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Home Boy

Date post: 28-Mar-2016
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anteprima libro
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H.M. Naqvi Home Boy Traduzione di Marco Pensante ilSaggiatore
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H.M. NaqviHome Boy

Traduzione di Marco Pensante

ilSaggiatore

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Naturalmente tutta la vita non è che un processo di deterioramento, ma i colpi che formano il lato drammatico dell’impresa, i grandi colpi improvvisi che vengono, o sembrano venire, dall’esterno, quelli che si ricordano, cui si attribuisce la responsabilità di tante cose […] non ri-velano il loro effetto tutto a un tratto. C’è un altro genere di colpi che viene dall’interno, che non si sente se non quando è troppo tardi per correre ai ripari, quando ci si rende conto definitivamente che in un modo o nell’altro non si sarà più l’uomo in gamba di un tempo.

Francis Scott Fitzgerald, Il «Crack-up» (L’incrinatura)

Domando al mio cuore vagabondo: «Dove posso andare ora?».A quest’ora nessuno appartiene a nessuno. Lascia perdere.A quest’ora nessuno ti riceverà. Lascia andare.Dove mai puoi andare ora?

Faiz Ahmed Faiz, Il tempo della fede perduta

Così si dovrebbe fareQuesto stile è diverso da tutti…

Eric B. & Rakim, «I know you got soul»

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Eravamo diventati musi gialli, ebrei di merda, negri fot-tuti. Prima non lo eravamo. Ci immaginavamo bon vivants, cantastorie, uomini del Rinascimento, io, AC e Jimbo. Ci eravamo quasi tutti inventati e fatti da noi ed eravamo sicuri di avere in pugno la grande dialettica globale. Stu-diavamo quotidianamente il Times e il Post e altri trattati di retorica tradizionale sullo stato della società, consulta-vamo ogni settimana il Voice e sfogliavamo con assiduità altre pubblicazioni rivolte a un target più selettivo come Tight o Big Butt. A parte Jimbo, che non era un gran lettore, conoscevamo i classici russi e il canone letterario postco-loniale, ma ci entusiasmavano le voci esuberanti e chias-sose della narrativa americana contemporanea; alla tv guardavamo i documentari sulla natura e i varietà di Te-lemundo e in genere non seguivamo lo sport, tranne quando il Pakistan giocava contro l’India a cricket o i Knicks arrivavano ai playoff; ascoltavamo Nusrat e le nuove generazioni di rocker indigeni, oltre al gangsta rap della vecchia scuola, tanto che eravamo rinomati per into-nare senza preavviso «Viene da Compton, pazzo figlio di put-tana / si chiama Ice Cube, della Niggaz With Attitudes», ma non ci entusiasmava più di tanto l’egemonia culturale

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dell’hip-hop (per quanto Jimbo fosse notoriamente un apologeta delle composizioni trimetriche di Eminem e pa-ragonasse spesso i ritmi dell’hip-hop a quelli delle bande marcianti curde). E ci dedicavamo a scorrerie negli anfratti segreti di Central Park, tenendoci fuori dal Meatpacking District, e andavamo spesso a cena a Jackson Heights; non eravamo ricchi ma neanche poveri (per capirci, avevamo scarpe costose ma nessuna proprietà immobiliare); non eravamo frum, osservanti, ma evitavamo la carne di maiale – io per principio e Jimbo per abitudine – anche se AC, nel suo fervente ateismo, si concedeva ampio spazio di ma-novra culinaria; e bevevamo dappertutto, in alcuni posti più che in altri, brindando a noi tre con vodka on the rocks o Wild Turkey con acqua (e la birra l’avevo scoperta in giugno) in compagnia di donne nere, asiatiche e bianche senza distinzioni.

Sebbene avessimo un denominatore comune e ci sen-tissimo dire, un po’ per scherzo un po’ no, Oh, voi pakistani vi assomigliate tutti, non ci assomigliavamo affatto, AC, Jimbo e io. AC – un nome in codice che era in parte l’ab-breviazione di Ali Chaudhry – era una canaglia fascinosa, un dandy intellettuale, un uomo di presenza scenica tea-trale. Quando entrava a grandi passi in una sala con il suo baffetto sottile, la giacca da camera di velours e gli stiva-letti alla caviglia in pelle di serpente, fin da subito esigeva attenzione e un pubblico. Si ravviava all’indietro la cri-niera luccicante spianandola con i palmi delle mani enormi. Alzava il braccio, esibiva un sorriso macchiato di nicotina e ruggiva: «Si dia inizio ai festeggiamenti!» dopo di che veniva verso di te a grandi passi allungando la mano car-nosa e declamava: «Ecco dov’eri finito, vecchio mio! Dob-biamo parlare immediatamente!». Di noi tre, era l’unico immigrato. Mentre lui campava alla giornata in un appar-tamento a equo canone a Hell’s Kitchen e aveva un se-

