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Date post: 13-Mar-2016
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VVIIAA DDEELLLLAA VVOOLLTTAAViaggio nel campo di Via della Volta Foto e testo di FFrraanncceessccoo VViicceennzzii

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CCaammppoo RRoomm ddii VViiaa ddeellllaa VVoollttaa

È una mattinata fredda, la prima della stagione. Perlustroun paio di volte la zona, periferia di Bologna, strade riempi-te di polvere dai camion diretti ai cantieri della Tav. Poi notouna strada che taglia per i campi, al lato un canale di scoloostruito. Entro, la mia Vespa squarcia un silenzio surreale. Non mipiace. Non è la prima volta che mi avventuro da solo inmezzo ad accampamenti di nomadi, ma questo é diverso:immerso nel nulla, ovattato. Sembra deserto sino a che unabambina non sbuca dal nulla, la faccia sporca, il naso lecola, tende la mano, mi parla con parole lontane, il tono èsupplichevole.Mi allontano e parcheggio poco lontano, ritorno a piedi.

LLee iimmmmaaggiinnii cchhee sseegguuoonnoo ssoonnoo ssttaattee rreeaalliizzzzaattee nneellccaammppoo nnoommaaddii ddii VViiaa ddeellllaa VVoollttaa aa BBoollooggnnaa aa ffiinnee nnoovveemm--bbrree 22000077,, ssggoommbbeerraattoo ddaallllaa ppoolliizziiaa ppoocchhii ggiioorrnnii ddooppoo

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Sulla strada sterrata che porta al campo un furgone misupera piano, uno di quei furgoni bianchi. Ho la macchinafotografica al collo, le mie intenzioni sono chiare.

Il furgone frena, l’uomo alla guida si presenta comeSepherovic Brakko, sulla quarantina o poco più, capelliscuri, sguardo bonario. Mani grandi e callose. Mi rassicura.Sorride, credo di averlo già incontrato. “Sei un giornalista?”Nonostante la risposta negativa lui incalza. “Scrivi, scrivi”.

Snocciola nomi, date, sviscera le dinamiche del campo inmodo confuso. Io prendo appunti ancora più confusi sulmio taccuino. Quel campo era stato assegnato dal comunealla sua famiglia originaria di Mostar, in Bosnia. Curioso, ioc’ero stato a Mostar, dieci anni dopo la guerra. Lui la guer-ra non l’aveva vista, era in Italia dal ’68. Prima stava aNapoli. Ora vive da due anni nel campo con la sua famiglia:lui, la moglie e otto figli. Brakko deve avere frainteso la mia posizione, non è

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NNeellllaa ppaaggiinnaa pprreecceeddeennttee SSeepphheerroovviicc BBrraakkkkoo ppoossaa aallll’’iinntteerrnnoo ddeellllaa ssuuaa ccaassaa;; ssoottttoo uunnaa bbaammbbiinnaa iinn uunnaa rroouulloottttee mmoossttrraauunn’’iimmmmaaggiinnee ddii MMaaddrree TTeerreessaa ddii CCaallccuuttttaa.. IInn qquueessttaa ppaaggiinnaa:: uunn bbaammbbiinnoo ggiiooccaa nneell ccaannaallee iinn mmeezzzzoo aa rriiffiiuuttii ddii ooggnnii ssoorrttaa,,rriicchhiiaammaattoo ffoorrssee ddaallllaa mmaaddrree..

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ancora sceso dal furgone e mi ha già raccontato di suo fratel-lo, di chi è abusivo nel campo e di chi non lo è. Tutte cose cheio appunto disordinatamente. Mi offre una sigaretta, una notamarca americana, rosse. Poi mi dice “scrivi questo: Dichiaroche sono Sepherovic Brakko e richiedo al Comune…” Avanza lesue proposte, i piccoli problemi li possiamo gestire noi, dice.Vuole igiene, istruzione per i bambini e servizi.

Il comune aveva fatto mettere dei cassonetti della spazzatura, masono stati bruciati. Più volte. Eppure, mi dice Brakko, non siamotutti colpevoli per quegli incendi.

Da esterno percepisco diverse realtà che si intrecciano nelcampo di Via della Volta. Sono libero di farmi un giretto e subi-to catalizzo l’attenzione di tutti. Tutti vogliono farsi ritrarre,fotografare, i bambini mi saltano intorno. Non riesco a farenulla se non scattare, uno dopo l’altro quei volti sorridenti inmezzo a tanta sporcizia.

È Brakko a “salvarmi” mezz’ora dopo: “Vieni, ti faccio vede-re casa mia”. Vive in un prefabbricato situato sul retro delcampo, il terreno intorno è pulito e davanti a casa c’è un pic-colo cortile delimitato da una recinzione colorata di pannistesi. Dentro, la casa è estremamente colorata e floreale.Brakko mi racconta che il lavoro gli va abbastanza bene: rac-coglie e ricicla ferro con il suo furgone, è in regola lui. Mimostra le fatture per togliere qualsiasi dubbio, mi prega difare attenzione a date e importi. Sono una persona per benee i miei figli vanno a scuola.

IInn qquueessttee ppaaggiinnee aallccuunneeiimmmmaaggiinnii ddaall ccaammppoo nnoommaaddiiddoovvee vviivvee uunnaa ffoollttaa ccoommuunniittààiinn ccoonnddiizziioonnee ddii vviittaa pprreeccaarriiaa

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Poi arriva Mohammed, un altro capo famiglia e ini-zio a girare con lui, dopo aver salutato Brakko. Vivea Bologna dal 1992. Ha appreso che un giornalista(impossibile convincerlo del contrario) è arrivatonel campo e mi vuole dare la sua versione dei fatti.È sicuro e deciso. “Questo era un bel posto, lefamiglie autorizzate a viverci erano tre. Poi sonoarrivati gli abusivi, che non hanno rispetto per ilcampo: hanno bruciato i cassonetti e non si preoc-

cupavano di tenerlo pulito. Noi ora vogliamo unaltro posto in cui stare: un campo più piccolo, unoper ogni famiglia. Non più tutti insieme. Chi fa casi-no e sporca si pulisce da solo. ” Lui ha la sua casaed il suo lavoro con cui mantiene la famiglia, midice. E per colpa di qualcuno è costretto a perderetutto. Anche lui lavora con il ferrovecchio e mandai bambini a scuola, tiene a precisare.

