Humana.Mente Il Pensario della Biblioteca Filosofica
Notiziario trimestrale
N O T I Z I E D I F I L O S O F I A E V E N T I C U L T U R A L I L A B O R A T O R I O D I I D E E
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- N° 4, Febbraio 2008
Biblioteca Filosofica © 2007 - Humana.mente, Periodico trimestrale di Filosofia, edito dalla Biblioteca Filosofica - Sezione Fiorentina della Società Filosofica Italiana, con sede in via del Parione 7, 50123 Firenze (c/o la Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università degli Studi di Firenze) - Pubblicazione regolarmente iscritta al Registro Stampa Periodica del Tribunale di Firenze con numero 5585 dal 18/6/2007.
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N O T I Z I E D I F I L O S O F I A E V E N T I C U L T U R A L I L A B O R A T O R I O D I I D E E
INDICE
• Editoriale - pag. II
• Filosoficamente scorretto - pag. V
PAPERS
• Tripodi, V., Contestualità e composizionalità del significato - pag. 1
• Giolito, B., - Una componente non concettuale dell’aspetto semantico del linguaggio - pag. 27
• Bellucci, S.,- I limiti dell’analisi linguistica tra Conrad e Wittgenstein - pag. 42
• Romano, D.,- Si può parlare di linguaggio del biologico? - pag. 74
• Messeri, L., – Biolinguistica: da Noam Chomsky a Andrea Moro - pag. 91
RECENSIONI
• Metafora e vita quotidiana, di George Lakoff - pag. 120
• Nuovi orizzonti nello studio del linguaggio e della mente. Linguistica, epistemologia e
filosofia della scienza, di Noam Chomsky - pag. 124
• Detto non detto: le forme della comunicazione implicita, di Marina Sbisà - pag. 128
• Filosofia della Conoscenza, di Roberta Lanfredini- pag. 131
• Il significato Inesistente, di Alberto Peruzzi - pag. 136
• Per la verità. Relativismo e la filosofia, di Diego Marconi - pag. 138
• Il canto degli antenati. Le origini della musica, del linguaggio, della mente e del corpo, di
Mithen Steven - pag. 141
• Il terreno del linguaggio. Testimonianze e saggi sulla filosofia di Wittgenstein, a cura di
Silvana Borutti e Luigi Perissinotto - pag. 145
• La virtù crudele. Filosofia e storia della sincerità, di Andrea Tagliapietra - pag. 148
• Galileo in Leopardi, di Gaspare Polizzi pag. 150
• Toward an Evolutionary Biology of Language, di Philip Lieberman - pag. 153
RILETTURE
• The availability of Wittgenstein's philosophy, di David G. Stern - pag. 158
• Linguaggio e natura umana, di Ray Jackendoff - pag. – 163
INTERVISTE
• George Lakoff - pag. 171
• Luigi Perissinotto - pag. 207
• Gaspare Polizzi - pag. 212
• Marino Rosso - pag. 226
FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO:
prospettive di ricerca Numero Quarto – Febbraio 2008
Editoriale
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Editoriale – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
II
Filosofia del linguaggio: prospettive di ricerca
All’inizio del secolo scorso la filosofia ha vissuto un profondo cambiamento, oggi
comunemente noto come svolta linguistica. Il linguaggio divenne l’oggetto
principale dell’indagine filosofica sia in campo analitico, che nella tradizione
continentale. Dopo quasi un secolo il linguaggio costituisce ancora uno dei punti
di snodo principali del lavoro del filosofo. Non ci si è allontanati molto dall’idea
che la filosofia dovesse fornire, tramite l’analisi del linguaggio, una qualche igiene
del pensiero e chiarificazione dei concetti. Da allora però nuove prospettive di
ricerca si sono aperte e altre se ne sono chiuse.
Dalla seconda metà del Novecento le scienze cognitive e la linguistica in
particolare hanno dato nuova linfa alla filosofia del linguaggio. Autori come Noam
Chomsky hanno inaugurato interi e fecondi filoni di ricerca. Oggi, così come
accade per altre aree all’interno della riflessione filosofica, il dialogo si fa più
serrato con le neuroscienze e con le scoperte sull’implementazione cerebrale
della facoltà linguistica. Non a caso si è giunti a prefigurare l’estendersi di una
vera e propria nuova disciplina come la ‘Biolinguistica’.
A Firenze, il 24, 25 e 26 Gennaio si è tenuto un convegno nazionale sul Linguaggio
organizzato da un gruppo di ricerca del Dipartimento di Filosofia e dalla Biblioteca
Filosofica Fiorentina, sezione della Società Filosofica Italiana.
Il convegno ha visto il succedersi delle relazioni di alcuni tra i più importanti studiosi
italiani in materia, come Luigi Perissinotto, Alberto Peruzzi, Michele Marsonet,
Roberta Lanfredini, Maria Rosaria Egidi e Paolo Spinicci. Humana.Mente
approfittando di questa occasione ha voluto dedicare il suo quarto numero
proprio al tema del linguaggio e alle nuove prospettive di ricerca che oggi si
affacciano nel mondo filosofico.
Questo fascicolo è così legato ad una rilettura generale dei classici, ma è anche
uno sguardo gettato sul futuro delle ricerche sul linguaggio. Dalla grande
tradizione analitica del Circolo di Vienna e dall’uscita del Tractatus di Wittgenstein
è passato moltissimo, ma è sembrato imprescindibile impostare la discussione a
partire da lì. I nostri papers però sono rivolti soprattutto al futuro: da che cosa sia il
linguaggio in una scienza naturale come la genetica, a che ruolo giochino
Editoriale – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
III
neuroni specchio e reti neurali nel definire nuovi orizzonti semantici, fino alle più
recenti ricerche italiane sulla cosiddetta ‘biolinguistica’.
Il panorama scientifico italiano degli studi sul linguaggio appare – come vogliono
testimoniare le recensioni e le interviste di questo ultimo numero - non rilassato e
stanco, bensì vivo e mobile.
Sul linguaggio molto potrebbe dire oggi un progetto di ricerca che porta il nome
di NEURAL THEORY OF LANGUAGE e che vede in George Lakoff uno degli iniziatori presso
l’Università della California, Berkeley. Di questo ma anche dei suoi più recenti studi
su politica e linguistica, e sull’origine delle teorie matematiche abbiamo avuto
modo di parlare con lo stesso Lakoff in un lungo colloquio, che riportiamo
integralmente tra le nostre interviste.
In che modo la grammatica universale sia incorporata nel cervello, quali aree del
cervello regolino la sintassi e quali la semantica, che rapporto vi sia fra linguaggio,
natura umana e mente nel senso più esteso, sono i temi che il quarto numero di
Humana.Mente ha cercato di dipanare, non dimenticando la lezione dei classici
ed il contributo della ricerca italiana.
Con il numero di Febbraio 2008 la rivista giunge alla sua quarta uscita e presenta
una veste editoriale nuova e più funzionale agli standard dei formati scientifici
correnti per le riviste elettroniche. Il nuovo sito della rivista www.humana-mente.it
consentirà al lettore di scegliere tra una versione completa - in cui compaiono le
sezioni grafiche e multimediali, la storia della rivista e del suo editore, i links ad altri
siti di interesse filosofico e l’elenco di tutti i redattori/collaboratori di
Humana.Mente unitamente al comitato scientifico della rivista - e una versione
light, solo ‘accademica’, dove sarà possibile scaricare in formato pdf tutti gli
articoli scientifici e dove si potranno facilmente effettuare ricerche per autore o
argomento.
L’intento è quello di presentare ai lettori e al mercato editoriale un prodotto che
sia consultabile in maniera chiara e diretta da chi già naviga nel mondo filosofico,
ma che sia anche appetibile per chi - estraneo alla ricerca accademica - voglia
confrontarsi con le domande che questa disciplina continuamente solleva sulla
natura delle cose.
Filosoficamente Scorretto – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
V
Filosoficamente scorretto
Terza puntata
È diventato ormai un luogo comune affermare che la filosofia si occupa
perennemente di formulare con esattezza le domande relative ai grandi problemi
dell'uomo, dell'esistenza, del bene, della verità, del bello, ecc… Tutti problemi
ritenuti universali ed eterni, profondamente radicati e sentiti in ogni epoca.
Questa cura particolare per le "domande" è diventata secondo molti la funzione
principale della attività filosofica.
Ci si scorda, non sempre in buona fede, che i grandi del passato (anche se non
tutti!) si sono occupati della giusta formulazione delle domande perché erano
interessati alle risposte! E domande e risposte vertevano su problemi reali, spesso
problemi che sorgevano da situazioni concrete.
In molti casi poi questi autori hanno anche provato a costruirsi da soli gli strumenti
concettuali adeguati per rispondere a quelle domande o si sono interessati a
cercare di capire chi altro e con quali altri mezzi avrebbe potuto cominciare a
tentare la o le risposte giuste.
Oggi invece sembra accadere, e guarda caso soprattutto in Italia, che la
funzione essenziale e quasi unica della filosofia sia quella di impostare le domande
e poi di limitarsi a confrontarle con altre preoccupandosi molto poco di suggerire
almeno una strategia per le risposte.
Senza voler essere pregiudizialmente maliziosi, non sarà forse che l'arte della
domanda, pur degna ed utile, è meno, molto meno impegnativa della ricerca
lunga e spesso faticosa di una risposta convincente? E non espone forse i suoi
praticanti al fastidioso rischio di imboccare vicoli ciechi o addirittura di prendere
clamorosi abbagli? (con gravi conseguenze sulla propria autostima e sul prestigio
accademico-mediatico magari faticosamente conquistato).
Filosoficamente Scorretto – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
VI
Il fatto è che, oggi in modo particolare, una volta precisato un problema, le
competenze richieste per affrontarlo seriamente sono sempre più vaste e
profonde e richiedono anni di applicazione e di studio accurato.
E i filosofi, in genere, sono abituati a volare molto in alto, a trascurare i dettagli e a
non fare troppa fatica: la cura per la precisione e le formulazioni troppo anguste
sembrano non interessarli affatto, presi come sono dalla considerazione di
problemi giganteschi.
Si sa poi che più in alto si vola e meno resistenza si incontra ... e si fa anche un gran
figurone!
Viene in mente l'aneddoto relativo ad Einstein che quando arrivò a Princeton gli fu
chiesto di cosa aveva bisogno per le sue ricerche. Rispose che sarebbero bastati
una lavagna, una modesta quantità di fogli bianchi ed un cestino. Qualche
malizioso aggiunse poi che i filosofi sono ancor più frugali: a loro non servono
neppure la lavagna e, soprattutto, il cestino.
Umberto Maionchi
1
CONTESTUALITÀ E COMPOSIZIONALITÀ DEL SIGNIFICATO
VERA TRIPODI
Il presente lavoro si propone di difendere la composizionalità del principio del contesto e
di dimostrare che in una corretta interpretazione di esso non possa sussistere alcuna
allusione a una qualche forma di olismo del significato. Il principio del contesto esprime,
secondo Quine, l’idea che i portatori primari del significato siano gli enunciati; Dummett
invece considera questa tesi o priva di senso o un truismo. L’articolo è diviso in tre parti.
Nella prima parte, si mostra il modo in cui Quine interpreta questo principio e il perché
Dummett consideri assurda questa interpretazione. La seconda parte dell’articolo è
dedicata alla spiegazione di quale sia per Dummett l’interpretazione corretta del
principio del contesto e si pone particolare attenzione alla sua duplice applicazione, alla
nozione di senso e a quella di riferimento. Nella terza parte, si discute la presunta
incompatibilità tra il principio del contesto e quello di composizionalità e si giunge alla
conclusione che i due principi siano in realtà complementari e che la supposta
conflittualità tra di essi sia solo apparente.
1. Contestualità e composizionalità.
Due importanti principi governano la teoria fregeana del significato: il principio di
contesto e il principio di composizionalità. Formulato per la prima volta da Frege
nelle Grundlagen, il principio del contesto, o altrimenti detto “principio di
contestualità del significato”, afferma che:
“è solo nel contesto di un enunciato che una parola ha significato”1.
Tale principio ha come suo corollario che:
“non si deve mai indagare sul significato di una parola in isolamento”2.
1 "Nur im Zusammenhange eines Satzes bedeuten die Wörter etwas" in G. Frege, Die Grundlagen der Arithmetik. § 62. 2 Ivi, Introduzione, IX.
Vera Tripodi, Contestualità e composizionalità del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
2
Nelle Grundlagen, l’importanza di questo principio viene più volte ribadita. In
quest’opera, infatti, esso figura innanzitutto come uno dei principi che regolano
l’indagine fregeana sui fondamenti dell’aritmetica.
Il principio di composizionalità (noto anche come “principio di Frege”) afferma
invece che:
“Il significato di un’espressione composta è determinato dalla struttura dell’espressione
e dai significati delle espressioni componenti”.3
Si è sostenuto che tra i due principi vi sia una certa conflittualità e che questa sia
una prova dell’abbondono da parte di Frege del principio del contesto dopo le
Grundlagen. A sostegno di questa tesi c’è il fatto che mentre Frege formula il
principio di composizionalità solo dopo le Grundlagen, il principio del contesto non
viene mai più riproposto dopo il 1884.
Vediamo in che senso si può ritenere che i due principi confliggano. Il principio di
composizionalità stabilisce che il significato del “tutto” sia determinato dal
significato delle “parti”. Il senso di un enunciato, o il pensiero che esso esprime, lo
ricaviamo composizionalmente, ovvero “mettendo insieme” i sensi delle
espressioni che lo compongono. Pertanto, il principio di composizionalità esige
che il contributo dato dalle espressioni sia uniforme da enunciato a enunciato. In
altri termini, la composizionalità richiederebbe che le espressioni siano dotate di un
significato proprio, indipendente dal particolare contesto enunciativo, e di un
significato stabile, cioè “lo stesso” in tutti gli enunciati.
Ora, l’esigenza che le espressioni siano munite di un significato autonomo
confliggerebbe con il principio del contesto, il quale sembrerebbe negare alle
espressioni di possedere un significato indipendente da un enunciato. Anche la
richiesta che il significato delle espressioni sia sempre lo stesso parrebbe
incompatibile con l’idea che il significato di un’espressione possa cambiare da
enunciato a enunciato.
3 Cfr. G. Frege, Grundgesestze, paragrafo 32; G. Frege, Leggi fondamentali dell’aritmetica, a cura
di C. Cellucci, traduzione di N. Rolla, Roma 1995, p.106.
Vera Tripodi, Contestualità e composizionalità del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
3
Per risolvere questa presunta conflittualità fra composizionalità e contestualità, c’è
chi4 ha proposto di considerare il principio di composizionalità come applicabile in
modo diretto solo alle lingue formalizzate (in cui ogni termine ha un significato
sistematico) e il principio del contesto come valido solo per le lingue naturali. Per
chi assume una posizione come questa, il principio del contesto si presenta nelle
lingue naturali come un’integrazione del principio di composizionalità. Nelle lingue
naturali, a differenza di quelle formalizzate, la forma logica - si sostiene - può
essere diversa da quella grammaticale e per questa ragione è necessario ricorrere
al principio del contesto per determinare il ruolo logico svolto da ogni espressione
all’interno di un enunciato. Come vedremo qui di seguito, è possibile sostenere
che non vi sia alcuna conflittualità tra i due principi fregeani ed offrire una lettura
composizionale del principio del contesto. Questa proposta poggia sul rifiuto della
tesi, che Quine attribuisce a Frege, secondo cui l’unità del significato è
l’enunciato. Mi sembra dunque opportuno, al fine di valutare la validità della
proposta che qui si vuole difendere, analizzare in primo luogo il modo in cui Quine
intende il principio del contesto e in che termini questa posizione sia da ritenersi
priva di senso.
2. Critica di Dummett all’interpretazione del principio del contesto proposta da
Quine.
2.1 L’unità del significato è l’espressione o l’enunciato?
In Two Dogmas of Empiricism5, Quine attribuisce a Frege la scoperta che l’unità di
significato non sia la parola ma l’enunciato. Quine intravede in questa tesi di
Frege un superamento della convinzione, propria di filosofi empiristi come Locke e
Hume, che la singola parola sia il veicolo primario del significato. Secondo Quine,
4 Cfr. Bonomi A. (a cura di), La struttura logica del linguaggio, Milano 1973, quarta ediz. 1995. 5 W.V.O. Quine, Two Dogmas of Empiricism, in “Philosophical Review”, LX (1951), pp.20-43; ristampato in Quine, From a Logical Point of View, Cambridge (Mass.)1953, pp.20-46. [trad. ital. di E.
Mistretta, in Quine, Il problema del significato, Roma 1966, pp.20-44].
Vera Tripodi, Contestualità e composizionalità del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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questa scoperta di Frege, che determina un così importante cambiamento di
prospettiva in filosofia, è resa esplicita dal principio del contesto.
Il principio del contesto esprime, secondo Quine, l’idea che i portatori primari del
significato siano gli enunciati. Ora, Quine respinge la posizione di Frege,
giudicandola “una rete a maglie troppo strette”6, per adottare una tesi in base
alla quale l’unità di significato non è l’enunciato, ma “tutta la scienza nella sua
globalità”7. La tesi olistica sostenuta da Quine nega che possiamo spiegare il
significato di un singolo enunciato senza tener conto dell’intera lingua a cui esso
appartiene.
Dummett considera assurda questa lettura del principio del contesto. In più
occasioni8, Dummett ha affermato che la tesi che Quine attribuisce a Frege sia
una tesi che questi non ha mai sostenuto.
Ma c’è di più. Secondo Dummett, la tesi che l’enunciato sia l’unità del significato
è passibile di due interpretazioni diverse. La si può considerare o priva di senso o
un truismo. Vediamo in primo luogo in che termini la tesi che l’enunciato sia il
veicolo primario del significato sia priva di senso.
Per illustrare efficacemente la posizione di Quine, Dummett stabilisce un’analogia.
Possiamo paragonare il rapporto che sussiste tra un enunciato e le parole che lo
compongono a quello che sussiste tra una parola e le singole lettere che la
formano. All’interno di una parola le singole lettere non sono dotate di significato.
Se infatti prendiamo le espressioni “gatto” e “matto” osserviamo che esse hanno in
comune le quattro lettere “atto”9. Ma ciò non vuol dire che le due espressioni
abbiamo una componente comune di significato. Le singole lettere dell’alfabeto
infatti non hanno un significato proprio, esse possono tutt’al più essere utilizzate per
formare altre parole.
6 W.V.O. Quine, Due dogmi dell’empirismo, cit., p. 40. 7 Ibidem. 8 Cfr. M. Dummett, Frege.Philosophy of Languague, cit., p.3-4; M. Dummett, Nominalism, “Philosophical Review”, XXV(1956) pp.491-505, ristampato in M. Dummett, Truth and othe Enigmas,
London 1978, pp.38-49; M. Dummett, Frege’s Philosophy (1967), ristampato in Truth and other Enigmas, London 1978, p.95. 9 Nell’esempio dato da Dummett al posto di “gatto” e “matto” compare “mean” e “lean”. La scelta di “gatto” e “matto” è di Carlo Penco che ha tradotto in italiano il testo di Dummett. Vedi M.
Dummett, Frege. Philosophy of Language, cit., p.3.
Vera Tripodi, Contestualità e composizionalità del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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Ma il rapporto “parola\lettera” non è, secondo Dummett, del tutto analogo a
quello “enunciato\parola”. Se la relazione che l’enunciato ha con le parole che
lo compongono fosse analoga a quella che c’è tra una data parola e le singole
lettere che la formano, allora dovremmo concludere che le parole in un
enunciato non hanno più significato di quello delle lettere all’interno di una singola
parola10.
La tesi che l’enunciato è il veicolo primario del senso sembra poggiare
sull’osservazione che conosciamo il significato di una parola solo perché
conosciamo il significato dell’intero enunciato che la contiene. Ma Dummett
considera questa tesi, così intesa, assurda. E’ assurda perché incapace di
spiegare come sia possibile per noi afferrare e comprendere enunciati nuovi. La
tesi enunciata da Quine, secondo l’interpretazione che stiamo considerando,
nega il fatto abbastanza banale che noi possiamo comprendere enunciati nuovi
che non abbiamo mai proferito o sentito prima.
Come lo stesso Frege ha più volte spiegato, “la possibilità di comprendere
enunciati che non abbiamo ancora mai udito prima, poggia evidentemente sul
fatto che costruiamo il senso di un enunciato da certe parti, che corrispondono
alle espressioni”11. Frege ribadisce più volte che la nostra comprensione del senso
di un enunciato deriva dalla comprensione delle singole parti che lo
compongono. Noi comprendiamo i sensi degli enunciati perché già conosciamo i
sensi delle espressioni che formano l’enunciato. Non comprendiamo dunque gli
enunciati olisticamente.
Se infatti prendiamo in considerazione gli enunciati “L’Etna è più alto del Vesuvio”
e “L’Etna è in Sicilia”12 osserviamo che in essi c’è qualcosa in comune di cui
dobbiamo tener conto. In entrambi gli enunciati compare l’espressione “Etna”
che può comparire in numerosi altri enunciati in posizioni diverse. Per Frege,
l’espressione in comune nei due enunciati corrisponde a qualcosa in comune
anche nei corrispondenti pensieri che essi esprimono. La parola “Etna” nei due
esempi contribuisce all’espressione dei pensieri da parte dei due enunciati. Per
10 M. Dummett, Frege. Philosophy of Language, cit., p.3. 11G. Frege, Alle origini della nuova logica, cit., p.105. 12 Ibidem.
Vera Tripodi, Contestualità e composizionalità del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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Frege, questo contributo è parte del pensiero espresso dall’enunciato e in questo
precisamente consiste il senso della espressione “Etna”. Se l’espressione “Etna”
non avesse un senso, non avrebbe senso neppure l’intero enunciato che la
contiene. Un enunciato non può esprimere un pensiero se le espressioni che lo
compongono sono prive di senso. Da un lato dunque noi possiamo conoscere il
senso di un’espressione solo in relazione alla sua occorrenza negli enunciati,
dall’altro però la comprendiamo indipendentemente dal particolare enunciato in
cui può comparire.
Un parlante dunque, appartenente a una certa comunità linguistica, quando
apprende una lingua naturale non impara gli enunciati come se fossero dei
“blocchi unici”. L’apprendimento di una lingua non può consistere in questo.
Quando apprendiamo una lingua impariamo, tra le tante cose, il modo in cui le
diverse espressioni danno il loro apporto alla formazione di enunciati. Impariamo,
cioè, come le parole possono essere usate e combinate tra loro all’interno degli
enunciati.
Il carattere composizionale del senso permette dunque di spiegare un aspetto
caratterizzante la nostra pratica linguistica: la possibilità di apprendere e
comprendere nuovi enunciati. Se non fosse riconosciuto il carattere
composizionale del senso, saremmo costretti a richiedere che i parlanti siano in
grado di apprendere gli enunciati della lingua uno ad uno. Per apprendere in
questo modo una lingua dovremmo avere la capacità di memorizzare un numero
infinito di enunciati. Ma ciò naturalmente non corrisponde al modo in cui i parlanti
acquisiscono una lingua.
Si potrebbe aggiungere che procediamo non olisticamente non solo quando
udiamo e comprendiamo enunciati, ma anche quando costruiamo enunciati
nuovi. Componiamo enunciati nuovi a partire dalle singole parole perché in
qualche modo già conosciamo il significato che quelle parole possiedono. È in
virtù di questa conoscenza che scegliamo, in base al pensiero che dobbiamo
esprimere, di utilizzare un’espressione piuttosto che un’altra. Con un enunciato
possiamo, utilizzando parole “vecchie” che già conosciamo e che nella maggior
Vera Tripodi, Contestualità e composizionalità del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
7
parte dei casi abbiamo già impiegato in numerosi altri enunciati, comunicare un
pensiero “nuovo”.13
La nostra competenza linguistica si basa, dunque, sulla capacità di costruire e di
comprendere un numero potenzialmente infinito di enunciati. Per Frege ciò è
possibile perché egli postula una sorta di isomorfismo tra la struttura del pensiero e
quella del linguaggio, in base al quale i pensieri sono composti di parti che
corrispondono a parti degli enunciati che li esprimono. Frege descrive il carattere
composizionale del linguaggio così:
Meravigliose sono le prestazioni della lingua. Per mezzo di pochi suoni e di poche
concatenazioni di suoni essa è in grado di esprimere un immenso numero di pensieri, e
invero, pensieri mai pensati ed espressi da alcuno. Che cosa rende possibili queste
prestazioni? Il fatto che i pensieri sono costruiti per mezzo di blocchi di pensiero. E questi
blocchi corrispondono ai gruppi di suoni di cui è composto l’enunciato che esprime il
pensiero, così che alla costruzione dell’enunciato per mezzo delle parti di enunciato,
corrisponde la costruzione del pensiero per mezzo di parti di pensiero.14
Per Frege la struttura dell’enunciato riflette la struttura del pensiero. Ciò vuol dire
che analizzare un enunciato è spiegare come le diverse parti, di cui è composto
quell’enunciato, determinano il pensiero che l’enunciato esprime; e che afferrare
un pensiero espresso da un enunciato è possibile solo afferrando i sensi delle
singole parti componenti quell’enunciato.
In base a quanto detto, non è corretto dunque interpretare il principio del
contesto come se questo conferisse significato solo agli enunciati e lo negasse alle
singole parole.15 Piuttosto, se l’enunciato - come ritiene Frege - è formato da
singole parti che distintamente contribuiscono all’espressione del senso
dell’enunciato, allora da un certo punto di vista queste parti devono essere in
possesso di un loro senso autonomo.
13 Wittgestein così scrive: “Una proposizione deve comunicare con espressioni vecchie un senso
nuovo”. Vedi L.Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, § 4.03, trad. ital.a cura di A.G.Conte, Torino1995. 14G. Frege, Logica nella matematica, in G. Frege, Scritti postumi, cit., p.360-361. 15 Cfr.: M. Dummett, Nominalism, “Philosophical Review”, XXV(1956) pp.491-505; ristampato in M.
Dummett, Truth and other Enigmas, cit., pp.38-49.
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Passiamo ora ad analizzare in che termini la tesi attribuita da Quine a Frege sia un
truismo.
Per Dummett, è solo in parte corretto attribuire a Frege la tesi “l’enunciato è l’unità
del significato” nel senso in cui questa tesi è un’ovvietà. La tesi secondo cui
l’enunciato è il veicolo primario del significato è un’ovvietà se con essa si vuole
sostenere che non possiamo compiere nessun atto linguistico, non possiamo dire
nulla, se non per mezzo di un enunciato. Non c’è dubbio che il principio del
contesto riconosce questo primato all’enunciato. Questo riconoscimento è
ancora più evidente se consideriamo quello che viene ritenuto il corollario del
principio del contesto, secondo cui “non si deve mai indagare sul significato delle
parole in isolamento”. Se indaghiamo sul significato di una parola senza riferirci
all’enunciato in cui essa occorre, saremo costretti ad assumere come suo
significato un’immagine mentale o una rappresentazione. Ma il principio del
contesto ci mette in guardia, come formulato nelle Grundlagen, dall’identificare il
significato di una parola con la sua immagine mentale o con l’oggetto per cui la
parola sta. Se ci informiamo sul significato dei termini ad esempio “1” o
“Aristotele”, estrapolandoli dal contesto dell’enunciato in cui essi compaiono, la
risposta che possiamo fornire sarà legata a quell’immagine mentale o a quell’idea
che la parola evoca nella nostra mente. Tuttavia, l’immagine mentale che una
parola può evocare nella mente non ha nulla a che fare con il significato che
quel termine possiede16.
È fuori dubbio dunque che la teoria del significato di Frege ponga le basi per la
tesi di Wittgenstein secondo cui l’enunciato è la più piccola unità linguistica
dotata di significato con la quale possiamo compiere una mossa nel gioco
linguistico. Sotto questo aspetto possiamo affermare a ragione che il principio
fregeano del contesto si muove nella direzione della tesi wittgensteiniana. Nessun
16 G. Frege, Die Grundlagen der Arithmetik, cit., p. VI-VII, § 27. Nella maggior parte dei scritti di Frege uno degli obiettivi principali dei suoi attacchi è lo psicologismo. Frege ribadisce, più volte e con insistenza, che la logica e l’aritmetica non devono avere nulla a che fare con la psicologia. Ciò è motivato dalla profonda convinzione che ciò che è psicologico è irrilevante per la matematica e per la logica. Nelle Grundlagen, per esempio, Frege pone come uno dei principi metodologici, da lui adottato nella ricerca sui fondamenti dell’aritmetica, la separazione netta tra ciò che appartiene alla logica (l’oggettivo), e ciò che appartiene alla psicologia (il soggettivo). Per Frege il soggettivo è ciò che è privato, che appartiene al singolo soggetto, e in quanto tale non è comunicabile; mentre l’oggettivo è ciò che è indipendente dai singoli soggetti.
Vera Tripodi, Contestualità e composizionalità del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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filosofo infatti prima di Frege ha mai riconosciuto con chiarezza il primato
dell’enunciato rispetto a qualsiasi altra espressione linguistica. Una lunga tradizione
anteriore a Frege, capeggiata in età moderna da Locke, aveva avallato l’ipotesi
che le parole fossero capaci di esprime idee in quanto segni sensibili di queste.
Secondo questa tradizione, i significati delle parole hanno a che a fare con le
rappresentazioni che si formano nella nostra mente associate alle espressioni che
utilizziamo: le singole parole esprimono idee semplici, mentre le combinazioni di
parole esprimono idee complesse. Questa concezione non aveva permesso però
di distinguere tra le sequenze di parole che formano enunciati completi e le
sequenze di parole che non arrivano a formare enunciati. La spiegazione di tale
distinzione, d’importanza capitale per la riflessione contemporanea sul linguaggio,
fu opera di Frege.
Ma sebbene il riconoscimento del primato dell’enunciato sia una parte
fondamentale della teoria fregeana del significato, affibbiare a Frege lo slogan
“l’enunciato è l’unità del significato” è, per Dummett, un modo riduttivo e poco
preciso di presentare la teoria fregeana del significato e del principio del
contesto.
Per questo motivo, Dummett ritiene sia opportuno sostituire il “rozzo slogan” che
Quine attribuisce a Frege con una formulazione più corretta.
Il suggerimento di Dummett è quello di esprimere la teoria fregeana nel modo
seguente:
“ai fini della spiegazione è primario il senso di un enunciato, ma ai fini del riconscimento
è primario il senso di un parola”17.
Non ha senso dunque chiedersi se la parola o l’enunciato sia l’unità di significato.
Porre la questione in questi termini significa rischiare di formulare risposte destinate
a generare equivoci. Se dobbiamo ricostruire il processo attraverso il quale un
parlante giunge a riconoscere il senso di un enunciato in cui si imbatte, allora
dobbiamo supporre che i parlanti, perlopiù, prima di comprendere enunciati
17 M. Dummett, Frege. Philosophy of Language, cit., p. 4.
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comprendono le parole componenti. E’ solo in questi termini che si può dire che il
senso di una parola è primario rispetto a quello dell’enunciato. Come si è visto,
secondo Frege, il senso di un enunciato è determinato dai sensi delle sue parti
componenti. Per questo cogliamo il senso di un enunciato solo se ne cogliamo la
struttura, il modo cioè in cui le parole sono combinate tra loro all’interno
dell’enunciato, e se cogliamo i sensi delle singole parole che in esso occorrono.
Solo tenendo presente questa spiegazione, secondo cui ai fini del riconoscimento
è primario il senso di una parola, riusciamo a dare conto di quella che è una
proprietà essenziale del linguaggio, quella appunto di comprendere enunciati
nuovi mai sentiti prima.
Se però dobbiamo spiegare che cosa vuol dire in generale per una parola o per
un enunciato avere un senso, allora l’ordine di priorità si inverte e diventa primario
il senso dell’enunciato. Per spiegare la nozione generale di senso di una parola
dobbiamo allora spiegare il senso delle espressioni a partire dall’enunciato preso
come un tutto. In base al principio del contesto, infatti, il senso di una parola deve
intendersi come il contributo che essa dà alla determinazione del senso
dell’enunciato in cui essa compare. Attribuire un senso ad una parola, osserva
Dummett, vuol dire qualcosa solo in relazione alla sua successiva occorrenza negli
enunciati. Come abbiamo detto sopra, la parola ha un senso che è da un certo
punto di vista indipendente dal particolare enunciato in cui occorre.
Diversamente, per spiegare cosa sia in generale il senso di un enunciato non
possiamo, per evitare un circolo vizioso, riferirsi al senso delle espressioni che lo
compongono. È possibile fornire questa spiegazione solo servendoci di una
nozione indipendente. Frege sceglie la nozione di “condizione di verità”: “afferrare
il senso di un enunciato è, in generale, conoscere le condizioni in cui
quell’enunciato è vero e quelle in cui è falso”18.
Per Frege, le condizioni sotto le quali un enunciato è vero o falso dipendono dal
modo in cui l’enunciato è costruito, vale a dire da come le espressioni compaiono
e si combinano all’interno dell’enunciato. Il senso di una parola “consiste in una
18 M. Dummett, Frege. Philosophy of Languge, cit., p. 5.
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regola che, presa insieme alle altre regole costitutive del senso delle altre parole,
determina la condizione per la verità di un enunciato in cui essa occorre”.19
La conclusione cui Dummett giunge è che il principio del contesto non deve
essere inteso come se conferisse senso solo agli enunciati e lo negasse alle singole
parole. Piuttosto esso stabilisce che la nostra comprensione di un enunciato
consiste nella comprensione del modo in cui una parola contribuisce a
determinare il senso dell’enunciato in cui occorre. Più precisamente, se il senso di
una parola è il suo contributo al senso dell’enunciato in cui essa occorre e se, in
generale, il senso è ciò che è rilevante alla determinazione del valore di verità
dell’enunciato, allora il senso di una parola deve essere concepito come il suo
contributo alla verità o alla falsità dell’enunciato in cui essa figura.
3. Due diverse applicazioni del principio del contesto.
Secondo Dummett, il principio del contesto costituisce la più importante
affermazione filosofica fatta da Frege e la teoria del significato fregeana è
largamente incentrata su di esso20. L’importanza del principio del contesto è
strettamente legata alla svolta linguistica (linguistic turn) operata in filosofia a
cavallo tra la fine del diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo, svolta
linguistica che a sua volta determina la nascita della filosofia analitica. Frege
compie tale svolta, al paragrafo 62 delle Grundlagen, quando alla domanda
“come i numeri ci possono essere dati?”, risponde che occorre indagare sui sensi
degli enunciati in cui i termini numerici occorrono. In questo modo Frege trasforma
un problema di natura epistemologica in un problema linguistico, determinando in
filosofia un cambiamento tale di prospettiva da indurlo a considerare,
diversamente da Descartes, la teoria del significato, e non più la teoria della
conoscenza, il punto di partenza di ogni indagine filosofica.
Il principio del contesto esprime una priorità del linguaggio sul pensiero: una
spiegazione filosofica del pensiero è possibile solo attraverso una spiegazione
19 Ivi, p, 194. 20 M. Dummett, Nominalism, in «Philosophical Review», vol., LXV, 1956, p.491; ristampato in M.
Dummett, Truth and Other Enigmas, London 1978, pp.38-49.
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filosofica del linguaggio e una spiegazione comprensiva è conseguibile solo in
questo modo21. Questo convincimento è considerato una massima della filosofia
analitica22.
Frege formula il principio del contesto nelle Grudlagen quando ancora non aveva
tracciato la distinzione tra senso (Sinn) e riferimento (Bedeutung )23. Per questo,
Frege non distingue tra l’applicazione del principio del contesto al senso e
l’applicazione del principio del contesto al riferimento. Dummett, invece, traccia
questa distinzione che illustrerò e farò valere di seguito.
3.1 Il principio del contesto come tesi sul senso.
Il principio del contesto come tesi sul senso assegna agli enunciati un primato
rispetto al significato. Come tesi sul senso, esso stabilisce infatti che:
21 M. Dummett, Origini della filosofia analitica, trad. ital. di E. Picardi, Torino 2001, p. 13, 15, 37. 22 Ibidem. 23 Propriamente, in base alla distizione introdotta da Frege, la Bedeutung di un termine singolare è sempre un oggetto, l’oggetto per parlare del quale utilizziamo quel nome. Il senso di un termine
singolare, invece, è il “modo di darsi dell’oggetto”, la “via per giungere al riferimento”. Il senso è ciò che un parlante di una lingua deve conoscere per determinare il riferimento di un’espressione.
Infatti, per Frege, non è possibile accedere al riferimento senza la mediazione del senso. Pertanto, dato un termine singolare T, prima afferriamo il senso di T, e poi, attraverso il senso di T,
determiniamo il suo riferimento. Tuttavia, per Frege, un’espressione può essere dotata di senso ma priva di riferimento. Vi sono nel linguaggio termini singolari che non hanno un portatore come i
nomi di personaggi della mitologia (“Ulisse”) e della letteratura, o espressioni che non si riferiscono a nulla come “il più grande numero primo” o “la serie meno convergente”. Inoltre, secondo Frege,
termini singolari diversi possono avere lo stesso riferimento ma sensi diversi, come ad esempio “Stella del Mattino” e “Stella della Sera”. I sensi diversi di queste due espressioni corrispondono a
due diversi modi di riferirsi allo stesso oggetto (il pianeta Venere). Vedi G. Frege, Senso e Riferimento, in Frege G. , Senso, funzione e concetto, a cura di C. Penco ed E. Picardi, Roma-Bari
2001. Come dimostrato nelle Grundlagen, per capire che un’espressione sta per un determinato oggetto, dobbiamo essere in grado di “riconoscere l’oggetto come sempre lo stesso”. Per comprendere quale sia l’oggetto a cui un termine singolare si riferisce, dobbiamo cioè disporre di un criterio di identità che ci permette di riconoscere l’oggetto a cui il termine singolare si riferisce. A ogni termine singolare, dunque, deve essere associato un appropriato criterio d’identità. Infatti, secondo Frege, usiamo differenti criteri d’identità che dipendono dalla categoria logica a cui appartiene il referente di un termine.
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il senso di un’espressione è il suo contributo alla determinazione del senso (vale a dire
alla determinazione delle condizioni di verità) di ogni enunciato in cui essa può
occorrere24.