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condo lavoro come supplente in una middle school del Bronx, sua sorella maggiore era arrivata nell’81 insieme all’ultima ondata di immigrati pakistani e aveva goduto di un successo spettacolare. Dieci anni più tardi era stata lei a garantire per la Green Card di AC. Zia Mini, una donna minuta che non si lasciava mettere i piedi in testa da nessuno, lavorava al reparto pediatrico del Beth Israel, nell’Ottantasettesima, abitava in un brownstone dietro l’an-golo e finanziava il dottorato a intermittenza e la metico-losa débauche di AC.

Jamshed Khan, universalmente conosciuto come Jimbo, era di tutt’altra razza: una placida montagna d’uomo con la faccia a luna piena, dreadlocks crespi e naso semita che, secondo AC, dimostrava pienamente le congetture antro-pologiche secondo cui i pathan sono in realtà la tribù per-duta d’Israele. Non che simili altisonanti tematiche aves-sero un qualche effetto sentimentale o motivante per Jimbo. In genere stava per conto suo, appoggiato a un muro come uno spaventapasseri superimbottito, ma quando si faceva tardi capitava che ti prendesse per un braccio e ti spiegasse fin nei dettagli la conversazione che stava intrattenendo mentalmente con se stesso. Jimbo era noto per le sue conversazioni farcite di non malapropismi e incastri verbali, per la sua loquela studiata e caratteriz-zata da un’inflessione irregolare della voce e dal lavorare per rima quando non per razionalità. A prima vista sem-brava un tipo con la testa fra le nuvole, ma noi sapevamo che lui sapeva come andavano le cose. A differenza mia e di AC aveva una fidanzata fissa nonché, in quanto dj barra produttore, una vocazione che gli garantiva un certo ca-chet. Ma se la sua carriera gli apriva molte porte nella città, l’aveva anche alienato dal padre settantenne, un capocan-tiere in pensione residente a Jersey City da un quarto di secolo. In quel lasso di tempo aveva tirato su un figlio e

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una figlia e parecchi edifici di prestigio su entrambe le rive dell’Hudson. Nato e cresciuto a Jersey, Jimbo era ameri-cano al cento per cento.

Per quanto riguardava me, mi chiamavano tutti Chuck e il soprannome mi è rimasto appiccicato. Dovevo crescere ancora ma mi consideravo già grande; ero, e tuttora sono, non molto alto, magro e spigoloso come il mio defunto padre, ho capelli castani, occhi con riflessi color stagno e il naso affilato «di un aquilotto», come diceva sempre mia madre. Ero arrivato a New York da Karachi quattro anni prima per iscrivermi all’università, completandola a pieni voti in tre, e nonostante fossi l’unico emigrato del gruppo mi piaceva pensare che da allora avessi conquistato la città e la città avesse conquistato me.

L’inizio del secolo era stato epico e noi ce la prendevamo con calma: ogni due lunedì ci trovavamo al Tja!, una specie di bar ristorante sala da cocktail frequentato da mondani scandinavi locali ed espatriati assortiti oltre che da presen-zialisti, arrivisti, omosessuali, metrosexual e tutta una con-gerie di ex e aspiranti modelle. Situato alla periferia di Tribeca, il Tja! non attirava spesso i passanti o la banale gente comune, forse perché l’ingresso non era transennato con cordoni dorati e all’esterno non c’erano buttafuori o travestiti incazzati a guardia. Era un locale tenuto nascosto in cui si entrava solo per invito a passaparola o strizzatina d’occhio. Noi l’avevamo conosciuto quell’estate quando il mio amico gay Lawrence, nato Larry, ci aveva presentato una coppia di lesbiche organizzatrici di party che si face-vano chiamare Bionda e Più Bionda, e da quel giorno nel beau monde era sempre stato compreso un contingente di pakistani fra cui me, Jimbo e AC.