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IInn aallttoo:: HHaalliilloovviicc MMoohhaammmmeedd mmoossttrraa iill ccaannaallee oossttrruuiittoo ddaa rriiffiiuuttii ddii ooggnnii ssoorrttaa.. NNeellllaa ppaaggiinnaa pprreecceeddeennttee iill ccaammiioonncchhee uussaa ppeerr llaavvoorraarree eedd iinn bbaassssoo uunn ppaarrttiiccoollaarree ddeell ccaannaallee

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RReettttaannggoolloo

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IILL ““PPIILLAASSTTRROO”” DDEELLLLAA CCIITTTTAA’’

Chiunque abiti a Bologna conosce il Pilastro. Il nomedella zona deriva dalla presenza di un piccolo pila-stro - segno del passaggio di un'antica strada roma-na - su cui era collocata una madonnina, che vennepoi abbattuto a seguito di alcuni lavori stradali. È un ’a rea compresa ne l quar t ie re d i San Donato ,che tu t t i cons iderano una sor ta d i conten i to reurbano d i ex t racomuni ta r i da l la ca t t i va fama edove è ev idente que l la che poss iamo def in i re“arch i te t tu ra t ipo carcere” , na ta da l l ’es igenza d icos t ru i re enormi pa lazz i popo la r i da l la s t ru t tu ramin imale e geomet r i ca , capac i d i contenere un

e levato numero d i a l logg i a basso cos to .Questa cattiva reputazione del Pilastro, sicuramente, sialimenta anche di un fatto di sangue, più precisamentedell’attentato della Uno Bianca, consumatosi qui il 4Gennaio del 1991 e nel quale morirono tre carabinieri.Poco tempo fa è stato celebrato l’anniversario. Sonotestimonianza di quel fatto di cronaca le corone d’alloroche si trovano nel parco in cui sorge la biblioteca dellazona.Per tutti questi motivi è nato il mio desiderio di docu-mentare quella che è la vita, multietnica e quotidiana, dicoloro che vivono in questa parte della città.Purtroppo mi sono dovuta misurare ben presto con unarealtà assai particolare: questa zona, infatti, è dura dapenetrare, in quanto gli abitanti vedono, chiunque siaestraneo al Pilastro, come un infiltrato pericoloso, ingrado di mettere a repentaglio le condizioni di clandesti-nità di molti degli inquilini delle case popolari.Il risultato della mia documentazione si è trasformatocosì, in qualcosa di diverso rispetto al progetto inizia-le: pur cercando di cogliere presenze umane, le mieimmagini hanno registrato soltanto una grigia realtàurbana in cui, di persone, sembrava non esserci nep-pure l’ombra!Quelli che dovevano essere i miei soggetti, sfuggivano

IILL ““PPIILLAASSTTRROO””DDEELLLLAA CCIITTTTAA’’

Foto e testo di CCaatteerriinnaa CCuurrzzoollaa

Le corone d’alloro che si trovano nel parco in cui sorge la biblioteca dellazona, celebrano l’anniversario dell’attentato della Uno Bianca consumato-si al Pilastro il 4 Gennaio del 1991

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infatti all’obiettivo, nascondendosi dietro alle siepi oscappando verso il primo rifugio sicuro.... una sconfit-ta, alla quale si è poi accompagnata la sensazionepiuttosto evidente che la mia presenza non fosse gradita. In diverse occasioni sono stata anche seguita da figurepoco rassicuranti.Questo tipo di comportamento mi ha però permesso di cogliereil Pilastro in uno stato di silenzio e di assoluta solitu-dine, in cui queste enormi strutture mi hanno fattosentire una minuscola formica in cerca di qualcosa cheattirasse la mia attenzione.Se le persone mi hanno voluto evitare, il luogo invece, miha accolta nel suo freddo e grigio grembo, quasi cercan-do di attirare la mia attenzione su di sé, spingendomi acercare in questi spazi, qualcosa di nuovo, talvolta anchea suo modo attraente.Per questo, in tre giornate diverse ho realizzato un numeronotevole di immagini!Così ha preso l’avvio il mio lavoro di documentazione inquesta zona di Bologna, la cui storia comincia già nel1962, quando lo IACP (Istituto Autonomo Case Popolari)propose la costruzione di una nuova zona di edilizia popo-lare per offrire un alloggio agli immigrati arrivati in città aseguito della crescente industrializzazione. Il Pilastro venne inaugurato il 9 luglio del 1966 ed era

costituito da 411 alloggi, una prima parte rispetto all'in-tero progetto che ne prevedeva il quintuplo.L’intenzione dei progettisti era quella di ricreare unasorta di "borgo medioevale" in cui si dava molto rilievoalla presenza di ampi spazi verdi. È importante dire che i primi 2500 abitanti furono soprattuttooperai del sud già residenti a Bologna, nelle zone del Pratelloe in via della Barca, che, proprio qui, trovarono un ambientepoco confortevole: mancava, infatti, tutto quello che poteva

Il "VViirrggoolloonnee", un edificio curvilineo di sette piani che si snoda circa per 700 metri su Via Salgari, costituito da 552 appartamenti

Lo IACP e le cooperative pensarono al Virgolone come a un modo per favo-rire l’integrazione sociale,stimolando l'arrivo di persone con redditi più alti

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essere indispensabile per la vita di tutti i giorni, come acqua,riscaldamento, strade asfaltate, mezzi pubblici di trasporto,strutture sanitarie e scolastiche.Non mancarono inoltre difficoltà di integrazione fra gli abitan-ti: tra la fine degli anni '60 e i primi anni '70 giunsero alPilastro non solo immigrati dal mezzogiorno, ma anche vene-ti, ferraresi, profughi dalla Libia, che si trovarono forzatamen-te ad essere vicini di casa, e che, di certo, non avevano lestesse abitudini di vita. Al di là della loro provenienza, quelle che vivevano alPilastro, erano famiglie in prevalenza operaie e moltonumerose, rispetto alla media delle altre zone della città:d'altra parte queste erano le condizioni richieste per potervivere in un appartamento dello IACP. Il primo nucleo del Pilastro sembrava un vero e proprio ghet-to, per cui l'amministrazione comunale decise di migliorarela situazione che si era creata, costruendo il "Virgolone", unedificio curvilineo di sette piani che si snoda per circa 700metri su Via Salgari, costituito da 552 appartamenti in partedi proprietà dello IACP e in parte delle cooperative.