La tesi che una espressione ha significato solo nel contesto di un enunciato
esprime dunque qualcosa di più di quanto implicato dal rapporto generale che il
significato di un’espressione ha con il contesto in cui essa occorre. Il principio del
contesto conferisce agli enunciati una particolare importanza all’interno del
linguaggio. Gli enunciati hanno un ruolo centrale e ben distinguibile nel
linguaggio. L’enunciato è, infatti, la più piccola unità linguistica con la quale
possiamo fare qualcosa, vale a dire che solo proferendo un enunciato possiamo
dire qualcosa. Le cose che possiamo fare con gli enunciati sono le più diverse:
porre una domanda, fare un’asserzione, esprimere un desiderio, impartire un
ordine o fare un’esclamazione, ecc.. Diversamente, con una singola parola, o
comunque con un’espressione che sia meno di un enunciato, non riusciamo a
compiere nessun atto linguistico, e dunque non possiamo dire nulla. Con una
parola isolata non si può fare nulla, non si può – per dirla alla Wittgenstein -
compiere nessuna “mossa nel gioco linguistico”.
Un’adeguata spiegazione del significato di una parola dipende dunque
dall’analisi della struttura dell’enunciato di cui quella parola è parte. In questo
senso, l’analisi dell’enunciato è primaria nella spiegazione del significato di una
parola e per questa ragione si può affermare che il principio del contesto non solo
assegna agli enunciati “un ruolo a sé” nel linguaggio, ma gli attribuisce anche una
certa supremazia sulle altre espressioni linguistiche.
È qui necessaria una precisazione. Frege dopo le Grundlagen sviluppa una tesi
che non riconosce più all’enunciato un carattere specifico ma assimila gli
enunciati a nomi propri. In base a questa tesi, gli enunciati sono nomi propri
complessi e i loro valori di verità, in analogia alla relazione nome\portatore, sono
oggetti. Gli enunciati diventano così, dal punto di vista logico, un caso speciale di
nomi propri e il Vero e il Falso due oggetti tra i tanti. Per Frege, la relazione che
sussiste tra l’enunciato e il suo valore di verità diventa, dopo le Grundlagen,
24 M. Dummett, The Context Principle, in M. Dummett, The intrepretation of Frege’s philosophy, cit..
Vera Tripodi, Contestualità e composizionalità del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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identica alla relazione tra un nome proprio e il suo portatore. Nei Grundgesestze,
Frege non assegna ai nomi di valori di verità, cioè agli enunciati, un ruolo
semantico distinguibile dai nomi di oggetti di tipo logico diverso, come per
esempio i termini singolari. Più precisamente, nei Grundgesetze Frege stabilisce
che il riferimento di un termine è stabilito se, e solo se, viene stabilito per tutte le
espressioni in cui occorre. In altre parole, un termine ha un riferimento se ogni
termine più complesso in cui esso occorre ha un riferimento. Dummett definisce
questo principio, il “principio del contesto generalizzato”. Tale principio è, per
Dummett, un passo indietro rispetto al principio del contesto formulato nelle
Grundlagen, perché viene in esso meno il primato degli enunciati.
Per Dummett, l’assimilazione degli enunciati a nomi propri è una tesi che ha un
effetto fatale sulla teoria fregeana del significato. Questa tesi è in conflitto con il
principio del contesto, preso come tesi riguardante il senso, perché non riconosce
il fatto evidente che gli enunciati funzionano nel linguaggio diversamente dai
nomi propri. In virtù del loro diverso funzionamento, gli enunciati e i nomi propri
sono espressioni di tipo logico diverso. Dal momento che gli enunciati e i nomi
propri sono tipi logici diversi allora la relazione che sussiste tra un enunciato e il suo
valore di verità può essere solo analoga, e non identica, a quella tra nome proprio
e il suo portatore. Se si riconosce questo, cosa che Frege non fa più dopo le
Grundlagen, si deve anche riconoscere che il referente di un nome proprio, il suo
portatore, è di un tipo logico diverso dal referente di un enunciato, il suo valore di
verità.
Per Dummett l’assimilazione degli enunciati a nomi propri, presente negli ultimi
scritti di Frege, è un errore. La relazione tra gli enunciati e i valori di verità è, come
la relazione tra un predicato e un concetto, analoga, non identica, a quella tra
nome proprio e oggetto. La scelta di Frege di assimilare gli enunciati a nomi propri
e di considerare i valori di verità oggetti, non è – sostiene Dummett - una scelta
obbligata. Sostenere cioè che gli enunciati debbano avere oltre a un senso
anche un riferimento non implica necessariamente che i valori di verità siano
oggetti e che gli enunciati siano un tipo particolare di nomi propri complessi. Né
d’altra parte l’idea che i valori di verità siano i referenti degli enunciati comporta
Vera Tripodi, Contestualità e composizionalità del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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l’assimilazione degli enunciati a nomi propri; tanto meno essa comporta che la
relazione nome\portatore debba essere il prototipo di tutte le relazioni di
riferimento per ogni tipo di espressione linguistica.
L’assimilazione degli enunciati a nomi propri ha come conseguenza che il senso di
una parola è, come nelle Grundlagen, il suo contributo alla determinazione delle
condizioni di verità dell’enunciato di cui essa fa parte. Il referente di una parola
diventa invece nei Grundgesetze il suo contributo alla determinazione del
referente di un termine singolare complesso in cui la parola occorre.
Pertanto, nei Grundgesetze non viene riconosciuto il primato dell’enunciato
rispetto al riferimento. Dunque, Dummett sostiene che, mentre Frege nei
Grundgesetze, sia pure tacitamente, rimane fedele al principio del contesto
rispetto al senso, egli non rimane fedele al principio del contesto come tesi sul
riferimento.
3.2 Il principio del contesto come tesi sul riferimento.
Come tesi sul riferimento, il principio del contesto stabilisce invece che:
se un senso è stato fissato per ogni possibile enunciato in cui un’espressione può
comparire e tali enunciati sono veri, allora nessun’altra stipulazione è necessaria per
conferire un referente a quell’espressione.
Più precisamente, esso stabilisce che:
per determinare il riferimento di un’espressione tutto ciò che dobbiamo fare è fissare i
sensi degli enunciati in cui essa compare e stabilire certe verità.
Come tesi sul riferimento, il principio del contesto esprime l’idea che se i valori di
verità degli enunciati in cui una data espressione compare sono stati fissati, allora
abbiamo fatto tutto quanto poteva essere fatto per stabilire il riferimento di
quell’espressione. Dal momento che per determinare il riferimento di
un’espressione tutto ciò che dobbiamo fare è fissare i sensi degli enunciati in cui
Vera Tripodi, Contestualità e composizionalità del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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essa compare e stabilire certe verità, allora ogni indagine sul riferimento di una
data espressione diventa un’indagine che riguarda la verità di un certo tipo di
enunciati. Così, ad esempio, chiedersi se a e b si riferiscono allo stesso oggetto è
chiedersi se è vero l’asserto d’identità “a=b”; mentre chiedersi se a ha un
riferimento è chiedersi se è vero l’enunciato “C’è un oggetto come a”.
Le distinzioni logiche e semantiche tra le diverse espressioni che impieghiamo nel
linguaggio, devono essere tracciate sulla base dell’esame degli enunciati senza
analizzare in anticipo ciò per cui le espressioni stanno. L’appartenenza di una
parola a una data categoria logica dipende dai caratteri più generali del suo uso.
È possibile dunque stabilire se un’espressione linguistica si riferisce a un oggetto, a
un concetto o a una funzione solo una volta conosciuto il tipo logico di
quell’espressione.
Un aspetto controverso del principio del contesto come tesi sul riferimento è la sua
stretta connessione con “la tesi della priorità delle categorie sintattiche su quelle
ontologiche”, tesi che può in generale essere formulata come segue:
La questione se una certa espressione può candidarsi o meno a riferirsi a un
determinato oggetto è interamente rimandata alla questione del tipo di ruolo
sintattico che essa svolge nel contesto di un enunciato25.
La “tesi della priorità delle categorie sintattiche su quelle ontologiche” è
strettamente legata al cosiddetto “Argomento di Frege”26 - utilizzato nelle
Grundlagen per dimostrare che i numeri sono oggetti - che può essere
sinteticamente presentato nel modo seguente:
(i) Se un’espressione appartenente a un certo dominio funziona come termine
singolare in enunciati veri, allora ci sono oggetti denotati da espressioni di quel
dominio.
(ii) I numerali, e altre espressioni numeriche, funzionano in questo modo in molti
enunciati veri sia della matematica pura che di quell’applicata.
25 Crispin Wright, Frege’s Conception of Numbers as Objects, Aberdeen University Press, 1983, p.51. 26 L’appellativo “Argomento di Frege” lo si deve a B. Hale e C. Wright.
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17
Quindi:
(iii) Ci sono oggetti denotati da espressioni numeriche (per esempio, i numeri).27
L’esistenza di un dominio d’oggetti a cui determiniate espressioni fanno riferimento
viene stabilita dal fatto che tali espressioni funzionano in certi enunciati come
termini singolari (i) e che gli enunciati in cui esse occorrono siano veri (ii). Frege ha
dimostrato nelle Grundlagen che i numeri sono oggetti dopo aver riconosciuto
che i termini numerici si comportano in enunciati veri della scienza primariamente
come termini singolari. La questione se qualche entità possa essere annoverata fra
gli oggetti “che ci sono” viene dunque rimandata alla questione sulla forma
logica di certi enunciati e sul loro valore di verità.
La “tesi della priorità delle categorie sintattiche su quelle ontologiche” esprime
dunque l’idea che le categorie linguistiche siano primarie rispetto a quelle
ontologiche: non possiamo spiegare a che tipo d’entità un’espressione si riferisce
se non spiegando a che tipo d’espressione linguistica essa appartenga.
Comprendere a che tipo d’entità una data espressione potrebbe riferirsi è
comprendere come quell’espressione funziona nell’enunciato di cui è parte. Per le
cose di cui parliamo disponiamo, infatti, di diverse categorie logiche che riflettono
le diverse categorie linguistiche. Per sapere che cosa sia (a quale categoria
ontologica appartenga) ciò per cui una parola sta, dobbiamo innanzitutto sapere
che sorta di parola sia (a quale categoria logica quella parola appartenga). In tal
senso, il tipo logico di un’espressione determina il tipo ontologico del suo
referente. Per redigere un inventario ontologico di ciò che “esiste”, è dunque
essenziale caratterizzare formalmente la classe dei termini singolari. Per farlo, è
necessario essere in grado di stabilire l’appartenenza di un’espressione alla sua
categoria logica solamente in relazione al modo in cui essa è impiegata nel
linguaggio.
27 Cfr. B. Hale, Abstract Objects, Blackwell, Oxford, 1987, pp.11.
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Da un punto di vista ontologico, il principio del contesto assume quindi la
prospettiva in base alla quale il linguaggio è non solo il punto di partenza, ma
anche l’unica via d’accesso alle indagini di natura ontologica. Non abbiamo
dunque bisogno d’ulteriore indagine “specificatamente” filosofica per stabilire se
un termine singolare stia o meno per un oggetto. La tesi secondo cui una parola
sta per qualcosa solo nel contesto di un enunciato ha come sua conseguenza il
rifiuto di una nozione spuria, esclusivamente filosofica, di “esistenza”.28 Tale nozione
è invece presupposta dalla concezione che afferma che solo gli oggetti concreti
esistano. Una tale distinzione porterebbe a negare che oggetti astratti come i
numeri esistano e ad affermare, ad esempio, che c’è un certo numero perfetto tra
10 e 30 ma che tale numero, vale a dire il 28, non esiste realmente29. Ma dire per
esempio che “il numero 28” non sta per un oggetto, vorrebbe dire che non c’è un
oggetto come il numero 28, o che non c’è un numero come 28, e che il 27 non ha
un successore e che non c’è un numero perfetto tra il 10 e il 30.
La tesi espressa dal principio del contesto non è dunque conciliabile con la tesi
nominalista secondo cui un oggetto astratto è qualcosa che non ci può essere
dato come referente di un’espressione linguistica. Tuttavia, il principio del contesto
è ovviamente conciliabile con la tesi che un oggetto concreto ci può essere dato
anche in altro modo. Il problema però è dato dalla possibilità relativa all’esistenza
di oggetti astratti dal momento che questi ci sono dati solo attraverso il linguaggio.
L’impossibilità di mostrare un oggetto astratto ha portato ingenuamente il
nominalista a credere che gli oggetti astratti siano entità spurie e a concepire
l’identificazione dell’oggetto da parte del senso sostanzialmente come un mezzo
per mostrare l’oggetto che un’espressione denota attraverso un atto di
ostensione. Alla base di questa concezione c’è la credenza che il senso di una
28 Così scrive Dummett: “Any further question about whether any such name has a reference or not can be, at most, a question about the truth of an existential statement: just as the question whether
the name “Vulcan” has a reference is an astronomical question, namely as to whether there is a planet whose orbit lies inside Mercuryn’s, so the question whether, say “1” has a reference is a
mathematical question, namely as to whether there is a least non-denumerable ordinal”. 28 M. Dummett, Frege. Philosophy of Language, cit., p. 497. 29 L’esempio del “numero 28” è presentato da Dummett in Nominalism. Vedi M. Dummett, Nominalism, in «Philosophical Review» LXV (1956), pp. 491-505, ristampato in Truth and other
Enigmas, London 1978, p.40.
Vera Tripodi, Contestualità e composizionalità del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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parola possa in linea di principio essere dato da un confronto con l’oggetto a cui il
nome, come un’etichetta, è appiccicato30. Tuttavia, è evidente che non è
possibile compiere un atto di ostensione nel caso degli oggetti astratti. Piuttosto, il
senso di un nome proprio è - in termini fregeani - ciò che fissa il criterio d’identità
che ci permette di identificare un oggetto come il portatore del nome.
La tesi accettata dal nominalista è, secondo tale prospettiva, dunque fuorviante
perché l’idea che per determinare il riferimento di un’espressione non abbiamo
bisogno di nient’altro che di considerare gli enunciati che la contengono vale per
i termini singolari che stanno per oggetti concreti come per quelli che stanno per
oggetti astratti.
In Nominalism31, Dummett offre un’ampia discussione del presunto senso filosofico
della nozione di esistenza in relazione all’espressioni che, come “la parola ´Parigi`”,
stanno per oggetti astratti. L’espressione “la parola ´Parigi`” funziona negli
enunciati come un termine singolare. Sappiamo, infatti, come attribuire a
quest’espressione certi predicati e dire “La parola ´Parigi` ha tre sillabe”; sappiamo
come stabilire le condizioni di verità degli asserti d’identità in cui essa può
comparire e sappiamo anche compiere un’ostensione dicendo “Questa è la
parola ´Parigi`”. Dal momento che sappiamo come usare quest’espressione
all’interno degli enunciati, non ha senso continuare a chiedersi per che cosa stia
la parola “Parigi”. Se un’espressione dunque si comporta all’interno degli enunciati
come termine singolare, allora è un termine singolare. Se essa è un termine
singolare e occorre in enunciati veri, allora non si può negare a tale espressione di
avere come riferimento un oggetto. Chiedersi dunque se un certo oggetto che
sta per una data espressione realmente esiste, vuol dire esigere che venga
mostrato quell’oggetto. Ma il domandarsi questo significherebbe violare il
corollario del principio del contesto32 che ci mette in guardia dall’indagare sul
significato di una parola presa in isolamento. La conoscenza del principio del
contesto è una condizione essenziale per riconoscere che un “oggetto”, per
30 Ivi, p. 498. 31 M. Dummett, Nominalism, cit., p.42. 32
M. Dummett, Frege. Philosophy of Language, cit., p.496: “it is illegitimate to suppose that we may always ask to be
shown the object which is the bearer of a name”.
Vera Tripodi, Contestualità e composizionalità del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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possedere il suo status di oggetto, non deve essere necessariamente “attuale”33. Il
principio del contesto come tesi sul riferimento stabilisce che non sia legittimo
supporre che sia sempre possibile mostrare l’oggetto che è il “portatore” del
nome34.
È opportuno osservare che il principio del contesto deve essere applicato a una
categoria di espressioni. Vi è infatti una differenza tra il fornire una spiegazione
generale del tipo di referente a cui un’espressione che appartiene a una
determinata categoria linguistica può riferirsi e il fornire una spiegazione del
referente di una particolare espressione appartenete a quella categoria.
Affermare che - ad esempio - un termine singolare si riferisce a un oggetto è dire
che quell’espressione, dal momento che soddisfa i criteri sintattici stabiliti per la
classe dei termini singolari, è capace di riferirsi a un oggetto.
4. Il principio del contesto e il principio di composizionalità: un’apparente
conflittualità.
Una delle questioni che ha maggiormente animato gli interpreti è se Frege
continuasse ad essere fedele al principio del contesto anche dopo le Grundlagen.
Dopo il 1884, Frege non ha mai più riformulato il principio del contesto né ha mai
offerto un argomento per rifiutarlo. Al contrario, come abbiamo visto, Frege
assume delle posizioni dopo il 1884 che sono palesemente in conflitto con tale
principio.
Dummett suggerisce un possibile motivo del perché tale principio, tanto
enfatizzato nelle Grundlagen, non venga più riformulato. Tale motivo sarebbe
strettamente legato all’assimilazione degli enunciati a nomi propri. Come si è visto,
Frege elabora dopo il 1884 nei Grundgesestze da un lato una teoria del senso che
continua ad assegnare agli enunciati un posto speciale, dall’altro una teoria del
33 L’espressione “attuale” traduce il termine tedesco “wirklich”. Un oggetto è “attuale” quando ha
la capacità di partecipare a interazioni causali. Un oggetto concreto, per esempio, può causare o essere soggetto a cambiamenti. In tale senso, un oggetto astratto, non avendo tale capacità, non
può dirsi attuale. Sui diversi possibili significati di “wirklich” vedi Dummett, Frege. Philosophy of Mathematics, Cambridge (Mass.) 1991, p. 80-81. 34 M. Dummett, Frege. Philosophy of Language, cit., p. 496.
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riferimento per la quale gli enunciati, presentati come nomi di valori di verità, non
hanno più un ruolo semantico distinguibile rispetto alle altre espressioni linguistiche.
Infatti, il sistema logico dei Grundgesestze, che classifica gli enunciati come
appartenenti a una suddivisione della categoria logica dei nomi propri, è
palesemente in conflitto con il principio del contesto che invece distingue gli
enunciati e i nomi propri come tipi logici diversi. In virtù di tale contrasto, Frege non
può più riaffermare esplicitamente il principio del contesto come parte ufficiale
della sua dottrina35. Pertanto, Frege non rimane fedele al principio del contesto
rispetto al riferimento come formulato nelle Grundlgen, ma adotta nei
Grundgesestze un principio del contesto generalizzato, che, secondo Dummett, è
però soltanto un’eco del principio del contesto formulato nelle Grundlagen.
Nonostante dopo le Grundlagen Frege formuli delle tesi in contrasto con il
principio del contesto, come l’assimilazione degli enunciati a nomi propri e il
conseguente mancato riconoscimento dello speciale ruolo svolto dagli enunciati
nel linguaggio, Dummett ritiene che tale principio comunque continua a essere un
guida nel pensiero di Frege.
La mancata riformulazione del principio del contesto dopo le Grundlagen non
dipende dunque dalla sua presunta conflittualità con il principio di
composizionalità, ma piuttosto dalla sua palese incompatibilità con la tesi che
assiminila gli enunciati ai nomi propri.
La conflittualità tra i due principi - che si è discussa all’inizio dell’articolo -
scompare dunque se cogliamo il carattere composizionale del principio del
contetso: dire che una parola ha significato solo nel contesto di un enunciato
equivale a dire che il significato di una parola non è altro che il suo contributo alla
determinazione del senso di qualsiasi enunciato in cui può occorrere. Per superare
l’apparente conflittualità tra contestualità e composizionalità occorre dunque
pensare gli enunciati e i pensieri che essi esprimono come connessi da una
relazione di dipendenza:
35 M. Dummett, The Context Principle, in M. Dummett, The Interpretation of Frege’s Philosophy, cit.,
p.371.
Vera Tripodi, Contestualità e composizionalità del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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per afferrare i pensieri espressi da certi enunciati, è necessario in primo luogo essere in
grado di afferrare i sensi dalle sue parti componenti; l’afferrare il senso di una data
espressione richiede di essere capaci di afferrare i pensieri espressi da certi enunciati
che la contengono”.36
Alcune precisazioni. L’idea che conoscere il senso di una parola vuol dire
conoscere il contributo che l’espressione dà al senso dell’enunciato che la
contiene non deve essere equivocata. Ciò naturalmente non significa che per
comprendere il senso di una parola dobbiamo conoscere il senso di tutti gli
enunciati in cui la parola può comparire. Un parlante, per esempio, potrebbe non
comprendere alcuni enunciati in cui quella parola occorre perché non conosce il
senso delle altre parole che figurano come parti componenti di quegli enunciati.
Anche supponendo che un parlante sia in grado di conoscere tutti gli enunciati in
cui quella parola può comparire, la conoscenza di tutti quegli enunciati non
sarebbe comunque la conoscenza che abbiamo di quella parola. Affermare che
il senso di una parola è il suo contributo al senso dell’enunciato di cui è parte non
significa che per spiegare una parola dobbiamo riferirci in maniera esplicita alla
sua occorrenza in ogni enunciato in cui essa compare. Possiamo però isolare e
dividere le espressioni in categorie in base al diverso tipo di contributo che esse
danno al senso degli enunciati per offrire una descrizione generale di questo
contributo. Nel caso della categoria dei nomi propri37, ad esempio, questa
descrizione generale può essere data nei termini della relazione tra il nome e un
oggetto, visto che ciò per cui un nome proprio sta è sempre un oggetto. Tuttavia
affinché questa spiegazione del senso di un nome proprio sia valida deve essere
posta in relazione al suo successivo uso in contesti enunciativi e in particolare alla
determinazione delle condizioni di verità di ciascun particolare enunciato che la
possa contenere.
Dall’altra parte, il principio del contesto non afferma che il significato di una
parola cambia da enunciato a enunciato. Di fatto, il contributo di una parola è il 36 M. Dummett, Frege. Philosophy of Mathematics, cit., p. 202. 37 Qui per “nome proprio” intendo “termine singolare”. Frege include nella categoria degli Eigennamen, oltre ai nomi propri, anche le descrizioni definite. Propriamente, la Bedeutung di un termine singolare è sempre un oggetto, l’oggetto per parlare del quale utilizziamo quel nome. La Bedeutung di una descrizione è l’oggetto descritto da quella descrizione.
Vera Tripodi, Contestualità e composizionalità del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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linea di principio uniforme da enunciato a enunciato e il suo significato è quasi
sempre lo stesso nei numerosi enunciati in cui occorre. Tuttavia la lingua naturale è
ricca di espressioni idiomatiche o metaforiche e spesso un termine può essere
impiegato con un uso non letterale o in maniera ambigua. Per questo il contributo
che una parola dà può a volte variare e dipendere dal particolare enunciato in
cui compare. Ai fini della comprensione di una lingua, diventa importante
conoscere i diversi tipi di contributi che una parola può dare in modo da poter
riconoscere di volta in volta il suo particolare contributo a seconda del particolare
enunciato.
Alla luce della composizionalità del senso, è anche da escludere che il principio
del contesto possa essere inteso come il preannuncio di una sorta di olismo
semantico. A partire da Quine, per olismo semantico alcuni intendono la tesi
secondo cui il significato di una parola dipende dalla totalità della lingua cui essa
appartiene. In questo senso l’olismo semantico si basa su di un allargamento del
principio del contesto: comprendere una parola è comprendere un enunciato,
ma per comprendere un enunciato occorre conoscere l’intera lingua di cui esso è
parte. L’olismo linguistico non è però in grado di spiegare come l’apprendimento
e la manifestazione della conoscenza di una lingua sia possibile38.
In conclusione, la massima secondo cui “non si deve mai indagare sul senso di
una parola presa in isolamento” è del tutto compatibile con il principio secondo
cui “il senso di un enunciato è composto dai sensi delle sue parti componenti”.
Come si è visto, il principio del contesto riguarda la questione di cosa sia in
generale per un’espressione avere un significato e, più in particolare, cosa vuol
dire per un’espressione essere in possesso di un senso e di un riferimento. Il principio
del contesto ha a che fare dunque con ciò che ci autorizza ad assegnare un
significato a una espressione linguistica.
Vera Tripodi
38 Ibidem.
Vera Tripodi, Contestualità e composizionalità del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
24
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UNA COMPONENTE NON CONCETTUALE DELL’ASPETTO SEMANTICO DEL LINGUAGGIO: ALCUNI
SUGGERIMENTI DAGLI STUDI CONDOTTI SU NEURONI SPECCHIO E RETI NEURALI
Barbara Giolito
I. Introduzione
Una delle peculiarità della specie umana è costituita dal possesso di un
linguaggio complesso e articolato. Il linguaggio, a sua volta, è caratterizzato
dall’avere un valore semantico, ovvero dall’essere dotato di significato. Cosa si
intenda quando si parla del significato del linguaggio è, da un punto di vista
intuitivo, facilmente comprensibile: il linguaggio rimanda a qualcosa di esterno a
esso, si riferisce a oggetti ed eventi presenti nel mondo oppure nella mente dei
parlanti. D’altra parte, nel momento in cui ci si propone di caratterizzare il valore
semantico del linguaggio naturale in modo rigoroso, si scopre che un simile
compito non è di facile realizzazione: il tentativo di associare alle singole parole
descrizioni particolareggiate che risultino necessarie e/o sufficienti per
determinare il loro significato mostra immediatamente come, per la maggior
parte dei termini di uso comune, un tale compito non sembri realizzabile in modo
determinato e rigoroso (la descrizione normalmente associata alla parola “tigre”
quale “un grosso felino a strisce gialle e nere” non vale, ad esempio, per tutte le
tigri – poiché vi sono tigri albine – ma il fatto di non essere in possesso di una
descrizione unitaria e pienamente soddisfacente non ci impedisce di utilizzare
correttamente tale termine).
Le difficoltà incontrate nel tentativo di rendere conto del significato del
linguaggio attraverso spiegazioni di natura, a loro volta, linguistica – di ricondurre,
ad esempio, il significato dei singoli termini a possibili descrizioni degli oggetti ed
eventi denotati dai termini in esame – hanno suggerito l’ipotesi che la spiegazione
della competenza linguistica umana debba essere cercata, non in ulteriori
resoconti linguistici, quanto piuttosto in capacità antecedenti al linguaggio. Il
significato – o parte del significato – di alcuni termini potrebbe quindi fondarsi,
non sul loro collegamento ad altri termini, ma sulle relazioni senso-motorie che i
Barbara Giolito, Una componente non concettuale del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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soggetti intrattengono gli uni con gli altri e con l’ambiente esterno. Alcuni risultati
di esperimenti condotti su particolari strutture neurali – i “neuroni specchio” –
sembrano rafforzare una simile ipotesi. Modelli realizzati in Intelligenza Artificiale –
in particolare, modelli connessionisti – sembrano inoltre portare un’ulteriore
conferma a tale ipotesi attraverso la definizione di meccanismi che suggeriscono
come l’organizzazione di una struttura neurale possa essere influenzata dalle
interazioni sensoriali e motorie con l’ambiente esterno.
II. I neuroni specchio e il linguaggio
II.1 Come funzionano i neuroni specchio
I neuroni specchio – scoperti agli inizi degli anni ‘90 presso l’istituto di Fisiologia
dell’Università di Parma dal gruppo di Giacomo Rizzolatti – sono neuroni che si
attivano sia quando una particolare azione finalizzata a uno scopo viene
eseguita sia quando si osserva la stessa azione eseguita da altri soggetti (Rizzolatti
et al. 1996; Gallese et al. 1996). I neuroni inizialmente scoperti da Rizzolatti e
colleghi sono neuroni facenti parte dell’area premotoria F5 del cervello delle
scimmie: questi neuroni sono tali da attivarsi sia quando una scimmia esegue
un’azione finalizzata a uno scopo (ad esempio afferra un oggetto con la mano)
sia quando la scimmia osserva un altro individuo (un’altra scimmia o un essere
umano) eseguire la stessa azione. La scoperta dei neuroni specchio ha suggerito
una spiegazione del modo in cui potrebbe avvenire la comprensione delle azioni
osservate: il fatto che l’osservazione di una determinata azione attivi lo stesso
circuito neurale attivato durante l’esecuzione di quell’azione può infatti essere
interpretato come una sorta di simulazione, da parte del cervello dell’osservatore,
di quanto avviene nel cervello dell’individuo che esegue l’azione. Interessante è il
fatto che nell’attivazione dei neuroni specchio sembri implicita una qualche
specificazione dello scopo dell’azione: i neuroni dell’area premotoria F5 che
codificano, ad esempio, le azioni costituite dall’afferrare un oggetto con la mano
si attivano al conseguimento di un determinato scopo – in questo caso l’afferrare
l’oggetto – a prescindere dai movimenti realizzati per eseguirlo (ad esempio,
Barbara Giolito, Una componente non concettuale del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
29
anche quando l’agente utilizza un utensile che richiede movimenti opposti
rispetto a quelli che sarebbero svolti utilizzando la propria mano) (Escola et al.
2004). Il lobo parietale inferiore delle scimmie sembra inoltre contenere neuroni
specchio che si attivano solamente quando altre scimmie eseguono azioni
finalizzate a scopi determinati (ad esempio, afferrare un oggetto per portarlo alla
bocca piuttosto che riporlo in una scatola): questi neuroni sembrano così
collegarsi in modo differente allo stesso atto motorio a seconda dello scopo
distale per il quale l’atto in se stesso viene eseguito (Fogassi et al. 2005).
L’ipotesi di una relazione tra la simulazione neurale di un’azione e la sua
comprensione è stata rafforzata da alcuni esperimenti. In uno di essi sono state
realizzate, a questo proposito, due condizioni sperimentali. Nella prima
condizione, a una scimmia è consentito di osservare un’azione nella sua
completezza: ad esempio, una mano che afferra un oggetto. Nella seconda, alla
scimmia è consentito osservare solo una parte dell’azione, mentre la parte finale
della stessa è oscurata: l’oggetto afferrato viene posto dietro a uno schermo in
modo che la scimmia non possa vedere il raggiungimento dell’oggetto da parte
della mano. La scimmia è al corrente della presenza dell’oggetto dietro allo
schermo. Più della metà dei neuroni specchio attivati nella prima condizione
sperimentale si attivano anche nella seconda: sembra quindi che la simulazione
cerebrale di un’azione possa estendersi alle sue componenti non osservate,
consentendo così una sorta di comprensione implicita dello scopo (Umiltà et al.
2001). Ulteriori studi hanno inoltre dimostrato come un particolare insieme di
neuroni specchio, sempre appartenenti all’area premotoria F5, si attivi non solo
durante l’esecuzione e l’osservazione di una determinata azione ma anche
quando il suono prodotto dal realizzarsi della stessa azione viene udito: l’esistenza
di questi “neuroni specchio audio-visivi” suggerisce la possibilità che i neuroni
specchio rappresentino un livello astratto delle azioni orientate a uno scopo
(Kohler et al. 2002). Vi sono poi neuroni specchio che si attivano durante
l’esecuzione e l’osservazione di azioni svolte dalla bocca: la maggior parte di tali
neuroni si attivano in relazione ad azioni di tipo ingestivo/consumatorio ma una
parte di essi sembra correlata all’osservazione di azioni facciali comunicative.
Barbara Giolito, Una componente non concettuale del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
30
L’esistenza di simili neuroni specchio “comunicativi” suggerisce così l’ipotesi che
una forma di simulazione neurale possa svolgere un qualche ruolo esplicativo in
relazione ai fenomeni di comunicazione sociale (Ferrari et al. 2003).
Le strutture neurali delle scimmie non sono – d’altra parte – le sole a possedere
neuroni specchio: anche gli esseri umani sono dotati di un sistema di neuroni
specchio, localizzato in regioni parieto-premotorie (Rizzolatti – Fogassi – Gallese
2001). Studi realizzati attraverso “risonanza magnetica funzionale” (fMRI) hanno
mostrato come i neuroni specchio si attivino negli esseri umani sia durante
l’osservazione di azioni eseguite con le mani sia durante l’osservazione di azioni
eseguite con altri effettori (quali, ad esempio, la bocca o i piedi) (Buccino et al.
2001). Il fatto che le aree parieto-motorie si attivino sia durante l’esecuzione di
una determinata azione sia durante l’osservazione della stessa azione realizzata
da altri soggetti e per mezzo di differenti effettori suggerisce così l’ipotesi che
l’organizzazione somatotopica dei circuiti parieto-premotori possa essere alla
base sia dell’esecuzione di un’azione sia della sua comprensione. Sempre
attraverso studi eseguiti per mezzo della fMRI sono stati inoltre realizzati
esperimenti che supportano l’ipotesi di un ruolo dei neuroni specchio nella
comunicazione sociale: in questi esperimenti sono stati analizzati i correlati neurali
dell’osservazione da parte di esseri umani di azioni bucco-facciali eseguite da
altri esseri umani (mentre parlano), da scimmie (mentre eseguono movimenti
ritmici con le labbra) e da cani (mentre abbaiano). I dati ottenuti attraverso
questi esperimenti mostrano come l’osservazione delle azioni eseguite attivino
aree differenti a seconda della specie di appartenenza dei soggetti osservati.
Quando i soggetti osservati sono altri esseri umani viene attivata nell’osservatore
la parte premotoria della regione di Broca; l’osservazione dell’azione eseguita da
scimmie attiva una porzione più ristretta della stessa regione bilateralmente,
mentre l’osservazione dell’abbaiare da parte di cani attiva solamente le aree
visive. Solo l’osservazione di azioni che appartengono al repertorio comunicativo
proprio degli esseri umani o che non se ne differenziano eccessivamente
sembrerebbero quindi attivare una sorta di simulazione neurale delle stesse azioni
comunicative (Buccino et al. 2004).
Barbara Giolito, Una componente non concettuale del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
31
II.2 Una possibile spiegazione di almeno parte del significato delle parole
Il ricorso a studi condotti sui neuroni specchio potrebbe rivelarsi utile nel compito
di chiarire alcuni aspetti del linguaggio, in particolare in relazione al tentativo di
fondare l’attività linguistica su proprietà e caratteristiche del corpo posseduto dai
parlanti (un modello della spiegazione del linguaggio che, proprio per il tentativo
di basare la comprensione linguistica su meccanismi in qualche modo legati al
corpo, è detto “incarnato”) (Lakoff – Johnson 1980; Lakoff 1987; Barsalou 1999). Le
strutture nervose collegate all’esecuzione di determinate azioni potrebbero infatti
svolgere un qualche ruolo nella comprensione delle espressioni linguistiche che
descrivono quelle stesse azioni: l’ascolto di frasi che descrivono azioni motorie
potrebbe determinare l’attivazione dei neuroni specchio attivati durante
l’esecuzione delle stesse azioni motorie. L’attivazione dei neuroni specchio
potrebbe così rappresentare il meccanismo alla base della “simulazione
incarnata” che supporta il valore semantico dei costrutti linguistici legati alle
azioni simulate.
Al fine di valutare la plausibilità di questa ipotesi sono stati effettuati da Buccino e
colleghi (Buccino et al. 2005) alcuni studi che hanno mostrato l’esistenza di una
correlazione tra l’ascolto di frasi che descrivono azioni eseguite da diversi effettori
(ad esempio le mani o i piedi) e l’attivazione di differenti e specifiche aree della
corteccia motoria che controllano le azioni di tali effettori. In questi esperimenti, i
partecipanti sono stati sottoposti a due differenti sessioni: in una di queste l’area
motoria correlata ai movimenti delle mani veniva stimolata attraverso
stimolazione magnetica transcranica (TMS), mentre nell’altra sessione era
stimolata attraverso TMS l’area motoria correlata ai movimenti di gambe e piedi.
In ogni sessione sperimentale ai partecipanti veniva chiesto di ascoltare differenti
stimoli acustici consistenti in proposizioni esprimenti azioni eseguite con le mani
oppure con i piedi e – quale stimolo di controllo – proposizioni esprimenti
contenuti astratti. I risultati hanno mostrato la presenza di differenti valori del
potenziale motorio evocato nell’area cerebrale in esame a seconda che fosse
contemporaneamente ascoltata una proposizione esprimente un movimento
eseguito dall’arto controllato da quell’area motoria o meno: in particolare,
Barbara Giolito, Una componente non concettuale del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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l’ampiezza del potenziale motorio evocato nell’area correlata ai movimenti delle
mani (vs. di gambe e piedi) tendeva a decrescere durante l’ascolto di
proposizioni esprimenti azioni delle mani (vs. di gambe e piedi) rispetto a quando
venivano ascoltate le proposizioni di controllo o quelle riguardanti azioni di
gambe e piedi (vs. delle mani). In un’altra serie di esperimenti è stato, inoltre,
chiesto ai partecipanti di valutare semanticamente le proposizioni ascoltate per
decidere se esprimessero o meno azioni concrete e fornire una risposta motoria
solo in caso affermativo. I risultati comportamentali hanno mostrato una
significativa interazione tra il contenuto delle proposizioni e gli effettori utilizzati per
la risposta: quando i pazienti fornivano la propria risposta attraverso movimenti
eseguiti con le mani (vs. con i piedi), i tempi di reazione erano più lenti in relazione
alle proposizioni esprimenti azioni delle mani (vs. di gambe e piedi) rispetto alle
proposizioni esprimenti azioni di gambe e piedi (vs. delle mani). Simili studi
suggeriscono un’evidente – e specifica in relazione agli effettori coinvolti –
modulazione dell’attività del sistema motorio durante l’ascolto di proposizioni che
esprimono azioni a esso correlate. Tali dati sembrano pertanto rafforzare l’ipotesi
di un qualche ruolo dei neuroni specchio, non solo nella comprensione delle
azioni osservate, ma anche nella comprensione delle proposizioni che le
esprimono: l’attivazione delle stesse aree motorie durante l’esecuzione di un
determinato movimento e durante l’ascolto della proposizione che lo esprime
potrebbe, infatti, supportare un collegamento tra i due. In altre parole, l’ascolto di
una proposizione esprimente un determinato movimento potrebbe provocare nel
sistema nervoso una sorta di simulazione incarnata del movimento stesso,
simulazione su cui si baserebbe la comprensione della proposizione ascoltata.