Entro breve Jimbo, alias DJ Jumbolaya, aveva comin-

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ciato a far girare il vinile e quando arrivavo io lo trovavo già in cabina in piena forma, in tuta da ginnastica molto kung fu, a ondeggiare con la mano a coppa dietro l’orec-chio e spianare i vinili con le dita grassocce come se fossero chapati. Cominciava in sordina, per esempio con un brano trepidante di una cantante lounge portoghese, poi tirava il tempo con del pop senegalese martellante senza soluzione di continuità e senza sforzo, come se quest’ultimo fosse un’estensione organica del precedente. Nelle sue compo-sizioni DJ Jumbolaya distillava l’intero canone post-disco-proto-house-neo-soul. Il suo credo era: Tutto va buono.

Quando gli scivolavo a fianco e ci scambiavamo rispetto dandoci un cinque, battendoci petto contro petto, roba così, lui diceva qualcosa del tipo «Amico, sei venuto qui a sorseggiare Martini e far vedere quanto sei bello perché tu sei un giocatore, tu sei un figo, tu sei un profeta, tu sei un sognatore» e quando gli domandavo cosa beveva lui ri-spondeva è lo stesso, così ordinavo un paio di drink da Jon il barista, che teneva la camicia sbottonata fino all’ombe-lico e ci preparava cocktail offerti dalla casa. Mi raccontava di quando si era arruolato nella Legione straniera francese come cuoco e, riconoscendo in me un uomo di mondo, mi dava aggiornamenti («Hai sentito dell’ultima offensiva dei mai-mai?»), forniva consigli che erano tutti farina del suo sacco («Prima di radersi è meglio passare il rasoio sotto l’acqua calda perché così il metallo si espande») e discu-teva di estetica («Quella là, sì, quella che mi sta guardando, ha quello che si definisce un posteriore callipigio»). Ap-poggiato al banco, drink in mano, mi bevevo tutto.

Gli amici si presentavano da soli o in coppia, perso-naggi che conoscevamo dal Tja! e per averli visti in giro. C’era Roger, un sommelier gigantesco di Castle Hill che aveva seguito un corso di urdu colloquiale perché, diceva lui, «le vostre donne mi tirano». Una volta aveva chiesto:

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«Secondo te ci starebbero, con un fratello? Cos’è che devo fare, amico? Capito, cioè, recitargli Faiz?». E poi Ari, il curatore di una galleria d’arte di Chelsea che coltivava un’acconciatura bouffant modello Elvis, aveva questa storia fantastica sul suo primo giorno alla Scuola pubblica 247 quando all’ora di pranzo si era trovato in mezzo a una partita di dodgeball: «I ragazzini bianchi e quelli neri si sono divisi in squadre, come se fossimo nel 1951 o una roba così, e poi sono rimasti un muso giallo secco secco e un gruppo di messicani del cazzo con la faccia sfigata e poi io, il piccolo ebreo. Non sapevamo da che parte andare e praticamente non ci voleva nessuno, così ci siamo messi insieme come gli Ultimi dei mohicani. E chiaro che il primo giorno ci hanno pestato il culo per bene, ma cazzo, dopo un paio di settimane i lividi ce li avevano loro…». Bionda e Più Bionda circolavano a intervalli irregolari tenendosi a braccetto, profondendosi in chiacchiericci e gesti gene-rosi: «Belle quelle scarpe!». «Canapè per tutti!» A volte compariva la fidanzata di Jimbo. Una donna elegante e mascolina con la pancetta e la camminata dondolante, ve-niva dall’aristocrazia dell’East Coast, sorseggiava Bellini alle more, niente cassis, e girava con un gruppo di fighi, quella che viene chiamata una tribù metropolitana, che contava vari accoliti. Noi la adoravamo tutti e la chiama-vamo la Papera.

Ogni tanto, quando beccavo una ragazza seduta su uno sgabello in disparte a gambe incrociate, con i capelli che diffondevano un profumo di shampoo alla mela, le dicevo: «Ciao ciao, baby». Non era una battuta per rimorchiare, giusto una cosa che borbottavo quando ero ubriaco. L’ul-tima volta che eravamo stati al Tja! una ragazza con gli occhi da sirena e una spiccatissima S sibilante latina aveva addirittura reagito alla mia tenera avance con una risata in staccato. «Semana prossssima» aveva detto prima che

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la trascinassero via «tu e yo tan-go!». Mi era parso che quella frase fosse decisamente foriera di quello che AC avrebbe definito il proverbiale tango.

In genere, però, aspettavo l’arrivo di AC, la sua mano pesante sulla spalla. Tutto botto e niente piagnisteo, chiac-chierava, ballava come in uno spettacolo burlesque, flirtava affabile e io gli stavo a fianco, annuendo, sorridendo, be-andomi di quel senso di teatralità. Una volta era entrato con gli occhi iniettati di sangue ululando:

Alle undici m’alzo,alle due pranzo,alle sette son stortoma prima d’esser mortochiamo la mia troia e per non prendermi lo scologlielo metto in mano e le schizzo sul bocciolo!