L'idea del Virgolone fu quella di favorire l’integrazione sociale,

stimolando l'arrivo di persone con redditi più alti e assegnan-

do parte degli appartamenti a riscatto, così da rendere possi-

bile (almeno nelle intenzioni) quell’integrazione sociale che

all'inizio era mancata. Nonostante questo, il Pilastro, mostra ancora come ci siastato un interesse per i servizi sportivi, e per le zone verdi, edove, inaspettatamente, si possono incontrare anche dellesculture di Nicola Zamboni, che purtroppo però devono sem-pre fare i conti con strutture architettoniche dalla dimen-sioni mostruose e dall’aspetto decisamente minaccioso.

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Le uniche cose che rivelano la vita degli abitanti del Pilastro,sono le finestre e i balconi, a cui vengono appesi indumenti eaddobbi natalizi

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Al Pilastro è possibile vedere quella che si può chiamare “architettura tipo carcere”, caratterizzata da una struttura geometrica e minimale

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Il Pilastro mostra un grande interesse per i servizi sportivi e per gli spazi verdi

Non solo il Virgolone si snoda lungo una curva, anche altri palazzi hanno una forma analoga e, in questo modo, grazie al loro corpo,creano spazi, all’interno dei quali gli abitanti lasciano segno della loro presenza, ad esempio stendendo i panni puliti

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LLAABBOORRAATTOORRIIOO MMOOBBIILLEE AARRTTEE PPUUBBBBLLIICCAA

Il progetto “container” patrocinato dalla galleria Neon è un

progetto di arte pubblica in itinere. Quattro tappe e undici arti-

sti per il quartiere San Donato e la ri-qualificazione dello spa-

zio urbano.

Il primo posizionamento del “container” osservatorio – labo-

ratorio è avvenuto il 19 dicembre, davanti all’ex sede del quar-

tiere San Donato. Si è poi spostato in Piazza della

Costituzione, in concomitanza con Arte Fiera, e ora aspetta,

con l’arrivo della primavera, di far visita al Pilastro e prendere

posizione nell’area antistante la biblioteca Luigi Spina nei

mesi di marzo-aprile. Il suo viaggio finirà in via del Lavoro, di

fronte al Centro Interculturale Zonarelli.

Il progetto e curato da Mili Romano e Gino Gianuzzi e coinvol-

ge giovani artisti operanti nel territorio bolognese, con diversi

progetti: l’intervento di Alessandra Andrini si muove sul pro-

blematico senso di identità e di appartenenza che legano il

Pilastro ed i suoi abitanti. Il progetto lavora sull’ossatura di un

meccanismo pubblicitario "di strada" legato alla moda, relati-

vamente recente ma già fortemente consolidato, in cui si

possa riconoscere trasversalmente la cultura giovanile e che

in qualche modo sia in grado di ribaltare, attraverso una

forma autoironica, qualsiasi valenza preconcetta.

MP5 invaderà lo spazio esterno del Container e le zone limi-

trofe con i suoi Man At Work e, con il Progetto Polaroid, per-

correrà il territorio e avvicinerà direttamente gli abitanti, rea-

lizzando il loro ritratto. Nel naturale e progressivo avvicina-

mento fra l’artista e gli abitanti e nello scambio di disegni,

fotografie e storie, si ricostruirà una mappatura emotiva del-

l’intero quartiere.

Il progetto di Cinzia Delnevo nasce dall’idea che la persona

nata dall’unione di due genitori di diversa nazionalità sia il frut-

to dell’unione di due “Bellezze”. Wandering Beauties si propo-

ne di conoscere e di incontrare persone corrispondenti a que-

sti requisiti e di documentare fotograficamente questi incontri.

Successivamente il materiale fotografico ottenuto verrà messo

a disposizione delle persone che hanno collaborato alla realiz-

zazione del progetto e verrà esposto in un luogo pubblico.

Emilio Fantin ha ideato la realizzazione di una sorta di con-

test aperto a tutti gli abitanti del Quartiere: Performance Daysarà la fase finale di un lavoro di relazione condotto dall’arti-

sta e dai suoi collaboratori. I partecipanti sono invitati a pro-

dursi nell’azione più “acrobatica” di cui siano capaci, ma qui

per “acrobatico” si intende qualunque gesto, qualunque abi-

lità. I performers si sfideranno uno contro l’altro, a elimina-

zione, fino a designare i due sfidanti finali.

LLAABBOORRAATTOORRIIOO MMOOBBIILLEE AARRTTEE PPUUBBBBLLIICCAAFoto e testo di SSaarraa AAgguuttoollii

