo terreno, uno strumento comunicativo

intenzionale, un modo per ampliare il ventaglio comunicativo, appoggiandosi ad un elemento

di paragone già noto.

Possiamo poi rintracciare una seconda modalità, secondo la quale le parole-immagine si

insediano nel linguaggio, ne vanno a costituire la tessitura. Un conteggio della presenza delle

analogie, all’interno del corpus costituito dai casi clinici, sembra mostrarne un

ridimensionamento – ad esempio dalle 15 degli Studi sull’isteria, all’assenza nel piccolo Hans,

o all’unica del Caso di omosessualità femminile… ma in realtà, è il conteggio che si fa arduo,

posto che l’intero tessuto linguistico appare essere attraversato da metafore, forse non più

visibili o avvertibili come tali. Il passaggio all’ovvio è particolarmente apprezzabile nel caso

del piccolo Hans, attraversato dalle metafore di ambito archeologico, di ambito investigativo

e di esplorazione del terreno oscuro.

Termini come rimozione, resistenza, difesa, conflitto, frasi come ‘sprofondare nell’inconscio’

o ‘corrente libidica’ vengono colti come concetti ma sono, di fatto, metafore di una visione

di un apparato psichico, di una visione della malattia e del lavoro della terapia.

I termini sono approdati allo status di concetti, ma insieme - là dove sono scambiati per realtà

- consegnati in qualche modo ad una caduta nell’eccesso di astrazione, o, cambiando punto

di vista, ad una reificazione nella cosa.

D’altro canto, se operiamo per ricondurli alle immagini di cui sono portatori, possono aprirci

una prospettiva sulla visione della mente e sullo stesso processo di comprensione e di cura

per come è inteso da Freud.

Il corpus rappresentato dai casi clinici può offrirci l’occasione di farci comprendere qualcosa

della freudiana visione della malattia, del sintomo, della resistenza e della terapia.

Il lavoro del lettore, a corpo a corpo con il testo, può consentire, fenomenologicamente (si

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veda Armezzani, 1998, p.74) un incontro. Proviamo a vedere qual è l’uso che Freud, nei casi

clinici, fa del linguaggio-immagine.

Analisi del linguaggio: tipologie di immagini, funzioni

1 Utilizzo delle immagini portate dalla paziente, come linguaggio cui dare significato

Un primo modo parte, non a caso, dagli Studi sull’isteria, e si mostra nella attribuzione di

significato alle immagini, o alle parole ricche di immagine, portate dai pazienti.

Nelle stesse indicazioni tecniche di cui sono ricchi i casi clinici freudiani, sin dagli Studi

sull’isteria, Freud si serve anche delle immagini che le pazienti forniscono, in quanto ad

anch’esse, come le parole che vengono in mente, è lecito attribuire un significato.

Ad esempio nel caso riportato a pp. 413-415 degli Studi: la giovane donna con un dolore

all’addome, che descrive per immagini visive questo dolore, immagini che Freud prima è

tentato di liquidare, ma poi impara ad utilizzare come allegorie, che riesce a ricondurre al

campo dell’occultismo, alla Società teosofica di cui faceva parte la donna.

Forse perché le pazienti isteriche stesse sono “visive”, come Freud le ha definite, ma gli Studi

sull’isteria sono i casi più ricchi di linguaggio-immagine. In effetti Freud notava come l’isteria

ripristini il significato originario delle parole, come derivi dalla stessa fonte dell’uso linguistico

(OSF I, p. 332). Ci fa tornare al significato originario: quel che oggi appare come espressione

linguistica puramente metaforica, allora poteva essere intesa alla lettera.

L’attenzione al linguaggio del paziente è viva, nel caso del piccolo Hans: poiché “i bambini

trattano le parole in modo assai più concreto degli adulti”, va notata la grandissima

importanza che hanno per loro le “consonanze verbali” (come tra i termini Wegen, “per via

del cavallo” e Wägen, veicoli) (rispetto all’estensione della fobia dei cavalli ai veicoli - in nota,

OSF V, p.522).

L’immagine del “ponte verbale” torna, nell’uomo dei topi. Freud rintraccia la linea associativa

legata al termine Ratten, topi: che avevano acquistato molti significati simbolici – ad ese.