Una conferma all’ipotesi che il sistema dei neuroni specchio possa svolgere un
ruolo nella comprensione delle espressioni linguistiche esprimenti azioni viene,
d’altra parte, da alcuni studi – condotti attraverso fMRI – che mostrano come la
lettura o l’ascolto di parole o frasi che descrivono azioni di bocca, mani e piedi
comportino l’attivazione dei diversi settori della corteccia motoria e premotoria
che controllano tali azioni (Hauk – Johnsrude – Pulvermuller 2004; Tettamanti et al.
2005).
Barbara Giolito, Una componente non concettuale del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
33
III. Le reti neurali e il linguaggio
III.1 Come funzionano le reti neurali
Volendo sostenere l’ipotesi che almeno parte del valore semantico delle
espressioni linguistiche dipenda da una sorta di simulazione incarnata eseguita
dal sistema nervoso del parlate – ipotesi sopra formulata a proposito dei termini
denotanti azioni motorie – diviene opportuno indagare su come il sistema nervoso
potrebbe mostrarsi capace di rappresentare eventi a esso esterni. La possibilità
teorica che un dispositivo quale il sistema nervoso sia in grado di svolgere una tale
funzione sembra essere supportata da alcuni esperimenti condotti attraverso i
modelli “connessionisti” realizzati in Intelligenza Artificiale: questi modelli utilizzano
infatti particolari dispositivi computazionali, le reti neurali, una delle cui
caratteristiche peculiari è proprio quella di imitare il funzionamento del sistema
nervoso.
Le reti neurali sono dispositivi computazionali distribuiti e paralleli: in particolare,
una rete neurale può essere vista come un grafo orientato composto da “unità”,
corrispondenti ai neuroni del sistema nervoso, e “connessioni” tra unità, che
corrispondono idealmente alle sinapsi del sistema nervoso.
Un esempio di rete neurale
Barbara Giolito, Una componente non concettuale del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
34
Le connessioni trasportano da un’unità all’altra le informazioni elaborate: le
informazioni in entrata in una determinata unità sono dette “input” di quell’unità,
mentre le informazioni in uscita costituiscono il suo “output”. I dati elaborati dalle
unità sono valori di tipo numerico e il processo computazionale avviene
attraverso il lavoro simultaneo di più unità: la possibilità di eseguire calcoli
complessi dipende dal fatto che molte unità lavorano in parallelo e non dalla
complessità delle operazioni svolte dalle singole unità, le quali eseguono
individualmente calcoli piuttosto semplici. Le connessioni contribuiscono inoltre al
calcolo eseguito dalle reti modificando i dati trasmessi, moltiplicandoli per valori
numerici detti “pesi” o “forza” delle connessioni. Il processo computazionale ha
inizio quando vengono stabiliti i valori di attivazione delle “unità di input” (ovvero
le unità preposte a ricevere i dati dall’esterno): questi valori rappresentano la
codifica dei dati relativi al problema che si desidera sottoporre alla rete. Dopo
che la rete ha eseguito autonomamente i propri calcoli, il risultato della
computazione si presenta come valore di attivazione delle “unità di output” (le
unità che comunicano all’esterno il risultato dei processi computazionali eseguiti
dalla rete). Oltre alle unità di input e a quelle di output possono far parte di una
rete neurale anche “unità interne”, le quali comunicano solamente con altre
unità della rete e non direttamente con l’ambiente a essa esterno. Interessante è
il fatto che le reti neurali possano essere sottoposte a processi di apprendimento.
Dal momento che i calcoli eseguiti da una rete dipendono in ampia misura dai
pesi delle sue connessioni, è possibile ricorrere ad algoritmi capaci di modificare
tali pesi per ottenere comportamenti differenti da parte della rete: i cosiddetti
“algoritmi di apprendimento” possono così portare la rete a fornire la risposta
corretta paragonando, ad esempio, i risultati inizialmente ottenuti a quelli
desiderati per modificare i pesi delle connessioni sulla base delle differenze tra i
primi e i secondi (Giolito 2007).
Barbara Giolito, Una componente non concettuale del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
35
III.2 Un’ipotesi su come potrebbe essere rappresentato il valore semantico del
linguaggio nel sistema nervoso: modelli a rete neurale
Alcuni modelli a rete neurale sono stati realizzati al fine di mostrare la possibilità
che una qualche forma di sistema categoriale – il quale potrebbe costituire il
fondamento del valore semantico del linguaggio – dipenda almeno in parte
dall’azione che il soggetto esegue sugli oggetti ed eventi a esso esterni. In
particolare sono stati realizzati da Borghi, Di Ferdinando e Parisi (Borghi – Di
Ferdinando – Parisi 2002) due modelli a rete neurale volti a mostrare la possibilità
che il raggruppamento di determinati oggetti nella stessa o in differenti categorie
dipenda, non solo dalle proprietà sensoriali degli oggetti stessi, ma anche
dall’azione che su di essi viene eseguita dal soggetto che opera la classificazione.
Nel primo di questi modelli, al fine di testare tale ipotesi, sono state realizzate reti il
cui compito è quello di controllare il comportamento di sistemi che devono
rispondere, muovendo una sorta di braccio, a due differenti oggetti percepiti
visivamente:
A B
In ogni rete neurale alcune delle unità di input codificano i dati visivi relativi agli
oggetti percepiti, mentre altre unità di input codificano i dati propriocettivi relativi
al movimento del braccio guidato dalla rete attraverso le unità di output. Ogni
rete deve fare in modo che – quando un solo oggetto le viene presentato – il suo
braccio lo afferri; quando invece entrambi gli oggetti vengono presentati alla
rete, il suo braccio deve afferrare il solo oggetto A. Poiché gli oggetti possono
apparire nella parte destra o in quella sinistra del campo visivo delle reti, i possibili
input visivi sono i sei seguenti:
Barbara Giolito, Una componente non concettuale del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
36
Nei casi rappresentati dai rettangoli qui a sinistra il braccio deve afferrare
l’oggetto che appare nella parte sinistra del campo visivo, mentre nei casi
rappresentati dai rettangoli qui a destra, l’oggetto che deve essere afferrato è
quello che si trova nella parte destra del campo visivo. Le reti dell’esperimento
sono giunte a sviluppare buone capacità nell’eseguire questi compiti. Il
raggiungimento di una simile capacità è dovuto al fatto che le reti sono in grado
di realizzare una sorta di categorizzazione dei dati percepiti: tale categorizzazione
è stata ottenuta attraverso la trasformazione dei valori delle unità di input
corrispondenti a oggetti che appartengono a un’unica categoria in valori delle
unità interne tra loro simili, mentre i valori di attivazione delle unità di input
corrispondenti a oggetti appartenenti a categorie differenti sono stati trasformati
in valori di attivazione delle unità interne differenti gli uni dagli altri. I dati ottenuti
sembrano mostrare come le azioni eseguite dai bracci governati dalle reti
tendano a influenzare il modo in cui le reti organizzano i dati manipolati: gli input
visivi cui il modello deve rispondere eseguendo la stessa azione (le immagini
contenute nei rettangoli qui a sinistra, da una parte, e quelle contenute nei
rettangoli qui a destra, dall’altra) sono stati infatti codificati nelle unità interne
della rete in modo da essere tendenzialmente posti nelle stesse categorie, mentre
gli input visivi cui il modello deve rispondere con azioni differenti (le immagini
contenute nei rettangoli qui a sinistra rispetto a quelle contenute nei rettangoli qui
Barbara Giolito, Una componente non concettuale del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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a destra) sono stati codificati nelle unità interne della rete in modo da
appartenere a categorie differenti.
Nel secondo dei modelli realizzati da Borghi, Di Ferdinando e Parisi, le reti neurali
utilizzate sono state dotate di tre livelli di unità interne: le unità di input che
codificano l’input visivo inviano il loro segnale al primo strato di unità interne,
mentre le unità preposte a determinare il compito che la rete deve eseguire
comunicano con il solo secondo strato di unità interne e le unità che codificano
l’input propriocettivo comunicano con le sole unità di output. A causa di tale
organizzazione sembra plausibile supporre che, nel primo strato di unità interne, la
categorizzazione degli oggetti percepiti dipenda dalle loro sole proprietà
percettive, mentre a partire dal secondo strato di unità interne la
categorizzazione sarebbe influenzata dall’azione che il modello deve eseguire
sull’oggetto percepito. Gli oggetti presentati alla rete sono i seguenti:
A B C D
La rete vede, di volta in volta, un solo oggetto e deve categorizzarlo scegliendo
tra due categorie e premendo due diversi tasti per mezzo di un braccio. Un primo
compito è considerato adeguatamente eseguito quando alle due categorie
appartengono oggetti visivamente simili (A-B e C-D), un secondo compito
quando alle due categorie appartengono oggetti che condividono un solo
elemento (A-C e B-D) e un terzo compito quando alle due categorie
appartengono oggetti percettivamente differenti (A-D e B-C). I dati ottenuti
sembrano confermare l’ipotesi secondo la quale, nel momento in cui alle unità
interne viene data la possibilità di effettuare calcoli sui valori relativi alle azioni
eseguite, questi ultimi andrebbero a influenzare il processo di classificazione dei
dati manipolati. Mentre nel primo strato di unità interne i valori di attivazione più
simili gli uni agli altri sono quelli che codificano input percettivamente simili, a
partire dal secondo strato – ovvero quando le informazioni riguardanti il compito
Barbara Giolito, Una componente non concettuale del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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da eseguire influenzano le elaborazioni effettuate dalla rete – i valori di
attivazione delle unità interne tra loro più simili diventano infatti quelli che
rappresentano gli oggetti che richiedono la stessa risposta motoria, anche se le
informazioni relative agli aspetti percettivi influenzano ancora tali valori di
attivazione. Nel terzo strato di unità interne, infine, i dati riguardanti le risposte
relative all’azione motoria hanno annullato quelli riguardanti le caratteristiche
percettive degli oggetti presi in considerazione: i valori di attivazione più vicini gli
uni agli altri sono quelli relativi agli oggetti cui la rete risponde per mezzo delle
stesse azioni. Questi modelli sembrano così confermare l’ipotesi secondo cui le
azioni eseguite da un soggetto influenzerebbero il modo in cui tale soggetto
organizza la realtà esterna in categorie: le reti appena analizzate potrebbero
quindi essere considerate una sorta di modello del modo in cui l’azione del
soggetto verrebbe rappresentata all’interno del soggetto stesso, quale
costituente delle categorie attraverso le quali il soggetto organizza l’ambiente
esterno secondo schemi selezionati in quanto utili in relazione ai compiti che deve
eseguire.
IV. Conclusione
Gli esperimenti, qui analizzati, condotti in ambito neuropsicologico sui neuroni
specchio sembrano supportare l’ipotesi che almeno parte del valore semantico
del linguaggio – in particolare delle parole e delle frasi che si riferiscono ad azioni
motorie – risieda nella possibilità, da parte del sistema nervoso, di simulare gli
eventi cui il linguaggio si riferisce: l’attivazione di particolari strutture neurali sia
durante l’esecuzione o l’osservazione di un’azione sia durante l’ascolto della frase
che esprime tale azione può infatti essere interpretata come una sorta di
“simulazione incarnata” (incarnata appunto nel sistema nervoso del parlante), la
quale potrebbe fondare la comprensione della frase stessa da parte del parlante.
Le ricerche condotte in Intelligenza Artificiale per mezzo delle reti neurali hanno –
d’altra parte – fornito un modello di come una struttura quale il sistema nervoso
potrebbe incorporare una sorta di “rappresentazione” del significato di almeno
Barbara Giolito, Una componente non concettuale del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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alcuni termini linguistici: il significato di parole e frasi che si riferiscono ad azioni
motorie potrebbe fondarsi sull’organizzazione delle categorie – alla base di tali
parole e frasi – formate in seguito alle interazioni motorie intrattenute con
l’ambiente esterno. Simili spiegazioni del valore semantico del linguaggio
sembrano così ricorrere a componenti, per così dire, “pre-linguistiche” e “pre-
concettuali”: nella spiegazione di come il linguaggio possa essere significante
esse si basano infatti, in ultima istanza, su componenti che, prese dal quadro
esplicativo tipico della sfera neuropsicologica, non derivano da modelli esplicativi
propri dell’ambito linguistico o concettuale. Le ricerche qui esaminate
potrebbero pertanto rappresentare un supporto all’ipotesi di una componente
non concettuale della semantica del linguaggio.
Barbara Gioito
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Barbara Giolito, Una componente non concettuale del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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Neuron, 32.
42
LIMITI DELL’ANALISI LINGUISTICA. RIFLESSIONE SU HEART OF DARKNESS DI JOSEPH CONRAD
SCILLA BELLUCCI
Premessa
All’interno di questo contesto non è possibile presentare nella sua interezza il
lavoro1 di ricerca svolto da me in altra sede; pertanto ho dovuto trasceglierne
alcune parti che potessero mettere in luce, più delle altre, il significato del lavoro
stesso. Al fine di renderle intelligibili devo, però, aggiungervi questa premessa, in
cui ne illustrerò la struttura e i punti di riferimento, cercando di rendere quanto
seguirà il più possibile di agile lettura.
Questo studio è stato condotto secondo l’idea che il contrasto tra dire e mostrare,
esposto nel Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein, potesse trovare
un illustre corrispettivo letterario nel romanzo breve di Joseph Conrad Heart of
Darkness. Prima di procedere all’avvicinamento dei due testi, ho condotto un
lavoro interpretativo del suddetto racconto orientato a decifrare, attraverso la
lettura, la tecnica narrativa e il modo in cui, tramite la sua specificità, porti
l’espressione dei contenuti a costituire un esempio narrativo di un concetto
filosofico.
In secondo luogo, ho presentato l’opera di Wittgenstein , concentrandomi
soprattutto su quegli aspetti che potevano risultare funzionali allo scopo
prefissatomi e, quindi, sul legame tra etica e logica e sui due aspetti fondamentali
del dire e del mostrare, sia dal punto di vista formale che da una prospettiva
linguistica più ampia.
Si evince facilmente che, non essendo praticabile la riproposizione integrale né
dell’una né dell’altra parte, al lettore potrebbero non risultare immediati taluni
riferimenti specifici; mi scuso fin da adesso per l’eventuale frammentarietà che
potrebbe essere riscontrata, sperando di averne chiarite le cause e
impegnandomi a ridurla quanto più possibile.
1 Limiti dell'analisi linguistica. Riflessione su Heart of Darkness di Joseph Conrad. Tesi di laurea in Filosofia del linguaggio, sostenuta nell'anno accademico 2004/2005 presso il Dipartimento di
Filosofia dell'Università degli studi di Firenze.
Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
43
Introduzione
La filosofia del linguaggio oggi viene usualmente riconosciuta come un campo
d’indagine piuttosto giovane, le cui origini vengono principalmente riferite
all’opera di Frege e che, attraverso le opere di pensatori quali Russell e
Wittgenstein e un sodalizio stretto con la logica formale si muove, perfettamente a
suo agio, nelle acque della filosofia analitica. In questo modo si sono costituiti un
complesso di problematiche e un metodo di ricerca che tendono a chiudersi
nella definizione di filosofia del linguaggio. Questo carattere di esclusività che, da
un lato, ha la capacità di circoscrivere un ambito di interessi e di renderlo
riconoscibile come disciplina, dall’altro va a suo detrimento, giacché, proprio
perché pretende di essere riconosciuta come filosofia del linguaggio, dovrebbe, a
sua volta, dedicare pari interesse ad ogni problematica che al linguaggio si
riconduca.
Esistono due questioni fondamentali riguardo al linguaggio: una rispetto ai suoi
meccanismi interni di funzionamento, l’altra su quale sia il rapporto tra parola e
mondo e come esso si possa costituire attraverso chi fa uso del linguaggio.
Il modo in cui forse è possibile riproporre la riflessione è quello di abbandonare il
terreno della visibilità del linguaggio e di accostarsi ad esso solo tramite l’ascolto,
che sarebbe poi una tattica mutuata dall’apprendimento infantile e, per questo,
forse più adeguata ad un inizio.
Alla fine si tratta di formulare un’ipotesi e procedere per tentativi.
Se scegliamo di approcciare il problema dal lato della montagna che, per così
dire, appare meno scosceso, ovverosia dal nostro rapporto costante col
linguaggio, sembra allora che la prima cosa da considerare sia la natura di tale
relazione.
Questo modo di affrontare la questione presenta un doppio volto: se, da un lato è
costitutivamente più vicino a noi nella quotidianità del vivere, dall’altro, come
ogni cosa cui siamo più prossimamente in contatto, può generare una visione
maggiormente confusa, meno lucidamente prospettica. Per cercare di evitare
che la consuetudine con la materia sia fonte soltanto di ulteriore confusione,
Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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dovremmo evitare di fare appello all’esperienza soggettiva. A questo fine
potremmo usare come espediente il riferimento ad un testo esterno.
Al momento di introdurre il testo scelto, sono doverose alcune precisazioni sulla sua
natura e sui motivi per cui ho creduto opportuno farvi riferimento. Sicuramente, tra
tutte le storie che Joseph Conrad ha raccontato, una delle più straordinarie è
Heart of Darkness e, a proposito di essa,di cui molto si è scritto, parlato e pensato,
è necessario fornire alcuni elementi che la traggano fuori da quel certo alone di
‘misticismo’ in cui si è venuta a trovare; difatti la lettura di questo racconto spesso
induce a credere che ci troviamo di fronte ad una riflessione su tematiche
nebulose ed inquietanti di cui l’autore vuole renderci partecipi costruendo un
mondo loro appropriato.
Di Joseph Conrad Calvino scrisse che non avrebbe mai dubitato che fosse stato
un buon capitano.2
Anche se si considerasse la conoscenza dell’uomo inessenziale alla comprensione
della sua opera, queste poche righe andrebbero sicuramente annoverate tra i
pareri letterari. Non soltanto quello che Conrad scrive, ma soprattutto come lo
scrive, è un dono dell’esperienza come marinaio. Dopotutto, se si può facilmente
accettare che le molteplici condizioni in cui si sarà trovato ad incontrare luoghi e
persone gli abbiano fornito materiale sufficiente per una lunga bibliografia,
altrettanto serenamente dovremmo considerare l’asciuttezza delle sue
osservazioni, delle sue descrizioni senza giudizio. Se poi si crede di riconoscere,
oltre le parole, un’allusività che porterebbe ben al di là del mero fattuale, questo
forse potrebbe dipendere dal fatto che l’occhio dell’osservatore era costretto
dall’abitudine di scrutare l’orizzonte lineare tra cielo e mare leggendovi i segni dei
fenomeni più straordinari tra quelli di questo mondo.
2 “..Perché, se a molte cose sue non ho mai creduto, al fatto che fosse un bravo capitano ho creduto sempre, e che portasse nei suoi racconti quella cosa che è così difficile da scrivere: il
senso di una integrazione nel mondo conquistata nella vita pratica, il senso dell’uomo che si realizza nelle cose che fa, nella morale implicita nel suo lavoro, l’ideale di saper essere
all’altezza della situazione, sulla coperta dei velieri come sulla pagina.”. Italo Calvino, I capitani di Conrad, “L’Unità”, 3 Agosto 1954, in Italo Calvino, Perché leggere i classici,
Mondadori, 2003.
Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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Non c’è, nell’opera di questo autore, in particolar modo nei racconti brevi, mai un
totale distacco da ciò che vede, o che ha visto; tutti i suoi personaggi, che
sembrano sempre tratteggiati attraverso un’indagine straordinariamente sottile dei
tipi umani, conservano la loro dimensione reale proprio perché appartengono al
mondo e non all’immaginazione, o alla costruzione artificiosa dell’autore.
Oltre a questo pregio, lo stile letterario di Conrad ha la virtù di ricreare il ritmo
proprio della narrazione orale. L’incipit di Heart of Darkness somiglia a certe
bambole russe dentro le quali stanno altre bambole più piccole, della medesima
forma della prima che le contiene, ma con volti ed espressioni differenti.
C’è una voce narrante che descrive, nella stasi di una barca all’ormeggio, il
contesto in cui si trova ad ascoltare una storia e, dentro questo spazio-tempo, c’è
un uomo, Marlow, che racconta la sua avventurosa ricerca di un altro uomo, la
vita del quale è un’altra storia ancora. Questo gioco astrae il corpo narrativo
centrale dalla visibilità immediata e predispone il lettore all’ascolto. La forma del
racconto non vuole sfruttare una vaghezza creata ad arte per generare
aspettative; piuttosto si tratta di un monologo poggiato su un terreno incerto,
conosciuto attraverso la debolezza del corpo e la farraginosità della mente.
1.
Per entrare nel carattere linguistico di Heart of Darkness è necessario fare uno
scarto, ovverosia, porsi la domanda prima di cadere nel giudizio. Questo
movimento, che potrebbe sembrare una superflua battuta d’arres to, è, a ben
vedere, l’atto di coraggio che tanto Conrad, quanto Marlow chiedono
all’ascoltatore e che persegue la loro medesima volontà di comprensione.
Si può anche procedere nell’ascolto secondo le tappe di un’etica precostituita,
che illumina la tenebra col suo concetto di orrore materiale e scatena il rifiuto; ma
questo porterebbe a considerare gli avvenimenti, se non un absurdum da
racconto del terrore, solo un altro capitolo della triste aneddotica sulla capacità
dell’uomo di compiere il male. Pur non volendo dubitare della correttezza di
Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
46
conclusioni che sembrano esserci date già a portata di mano, esse procedono da
un percorso diretto in cui non si attua lo scarto e la domanda è sempre retorica.
Quella pausa, se rispettata, diventa invece il luogo in cui ci viene chiesto di
considerare tutto daccapo. È solo partendo con un animo inconsapevole che
potremmo riuscire a farci guidare in questo percorso, in cui, come in ogni tensione
verso la conoscenza, ci sono essenziali e disponibili solo due strumenti: l’ascolto e
la domanda.
Da parte dell’autore, questa nostra rinuncia alle difese dell’intelletto viene
corrisposta con il recupero della parola alla sua vividezza originaria, in modo che
essa diventi lo strumento per disvelare la semplice grammatica di un gesto e aiuti
a riportare l’attenzione dell’uomo sull’uomo stesso. Quello che ci viene chiesto, in
sostanza, è la disponibilità a stabilire un rapporto intimo con la parola e col testo
tutto. Da questo punto di vista è possibile considerare il viaggio di Marlow come
un percorso dialogico teso alla comprensione.
Di fatto, la risalita del fiume ha due piani di lettura che potremmo distinguere
come esterno ed interno. È una disgiunzione che esiste solo nello studio
interpretativo e, anche in questo, sussiste per un po’ e limitatamente. Nel primo
caso si considera la storia come il racconto di Conrad, nel secondo, come il
racconto di Marlow. Il luogo in cui si ricompongono è il lettore/ascoltatore ed è
per questo che, in realtà, non può funzionare alcuna separazione dal punto di
vista letterario. Ma, come la lettura del romanzo renderà chiaro, al
lettore/ascoltatore è dato anche uno spazio suo nella narrazione: egli sta dove
Marlow tace, in tutto ciò che non è detto. È impossibile recepire ciò se non si
stabilisce una corrispondenza col testo, se non si accetta di farsi coinvolgere
direttamente.
Questa è la condizione in cui Conrad ci pone, ma lascia che siamo noi ad
arrivarci, non ci costringe ad alcun passo, semplicemente, ci lascia il tempo di
trovarla e, una volta giunti, è quasi impossibile svincolarsi. Quello che facciamo è
esattamente quello che Marlow fa, solo che, se inizialmente la sua ricerca di
avventura è più concreta della nostra, alla fine siamo tutti coinvolti nel medesimo
rischio. La domanda silente di Conrad non attende in risposta l’ascoltatore puro,
Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
47
è, semmai, una tattica, in cui l’autore si rivela davvero abile, per disinibire la nostra
curiosità.
Quello che Conrad cerca di raggiungere tramite la scrittura ce lo dice con
chiarezza, a poche pagine dall’inizio del libro, descrivendo Marlow –
“..The yarns of seamen have a direct simplicity, the whole meaning of which lies within the
shell of a cracked nut. But Marlow was not tipical (if his propensity to spin yarns be
excepted), and to him the meaning of an episode was not inside like a kernel but outside,
enveloping the tale which brought it out only as a glow brings out a haze, in the likeness of
one of these misty halos that sometimes are made visible by the spectral illumination of
moonshine..”.3
3 Joseph Conrad, Heart of Darkness, Penguin Books, London, 2000. “..Le storie dei marinai hanno una semplicità terra terra, il cui completo significato sta entro un guscio di noce. Ma
Marlow non era tipico (eccetto la sua inclinazione a raccontar storie), e per lui il significato di un episodio non era all’interno, come il gheriglio, ma all’esterno, e avvolgeva il racconto che
l’aveva provocato soltanto come una incandescenza rivela una foschia, a similitudine di uno di quegli aloni nebbiosi che a volte son resi visibili dall’illuminazione spettrale del plenilunio.”
Joseph Conrad, Cuore di Tenebra, trad. Piero Jahier e Maj-Lis Rissler Stoneman, ed. Bompiani, Piacenza, 2001. L’opera tradotta è tratta da una riedizione delle opere complete di Conrad
che furono pubblicate dalla casa editrice Bompiani tra il 1949 e il 1966 a cura di Pietro Bigongiari. Nell’edizione a cui faccio riferimento le traduzioni sono state tutte riviste da Mario
Curreli che in una nota alla traduzione fa presente come queste siano state eseguite da un gruppo di intellettuali fiorentini in tempo di guerra e, in alcuni casi, neppure dall’originale, ma
dalla versione francese di Gide. D’altro canto tutte le edizioni, fino a quella che l’autore considererà definitiva, la Heinemann, sono rimaneggiate da Conrad stesso che coglieva
appunto ogni occasione per inserire correzioni e modifiche a volte davvero consistenti. Sempre nella suddetta nota Curreli aggiunge una considerazione di cui è opportuno tenere
conto, anche al di là dei problemi di traduzione : “E qui non è forse fuori luogo ricordare come i primi recensori tardo-vittoriani non mancarono di censurare il crudo realismo di
Conrad, che metteva in bocca ai suoi personaggi disdicevoli imprecazioni blasfeme, qui rese con alquanto innocui ‘dannato’ o ‘maledetto’ “.
Purtroppo temo che oltre a questo genere di censure, il linguaggio conradiano sia destinato a subirne altre, involontarie, ad opera delle traduzioni. In particolar modo, la lingua
italiana pare inadeguata a rendere la concisione e l’efficacia proprie di alcune espressioni inglesi, come, in generale, della ruvidezza stilistica dell’autore. Dal brano citato è già evidente
come questo accada. Ad esempio, l’espressione “to spin yarns”, qui resa con un semplice “raccontar storie”, ha un’accezione ambigua che va totalmente perduta in traduzione;
indica infatti, sia il ‘raccontare lunghe storie’, dove viene posto l’accento sulla lunghezza della narrazione, sia, più vivacemente, il ‘raccontar frottole’; entrambi i significati hanno un
loro valore nel contesto di cui parliamo, ma credo che dovremmo cercare di considerarli coesistenti nell’uso che Conrad fa di questa espressione appartenente all’unica lingua in cui
riuscisse a scrivere. Inoltre, l’aggettivo “spectral”, quasi immancabilmente interpretato come “spettrale”, credo venga completamente snaturato da questa versione. La lingua di Conrad
non è facile a certi lirismi e suppongo che, in questo caso, egli abbia voluto proprio
Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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In questo modo viene detto cos’è che dobbiamo cercare, come dobbiamo
muoverci, delicatamente, per non rompere lo strato esteriore delle cose,
pretendendo che l’interesse significhi proprio questa irruzione.
La ricerca del significato spinge ad un movimento violento che è insieme una
perdita; la pretesa di poter agire, come una forza centrifuga, dal nucleo delle
cose fino ai loro limiti, esclude la possibilità di comprendere che proprio quei limiti
sono la parte accessibile, quella che confina col resto del mondo e anche l’unica
di cui possiamo avere una percezione immediata e diretta.
2.
Sembra che tutta la prima parte, introduttiva al racconto di viaggio, più che offrire
elementi di riferimento, tenti di disorganizzare ogni tipo di immagine preconcetta.
Certo, il tono di insicurezza e stupore segnerà tutto il racconto di Marlow, ma
proprio in queste pagine iniziali possiamo cominciare a prendere confidenza con
un narratore atipico. Se è vero che di questo eravamo stati avvertiti, è vero anche
che non potevamo già essere in grado di cogliere un suggerimento letterario
come reale. Conrad forse non sta rendendo più affascinante il suo protagonista,
dal momento che chiede continuamente la nostra pazienza, ma questo esercizio
è uno di quegli espedienti narrativi che dovrebbero restituire la forma originale del
racconto. L’atipicità di cui si parla è anche quella della scrittura di questo
romanzo. I primi personaggi introdotti non hanno alcuna funzione interna alla
storia, sicuramente essa poteva iniziare già in prima persona e introdurre più
rapidamente il nucleo narrativo. Ma questo è il modo della scrittura e non del
racconto orale. Il silenzio, la prospettiva di trascorrere molte ore all’ormeggio in un
porto su cui cala la notte fanno del buio uno spazio di forme, se c’è qualcuno che
racconta una storia, e chi racconta offre solo un mezzo che ciascuno manipolerà
a seconda della sua propria immaginazione. Quindi saranno molte le interruzioni e
le descrizioni, piuttosto che lunghe e articolate, dovranno avere il colore delle riequilibrare il tono della frase prendendo in prestito un vocabolo appartenente alla fisica,
ovvero penso che vada inteso come ‘dello spettro della luce lunare’.
Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
49
impressioni d’un colpo d’occhio, che, altrimenti, susciterebbero la noia di chi
ascolta, anche se un lettore potrebbe trovarle interessanti, ma non è a questo tipo
di pubblico che si rivolgono. Già da questi primi accenni si vede il lavoro
dell’autore che tesse la sua tela; effettivamente viene trasmessa un’idea di
vischiosità, che poi si concretizzerà nel clima torrido e nell’irrespirabile afa
africana, ma è più a livello di una sensazione ancora vaghissima, quella che a
malapena Marlow riesce a comunicare:
“.. I began to feel slightly uneasy. You know I am not used to such cerimonies, and there
was something ominous in the atmosphere. It was just as thought I had been let into some
conspiracy – I don’t know – something not quite right; and I was glad to get out.”.
A questo punto risulta più chiara l’idea di uno spazio abitativo del
lettore/ascoltatore dentro la storia e di come questo sia il luogo degli altrui silenzi.
Quello della narrazione orale è un sistema che si basa su un principio di azione e
reazione, ovverosia sulla presenza di un narratore e di almeno un interlocutore. In
questo modo si stabilisce un nesso che necessariamente porta a ritenere il
significato della narrazione stessa nella compartecipazione di due elementi. È
come se, scrivendo, Conrad avesse tenuto conto della presenza invisibile ma
costante di un ascoltatore; così facendo, ha permesso a tale elemento di entrare
nel testo, di agire su di esso, modificandolo dall'interno. Contemporaneamente
Marlow è costretto da questa circostanza a riattraversare il contenuto di una
memoria senza avere quel comportamento da narratore onnisciente che sarebbe
presupponibile. L’autore costringe anche lui, e lo fa stordendolo con
quell’oscillazione tra chiaro e scuro che ottiene anche sui lettori il medesimo
effetto. Lo vediamo passare attraverso ‘a narrow and desert street in deep
shadow, high houses, innumerabile windows with venetian blinds, a dead silence’
per raggiungere la Compagnia commerciale che dovrà assumerlo in quella città
che lo fa pensare ad un ‘whited sepulchre’; sulla soglia, ad accoglierlo troverà
due donne in nero, che lavorano a maglia, introducono chi arriva e scrutano con
Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
50
atteggiamento impassibile, alle quali,dentro di sé, Marlow si rivolge motteggiando
:« Ave! Old knitter of black wool. Morituri te salutant»4.
L’ironia con cui ci vengono descritte queste scene, che potrebbe usare la sua
forza apotropaica contro il fascino di immagini un po’ lugubri, è, invece, un
atteggiamento basato su un preciso schema di riferimenti, comune a tutta la
società britannica,e non solo ad essa, in cui la sicurezza nella razionalità e la
certezza nell’agire che ne deriva sono in cima alla scala dei valori umani.
3.
L’avvicinamento fisico a Kurtz, compiuto attraverso la faticosa risalita del fiume
Congo, coincide con una progressiva attrazione di Marlow verso di lui.
Il fiume, le difficoltà enormi che esso presenta per un’imbarcazione, continuano
quell’opera di corrosione che minaccia di rescindere definitivamente i legami tra
Marlow e il suo concetto di realtà:
“..You lost your way on that river as you would in a desert, and butted all day long against
shoals, trying to find the channel, till you thought yourself bewitched and cut off for ever
from everything you had known once – somewhere – far away – in another existence
perhaps..”5
Questo malcelato nervosismo non è destinato ad affievolirsi, ogni passaggio
successivo è il momento per un’altra verità di presentarsi, con immediatezza. Nelle
pagine che descrivono questo percorso assistiamo a molti eventi impressionanti,
Conrad ci propone immagini vivide che producono riflessioni concitate; la rapidità
4 Questo era il saluto che i gladiatori romani rivolgevano all’imperatore prima del combattimento.
Wallace Watson suggerisce che Conrad abbia potuto riprendere l’uso ironico di questa locuzione già fatto da Maupassant in L’Epave. Quanto alle influenze della letteratura francese su Conrad,
esse sono conclamate dallo stesso autore in una tardiva prefazione alla raccolta Racconti inquieti in cui egli scrive, a proposito del suo rifiuto del racconto Gli idioti , che esso è “un lavoro di così
ovvia derivazione che stento a parlarne”. Cfr. Yves Hervouet, Conrad and Maupassant, in “Conradiana” XIV,2 (1982),pp.83-111. 5 “…su quel fiume si perdeva la via come in un deserto, e non si faceva che cozzar tutto il giorno contro le secche, cercando di scoprire un canale fino a sentirsi stregati e avulsi per sempre da ogni
cosa che si fosse conosciuta in passato – chissà dove, lontano – forse in un’altra esistenza..”
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con cui queste seguono da quelle mostra la direzione in cui Marlow si precipita, la
direzione in cui crede di poter scorgere una somiglianza con ciò che gli
appartiene. Se pensiamo a dove egli si trova, in acque infide e ingannevoli, con
un equipaggio di cannibali e di pavidi, allora il suo tendere a Kurtz può apparire
una pulsione naturale verso il conosciuto, verso il più simile e verso la speranza di
poter recuperare la parola.
“..Principles? Principles won’t do. Aquisition, clothes, pretty rags – rags that would fly off at
the first good shake. No; you want a deliberate belief. An appeal to me in this fiendish row –
is there? Very well; I hear; I admit, but I have a voice too, and for good or evil mine is the
speech that cannot be silenced.”6
Poco avanti nel testo la consapevolezza di questa ricerca verrà comunicata da
Marlow medesimo, a cui sembra sovvenire come un ricordo da tempo a riposo
che porti con sé la memoria di un sentimento di imbarazzo, o di un errore, o di un
inganno:
“..I couldn’t have been more disgusted if I had travelled all this way for the sole purpose of
talking with Mr Kurtz. Talkig with...I flung one shoe overboard, and became aware that that
was exactly what I had been looking forward to – a talk with Kurtz...The man presented
himself as a voice...The point was in his being a gifted creature, and that of all his gifts the
one that stood up pre-eminently, that carried with it a sense of real presence, was his ability
to talk, his words – the gift of expression, the bewildering, the illuminating, the most exalted
and the most contemptible, the pulsating stream of light, or the deceitful flow from the
heart of an impenetrable darkness...The other shoe went flying unto the devil-god of that
river.”7
6 “…I principi non valgono. Patrimoni, vestiti, bei cenci, cenci che volerebbero via alla prima scossa forte. No, ci vuole una fede ponderata. C’è un appello rivolto a me in questo tumulto
indiavolato, no? Va bene, lo sento, lo ammetto, ma anche io posseggo una voce, e per il bene o per il male è mio il discorso che non può essere fatto tacere..” 7 “…Non avrei potuto sentirmi più disgustato se avessi fatto tutta quella strada con il solo scopo di parlare con il signor Kurtz. Parlare con…lanciai una scarpa nel fiume e m’ avvidi che era
precisamente quello che avevo avuto di mira: parlare con il signor Kurtz…L’uomo si presentava come una voce…L’essenziale era nel fatto che fosse una creatura particolarmente dotata, e che
di tutte le sue doti quella che spiccava preminentemente, che portava con sé un senso di autentica presenza, era la sua abilità oratoria, la sua parola, il dono dell’espressione, il dono che
sbalordisce, illumina, esalta o deprime al massimo grado, il più elevato e il più sgradevole, la
Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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È dunque il momento di rendere ragione di quest’attrazione formidabile esercitata
fin dall’inizio da un personaggio che, dopotutto, ancora non è apparso ‘di
persona’ sulla pagina.
Conrad racconta ancora qualcosa di lui, prima che sia possibile incontrarlo.
Queste informazioni sono il completamento necessario a capire la ragione della
fascinazione subita da Marlow, ma anche della sua rabbia improvvisa, del suo
ponderare subito la possibilità di un inganno quasi avendone la certezza. Difatti
l’anticipazione narrativa che interviene nel testo scardina il meccanismo di
aspettativa che vorrebbe fosse il personaggio stesso, con la sua apparizione, a
chiarire il significato di ciò che è finora rimasto oscuro. Il fatto che Conrad privi di
questa possibilità Kurtz, proprio nel momento in cui ci si aspetta di vederlo arrivare
e disvelare la propria identità, non è un gesto privo di significato, né tantomeno
studiato per spiazzare il lettore come già molto spesso è successo.
Kurtz, fin dal principio, esiste attraverso gli altri, attraverso la loro invidia, la loro
curiosità, la loro ammirazione, ma, soprattutto attraverso il potere che gli altri gli
concendono di prendersi su di loro. Il lume della civiltà occidentale, che si innalza
nella forza della parola, e che insieme si radica nella violenza che la parola
dovrebbe giustificare, lo ha reso dipendente, assuefatto all’esercizio del potere.