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Il progetto di Anna Ferraro Segnali di vita consiste nella produ-zione di una segnaletica stradale parallela a quella istituzio-nale, realizzata in stretta collaborazione con gli abitanti delquartiere San Donato. La nuova segnaletica potrà essere ver-ticale o orizzontale e racconterà le abitudini, le esigenze, ledinamiche relazionali e, in generale, il rapporto che gli abitan-ti di San Donato hanno con il loro spazio abitativo. Comespesso accade in ogni città e in ogni quartiere, gli abitantisuppliscono alle carenze di infrastrutture o partecipanoall’abbellimento dell’ambiente in cui vivono in modo intelli-gente ed efficace: allestendo punti di incontro con sedie etavolini, creando angoli verdi, coltivando orti, prendendosicura degli animali. Questi piccoli gesti di “appaesamento”vengono ad avere una funzionalità particolare, frutto di crea-tività spontanea, assolutamente non prevedibile.Sabrina Muzi progetta la realizzazione di un'installazione dis-seminata in alcune aeree verdi del quartiere San Donatoprossime agli edifici: ambiente naturale e "vissuto" umanodialogano per creare un percorso estetico/ideale in cui albe-ri, tessuti ed abiti si intrecciano, dando forma a zone festose,piccole oasi in cui sostare.Il Parallel project di Maria Vittoria Perrelli vuole rendere visibi-le - in collaborazione con il collettivo New Global Vision che sioccupa di produzioni indipendenti - un archivio di materialinon ufficiali e underground che comprendono video e imma-gini che passano dall’attivismo politico all’arte, dalla musicafino ai più sperimentali cortometraggi e le telestreet tv orga-nizzando il materiale, liberamente scaricabile, per sezionitematiche. Il container sarà un punto di raccolta di materialeautoprodotto sia nel quartiere che nella città.Mili Romano, utilizzando la videocamera come “pungolo rela-zionale” diretto ad una azione protratta nel tempo, sta realiz-zando Per San Donato. Appunti visivi, frutto delle ricognizionivideo e fotografiche (insieme alla fotografa Paola Binante eagli altri artisti) sul territorio di San Donato, realizzate dal gen-naio 2007 e degli incontri e interviste realizzate insieme a

Alessia Benevelli per il laboratorio Sguardi sull’architettura.Ispirata dall’incontro quotidiano, in particolare con la compo-nente femminile, Monika Stemmer parte dall’osservazione edalla frequentazione diretta del quartiere e, rilevando unaforte presenza di persone anziane che influenzano le tipolo-gie di negozi, le infrastrutture sociali e lo spazio pubblico, sce-glie di rappresentarle con dei monotipi. I disegni colorati, lesagome di carta comporranno gruppi di figure a grandezzaquasi reale collocati nelle strade, sulle palizzate dei cantieri,sui muri, nei luoghi di incontro.Adriana Torregrossa fa del container una sorta di video-box, oconfessionale, dove ciascun cittadino potrà esprimersi libera-mente. L’azione, aperta a tutti, seguirà un calendario che illu-strerà luogo e modalità di partecipazione al set. In una secon-da fase il materiale raccolto sarà utilizzato per la realizzazionedi un video da proiettare pubblicamente, e di un booklet cheriporterà le richieste, i desideri, i pensieri dei partecipanti.L’installazione luminosa progettata da Zimmerfrei è una “lumi-naria” realizzata con venti-trenta lampadari domestici, dono ogentile prestito di residenti o negozianti. La strada viene adot-tata come interno domestico e arredata con la cura che si riser-va agli spazi più accoglienti della casa. L’intervento, inauguratol’11 dicembre, è realizzato “disegnando” una linea di luce instretta sinergia con il centro storico bolognese e con la piazzadel Municipio e le nuove palazzine Acer a Pianoro.

Ma come definire l’arte pubblica? Come si svolge? Comeviene pensata da un artista?

“L’Arte ha sempre a che fare con le emozioni e con lo scam-bio di emozioni. L’arte in un luogo pubblico deve offrire al pub-blico la possibilità di un’esperienza di contatto fisico e corpo-reo (…). Fare arte in spazi pubblici significa, anche per l’arti-sta stabilire un rapporto con i posti scelti, coinvolgere la gentelocale o almeno una parte di essa, creare uno spirito di comu-nità focalizzato all’apprezzamento e il sostegno del progetto”(A. Garutti)

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MMaarriiaa PPiiaa CCiinnqquuee a.k.a MM PP 55

Diplomata in Scenografia all'Accademia di Belle Arti diBologna.

Ha studiato animazione, technical arts and special effectsalla Wimbledon School of Art di Londra.Divide la sua attività tra il fumetto, l'illustrazione, la scenogra-fia e il video.

Ha pubblicato diverse storie a fumetti per il Centro AndreaPazienza, su riviste underground austriache e canadesi, lavo-rato come illustratrice per diverse riviste italiane e quotidianicome Liberazione e disegnato numerose locandine per con-certi e spettacoli di teatro.

In teatro come visual stage designer ha lavorato alla messa inscena di Psicosi 4:48 / cantico di Sarah Kane per la regia diDavide Iodice e alla produzione di Malcolm, progetto del grup-po Motus.

Nel 2003 ha lavorato in Francia al progetto europeo Artists incontext delle Pépinières européennes pour jeunes artistes diParigi realizzando l'installazione Zoot 2 (Places des cotte-rets, Fougères)

Ha partecipato a numerose mostre collettive e personali inItalia e all’estero tra cui la Biennale dei giovani artisti dell’Europa e del Mediterraneo (Napoli 2005)

Ha ricevuto diversi premi nel campo del fumetto (premioAndrea Pazienza 2001, premio Bilbolbul 2002, premioIceberg per il fumetto 2002), dell'arte (premio Guercino2002, premio Artists in context 2003) e del cinema d’anima-zione (premio Iceberg per il cinema 2004, menzione specialeFestival Visioni Emiliano-Romagnole).

Diversi suoi progetti tra cui In Medicine we trust sono statisupportati dal progetto Capitale futuro della ComunitàEuropea.

Da due anni lavora frequentemente con il gruppo To/let con ilquale realizza installazioni site-specific e Design & Wearingelements.

www.mpcinque.comwww.mpcinque.splinder.comwww.flick.com/photos/mp5

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TTOO // LLEETT

SSoonniiaa PPiieeddaadd MMaarriinnaannggeelliiNata a Floridablanca in Colombia nel 1978, vive e lavora traBologna e Rimini.

EElliissaa PPllaaccuucccciinata a Cesena nel 1979, vive e lavora tra Bologna e Rimini.

Nel 2005 uniscono le rispettive esperienze nel campo della foto-grafia, della grafica e della scenografia, nel progetto TTOO // LLEETT..