“ponte verbale” con Raten, rate (OSF, VI, p.49).

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2 Ricorso al linguaggio-immagine per far comprendere al paziente

In una seconda modalità spiega o descrive un procedimento o una condizione al paziente, e

dà quindi spessore di visibilità alla propria comunicazione

Negli Studi sull’isteria: Signorina Elisabeth von N., 24 anni con dolori alle gambe e abasia: qui

Freud ricorre per la prima volta all’immagine archeologica, usata per spiegare il procedimento

“di svuotamento strato per strato, che ci piaceva paragonare alla tecnica del dissotterrare una

città sepolta” (OSF I, p.293)

Qui utilizzo per raccontare a sé tecnica- ipotesi sull’uso del ‘noi’, terapeuta e paziente, nel

compiere un lavoro insieme – avvio della metafora archeologica, che poi così grande fortuna

avrà.

Si serve di un’altra analogia, quella del fiume Adige che compie un meandro, a Verona, e si

riporta quasi allo stesso punto, per chiarire al paziente, l’uomo dei topi, come la collera e la

fantasia di vendetta di oggi siano vicine a quelle del remoto passato (OSF VI, p. 82).

3 Utilizzo diretto della metafora nella comunicazione al paziente

Ne abbiamo un esempio negli Appunti al caso dell’uomo dei topi:

Freud usa qui una metafora, per spiegare il contenuto di un sogno, in cui il paziente ha visto

il corpo della madre dell’analista nudo, con due spade infilate lateralmente sul seno ed i

genitali divorati dall’analista e dai suoi bambini.

La fonte, un ricordo della nonna di una cugina, nella cui stanza il paziente era entrato, e che

si era messa ad urlare, e ad un altro sogno, dove questa cugina, che pensava troppo vecchia

per lui, lo aveva condotto a vedere il corpo della nonna, sul letto, nudo e con i genitali

scoperti, mostrandogli come fosse ancora bella.

“Il senso è chiaro: si è fatto sviare da una metafora. Il contenuto è l’idea ascetica: come

sarebbe consumata – divorata – la bellezza di una donna dai rapporti sessuali e dal partorire

figli? Questa volta ride egli stesso” (p. 96).

4 Dare corpo e visibilità a concetti, come strumento di progressione del pensiero, rivolto a se stesso e per

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comunicare con il lettore:

I sintomi

Negli Studi sull’isteria la sintomatologia isterica di Katharina è paragonata ad una “pittografia

divenuta intellegibile dopo la scoperta di alcune iscrizioni bilingue. In questo alfabeto

vomitare significa nausea.” (OSF I, pp. 283-284)

Un’ altra immagine – non riportata nell’Indice – è quella usata dalla paziente stessa Emmy

von N., che chiamava “tempesta nella testa” (ivi, p.240) il proprio stato di irrequietezza.

La disposizione del materiale patogeno ha un andamento che somiglia allo “zigzagare delle

mosse del cavallo” che taglia i riquadri della scacchiera (ivi, p. 425).

L’isteria di Dora è come un “enigma” da risolvere (OSF IV, p. 334, p.400 in nota); il sintomo

è all’inizio “un ospite sgradito della vita psichica, ha tutto contro di sé” (ivi, p. 335), nel tempo

può modificare i suoi significati, come il vino nuovo in un otre vecchio (ivi, p. 344), in quanto

“l’eccitamento fluisce” da nuova fonte, utilizzando un “antico punto di scarico” (ivi, p.344).

Fonte, via, fluire, bisogno di scaricarsi, punto di scarico: metafore che rinviano ad uno

scenario idraulico.

Per descrivere la caratteristica dell’uomo dei lupi, che conserva non stratificati, ma coesistenti

a fianco, stati affettivi contraddittori: gli stadi evolutivi più antichi coabitano con i recenti,

come nell’antico Egitto le divinità più antiche stanno accanto agli dei più recenti (OSF, VII,

p. 590). Vi è un’“epoca preistorica dell’infanzia del paziente” (OSF, VII, p. 496)

Torna l’immagine degli “enigmi” (OSF, VII, p. 496) che l’analisi si trovò di fronte: es. da dove

proviene l’improvviso cambiamento di carattere? – che verrà poi spiegato con il trauma

determinato dal sogno d’angoscia dei lupi bianchi che lo fissano, nell’immobilità.