Le conversazioni si erano arrestate, uno o due bicchieri erano caduti per terra e tutti si erano scambiati un’oc-chiata: Jimbo a me, Bionda a Più Bionda, come bambini ammutoliti da uno spettacolo di magia. Poi si era levato un applauso spontaneo e fragoroso. Con un inchino AC aveva continuato a recitare il ruolo del poeta, scolo, schizzi e tutto quanto. Con lui la serata prometteva sempre slanci picareschi. Jimbo ci raggiungeva dopo aver finito di ser-vire i suoi riddim al curry, quindi chiacchieravamo e beve-vamo ancora un po’ e restavamo finché il locale chiudeva, per poi tornare la settimana dopo o quella dopo ancora.

In quel momento non credevamo che in tutto ciò vi fosse di più che il puro e semplice senso dello spettacolo. Ci bastava celebrare noi stessi e la nostra città con le liba-gioni. Solo in seguito ci rendemmo conto che all’epoca eravamo su un terreno comune, una terraferma. In se-guito ci rendemmo conto anche di come la nostra non era

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una specie di messinscena a beneficio di altri, di qualcun altro. No, eravamo i protagonisti di una narrazione che richiedeva coerenza per motivi nostri ed egocentrismi as-sortiti.

Due, forse tre settimane più tardi, decidemmo di ritrovarci al Tja! perché ci sentivamo ansiosi e depressi e claustrofo-bici a forza di guardare la Cnn ventiquattr’ore al giorno sette giorni la settimana. Inoltre eravamo convinti che ci fosse qualcosa di eroico nel persistere, nell’andare avanti, nel dedicarsi alla routine e alle gozzoviglie.

Chiamai un taxi e imboccai la West Side Highway col finestrino mezzo abbassato, godendomi la notte. L’aria era calda e odorava di pesce, e la luna bassa e brillante era spezzettata dalle onde frammentate dell’Hudson. Il centro della città sembrava parato a festa, illuminato da lampioni, ma i palazzi celavano la devastazione, le montagne di ma-cerie dietro di loro. Tre mesi prima ero al lavoro al quaran-tunesimo piano del World Trade Center 7, il terzo gratta-cielo a cadere. I miei colleghi se l’erano cavata con ferite e lividi ma avevano sfiorato con mano lo spettacolo che li avrebbe segnati per la vita.

Nell’aria notturna risaliva odore di bruciato e in lonta-nanza i lampeggianti della polizia brillavano come mirror ball. Era tempo di dimenticare, tempo di essere felici. Dentro il locale, sopra la musica emergevano un muoversi sfuocato di gente e scoppi di risate che erano al tempo stesso volgari e catartiche. Bionda comparve dalla calca raggiungendomi in una danza al rallentatore, dimenando le braccia come ruote di bicicletta. Era alta, secca e cammi-nava come un uomo. Ci abbracciammo disperatamente, come amanti finalmente riuniti, e non parlammo dei fe-steggiamenti rinviati. «Dov’eri finito, mio principe?» co-

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minciò a dire. «Chiedevano tutti di te. Mi sembra di avere visto Lawrence, e Hogart lo conosci?»

Esaminai con lo sguardo séparé, tavoli, facce e corpi intorno al gigantesco bancone di bambù e non riconobbi nessuno: né Roger, né Ari, neanche la sirena che mi aveva promesso un tango. E Hogart non sapevo chi fosse. «Forza» stava dicendo Bionda «vai a prenderti da bere. Hai l’aria di averne bisogno. Ne abbiamo bisogno tutti.»

Quando ordinai il solito il barista disse Arriva subito, amico, come se ci conoscessimo da una vita, ma non l’avevo mai visto prima. Gli avrei chiesto volentieri dov’era Jon, il mio vecchio amico legionario, ma o lui era troppo veloce o io troppo lento e il tipo seduto accanto a me continuò a parlare roboante: «Quando mi sono trasferito qui lo sa-pevo già che avrei dovuto guadagnare un pacco di soldi, come dice il mio amico Tony. Lui dice sempre: “In questo paese per prima cosa devi fare i soldi”. Allora che ho fatto? Me la sono giocata in borsa, cazzo, sembrava la febbre dell’oro, ti giuro, e ho guadagnato come un figlio di troia: mi sono preso una bella macchina, una bella casa, uno yacht, una ragazza che stava sulle riviste e poi bum…».