Attraverso l’utilizzo di diversi media e materiali, dall’installa-zione alla grafica, disegni, interventi pubblici, e gadgets, TTOO //LLEETT opera verso la reinterpretazione degli spazi intimi e degliambienti sociali. Sia pubblici che domestici i luoghi vengono ricostruiti, rimon-tati, utilizzando diverse tecniche, fuori dal loro contesto,andando a rappresentare oggetti e atteggiamenti che rendo-no sociale tutto ciò che è intimo e privato.Le loro installazioni cambiano sempre a seconda del luogo incui intervengono, il loro lavoro può essere inteso come un ri-disegnare lo spazio e gli oggetti di uso comune, che cambia-no di senso attraverso il loro segno.Hanno partecipato a mostre collettive fra le quali : "Ouvertureunder 30 fie arts" Premio Campigna 48° edizione, a cura diA.Baccilieri , segnalate nel 2006 al "Premio DAMS”, “Biennaledei giovani artisti", a cura di Renato Barilli , ed alla collettiva"La Giovine Italia", curata da Renato Barilli .

Da circa due anni TO / LET collabora con l’artista Mp5, a pro-getti comuni che coniugano l’installazione site-specific, lapublic art, la street art e il fumetto.La tecnica utilizzata varia dalle stampe di grandi dimensio-ni all’applicazione di vernici, nastro adesivo, stickers ebombolette.Al loro attivo hanno già diversi lavori effettuati nelle strade diRoma, Bologna e Torino, gallerie in Italia e all’estero e com-missioni da parte di enti pubblici per il ridisegno di arrediurbani, come per l’evento L’ECOLE DEL RUSCO, piazza Verdi,Bologna, o l’esterno di CONTAINER OSSERVATORIO LABORA-TORIO MOBILE DI ARTE PUBBLICA, progetto a cura della gal-leria Neon, Bologna.

www.marinangeliplacucci.comwww.flickr.com/to_let

[email protected]

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PPrrooggeettttoo PPoollaarrooiidd,, ee llaa ccoollllaabboorraazziioonnee MMaann AAtt WWoorrkk ccoonn iill ggrruuppppooTTOO//LLEETT..

SS..AA..: MP5 puoi spiegarci meglio il tuo progetto?

MMPP55:: il Progetto Polaroid che sto conducendo nel quartiere, è utilein prima persona a me stessa: il disegnatore che osserva il territo-rio con il blocco degli schizzi e osservando ne ricostruisce la realtà.Il “fare ritratti” porta a fare “derive” e disegna una mappatura delquartiere legata ai mestieri, al lavoro, alle attività “vive” di quel tes-suto. Entrare nel quartiere perme ha significato questo:entrare nei mestieri.

Penso sia molto difficile farequalcosa di permanente in unluogo abitato da altri: in un certosenso chi abita un luogo lo pos-siede. E quindi un’operazionedi Public Art è un progetto insidioso. Perché si insinuanelle proprietà altrui, nella vitadegli abitanti di un luogo. E allo-ra preferisco progetti di PublicArt che possono non essere per-manenti, ma comunque perma-nere nella memoria degli abi-tanti come esperienza. Senzaprovocare una invasione del ter-ritorio.

È indispensabile essere il meno invasivi possibile. Piccoli oggetti poco visibilisono qualcosa che appare solo se vuoi che appaia. Ti permettono di scegliere.E nel caso si voglia creare qualcosa di permanente da donare alla comunità,bisogna immaginare elementi dotati di una “ecologia dello sguardo” che noninquinino la visuale, l’immagine di un luogo. È necessario in generale che i pro-getti possano essere accettati o rifiutati da una comunità. È necessario chesiano leggeri, che possano essere rimossi con semplicità, strappandoli conuna “mano di bianco”. Non sono statue alla memoria dell’artista, ma oggettilegati ad una permanenza temporanea, reversibile. Solo così si crea un rap-porto di fiducia e l’opera può trasformarsi in un dono. Per questo è possibile

usare immagini di uomini chelavorano, incessantemente, percambiare continuamente lavisione di un luogo. Questo è ilsenso dei Men At Work, l’altroprogetto che sto conducendoper le strade del quartiereSan Donato assieme al gruppoTO/LET (Elisa Placucci e SoniaMarinangeli).L'idea dei Men at work mi èvenuta inizialmente - inten-do per il container poichègià da qualche mese con leTO/LET ci lavoravamo peraltre installazioni - perchèsi voleva "abbellire” il con-tainer, perchè mi sembra-vano adatti a questo tipo diprogetto, ma poi la cosa ci

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ha preso la mano e ci è piaciuto "contaminare" il quartie-re con la loro presenza.Insomma, quando vedi i Men at work in giro significa cheli c'è o c'è stata la presenza del container. In questo modo,tra l’altro, abbiamo giocato molto con il tessuto urbano,creando nel quartiere innumerevoli storie vissute dai"M.a.w." che non altro che un nostro "prolungamento".

SS..AA..: come convivono i 2 progetti Man At Work” e Polaroid?

MMPP55:: sono due progetti paralleli, ma che in qualche maniera par-tono dallo stesso presupposto. L'idea di partenza è di mettere in gioco me stessa In particolarmodo nel progetto Polaroid che si basa su una conoscenza direttadelle persone e implica un’interazione vera tra me e coloro che incon-tro nelle mie "derive" (concetti fondamentali del programmadell’Internazionale Situazionista: al momento della sua fondazione par-liamo di Urbanismo Unitario, psicogeografia - ovvero l’esplorazione pra-tica del territorio attraverso le derive - e l’idea del potenziale rivoluzio-nario del tempo libero) nel quartiere San Donato. Derive qui, nelsenso di "camminate"; un pò possono rimandare alle derive situa-zioniste anche se poi la cosa si evolve in maniera differente.Le mie derive possono essere intese come una scoperta del luogoattraverso delle lunghe “camminate” dove cose o persone mi colpi-scono per una qualche ragione; questa è la differenza tra il