La malattia

Il maggior numero di immagini è impiegato nella parte teorica, Per la psicoterapia dell’isteria, il

capitolo conclusivo degli Studi sull’isteria: rispetto ad una isteria acuta, il medico è come di

fronte ad una “malattia infettiva acuta” (OSF I, p. 401)

Il gruppo psichico scisso viene detto esercitare “la funzione di centro di cristallizzazione”

(ivi, p.402).

La metafora della disposizione a strati del materiale, dagli strati più superficiali agli strati più

profondi, occupa più pagine.

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La metafora della profondità-buio e della avvenuta comprensione-luce- attraversa il testo.

Nel piccolo Hans: il non compreso ritorna sempre, “come un’anima in pena, non ha pace

finché non ottiene soluzione e liberazione” (OSF V, p. 570); la malattia è qualcosa da

catturare e distruggere: “La verità è che per impiccare un malfattore bisogna prenderlo, e

che per distruggere le formazioni patologiche occorre prima un certo lavoro per

impossessarsene.” (ivi, p. 572).

Per spiegare, nel caso dell’uomo dei lupi, il carattere di grande mobilità degli investimenti e

nel contempo di rigidità degli investimenti libidici – non solo dei nevrotici – questo, dice,

“appare come una sorta di primo numero indivisibile.” (OSF VII, p.587).

Ancora l’immagine della disposizione a strati: l’elemento congenito è valido per la

psicoanalisi, solo quando vi giunga “al termine del suo cammino attraverso le stratificazioni

di ciò che gli uomini hanno acquisito individualmente”. (OSF VII, p.592). E’ la frase

conclusiva del saggio clinico.

Nel caso sull’omosessualità femminile: “Ci siamo fatti un’idea generale delle forze che hanno

distolto la libido della ragazza dalla normale impostazione edipica per trasferirla su quella

omosessuale, nonché delle vie psichiche che in questo processo sono state percorse”. (OSF

IX, p. 161).

“Dunque la sua libido si era suddivisa assai per tempo in due correnti, di cui la più

superficiale può essere chiamata tranquillamente omosessuale” (OSF IX, p. 163).

La resistenza

Ne paragona il comportamento, che fa commentare alla paziente come accessori, di minore

importanza, i chiarimenti più importanti, ad un travestimento: “come i principi travestiti da

mendicanti nell’Opera” (OSF I, p. 416).

Del resto, anche nel paragonare la comunicazione con resistenza da parte del paziente ad un

“muro che sbarra la vista” (ivi, p.428).

Sottostanti, le immagini del vedere come comprendere, e dell’ostacolo al comprendere.

La metafora della profondità-buio e della avvenuta comprensione-luce, così centrale

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nell’opera freudiana: “quanto più si penetra in profondità, nella formazione psichica

stratificata” il lavoro “diventa tanto più oscuro e difficile”… (ivi, p.434) , arrivati al nucleo

però “si fa luce”.

Già si è riportato come il gruppo psichico scisso venga detto esercitare “la funzione di centro

di cristallizzazione” (ivi, p.402); e il compito terapeutico della lotta contro la resistenza

paragonato all’apertura di una porta chiusa a chiave, e il lavoro della psicoterapia alla

ricomposizione di una organizzazione, come ”un giuoco di pazienza” (ivi, p. 427).

Come scrive nel caso clinico dell’uomo dei topi, la cura è un superare le resistenze: un

“imperativo della cura cui non possiamo assolutamente sottrarci” (OSF VI, p. 16).

Nel Caso di omosessualità femminile: il linguaggio vivo consente di ‘vedere’ ad esempio

l’imbattibilità della resistenza, dietro una viva partecipazione intellettuale: la resistenza si

mostra “con la sua più assoluta imperturbabilità emotiva”, ad esempio nel tono del

commento “Ah, è davvero molto interessante!” paragonato a quello di una signora del gran

mondo in visita ad un museo (OSF IX, p.157), quando Freud illustra alla giovane paziente

un teoria che la dovrebbe riguardare e toccare.