Il Bombaster fece una pausa e si voltò a guardarmi, forse perché lo stavo fissando come se fosse un artista di strada che ingoiava una sciabola. «E tu che storia hai?» mi chiese. Gli risposi con un’alzata di spalle dubbiosa e un sorriso sbilenco e mi allontanai. Cosa si può dire in certe occasioni?

Mentre alleviavo le mie ansie in un angolo con un Mar-tini molto secco e con molte olive, la ragazza della volta precedente si materializzò in un nembo fragrante di crema per il viso e lavanda, ondeggiando e muovendosi al ritmo dei bassi, e nonostante mi fossi mentalmente preparato a quell’istante per due settimane il coraggio mi abbandonò clamorosamente. Lei mi oltrepassò sfiorandomi e scom-

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parve come una visione. Era ancora presto ma la serata si stava già rivelando una di quelle appena un po’ sconclu-sionate, malriuscite. Il primo drink andò giù facile ma pic-chiò duro. All’improvviso, pietoso, a salvarmi comparve Lawrence, nato Larry, spavaldamente estivo in completo di tela indiana grigia e Lacoste giallo giunchiglia. Aveva la voce profonda, una risata sommessa e il portamento di un James Stewart. Ci abbracciammo per poi scrutarci a vicenda dalla testa ai piedi per accertarci che l’altro fosse tutto intero.

«Che c’è, bello?» mi chiese dandomi un pizzicotto sulla guancia. «Non sembri il solito. Fammi indovinare: non hai ancora visto la polvere di stelle!» Con un sorrisetto solidale infilò la mano nella tasca della giacca e ne tirò fuori una bustina azzurra che mi schiacciò in mano. «Passa a tro-varmi» disse, scivolando via.

Districandomi per i vicoletti di bambù del bar con lo stelo della seconda coppa di Martini stretto fra le dita, ol-trepassai un gruppetto di fanciulle che si baciavano sulle guance e una claque brulicante di libertini che si dirige-vano ai gabinetti in fondo. Come al solito c’era la fila e come al solito mi misi ad aspettare incrociando le braccia contro il muro, guardando le porte aprirsi a intermittenza. Ogni tanto emergevano coppie e gruppetti di tre persone, ridendo e massaggiandosi il naso gonfio coi pollici. Circo-lava la classica chiacchiera da gabinetto: qualcuno disse qualcosa sull’incipriarsi il naso, qualcun altro disse «Hai detto queue. Fico!». Quando toccò a me entrai tout seul, chiudendo la porta col chiavistello.

Appoggiai lo specchietto sul bordo del lavandino, tirai fuori di tasca la bustina e mi misi a cavalcioni della tazza come un professionista. Con qualche colpo del dito ra-dunai mucchietti di polvere sul piano di porcellana, divisi due piste con il bordo dentellato di una Mastercard sca-

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duta e arrotolai un biglietto da cinque inspirando prima da una narice e poi dall’altra. Vi è sollievo nei rituali, nella routine. Chiudendo gli occhi inspirai, espirai e annuii verso il cielo come in preghiera. L’odore di sapone e alco-lici e legno di sandalo pervadeva tutto. Prima di uscire mi guardai allo specchio: avevo i capelli scompigliati da dis-soluto, le narici dilatate e gli occhi arrossati e cosparsi di piccole vene ai lati. Portavo un bel giaccone di pelle nera e all’improvviso pensai che era meglio alzare il bavero.

Una volta uscito mi accesi una Rothman e tirai una boc-cata lunga e appagante. Mandai giù il secondo Martini as-saporando il salutare retrogusto di aspirina in fondo alla gola. Tutto d’un tratto ero diventato io il party, un animale. Come poteva dirvi chiunque al Tja!, la bamba risveglia il licantropo interiore, l’imperativo primigenio. Alzando il bicchiere a brindare verso una ragazza in piedi su un tavolo vicino che barcollava sui tacchi, gambe larghe e lisce, slan-ciate come candele, l’imperativo primigenio si fece più pres-sante. Volevo leccarle le ascelle depilate, gustare le dita im-macolate dei suoi piedi: la desideravo, desideravo tutte le donne, svedesi e orientali allo stesso modo. Dai séparé si alzarono voci che brindavano «Skål!» come a confermare le mie sensazioni. Era ora di ritrovare la Ragazza di Ipanema. Ma prima di compiere progressi significativi mi fermai a spiare Jimbo alla sua postazione davanti ai giradischi, come ai vecchi tempi – felpa da ginnastica a due colori, dreadlocks raccolti a crocchia sulla testa – stavolta però teneva le mani infilate nelle tasche, ingobbito come il bambino nuovo che sta in disparte ai margini del campo giochi. Si dava il caso che fra l’ultima volta e quella lo avessero sostituito con un altro deejay, figlio o forse fratello di un personaggio famoso il cui loop tribal ragga era diventato d’un tratto au courant. Abbracciandomi in tutta la sua stazza, Jimbo borbottò: «Tutti erano infoli i cenciopelli, amico».