progetto Polaroid e il progetto Man At Work.Il progetto Polaroid si focalizza sulle persone mentre il progettoMen At Work sugli "arredi" del tessuto urbano. Questi due progetticonfluiscono e mi danno modo di avere una visione d'insieme delterritorio, dei suoi abitanti e della sua "struttura" architettonica.Quello che mi interessa è disegnare un percorso vero e proprio inun periodo limitato, vedere cosa mi da e cosa do io a un nuovo"territorio".Per spiegarmi meglio, nel primo step del progetto, nel quartiereSan Donato mi sono data un tempo - una settimana circa - e hodedicato tutte le giornate alle mie camminate nel quartiere.Non mi sono prefissata nulla. Avevo già avuto esperienza inFrancia con il progetto Artists in context delle pepinieres europe-ennes pour jeunes artistes, un residence della durata di 6 mesiin cui ci era stato chiesto un progetto di public art che interagis-

se con le persone. È abbastanza assurdo partire con un'idea pre-cisa di quello che farai in un posto che non conosci: non puoisapere le reazioni delle persone, quello che ti comunica il territo-rio, insomma puoi avere un'idea vaga di come tu possa agire, mapoi in realtà tutto cambia. Hai una risposta ogni volta differente enon puoi sapere come andrà a finire il tuo progetto. Insomma lapublic art è un'operazione artistica rischiosa - come tutte le opera-zioni artistiche - ma c'è una componente di rischio in più poichè ilprogetto è fatto per metà dalle persone. Insomma non hai il totalecontrollo. In effetti alla prima riunione presso la Neon mi è stato chiesto piùvolte cosa avrei fatto e quale sarebbe stato il mio progetto per ilcontainer, ma non ho mai saputo dare una risposta precisa.Avevo bisogno di viverlo, il territorio.

SS..AA..:: il soggiorno in Francia ti ha segnata, puoi parlarci in breve delprogetto svolto a Fougères?

MMPP55:: il ritratto è un mezzo popolare che crea facilmente un contat-to con le persone: disegnare le linee del volto di una persona maivista prima, crea immediatamente un rapporto di familiarità.Ciascuna delle facce che incontravo ogni giorno mi avrebbe potutooffrire un frammento di racconto della città. Ho pensato che i ritrat-ti sarebbero dovuti risultare istantanei e fugaci proprio come gliincontri e ho immaginato delle polaroid disegnate con su dei volti

della gente. Ho cominciato così a conoscere i cittadini di Fougères:poco inclini a farsi fotografare, un pò sospettosi verso un elementoestraneo alla loro piccola comunità; erano invece molto interessatia vedermi disegnare e curiosi di vedere se stessi attraverso il miosguardo. Andavo in giro per la città, con un pennarello nero indele-bile e talloncini di poliplat della grandezza di una vera polaroid, fer-mavo le persone per strada e chiedevo se avessero voluto un’istan-tanea. In pochi minuti l’occhio catturava i dettagli: del volto, dellapettinatura, dell’abbigliamento e dello spazio ritagliato intorno. Inquesto modo sono riuscita a incontrare più di cento persone, impa-rando a conoscere attraverso i loro racconti l’umanità di questa cit-tadina. Avendo raccolto una grande quantità di materiale, mi sonoresa conto di avere in mano il mio primo progetto di public art com-pletamente incentrato sul mio fare con e per le persone: nella gal-leria di Arcade al termine della mia residenza è stata organizzata

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una mostra di tutte le polaroid, che havisto la partecipazione di tantissimi cit-tadini. Molti di coloro che avevo ritrattosono venuti a vedersi esposti portandocon sé amici e parenti; quasi nessunoera entrato, prima di quel mometo, inuna galleria d’arte.

SS..AA..: i "man at work" sembrano appar-tenere piu alla street art che all’artepubblica. Se si parla del rischio però, lìsiete autorizzate a attaccare gli stic-kers. È questa la differenza fra le duetipologie d’arte?

MMPP55:: diciamo che non ho mai amatomolto la definizione "street art", nonla capisco del tutto, è molto vaga. Sì,in generale si usa per un'arte fatta instrada usando varie metodologie dilavoro, dall'"attacchinaggio" di poster,stickers, a graffiti dipinti sui muri.Capisco che la gente debba sempredare una definizione alle cose.In generale penso che la street art,che quella che chiamano street art,sia un atto spontaneo dell'artista che- sì, come dici tu - non ha bisogno diautorizzazioni per farlo, semplice-mente lo fa.

Io penso che una differenza sostanziale

tra la public art e la street art (ma anche

l'arte in generale) si basa sull’aspetto

economico. Di solito la public art viene

pagata in anticipo, la street art non

viene pagata da nessuno nè tanto meno

autorizzata. L'arte in generale - il prodot-

to artistico per intenderci - aspetta di

essere acquistata. L'unica differenza

sostanziale è questa, economica. Per

quanto mi riguarda, a meno che non mi

chiedano di farlo per un posto specifico,

se attacco in maniera "random" le mie

cose non ho mai un autorizzazione (non

ho quasi mai l'autorizzazione). In gene-

rale non ho mai avuto problemi perchè

di solito attacco i miei disegni in luoghi

dove non danno fastidio a nessuno,

anzi. Palizzate, cantieri, vecchi edifici

abbandonati, centri sociali. Non mi ha

mai detto niente nessuno - una volta

l'abbiamo fatto perfino davanti alla

municipale - nel momento in cui sentirò

di doverlo fare in un posto molto visibile

e di una qualche importanza sarà

comunque per una ragione. Non certo

solo quella di far vedere il mio lavoro.