E paragona questo tipo di resistenza alla tattica dell’esercito russo: come in un trattamento

ipnotico nel quale la resistenza si ritira “fino a un determinato limite, oltre il quale si rivela

tuttavia imbattibile” (ivi, p. 157).

Quando si tocca il dubbio, “baluardo” dietro cui la nevrosi poteva sentirsi al sicuro – un

pensiero come ‘sarebbe tutto giusto, se ci credessi’ -“la lotta con le resistenze esplode” (OSF

IX, p.158).

La terapia: procedimento tecnico, finalità

Alla paziente di Breuer, Anna O, dobbiamo le espressioni che chiamano la terapia talking cure,

cura nel discorso, nello sfogo serale in ipnosi, e chimney-sweeping, spazzare il camino, che

avranno tanta fortuna (OSF I, p. 197).

Immagini archeologiche

La metafora della “formazione stratificata” del materiale psichico dell’isteria, che abbiamo

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già incontrato per la prima volta nel caso di Elisabeth von N, prosegue nella Psicoterapia

dell’isteria in coda agli Studi lungo diverse pagine (OSF I, pp.424-430, 434-436). Se si ostacola

il paziente nella riproduzione di idee che “affluiscono in lui”, si rischia di “seppellire” molte

di queste, riprende (ivi p. 428).

Nel caso di Dora, per offrire una spiegazione relativa ai modi della stesura, Freud si paragona

ad “un archeologo coscienzioso” che, portate alla luce “dalla loro lunga sepoltura” antiche

reliquie, mutilate ma preziose, abbia ricostruito le parti mancanti, senza trascurare di indicarle

(OSF IV, p.310). Riappare dunque la metafora del ricercatore/archeologo, così presente

nell’opera freudiana. Freud offre al lettore una immagine che consenta di comprendere il

proprio operato tecnico.

(nota: anche in Etiologia dell’isteria, OSF II, p.334; in Costruzioni nell’analisi, OSF XI, 1937, p.

543) (vedi il modello archeologico anche come presentato in Petrella, 1988).

Nel Poscritto al caso, dice di aver tralasciato di esporre la tecnica “che sola consente di

estrarre dal materiale grezzo delle associazioni del paziente il puro filone delle preziose idee

inconsce” (OSF IV, p.393).

Nel Caso clinico del piccolo Hans del 1908 seppure nell’Indice delle analogie non compaia alcuna

metafora, esse sono presenti sin dalla presentazione. Subito, una immagine di area

archeologica: l’analisi di un bambino consente di osservare direttamente “quei moti sessuali

e quelle formazioni di desiderio che negli adulti disseppelliamo con tanta fatica dalle loro

rovine” (OSF V, p. 482).

Freud si basa sulle comunicazioni e gli appunti del padre, suo allievo, che gli relaziona

settimanalmente, e vede solo una volta il bambino, che soffriva di una fobia: di esser morso

da un cavallo per la strada. Una sorta di supervisione, in cui Freud suggerisce al padre come

procedere.

Alla metafora di Pompei Freud ricorre poi nel caso dell’uomo dei topi per descrivere anche

l’inconscio, definito relativamente inalterabile, come Pompei prima di essere dissotterrata

(OSF VI, p.23).

Immagini di ambito chirurgico

Studi: Per mostrare l’analogia con le condizioni di risanamento del terreno necessarie, Freud

narra che usava paragonare tra sé e sé la psicoterapia catartica ad un “intervento chirurgico”.

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(OSF I, p. 439), inteso a produrre un risanamento nella zona affetta.

Dato che l’organizzazione patogena è detta comportarsi “come un’infiltrazione” (ivi, p.426)

e non come un corpo estraneo (che era metafora di Breuer, nella Comunicazione preliminare)

– così che la terapia viene assimilata al “liquidare la resistenza”, all’aprire “la via alla

circolazione in una regione anteriormente sbarrata” e non tanto all’estirpare qualcosa.

Per avanzare nella comprensione si avvale di un terreno e di un linguaggio ben noto, quello

chirurgico.

Immagini di percorso, ostacolato

Anche la metafora spaziale è presente: ad esempio, là dove dice che, essendo impossibile

penetrare direttamente nel nucleo, occorre stare “alla periferia della formazione psichica

patogena” (OSF I, p.427); o anche quando parla del dischiudersi di “una nuova via” ove il

paziente “percorra un certo tratto” (ivi, p.427).