Il riconoscimento anelato da Marlow avviene con la forma deteriore che le sue
credenze potessero assumere e, nondimeno egli prosegue e ivi cerca ancora la
salvezza.
“..I’m not trying to excuse or even explain – I am trying to account to myself for – for – Mr
kurtz - for the shade of Mr. Kurtz. This initiated wraith from the back of Nowhere honoured
me with its amazing confidence before it vanished altogether. This was because it could
speak English to me... All Europe contributed to the making of Kurtz..”8
palpitante ondata di luce o l’ingannevole profluvio di parole dal cuore di un’impenetrabile
tenebra….L’altra scarpa volò al diavolo-dio di quel fiume..” 8 “..Io non cerco di scusare o spiegare – cerco di rendermi conto in me stesso del signor Kurtz – o
dell’ombra del signor Kurtz . Questo fantasma iniziato proveniente dal nulla, mi ha onorato della sua stupefacente confidenza, prima di scomparire del tutto. E fu perché poteva parlarmi in
inglese…Tutta l’Europa aveva contribuito alla formazione di Kurtz..”
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“..The International Society for the Suppressing of Savage Customs9 had intrusted him with
the making of a report, for its future guidance. And he had written it too. I’ve seen it. I’ve
read it. It was eloquent, vibrating with eloquence, but too high-strung, I think. Seventeen
pages of close writing he had found time for! But this must have been before his – let us say
– nerves went wrong, and caused him to preside at certain midnight dances ending with
unspeakeble rites, wich – as far as I reluctantly gathered from what I heard at various times –
were offered up to him – do you understand? – to Mr Kurtz himself. But it was a beautiful
piece of writing.”10
Kurtz, dunque, uno dei fiori più alti della cultura europea, il cui eloquio rappresenta
l’oasi di civiltà che recupera Marlow alle sue origini, ha trovato l’espressione più
propria della sua forza nel dominio su uomini più deboli. Egli, come si ricava dalle
poche frasi estratte dal suo rapporto, percepisce immediatamente che, agli occhi
degli indigeni, non può apparire che come un fenomeno straordinario, provvisto di
doti soprannaturali e sfrutta questo vantaggio per raggiungere una sfera di potere
che, in altri luoghi, con altri uomini, gli sarebbe preclusa. Egli diviene il loro Dio-Re e
costringe ogni suo impulso ad assoggettarsi a questa brama di onnipotenza.
Marlow non può che riconoscere, in mezzo alle aberrazioni, di trovarsi di fronte al
campione più eminente della sua civiltà illuminata. Infatti Kurtz, per quanto
spietato, malato e inquietante, altro non è che un colonizzatore eccellente, che,
per la propria egoistica glorificazione distrugge se stesso e tutto ciò che
rappresenta.
Quando, finalmente, il vaporetto di Marlow raggiunge la stazione di Kurtz, ad
accoglierlo si trova un personaggio sconcertante; è un giovane russo vestito di
stracci colorati la cui unica occupazione sembra essere preoccuparsi di Kurtz,
idolatrarlo, cercare di compiere l’impresa più assurda di tutte: proteggerlo.
9 Molto probabilmente Conrad si riferisce all’ Association Internationale pour l’Exploration et la Civilisation en Afrique, di cui era presidente Re Leopoldo II del Belgio. 10 “ ..La Società Internazionale per la Soppressione dei Costumi Selvaggi gli aveva affidato la stesura di un rapporto a propria guida futura. Quel rapporto l’aveva anche scritto. L’ho visto. L’ho
letto. Era eloquente, vibrante di eloquenza, ma troppo astratto, a mio parere. Aveva trovato tempo per diciassette pagine, fitte fitte! Ma doveva essere stato prima che gli si fossero guastati –
diciamo così – i nervi, che lo avevano spinto a presenziare a certe danze di mezzanotte, culminanti in indescrivibili riti che – per quanto potei con riluttanza arguire da saltuarie informazioni – erano
offerti a lui stesso – mi capite? – al signor Kurtz in persona. Però era un bel saggio di composizione.”
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Quando il binocolo di Marlow, nello scrutare l’abitazione di Kurtz, gli permette di
vedere da vicino la palizzata che la circonda, egli capisce perché l’uomo che
domina in quel luogo non possa presentarsi che come una voce.
“..And then I made a brusque movement, and one of the remaining posts of that vanished
fence leaped up in the field of my glass. You remember I told you I had been struck at the
distance by certain attempts at ornamentation, rather remarkable in the ruinous aspect of
the place. Now I had suddenly a nearer view, and its first result was to make me throw my
head back as if before a blow. Then I went carefully from post to post with my glass, and I
saw my mistake. These round knobs were not ornamental but symbolic; they were
expressive and puzzling, striking and disturbing – food for thoughts and also for the vultures if
there had been any looking down from the sky; but all events for such ants as were
industrious enough to ascend the pole. They would have been even more impressive, those
heads on the stakes, if their faces had not been turned to the house. Only one, the first I had
made out, was facing my way.”11
11 Per ciò che concerne il riferimento storiografico, Adam Hochschild(In Adam Hochschild, Gli spettri del Congo, Rizzoli 2001, pp.180-181)riferisce di tre uomini le cui vicende potrebbero risultare assimilate nella figura di Kurtz. Georges Antoine Klein, agente di una società francese per la raccolta dell’avorio, che morì a bordo di un battello; Arthur Hodister, belga, famoso per il suo harem femminile e per le enormi quantità d’avorio accumulate e, infine, il capitano della Force Publique, Léon Rom. Quest’ultimo è stato generalmente ignorato dai commentatori di Conrad, eppure è forse colui che più somiglia a Kurtz. Un giornalista (E.J.Glave in “The Century Magazine”, Settembre 1897) riferisce di come venne sedata una rivolta nella zona di cui era responsabile Rom << Furono catturati molte donne e bambini e furono portate alle cascate ventuno teste, che il capitano Rom utilizzò a mo’ di decorazione intorno a un’aiuola davanti a casa sua!>> , sappiamo inoltre che fu un entomologo dilettante, ma anche pittore (cinque dei suoi dipinti sono tuttora esposti in un museo belga, il Musée Royal de l’Afrique Centrale di Tervuren.) e, soprattutto, scrittore. In quest’ultima veste nel 1899, ritornato in Belgio, pubblicò un volume da titolo Le Nègre du Congo, i cui toni sono oltremodo sprezzanti, senza contare la superficialità dei contenuti che vorrebbero offrire un saggio delle usanze e delle caratteristiche degli indigeni. Da altre fonti sappiamo anche che Rom si faceva trattare come un capo dagli indigeni, anche a discapito degli altri bianchi presenti nella stazione. Non è possibile sapere se Conrad lo conobbe mai di persona, quasi sicuramente lesse l’articolo sopra citato nel “Saturday Review”, rivista che leggeva con assiduità, e probabilmente aveva già sentito parlare di quest’ uomo che godeva di una fama straordinaria nelle vicende del colonialismo belga.
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“..I want you clearly to understand that there was nothing exactly profitable in these heads
being there. They only showed that Mr Kurtz lacked restraint in the gratification of his various
lusts, that there was something wanting in him – some small matter wich, when the pressing
need arose, could not be found under his magnificent eloquence. Whether he knew of this
deficiency himself I can’t say. I think the knowledge came to him at last – only at the very
last. But the wilderness had found him out early, and had taken on him a terrible
vengeance for the fantastic invasion. I think it had whispered to him things about himself
wich he did not know, things of wich he had no conception till he took counsel with this
great solitude – and the whisper had proved irresistibly fascinating. It echoed loudly within
him because he was hollow at the core..”12
Kurtz, nella solitudine che consapevolmente si è ricercato, impegna le sue doti
nell’esercizio della propria glorificazione e lo fa contemplando incessantemente
se stesso. Eppure Kurtz non c’è mai stato, in tutto il testo egli non è mai esistito che
per tramite altrui. La sua magniloquenza è l’esempio di quest’assenza, poiché in
nessun caso, la sua voce, ciò che gli restituirebbe presenza, può essere trasmessa
attraverso la scrittura. Come nella finzione letteraria egli si determina attraverso la
sua deificazione a cui altri attendono, così, nella costruzione narrativa è il lettore
che anela a lui, che lo presentifica, fino al punto in cui scopre che il vuoto al
12 “ Poi feci un brusco movimento, e uno dei pali rimasti, di quello steccato scomparso, balzò nel campo visivo del binocolo. Ricordate che ero stato colpito, a distanza, da certi tentativi di
ornamentazione piuttosto eccezionali, nell’aspetto rovinoso del luogo. Ora ne ebbi d’un tratto una visione ravvicinata, e il primo risultato fu quello di farmi buttare la testa all’indietro come per
schivare un colpo. Poi riesaminai attentamente, palo dopo palo, col binocolo, e compresi il mio errore. Quelle palle tonde non erano ornamentali, ma simboliche; erano espressive, e davano da
pensare; colpivano e disturbavano insieme – alimento alle riflessioni, e anche agli avvoltoi, se ce ne fosse stato qualcuno a scrutare dall’alto del cielo; ma ad ogni modo alimento per quelle formiche
che fossero state abbastanza industriose da scalare il palo. Sarebbero state ancor più impressionanti quelle teste sui pali, se le loro facce non fossero state rivolte verso la casa. Soltanto
una, la prima che avevo identificato, era volta verso di me..” “..Ma voglio che comprendiate chiaramente che non c’era nulla di particolarmente
vantaggioso nel tenere lì quelle teste. Esse dimostravano unicamente che il signor Kurtz mancava di ritegno nel soddisfare le sue svariate brame, che vi era qualche lacuna in lui – un nonnulla che,
quando sorse una necessità urgente, non si potè trovare sotto la sua magnifica eloquenza. Se egli stesso fosse conscio di questa sua manchevolezza, non ve lo so dire. Credo che se ne accorgesse
all’ultimo – soltanto all’ultimo momento. Ma la terra desolata l’aveva scoperto presto e si era orrendamente vendicata su di lui di quella fantastica invasione. Penso che gli abbia dovuto
sussurrare cose su se stesso che lui non conosceva, cose di cui non aveva la minima idea, finchè non si fu consigliato con quella grande solitudine, e quel sussurro si fu dimostrato irresistibilmente
affascinante. Aveva echeggiato profondamente dentro di lui, perché era vuoto nell’intimo..”
Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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centro di questo personaggio non è altro che la nullificazione del mondo e, quindi,
della parola.
“..A voice! a voice! It was grave, profound, vibrating, while the man did not seem capable
of a whisper..”
“..I had to deal with a being to whom I could not appeal in the name of anything high or
low. I had, even like the niggers, to invoke him – himself – his own exalted and incredible
degradation. There was nothing either above or below him, and I knew it. He had kicked
himself loose of the heart. Confound the man! He had kicked the very earth to pieces..”13
L’unica possibilità di recuperare un frammento sopravvissuto di questo
personaggio è attendere quel momento finale a cui è stato accennato e che
coincide con l’unico istante di realtà che ormai gli possa appartenere:
“No eloquence could have been so withering to one’s belief in mankind as his final burst of
sincerity. He struggled with himself, too. I saw it, - I heard it. I saw the inconceivable mystery
of a soul that knew no restraint, no faith, and no fear, yet struggling blindly with itself.”14
Se esiste una reale grandezza di Kurtz, essa si rivela in questo momento, il delirio a
cui Marlow assiste è la manifestazione esteriore della lacerazione che egli trova la
forza di operare per riaccogliere, all’ultimo, la realtà del mondo, e la
consapevolezza che ciò richiede la separazione da quel Nulla in cui si era
precipitato.
È proprio in virtù di questa lotta dolorosissima contro se stesso che Kurtz può
recuperare per sé il mondo, affacciarsi alla realtà, alla verità del suo mondo e dire
la sua ultima parola, l’unica parola autentica che egli possa pronunciare.
13 “.. Che voce! che voce! Era grave, profonda, vibrante, mentre l’uomo stesso non sembrava
capace di un bisbiglio..” “..avere a che fare con un essere al quale non potevo rivolgermi nel nome di una qualunque cosa,
alta o bassa che fosse. Ero costretto invece, proprio come i negri, a invocare lui stesso, la sua esaltata e incredibile degradazione. Non c’era nulla né al di sopra né al di sotto di lui, e io lo
sapevo. Si era sciolto dalla terra, quel maledetto! aveva fatto a pezzi la terra stessa.” 14 “..Nessuna eloquenza avrebbe potuto essere così distruttiva per la fede di un uomo nell’umanità
quanto quel suo ultimo scoppio di sincerità. Anche lui lottava con se stesso. Lo vedevo, lo sentivo. Vidi l’inconcepibile mistero di un’anima che non conosceva né ritegno, né fede, né paura, e
lottava in pari tempo con se stessa, ciecamente.”
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“ Anything approaching the change that came over his features I have never seen before,
and hope never to see again. Oh, I wasn’t touched. I was fascinated. It was as tough a veil
had been rent. I saw on that ivory face the expression of sombre pride, of ruthless power, of
craven terror – of an intense and hopeless despair. Did he live his life again in every detail of
desire, temptation, and surrender during that supreme moment of complete knowledge?
He cried in a whisper at some image, at some vision, - he cried out twice, a cry that was no
more than a breath –
‘ The horror! The horror!’15
4.
Nota al §. 4.
Seppur già dichiarato nella premessa, voglio qui ricordare che il testo presentato al lettore
è incompleto. Mi permetto di ricordarlo in questo punto perché di seguito viene riportata
l’ultima parte dell’analisi svolta del Tractatus logico-philosophicus, in cui si perviene a
considerazioni che muovono, ovviamente, da una lettura integrale dell’ opera, ma che
vengono proposte a partire dalla conclusione della sezione 5 dell’opera16.
Attraverso i successivi momenti di quest’indagine, Wittgenstein perviene ad
individuare la forma generale della proposizione che, infine, si presenta secondo
due caratteristiche eminenti tra di loro coniugate, massima generalità e massima
semplicità( T 5.47; 5.4732I; 5.522; 5.523; 5.524). La logica deve possedere queste
qualità perché essa ci viene data col mondo, ma prima di conoscere le
determinazioni contingenti del mondo:
15 “ Non ho mai visto nulla di simile al mutamento che avvenne sul suo viso, e spero di non vederlo
mai più. Oh, non rimasi commosso. Rimasi affascinato. Fu come se un velo fosse stato squarciato. Colsi su quel viso d’avorio l’espressione di un cupo orgoglio, di una potenza spietata, di un terrore
codardo, di una intensa e assoluta disperazione. Aveva rivissuto la sua vita, ogni particolare, di desiderio, di tentazione e di sconfitta, durante quell’istante supremo di completa consapevolezza?
Gridò in un sussurro verso qualche immagine, verso qualche visione, due volte gridò, un grido che non fu più di un sospiro: ‘ L’orrore! L’orrore!’. 16 Il Tractatus logico-philosophicus è composto da 526 proposizioni numericamente ordinate. Esistono sette proposizioni fondamentali con numero intero di una sola cifra, ad ognuna di esse
segue un gruppo di proposizioni di commento, la cui gerarchia è indicata dai decimali apposti dopo la cifra di riferimento. (Così, le proposizioni I.I, I.2, I.3 etc.. sono commenti alla proposizione I ,
mentre le proposizioni I.II, I.I2, I.I3 sono commenti ad I.I , fino ad un massimo di sei cifre decimali).
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‘L’ ‘esperienza’ che ci serve per la comprensione della logica, è non l’esperienza che
qualcosa è così e così, ma l’esperienza che qualcosa è: ma ciò non è un’esperienza.
La logica è prima d’ogni esperienza – d’ogni esperienza che qualcosa è così.
Essa è prima del Come, non del Che cosa.’( T 5.552)
‘È chiaro che noi abbiamo un concetto della proposizione elementare, a prescindere dalla
particolare forma logica di essa.
Ma ove si possono formare simboli secondo un sistema, ivi questo sistema è ciò che è
logicamente importante, e non i singoli simboli.
E come sarebbe possibile che nella logica io avessi a che fare con forme che posso
inventare? Io devo invece avere a che fare con ciò che mi rende possibile inventarle. ( T
5.555)17
Poiché al soggetto è negata la possibilità di muoversi senza i meccanismi logici
che gli permettono di rappresentarsi il mondo, egli possiede quest’unico mezzo
per accedere ai fatti e, quando egli cerchi di trascenderli adoperando questo
mezzo, allora crea il nonsenso.
La logica determina la struttura del nostro linguaggio, e prima del nostro pensiero,
e con ciò segna i limiti di rappresentazione della realtà per mezzo di esso. Lo
spazio logico è lo spazio delle possibilità dell’accadere dell’ente concepito
secondo la natura del soggetto che lo genera. Poiché tale generazione avviene
per una necessità immanente al soggetto, l’Io diviene limite del mondo e ‘I limiti
del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo.’ ( T 5.6) ( T 5.6I; 5.62; 5.632;
5.64; 5.64I )
Le leggi logiche che operano nella formazione del linguaggio non operano allo
steso modo nel mondo, esse sono unicamente regole logiche, ovvero agiscono
nella formazione della rappresentazione del mondo, ma mai fuori di questa.
Possiamo pensare alle possibilità del darsi di uno stato di cose, ma che esso si attui
o meno non possiamo determinarlo assolutamente, poiché ogni avvenimento è
contingente, accidentale. Non si danno nel mondo né causalità, né necessità,
17Tutte le citazioni dalle opere di Wittgenstein sono tratte da Tractatus logico philosophicus e
Quaderni 1914-1916 , Einaudi, 2001.
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queste leggi operano solamente nella logica e, dove esse vengano trasferite alla
realtà, viene commesso l’errore di trasferire nel rappresentato forze che agiscono
nel metodo di rappresentazione. ( T 6.32; 6.34; 6.34I; 6.35).
‘Tutte le proposizioni sono di pari valore’. ( T 6.4)
Questa proposizione ci apre la porta dell’ultima stanza di questo percorso, quella
in cui vengono infine dichiarate le conseguenze che dovrebbe affrontare
chiunque riconoscesse la validità della teoria della raffigurazione di Wittgenstein.
Esse sono di una natura particolare, poiché, dopo averci spiegato per quali motivi
dovremmo scegliere di rinunciare ad un certo tipo di uso del linguaggio, in
conclusione l’autore manifesta la qualità etica di questa scelta.
Sostenere che tutte le proposizioni abbiano uguale valore significa destituirle
definitivamente di qualunque pretesa assiologica; le proposizioni, intese come le
descrive il Tractatus, possono parlare sensatamente solo dei fatti, i fatti sono
contingenti ed il loro accadere non è in alcun modo determinabile dalle nostre
capacità.
‘Il senso del mondo dev’essere fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene
come avviene; non v’è in esso alcun valore – né, se vi fosse, avrebbe un valore.
Se un valore v’è, esso dev’esser fuori di ogni avvenire ed esser-così. Infatti ogni avvenire ed
esser-così è accidentale.
Ciò che li rende non-accidentali non può essere nel mondo, ché altrimenti sarebbe, a sua
volta, accidentale.
Dev’essere fuori del mondo.’ ( T 6.4I )
‘Né, quindi, vi possono essere proposizioni dell’etica.
Le proposizioni non possono esprimere nulla di ciò che è più alto.’ ( T 6.42 )
A mio parere, in questo contesto, l’uso della parola ‘etica’ merita una riflessione
particolare, poichè, secondo i modi in cui essa è stata introdotta nelle varie
epoche del pensiero e segnatamente nelle giustapposizioni al concetto di
‘morale’ operate nella filosofia di Kant prima e di Hegel poi, ad essa viene
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generalmente attribuito un significato che credo non rispecchi interamente
l’intenzione di Wittgenstein.
Semplificando: con ‘morale’ usualmente s’intende l’ambito delle determinazioni
individuali di volontà ed intenzione, un movimento interiore che spinge all’azione il
soggetto che, in questo momento, valuta soltanto il proprio sentire. L’ ‘etica’,
invece, si configura nel rapporto tra l’indivuduo e il mondo e costituisce un
complesso di regole comportamentali (anche secondo il significato più proprio
della parola greca) che dirige la volontà individuale a partecipare al bene
comune del mondo-società.
Tuttavia, se considerassimo l’ ‘etica’ del Tractatus solo secondo questa lezione,
molte delle affermazioni che la riguardano non sarebbero spiegabili.
Credo, piuttosto, che per rispettare la coerenza del testo, per etica si debba
intendere proprio il volere individuale che, ovviamente, nulla ha a che fare con i
fatti, ma soltanto con il soggetto metafisico ( T 6.422 ):
‘Se il volere buono o cattivo àltera il mondo, esso può alterare solo i limiti del mondo, non i
fatti, non ciò che può essere espresso dal linguaggio.
In breve, il mondo allora deve perciò divenire un altro mondo. Esso deve, per così dire,
decrescere o crescere in toto.
Il mondo del felice è un altro mondo che quello dell’infelice .’ ( T 6.43 )
D’altra parte non va dimenticato che, sebbene tracciare un limite alle possibilità
d’espressione del linguaggio sia l’azione che scaturisce da un’esigenza morale di
Wittgenstein stesso, credo che rinunciare all’uso scorretto della parola, alla
produzione di nonsensi filosofici, si possa considerare una scelta etica, ossia un
comportamento i cui effetti positivi non ricadrebbero unicamente sul soggetto
che la opera.
Quando sia compresa appunto quest’esigenza morale dell’autore, allora potrà
essere compresa appieno anche la sua teoria linguistica:
“Riconoscere la giustezza della teoria raffigurativa equivale a riconoscere i limiti al cui
interno qualcosa di vero o di falso può essere pensato e asserito…Qualificare come
insensato tutto il resto equivale non a condannare come letteralmente incomprensibili le
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proposizioni che violano i principi di quella teoria, ma ad ammettere che, quando si usa il
linguaggio per affermare qualcosa che vada al di là di quei limiti, non si stanno avanzando
pretese di verità, non si sta comunicando un’informazione, non si sta esprimendo una
genuina conoscenza.”18
‘Il metodo corretto della filosofia sarebbe propriamente questo: nulla dire se non ciò che
può dirsi; dunque, proposizioni della scienza naturale – dunque, qualcosa che con la
filosofia nulla ha a che fare -, e poi, ogni volta che un altro voglia dire qualcosa di
metafisico, mostrargli che, a certi segni nelle sue proposizioni, egli non ha dato significato
alcuno. Questo metodo sarebbe insoddisfacente per l’altro – egli non avrebbe la
sensazione che noi gli insegniamo filosofia , eppure esso sarebbe l’unico metodo
rigorosamente corretto.’ ( T 6.53 )
Con questo Wittgenstein non solo limita le possibilità del linguaggio, e quindi di
ogni analisi che tramite il linguaggio si possa fare, ma nega anche che questo
possa essere di alcuna importanza reale per le nostre necessità più profonde:
‘Noi sentiamo che, persino nell’ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano
avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure sfiorati. Certo, allora non
resta più domanda alcuna; e appunto questa è la risposta.’ ( T 6.52 )
Ogni interrogativo che riguardi il perché della nostra esistenza, la natura del
tempo e dello spazio non può essere indagato, poiché le risposte a queste
domande si trovano nell’essere, nell’atemporalità e nel nulla, ambiti che non
possiamo raggiungere con la parola. Pertanto, se non c’è risposta, neppure la
domanda può essere formulata, o meglio, dovrebbe essere formulata. ( T 6.43II;
6.43I2; 6.5 )
‘Ma v’è dell’ineffabile. Esso mostra sé, è il Mistico.’ (T 6.522 )
Quello che Wittgenstein chiama ‘Mistico’ è la non esperienza, il sentimento del
mondo, ciò che spinge a domandare dell’essere. Esso è ciò che rende povera
18 Pasquale Frascolla, Tractatus logico-philosophicus Introduzione alla lettura, Carocci 2003, pp.
293-294.
Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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l’indagine condotta dalla logica, poiché i mezzi da essa impiegati non possono
estendersi al di là delle possibilità dell’accadere dell’ente.
‘Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere.’ ( T 7)
Se adesso considerassimo conclusa l’esperienza del Tractatus e ci limitassimo a
considerare Wittgenstein come un giovane principe dell’Inquisizione che voglia
eternamente costringerci a piegare il capo e a non distrarci dal fragile e caduco
mondo dei fatti, avremmo perso per sempre la possibilità di cogliere la bellezza del
suo pensiero.
In fondo potremmo dire, con altre parole, che il limite tracciato nel linguaggio
attraverso quest’opera abbia nella parola ‘verità’ il suo paradigma fondamentale;
esso risponde alla domanda su che cosa possa dirsi ‘vero’ e cosa ‘falso’.
Dispiegato secondo l’estensione reale della sua ampiezza esso giunge a
contemplare il silenzio come il luogo logico delle infinite possibilità dell’essere che
non si attualizzano nell’ente. Ciò che non deve essere trascurato assolutamente è
che è il soggetto che genera questo spazio, sempre secondo le sue necessità. In
che modo, dunque, dovremmo intendere quel che si dice a proposito del
mostrarsi del Mistico? Se i limiti del mio linguaggio rappresentano i limiti del mio
mondo e tutto ciò che è nel mondo è contingente, il linguaggio può
rappresentare unicamente il contingente. Il non-contingente non è nel mondo,
perché non può essere rappresentato dal linguaggio.
Esso è rappresentato logicamente dalla cessazione del linguaggio, dunque, se
vogliamo attribuire un significato alle parole di Wittgenstein che sia coerente con i
pensieri fin qui espressi, dovremmo concludere che il non dire è mostrare.
Il non dire è logicamente generato dal dire ( come sua negazione), dunque esso si
esplica nello spazio logico, vuoto di parole, che genera il parlare solo del
contingente, dei fatti. Dove manchi questo spazio vuoto, dove esso sia occupato
da nonsensi, il mostrare è impossibile.
Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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5.
L’incontro tra la teoria di Wittgenstein e l’opera di Conrad avviene solamente su
un piano teoretico. Non solo non possiamo rintracciare alcun accenno ad un
genere più diretto di rapporti dei due autori con i rispettivi lavori, ma, anche in
questo contesto, il confronto tra di essi avviene per accostamento, non per
sovrapposizione.
Questo studio scaturisce dal ravvisamento di una somiglianza ed essendo dunque
basato su un’analogia non pretende di mostrare una certezza, ma piuttosto di
prospettare una possibilità.
Il testo che segue è stato apposto da Conrad come prefazione al racconto The
nigger of the ‘Narcissus’ ed è apparso, insieme alla quinta puntata del romanzo,
sulla “New Review” nel Dicembre 1897. L’occasione in cui è stato pubblicato,
tuttavia, non ne determina interamente il contenuto, poiché in esso sono portate
ad espressione molte delle convinzioni di Conrad riguardo la letteratura e la
funzione che essa dovrebbe svolgere.
Proprio in virtù di questo ho creduto opportuno riportarlo nella sua interezza, di
modo che se ne possa considerare tutto il contenuto, ma anche per rispettarne la
bellezza nella sua integrità.
Prefazione19
Un’ opera che aspiri, pur umilmente, alla condizione di arte, dovrebbe recare la
propria giustificazione con sé, in ogni riga. E l’arte stessa dovrebbe esser definita
come un tentativo sincero di rendere il più alto grado di giustizia all’universo visibile,
che porti alla luce la verità, multiforme ed una, velata in ogni suo aspetto. È un
tentativo di trovare nelle sue forme, nei suoi colori, nella sua luce, nelle sue ombre,
negli aspetti della materia e nei fatti della vita, cosa in ciascuno è fondamentale,
cosa rimane ed è essenziale – la loro qualità che illumina e convince – la verità
incontestabile della loro esistenza. L’artista, dunque, come il pensatore o lo
scienziato, cerca la verità e tenta il suo richiamo. Colpito dall’aspetto del mondo il
19 Trad. nostra.
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pensatore si immerge nelle idee, lo scienziato nei fatti – quando ne riemergono essi
parlano a quelle qualità del nostro essere che sono più adeguate all’azzardosa
impresa del vivere. Essi parlano autorevolmente al nostro buonsenso alla nostra
intelligenza, al nostro desiderio di pace o al nostro desiderio d’inquietudine, non di
rado ai nostri pregiudizi, qualche volta alle nostre paure, spesso al nostro egoismo –
ma sempre alla nostra credulità. E le loro parole sono ascoltate con rispetto,
poiché riguardano serie questioni: l’educazione delle nostre menti e la cura dei
nostri corpi, la soddisfazione delle nostre ambizioni, il perfezionamento dei nostri
mezzi e la glorificazione dei nostri preziosi scopi.
Altrimenti è per l’artista.
Di fronte al medesimo, enigmatico spettacolo, l’artista si cala in se stesso, e in
quella solitaria regione di fatica e di lotta, se ne è degno ed è fortunato, egli trova i
modi del suo richiamo.
Il suo parlare chiama le nostre capacità meno evidenti: quella parte della nostra
natura che, a causa delle condizioni di lotta della nostra esistenza, è
necessariamente tenuta nascosta dentro le qualità più resistenti e dure – come il
corpo vulnerabile nell’armatura d’acciaio.
Il suo richiamo è meno gridato, più profondo, meno chiaro, più eccitante – e prima
dimenticato. Eppure il suo effetto dura per sempre.
La conoscenza che muta con le generazioni scarta idee, mette in dubbio fatti,
demolisce teorie. Ma l’artista chiama quella parte del nostro essere che non
dipende dalla conoscenza: ciò che in noi è dono e non acquisizione – e, perciò,
più a lungo presente.
Egli parla alla nostra capacità di piacere e meraviglia, al senso di mistero che
avvolge la vita, al nostro sentimento di pietà, e bellezza, e dolore, alla sensazione
latente di comunanza con tutta la creazione – ed alla sottile, ma invincibile
certezza della solidarietà che unisce le solitudini di innumerevoli cuori: alla
solidarietà in sogni, gioia, dolore, aspirazioni, illusioni, speranza, paura, che lega gli
uomini l’uno all’altro, che lega tutta l’umanità – i morti coi vivi e i vivi con quelli che
verranno.
È solo un simile corso di pensiero, o piuttosto di sensazioni, che può spiegare, in
qualche misura, lo scopo del tentativo fatto nel racconto che segue, di presentare
un inquietante episodio nelle vite oscure di pochi individui tratti dalla moltitudine
Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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ignorata dei confusi, dei semplici e dei senza voce. Perché, se c’è anche solo una
parte di verità nella credenza appena confessata, diviene evidente come non ci
sia un luogo di splendore o un angolo buio sulla terra che non meriti anche solo
uno sguardo di meraviglia e pietà. L’intenzione, dunque, può essere la
giustificazione della materia dell’opera, ma questa prefazione, che è
semplicemente la confessione di un tentativo, non può finire qui – perché la
confessione non è ancora completa.
La narrativa – se dopotutto aspira ad esser arte – chiama il temperamento. Ed in
verità dev’essere, come la pittura, la musica, l’arte tutta, il richiamo di un
temperamento a tutti gli altri, innumerevoli, temperamenti, il cui potere sottile e
irresistibile dona agli eventi passeggeri il loro vero significato, e crea la morale,
l’atmosfera emotiva di spazio e tempo. Un tale richiamo, per essere efficace,
dev’essere un’impressione trasmessa dai sensi e, in effetti, non può essere reso
altrimenti, giacché il temperamento, sia individuale che collettivo, non è soggetto
a persuasione. L’arte tutta, perciò, chiama prima di tutto i sensi, e lo scopo
dell’arte, quando si esprima con parole scritte, deve anch’esso chiamare
attraverso i sensi, se il suo più grande desiderio è trovare la sorgente segreta delle
reazioni emotive. Deve strenuamente aspirare alla plasticità della scultura, al colore
della pittura, ed alla magica suggestione della musica – che è l’arte delle arti. Ed è
solo con una completa e indefettibile devozione alla perfetta unione di forma e
sostanza, solo attraverso un’incessante, incrollabile attenzione per la costruzione e il
suono delle frasi che è possibile avvicinarsi alla plasticità, al colore; e la luce della
suggestione può agire per un istante sulla comune superficie delle parole. Delle
vecchie, vecchie parole, consunte, sfigurate da secoli di uso noncurante.
Lo sforzo autentico di riuscire in questo impegno creativo, di giungere fin dove la
sua forza glielo consente, di andare imperterrito attraverso l’esitazione, la
stanchezza o il rimprovero, è l’unica giustificazione valida per il lavoratore della
prosa. E, se la sua coscienza è pulita, la sua risposta a chi gli chieda, nell’ottusità
del buon senso che cerca il profitto immediato, di essere in particolare educato,
consolato, divertito: a chi chieda di essere rapidamente corretto, o incoraggiato, o
atterrito, o scioccato, o incantato, dev’essere questa: - Il compito che cerco di
realizzare è, col potere delle parole scritte, di farvi udire, di farvi provare – è, prima
Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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di tutto, di farvi vedere. Questo – e nient’altro, ed è tutto. Se riuscirò, troverete,
secondo i vostri meriti, incoraggiamento, consolazione, paura, meraviglia – tutto
ciò che domandate, e, forse, anche quel barlume di verità che avete dimenticato
di chiedere.
Sottrarre, in un momento di coraggio, allo spietato assalto del tempo, un inaridito
aspetto della vita è solo il principio del lavoro. Il lavoro, iniziato con tenerezza e
fede, è riuscire a tenere, senza alternativa e senza paura, il frammento salvato
davanti agli occhi di tutti e nella luce di uno stato d’animo sincero. È mostrare la
sua vibrazione, il suo colore, la sua forma; e attraverso il suo movimento, la sua
forma e il suo colore, denudare la sostanza della sua verità – far conoscere il suo
segreto ispiratore : la fatica e la passione che sono il nucleo di ogni momento che
convince. In un tentativo autentico di questo tipo, se si è meritevoli e fortunati, si
può forse arrivare ad una tale limpidezza di autenticità che, alla fine, la visione resa
di rimpianto o pietà, di terrore o allegria, risveglierà nei cuori di chi guardi quella
sensazione di ineluttabile solidarietà, della solidarietà in origini misteriose, in fatica,
in gioia, in speranza, in incerto destino, che lega gli uomini uno all’altro e tutta
l’umanità al mondo visibile.
È evidente che chi, a torto o a ragione, sia fermo nelle convinzioni ora espresse,
non può esser fedele ad alcuna delle formule temporanee della sua arte. La parte
di esse che rimane – la verità che ciascuna solo imperfettamente nasconde –
dovrà rimanere con lui come il suo bene più prezioso, ma esse tutte: Realismo,
Romanticismo, Naturalismo, anche il non ufficiale sentimentalismo ( che, come il
povero, è estremamente difficile da allontanare); tutte queste divinità devono,
dopo un periodo di comunanza, abbandonarlo – seppure sulla soglia del tempio –
ai balbettamenti della sua coscienza e all’esplicita consapevolezza della difficoltà
del suo lavoro. In questa solitudine difficile anche il supremo grido di Arte per l’Arte
perde il suono eccitante della sua apparente immoralità. Si sente lontano. Ha
cessato di essere grido, e si sente solo come un sussurro, spesso incomprensibile, ma
a volte, e vagamente, incoraggiante.
Qualche volta, riposando comodamente all’ombra di un albero sul bordo della
strada, guardiamo i movimenti di un bracciante in un campo lontano, e dopo un
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po’ cominciamo a chiederci distrattamente che cosa stia facendo. Guardiamo i
movimenti del suo corpo, l’ondeggiare delle sue braccia, lo vediamo piegarsi e
distendersi, esitare, ricominciare. Può aggiungere piacere ad un momento d’ozio
che ci dicano il motivo dei suoi movimenti. Se sappiamo che sta cercando di
sollevare una pietra, di scavare un fossato, di sradicare un ceppo, guardiamo con
maggior interesse i suoi sforzi, siamo disposti a perdonare lo stridore della sua
agitazione con la quiete del paesaggio; ed anche, se siamo in una disposizione
d’animo fraterna, potremmo giungere a perdonare il suo fallimento.
Comprendiamo il suo proposito e, dopotutto,ci ha provato e forse non ne aveva la
forza, forse non aveva la conoscenza. Perdoniamo, andiamo per la nostra strada –
e dimentichiamo. E così è per l’artigiano dell’arte. L’arte è lunga e la vita è breve, e
il successo è molto lontano. Perciò, dubitando della forza per arrivare così lontano,
parliamo un poco dello scopo dell’arte, che, come la vita stessa, è fonte
d’ispirazione, difficile – oscurato da nebbie. Non è nella chiara logica di una
conclusione trionfante, non è nello svelamento di uno di quei crudeli segreti che
chiamano Leggi di Natura. Non è meno grande, ma solo più difficile.
Fermare, per lo spazio di un respiro, le mani impegnate nel lavoro della terra, e
costringere gli uomini ipnotizzati dalla vista di mete lontane a guardare per un
momento alla veduta che li circonda di forma e colore, di sole e d’ombre; riuscire
a fermarli per uno sguardo, per un sospiro, per un sorriso – questo è lo scopo,
difficile ed evanescente, e raggiungibile solo da pochi. Ma qualche volta i degni e
i fortunati riescono anche in questo. E quando sia fatto – guarda! – c’è tutta la
verità della vita. Un momento di visione, un sospiro, un sorriso – ed il ritorno ad un
eterno riposo.
La natura di questa riflessione di Conrad sul linguaggio è necessariamente diversa
da quella operata da Wittgenstein. Oltre alla differenza fondamentale tra
l’impianto letterario e quello filosofico, è evidente anche che, mentre il primo si
interroga su che cosa dovrebbe fare la scrittura, l’altro si interroga su che cosa
essa possa fare. Senza dubbio questa discrepanza è prodotta dai diversi interessi
nell’applicazione del medesimo strumento. D’altra parte, sembra che i due
pensieri collidano proprio nella convinzione che esista la possibilità di mostrare la
vita attraverso parole che ne colgano gli aspetti sensibili più semplici ed immediati.
Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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È rintracciabile anche un altro aspetto della scrittura di Conrad che trova un
riscontro nella concezione di Wittgenstein; in essa tutti i richiami fatti attraverso le
parole rimandano sempre anche alla struttura interna della frase. Come ho
cercato di mostrare nell’analisi di Heart of Darkness, esiste un rapporto circolare tra
significato e forma per il quale l’uno rimanda incessantemente all’altro senza
offrire una via di fuga. È grazie a questo meccanismo che è possibile investire il
personaggio di Kurtz dei significati prima espressi, esso dimostra fattivamente
l’impossibilità di uscire dal linguaggio attraverso le parole.