SS..AA..:: il ritratto come fotoreportage:nel tuo lavoro di “polaroid” usi il tuo tempo per ascoltare e cono-scere le persone che ritrai, entrare nel loro mondo, nella loro rou-tine…

MMPP55:: certo, ma perchè non mi interessa la foto in se cioè non èquello il mio scopo. Purtroppo molti lavori di public art vengono fatti pensando alladocumentazione, cioè vivono solo nella documentazione. In realtàpossiamo vedere ad una mostra gli esiti di un lavoro di public arte pensare “wow! che belle foto! che bel lavoro!”, ma cosa ne sap-piamo in effetti di quello che c'è dietro? In alcune occasioni hovisto cose fatte solo per le mostre, il che è abbastanza assurdo. Ionon uso mai la fotografia come primo approccio. La foto è una con-seguenza. Una cosa che tengo come ricordo più che altro.Se vai da una persona è chiedi di poterle fare una foto, è moltoprobabile che questa persona ti dica di no. Io poi sono una dise-gnatrice, di fondo, per me conoscere una persona significa osser-varla, parlarle. Il ritratto che le faccio, è un sunto di questo, dicome la vedo di come si muove, di quello che mi dice.Fare il ritratto ad una persona crea un'intimità. Non è invasivo comela fotografia. C'è anche un certo piacere da parte delle persone chevengono ritratte. Una curiosità che ho trovato solo nel disegno.La fotografia, viene dopo, quando riporto le polaroid, la fotografiaè come se fosse l'esito di tutta una storia. Infatti, alcune personenon si fanno fotografare o si coprono il volto, in genere quelle concui si è creato un rapporto di "amicizia" accettano sempre di farsifotografare con la polaroid in mano. La foto è la fine di una storia,la testimonianza di quello che è avvenuto tra di noi.

SS..AA..:: i disegni vengono regalati alle persone ritratte dopo un lassodi tempo. Come mai questo dono?

MMPP55:: si,come in una storia di amicizia, di amore, lascio che le per-sone abbiano il tempo di riflettere su quanto è avvenuto. Mi piaceil ri-incontro: dopo un lasso di tempo vedo se quelle persone siricordano di me, di come "mi ricordano", mi piace vedere comevengo accolta. Succede che alcune persone neanche si ricordanodi me, altre mi fanno le feste.Insomma voglio questa "verità"; fare subito una foto significhereb-be distruggere tutto questo. Il disegno sembrerebbe una scusa,una cosa fatta in funzione della foto e così non è assolutamente.

SS..AA..:: i “man at work” sono una collaborazioe con il gruppo TO/LET,come in molti altri tuoi lavori, da cosa nasce questo incontro?

MMPP55:: il gruppo TO/LET sono Sonia Marinangeli e Elisa Placucci; ci

conosciamo dai tempi dell'accademia. Per lungo tempo abbiamo

seguito percorsi differenti. Ad un certo punto le nostre strade si

sono incrociate. Molto è dovuto all'assidua frequentazione: ad un

certo punto "ci si contamina". Inizialmente mi hanno aiutato nei

graffiti, a finirli più in fretta, a colorarli, poi hanno iniziato ad esse-

re parte attiva nelle installazioni, nei graffiti, nell"attacchinaggio"

di poster. Hanno iniziato ad avere tantissime idee. Arrivati a que-

sto punto non riesco più a distinguere cosa sia loro e cosa sia mio.

Mi riferisco alle installazioni: abbiamo delle idee differenti, ma che

si completano involontariamente, siamo diventate un “gruppo”.

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LLAA RROOMMAANNIINNAA......

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PPEERRSSOONNAA SSOOCCIIAALLMMEENNTTEE PPEERRIICCOOLLOOSSAA

Moulin Rouge, Firenze. Anni ‘70, immagine d’archivio

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PPEERRSSOONNAA SSOOCCIIAALLMMEENNTTEE PPEERRIICCOOLLOOSSAA

Correva l’anno 1968, quando con questa motivazione,

Romano Cecconi, fu costretto al confino giudiziario perché

‘macchiato’ dal reato di travestitismo.

Il confino è un provvedimento emesso dalle autorità di polizia

anche senza la necessità di un processo regolare e/o di una

condanna per un reato effettivamente previsto dal codice

penale. Consiste nell’obbligo di dimora in un comune della

Repubblica Italiana, diverso dalla propria residenza, per un

periodo di tempo che varia da 1 a 5 anni. Tale restrizione era

piuttosto comune durante il fascismo è stata mantenuta in

vita anche dopo la fine del regime.

Romina Cecconi, in origine Romano Cecconi per ragioni bio-

logiche e per l’anagrafe, è una tra le prime donne in Italia

divenute tali grazie ad un intervento chirurgico. A me piace

descriverla come una donna bella e coraggiosa, una pioniera

intelligente, dotata di una spiccata e pungente ironia che le

ha permesso di sopravvivere e dominare una realtà che cer-

tamente non remava a suo favore.

Stiamo parlando del periodo a cavallo tra gli anni ’60 e i

’70. Gli anni appunto in cui le forze dell’ordine la conside-

ravano un pericolo e la chiesa un diavolo tentatore. Come

se quella identità evidentemente femminile che si faceva

via via sempre più forte, anche come forma di reazione ai

continui soprusi che le venivano imposti, fosse in realtà

“il male” che, impossessatosi di lei, doveva essere inevi-

tabilmente esorcizzato.

Se il confino non è

stato l’unico incre-

dibile evento nella

vita di Romina, (se

ne sono sussegui-

ti tanti e tali da

poterci descrivere la storia di un’epoca), è sicuramente, però,

uno dei più paradossali. Il suo comportamento, moralmente

deplorevole e alquanto oltraggioso, le costò un ‘esilio’ che la

costrinse a trasferirsi per qualche tempo a Volturino, paesino

del Foggiano. Viene da ridere pensando allo sconcerto provo-

cato da questo giovane uomo…no, donna… no, forse…ma chi

lo sa…nella tranquilla vita del piccolo borgo pugliese. Era il

1968. E già la vediamo scendere dal treno, tra gli sguardi sbi-

gottiti di uomini ipnotizzati e affascinati e donne scandaliz-

zate, accompagnata da una colonna sonora che sembra

essere stata scritta apposta per lei, la Bocca di Rosa di

GGllii aannnnii iinn ccuuii llee ffoorrzzee ddeell--ll’’oorrddiinnee llaa ccoonnssiiddeerraavvaannoouunn ppeerriiccoolloo ee llaa cchhiieessaa uunnddiiaavvoolloo tteennttaattoorree

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Fabrizio De Andrè. Il paradosso, forse, è stato il minimo

comun denominatore della sua vita, continuamente in bilico

tra palcoscenico e marciapiede, continuamente osannata e

additata, amata come una diva ma al tempo stesso giudicata

come una qualsiasi puttana.