Il processo di cura come un cammino, un percorso a tratti ostacolato dalle resistenze.

Nel caso di Dora, la similitudine che percorre l’intera narrazione è quella del fiume ostruito:

la “prima narrazione è paragonabile a un fiume non navigabile il cui corso ora è ostruito da

rocce, ora deviato e impoverito da banchi di sabbia” (OSF IV, p. 312). La metafora idraulica

torna nel paragonare la rimozione e i moti perversi inconsci ad un ostacolo, e la corrente

libidica al fiume che rifluisce in corsi più antichi (ivi, p. 342).

Terapia come lotta

E’ un “lavoro di Sisifo” quello del medico contro l’isteria acuta (OSF I, p.402).

Anche in Dora appare l’immagine della terapia come di una “lotta” (OSF IV, p.337): che non

risparmia chi, come lui, risveglia, per combatterli, i peggiori demoni che solo imperfettamente

domi vivono nell’animo dell’uomo” (ivi, p. 392, a proposito dell’interruzione della terapia da

parte di Dora).

Tecnica: indagare

Il caso del piccolo Hans offre a noi lettori un testo di tecnica e di consigli. Le metafore sono

quelle dell’indagare un terreno inesplorato e oscuro, del trovare una soluzione

La curiosità sessuale del piccolo ne fa un “indagatore” (OSF IV, p. 484) e gli consente di

crearsi nozioni astratte; è poi anche chiamato un “piccolo investigatore” (ivi, p.575).

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Anche Freud si mette nei panni dell’investigatore: quando incontra il piccolo Hans con il

padre, descrivendo il procedere del colloquio, narra che all’improvviso gli venne in mente

“un altro pezzo della soluzione” (ivi, p. 508), ovvero che il nero attorno alla bocca del cavallo,

di cui Hans aveva paura, potevano essere i baffi neri, come quelli del papà. Il percorso di

comprensione del terapeuta vedrà risolvere “enigmi” (ivi, p.576). Sembra anche indicare una

visione del procedere del piccolo paziente: nel ripetere gli stessi moti di desiderio, sono

“progressi continui dall’accenno esitante alla visione chiara, pienamente cosciente e libera da

ogni deformazione” (ivi, p. 576).

Non comprensione: oscurità

Ricompare la metafora dell’oscurità, come non comprensione, e dello spazio inesplorato: c’è

un momento sempre nelle analisi, dice Freud, delle “queste fasi oscure sono proprie di tutte

le psicoanalisi. Hans è proprio adesso in procinto di entrare in una regione che non ci

aspetteremmo”- (ivi, p. 519).

E’ il tessuto stesso del linguaggio che è intriso di metafore – un esempio: sulle indicazioni di

tecnica, avverte il lettore di “tener presente che il materiale che affiora dall’inconscio non va

inteso con l’aiuto di ciò che precede, ma di ciò che verrà.” (ivi, p. 527).: l’inconscio come una

profondità, un mare in cui qualcosa affiora….

Un’altra immagine è quella della fonte, che sottostà al dire che il bambino, quando non è

sotto pressione, “lascia scaturire una sua verità interiore, fino allora nota a lui solo” (ivi,

p.556).

E per guarire non è sufficiente riconoscere un complesso inconscio, né comunicarlo al

paziente; questo costituisce “solo un aiuto di cui il malato può servirsi per trovare il

complesso nel fondo del proprio inconscio, là dove esso è ancorato” (ivi, p. 570, in corsivo nel

testo). Il tentativo di capire, da parte di Hans, come nascano i bambini “sprofondò

nell’inconscio” (ivi, p. 579).

Terapia come via, cammino

La metafora della comprensione come cammino, come una via riappare là dove Freud, nel

Piccolo Hans, scrive che “Il medico lo precede sempre di un tratto nella via della

comprensione”, il paziente lo segue, sinché s’incontrano alla meta (p. 569).

Nel caso clinico dell’uomo dei topi, del 1909, il processo di cura è definito “una vera e propria

scuola di dolore” (OSF VI, p. 46).