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Per quanto non si potesse mai essere completamente sicuri di cosa intendesse Jimbo quando apriva bocca (con-versare con lui richiedeva sforzi di ermeneutica sovru-mani) sospettavo che alludesse a un’altra tragedia recente: l’intonaco, il gesso e una parte delle travi di legno del sof-fitto del suo monolocale oltre Liberty Street avevano ce-duto e nel giro degli ultimi dieci giorni erano crollati, spin-gendolo a cercare un altro rifugio. In teoria avrebbe dovuto stare da me ma AC aveva insistito per ospitarlo perché AC, come al solito, era nel pieno di un suo trip. Molto proba-bilmente la sistemazione non era facile, AC non era mai facile in niente, ma quando gli avevo chiesto perché mai non poteva andare a stare dalla Papera, Jimbo aveva ri-sposto agitando la mano come a cacciare via di malavoglia una mosca. «AC ti sta cercando, amico» disse come se non mi avesse sentito. «Continuava a ripetere qualcosa su un essere umano civile. Tu ne sai niente?»

Alzai le spalle e mi domandai perché non avevo ancora incrociato AC, che non era certo tipo da andarsene docile nella notte; poi Jimbo me lo indicò all’estremità opposta del bancone. Con la sua caratteristica giacca di velours a un bottone e i capelli spianati all’indietro con la brillan-tina, AC incombeva sul Bombaster in medias res di una delle sue disquisizioni, tracciando col gesticolare delle mani pelose i contorni di due grandi palle asimmetriche. Lasciando Jimbo a ruminare fra sé per un momento, mi feci largo spintonando e chiedendo scusa.

«Te le ricordi» stava dicendo AC, con quella voce sten-torea che s’imponeva sul clamore «un venti anni fa, quelle bande di afghani che si battevano contro l’Armata rossa? Sì, ecco, quelli li chiamavano ribelli, combattenti per la libertà: i mujaheddin, i guerriglieri santi. Si battevano con fucili della Seconda guerra mondiale, finché noi li abbiamo riforniti di Ak-47 e missili Stinger. Li abbiamo invitati a

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Washington e… ah… li abbiamo paragonati ai Padri fon-datori. Loro erano i buoni, vecchio mio. E uno di loro era Osama B.»

Quando AC fece una pausa per prendere una boccata a effetto dalla sigaretta gli battei sulla spalla. Voltandosi di scatto, lui esclamò: «Ah! Ecco dov’eri!». Sulla fronte prominente gli ricadde una ciocca di capelli: aveva l’aria di chi sta facendo diverse cose contemporaneamente, con-centrato eppure distratto, più giocoliere che direttore del circo. «Senti» disse cingendomi con un braccio con aria cospiratoria. «Noi dobbiamo parlare.»

«È per Jimbo?» chiesi. «Perché lo sai che può sempre venire a collassare da me.»

«Non è per quello…»«Stavi dicendo» ci interruppe il Bombaster.«Stavo dicendo» continuò AC senza un istante di pausa

«che dopo che i mujaheddin hanno sconfitto i sovietici, a quel punto se la sono presa fra loro. Ormai nessuno se lo ricorda, ma sono morti in decine di migliaia, Kabul è stata rasa al suolo e qualcosa come tre o quattro milioni di pro-fughi sono scappati in Pakistan. A tutti gli effetti l’Afgha-nistan ha smesso di esistere come stato, ma a quel punto nessuno aveva più alcun interesse per quella zona, per… se ricordo bene… per quella che un tipo del governo ha definito “la misteriosa guerra civile afghana”. Mi segui, vecchio mio?»

Il Bombaster annuì concentratissimo. AC si soffiò il naso in un tovagliolino di carta, poi si girò verso di me annunciando: «Dobbiamo sederci a un tavolo come… ah… come persone civili. Dobbiamo discutere di certi piani che richiedono attenzione e tranquillità, ma qui è come stare in uno zoo. Andiamo da Jake’s».