Molti prima di me si sono interessati alla sua storia e alla sua

vita. Sono stati scritti molti articoli, lei stessa ha scritto un

libro in cui si racconta senza remore e senza vergogna com’è

del resto sempre stato nel suo stile. Questo libro qualche

anno fa ha ispirato Anna Meacci nella realizzazione di uno

spettacolo teatrale.

Operazione di certo ardua quella di mettere in scena la vita di

una persona che ha fatto della teatralità il proprio segno di

riconoscimento. Un po’ per puro narcisismo, un po’come

forma di sopravvivenza, Romina ha sempre giocato con la sua

immagine e la sua femminilità ispirandosi per lo più ad un

modello di femme fatale che le calzava a pennello. È lei stes-

sa che ci rende emotivamente partecipi, tra le righe della sua

testimonianza letteraria, di come fosse inebriante travestirsi

ed imitare di volta in volta Brigitte Bardot, Marilyn Monroe, o

Milva, personaggi che sognava di essere e che le facevano

dimenticare di esibirsi nel palco di un piccolo circo itinerante

fiorentino o in uno squallido locale parigino.

Probabilmente, giocare il ruolo di una diva era anche un modo

intelligente per pungere e affrontare ulteriormente gli sguardi

ipocriti di quelli che inorridivano al pensiero che, sotto quegli

abiti pomposi ed eccentrici che mettevano in evidenza un

corpo ora sensuale e prorompente, un tempo ci fosse stato

un uomo. Era il suo modo di comunicare la volontà di non

nascondersi urlandolo a piena voce e ai quattro venti.

Oggi Romina ha 67 anni, un’età che si fa fatica ad attribuirle.

Ma se il suo corpo ci inganna, i suoi modi non sanno mentire.

Nei suoi discorsi, tra lerighe, si legge sempre l’orgoglio, la con-

sapevolezza, la saggezza di chi, durante il corso della vita ha

sofferto molto lottando per raggiungere un obiettivo. Il suo è

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stato quello di diventare una donna e adesso lo è, completa-

mente. Fiera, quindi, di essere stata padrona del suo destino,

ama sottolineare che rivivrebbe ogni istante, ogni cosa così

come è stata.

Sono passati molti anni da quando Romina ha combattuto le

sue battaglie, ma la vicenda avvenuta in una discoteca di

Roma qualche giorno fa e riportata nell’articolo uscito il 5

Febbraio scorso sull’Unità ci dimostra quanto il problema sia

attuale e quanto la società faccia ancora fatica ad abbando-

nare antichi pregiudizi. Il buttafuori, e in seguito lo stesso pro-

prietario, hanno vietato l’accesso al locale ad A., giovane tran-

sessuale, per il semplice motivo che il suo aspetto non corri-

spondeva ai dati riportati sulla sua carta d’identità.

Chiedendo ulteriori spiegazioni A. si è sentito rispondere che

non poteva entrare perché era, appunto, un trans.

Credo sia inaccettabile l’evidente difficoltà che la società

dimostra ancora oggi nel riconoscere un’identità a coloro che

hanno deciso di cambiare sesso e le parole di Enrico Fierro,

autore dell’articolo citato, la descrivono chiaramente: “Sei

una persona trans, sospesa tra cielo e terra, né maschio né

femmina, per la burocrazia e per l’ottusità di un accigliato but-

tafuori”.

Risalgono a poche settimane fa le iniziative curate dall’

Arcigay ‘il Cassero’ di Bologna che, in occasione della

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Matrimonio con Antonio Moschonas , anno 1977. Firenze

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Giornata della Memoria, il 27 Gennaio, ha deciso di organizza-

re una serie di interessanti eventi allo scopo di ricordare la per-

secuzione degli omosessuali e dei transessuali durante il nazi-

smo e il fascismo. Repressione che troppo spesso è stata

messa in dubbio se non addirittura taciuta intenzionalmente.

Le vittime della spietata follia nazifascista furono all’incirca

100mila di cui 10mila vennero uccise.

Mentre in Germania nasceva un articolo specifico del

codice penale, il famigerato Paragrafo 175, in base al

quale si legittimava lo sterminio delle persone sessual-

mente “invertite”, in Italia alla deportazione si preferì il

confino coatto in luoghi remoti. Ogni condanna veniva

affidata a semplici atti di Polizia poiché il codice pena-

le allora vigente, il Codice Rocco, non conteneva alcun

articolo che menzionasse l’argomento.

I dati relativi a vittime omosessuali o transessuali, purtroppo,

non riguardano solo il passato. La persecuzione del ‘triangolo

rosa’ (simbolo che designava gli omosessuali all’interno dei

campi di concentramento nazisti) non è ancora finita. In paesi

come l’Arabia Saudita, l’Afghanistan, o lo Yemen gli omoses-

suali sono ancora oggi sottoposti alla pena di morte.

Proposte come questa, nata dall’impegno dell’associa-

zione bolognese, credo siano preziose affinché si faccia

luce, affinché si allontani il fantasma dell’omofobia e

una volta per tutte non ci si debba più chiedere “Perché

il comportamento sessuale, le attività e i piaceri che ne

dipendono, costituiscono l’oggetto di una preoccupazio-

ne morale? Perché e in quale forma l’attività sessuale è

andata costituendosi come campo morale? Perché que-

sta preoccupazione etica così insistente, benché varia-

bile nelle forme e nell’intensità? Perché questa ‘proble-

maticizzazione’?” (Michel Foucault)

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In spiaggia, 1960-61

Venezuela, fine anni ‘70

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Testo e foto di PPaammeellaa SSttrraacccciiaa

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