Heart of Darkness costituisce un esempio valido proprio perché il testo attua un
progressivo sgretolamento dei meccanismi logici di riferimento con la realtà e
conclude che questo porta ad una trasformazione della realtà stessa, perché il
mutamento del soggetto muta il mondo ad esso correlato. È vero che tale
cambiamento non sembra messo in atto dal soggetto, ma dal suo esterno,
eppure, a ben guardare, è solo il dubbio del soggetto che lo rende possibile. Negli
individui in cui non si produce la domanda c’è una sostanziale immobilità,
rappresentata attraverso il persistere dei consueti meccanismi di riconoscimento.
Secondo un’interpretazione d’altro genere, si può dire, semplicemente, che
l’esperienza vissuta da Marlow, l’abbia reso critico verso la società cui appartiene,
fino al punto di contestarne le regole. Tuttavia questa soluzione non potrebbe
rendere ragione dell’intero sviluppo della vicenda. In essa dovrebbe venire
presupposto un giudizio morale sugli accadimenti che non trova riscontro nel testo
ed anche un’interpretazione di Kurtz che svilirebbe la sua reale importanza,
relegandolo al ruolo di un indemoniato ciarlatano senza speranze.
La decostruzione che Conrad mette in atto, invece, ha la forza straordinaria di
arrivare ad un passo dal Nulla e mostrarcelo attraverso la cessazione dell’attività
della parola. Egli riesce in questo compito nella maniera più perspicua possibile
alla materia che affronta: tacendo.
È precisamente questa scelta narrativa che coincide con il pensiero del Tractatus,
rappresentandone l’applicazione pratica nell’esercizio della scrittura.
Le idee espresse nella prefazione sopra riportata, sostengono la convinzione che
la letteratura debba parlare ai sentimenti dell’uomo, al suo temperamento, e che
Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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ciò sia possibile solo adoperando la scrittura come mezzo per toccare i sensi
attraverso la rappresentazione di ciò che può risvegliarne l’attività. Dopotutto si
tratta proprio di quel ‘parlare di qualcosa’ che, per essere sensato, ha bisogno del
mondo e che cessa con esso.
L’estrema concretezza della scrittura di Conrad contrasta fortemente con
l’assoluta astrattezza del Tractatus; essa infatti, è come il negativo della fotografia
dell’altra, eppure entrambe trattano del medesimo oggetto. La concretezza di
Conrad non è solo una caratteristica del suo stile, anzi, questa corrisponde agli
oggetti della sua letteratura, che riflettono la sua esperienza del mondo e degli
altri uomini. La sua ricerca della qualità essenziale all’oggetto non trascende mai
l’oggetto stesso, si concentra sulle forme della sua attualizzazione e tra esse
ricerca il modo della rappresentazione verbale. Anelare alla riproduzione della
plasticità, della forma, del colore, altro non è che la ricerca di quella
corrispondenza tra le strutture della rappresentazione e dell’accadimento che
consente di creare un’immagine del mondo. Questo significa recuperare la
parola alla sua originaria capacità generativa. La tenacia con cui Conrad
persegue questo scopo lo porta, infine, a riproporre sulla pagina quella scelta
etica che ha nell’accettazione del silenzio la sua alternativa tanto più ovvia
quanto più dolorosa e meno praticata. Il soggetto che lotta contro questo limite è
un soggetto che lotta contro se stesso e, nella migliore delle ipotesi, possiamo solo
augurarci che si stia dirigendo consapevolmente verso il Nulla. Purtroppo non
sempre è possibile rintracciare tanta onestà o coscienza ed è molto più probabile
che si abbia a che fare con un soggetto che, mentre distrugge se stesso, tenta di
dimostrare affannosamente di essere riuscito a colonizzare quel vuoto o di aver
finalmente scoperto ‘la cosa in sè’. Il soggetto che presuppone la possibilità di
superare quella che egli ritiene soltanto una realtà apparente, o scavando nella
profondità delle cose o mirando molto lontano da esse , forma un concetto
fallace di conoscenza. La realtà, per quanto sminuzzata in atomi e particelle,
siano chiamati essi logici o fisici, gli si presenterà diversa solo nella misura della
diversità dei mezzi di rappresentazione che egli avrà fatto propri, ma tutto ciò che
Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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egli avrà trovato, farà comunque parte del mondo così come egli è in grado
concepirne l’esistenza.
Quando il soggetto cerca di rintracciare nel mondo una regola, una logica, che
non appartenga al proprio meccanismo di rappresentazione, allora la
conoscenza assume le forme del possesso, perdendo la distinzione fondamentale
tra rappresentazione e rappresentato, nome ed oggetto. In questo modo egli
crede di potersi impadronire di tutto ciò che sia altro da sé e alimenta una
continua brama di trascendenza che è la spinta ad inventare nuove tecniche di
dominio. Così facendo egli perde la capacità di riconoscere la sua sostanziale
unità col mondo, quella forma di appartenenza non violenta che lega l’io alla
realtà attraverso la rappresentazione, la sua azione diviene allora guerra e il suo
linguaggio mortifero.
“ ‘The horror!’..this was the expression of some sort of belief; it had candour, it had
conviction, it had a vibrating note of revolt in its whisper, it had the appalling face of a
glimpsed truth – the strange commingling of desire and hate.”
La verità che Kurtz intravede, un attimo prima che il mondo appena riconosciuto
termini definitivamente, è esattamente questo ‘miscuglio di desiderio e di odio’.
Non è un compito facile introdurre l’ultimo argomento di questa ricerca, spiegare
come la parola possa esprimere la vita, poiché, in buona parte, se ne ha
percezione attraverso un’attività che non pertiene al linguaggio. Si tratta di quella
capacità di mostrare che non può essere esplicitata e che richiede di essere
intuita. Quello che si può dire in proposito è una parte molto limitata, rispetto alla
grandezza dell’effetto, e riguarda solo la forma del discorso.
Sia nella succitata prefazione di Conrad, sia da alcuni stralci del carteggio tra
Wittgenstein ed Engelmann20, emerge l’attribuzione di questa capacità al
20 “Ed è così: quando non ci si studia di esprimere l’inesprimibile, allora niente va perduto. Ma
l’inesprimibile è – ineffabilmente – contenuto in ciò che si è espresso!” Lettera di L. Wittgenstein a Paul Engelmann del 9/4/1917 tratta da Lettere di Ludwig Wittgenstein con ricordi di Paul
Engelmann, La Nuova Italia, 1990.
Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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linguaggio che si attiene all’espressione degli aspetti più tangibili dell’esistenza e
alla ricerca, in esso, della semplicità.
Quel che si può fare, dunque, è solo un discorso sul significato attribuito alla parola
semplicità. Con essa, fondamentalmente, si intende un linguaggio spogliato di
quegli elementi che non abbiano alcun referente nella realtà conoscibile. Mentre
Wittgenstein pone come suo limite espressivo la possibilità dell’accadere dei fatti,
Conrad sembra aver fatta propria quest’idea nella sua ricerca di una scrittura
veritiera e autentica. Nella sua ricerca di una parola a cui possa rispondere un
movimento non passivo del lettore, egli infine giunge proprio a scegliere una
rappresentazione dei fatti che produca in esso quell’attività intuitiva che gli
permette di percepire la vita che non si dice. E allora, perché la scrittura sia
efficace in questo senso, è necessario che essa assuma la forma più perspicua al
fatto che rappresenta. Tale è l’ambito in cui si misurano le forze dello scrittore, il
terreno sul quale egli deve calibrare la struttura della frase affinché essa possa
rimanere in equilibrio tra il dire e il non dire. Perché sia possibile questo equilibrio
essa deve essere scevra di ogni ambiguità, la rappresentazione del suo oggetto le
deve essere immanente, deve non poterne uscire in alcun modo ed esaurirsi in
essa. La medesima architettura si ripete in modo macroscopico nella costruzione
complessiva del racconto laddove ad esso venga attribuita una sorta di ciclicità.
In Heart of Darkness il racconto di Marlow svolge anche questa funzione che, in
qualche modo, assume i caratteri della ritualità. La narrazione gli permette di
liberarsi per un momento della sua storia, ma, dandole questa forma, egli innesca
contemporaneamente il meccanismo di ripetizione proprio del racconto. In
questo modo Conrad preserva una delle dinamiche fondamentali della tradizione
orale, la quale riesce a sfuggire all’ipostatizzazione della scrittura mantenendo il
tratto distintivo della ‘ripetizione ad alta voce’. Inoltre, questa forma costituisce
una variazione propriamente letteraria in cui il lettore si trova a ricoprire il ruolo
dell’ascoltatore attivo. Non necessariamente questo espediente sarà più valido di
altri nel catturare l’attenzione del lettore, tuttavia la presenza di questo elemento
può manifestare che il testo richiede un rapporto simpatetico tra le parti affinché
la storia narrata possa raggiungere la sua vera forma e la pienezza del suo
Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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significato. Un esempio mirabile degli effetti di questo movimento trova
espressione nel poema di Samuel Taylor Coleridge, The Rime of Ancyent Marinere,
in cui la consapevolezza della necessità che esso si compia prende l’aspetto della
pena come espiazione della colpa:
‘O shrieve me, shrieve me, holy man!’
The Hermit cross’d his brow.
‘Say quick’,quoth he, ‘ I bid thee say –
What manner of man art thou?’
Forthwith this frame of mine was wrench’d
With a woeful agony,
Wich forc’d me to begin my tale;
And then it left me free.
Since then, at an uncertain hour,
Now oftimes and now fewer
That anguish comes and makes me tell
My ghastly adventure.
I pass, like night, from land to land;
I have strange power of speech;
That moment that his face I see,
I know the man that must hear me:
To him my tale I teach.”21
Scilla Bellucci
21 Samuel Taylor Coleridge, The Rime of the Ancyent Marinere, part VII, from Lyrical Ballads, the Bristol imprint of 1798. L’unica copia esistente dell’edizione originale delle Lyrical Ballads, pubblicate
anonime da S. T. Colerige e William Wordsworth nel 1798 si trova presso la British Library.
Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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Bibliografia
� Joseph Conrad, Heart of Darkness, Penguin books, 2000.
� The Nigger of the ‘Narcissus’, Penguin books, 2000.
� Cuore di Tenebra, Garzanti, 1993.
� Cuore di Tenebra, Rizzoli, 2000.
� Opere. Romanzi e racconti. 1895-1903, Bompiani, 2001.
� AA:VV: Heart of Darkness. Joseph Conrad. A case study in contemporary
criticism. Edited by Ross C Murfin for Bedford Books, 1989. Published and
distributed outside North America by MACMILLAN PRESS LTD.
� Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916,
Einaudi, 2001.
� Note sul “ Ramo d'oro” di Frazer, Adelphi, 1995.
� Libro blu e libro marrone, Einaudi, 2000.
� Diego Marconi, Guida a Wittgenstein, Laterza, 1997.
� La filosofia del linguaggio. Da Frege ai nostri giorni, UTET, 2002.
� Pasquale Frascolla, Tractatus logico-philosophicus. Introduzione alla lettura,
Carocci, 2003.
� Ray Monk, Wittgenstein. Il dovere del genio, Bompiani, 2000.
� Paul Engelmann, Lettere di Ludwig Wittgenstein con ricordi di Paul Engelmann,
La Nuova Italia, 1990.
� Adam Hochschild, Gli spettri del Congo. Re Lepoldo II del Belgio e L'olocausto
Dimenticato Rizzoli, 2001.
� Samuel Taylor Coleridge, The Ancyent Marinere, da Lyrical Ballads, Bristol, 1798.
74
SI PUÒ PARLARE DI LINGUAGGIO DEL BIOLOGICO? DANIELE ROMANO
La diversa matrice sperimentale e teorica dei vari livelli di analisi della biologia
crea, talvolta, degli iati esplicativi. La genetica molecolare, in particolare, è una
scienza largamente autonoma con un raggio di applicazione ristretto, ma i suoi
risultati sono fondanti per ogni analisi di livello superiore. In questo passaggio, le
modalità di riferirsi al gene, ma anche di intervenire su di esso, perdono contatto
con la natura chimica e meccanica della struttura del DNA, limitando la possibilità
di fare riferimento ad esse. Parallelamente, diviene possibile valutare il ruolo svolto
da ogni gene in un contesto organico e temporale più ampio, attribuendo loro
‘proprietà macroscopiche’ che chiariscono il suo ruolo nello sviluppo degli
organismi e nel processo di ereditarietà. Concetti come l’informazione genetica, il
ruolo attivo e talvolta intenzionale del gene nello sviluppo degli organismi, la
sostanziale omologia fra la lettura del DNA e l’implementazione informatica di
istruzioni, sono esempi di tali riletture che, oltre l’aspetto divulgativo, hanno saputo
influenzare la riflessione scientifica e filosofica nella ridefinizione teorica dei
processi biologici. Inoltre, analisi di questo genere non riescono e non possono
prendere in considerazione le macro-funzioni del gene e la sua natura chimica e
meccanica nella stessa analisi e spesso sfociano in una riflessione metaforica.
Strettamente legate agli studi sull’informazione genetica, e parallelamente alle
grandi scoperte sul genoma, sono emerse alcune riflessioni tese a identificare i
caratteri costitutivi di un linguaggio biologico elementare1 che rafforzerebbe la
costruzione teorica di un ruolo informativo ed attivo del DNA nello sviluppo degli
organismi. Gli elementi portanti di questa teoria sono la presenza di un alfabeto e
la corrispondenza determinata fra le combinazioni delle lettere e gli amminoacidi
utilizzati nella sintesi delle proteine, che evidenzierebbero un contenuto
‘semantico’ dei geni, ed una intenzionalità caratteristica delle informazioni
trasmesse. Qui di seguito si intende prendere in esame alcuni aspetti fondanti di
questa teoria per mostrare come tale metafora risulti inadeguata e fuorviante.
Daniele Romano, Si può parlare di linguaggio del biologico? – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
75
1. Gli elementi costitutivi.
A partire dalla metà del ventesimo secolo, i risultati della ricerca biologica
evidenziarono il ruolo svolto dalle proteine nello sviluppo, sia in qualità di elementi
costitutivi dell’organismo, sia come regolatori a livello cellulare dell’attivazione
genica. In breve venne mostrato come tutti i processi cellulari fossero condizionati,
e talvolta attivati, da proteine. Il ruolo teorico indiscusso svolto dal dogma
centrale2, parallelamente, evidenziava come la sintesi delle proteine fosse
strettamente legata all’espressione genica. Lo schema riassuntivo di Watson
indicava come unidirezionale, deterministico e causale l’insieme di processi che
dal DNA portano alla sintesi delle proteine. Per conseguenza, i geni contenuti nel
DNA di un organismo, da sempre studiati come fattori causali dello sviluppo dei
caratteri fenotipici, venivano ora ad essere legittimati come causa assoluta di tutti
i processi cellulari e di sviluppo dell’organismo.
È questo un ruolo molto più vasto di quanto la genetica classica avesse fino ad
allora attribuito ai geni, inglobando alla risultanza dei caratteri fenotipici il mistero
delle regole di sviluppo, stadio dopo stadio, degli organismi. Il dogma centrale
della genetica formulato da Watson3, che riassume in maniera univoca i processi
che regolano la corrispondenza biunivoca ed unidirezionale fra genoma e
caratteri fenotipici di un organismo, riesce ad interpretare tutte le successive
scoperte della genetica, compresa la sintesi delle proteine che regolano lo
sviluppo di un organismo. Questo passaggio risulta importante per lo sviluppo di
teorie deterministiche che porteranno al concetto di informazione genetica: il
gene diviene agente causale delle regole di sviluppo degli organismi.
Il processo di sintesi di una proteina viene illustrato come risultante da una serie di
processi che si susseguono in maniera coerente e consequenziale. Tali processi
elaborano l’informazione contenuta nei geni e la traducono in una successione di
amminoacidi, ovvero nella proteina corrispondente4. Possiamo considerare un
filamento di DNA, semplificando le sue caratteristiche ai fini della discussione,
Daniele Romano, Si può parlare di linguaggio del biologico? – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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come un successione di unità di base, i nucleotidi, catalogabili in quattro tipologie
differenti: adenina, citosina, guanina e timina (A, C, G, T) disposte casualmente in
una sequenza lineare, senza alcun vincolo di successione. A livelli macroscopici o
comunque rappresentativi, una stringa di DNA può essere descritta come una
successione lineare di basi, rappresentate da lettere, la cui successione
determina, in maniera inequivocabile, la sintesi delle proteine.
Per queste sue caratteristiche, il DNA è stato interpretato come un linguaggio
composto da quattro diverse lettere, le cui combinazioni producono messaggi in
grado di specificare composizione e struttura delle proteine. In questa ottica un
gene coincide con una particolare sequenza di DNA in grado di ‘codificare’ per
una proteina che viene elaborata ed interpretata conformemente ad una serie di
strutture e regole, delle quali solo attraverso le attuali conoscenze è possibile
fornire una spiegazione meccanicista. Negli anni settanta, tuttavia, la metafora di
un linguaggio, successivamente definito anche come codice, ovviava
all’impossibilità di rendere conto della totalità di questi processi.
Dal punto di vista della struttura chimica del DNA, non esiste nessuna caratteristica
che, data la presenza di una particolare base nucleotidica, condizioni la presenza
della base successiva, ragione per cui si afferma che il potenziale espressivo del
DNA è massimo rispetto al proprio linguaggio. La successione di amminoacidi in
una proteina è strettamente vincolata alla successione delle basi nucleotidiche
presenti in un particolare frammento di DNA5.
Una proteina è una lunga sequenza di unità fondamentali chiamate
amminoacidi, di cui esistono venti tipi differenti. In linea di massima, le proprietà
dei singoli amminoacidi e le proprietà che derivano dalla loro interazione
determinano forma e funzione della proteina. Anche gli amminoacidi vengono
spesso rappresentati come l’alfabeto di un linguaggio alla base della sintesi delle
proteine. Tale processo, nonostante la sua stretta connotazione biochimica, viene
definito come ‘processo di traduzione’, per evidenziare il passaggio da un
linguaggio ad un altro. La sequenza nucleotidica è letta per triplette di basi, e ad
ogni tripletta corrisponde un solo amminoacido. Dal momento che le triplette
possibili, ottenute combinando le quattro basi, sono 64, più di una tripletta può
Daniele Romano, Si può parlare di linguaggio del biologico? – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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codificare per lo stesso amminoacido. Per questa ragione si dice che il linguaggio
genetico è degenerato, ovvero ridondante6.
Nel compartimento nucleare l’informazione genetica è trascritta dal DNA in RNA e
trasmessa alle strutture addette alla sintesi di proteine, presenti nel secondo
compartimento. L’RNA ha una struttura molecolare simile a quella del DNA, anche
se le basi dei due filamenti non si corrispondono esattamente: alla timina del DNA
corrisponde l’uracile nell’RNA.
Il processo di sintesi delle proteine è operato invece da particolari strutture
macromolecolari, i ribosomi, nei quali avviene l’associazione fra triplette ed
amminoacidi. Questi ultimi verranno disposti secondo lo stesso ordine delle triplette
corrispondenti del filamento di RNA e uniti fra loro fino ad ottenere la proteina
richiesta. In questo passaggio dai filamenti di RNA alle proteine si parla di
traduzione, a sottolineare che in gioco sono chiamate due tipologie di strutture
non confrontabili dal punto di vista fisico-chimico. L’espressione “processo di
traduzione” deve essere inteso nel senso più stretto del termine, intendendo un
passaggio radicale fra due linguaggi fisici differenti: si passa da un alfabeto
costituito di quattro basi nucleotidiche ad un alfabeto composto da venti
amminoacidi. È difficile interpretare le modalità che abbiano permesso lo sviluppo
di processi che permettessero una associazione così rigida fra triplette ed
amminoacidi; ad ogni modo questa corrispondenza risulta essere una costante sia
nel confronto fra i vari organismi, sia nella storia evolutiva delle specie. Nell’analisi
della rigorosa corrispondenza messa in evidenza dal dogma centrale fra i geni e le
proteine e, entrando nei dettagli, fra le triplette di nucleotidi ed amminoacidi, è
importante notare come il processo di sintesi delle proteine ‘trasmetta’ un preciso
ordine7 fra strutture fisiche diverse8.
2. La componente semantica.
I meccanismi biochimici che permettono il riconoscimento delle triplette e la
successiva associazione del corrispondente amminoacido sono stati individuati in
un secondo momento e riguardo tali processi restano aperte alcune domande. In
Daniele Romano, Si può parlare di linguaggio del biologico? – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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particolare, nonostante tali associazioni risultino una regolarità non confutata -
costante in tutte le specie e in ogni momento dello sviluppo - non è stata
determinata alcuna condizione materiale necessaria per cui le strutture
biologiche abbiano sviluppato, nel corso della propria evoluzione, tale
determinazione. Fra i molti misteri sulle prime manifestazioni del DNA, si ignora con
quale modalità gli organismi abbiano delineato e conservato tali associazioni al
punto che nessun cambiamento evolutivo intacchi o condizioni tale processo.
Nell’ordine che il DNA riesce ad imporre nella sintesi delle proteine e nel successivo
sviluppo degli organismi, lontani dalla necessità biologica e lontani dal caso, al
DNA si è guardato come portatore di un messaggio che l’organismo doveva
interpretare. I primi accenni della teoria di un’informazione contenuta nel DNA e
trasmessa all’organismo si trovano già nel lavoro di Watson che ha conosciuto uno
sviluppo incredibile, rafforzato dalla similitudine fra ‘programma genetico’ ed
‘informatica’ operata da Jacob negli anni ’70, e successivamente
dall’adattamento delle teorie dell’informazione alla biologia negli anni ’90. Tale
sviluppo storico non è oggetto di questa analisi, preme comunque evidenziare qui
come l’ipotesi di un linguaggio del DNA abbia costantemente accompagnato la
ricerca biologica degli ultimi 50 anni. Pur senza tener conto storicamente di tale
sviluppo, è comunque possibile, ora, individuare gli elementi costitutivi di questa
ipotesi.
Il DNA avrebbe un proprio alfabeto, costituito dalle quattro differenti tipologie di
basi nucleiche, le quali, combinate in triplette, hanno un significato determinato. Il
significato di ogni tripletta è un amminoacido, più triplette possono codificare per
un amminoacido, ma ognuna ne determina uno e uno solo. Esistono inoltre
triplette che determinano l’inizio e la fine della futura sequenza di amminoacidi,
ovvero l’inizio e la conclusione della lettura del DNA, necessaria per la sintesi della
proteina. Queste triplette determinano gli estremi di un gene. Un gene sarebbe
pertanto un messaggio complesso formato dalla sequenza di ‘parole’ elementari:
le triplette. L’organismo ha il compito di leggere ed interpretare (tradurre) il
messaggio del DNA per creare le proteine, ovvero delle strutture biologiche in cui
nulla della struttura del DNA può essere riconosciuta, se non l’ordine trasmesso.
Daniele Romano, Si può parlare di linguaggio del biologico? – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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Altre caratteristiche della struttura e delle funzioni del DNA hanno ampliato tale
visione, fino ad attribuire all’informazione del DNA una proprietà intenzionale. In
altre parole, il DNA non verrebbe letto dall’organismo secondo le proprie
‘esigenze’, ma esso stesso imporrebbe la propria informazione, agendo
direttamente sullo sviluppo degli organismi. Tale credenza si è sviluppata
lentamente, sia attribuendo al DNA ogni informazione necessaria per lo sviluppo,
sia osservando il suo processo di replicazione e di trasmissione ereditaria.
Attraverso ciò, il DNA è diventato agente unico di tutti i processi evolutivi e di
sviluppo, causa deterministica di ogni aspetto del vivente. Anche per chiarire
questo aspetto è necessario fare riferimento alla prima formulazione di Watson.
L’altra proprietà messa in evidenza dal dogma centrale era la capacità del DNA
di replicare se stesso, in modo da garantire, durante i processi di divisione
cellulare, la trasmissione inalterata dello stesso contenuto genico della cellula
madre ad entrambe le cellule figlie. Il DNA è una doppia elica, costituita da due
successioni di basi nucleotidiche fra loro complementari, secondo una rigida
corrispondenza biunivoca fra le basi. Durante il processo di replicazione del DNA, i
due filamenti si separano per fungere entrambi da ‘stampo’ per la sintesi di un
nuovo filamento complementare. In questa maniera a processo ultimato si
ottengono due copie identiche dello stesso materiale genetico9. Parallelamente, il
processo di trasmissione ereditaria trasmette e conserva il materiale genetico degli
organismi fino alle generazioni successive.
Tale struttura ha messo in evidenza la capacità del DNA di conservare la propria
struttura e di trasmettere le proprie informazioni alle generazioni successive. Al DNA
venivano attribuite peculiarità di organismi superiori, come la conservazione di se
stesso, una particolare capacità di organizzazione - soprattutto una propria
intenzionalità - espressa attraverso un proprio linguaggio. Tali sfumature toccarono
l’apice in testi scientifico-divulgativi, come il Gene egoista di Dawkins e sono
tuttora alla base della comunicazione scientifica della genetica.
3. Critica ad una teoria del linguaggio biologico
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Le ricerche della genetica molecolare, della biologia cellulare e dello sviluppo,
non hanno mai fatto oggetto di analisi la possibilità di un linguaggio del DNA, ma
hanno reso propri alcuni termini della teoria dell’informazione genetica. Ad
esempio, l’associazione fra un gene ed una proteina viene identificata attraverso
l’espressione ‘il gene X codifica per …’, locuzione che ancora evidenzia un’azione
causativa e deterministica del gene e l’idea di una informazione che deve essere
interpretata. D’altro canto, la sperimentazione è rimasta indipendente da questa
rielaborazione. In altri campi, al contrario, la metafora dell’informazione genetica
ha trovato terreno più fertile. Non solo nella fase divulgativa, ma anche nel
tentativo di creare una teoria più generale dell’azione genetica, nonché nel
contributo di diversi filosofi della biologia. Bisogna inoltre tenere presente che molti
studi informatici legati allo sviluppo biologico basano le proprie ricerche sull’idea
di un contenuto informativo del DNA. Al giorno d’oggi tuttavia resta una
interpretazione parziale e fuorviante della realtà dei processi biologici che dal
DNA portano allo sviluppo dell’organismo.
In primo luogo, bisogna prendere in considerazione il fatto che il DNA non sia
coinvolto direttamente nel processo di sintesi delle proteine. La sua conservazione
è fondamentale per la corretta trasmissione del materiale genetico da una
generazione all’altra. La caratteristica fondamentale degli organismi eucarioti è
proprio quella di essere dotati di due compartimenti intracellulari sufficienti a
separare sia spazialmente che temporalmente i processi di decodifica
dell’informazione contenuta nel DNA ed il processo di sintesi delle proteine10.
Molti sono gli aspetti relativi ai processi di sintesi proteica che ai tempi della
formulazione del dogma centrale non erano stati ancora approfonditi. Non solo il
processo di traduzione, ma anche tante rielaborazioni a cui l’RNA viene sottoposto
fra la sua genesi ed il momento in cui raggiunge i ribosomi, che - sebbene note -
non erano ancora state comprese in termini chimici. Un caso esemplare è il
fenomeno dello splicing, in cui vengono eliminati gli introni dal neotrascritto di
RNA. L’idea che alcuni segmenti venissero interpretati come non-senso, mentre
altri segmenti fossero conservati come significativi, contribuiva senz’altro a
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fomentare l’opinione secondo cui quanto contenuto nel DNA e trasmesso
dall’RNA ai ribosomi fosse portatore di un significato intrinseco nella stessa
struttura11. Inoltre, Il DNA non ha nessun ruolo attivo nelle fasi di espressione genica
e non è capace di conservare se stesso al di fuori dell’attività delle proteine che
proteggono la sua struttura. La lettura, la trascrizione del DNA, la disgiunzione e la
ricongiunzione dei due filamenti, le diverse ‘riparazioni’ a cui è sottoposto, sono
tutti processi gestiti e regolati da proteine in cui il DNA ha un ruolo passivo. Nei
processi di duplicazione intervengono poi strutture cellulari, come la membrana e i
microtubuli, dei quali né la composizione né le funzionalità dipendono in alcun
modo da una qualche informazione contenuta nel DNA.
La possibilità che il contesto cellulare fosse in grado di assemblare catene di
amminoacidi seguendo istruzioni contenute nella sequenza di basi nucleotidiche
sembrava comunque implicare la trasmissione di significato o, come diventerà
presto consuetudine dire, di informazione, fra i due sistemi distinti12.
Bisogna tener presente che in questo stesso periodo, sebbene antecedente per
formulazione ma già parzialmente confutata dai nuovi studi, l’espressione “un
gene, un enzima” manteneva tutto il suo vigore. Questa concezione aveva due
risvolti teorici essenziali: da una parte la perfetta corrispondenza fra gene e
proteina - da cui nessun ricercatore riusciva - e riesce tuttora a prescindere in
qualsiasi studio debba affrontare; dall’altra, il fatto che il gene venisse interpretato
ancora come l’unico fattore causale della produzione delle proteine all’interno
della cellula, mentre venivano completamente ignorati tutti gli altri processi
cellulari. Nel 1970, ad esempio, il dizionario di biologia edito da Garzanti, definisce
ancora i geni come corpuscoli microscopici situati nei cromosomi dai quali
dipendono tutti i caratteri degli organismi. Indipendentemente dalla loro
descrizione fisica, è evidente come i geni fossero considerati concretamente
‘agenti’ nel contesto cellulare. L’idea che un qualcosa dovesse comunque essere
trasmesso si impose, a mio avviso, come il miglior modo di unificare
concettualmente entità che sono fisicamente distanti come il gene e la proteina
e che non interagiscono in maniera diretta. L’idea che ad essere trasmessa fosse
una sorta di informazione conciliava non solo questa difficoltà, ma anche quelle
Daniele Romano, Si può parlare di linguaggio del biologico? – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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legate alla presenza di linguaggi fisici radicalmente differenti, sfruttando i successi
che la teoria informatica riscuoteva in quegli anni in diversi settori. L’introduzione di
un linguaggio a tratti teleonomico nella caratterizzazione dei processi, condizionò
l’interpretazione di tutti i processi che vedevano coinvolto il genoma,
attribuendogli molte peculiarità che le tecniche di quel periodo non
permettevano di individuare, ed in particolare un ruolo attivo nella regolazione dei
vari processi13.
Nel ventennio a seguire, i rapidi progressi della biologia molecolare avevano
messo in luce la maggior parte dei meccanismi che dal DNA portano alla sintesi
delle proteine, ma l’immagine di un’informazione, contenuta nei geni ed espressa
con un linguaggio proprio nella costituzione del prodotto proteico, continuava a
rafforzarsi. Il grande merito di questa ‘metafora’ è stato quello di conservare una
visione di insieme molto robusta dei processi cellulari, mentre la considerazione dei
dettagli dei singoli meccanismi risultava sempre meno efficace e difficilmente
integrabile nel contesto man mano che ci si allontanava dal singolo processo14.
Sebbene si ponesse come una metafora efficace, non si è comunque dimostrata
in grado di integrare i successivi risultati ottenuti dalla biologia molecolare e dalla
biologia dello sviluppo. Questa teoria, infatti, ha presto perso la sua componente
metaforica15 ponendosi come rigida interpretazione dei processi di sintesi delle
proteine, prima, e successivamente dell’intero processo di sviluppo
dell’organismo.
Focalizzando l’attenzione su questo secondo aspetto, l’idea di un’informazione
rigidamente interpretata dal contesto cellulare e dall’organismo ha
completamente distolto l’attenzione dal ruolo svolto dai fattori non genetici dello
sviluppo, disconoscendo le nuove scoperte riguardanti il ruolo dei fattori extra-
genetici in questo contesto teorico16. Per le stesse basi di questa teoria, parlare di
informazione a riguardo dei processi di sviluppo, conferisce, consciamente o
inconsciamente, un ruolo causale prioritario all’aspetto genetico, proprio perché
su questo aspetto la teoria è stata formulata17. Quando, al contrario, si tenta di
tradurre gli altri fattori negli stessi termini, il loro potenziale esplicativo perde
efficacia, in quanto troppo distanti da questo livello di spiegazione.
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Nell’ultimo decennio la possibilità di una continua conciliazione fra ricerca e dati
sperimentali da una parte e la teoria dell’informazione dall’altra, si è resa
maggiormente impraticabile. In questo periodo, lo studio dei sistemi di eredità
epigenetici, che per il momento possiamo definire semplicemente come tutti quei
sistemi di eredità non direttamente genetici, è diventato pregnante per la stessa
comprensione delle strategie di sviluppo adottate dall’organismo, al fine di
avviare una nuova ridefinizione teorica in grado di renderne conto attribuendo a
tali sistemi una pari dignità rispetto al materiale genetico, diversi autori spingono
ora verso un ripensamento sia di alcuni concetti che della terminologia della
materia.
Daniele Romano
Note
1. Non legato allo sviluppo del linguaggio umano, né sul piano dello sviluppo, né sul piano
evolutivo.
2. Watson, 1968. Il dogma centrale riassume in un breve schema le funzioni del DNA.
3. Watson delinea la catena di processi che portano alla sintesi di una proteina nella maniera
seguente: gene (o filamento di DNA) → filamento di RNA → Proteina, dove ogni anello è
causativo ed ogni azione unidirezionale.
4. La prima descrizione esauriente è di Watson (1953, 1968).
5. Si veda Graham (2002); Morante (1998).
6. Si veda Sterelny (1999).
7. ‘Ordine’ è inteso come risultante di una informazione trasmessa.
8. Si veda Graham (2002).
9. Si veda Watson (1953b, 1968).
10. Si veda Moss (2004).
11. Si veda Keller (2000); Sterelny (1999).
12. Si veda Graham (2002).
13. Si veda Blute (2004). “Viewing the genome with its protein packaging as a brain gets ridof Gods
and ghosts while plausibly integrating machine and information-based views. While the
‘wetware’ of brains and genomes are very different, many fundamental principles of how they
Daniele Romano, Si può parlare di linguaggio del biologico? – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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function are similar. Eukaryotic cells are compound entities in which case the nuclear genome
might best be thought of more as a government than simply as a brain.”
14. Si veda Godfrey-Smith (2000b).
15. Si veda Griffiths (2001).
16. Si veda Keller (1999).
17. Si veda Oyama (2001); Griffiths (2001).
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‘BIOLINGUISTICA’: DA NOAM CHOMSKY A ANDREA MORO
LORENZO MESSERI
1. Chomsky e la Biolinguistica
All’interno della ormai lunga storia della linguistica generativa di Noam Chomsky
esiste un filo rosso che – negli intenti del linguista americano – serve a tenere la
teoria della Grammatica Universale (GU) ancorata alle scienze cognitive: la
linguistica, as the Chomskyan views it,1 ha come fine ultimo l’elaborazione di una
teoria in grado di integrarsi con le indagini sperimentali in campo neuroscientifico.
In questo articolo cercherò di riepilogare – alla luce degli sviluppi più recenti – il
punto di vista di Noam Chomsky sulla biolinguistica e sulle più o meno fruttuose
‘interazioni’ tra questa disciplina e le neuroscienze: in particolare, prenderò a titolo
esemplificativo alcune ricerche condotte negli ultimi anni a cura di – per la prima
volta – èquipe di lavoro miste tra neuroscienziati e linguisti.
Perchè questo? Per tre ragioni: la prima è che, nonostante pur autorevoli voci di
dissenso, la GU rimane ancora oggi una ‘teoria efficace’2 e, come tale, è giusto
mantenere vivo il dibattito su di essa; la seconda è che poche altre teorie del
linguaggio riescono quanto la GU ad interagire con le neuroscienze nella ricerca
del complesso di meccanismi biologici alla base del linguaggio; la terza è che
oggi è realmente possibile un confronto scientifico tra le più recenti formulazioni
teoriche della GU e le indagini sperimentali. Alcune di queste riescono a dare
prova di una sostanziale fondatezza dell’ipotesi chomskiana.
Per ragioni di sintesi in questo articolo compariranno, laddove necessario,
riferimenti solo alle versioni più recenti della GU (Modello dei Principi e dei
1 Per parafrasare il titolo della celebre opera di Watson del 1913, Psychology as the Behaviorist
Views it, che segnò la nascita del comportamentismo. 2 Nel senso usato da S. Hawking, The Universe in a Nutshell, The Book Laboratory, London 2002; trad.
it. L’Universo in un guscio di noce, Mondadori, Milano 2002, p. 35.
Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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Parametri, PP, e Programma Minimalista, PM), dando per scontate la conoscenza
della GU e delle più recenti prospettive chomskiane sul linguaggio3.
Gli argomenti principali che Chomsky porta a sostegno della natura
essenzialmente biologica del linguaggio sono i seguenti:
Il linguaggio è una facoltà specie-specifica dell’uomo: non è data la conoscenza
di nessun altro animale in possesso di una simile caratteristica. Come tale, lo studio
della facoltà del linguaggio (FL) non può fare affidamento sullo studio di altre
forme di comunicazione in specie diverse. Nel cervello umano esiste una sorta di
‘architettura interna4’ che sottostà alla produzione del linguaggio. In tutte le lingue
fino ad ora esaminate esistono strutture sintattiche riconducibili a procedure simili
di costruzione grammaticale.
Accanto ad una facoltà del linguaggio in senso esteso (FLB) che include, fra gli
altri, i sistemi senso-motorio e concettuale-intenzionale, il solo cervello umano è
dotato di una facoltà del linguaggio in senso stretto (FLN), una sorta di kernel di FL,
dotata della capacità di ‘processare’ il linguaggio secondo caratteristiche di
ricorsività e infinità discreta.
Il linguaggio è caratterizzato da processi fondamentali di funzionamento che non
possono essere totalmente appresi; tali processi – la grammatica universale –
fanno parte del bagaglio genetico del cervello umano, e consentono
l’apprendimento di una lingua in tempi rapidissimi.
La facoltà del linguaggio si caratterizza come una sorta di ‘modulo’ cerebrale
privilegiato per quanto concerne l’apprendimento del linguaggio: in questo senso
FL è un vero e proprio ‘organo’ del corpo umano.