Prima che riuscissi ad aprire bocca (Quali piani? Perché da Jake’s? Perché proprio ora?) AC era già tornato ai suoi

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grandi temi e al pubblico che pendeva dalle sue labbra: «Poi è spuntata fuori la progenie dei mujaheddin, i tale-bani, i Bastardi della Guerra! Hai presente quando hanno attraversato l’Afghanistan, quando li coprivano di fiori acclamandoli come eroi? Capisci, riportavano finalmente l’ordine dopo decenni. Ma ben presto, come si dice, è an-dato tutto a puttane. Hanno dichiarato fuorilegge la mu-sica, la tv, il divertirsi. Mutilavano, sparavano alle donne, cazzo, hanno fatto saltare in aria i Buddha di Bamiyan! E adesso sono diventati… ah… il pericolo pubblico numero uno della civiltà, ma sai, non sono tanto diversi dai loro padri, sono animali col fucile; solo che stavolta sono dalla parte sbagliata della storia».

Lieto di venire messo a parte delle pulsioni dei popoli selvatici e degli accadimenti nelle arene più remote del mondo, il Bombaster chiese: «Cosa bevi?».

«Un Wild Turkey doppio, grazie, con una goccia d’acqua» rispose prima di informarmi: «Ce ne andiamo appena finisco».

«Io devo… ah… devo trovare una persona» dissi a mezza voce.

Il Bombaster si voltò e disse: «Be’, fammi capire: vuoi dire che non siete indiani?».

«Siamo troppo belli, vecchio mio! Chiamaci metrostani! Salute! Skål! Adab!»

Allontanandomi a spintoni, dissi: «Ci vediamo dopo, yaar».

«Oooeeh!» gridò AC come per chiamare un risciò nel traffico di Karachi. «Questa è una cosa seria.» Poi mi fissò con uno sguardo inteso a far capire che diceva sul serio e gridò: «Ti aspetto».

Concitato, mi feci strada fra la calca come un uomo in missione, girai diverse volte intorno al banco e controllai uno per uno tutti i séparé e i bagni in fondo per sicurezza,

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ma la Ragazza di Ipanema continuava a sfuggirmi. Mentre vagavo cominciai a domandarmi cosa dire se mai l’avessi trovata, poi mi sentii squagliare i Martini nello stomaco vuoto. Sentendomi incorporeo e nauseato, decisi che era ora di andarmene, ma proprio mentre mi voltavo mi ri-trovai faccia a faccia con una visione. «Ciao ciao» balbettai mentre il cuore mi batteva come un pezzo techno.

«¿Qué?»«Bau uau?»«Sei como cucciolino?»«Be’» risposi «io preferisco credermi più un lupo.»

Emisi un ringhio poco convincente nel tentativo di appro-fondire e raccolsi quel poco di spagnolo elementare che avevo imparato guardando Telemundo: «El loco».

«Estai pazzo?»«Cioè, el lobo, el lobo!»«¡El lobo! ¡Ah! ¿Habla español?»«Posso impararlo» mormorai fra me.«¿Qué?»«Sei… mmm… argentina?»«No!» gridò lei fingendosi offesa. «Yo soy Venezuela.»«Ma certo.»«Como hai comprendido?»«Perché» risposi con la naturalezza strabiliante del vero

playboy «sei bellissima.» Nel sentirsi lusingare così lei batté le palpebre e distolse lo sguardo come a lasciarmi un momento per osservarla da vicino. E nel tempo di un bat-tito di ciglia mi accorsi di quella peluria minuscola e sbian-cata ai margini delle labbra imbronciate, della fossetta leggera sul mento e del tocco da maestro di Dio: il neo a forma di mezzaluna sulla clavicola. In un battito di ciglia, ero già cotto. Non ci era voluto molto. Per quanto aspirassi a essere disinvolto con le donne, a differenza di AC non ero il tipo da avventure nei gabinetti, da pomiciate nei taxi,

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non riuscivo a seguire tutto il protocollo dei corteggia-menti metropolitani. Nei quattro anni da che ero in città, nei ventun anni e mezzo della mia vita, mi innamoravo continuamente. E quasi sempre per nulla corrisposto.

Quando le offrii un drink, un mojito, «¿sí?», lei rispose qué rico, ripetendo la mia domanda in tono di assenso. Era uno sviluppo fortuito e inatteso, una manna dal cielo. Rin-galluzzito, la presi per mano, trascinandola al banco da cui organizzavo i rinfreschi.