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Anche qui ritroviamo l’immagine dell’indagare: Freud spiega al suo paziente che l’effetto

terapeutico è legato al “ritrovamento del contenuto ignoto” (ivi, p. 23)

“Ottenuta la soluzione sopra descritta, il delirio dei topi scomparve” (ivi, p. 54):

l’interpretazione del pensiero ossessivo delirante è risolutiva.

Nel caso dell’uomo dei lupi: per illustrare un principio di tecnica: l’analisi “percorre” col

paziente una “via” la cui lunghezza è direttamente proporzionale alla resistenza (OSF VII,

p.491). Per giustificare la durata: il medico, “se vuole imparare qualche cosa o raggiungere

qualche risultato deve comportarsi, di fronte a un caso del genere, con la stessa ‘atemporalità’

dell’inconscio. Vi riuscirà a un patto: se saprà rinunciare ad ogni miope ambizione

terapeutica” (OSF VII, p. 490).

“Ogni scorciatoia (…) è pertanto tecnicamente inammissibile” (ivi, p. 526) – occorre

restituire al malato, mediante il rendere coscienti le loro fantasie, “la libera disponibilità degli

interessi ad esse vincolati” (ivi, p. 526).

Il trattamento in questi casi “può solo rimuovere gli ostacoli e render la strada nuovamente

praticabile” (ivi, p. 589).

Rispetto alla lunghezza iniziale del rapporto ricorre, e siamo nel 1914, ad una metafora

bellica: “Le cose procedono così come quando un esercito nemico impiega settimane e mesi

per attraversare un territorio che in tempo di pace un direttissimo avrebbe percorso in poche

ore, e che l’esercito del paese occupato ha precedentemente coperto in pochi giorni (ivi, p.

491).

Nel caso di omosessualità femminile: descrive la prima fase dell’analisi come i preparativi di

un viaggio (il medico elabora congetture, le presenta al malato)– seconda fase come viaggio

vero e proprio: il malato lavora, sperimenta il cambiamento interno, mediante il superamento

delle resistenze (OSF IX, p.146).

Rispetto alle condizioni sfavorevoli dell’invio: la psicoanalisi non è un lavoro su commissione,

come quello dell’architetto o del pio donatore che si fa ritrarre in un angolo del quadro (ivi,

p.144).

Nel concludere che si tratta di una omosessualità congenita: “La psicoanalisi non è chiamata

a risolvere il problema dell’omosessualità. Essa deve accontentarsi di rendere palesi i

meccanismi psichici che sono stati determinanti per la scelta oggettuale, e poi di percorrere

a ritroso la via che collega tali meccanismi con le disposizioni pulsionali del soggetto.” (OSF

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IX, p. 165).

L’intero tessuto linguistico è metaforico, come se il livello metaforico, non più avvertito come

tale, costituisse una sorta di banale-non visto, un ovvio, o detto secondo un altro vertice,

fosse sceso sotto la superficie, reso subacqueo.

Con tale inabissamento, la metafora diviene impercettibile e impregna il tessuto linguistico:

ad esempio nella libido che si suddivide in due correnti, questa reca in sé l’immagine di un

fiume, di uno scorrere – immagine largamente utilizzata in tutta l’opera, e che vanno a

formare una metafora direi strutturale, la visione di un apparato psichico (movimento,

fluidità, ostacoli, energia………spostamento, fissazione…...)

L’intero testo, guardato in tale prospettiva, appare come intessuto di metafore… Per restituire

alla metafora il suo valore di ampliamento conoscitivo, proviamo a rileggere il paesaggio che

ne emerge in controluce.

Ecco un paesaggio in cui si muovono forze e correnti, fiumi che incontrano ostacoli, deviano,

rifluiscono. Ci sono vie, cammini interiori, da rendere nuovamente praticabili.

Strati e strati di materiali accumulati – c’è un profondo/inconscio, sede del ritrovamento di

verità e luce, e una superficie che ne reca le tracce, o anche, coesistente, l’immagine di un

apparire-sintomo scritto in un altro alfabeto, ma che può essere tradotto.

L’analisi è analisi del profondo. La malattia è qualcosa di infettivo, acuto, da catturare, da

distruggere, da liquidare. Contro la malattia il medico ingaggia una lotta dura. Lotta contro

qualcosa che resiste, che fa muro, una porta chiusa a chiave. Una resistenza imbattibile, con

strategie e limiti invalicabili.