3 Si vedano: N. Chomsky, The Minimalist Program, The MIT Press, Cambridge 1995; N. Chomsky, Minimalist Inquiries: the Framework, ms., The MIT Press, Cambridge 1998; N. Chomsky, An On-Line
Interview with Noam Chomsky: On the Nature of Pragmatics and Related Issues, «Brain and Language», 68, Issue 3, 1999, pp. 393-401, in Internet:
<http://cogprints.ecs.soton.ac.uk/archive/00000126/00/chomsweb_399.html> [02/04]; N. Chomsky, The Biolinguistic Perspective After Fifty Years, Lezione Magistrale, Università degli Studi di Firenze,
2004. 4 In questo articolo adotterò il termine «architettura» (interna, cognitiva) nel senso impiegato in L.
Aprile, Linguaggio lessicale e conoscenza sociale nel bambino, Giuffrè, Milano 1993, p. 8.). Si veda anche J. Fodor, The Modularity of Mind: an Essay on Faculty Psychology, The MIT Press, Cambridge
1983; trad. it. La mente modulare, Il Mulino, Bologna 1999.
Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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La povertà dello stimolo: si può dire che l’ambiente in cui il bambino apprende la
lingua è ricco di lessico ma è povero di struttura. Non accade mai che il genitore
(o chi per lui) insegni la sintassi al bambino. Il bambino impara una lingua in modo
assai veloce: a) senza commettere errori di sintassi;5 b) producendo e/o ricreando
le regole laddove non ci sono (ad es. nel pidgin). Nel corso dello sviluppo il
bambino sente pronunciare enunciati quasi sempre corretti sintatticamente, o
quanto meno che non violano le più basilari proprietà sintattiche espresse dalla
GU. Questo significa che il bambino deve poter fare a meno di un elemento,
quello dell’errore, che invece è fondamentale nei processi di apprendimento.6
L’influenza dell’ambiente nello sviluppo del linguaggio è determinante al pari di
quanto lo è ai fini dello sviluppo di pressoché tutte le altre facoltà mentali e
capacità fisiche; in altre parole, senza uno stimolo appropriato, il cervello umano
non riesce a sviluppare la facoltà del linguaggio, così come rimarrebbe
irrimediabilmente cieca una persona costretta a vivere al buio per i primi anni
dello sviluppo.7
Una diretta conseguenza della natura biologica del linguaggio è che la sua
varietà ‘esecutiva’ – la moltitudine di lingue parlate nel mondo – è apparente:
alcune proprietà fondamentali del linguaggio sono osservabili in tutte le lingue
naturali conosciute; le uniche variazioni riscontrate dalle analisi comparative in
linguistica sono, per così dire, ‘interpretazioni’ di queste proprietà. Le lingue
naturali variano molto per quanto concerne gli aspetti fonologici e morfologici,
ma poco – o, meglio, sono soggette ad importanti restrizioni – dal punto di vista
della sintassi; questo perché il cervello umano è in grado di elaborare solamente
un certo ‘tipo’ di sintassi.
5 S. Pinker, The Language Instinct: How the Mind Creates Language, Morrow, New York 1994; trad. it. L’istinto del linguaggio. Come la mente crea il linguaggio, Mondadori, Milano 1998. 6 Sull’importanza dell’errore e del feedback nelle fasi di apprendimento si veda L. Trisciuzzi, F. Corchia, Manuale di pedagogia sperimentale, 3° ristampa, Edizioni ETS, Pisa 1999, pp. 137-170. 7 Come ammette Cook (V. Cook, M. Newson, Chomsky’s Universal Grammar. An Introduction, 2nd Ed., Basil Blackwell, Oxford 1996; trad. it. La Grammatica Universale – Introduzione a Chomsky,
Nuova Edizione, Il Mulino, Bologna 1996), le teorie ‘ambientaliste’ sull’apprendimento linguistico nel bambino possono rappresentare un complemento all’approccio chomskiano nella misura in cui la
GU si pone come core di una ipotetica teoria integrata dell’apprendimento linguistico.
Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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Esiste una differenza sensibile tra il livello di conoscenza della madrelingua e di
un’altra lingua imparata dopo i primi anni di vita. Così come per altre funzioni (il
movimento, la percezione, l’udito, ecc.), sembra esserci uno stadio biologico in
cui l’apprendimento del linguaggio è favorito. Per altro, la specializzazione dello
sviluppo di funzioni specifiche negli organismi viventi è verosimilmente inscritta nel
nostro patrimonio genetico: poiché la capacità di imparare una lingua si realizza
in un dato momento dello sviluppo, è lecito ipotizzare che essa dipenda da una
particolare predisposizione del cervello (determinata geneticamente) e dalla
necessità dello stimolo ambientale.
Le indagini neurologiche confermano l’esistenza di aree del cervello specializzate
(anche se in modo non esclusivo) per il linguaggio; il che rende plausibile l’ipotesi
che esista un unico modo – caratteristico della specie umana – in cui il linguaggio
viene prodotto.
La biolinguistica – in un confronto con le neuroscienze – si trova oggi nelle stesse
condizioni in cui si trovava la chimica nei confronti della fisica agli inizi del ‘900:
una teoria ancora non del tutto unificabile in una disciplina ‘forte’, poiché ancora
non sono stati costruiti gli strumenti adatti per farlo.
Una precisazione sull’ultimo punto: la principale leva che, secondo Chomsky,
dovrebbe avvicinare la linguistica generativa alle neuroscienze è che la teoria
della GU dovrebbe fornire strumenti formali in grado di rendere conto delle
cosiddette «condizioni di leggibilità all’interfaccia»:8 l’ipotesi è che FL sia ‘costruita’
secondo criteri di economia in relazione agli altri sistemi cognitivi con cui deve
interfacciarsi; il principio di economia consiste in questo caso nell’individuare le
modalità con cui si connettono le rappresentazioni di interfaccia, cioè le
condizioni necessarie e sufficienti attraverso cui FL ‘parla’ con le altre
componenti.9 Non esistono più soltanto uno stato iniziale L0 e uno finale L1 per la
8 N. Chomsky, Su natura e linguaggio, Ed. Università degli Studi di Siena, 2001, p. 76. 9 L’idea chomskiana del linguaggio come organo biologico è qui piuttosto evidente: «La facoltà
del linguaggio deve interagire con tali sistemi, altrimenti non è utilizzabile per niente. […] dato che il linguaggio è essenzialmente un sistema di informazione, l’informazione che immagazzina deve
essere accessibile a quegli altri sistemi. […] L’informazione che fornisce è ‘leggibile’ da questi
Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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facoltà del linguaggio, ma una successione di stati che la GU deve essere in
grado di spiegare in termini di completa leggibilità all’interfaccia.
Il tema centrale del recente Programma Minimalista, PM, è proprio quest’ultimo: se
il sistema linguistico deve rispettare condizioni di economia delle rappresentazioni,
le rappresentazioni della struttura sintattica non devono contenere più elementi di
quelli necessari. Secondo l’approccio minimalista le nozioni di struttura-p e
struttura-s non appaiono più necessarie: poiché la lingua è un sistema di
collegamento fra suono e significato, «le uniche rappresentazioni veramente
necessarie si trovano all’interfaccia dei componenti semantico e fonetico del
sistema linguistico».10 Il PM si chiede se sia possibile che «il sistema stesso del
linguaggio corrisponda ad una sorta di ‘disegno’ ottimale».11 In altre parole,
sostiene Chomsky, affrontare la natura biologica del linguaggio implica chiedersi
«fino a che punto sia ben disegnato il sistema»12 per soddisfare le «condizioni di
accessibilità» con gli altri sistemi interni del cervello:
[…] per esempio, a livello sensomotorio non si può avere una parola che non sia
espressa foneticamente, perchè il sistema sensomotorio non saprebbe cosa fare. […] E
lo stesso sarà vero all’interfaccia con il pensiero: si devono eliminare i tratti non
interpretabili.13
Chomsky ritiene che FL sia progettata in modo da soddisfare condizioni di
interpretabilità tra architetture cognitive: il movimento sintattico potrebbe essere
un modo attraverso il quale sono ‘eliminati’ aspetti sintattici non interpretabili.
Quindi, il movimento sintattico sarebbe in qualche modo ‘innescato’ dalla
presenza di tratti non interpretabili.14
sistemi? È come chiedersi: il fegato è accessibile agli altri sistemi con cui interagisce?» (Chomsky, Su
natura e linguaggio, cit., p. 60). 10 Cook, Newson, La Grammatica Universale, cit., p. 345). 11 Chomsky, Su natura e linguaggio, cit., p. 52. 12 Ivi, p. 59. 13 Ivi, p. 60. 14 Non tutti sono concordi con questa visione: in un recente contributo (A. Moro, Linear
compression as a trigger for movement, in Riemsdijk, H. van - Breitbarth, A (a cura di) Triggers, Mouton de Gruyter, Berlin,2004), Andrea Moro ipotizza che il movimento sintattico riguardi per lo
più aspetti di interfaccia con il componente fonologico-articolatorio.
Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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La linguistica come scienza cognitiva segue gli stessi metodi sperimentali adottati
dalle altre scienze cognitive che si occupano di indagare le capacità mentali. Dal
momento che l’indagine diretta sul cervello non è possibile, non resta che
procedere all’analisi comparativa degli enunciati delle varie lingue naturali, sulla
grammaticalità dei quali può essere indicativo il giudizio dei parlanti nativi delle
lingue prese in esame. Non solo l’indagine diretta non è possibile, ma potremmo
non possedere gli strumenti adatti per ‘leggere’ i dati:
Supponiamo che le nostre conoscenze siano contenute in qualche curiosa specie di
registro all’interno del cervello. L’informazione presente nel registro non è immagazzinata
in forma leggibile da noi osservatori esterni. Perché dovrebbe esserlo? L’informazione
non è lì per il beneficio di osservatori esterni, ma per essere usata dal resto del cervello.15
2. La facoltà di linguaggio in a narrow sense
In un ormai famoso articolo pubblicato su Science nel 200216 Hauser, Chomsky e
Fitch (HCF) ipotizzano che la facoltà del linguaggio in senso stretto sia costituita
essenzialmente da un sistema computazionale ristretto (narrow syntax) che
genera rappresentazioni interne e le dirige all’interfaccia senso-motoria tramite il
sistema fonologico, e all’interfaccia concettuale-intenzionale attraverso il sistema
semantico.17 Fattori interni all’organismo, ma esterni alla FLB – quindi esterni anche
alla FLN – impongono restrizioni all’uso di questo sistema: ad esempio, la capacità
respiratoria dei polmoni condiziona la lunghezza delle frasi producibili, mentre la
memoria di lavoro impone limiti sulla complessità delle frasi che devono essere
capite. Altri limiti, per esempio sulla formazione dei concetti o sulla velocità
dell’output motorio, sono invece aspetti della FLB con una propria storia evolutiva
che possono avere influenzato l’evoluzione della FLN, anche se, essendo
15 R. Jackendoff, Patterns in Mind: Human Language and his Nature, Hemel Hempstead, Harvester
Wheatsheaf 1993; trad. it. Linguaggio e natura umana, Il Mulino, Bologna 1998, p. 67. 16 M. D. Hauser, N. Chomsky, T. W. Fitch, The Faculty of Language: What Is It, Who Has It, and How
Did It Evolve?, «Science», 298, 2002, pp. 1569-1579. 17 Rispettivamente, Forma Fonetica e Forma Logica, così come ipotizzate dalla teoria della
Grammatica Universale.
Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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plausibilmente condivisi da altri esseri viventi – e questa è una svolta di notevole
importanza nel pensiero chomskiano – possono non essere considerati nello studio
dell’evoluzione di questa componente della facoltà del linguaggio, che è
esclusivamente in dotazione alla nostra specie;18 in sintesi, ciò che
contraddistingue il linguaggio dell’uomo sono l’infinità discreta19 e le proprietà
ricorsive della grammatica, che consentono modi potenzialmente infiniti di
espressione linguistica (e anche infiniti modi di espressione linguistica del pensiero)
sfruttando un limitato numero di regole.20 Questi aspetti sembrano mancare del
tutto nella comunicazione animale.
HCF postulano che la FLN – la facoltà del linguaggio in senso stretto – sia specie-
specifica per l’uomo, e che si sia evoluta in un secondo momento rispetto alla
facoltà del linguaggio estesa; quest’ultima sarebbe invece basata su meccanismi
biologici condivisi con altre specie animali. La maggior parte della complessità
che si manifesta nel linguaggio deriverebbe perciò dalla complessità delle
componenti periferiche della FLB: le interfacce senso-motorie e concettuali-
intenzionali, combinate con gli imprescindibili fattori socio-ambientali. La FLB, nel
suo complesso, ha un’antica storia evolutiva, di molto anteriore alla comparsa del
linguaggio e contiene molti meccanismi cognitivi e percettivi condivisi da altre
specie. La FLN, dal canto suo, comprende solo i «core mechanisms of recursion»,21
dunque solo le proprietà ricorsive del linguaggio, che esclusivamente l’ Homo
Sapiens sembra possedere.
18 Jackendoff (Linguaggio e natura umana, cit., pp. 227-235) osserva che la musica, in quanto
«attività esclusivamente umana», presenta connotati di infinità discreta e proprietà ricorsive: la capacità di percepire un senso nei brani musicali implicherebbe l’esistenza di una «grammatica
musicale inconscia» che organizza la nostra comprensione della musica. Al di là dell’apprendimento ambientale, «la nostra capacità inconscia di costruire grammatiche musicali
esige alcune risorse innate soggiacenti, che non si riducono alla capacità di ‘assorbire’ sequenze di suoni». 19 «The core property of discrete infinity is intuitively familiar to every language user. Sentences are built up of discrete units: there are 6-word sentences and 7-word sentences, but no 6,5-word
sentences.» (Hauser et al., The Faculty of Language, cit., p. 1571). 20 «FLN takes a finite set of elements and yields a potentially infinite array of discrete expressions. This
capacity of FLN yields discrete infinity (a property that also characterizes the natural numbers). Each of these discrete expressions is then passed to the sensory-motor and conceptual-intentional
systems, which process and elaborate this information in the use of language.» (Hauser et al., The Faculty of language, cit., p. 1571). 21 Ivi, p. 1573.
Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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In che modo portare avanti l’idea di una componente ristretta di FL che sia
esclusiva della specie umana? Chomsky ritiene che le indagini di anatomia ed
etologia comparata possano in futuro fornire una risposta a tale domanda.
Relativamente al sistema concettuale-intenzionale non linguistico degli animali,
molti studi indicano che mammiferi non umani e uccelli possiedono ricche
rappresentazioni concettuali, cui però non fa riscontro un’adeguata capacità
comunicativa. Pertanto, secondo Chomsky, lo scarto tra l’uomo e gli altri animali
dotati di sistemi di comunicazione22 è dato dal sistema computazionale che lega
la facoltà del linguaggio alle funzioni concettuali-intenzionali. Questo sistema
computazionale, particolarmente evoluto nell’uomo,23 è in grado di costruire un
insieme virtualmente infinito di espressioni interne a partire dall’insieme finito del
sistema intenzionale concettuale24 e deve fornire gli strumenti per esprimerli e
interpretarli a livello senso-motorio;25 inoltre, questo sistema computazionale è
responsabile del grado di fitness del bambino in fase di apprendimento della
lingua.
Recentemente sono stati elaborati alcuni modelli matematici di in grado di
simulare filogenesi e processo di apprendimento del linguaggio, su cui vale la
pena soffermarsi brevemente.
22 Gli autori riportano a questo proposito un parallelismo tra l’ampiezza del sistema comunicativo del cercopiteco e quella dell’uomo; il giudizio è un perentorio «additional evidence is required
before such signals [quelli del cercopiteco] can be considered as precursors for, or homologs of, human words» (Ivi, p. 1576).
23 Come ampiamente riconosciuto, rapidità di apprendimento e caratteristiche semantiche del lessico appreso distinguono nettamente l’uomo da qualsiasi altro primate: « […] the rate at which
children build the lexicon is so massively different from nonhuman primates that one must entertain the possibility of an independently evolved mechanism. […] most of the words of human language
are not associated with specific functions.» (Ibidem). Si ripropone, in questo passaggio, l’argomento della ‘povertà dello stimolo’, secondo il quale un bambino è esposto solo ad una
piccola porzione dell’insieme di tutte le frasi possibili nella propria lingua madre. 24 « […] no species other than humans has a comparable capacity to recombine meaningful units
into an unlimited variety of lager structures, each differing systematically in meaning.» (Ibidem). 25 In termini più strettamente linguistici, scriveva Chomsky qualche anno prima, data una lingua
particolare L e una facoltà del linguaggio FL, «L è una procedura ricorsiva che genera un’infinità di espressioni. Ciascuna espressione può essere considerata come una raccolta di informazioni per
altri sistemi della mente/cervello» (Chomsky, Su natura e linguaggio, cit., p. 34).
Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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A circa due anni di distanza dall’articolo su Science di Chomsky, Hauser e Fitch,
Steven Pinker e Ray Jackendoff rispondono considerando ‘problematica’ l’ipotesi
che la ricorsività sintattica sia ciò che rende unico il linguaggio umano rispetto ad
altre forme di comunicazione nelle altre specie.26 Pur condividendo in linea di
principio il modello duale tra Facoltà del linguaggio in senso ristretto e Facoltà del
linguaggio in senso esteso, Pinker e Jackendoff (PJ) evidenziano che un’ipotesi
forte come la FLN nei termini di Chomsky mal si concilia con alcune evidenze
sperimentali e di anatomia comparata le quali piuttosto tenderebbero a
considerare FL non come un sistema ottimale sviluppatosi nel cervello inizialmente
per altri scopi e poi diventato determinante per il linguaggio-sistema di
comunicazione, bensì – ribaltando tale visione a centottanta gradi - un sistema
che si è evoluto di concerto con i sistemi percettivi e senso-motori e che fin
dall’inizio ha avuto funzioni di comunicazione.
PJ sottolineano che il modello della FLN/FLB è in qualche modo figlio del
Programma Minimalista, che negli anni Novanta del secolo scorso ha mirato ad
una semplificazione/riduzione dei cosiddetti principi e parametri della GU
cercando di individuare i meccanismi primi che causano aspetti della
grammatica come il movimento sintattico e la dipendenza dalla struttura. Così
facendo, si è giunti a formulare l’ipotesi della ricorsività come elemento che
governa la FLN, ma si è arrivati a tralasciare aspetti della stessa grammatica che
non sono spiegabili esclusivamente nei termini del principio di ricorsività o
dipendenza dalla struttura, ma che sono ugualmente determinanti in una lingua.
In sintesi, la critica di PJ al Chomsky di inizio nuovo millennio abbraccia sia gli
aspetti più tecnici della GU (non tutti i linguisti sembrano aver digerito il
Programma Minimalista), sia le questioni meramente biologico-evolutive.
La contro-risposta di Fitch, Hauser e Chomsky (FHC) non si è fatta attendere molto.
In un articolo del 200527 i tre rivendicano il modello duale di FLB e FLN precisando
26 S. Pinker, R. Jackendoff, The Faculty of Language: What’s Special About It?, «Cognition», 1376,
2004, in Internet: http://pinker.wjh.harvard.edu/articles/papers/2005_03_Pinker_Jackendoff.pdf [01/08] 27 W.T. Fitch, M.D. Hauser, N. Chomsky, The evolution of the language faculty: Clarifications and implications, Cognition, 97, 2005, pp. 179-210, in Internet:
Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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che tale distinzione terminologica può essere utile per studiare al meglio gli aspetti
biologici del linguaggio, per i quali è necessario ‘frazionare’ la FL delimitandone i
meccanismi di interfaccia con gli altri sistemi biologici ed evidenziandone il nucleo
caratteristico del cervello umano. FHC inoltre precisano che FLN riguarda ‘come
minimo’ gli aspetti legati alle proprietà ricorsive della grammatica, lasciando
campo aperto anche ad altri aspetti fondanti FL.
Riguardo la critica di PJ al collegamento FLN – Programma Minimalista, FHC
ribattono che tale collegamento rappresenta una forzatura interpretativa da
parte di PJ e che non è mai stato nelle intenzioni di FHC spingersi oltre alcune
considerazioni di massima:
we did suggest and maintain here that a core element of FLN may be structured by
considerations of efficient use of the core computational mechanisms of recursion; this is the
only place where the discussion in HCF ties in directly to the minimalist program. 28
Infine, per quanto concerne la diversità di vedute sugli aspetti evolutivi di FL, in
questo contributo troviamo nuovamente un Chomsky estremamente prudente il
quale liquida le ipotesi adattative del linguaggio come speculazioni prive di
fondamenti scientifici validi a causa della ‘cronica’ mancanza di evidenze
sperimentali circa la storia evolutiva del linguaggio.
Nell’ultimo round29 del dibattito tra Chomsky, Hauser e Fitch da una parte,
Jackendoff e Pinker dall’altra, questi ultimi (JP) insistono nel criticare la separazione
troppo netta tra FLN e FLB che creerebbe una dicotomia tra sistemi cognitivi
specificatamente umani e non: tale separazione ometterebbe di considerare
capacità che possono aver conosciuto un’evoluzione nel corso della storia della
specie umana. Altre dicotomie problematiche, secondo JP, riguardano il
considerare FLN come un trans-adattamento di una funzione originariamente http://www.wjh.harvard.edu/~mnkylab/publications/languagespeech/FitchHauserChomksyLangFacCog.pdf [01/08] 28 Ivi, p. 184. Per approfondimenti, in Internet: www.wjh.harvard.edu/~mnkylab [01/08] 29 R. Jackendoff, S. Pinker, The Nature of the Language Faculty and its Implications for Evolution of Language (Reply to Fitch, Hauser, and Chomsky), Cognition, 97, 2005, pp. 211-225, in Internet:
http://pinker.wjh.harvard.edu/articles/papers/2005_09_Jackendoff_Pinker.pdf [01/08]
Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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preposta ad altro che però in tale ottica appare troppo separata dalle altre
componenti anatomico-funzionali che concorrono alla produzione linguistica.
JP illustrano inoltre come certi aspetti ricorsivi siano presenti anche in altre
componenti cognitive come la percezione: in definitiva, JP contestano a Chomsky
e coautori il fatto di non considerare che aspetti ricorsivi sono presenti anche in
funzioni ‘di contorno’ alla FL – cioè nella FLB. Andando più a fondo negli aspetti
prettamente di teoria linguistica, JP rimarcano che un’ipotesi come quella della
FLN presuppone a monte una teoria come la GU secondo la più recente
prospettiva minimalista (quindi – nonostante Chomsky scriva il contrario – un
collegamento tra il Programma Minimalista e l’idea della FLN esisterebbe).
In altre parole, l’ipotesi di una distinzione tra FLN e FLB comporta – sul piano della
teoria linguistica – una separazione tra la grammatica e il lessico. Ma, osservano
JP, studi recenti ne evidenziano lo stretto rapporto, che di fatto mette quanto
meno in dubbio una netta separazione tra FLN e FLB.
3. Biolinguistica, genetica e anatomia funzionale
Esiste una correlazione tra il nostro codice genetico e le proprietà universali del
linguaggio postulate dalla GU? Se sì, in che termini? Ad oggi non si dispone di
strumenti per determinare con esattezza quali geni intervengano esattamente
nello sviluppo del linguaggio. D’altra parte, non un singolo gene, né un numero x
di geni, sono responsabili del linguaggio: come per tutte le proprietà di un
organismo vivente, determinate configurazioni di materiale genetico,
comprendente vari tipi di geni con varie funzioni,30 concorrono nello sviluppo di
una certa caratteristica dell’individuo. Variazioni anche minime in queste
particolari configurazioni portano a risultati completamente diversi. Riguardo al
linguaggio, si possono al massimo formulare ipotesi, delineare orizzonti di ricerca
30 E. Boncinelli, I presupposti biologici del linguaggio I. Aspetti evolutivi, «Lingue e Linguaggio», 1, Il
Mulino, Bologna 2003, pp. 147-159.
Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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che, se intrapresi, potranno offrire contributi di chiarezza: è quanto ha cercato di
fare Andrea Moro in un recente contributo.31
Il cervello umano può essere rappresentato come una struttura sistemica; un
modello sistemico consente di mettere nella giusta relazione caratteristiche ‘di
rete’ – «vi sono sistemi formati da diverse unità cerebrali interconnesse» e aspetti
modulari – «questi sistemi sono in effetti devoluti ad attività relativamente
separabili che costituiscono la base delle funzioni mentali». Il cervello è un «sistema
di sistemi»32 originato da un’architettura neurale su più livelli, il primo dei quali è
rappresentato dalle cellule cerebrali, i neuroni. Un dato a cui Damasio si appella
per sostenere l’ipotesi di un’architettura sistemica del cervello riguarda il fatto che,
a livello citologico,
molti neuroni parlano solo con altri neuroni che non sono molto distanti nell’ambito di circuiti
relativamente locali di nuclei e regioni corticali; altri, seppure dotati di assoni che si
protendono per diversi millimetri [...] nel cervello, entreranno in contatto soltanto con un
numero relativamente piccolo di tali neuroni.33
La conseguenza principale di tale disposizione è che l’attività del singolo neurone
dipende generalmente dal gruppo di neuroni che lo circonda e di cui fa parte.
Eventuali aree di specializzazione sono conseguenza del posto occupato da
gruppi di neuroni connessi in un certo modo all’interno di un sistema di più ampia
scala, il «supersistema di sistemi»34 di cui parla Damasio.
Riguardo al linguaggio, esistono aree specifiche nel cervello che si attivano in fase
di comprensione e produzione linguistica; anche altre aree cerebrali sono però
parzialmente coinvolte per il linguaggio. Inoltre, le stesse aree specifiche del
linguaggio si attivano anche in fase di svolgimento di altri compiti, come alcune
31 A. Moro, ‘Linguistica mendeliana’ ovvero quali domande su genetica e grammatica?, «Lingue e Linguaggio», 1, Il Mulino, Bologna 2002. 32 A. R. Damasio, Descartes’ Error. Emotion, Reason and the Human Brain; trad. it. L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Adelphi, Milano 2001. 33 Ivi, p. 66. 34 Ibidem.
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funzioni motorie.35 Come possiamo interpretare, allora, l’ipotesi chomskiana di una
facoltà del linguaggio modulare in relazione al modello sistemico di Damasio?
Considerare le patologie afasiche una prova della ‘separazione’ del linguaggio
da altre funzioni cerebrali è quanto meno problematico: un modularismo ‘forte’
giustificabile dalle «sindromi patologiche ben definite» di cui parla Fodor36 è stato
smentito da (almeno) i seguenti dati:
• esistono disturbi afasici riconducibili a lesioni di altre strutture cerebrali come
la superficie mediale del lobo frontale, il polo temporale sinistro e il talamo;37
• le forme pure di afasie sono ancora oggi oggetto di discussione circa la loro
stessa esistenza come patologie autonome;38
• In generale, le afasie sono accompagnate da disturbi – anche se più lievi
rispetto a quello specifico del linguaggio – di tipo cognitivo,39 visivo e motorio;40
• Premesso che le patologie afasiche presentano un quadro piuttosto
eterogeneo, nell’evento patologico si assiste sia ad effetti collaterali in aree
cerebrali lontane dall’area lesionata, sia in genere ad un processo di ri-
organizzazione neurale inter- e post-traumatica: nella realtà clinica è infatti un
caso piuttosto raro che la lesione cerebrale resti strettamente confinata ad una
sola delle aree deputate al linguaggio.41 La generale plasticità che consente
una riorganizzazione della facoltà del linguaggio conseguentemente ad un
evento traumatico è stata oggetto di numerosi studi.42
Gli studi sulle patologie afasiche confermano sia l’esistenza di una «localizzazione»
di una «funzione cognitiva specifica come il linguaggio», sia una più generale
«asimmetria» degli emisferi cerebrali: «il linguaggio può venir localizzato in uno dei 35 P. Lieberman, Human Language and Our Reptilian Brain, Harvard Univ. Press, Cambridge (MA) and London, UK 2000., p. 27 36 J. Fodor, The Modularity of Mind: an Essay on Faculty Psychology, The MIT Press, Cambridge 1983; trad. it. La mente modulare, Il Mulino, Bologna 1999, p. 154. 37 E. Bisiach, et al., Neuropsicologia clinica, Franco Angeli, Milano 1993, p. 37. 38 Ivi, p. 33. 39 Lieberman, Human Language, cit., pp. 95-96. 40 Bisiach, et al., Neuropsicologia, cit., p. 40. 41 Ivi, pp. 38-39. 42 Si vedano, ad esempio, i riferimenti bibliografici in H. Neville, D. Bavelier, Neural Organization and Plasticity of Language, in «Current Opinion in Neurobiology», 8, pp. 254-258, 1988, in Internet:
<http://biomednet.com/elecref/0959438800800254> [02/04].
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due emisferi», anche se non si tratta di una «facoltà semplice, ma costituisce un
insieme di facoltà delle quali le due principali, la comprensione e l’espressione,
possono oggi venire distinte in base alle loro localizzazioni regionali».43 Dati
sperimentali evidenziano che le interconnessioni tra le aree specifiche del cervello
sono determinanti per il quadro cognitivo generale dell’individuo: in un recente
contributo, che indaga una possibile relazione tra la computazione linguistica e
alcune aree specifiche del cervello, Caramazza e Finocchiaro riportano una serie
di studi i cui risultati «lasciano supporre che due circuiti neurali separati
nell’emisfero sinistro siano coinvolti nella rappresentazione dei nomi e dei verbi».44
Un circuito fronto-parietale (comprendente le parti del lobo frontale situate
anteriormente e superiormente all’area di Broca) sarebbe principalmente
implicato nell’elaborazione dei verbi, mentre un circuito fronto-temporale
(comprendente le parti inferiore e posteriore del lobo frontale) sarebbe
principalmente implicato nell’elaborazione dei nomi.45 È evidente, in questo tipo di
ricerche, l’importanza che la linguistica come scienza cognitiva può rivestire in
campo neuroscientifico, anche a prescindere dalla ‘ortodossia’ chomskiana.
Philip Lieberman ipotizza l’esistenza di un Functional Language System (FLS)
rappresentato da una rete di circuiti neurali che si attivano simultaneamente per
manifestare un particolare comportamento che contribuisce alla fitness
dell’organismo; in altre parole, un sistema che contribuisce ad assicurare la
sopravvivenza della propria specie.46 I gangli basali rappresentano alcuni tra gli
elementi chiave del FLS: in genere associati al controllo motorio, e
filogeneticamente risalenti ad un’anatomia cerebrale presente anche nei rettili, i
gangli basali riflettono la storia evolutiva del FLS nella misura in cui la selezione
naturale ha operato e reso possibile risposte di tipo neurale (cognitivo) nell’uomo,
43 E. R. Kandel, J. H. Schwartz, Principles of neural science, Elsevier Science Publishing Co., New York 1985; trad. it. Principi di neuroscienze, Casa Editrice Ambrosiana, Milano 1988, p. 739. 44 A. Caramazza, C. Finocchiaro, Classi grammaticali e cervello, «Lingue e Linguaggio», 1, Il Mulino, Bologna 2002. 45 «dove, per nomi e verbi, si intende l’insieme dei tratti lessicali e morfosintattici ad essi associati» (Ivi, p. 32). 46 Cfr. Lieberman, Human Language, cit., pp. 32-38. Trattandosi di un’esposizione estremamente sintetica della teoria del Functional Language System, eviteremo di riportare i (numerosissimi)
riferimenti bibliografici relativi agli studi che Lieberman cita nel suo lavoro.
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laddove in altre specie queste strutture danno luogo a risposte esclusivamente di
tipo motorio.
La funzione del FLS è di trasmettere, comprendere e memorizzare le informazioni, e
coordinare l’uso di un mezzo (medium) come la parola (speech). La possibilità di
pronunciare un discorso assicura, dal punto di vista comunicativo, un’alta velocità
di trasmissione di dati, mantenendo il lessico – con i relativi componenti sintattico,
semantico e pragmatico – in una ‘memoria di lavoro verbale’ (verbal working
memory); il significato dell’enunciato, invece, è derivato dal contesto. L’Homo
Sapiens sarebbe dunque in possesso di un complesso meccanismo cerebrale che
gli permette di parlare, trasmettere un’informazione concettuale codificata
(coded) come lessico, integrando altre componenti informazionali (visive, tattili,
pragmatiche) con la conoscenza codificata nelle parole di un lessico interno
(internal lexicon). Le parole appaiono sia come elementi ‘concettuali’ che come
elementi ‘comunicativi’:
The word tree doesn’t necessary refer to a particular tree o even to a species. Tree codes a
concept. The conceptual information coded in the brain’s lexicon appears to recruit
information represented in structures of the brain concerned with sensation and motor
control.47
Secondo il modello del FLS la conoscenza linguistica attiene alla conoscenza del
mondo esterno, archiviata all’interno del cervello in forma di parole alle quali la
mente ha accesso attraverso il componente fonologico, mentre una sorta di
‘linguaggio interno’ costituisce il medium del pensiero. Dal punto di vista
neuroanatomico il FLS presenta una configurazione a rete neurale, secondo uno
schema analogo a quello dei sistemi neurali proposto da Damasio: circuiti neurali
formati da popolazioni di neuroni in varie strutture neuroanatomiche processano e
trasmettono segnali ad alte popolazioni neurali; una certa struttura
neuroanatomica può riguardare anche popolazioni neurali che regolano altri
aspetti del comportamento in altri sistemi funzionali neurali. Per quanto concerne
l’FLS le strutture neurali subcorticali che regolano certi aspetti del controllo motorio
47 Lieberman, Human Language, cit., pp. 32.
Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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riguardano anche circuiti che regolano la produzione linguistica così come la
comprensione. Inoltre, come già detto, i gangli basali subcorticali rivestono un
certo ruolo nel pensiero astratto (‘abstract’ cognition).
Dal punto di vista evolutivo il FLS assicurerebbe una maggiore fitness poiché
sarebbe in grado di integrare rapidamente l’informazione sensomotoria e
concettuale con le conoscenze in possesso, rappresentata sotto forma di parole e
frasi, per produrre una risposta appropriata nei confronti dell’ambiente esterno o
dello stato mentale interno. Dunque, secondo Lieberman il linguaggio può così
essere considerato:
[...] human language and thought can be regarded as neurally ‘computed’ motor activity,
deriving from neuroanatomical systems that generate overt motor responses to
environmental challenges and opportunities. In short, the anatomy and physiology of the
human FLS reflects its evolutionary history. Natural selection operated on motor control
systems that provide timely responses to environmental challenges and opportunities.48
In sintesi, l’approccio di Lieberman nei confronti della natura biologica del
linguaggio è orientato ad indagare le componenti neuronanatomiche interessate
alla computazione linguistica. Lieberman non propone una teoria della mente,
limitandosi ad un’ipotesi sull’evoluzione del linguaggio sulla base delle ricerche di
anatomia comparata.
Le argomentazioni che Lieberman presenta contro l’ipotesi dell’organo del
linguaggio chomskiano non possono essere ignorate. Di questo lo stesso Chomsky
ne è probabilmente consapevole, tant’è che in Hauser, et. al. (2002) il linguista
americano ci presenta una nuova ipotesi sulla facoltà del linguaggio che, sotto
certi aspetti, è riconducibile al FLS di Lieberman (in particolare la nozione di
facoltà del linguaggio in senso esteso). Inoltre, la prospettiva modulare della
facoltà del linguaggio sembra essere indebolita dalla massa di dati che
Lieberman porta a sostegno della propria ipotesi; senza dimenticare le critiche
mosse dallo stesso Lieberman circa i criteri di scientificità della GU. A tal riguardo, il
paragrafo che segue tratta tre ricerche sperimentali che consentono una
48 Ivi: p. 158.
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riflessione su una questione molto importante: a fronte dell’organizzazione
reticolare dei circuiti neurali coinvolti nel linguaggio, si dimostra che esiste una
correlazione significativa tra le proprietà del linguaggio espresse dalla teoria della
GU e il comportamento di sistemi neurali interemisferici associati alla produzione e
alla comprensione linguistica.
4. Andrea Moro: primi esempi di interazione tra linguistica e neuroscienze
Le ricerche seguenti, che presento in estrema sintesi, si sono basate su strumenti
quali la PET (Positron Emission Tomography)49 e la fMRI (functional Magnetic
Resonance Imaging)50 per indagare tre questioni:
1. Quali aree specifiche della corteccia cerebrale intervengono nella
computazione della sintassi e della morfologia degli enunciati grammaticali?51 I
risultati di questo studio, in linea con altri, suggeriscono che le capacità sintattiche
non vengono implementate in una singola area cerebrale. Piuttosto, esse
interessano una struttura reticolare di neuroni che riguarda le aree neocorticali sia
49 La tomografia ad emissione di positroni (PET) usa composti radioattivi e visualizza il decadimento di queste molecole radioattive. Il decadimento libera positroni che a loro volta, scontrandosi,
liberano radiazioni elettromagnetiche (gamma). Le radiazioni gamma vengono registrate ed elaborate elettronicamente per comporre immagini che ne indicano l'origine nel cervello. La PET è
perciò in grado di visualizzare quale regione cerebrale accumuli la sonda molecolare (tracer) impiegata. Così è possibile, ad es. con l'uso di glucosio radioattivo, visualizzare regioni cerebrali che
hanno un metabolismo particolarmente attivo in un determinato momento, come durante l'esecuzione di un particolare compito. Per quanto riguarda l'esame dell'attività cerebrale la PET
viene ad oggi sempre più spesso sostituita dalla risonanza magnetica funzionale. 50 La tecnica delle neuroimmagini funzionali è in grado di determinare quali parti del cervello sono
attivate da specifici tipi di attività fisiche o psichiche, come ad es. la vista, l’udito o il movimento di un dito della mano. Questa sorta di ‘mappatura cerebrale’ si realizza attraverso un uso particolare
della risonanza magnetica, impostata in modo tale che, all’attivazione di una certa area cerebrale, causata dallo svolgimento di un certo ‘compito’ da parte del soggetto sperimentale,
venga evidenziato graficamente l’incremento del flusso sanguigno relativamente alle suddette aree attivate. Vengono registrate le variazioni di ossigenazione del sangue nelle zone di
attivazione: questo rappresenta un indice del livello di metabolismo in atto. Ulteriori dettagli sull’utilità di queste tecniche per indagare il metabolismo cerebrale sono riportati in Lieberman,
Human Language, cit., pp. 30-31). 51 A. Moro, et al., Syntax and the brain: disentangling grammar by selective anomalies,
«NeuroImage», 13, Chicago Academic Press, 2001, pp. 110-118.
Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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sinistre che destre, così come altre porzioni cerebrali come i gangli basali e il
cervelletto. Inoltre, la non completa corrispondenza fra i correlati neurologici dei
processi sintattici e morfosintattici sembra corrispondere bene con tale distinzione
operata in linguistica in ambito teorico tra sintassi, morfologia e fonologia.
2. Eventuali differenze di attivazione dell’area di Broca nel processo di
acquisizione di enunciati sintatticamente grammaticali vs/ non grammaticali.52
Questa ricerca dimostra un selettivo ed importante ruolo dell’area di Broca nel
processo di acquisizione di regole inventate ‘grammaticali’ (che seguono i principi
della GU) in confronto all’acquisizione di regole inventate ‘non grammaticali’. I
dati ottenuti contribuiscono inoltre a chiarire i meccanismi cerebrali che
sottostanno all’acquisizione di una seconda lingua in individui adulti; l’incremento
di competenza di specifiche caratteristiche linguistiche inventate appare essere
strettamente associato con variazioni di attività esattamente in quelle regioni
cerebrali implicate nella computazione degli aspetti linguistici corrispondenti.
Inoltre, nelle prime fasi di acquisizione della lingua la computazione di strutture
linguistiche inventate coinvolge porzioni dell’area di Broca che supportano meno
processi automatici. In sintesi, esiste una certa evidenza del fatto che l’area di
Broca possa essere addetta alla computazione della struttura gerarchica della
grammatica. Questo studio dimostra che, in individui adulti, l’acquisizione di
strutture sintattiche linguistiche di tipo gerarchico riguarda un sistema neurale che
comprende l’area di Broca.
3. Relativamente all’area di Broca, come si misura l’incremento di attivazione
nel processo di acquisizione di una nuova lingua naturale che segue i principi
della GU vs/ acquisizione di una nuova lingua che non rispetta la GU?53 Questa
ricerca mostra che, in individui adulti, l’acquisizione di nuove competenze
linguistiche coinvolge un’architettura funzionale cerebrale sostanzialmente diversa
da quella implicata nell’apprendimento di regole grammaticali che violano le
proprietà della Grammatica Universale. Nello specifico, l’area di Broca sembra
52 M. Tettamanti, et al., Neural Correlates for the Acquisition of Natural Language Syntax, «NeuroImage», 17, Chicago Academic Press, 2002, pp. 700-709. 53 M. Musso, et al., Broca's Area and the Llanguage Instinct, «Nature Neuroscience», vol.6, 2003, pp.
774-781.
Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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rivestire un ruolo chiave nell’apprendimento di regole linguistiche ‘reali’,
indipendentemente dalla lingua che viene appresa, sia essa vicina o lontana alla
lingua madre come famiglia; inoltre, come evidenziato in studi precedenti,54 la
computazione degli aspetti sintattici del linguaggio (particolarmente la pars
triangularis) risulta essere una funzione essenziale di questa regione cerebrale.
Sembra dunque che questa particolare area cerebrale sia specializzata
nell’acquisizione e nella computazione di strutture sintattiche di tipo gerarchico,
(piuttosto che lineare), proprie di ogni lingua naturale conosciuta. La correlazione
negativa, rilevata tra il segnale BOLD (Blood Oxygen-Level Dependent) nell’area
di Broca e l’apprendimento di regole grammaticali artificiali, dà ulteriore
conferma all’ipotesi che questa regione cerebrale sia specializzata
nell’identificazione dei principi naturali e universali del linguaggio. I ricercatori,
inoltre, ritengono che nelle fasi di apprendimento di una lingua ‘inventata’ l’area
di Broca progressivamente venga interessata sempre meno da questa attività:
d’altra parte, questa potrebbe essere una conferma dell’ipotesi che le strutture di
tipo gerarchico non siano specifiche per il linguaggio, ma che riguardino anche
altre caratteristiche mentali come la produzione musicale e le capacità
matematiche.55 Le caratteristiche anatomiche e funzionali dell’area di Broca
consentono di postulare che la differenziazione ontogenetica di questa regione
cerebrale possa rappresentare uno sviluppo evolutivo di grande rilevanza, una
tappa che ha contribuito a determinare lo scarto di capacità intellettive fra gli
esseri umani e gli altri primati: questi ultimi sono in grado di imparare singoli
elementi di un lessico, ma non hanno la capacità di organizzare il lessico in una
struttura gerarchica (e ricorsiva) come riescono a fare gli umani.
54 Ivi, p. 778. 55 Riprendiamo l’indicazione bibliografica di uno studio che non abbiamo preso in esame, ma dal titolo eloquente: G. Maess, et al., Musical Syntax is Processed in Broca’s Area: An MEG Study, «Nature Neuroscienze», 4, 2001, pp. 540-545. Si vedano anche: R. Jackendoff, Patterns in Mind: Human Language and his Nature, Hemel Hempstead, Harvester Wheatsheaf 1993; trad. it. Linguaggio e natura umana, Il Mulino, Bologna 1998, pp. 227-248; N. Chomsky, Language and Problems of Knowledge: the Managua Lectures, The MIT Press, Cambridge 1988; trad. it. Linguaggio e problemi della conoscenza, 2a edizione, Il Mulino, Bologna 1998, p. 127; Hauser, et al., The Faculty of Language, cit.
Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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I dati ottenuti da questi studi su alcuni aspetti dell’apprendimento della sintassi non
hanno – a detta degli stessi autori – pretesa di esaustività, tanto meno presumono
di dire l’ultima parola in un campo di studi piuttosto recente. Se, come già
ricordato, Chomsky è fiducioso circa le possibilità offerte dall’impiego delle
tecniche di neuroimmagine, utili per indagare «quali sono i meccanismi fisici che
fungono da base materiale per questo sistema di conoscenza [quello che sottostà
alla competenza linguistica] e per l’uso di questa conoscenza»,56 questi strumenti
di indagine presentano alcuni limiti: come osserva Nicolai,
possiamo dire che di fatto gli strumenti di indagine sono attualmente in numero maggiore,
[...] e ciò anche senza condividere l’entusiasmo incondizionato di molti per le neuroimmagini,
considerate il maggior progresso degli anni di fine ventesimo secolo. Tali tecniche [...] nel
complesso non consentono di esaminare cosa sta facendo il neurone di cui vediamo
l’attivazione e, più in generale, la rappresentazione dell’attività cerebrale che forniscono è in
qualche misura un’astrazione, per quanto indubbiamente significativa: i fenomeni fisici
misurati non è detto che siano esattamente tutti quelli coinvolti nella specifica funzione che si
sta valutando.57
Quel che è certo, comunque, è che le tecniche e gli strumenti in mano oggi agli
scienziati del linguaggio permettono di portare avanti un modo di fare ricerca che
è intrinsecamente interdisciplinare: ulteriori nuovi strumenti di indagine potranno in
futuro essere elaborati per raffinare sempre più i risultati, proseguendo il cammino
verso la scoperta dei fondamenti biologici del linguaggio.
5. La biolinguistica domani 56 Chomsky, Linguaggio e problemi, cit., p. 5. Più avanti, Chomsky spiega il suo punto di vista circa il
ruolo-guida della linguistica nell’indagare le basi biologiche del linguaggio: « [...] la scienza che si occupa del cervello può iniziare ad esplorare i meccanismi fisici che manifestano le proprietà
rivelate dalla teoria linguistica astratta. In assenza di una risposta a queste domande [quelle che emergono allorché ci proponiamo di studiare i meccanismi del linguaggio], la scienza che si
occupa del cervello non sa cosa cercare; la ricerca in questo campo è, da questo punto di vista, cieca». Gli fa eco recentemente Nicolai, secondo la quale, sottolineando l’importanza della
collaborazione tra la teoria linguistica e la pratica neuroscientifica, una premessa fondamentale in questo ambito è « [...] la necessità di conoscere prima le regole del linguaggio per poterne
studiare, poi, l’implementazione neurale» (F. Nicolai, Argomenti di Neurolinguistica - Normalità e patologia nel linguaggio, Del Cerro, Tirrenia 2003, p. 48). 57 Nicolai, Argomenti, cit., p. 16.
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Chomsky e i generativisti hanno elaborato un modello astratto che tentava di far
luce sui meccanismi sottostanti alla grande variabilità delle lingue. Non più
dunque un approccio storico-culturale alla ricerca della ‘madre di tutte le lingue’,
ma un approccio ‘generativo’, cioè formalmente esplicitato, in grado di
presentarci un modello di funzionamento di un fenomeno del tutto straordinario
come la rapida acquisizione di una lingua naturale e il suo uso creativo nella
pratica di tutti i giorni.
Attribuire al linguaggio proprietà come quelle di infinità discreta, ricorsività,
dipendenza dalla struttura, costituisce un modo innovativo di affrontare il
problema della diversità delle lingue, nell’obiettivo di trovarne, laddove vi siano,
elementi comuni. La cosa, adottando un orientamento biologico, non dovrebbe
stupire: sul nostro pianeta esiste un’unica specie del genere Homo, ed è verosimile
che variazioni linguistico-cognitive all’interno di una specie come quella umana
avvengano su una base comune, un modo comune con cui il cervello è in grado
di elaborare il linguaggio.
Nonostante le recenti acquisizioni nell’ambito della biologia evoluzionista – e ormai
accertata l’adesione della linguistica chomskiana a questo paradigma scientifico
–, il problema sembra essere sempre il solito, cioè, cosa dobbiamo considerare
come innato e cosa appreso, se (ed eventualmente dove) esista un ‘canale
cognitivo’ privilegiato per il linguaggio o se tutto sia dovuto all’architettura
generale cognitiva. Sappiamo che i bambini appena nati non camminano, come
tuttavia sappiamo che ciò è dovuto al fatto che la deambulazione necessita di
adattamenti posturali, muscolari e cerebrali che richiedono tempo e con ogni
probabilità anche una esposizione alla forza di gravità. Ciononostante i bambini
acquistano tutti una stazione eretta e una deambulazione bipede, in idonee
condizioni ambientali e di salute. In condizioni di normalità tutti gli esseri umani ad
un certo stadio evolutivo imparano una lingua: lo sviluppo del linguaggio ha
dunque bisogno di un certo lasso di tempo perché tutte le architetture cerebrali si
sviluppino e forniscano il substrato indispensabile all’emergere del linguaggio. In
definitiva, allo stato attuale delle conoscenze non possiamo stabilire con certezza
Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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quante e quali caratteristiche del linguaggio siano innate/geneticamente
determinate e quali apprese, poiché verosimilmente si tratta di un processo
circolare individuabile quanto meno a partire dal livello dei circuiti neurali, e
difficilmente scindibile nelle sue parti.
Si potrebbe pensare che alcune funzioni cognitive necessarie per la comparsa del
linguaggio siano apprese, e che il linguaggio possa svilupparsi solo se queste
funzioni cognitive vengono interiorizzate dall’ambiente nella giusta misura.58 Poi
però bisognerebbe capire in che misura queste funzioni cognitive sono apprese e
in che misura determinate dal nostro patrimonio genetico; per di più, in ottica
evoluzionista, il problema è trovare una conferma empirica ai vari ‘– attamenti’
(ad-attamento, pre-adattamento, es-attamento)59 che potrebbero risolvere la
questione su cosa è innato e cosa è appreso. A livello genetico questo si traduce
nella necessità di capire secondo quali modalità la selezione naturale produce la
variabilità genetica, e come le influenze ambientali contribuiscono ad alimentare
questa variabilità, il tutto nel senso diacronico dell’evoluzione.
Allo stato attuale delle conoscenze non possiamo sapere se il linguaggio o altre
strutture cognitive rappresentino uno sviluppo quasi ‘meccanico’ prestabilito fin
dalla nascita, o se invece dipendano in modo consistente dall’interazione con
l’ambiente, riducendo così la portata quantitativa e qualitativa
dell’equipaggiamento biologico innato; per il momento dobbiamo accontentarci
di ipotesi che siano ragionevoli. L’ipotesi di Chomsky, così come di altri, è che la
facoltà del linguaggio sia comparsa filogeneticamente ‘all’improvviso’.
Chomsky ritiene che le proprietà del linguaggio in senso stretto, ricorsività ed
infinità discreta, possano essere comparse in seguito ad una mutazione del
genoma della specie umana che ha determinato il gap cognitivo tra Homo
Sapiens e le altre specie. Autori come Lieberman ritengono invece che il
linguaggio sia una proprietà che ha molti tratti in comune con quella parte del
cervello rettiliano che lega filogeneticamente i vertebrati: semplificando, colgo in
Chomsky un’ipotesi discontinuista, mentre in Lieberman un’ipotesi più
marcatamente continuista. Perché queste divergenze? Ma soprattutto, se
58 Damasio, L’errore di Cartesio, cit., pp. 166-176. 59 Cfr. E. Boncinelli, I presupposti biologici del linguaggio I. Aspetti evolutivi, cit.
Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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Chomsky ha ragione, come ha potuto una mutazione genetica ‘improvvisa’
influire sull’architettura neurale al punto da consentire lo sviluppo del linguaggio?
Da qualche anno la nostra visione dei mutamenti evolutivi è cambiata in maniera
abbastanza significativa. Sappiamo infatti che i geni presenti nel nostro patrimonio
genetico non hanno tutti la stessa importanza, ma che esistono tra di loro precise
gerarchie (geni strutturali, geni regolatori, geni master).60 Boncinelli ipotizza che
l’alterazione di un gene master «potrebbe fornire il sostrato biologico per la
comparsa del linguaggio articolato in un primate particolarmente dotato».61 Ma si
tratta di ipotesi ancora lontane dal trovare conferma o smentita. Già da alcuni
anni Chomsky ammette le difficoltà di spiegare la natura del linguaggio in termini
filogenetici:62 su questo punto – a mio avviso – i critici hanno frainteso le posizioni
del linguista americano, accusato di essere contrario alla teoria evoluzionista.63 Il
contributo in Hauser et al. (op. cit.) dovrebbe servire a chiarire che non vi è oggi
alcuna divergenza tra il paradigma evoluzionista ed il programma di ricerca
chomskiano, ma tutt’al più opinioni diverse in merito alla maggiore o minore
specificità del linguaggio in relazione alle altre architetture cognitive.
Alcune tra le evidenze sperimentali qui discusse mostrano l’attivazione di aree
specifiche in fase di comprensione, elaborazione e produzione linguistica – non
tanto investendo una sola area cerebrale, quanto piuttosto un sistema
interemisferico. In alcuni casi, però, le aree cerebrali responsabili del linguaggio si
attivano anche in sede di elaborazione di stimoli motori e percettivi.64 Questo dato
– unitamente alle ricerche sulla plasticità neurale – compromette la possibilità di
un modulo del linguaggio ‘incapsulato informazionalmente’? Nel senso di Fodor
60 Ivi, p. 149. 61 Ivi, p. 151. 62 In particolare, Chomsky (Su natura e linguaggio, cit.) sostiene che parlare della filogenesi del
linguaggio implica un livello di formulazione di ipotesi tale da non costituire, a quel punto, un argomento molto rilevante per la ricerca in linguistica generativa; pur lasciando il campo aperto
alle possibilità, Chomsky preferisce partire dall’assunto che l’uomo possegga una struttura cognitiva specifica per il linguaggio che facilita l’apprendimento e l’uso di una lingua. 63 Cfr.: Lieberman, Human Language, cit., pp. 127-142. 64 Ivi, pp. 127-128, 130, 141. Riguardo alle evidenze sperimentali, ci permettiamo un’osservazione: in
letteratura se ne possono trovare tanto a favore dell’esistenza di una specializzazione delle aree cerebrali quanto a favore dell’esistenza di una rete diffusa di strutture funzionali. La verità sta nel
mezzo, con ogni probabilità: tutto dipende da cosa i ricercatori si propongono di studiare.
Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
114
(1983), pare di sì. Ma non nel senso di Chomsky, che ipotizza una stretta relazione
tra il linguaggio e altre funzioni come quelle senso-motorie e somato-sensitive.
Chomsky riconosce che almeno alcuni aspetti della facoltà del linguaggio sono
comuni anche ad altre specie animali oltre l’uomo, dal momento che – in senso
esteso – esistono elementi costituenti il linguaggio troppo vasti e strutturalmente
trasversali ad altre architetture cognitive funzionali per poter essere prerogativa
esclusiva di un ‘modulo’ come quello del linguaggio. Nella stessa chiave di lettura,
un ulteriore elemento di distacco dalle tesi modulariste forti è compiuto da
Chomsky nel momento in cui ipotizza che il principio di ricorsività possa sottendere
anche ad altre funzioni mentali, come le capacità matematiche.65 Questo
aspetto potrebbe essere conseguenza di un certo livello di ridondanza anche in
sistemi cognitivi come quelli sottostanti alle proprietà di ricorsività e infinità discreta
che caratterizzano il linguaggio.
La linguistica generativa si mostra come un ambito disciplinare in cui, a partire dai
primi contributi di Chomsky negli anni Cinquanta, i ricercatori si sono posti nuovi
interrogativi sulla base dei quali è stata costruita una teoria che da almeno
quarant’anni è sottoposta ad un continuo confronto con i dati sperimentali, negli
ultimi anni rappresentati anche dalle indagini neuroscientifiche. Alcuni dati
empirici, come gli studi sui tempi di apprendimento in età precoce, gli studi sulle
differenze tra L1 e L2, le ricerche sulle lingue gestuali, hanno portato prove a
sostegno di come lo sviluppo del linguaggio segua alcuni binari66 ben precisi.
Senza nulla togliere in importanza alle strategie generali dell’apprendimento67
(imitazione, osservazione, meccanismi socio-relazionali, sufficiente quantità di
input linguistici), la nostra indagine sull’orientamento biologico della linguistica
chomskiana dà conto di come potrebbero funzionare questi binari.
65 Fino ad alcuni anni fa Chomsky riteneva che le capacità matematiche fossero la risultante dello sviluppo – solo e soltanto nell’uomo – della facoltà del linguaggio (cfr. Chomsky, Linguaggio e
problemi, cit., p. 144). 66 Cfr. M. Piattelli Palmarini, I linguaggi della scienza. Ultime notizie su mente, cultura, natura, Oscar Saggi Mondadori, Milano 2003, pp. 183-208. 67 Cfr. C. Cornoldi, Metacognizione e apprendimento, Il Mulino, Bologna 1995.
Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
115
Questi dati non hanno la pretesa di verificare inconfutabilmente una teoria come
la GU. Ci troviamo oggi in una fase della ricerca in cui appare troppo prematuro
pretendere di trovare conferme o smentite di un’ipotesi ‘forte’ come quella
chomskiana. Si tratta di risultati passibili di verifica o confutazione: quel che è
certo, a nostro avviso, è che le risposte date dalla linguistica generativa sono
scientifiche almeno quanto quelle fornite da altri ambiti disciplinari costituenti le
scienze cognitive. In definitiva, una teoria come la GU è figlia di quell’approccio
cognitivista secondo il quale si cercano di elaborare modelli di funzionamento
della mente attraverso un’astrazione ‘controllata’ dei processi: nessun
generativista sosterrà mai che dentro il cervello c’è un complesso di neuroni che
‘conosce’ la dipendenza dalla struttura o il movimento sintattico: quello che il
linguista fa è costruire un’ipotesi di spiegazione di un fenomeno – il linguaggio –
plausibile con i dati a disposizione.
La cooperazione tra linguistica generativa e neuroscienze è appena agli esordi.
Molte delle assunzioni di Chomsky e di chi segue il suo programma di ricerca
dovranno non solo misurarsi con altre teorie linguistiche emergenti, ma – se
Chomsky intenderà portare avanti la sua idea di «biolinguistica» – dovranno anche
confrontarsi con le prossime acquisizioni sull’anatomia funzionale e sulla genetica
del cervello, in futuro destinate a cambiare il nostro modo di concepire la
«mente/cervello».68 La «biolinguistica» è appena iniziata: il primo passo, la
formulazione di una serie di interrogativi, è stato compiuto: da pochissimo si è
aperta la stagione della ricerca integrata tra linguistica generativa e
neuroscienze. Potremo venderne i risultati solo tra molti anni:
We can formulate the goals with reasonable clarity, but as always, there is no sensible way to
speculate about how closely they can be reached; to what extent, that is, the states of the
language faculty are attributable to general principles, possibly even holding for organisms
generally. With each step towards this goal, we gain a clearer grasp of the core properties
that are specific to the language faculty, still leaving quite unresolved problems that have
been raised for hundreds of years about how properties ‘termed mental’ relate to ‘the
organical structure of the brain’, problems far from resolution even for insects, and with
68 Chomsky, Linguaggio e problemi, cit., p. 8.
Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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unique and deeply mysterious aspects when we consider the human capacity and its
evolutionary origins.69
Con queste parole Chomsky conclude la sua lezione magistrale – tenuta nel mese
di aprile 2004 presso l’Università degli Studi di Firenze – in occasione del
conseguimento di una Laurea Honoris Causa in Lettere. Le straordinarie capacità
del cervello umano, scrive Chomsky, sono ancora un mistero, destinato a rimanere
celato per chissà quanto tempo ancora. Dobbiamo, per così dire, ‘accontentarci’
di ipotesi ragionevoli, utili, ma soprattutto studiabili empiricamente in ottica
interdisciplinare.
Lorenzo Messeri
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120
RECENSIONE
George Lakoff , Metafora e vita quotidiana, (Bompiani, Milano 2004)
Qual è la natura del nostro sistema concettuale? Qual è il
legame tra cognizione, percezione e linguaggio? È possibile
definire il significato e la verità all’interno di una cornice
concettuale libera dagli inconvenienti dell’oggettivismo puro
e del soggettivismo puro? È possibile formulare un modello di
razionalità fondato sulla corporeità? E in che modo la
metafora, intesa come struttura cognitiva, contribuisce a
organizzare la nostra vita mentale?
Secondo il linguista George Lakoff e il filosofo Mark Johnson, la metafora, lungi
dall’essere una mera figura retorica, è un vero e proprio strumento cognitivo che
fonda il nostro sistema concettuale e regola le nostre attività quotidiane. Indagare
i processi metaforici significa, allora, impostare un’indagine concettuale sulla
natura della conoscenza e sul rapporto che intercorre tra i ‘concetti’ e le nostre
culture di appartenenza.
La nostra vita interiore, sostengono gli autori, è tutta modellata su processi
metaforici che individuano sia gli elementi oggetto della nostra rappresentazione,
sia le oper-azioni mentali con le quali agiamo su quegli stessi elementi o entità
concettuali. Gli autori propongono un “approccio esperienziale” che colloca la
mente e i sistemi concettuali, insieme alla capacità di categorizzazione, di
immaginazione e di trarre inferenze, all’interno di una cornice naturalistica. Alla
base dei nostri sistemi concettuali starebbe, secondo Lakoff e Johnson, una ben
determinata capacità di “razionalità immaginativa” che rende possibili i nostri
processi metaforici, le nostre inferenze, le nostre categorizzazioni, e la stessa
comprensione della verità. La tesi principale del libro è che il nostro sistema
concettuale è “strutturato in forma metaforica”: noi comprendiamo i concetti per
mezzo di mappe fondate che conservano la struttura tra domini e che
George Lakoff – Metafora e vita quotidiana – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
121
permettono la comprensione dei concetti astratti nei termini di concetti più
concreti.
Esistono, però, alcuni concetti che derivano direttamente dalla nostra esperienza
spaziale: per esempio, il “concetto SU” dipende dalla posizione eretta del nostro
corpo e dai programmi motori che implementano il nostro orientamento su-giù. Il
concetto SU, allora, emerge dall’insieme delle nostre funzioni motorie: un essere
sferico che vivesse al di fuori del campo gravitazionale, probabilmente,
svilupperebbe un altro concetto per SU, osservano gli autori. Comprendere i
sistemi concettuali umani significa mettere in risalto la natura della “nostra
esperienza fisica”, ma, allo stesso tempo, significa ammettere che il corpo e le sue
tipologie di interazione con gli oggetti, hanno luogo soltanto all’interno di una
cultura. Il nostro retroterra culturale, infatti, struttura a sua volta l’esperienza, e noi
“facciamo esperienza di un nostro mondo, in modo tale che la cultura è già
presente perfino nell’esperienza stessa”. Le tesi di Lakoff e Johnson hanno
importanti implicazioni filosofiche: rifiuto della concezione oggettivista pura del
significato, così come della concezione soggettivista pura del significato, rifiuto
della teoria oggettivista della verità (la verità, secondo gli autori, è sempre relativa
a un sistema concettuale in larga misura definito dalla metafora),
categorizzazione fondata su gestalt strutturate con dimensioni che emergono
dalla nostra esperienza (gli oggetti che compongono “i nostri ambiti fondamentali
di esperienza” hanno proprietà interazionali vincolanti le possibilità di
interpretazione concettuale), teoria della comprensione della verità, teoria
‘interazionistica del significato’. Le metafore, siano esse concettuali o di
orientamento (basate su schemi spaziali come su-giù, davanti-dietro, dentro-fuori,
centrale-periferico, vicino-lontano) o ontologiche (basate su esperienze fisiche dei
nostri corpi, tali da indurre a considerare ‘eventi’, ‘idee’, ‘azioni’, ‘emozioni’, come
sostanze o oggetti di dimensioni finite) strutturano l’esperienza in modo soltanto
parziale. Come in una figura-sfondo, le strutture metaforiche mettono in luce
alcuni elementi delle entità rappresentate e ne nascondono altri. Questa
particolare caratteristica, sostengono gli autori, è alla base della possibilità di
trasferimento di struttura da un ambito di esperienza ad un altro: infatti, “se la
George Lakoff – Metafora e vita quotidiana – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
122
strutturazione metaforica fosse totale, un concetto coinciderebbe totalmente con
un altro, e non sarebbe soltanto compreso come un altro”.
Il linguaggio, allora, conserva e ci mostra la sua struttura metaforica. I concetti,
articolabili attraverso le parole, sono, in realtà, gli elementi che organizzano i nostri
comportamenti. Pensiamo, infatti, alla metafora concettuale, largamente
condivisa, LA DISCUSSIONE È UNA GUERRA. Tale metafora, riflessa in una
molteplice varietà di espressioni quotidiane, come “Le sue critiche hanno colpito
nel segno” o “ Ho demolito le sue argomentazioni”, non solo induce a pensare alle
discussioni in termini di dispute con vinti e vincitori, ma determina le nostre
condotte comportamentali agite durante una discussione. Noi, infatti, vinciamo o
perdiamo in una discussione e il nostro interlocutore è percepito come un
oppositore dal quale difendersi, tanto che non accettiamo di essere sconfitti da
argomentazioni più lucide delle nostre, insomma, la metafora modifica e “struttura
le azioni che compiamo quando discutiamo”.
Per concludere, tentiamo un esperimento mentale. Proviamo a comprendere,
seguendo l’impostazione degli autori, la logica alla base di un’espressione che
ricorre spesso nel libro: “i concetti con cui viviamo”. I concetti, concepiti come
oggetti, secondo la metafora concettuale ‘LE IDEE SONO OGGETTI’, sono altresì
raffigurati internamente in un rapporto di stretta vicinanza, secondo la metafora
spaziale CAPIRE È AFFERRARE. Rappresentiamo i pensieri stessi come oggetti-entità
incorporate, dove la preposizione ‘con’ indica proprio questo rapporto di
vicinanza privilegiato… con un concetto. Descriviamo, così, degli itinerari
(concettuali) interni possibili soltanto in virtù di processi metaforici che conservano
la struttura tra ambiti sensoriali, spaziali e concettuali. Riflettiamoci un attimo: noi,
inconsapevolmente, rappresentiamo il linguaggio stesso come uno spazio dove le
parole ne individuano le coordinate geometriche. I nostri stessi pensieri sembrano
possedere delle coordinate che li identificano come oggetti dotati di ‘finitezza’. Si
ha la sensazione, ci sia concessa un’osservazione personale, che la
manifestazione interna di un concetto sia fortemente vincolata dalle sue modalità
di espressione. Come la varietà dei movimenti dei nostri arti e di tutto il nostro
corpo si organizza su schemi che limitano la gamma delle potenzialità espressive
George Lakoff – Metafora e vita quotidiana – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
123
e motorie di un essere umano, così, anche la possibilità concettuale, sembra
guidata (automa-ticamente) dagli stessi limiti sensoriali che definiscono,
dall’interno dei nostri corpi, i gradi di libertà del pensabile. Se pensiamo all’anno di
pubblicazione di questo libro (1980) e al paradigma allora dominante negli studi
sul linguaggio, non possiamo non riconoscere ai due autori il merito di aver
proposto, quasi trent’anni fa, una visione fortemente innovativa del linguaggio e
della mente umana e in linea con i recenti sviluppi delle neuroscienze cognitive
contemporanee.
Alberto Binazzi
124
RECENSIONE
NOAM CHOMSKY, NUOVI ORIZZONTI NELLO STUDIO DEL LINGUAGGIO E DELLA MENTE, IL SAGGIATORE,2005
Chomsky è ormai riconosciuto come uno degli intellettuali più
influenti della seconda metà del XX secolo: oltre ai suoi più
recenti contributi al dibattito politico mondiale, i suoi studi in
linguistica, a partire dagli anni cinquanta, lo hanno reso uno dei
principali punti di riferimento all’interno del programma di
ricerche delle Scienze Cognitive, programma rivoluzionario,
promettente, ma anche molto dibattuto.
Questo recente volume (l’edizione originale risale al 2000) è organizzato in sette
lunghi saggi, sviluppati sulla base di conferenze tenute da Chomsky negli anni
novanta.. L’autore argomenta riguardo problemi fondativi, come l’approccio
metodologico e lo status esplicativo, legati all’elaborazione di un programma di
ricerca che abbia per oggetto gli eventi linguistici o, più in generale, gli eventi
mentali. Tenendo come punto di riferimento l’impostazione più recente data alle
sue ricerche, presentata principalmente nel primo saggio, l’autore si confronta
principalmente con le idee più diffuse della filosofia della mente contemporanea
(i nomi che ricorrono più spesso sono del calibro di Quine, Davidson, Putnam,
Dummett…), e il confronto porta ad una contrapposizione netta delle posizioni e
ad una messa in discussione di alcuni dei punti cardine della filosofia della mente.
Non possiamo qui fornire una presentazione, nemmeno sommaria, del suo
programma di ricerca attuale, che porta allo sviluppo della cosiddetta teoria dei
principi e dei parametri nel programma minimalista, finalizzato allo sviluppo di un
resoconto della struttura del linguaggio umano per mezzo di un insieme minimo di
entità, regole e livelli di rappresentazione. Al fine di introdurre gli argomenti
principali del libro, ci limiteremo a fornire un accenno ad alcune caratteristiche
essenziali dei programmi di ricerca di stampo chomskiano, linee comuni fin dalle
prime formulazioni della teoria della grammatica universale. Punto fisso degli studi
Noam Chomsky – Nuovi orizzonti nello studio del linguaggio e della mente – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
125
di Chomsky è l’identificazione delle strutture cognitive (la grammatica universale,
appunto) alla base della nostra capacità linguistica. Tali strutture sono innate, di
derivazione genetica, e universali, comuni a tutti i parlanti di tutte le lingue; esse
permettono lo sviluppo in ogni individuo della capacità linguistica, vincolando le
proprietà della struttura manifesta delle varie lingue naturali (lessico e grammatica
delle lingue parlate) e permettendone facilmente l’apprendimento e la
competenza nell’uso. Due punti fondamentali di questo tipo di ricerche sono il
carattere naturalista e internalista. Naturalista nel senso che vengono utilizzati
metodi comuni alle varie discipline scientifiche, a partire da un approccio
fortemente sperimentale, principalmente rivolto all’osservazione dei processi di
apprendimento dei linguaggi naturali e alla valutazione delle capacità linguistiche
e cognitive degli individui, con particolare riferimento ad individui affetti da
patologie e danni cerebrali; sulla base di tali osservazioni la linguistica cognitiva
propone modelli di tipo computazionale finalizzati a render conto della capacità
linguistica umana. L’approccio internalista invece punta allo studio dei
meccanismi del linguaggio osservandone lo sviluppo e l’acquisizione, come
qualunque altra funzione biologica, per identificare modelli in grado di descrivere
come i singoli individui gestiscono l’informazione linguistica; viene così messa in
secondo piano la classica prospettiva esternalista allo studio del linguaggio,
incentrata sulla dimensione sociale, convenzionale, dei linguaggi naturali.
Negli anni, i programmi di ricerca della linguistica cognitiva hanno attirato
molteplici e forti critiche da parte dei maggiori filosofi del linguaggio e della
mente, che mettono in discussione proprio la possibilità di un’indagine naturalista
ed internalista del linguaggio e degli eventi mentali in genere: tali oggetti di
indagine non si danno ad un tipo di ricerca empirico, adatto alle imprese
scientifiche più tradizionali, e si prestano naturalmente ad essere analizzati
mettendo in primo piano l’interazione tra gli individui e tra questi e l’ambiente. La
preoccupazione principale di Chomsky è quella di rivendicare con forza
l’inserimento dello studio del linguaggio e della mente all’interno del dominio delle
scienze naturali. Gli eventi mentali non devono essere considerati portatori di uno
status particolare, dettato principalmente dall’incapacità di una riduzione al
Noam Chomsky – Nuovi orizzonti nello studio del linguaggio e della mente – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
126
‘fisico’, che li differenzia dagli altri eventi del mondo e porta ad un dualismo
metodologico nell’indagine.
Tale dualismo metodologico viene presentato come un rimasuglio ingiustificato
del dualismo metafisico fra corpo e mente, di derivazione cartesiana. Chomsky
presenta argomentazioni che suonano quasi più come una provocazione,
ridefinendo in parte il problema: mentre un’impostazione dualistica aveva un
senso nella cornice della fisica meccanicistica, l’affermazione della fisica
newtoniana ha messo in discussione la formulazione stessa del problema mente-
corpo - e questo non per problemi legati alle nozioni mentali - ma perché in
discussione è la stessa nozione di corpo: posta in un universo di azioni a distanza, al
di fuori della sicurezza della cornice meccanicista, diviene una nozione di difficile
definizione, che compromette la possibilità stessa di formulare sensatamente il
problema del dualismo. Non è comunque il problema dell’irriducibilità del mentale
al fisico a dover inibire un’indagine di stampo naturalista del linguaggio. Il
problema principale nella coordinazione dei vari campi di indagine del reale non
è di carattere riduzionista: molte discipline scientifiche si sono sviluppate
nonostante un’iniziale incompatibilità con la teoria fisica del tempo; la stessa
teoria chimica ha trovato piena compatibilità con la fisica solo nello scorso secolo,
con lo sviluppo della teoria quantistica, e fino ad allora si è sviluppata
indipendentemente. La questione principale è per Chomsky quella
dell’unificazione metodologica: mostrare come, sotto certe condizioni, il mentale
sia passibile di una fruttuosa indagine scientifica. La presenza e la natura delle
connessioni interdisciplinari sono problemi da porsi in seguito, quando una
tipologia di indagine empirica è risultata fruttuosa e promettente. E la messa in
discussione della possibilità di un’impostazione naturalistica nello studio del
mentale, in base alle proprietà peculiari del tipo di eventi osservati, non ha per
Chomsky fondamento. Due sono i tipi di strategie di difesa che utilizza: i problemi
messi in rilievo o sono comuni a molti domini scientifici, o sono inesistenti, perchè
legati a nozioni di senso comune che erroneamente vengono considerate come
essenziali alla caratterizzazione del mentale e che potrebbero invece essere
escluse dagli ingredienti alla base dell’indagine cognitiva.
Noam Chomsky – Nuovi orizzonti nello studio del linguaggio e della mente – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
127
Difatti, se da un lato questioni come la sottodeterminazione empirica delle teorie
sono condivise da ogni dominio scientifico, e non precludono quindi la ricerca,
altri problemi peculiari del dominio mentale sono legati a nozioni tradizionali della
filosofia, ereditate dal senso comune, che possono essere messe in discussione.
Non c’è motivo ad esempio, di presupporre una nozione di ‘riferimento’ che
mette in relazione le entità mentali con entità del mondo reale: la connessione fra
parole e mondo si basa su un complesso intreccio di interessi e tipologie di
interazione, intreccio talmente complesso da rendere inefficace una relazione
diretta fra parole e oggetti del mondo. Analogamente, l’essenzialità di nozioni
psicologiche di senso comune, come credenze e desideri, è una presupposizione
ingiustificata e possiamo lavorare alla ricerca di modelli cognitivi interessanti ed
esplicativi che fanno a meno dell’uso di questi strumenti concettuali. La
conclusione di Chomsky è che l’attribuzione al dominio del mentale di elementi
antinaturalistici non è giustificata. L’attacco qui portato alla filosofia di stampo
quineano proviene chiaramente da una persona esterna al dibattito puramente
filosofico; questo può lasciare a momenti interdetti di fronte ad alcune
argomentazioni. Sebbene si presentino tutt’altro che ingenue, il fatto che tali
argomentazioni non siano vincolate da percorsi delineati dalla tradizione
filosofica, le rende potenzialmente importanti nello scuotere un campo che più
volte ha girato le spalle al confronto con le altre discipline, prima di tutto con la
linguistica, a vantaggio di un uso, spesso ‘spericolato’, degli esperimenti mentali e
di forti idealizzazioni.
Giovanni Casini
128
RECENSIONE
M. Sbisà , Detto non detto – Le forme della comunicazione implicita - LATERZA, 2007
L’opera di Marina Sbisà affronta una ricerca linguistica che
si pone in relazione a temi complessi e di grande attualità. Il
lavoro ha l’intento di fornire strumenti critici ed operativi per
ampliare quelle conoscenze che derivano da quelle
dimensioni del linguaggio contenenti presupposti e
sottintesi. Riconoscere queste dimensioni “nascoste” del
comunicare significa aumentare la comprensione degli atti
linguistici. In sintesi la comunicazione si viene esplicitando
come un insieme di “enunciati presenti e accessibili a vario titolo nello spazio
intersoggettivo tra parlante e interlocutore, attingere al quale si propone come
manovra per approssimare i contesti cognitivi dei partecipanti al contesto
oggettivo” (p. 197). L’analisi dell’Autrice mette così a fuoco il rapporto fra il
contesto inteso nella sua dimensione sia cognitiva che situazionale (oggettiva) e
gli impliciti che vengono trattati come entità di carattere normativo.