La Ragazza di Ipanema parlava in un gorgogliare som-messo, ma nonostante fossimo tanto vicini da poterci ba-ciare riuscii comunque a perdermi tutto il succo della con-versazione perché ero troppo impegnato a bearmi delle sue labbra di gomma da masticare. E nonostante avesse un accento tremendo e un pessimo controllo della lingua, riuscii a capire che la sua famiglia era emigrata in un pas-sato non tanto remoto, decisione scaturita dalla revanche del neosocialismo populista che stava spazzando tutto il Sudamerica, in particolare dalle politiche radicali di ridi-stribuzione della terra e dai soprusi dell’attuale regime: «Loro preso tutta las casas di papà. Siamo andati. Adesso noi somos americani». Mi ritrovai a pensare che se l’avessi sposata anch’io sarei diventato un americano vero. In un certo senso eravamo fatti l’uno per l’altra, lei e io, cittadini del Terzo Mondo profughi per questioni economiche e trasformati in gente mondana dal destino, da un capriccio della storia. Fu a quel punto che mi parve di averle sentito dire: «Tienes un bel sedere».

Fissandola, meditai sul complimento, incerto se avessi sentito male o forse avesse sbagliato lei a dirlo, se fosse così che funzionavano i corteggiamenti a Caracas – con i modi disinvolti di un popolo dal sangue caldo – o magari c’entrasse col posto, qualcosa che aveva a che fare col fenomeno del «sesso del terrore» di cui parlavano i quo-

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tidiani e le riviste. Mentre cercavo di formulare una ri-sposta adeguata, qualcosa di carino e arguto, lei mi sfiorò le palpebre. «Oh!» esclamai. «Begli occhi! Grazie! Grazie mille.» Lei mi chiese di dov’ero, e quando glielo dissi lei rispose: «Tu no eres italiano?». Io mi grattai l’orecchio, lei si risucchiò le labbra per lisciare le screpolature del ros-setto e poi restammo a guardare in silenzio il barista di fronte a noi schiacciare foglie di menta con la forchetta in due bicchieri alti. Aggiunse zucchero, succo di lime e rum, versò club soda, ghiaccio tritato e guarnì il tutto con mezzelune di limone.

«Gracias» disse la venezuelana con un sorriso.«De nada» rispose il barista con un sogghigno mali-

zioso.«Bueno» mi intromisi io.«Adesso» annunciò la Ragazza di Ipanema «yo voy al

gabinetto» e si allontanò per la seconda volta in quella serata. In quel momento fatale non seppi se rimanere dov’ero o seguirla, se aveva bisogno di un Kleenex, di una sveltina o semplicemente di liberarsi. Avrei co-munque dovuto gridarle «Aspetta!» o «Torna qui!» o qualcosa del genere, e in seguito, ripensando all’episodio, mi venne in mente tutta una serie di cose da dirle, cose spiritose, cose irriverenti, cose che gli uomini dicono per corteggiare le donne, ma in quel momento rimasi lì come un idiota con le mani stese lungo i fianchi. Era come se avessi dato fondo a tutta la mia riserva di fascino. Era ora di andare. Chiesi il conto scarabocchiando vigorosamente a mezz’aria e pagai.

Il Bombaster continuava: «Certo che stiamo per crepare, ma non per il motivo che pensi tu. C’è questo rapporto del Dipartimento della difesa che dice che in realtà il pericolo maggiore per la razza umana non sono le armi di distru-zione di massa. È la natura, amico! Il riscaldamento glo-

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bale, il secondo diluvio universale sta arrivando! E pensi che New York resterà in piedi? Pensi che resteremo vivi? Ah ah! Diventeremo tutti i pesciolini rossi di Dio, bello…».

Le porte si richiusero sulla musica triviale, sul battito lontano dei tamburi. Tribeca, ferita a morte, era immersa in un silenzio di morte, una città fantasma. Le strade erano deserte e traboccanti della consueta immondizia. Mi av-viai in fretta oltrepassando le porte chiuse e gli androni sbarrati, allontanandomi sempre di più dal disastro, pen-sando ecco come ci si sente a essere l’ultimo uomo sulla terra. Svoltando in West Broadway vidi un barlume di civiltà nei portieri stazionati davanti all’ingresso del Soho Grand, nella coppietta che attraversava incerta la strada vuota, in un barbone acquattato. Ma non c’era l’ombra di un taxi. Gli isolati fra Canal e Houston sembravano più lunghi del solito, forse perché camminavo con una certa frenesia, come se sapessi già che anni dopo, a ripensarci, quella notte sarebbe spiccata nell’orizzonte dei miei ricordi come il profilo di un grattacielo.


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