A volta il sintomo, la malattia sono un enigma, da risolvere. Il medico è allora un investigatore

che con acume affronta come un gioco di pazienza.

Il processo di comprensione è un farsi strada attraverso le oscurità. Alla fine, la luce della

verità compenserà l’archeologo, che disseppellisce gli strati e penetra in profondità. Ciò che

è prezioso si trova lì, è quasi uno scavo alla ricerca di un tesoro.

C’è una specie di chiasma, nelle immagini di oscurità e luce: l’oscurità è la non

comprensione/la luce è la comprensione – la luce è nel nucleo profondo.

In questo viaggio, il Freud di 20, 25 anni dopo gli Studi, vede la fase delle ipotesi, le

congetture, i preparativi, e poi il viaggio stesso. Qui non si possono prendere scorciatoie, a

volte quel che si può fare è solo rendere la via praticabile. A volte, c’è qualcosa di non

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ulteriormente analizzabile, di non accessibile alla comprensione, come un numero primo.

Conclusioni

Accogliendo le immagini dei pazienti, costruendo insieme un nuovo linguaggio Freud, a

partire dagli Studi sull’isteria, e inizialmente con Breuer, compie diverse operazioni: non solo

mostra, parlando attraverso le immagini, il paesaggio interiore della paziente isterica, nonché

il proprio modo di procedere terapeutico. Ma anche espone il suo atteggiamento conoscitivo,

che si avvale di un linguaggio denso di immagini per rendere significabile un terreno

inesplorato.

Cerca ovvero di dare forma a modalità, procedimenti, concetti che si vanno costruendo

dentro di lui, e di renderli comunicabili. Cerca di accrescerne la visibilità.

Un linguaggio rivolto a se stesso, come per aiutarsi nel processo di comprensione, cui fa

ricorso anche con la paziente (si veda con Emmy von N. l’uso del ‘noi’) e che rivolge anche

al lettore.

La metafora, in particolare, viene utilizzata come mezzo per dare corpo e visibilità a concetti

nuovi: per introdurre un concetto nuovo nel contesto della comunicazione si ricorre a

metafore, che estendano i limiti del comunicabile, consentendo un ponte di significato tra un

campo noto ed un campo ancora ignoto.

Poi, cosa accade? Accade in qualche modo un passaggio dal “come se” offerto dalla

similitudine, dalla analogia, ad un altro modo, un atteggiamento descrittivo/esplicativo, come

di fronte ad una realtà effettiva. La metafora, entrata nel lessico corrente psicoanalitico, non

più identificata come tale, risulta ridotta a elemento concreto di una teorizzazione, appunto,

una mitologia. Che era il rischio già così ben avvertito da Breuer, poi anche in Fornari e in

Spence, per cui in tale prospettiva la teoria può venir intesa quale costruzione di una

metafora.

Assistiamo quindi, nello stesso corpus freudiano dei casi clinici, ad una oscillazione tra

metafora viva, espressione di una apertura alla comprensione, dalle possibilità germinative, e

metafora morta, presente in un discorso costruito come sistema chiuso. La metafora è morta

là dove è scambiata per realtà, quando perde la caratteristica di ponte e passaggio tra mondi

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di significato; dove viene schiacciato quello spazio transizionale (con Winnicott) che lascia

respirare i pensieri.

Ma come mantenere l’apertura del movimento?

Per recuperare la possibilità della metafora viva, sta al lettore l’opera di ‘vivificazione’

continua del testo, testo da incontrare nel corpo a corpo della lettura, nella messa tra parentesi

dell’ovvio, nel recuperare la vitalità dello sguardo della metafora, grazie alla consapevolezza

che di metafora si tratta.

Sta al lettore mantenere vivo il linguaggio, nella lettura che colga il divenire del linguaggio,

che lo liberi da un eccesso di astrazione che irrigidisce la parola in descrizione, che rischia di

scambiare la parola per una ‘realtà’ di cosa.

La lettura dell’interprete di oggi, consapevole di incontrare un modello di mondo proposto,

può reincontrare il testo, ricondotto ad evento; l’apertura di senso si può creare per me,

lettore, nell’evento dell’incontro con il testo.

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Anna Tortorella

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