Lo studio alterna riflessioni teoriche a ricerche operative. In particolare nel testo si
fa riferimento ad autori il cui lavoro appartiene al contesto della filosofia analitica.
Le ricerche di J. L. Austin offrono all’autrice l’ottica dello studio del linguaggio
ordinario e il concetto di atto linguistico nelle sue dimensioni constative
(descrittive) e performative (relative al compimento di una azione). In particolare
la riflessione si incentra sul concetto di “presupposizione d’esistenza”, rapporto
problematico tra i livelli lucutorio e illocutorio che caratterizzano la dimensione
performativa (p. 29). Sempre nella riflessione critica relativa al tema della
presupposizione, l’analisi affronta il contributo di P. Grice sul principio di
cooperazione che tratta l’attività linguistica come atto razionale e cooperativo e
che riconduce il significato del linguaggio ordinario alle intenzioni del parlante e al
suo conseguente riconoscimento da parte di chi ascolta. La centralità del
Marina Sbisà – Detto non detto: le forme della comunicazione implicita – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
129
parlante viene analizzata ancora nella teoria della presupposizione pragmatica
sviluppata nell’opera di R. Stalnaker. L'autrice affronta quindi lo studio delle forme
della comunicazione con una tesi centrale: la possibilità di distinguere tra
presupposizioni (impliciti accettati in un dato enunciato) e implicature (impliciti
che possono essere inferiti dal fatto che un parlante abbia prodotto un enunciato)
che danno un "senso aggiuntivo o correttivo rispetto a quanto esplicitamente
detto, reso disponibile dal testo" (p. 125). In effetti per Marina Sbisà non si possono
escludere le problematiche relative agli impliciti per affrontare il fenomeno della
comprensione: la dimensione dell'implicito è presente comunque in ogni testo.
L'autrice fa seguire alle riflessioni sulle presupposizioni e sulle implicature due
capitoli con esempi di analisi pragmatica del testo: un attento lavoro di
smontaggio e rimontaggio della superficie testuale, attraverso una prassi centrata
sullo sviluppo di “parafrasi esplicitanti”. Questa opera riconosce dunque una
problematizzazione effettiva verso una "cultura dell'implicito", intesa come
capacità critico-linguistica del soggetto che si trova ad agire il suo essere
comunicativo in una società complessa. Usare la parafrasi esplicitante porta ad
acquisire una abilità linguistica che rende possibile una comprensione più
“profonda” nei confronti sia del linguaggio ordinario sia dei linguaggi specialistici,
quelli scientifici in particolare. Ed è questa prassi accolta come “tensione
quotidiana” che rende effettivo un "esercizio di ragione", che rende possibile una
più vera "costruzione del sapere" (p.203). Un’area tematica toccata a fondo nel
libro è quella relativa alle dimensioni educative connesse agli impliciti.
Gli impliciti sono un argomento problematico. Per Marina Sbisà può presentarsi il
rischio che la comprensione rimanga ad un livello acritico. L’autrice segnala
pertanto la necessità di una opera educativa che favorisca strategie di
esplicitazione che possano garantire livelli di comprensione più profondi e
completi: tema questo oggi molto sentito e particolarmente pressante nella
riflessione pedagogica. L'autrice presenta una sua ricerca sul campo che, partita
dalla misura dei livelli di comprensione di brani di libri di testo per Storia e
Geografia nelle scuole secondarie, ha messo a fuoco l'effettiva necessità ed utilità
Marina Sbisà – Detto non detto: le forme della comunicazione implicita – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
130
di attivare percorsi formativi specifici mirati a sviluppare quelle competenze
linguistiche che stanno alla base della comprensione.
Matteo Borri
131
RECENSIONE
Roberta Lanfredini - Filosofia della conoscenza - Le Monnier, 2007
L’ultimo lavoro di Roberta Lanfredini è, nel senso
etimologico del termine, un’introduzione alla filosofia della
conoscenza. Il suo obiettivo è infatti quello di «far entrare» il
lettore in contatto con i problemi che contraddistinguono la
filosofia della conoscenza e questo in un duplice senso.
Innanzitutto, nel senso in cui si tratta di un testo che invita a
sondare quali sono temi e problemi che caratterizzano la
riflessione gnoseologica: «Che cosa significa conoscere? »
(Parte I); «Come conosciamo? » (Parte II); «Che cosa conosciamo?» (Parte III). Ma
anche, in secondo luogo, nel senso in cui il volume si prefigge di mostrare le
potenzialità esplicative di un metodo – quello teoretico-filosofico – e dei suoi
strumenti concettuali. La peculiarità del testo sta infatti nell’esemplarità – non solo
metodologica, ma anche argomentativa ed espositiva – che distingue Filosofia
della conoscenza da un manuale di tipo tradizionale. Per rendersi conto della
differenza di approccio tra i due generi di introduzione, basta guardare, ad
esempio, al trattamento riservato ai testi classici della storia della filosofia, i quali,
nel lavoro di Roberta Lanfredini, sono presi in considerazione in quanto exempla
metodologici cui viene affidato il compito di mostrare in che modo un certo
problema è stato e può essere affrontato.
Il testo è diviso in tre parti. La prima, di stampo metodologico e definitorio, è
dedicata al problema riguardante che cosa significa conoscere. A partire dalla
sfida lanciata dallo scetticismo, vengono qui prese in esame le principali definizioni
di conoscenza fornite dai pensatori dell’età moderna (Cap. 1). Il razionalismo
cartesiano, l’empirismo riduzionistico humeano, l’immaterialismo di Berkeley, ma
anche la fenomenologia husserliana e la nuova filosofia della scienza, vengono
riletti attraverso la distinzione tra «conoscenza come immagine delle cose» (Cap.
Roberta Lanfredini – Filosofia della conoscenza – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
132
2) e «conoscenza come costituzione» (Cap. 3). Nella seconda parte è il problema
epistemologico riguardante come conosciamo a divenire oggetto di analisi.
Innanzitutto, a partire dalla questione del ruolo che l’intuizione gioca nella
conoscenza, è il rapporto tra forma e contenuto che viene analizzato seguendo
un’argomentazione che vede nelle critiche alle teorie dell’astrazione il suo centro
nevralgico. È poi sulla proposta husserliana di una fenomenologia come scienza
del dato e della singolarità che si sofferma l’attenzione dell’autrice (Cap. 4). Se
l’intento è quello di descrivere come conosciamo, di centrale importanza è
comprendere che tipo di relazione lega la realtà sia alle nostre conoscenze sia al
linguaggio. Il primo problema viene affrontato attraverso un’analisi convergente
delle nozioni di asserzione protocollare (Carnap), constatazione (Schlick) ed
espressione occasionale (Husserl). Il secondo, invece, è trattato concentrando
l’attenzione sulle cosiddette teorie del riferimento (soprattutto Putnam e Searle).
Particolare attenzione è qui dedicata ai problemi dello sfondo e del contenuto
non concettuale (con particolare riferimento a Sellars e Mc Dowell)(Cap. 6). Infine,
la terza parte rappresenta il controcanto ontologico della prima. In essa sono i
problemi riguardanti l’individuazione dell’oggetto del conoscere e la definizione
del termine realtà ad essere affrontati. Le prospettive che consentono di farlo
sono, non solo quella che fa riferimento all’impostazione critico-trascendentale di
stampo kantiano – l’oggetto è un misto di passività e spontaneità – e quella
proposta dalla fenomenologia husserliana nelle analisi dedicate all’enigma della
trascendenza, ma anche il realismo interno di Putnam e Searle. Il testo si conclude
mostrando come il problema del rapporto mente-mondo può essere affrontato
parallelamente e simmetricamente a quello riguardante il legame che
intrattengono mente e cervello, nell’ambito del dibattito sul mind-body problem
(Cap. 7). Nonostante la quantità e l’eterogeneità dei temi trattati da Roberta
Lanfredini in Filosofia della conoscenza ne rendano difficile una sintesi esaustiva, è
possibile individuare gli elementi portanti su cui si regge la struttura espositiva e
concettuale del testo in una serie di tesi strettamente connesse le une con le altre.
Iniziamo dalla nozione centrale e fondamentale di giustificazione epistemica. Se ci
si attiene alla definizione di conoscenza come credenza vera e giustificata da cui
Roberta Lanfredini – Filosofia della conoscenza – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
133
muove l’intero testo, al centro del lavoro di chi si occupa teoreticamente del
problema della conoscenza sta il tentativo di rendere conto degli strumenti
metodologici, concettuali e argomentativi attraverso i quali è possibile giustificare
le nostre credenze. La tesi da cui muove l’intero lavoro sembra essere quella
secondo cui lo strumento metodologico attraverso il quale giustifico le mie
credenze e seleziono le mie conoscenze pregiudica (1) la definizione di che cosa
significa conoscere ( Parte I) e (2) l’individuazione di che cosa siamo in grado di
conoscere (Parte III). Esempi di tali strumenti di giustificazione e di selezione delle
credenze sono il dubbio scettico e l’Epochè fenomenologica. Le pagine del
lavoro di Roberta Lanfredini sono organizzate facendo perno su queste due
alternative. La tesi che regge l’intero percorso tracciato nel testo può quindi
essere riformulata in questo modo: se decido di avviare una teoria della
conoscenza attraverso il dubbio scettico, o se decido di utilizzare il complesso
strumentario metodologico dell’Epochè, sono portato ad elaborare risposte
sostanzialmente differenti ai problemi (1) di che cosa significa conoscere e (2) di
che cosa sono in grado di conoscere. Se si decide, come fa Cartesio, di fare uso
dello strumento del dubbio scettico, ovvero se si inizia mettendo in dubbio
l’esistenza del mondo – nel pieno delle sue caratteristiche sensibili e intelligibili –,
allora si arriva a negare il mondo e, così facendo, si rimane intrappolati nella sfera
della pura coscienza. Evidente è solo l’immanenza assoluta, ovvero il cogito. È in
questo modo, attraverso l’uso del dubbio, che si arriva a duplicare il mondo in un
interno affidabile e in un esterno per essenza inattingibile. Conoscere il mondo
significa duplicarlo. Una tale definizione di che cosa significa conoscere può
essere criticata da una duplice prospettiva (1) epistemologica – critica al valore
conoscitivo delle immagini – e (2) ontologica – critica alla nozione di realtà che ne
deriva – . (1) Da un punto di vista epistemologico l’uso del dubbio scettico ha forti
ripercussioni anche su posizioni filosofiche estremamente eterogenee rispetto a
quella cartesiana. È ciò che avviene ad esempio nel caso del riduzionismo
humeano, stando al quale la conoscenza non è rivolta al mondo, ai suoi oggetti o
ai suoi stati di cose, bensì alle sole idee, intese come contenuti di coscienza; ma
anche in quello dell’immaterialismo di Berkeley, per il quale la relazione di
Roberta Lanfredini – Filosofia della conoscenza – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
134
immagine può valere solo tra idea e idea e non tra idea e cosa – esse est percipi,
è impossibile separare l’essere di una cosa dal suo essere percepita –.
L’immaterialismo sembra essere la conseguenza naturale e coerente dell’uso del
dubbio scettico e di tutte le filosofie che intendono la conoscenza come
duplicazione.
(2) Dal punto di vista ontologico, la nozione di realtà fatta propria dalle
gnoseologie che fanno uso del dubbio scettico è una nozione metafisica e
assoluta. La realtà diventa un esterno che, una volta separato dall’interno, non
può che essere irraggiungibile. Le immagini che stanno nella coscienza e che
riteniamo essere l’unica certezza, non ne forniscono infatti se non una copia
sbiadita, di cui non è possibile valutare l’affidabilità. Chi prende le mosse da un
atteggiamento di tipo scettico non può che approdare a soluzioni altrettanto
scettiche. Un esempio di inizio alternativo è rappresentato dal meccanismo
fenomenologico delle riduzioni. Si tratta di un meccanismo che, se applicato,
anziché negare il mondo, lo mantiene, partendo dal presupposto che esso si dà
alla coscienza secondo determinate modalità. L’obiettivo che si impone all’analisi
filosofica diventa quindi la descrizione di come la coscienza stessa riesca a dare
forma agli oggetti, come possa costituirli. In sintesi il verbo conoscere non è più
sinonimo di duplicare, ma di costituire. L’ambito della trascendenza non deve
essere inteso come esistenza effettiva ed assoluta, ma come presenza
intenzionale, ossia relazionale e costitutiva. La teoria dell’intenzionalità ha infatti
l’obiettivo di fornire “una trattazione articolata di esperienza, che distingua tra
processo soggettivo dell’esperire e oggetto esperito, sentire e sentito, fra
percezione e percepito” (pag. 60). In questo modo, (1) se guardiamo ai prodotti
dell’attività conoscitiva, se assumiamo cioè un punto di vista epistemologico, le
nostre conoscenze non sono più immagini, esse non sono una copia della realtà,
mentre, (2) se assumiamo un punto di vista ontologico, la realtà stessa non è più
un qualcosa d’irraggiungibile, ma è per noi in quanto possibile oggetto di
esperienza che si costituisce nella coscienza. Quella delineata fino a questo punto
sembra essere l’ossatura argomentativa dell’intero lavoro di Roberta Lanfredini. Se
si volesse metterne in discussione l’impianto generale, ovvero se si volesse pensare
Roberta Lanfredini – Filosofia della conoscenza – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
135
un’introduzione alternativa alla filosofia della conoscenza, bisognerebbe ripartire
dal modo in cui nel testo viene considerato il processo di giustificazione
epistemica e, quindi, dalla scelta dei dispositivi metodologici che utilizziamo per
portarlo a termine. Altra possibilità potrebbe consistere nel suggerimento, ancora
tutto da mettere alla prova, di spostare l’accento delle elaborazioni
gnoseologiche da una logica che fa capo a meccanismi di giustificazione a una
incentrata su quelli di scoperta. Suggerimenti interessanti a riguardo si trovano, ad
esempio, nei lavori di Hanson, Peirce, Newell, Simon e Schaffner. Entro l’ampio
quadro prospettico di riferimento in cui si muove Filosofia della conoscenza, è
possibile individuare un atteggiamento attento all’importanza del punto di vista
soggettivo, in campo gnoseologico, in antitesi nei confronti di tendenze
obiettivistiche, fisicalistiche, ma anche spiritualistiche di vario genere e grado.
L’atteggiamento di pensiero che pervade il testo si ispira a motivi di tipo
essenzialmente antiriduzionistico, nell’accezione stando alla quale può dirsi
antiriduzionista un atteggiamento che nutre un certo rispetto – ontologico ed
epistemologico al contempo – per la complessità del reale e per i diversi modi che
possediamo di dirlo e conoscerlo. Il testo mostra infine come, facendo uso di
astrazioni doverose ma caute, tale complessità possa essere adeguatamente
affrontata.
Guido Caniglia
136
RECENSIONE
Alberto Peruzzi - Il Significato inesistente - Firenze UNIVERSITY Press, 2004
È probabilmente un compito delicato parlare di un
volume come “Il significato inesistente”. Talvolta capita di
imbattersi in raccolte di saggi o lezioni, la cui estensione
enciclopedica serve solo ad appesantirne la lettura,
offuscandone la comprensione, questo non è il caso del
manuale in questione che pone al centro dell’indagine il
complesso tema del significato. Lo sviluppo di questa
nozione è stato affrontato con perizia e completezza ed
è difficile produrre considerazioni critiche in merito.
L’autore riesce a fotografare, anzi a filmare, con sintetica ma esaustiva
completezza ogni aspetto legato alle indagini attorno alla semantica, dalle prime
ipotesi d’inizio novecento sulla natura del linguaggio e sul suo ruolo antropologico,
fino all’avvento di inquadramenti più settoriali. All’interno dell’opera Alberto
Peruzzi affrontata le analisi linguistiche legate alle formulazioni logico-
matematiche e il loro successivo adattamento in seno alla psicologia, fino
all’avvento dei modelli computazionali, ovvero alle ipotesi sulla natura delle
attività intellettuali nell’orizzonte della sintassi e della semantica formulate dai
teorici dell’intelligenza artificiale e infine le recenti teorie sulle reti neurali, quale
modello dell’elaborazione coerente e conseguente dell’informazione. L’opera
mira nel suo insieme a supportare la tesi secondo la quale le capacità
semantiche sarebbero radicate all’interno di un orizzonte naturalistico, e punta a
sottolineare il ruolo svolto dall’ambiente e dalle capacità motorie e recettive
nell’influenzare e selezionare la strutturazione di categorie “astratte”. Il taglio
linguistico adottato dall’autore possiede il merito di alleggerire la trattazione,
adottando in alcuni punti toni vicini alla narrativa che permettono l’emergere di
un impegno assunto in prima persona, alla maniera dell’autobiografia
intellettuale, rendendo la presenza dell’autore quasi palpabile, al limite
dell’orizzonte dialogico.
Alberto Peruzzi – Il significato inesistente – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
137
Capita a volte che siano introdotte nozioni il cui impiego diviene risulta smarrirsi
nel corso dell’opera, o che certi inquadramenti teoretici vengano presentati
presupponendone già una conoscenza di livello accademico. Inevitabile il taglio
introduttivo dato alla teoria delle categorie, anche se il breve cenno che se ne fa
risulta sufficientemente chiaro per comprendere l’evoluzione che questa
concezione rappresenta rispetto alla teoria insiemistica.
Tutto questo non poteva essere svolto, in termini di pagine, con maggiore brevità;
quanto è stato scritto è quello che necessita per tracciare un quadro esauriente,
senza soluzione di continuità tra la totalità delle lezioni riportate nel testo. Inoltre le
singole parti sono fruibili con assoluta autonomia, in modo da non richiedere
necessariamente la lettura integrale del volume; caratteristica che ne fa un ottimo
esempio di manuale per corsi universitari di filosofia del linguaggio, o
un’occasione per chi riscopre ogni tanto il piacere di rinvigorire la conoscenza di
competenze altrimenti destinate a inaridirsi.
Fabio M. Vannini
138
RECENSIONE
DIEGO MARCONI - PER LA VERITÀ. RELATIVISMO E FILOSOFIA - EINAUDI, 2007
Col saggio Per la verità. Relativismo e filosofia Diego Marconi
entra nel vivo del dibattito su verità e relativismo che, da un po’
di tempo, anima “l’arena pubblica” e lo fa sfruttando le sue
competenze di filosofo del linguaggio. Infatti l’autore pensa che
questo argomento sia uno di quelli su cui i filosofi possano, per
preparazione personale, esprimere la loro opinione. È così che
egli precisa innanzitutto quali siano i termini della questione:
nonostante non ci sia una teoria filosofica della verità che sia
unanimemente condivisa, la discussione su questo argomento ha raggiunto dei
risultati non irrilevanti. Ad esempio possiamo affermare che è utile distinguere tra
verità, credenza, conoscenza e certezza; che il nostro uso comune della parola
“vero” deve corrispondere a certi requisiti; che le giustificazioni di una verità
possono essere figlie del tempo in cui vengono asserite, ma allo stesso tempo
quando diciamo che un’asserzione è giustificata, c’impegniamo anche a ritenerla
vera. In particolare Marconi sembra difendere il valore di una ricerca che non è
fine a se stessa, affermando che, se davvero pensassimo che non c’è nessuna
verità da trovare o che è impossibile trovarla (è la cosiddetta drammatizzazione
della verità), smetteremmo di cercare, così come non si cerca più il moto
perpetuo o la quadratura del cerchio. Questa analisi preliminare del significato di
“vero” permette a Marconi di passare ad occuparsi dei relativismi, termine che
preferisce usare al plurale perché, a suo parere, esistono molte accezioni di
questo concetto che non sono riconducibili ad una sola forma. C’è un relativismo
epistemico secondo cui i criteri di giustificazione delle credenze sono o possono
essere diversi da epoca a epoca, da società a società, da persona a persona, e
non ci sono dei metacriteri che ci permettano di scegliere tra di essi; c’è un
relativismo concettuale, in base al quale gli schemi concettuali adottati
determinano quali proposizioni possano essere vere e quali false; c’è anche la
posizione di coloro che ritengono che non esistano fatti, ma solo interpretazioni e
Diego Marconi – Per la verità. Relativismo e filosofia– Humana.Mente 4, Febbraio 2008
139
che i presunti fatti siano resi inconsistenti dall’essere “sospesi su un abisso di
possibilità”. Marconi contesta quest’ultima teoria perché, a suo parere, la
possibilità di un’alternativa non è un’obiezione. Inoltre la pluralità di alternative, a
differenza di quanto sostengono alcuni, non rappresenterebbe un modo sicuro
per poter scegliere l’opzione migliore: le preferenze possono essere deplorevoli e
produrre scelte esecrabili. Seguendo questa linea, Marconi introduce una
specificazione ulteriore, cioè il cosiddetto pluralismo dell’equivalenza: le diverse
alternative sono equivalenti, hanno lo stesso valore, o comunque non è possibile e
ragionevole istituire tra di esse una gerarchia assiologica. Tutte queste posizioni
non rappresentano pienamente il relativismo che, per Marconi, s’esprime
pienamente nel soggettivismo assiologico e della verità: se qualcosa non è
riconosciuto da me come valore, non è affatto un valore (per me),
indipendentemente dal fatto che altri lo riconoscano come tale. In conseguenza
di ciò il relativista morale ritiene che la sua forma di vita, ma anche quella degli
altri, non siano giudicabili, proprio perché manca un punto di vista superiore in cui
collocarsi per giudicarle. L’autore ritiene assai debole questo “rispetto
astensionista” predicato dai relativisti, perché i valori, a suo dire, esigono di essere
messi a confronto e, contestualmente, non possiamo abbandonare neanche il
concetto di verità ed aderire al relativismo scettico. Infatti egli pensa che la nostra
vita si basi sul presupposto che la maggior parte delle affermazioni dei nostri
interlocutori siano non solo sincere, ma anche vere. Se in campo etico o religioso è
difficile trovare opinioni le cui giustificazioni siano riconosciute unanimemente
come solide, non c’è ragione però di estendere la diffidenza al concetto di verità
in generale.
Viene inoltre contestata l’idea che il relativismo scettico sia la sola giustificazione
possibile per una politica di tolleranza e di pace: per essere tolleranti non è
necessario pensare che la verità non esista, basta ricordare i frutti negativi
dell’intolleranza. D’altra parte il filosofo accusa di fondamentalismo coloro che
credono in valori assoluti. A mio papere, la questione potrebbe essere articolata in
maniera più complessa, considerando anche la posizione di chi crede in valori
universali senza volerli imporre ad altri. In conclusione Diego Marconi con questo
suo lavoro non ha voluto esporre una nuova teoria della verità, ma, come afferma
Diego Marconi – Per la verità. Relativismo e filosofia– Humana.Mente 4, Febbraio 2008
140
egli stesso nell’introduzione del libro, ha cercato di mettere un po’ d’ordine,
“richiamando distinzioni e argomentazioni ben note, ma forse non proprio a tutti; e
comunque, a quanto pare, spesso dimenticate”.
Stefano Liccioli
141
RECENSIONE
S. MITHEN - IL CANTO DEGLI ANTENATI. LE ORIGINI DELLA MUSICA, DEL LINGUAGGIO, DELLA MENTE E
DEL CORPO - CODICE, 2007
Il titolo dell’ultimo lavoro di Steven Mithen, Il canto degli
antenati. Le origini della musica, del linguaggio, della mente
e del corpo, ne individua immediatamente i nuclei tematici.
L’archeologo britannico propone infatti un’analisi delle
origini del linguaggio, stando alla quale, solo se si tiene
conto del ruolo che la musica ha nell’evoluzione delle forme
di comunicazione, si può comprendere come, a un certo
punto della sua storia, l’uomo abbia cominciato a
comunicare linguisticamente. Porre l’accento su una forma
di comunicazione non verbale quale la musica per gettare
luce sulle caratteristiche del linguaggio rende necessario prendere in considerazione
molteplici caratteristiche dell’essere umano: la sua mente, il suo copro, le sue capacità
motorie, la sua anatomia, le sue emozioni e via dicendo.
A livello metodologico Il canto degli antenati si muove su un doppio binario che non
sarebbe sbagliato definire statico-genetico. Nello spiegare il fenomeno del linguaggio,
infatti, pari dignità viene assegnata a prove e indagini che provengono da discipline che
si occupano sia di come l’uomo è ora sia di come era migliaia di anni or sono. In altri
termini, si capisce che cosa è e a che cosa serve il linguaggio, solo se si tiene conto del
fatto che esso si è evoluto da forme di comunicazione prelinguistica. Il testo è
caratterizzato, inoltre, da un approccio spiccatamente interdisciplinare che vede nella
psicologia dello sviluppo, nella paleontologia, nell’etologia, nonché nella primatologia e
nella linguistica - quest’ultima nella doppia veste di disciplina teorica e applicata - le
principali fonti di argomenti, ragionamenti e prove.
Il testo è infatti diviso in due parti. Alla prima, Il presente (Capitoli 2-7), è affidato il compito
di indagare le caratteristiche possedute dalle forme di comunicazione sia musicale che
linguistica al giorno d’oggi. In particolare musica e linguaggio, in quanto forme di
comunicazione, vengono analizzate nelle loro caratteristiche di similarità e differenza
(Cap. 2). È, poi, sui casi clinici di perdita di capacità linguistiche – afasia linguistica –
Silvana Borutti, Luigi Perissinotto – Il terreno del linguaggio – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
142
(Cap.3) o musicali – amusia – (Cap. 4) che si sposta l’attenzione. Dopo essersi soffermato
sulla possibilità di localizzare nel cervello i moduli musicali (Cap. 5), Mithen passa ad
analizzare le forme di comunicazione utilizzate dagli adulti per parlare con i bambini
prelinguistici (Cap. 6). L’ultimo capitolo della prima parte si occupa dell’importantissimo
ruolo che la musica ha sia a livello di rapporti inter-persononali sia nella creazione di
legami sociali: la musica serve infatti a comunicare e trasmettere emozioni.
La seconda parte, Il passato (Capitoli 8-17), è dedicata all’indagine storico-evolutiva degli
aspetti del linguaggio individuati nella parte precedente. Il primo capitolo ha per oggetto
i sistemi di comunicazione delle scimmie antropomorfe e funge da ponte per un rimando
al nostro remoto passato evolutivo. I sistemi di comunicazione delle scimmie sono infatti
molto simili a quelli dei nostri antenati e, pertanto, la loro analisi può risultare
estremamente utile al fine di individuare come le nostre capacità linguistiche si sono
evolute (Cap. 8). È quindi all’evoluzione della comunicazione negli ominidi che Mithen
rivolge l’attenzione, facendo vedere come il bipedismo ha notevolmente influenzato lo
sviluppo di particolari forme di comunicazione (Capitoli 9-15). È infine all’Homo Sapiens e
al percorso che dal protolinguaggio, attraverso una biforcazione evolutiva, ha condotto
allo sviluppo della musica e del linguaggio verbale che sono dedicate le ultime pagine
del libro (Capitoli 16-17).
Dopo aver esposto sinteticamente i principali passaggi dell’argomentazione, è possibile
concentrare l’attenzione su due tesi dalle ricadute particolarmente significative dal punto
di vista filosofico. La prima riguarda l’importanza da attribuire allo studio dell’origine
evolutiva del linguaggio per poterne comprendere le caratteristiche; la seconda
concerne il ruolo della corporeità nella comunicazione linguistica e musicale.
1) Dalla particolare impostazione statico genetica che caratterizza il testo (dal presente al
passato, dal passato al presente), emerge una tesi di fondamentale importanza: musica e
linguaggio hanno lo stesso precursore evolutivo, ovvero un sistema di comunicazione che
ha caratteristiche comuni a entrambe e che, a un certo punto della storia evolutiva
umana, si è disgregato dando vita a due diversi sistemi di comunicazione.
Pertanto è alle caratteristiche di questa forma di comunicazione prelinguistica che
bisogna guardare se si vogliono comprendere le caratteristiche che il linguaggio
possiede. Il proto-linguaggio (Hmmmm) è un sistema di comunicazione non composto da
parole, ma da messaggi che si presenta come: olistico (holistic), nel senso che le
Silvana Borutti, Luigi Perissinotto – Il terreno del linguaggio – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
143
espressioni multisillabiche che lo compongono non sono scomponibili in sottounità
significanti; manipolativo, poiché non ha lo scopo di comunicare cose sul mondo, bensì
quello di spingere all’azione o di provocare particolari stati emotivi; multimodale, nel
senso che coinvolge diversi moduli cognitivi ed emotivi; mimetico, poiché, attraverso
rapporti sinenstetici e onomatopeici, imita sia i suoni naturali sia quelli dei versi animali;
musicale.
Il problema sta nel vedere come, da questo tipo di comunicazione, si sia passati a forme
linguistiche e verbali di comunicare e dire il mondo. Il processo consiste in due movimenti:
(a) la segmentazione e (b) la creazione di espressioni dal valore simbolico. La
segmentazione consiste nello spezzettamento dei messaggi del protolinguaggio in
espressioni più piccole e di valore significante. Inoltre, è attraverso la donazione di un
significato simbolico e referenziale alle parole – ovvero attraverso la produzione di
espressioni utilizzate con riferimento a cose e stati di fatto – che il linguaggio si trasforma in
un sistema di comunicazione composizionale.
La differenza tra linguaggio e musica è che quest’ultima non utilizza simboli. Le note
musicali, vale a dire le unità minime di una melodia, infatti, non rappresentano nulla.
Tuttavia, la differenza fondamentale tra i due sistemi di comunicazione consiste nel loro
diverso ruolo comunicativo: il linguaggio, riferendosi al mondo, serve a comunicare
informazioni, mentre la musica, essendo un sistema manipolativo e non referenziale di
natura olistica, ha il compito essenziale di suscitare e trasmettere emozioni. Essa è tanto
pervasiva da riuscire a catalizzare quelle reazioni che consentono il disgregamento di un
forte senso dell’io in favore di un collettivo senso del noi.
2) Data l’impostazione essenzialmente interdisciplinare del testo di Mithen, è doveroso
fare qualche osservazione su come argomenti e testimonianze appartenenti a discipline
extrafilosofiche possano supportare tesi che riguardano concetti di tipo schiettamente
filosofico. Nella struttura argomentativa e concettuale del testo è possibile infatti
riscontrare, in alcuni casi, una forte discrepanza tra le trattazioni particolari e le tesi più
generali che tali osservazioni pretendono di supportare. Quando entrano in gioco le
nozioni di corpo, gene e cervello, da prove e testimonianze di vario genere, Mithen
compie salti categoriali un po’ ingenui verso nozioni estremamente complesse che,
proprio per questo, dovrebbero essere utilizzate e spiegate con maggiore cautela.
Silvana Borutti, Luigi Perissinotto – Il terreno del linguaggio – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
144
Ad esempio, nelle primissime pagine del libro l’archeologo Mithen scrive che: “Anziché
rivolgerci ai fattori sociologici o storici, possiamo spiegare la propensione umana a
produrre musica e fruirne solo riconoscendo che essa è stata codificata all’interno del
genoma umano nel corso della storia evolutiva della nostra specie. Come, quando e
perché sono i misteri che mi propongo di risolvere.” (pag. 3). In realtà se si tiene conto di
quanto emerge dalle analisi contenute nel testo, questo proposito non viene soddisfatto
e, sugli stessi argomenti, emergono suggerimenti e prospettive, a dire il vero, più
interessanti e stimolanti. Mithen, infatti, sembra suggerire l’esistenza di una complessa
relazione tra la nostra corporeità – non intesa fisicalisticamente – e la nascita del
linguaggio e della musica. Tale relazione è complessa poiché estremamente complessi
sono entrambi i termini che la compongono. La nozione di corporeità, infatti, fa
riferimento a un corpo che si muove e desidera, agisce e si evolve in relazione
all’ambiente o in riferimento a esigenze dettate dal contesto sociale. Se la nozione di
base fisico-biologica si intende in relazione a tale nozione di corporeità, è possibile
acconsentire con Mithen quando egli scrive che “La musica è profondamente radicata
nella nostra biologia” (pag. 7 ). Infatti, il corpo ha un ruolo fondamentale nella
sincronizzazione motoria, nell’espressione delle emozioni o nell’intrattenimento di legami
interpersonali. Il suggerimento più interessante, che parla contro semplicistici processi di
localizzazione e riduzione, emerge ad esempio dalle analisi sul bipedismo. È infatti grazie
all’evoluzione dell’intero organismo che le facoltà musicali e linguistiche degli ominidi
possono svilupparsi. È l’intero corpo, l’intero organismo che si modifica e rende possibile
l’evoluzione di alcune facoltà piuttosto che di altre.
Mithen sembra pertanto suggerire che, per comprendere l’origine di musica e linguaggio,
ma anche per capire come essi funzionano, a che cosa servono e perché ne facciamo
uso, bisogna tenere in considerazione l’intera anatomia umana: la musica e il linguaggio
non esistono né sono pensabili se non in relazione ad un corpo che si muove, appetisce e
soffre. In questo senso non si può che concordare con Blacking, secondo il quale, il
fondamento di tutti i processi essenziali della musica – ma, si potrebbe aggiungere a
questo punto, anche del linguaggio – va ricercato nell’intero corpo umano e non
semplicemente nel suo genoma o nel suo cervello.
Guido Caniglia
145
RECENSIONE
SILVANA BORUTTI, LUIGI PERISSINOTTO (A CURA DI)
- IL TERRENO DEL LINGUAGGIO. TESTIMONIANZE E SAGGI SULLA FILOSOFIA DI WITTGENSTEIN -
(CAROCCI, ROMA 2006)
Nella prefazione di questo libro i due curatori mettono in
evidenza gli intenti che hanno portato alla stesura del
volume, nato da una collaborazione tra alcuni studiosi
dell’Università della Provenza, dell’Università di Pavia e
dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Le riflessioni sulla
filosofia di Wittgenstein vengono svolte in tre direzioni. In
primo luogo si tratta di ripensare «le fonti, gli incontri, le
suggestioni»1 che hanno portato alla formazione del
pensiero del filosofo. Per un altro verso la maggior parte
degli autori cerca di uscire dalle mere ricostruzioni del suo pensiero per cercare di
«tornare ad interrogare le mosse filosofiche wittgensteiniane nelle loro ragioni,
nelle loro tensioni, anche nei loro limiti e nelle loro, per così dire, inadempienze»2. In
terzo luogo il volume si propone di reinserire Wittgenstein nel dibattito filosofico
contemporaneo:
Troppe celebrazioni lo hanno allontanato dall’odierno filosofare; troppi facili formulari –
giochi linguistici, forme di vita – lo hanno reso più un repertorio a cui attingere o un padre
fondatore in cui trovare legittimità che un filosofo che ancora dà da pensare. La sfida che
qui si raccoglie è che Wittgenstein non sia consegnato ad un glorioso passato, ma che
possa essere uno stimolo fecondo anche per chi non si riconosce più, per esempio, nel suo
antimentalismo o nella sua diffidenza nei confronti di ogni dimensione teorica nella
filosofia3.
Gli autori sottolineano altri due meriti del libro: da una parte esso è la
dimostrazione che la discussione su Wittgenstein ha raggiunto in ambito francese
e italiano una maturità inimmaginabile qualche decennio fa; dall’altra mostra
come in esso «convivano e dialoghino autori che, dal punto di vista delle facili
Silvana Borutti, Luigi Perissinotto – Il terreno del linguaggio – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
146
etichette, appartengono a orientamenti filosofici diversi, analitici alcuni,
continentali gli altri»4.
Il testo è diviso in due parti. La prima è dedicata alle testimonianze di alcuni
studiosi che hanno contribuito a far conoscere in Italia, attraverso saggi e
traduzioni il pensiero di Wittgenstein. Amedeo G. Conte, Tullio De Mauro, Aldo
Giorgio Gargani, Diego Marconi, Michele Ranchetti narrano le circostanze
personali, culturali e filosofiche che li hanno portati alo studio e
all’approfondimento della filosofia di Wittgenstein. Gargani per esempio racconta
della sua prima scoperta del Tractatus Logico Filosoficus, durante il primo anno di
liceo e poi alla Scuola Normale Superiore di Pisa grazie alle lezioni di Francesco
Barone e all’incontro con Giulio Lepschy, entrambi fondamentali per il suo
orientamento di studio verso la filosofia analitica e il pensiero di Wittgenstein, che
egli ebbe poi modo di approfondire all’Università di Oxford sotto il tutorato di uno
dei più noti specialisti del pensiero del filosofo, Bernard Francis McGuinnes. Diego
Marconi invece ricorda le lezioni su Wittgenstein del giovane e brillante assistente
di Pareyson, Gianni Vattimo, e della sua proposta di laurearsi con una tesi sul
filosofo. Michele Ranchetti ricorda ancora la passione per Wittgenstein condivisa
con uno studioso dell’Università di Firenze, Marino Rosso, una passione comune
che li porta a quella che Ranchetti definisce « la nostra grande avventura
wittgensteiniana durata quindici anni»5. Egli rievoca inoltre i suoi incontri con Yorick
Smythies, uno degli allievi più cari a Wittgenstein, e con la fidanzata Margherite
Respinger di cui il filosofo parla nel suo diario recentemente scoperto e tradotto
proprio da Ranchetti. La seconda parte raccoglie invece alcuni saggi che
prendono in esame taluni aspetti della filosofia di Wittgenstein: dalla questione
dello psicologismo a quella dell’antirealismo, dall’etica alla logica, dal rapporto
con Russell all’empirismo.
Chiara Erbosi
Note
Silvana Borutti, Luigi Perissinotto – Il terreno del linguaggio – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
147
1. S. Borutti, L. Perissinotto (a cura di), Il terreno del linguaggio. Testimonianze e saggi sulla filosofia di Wittgenstein, Carocci Editore, Roma, 2006, p. 9.
2. Ibid.
3. Ivi, p. 9-10.
4. Ibid.
5. Ivi, p. 53
148
RECENSIONE
A. TAGLIAPIETRE - LA VIRTÚ CRUDELE. FILOSOFIA E STORIA DELLA SINCERITÀ - EINAUDI, 2003
In questo libro l’autore traccia una storia del concetto di
sincerità cominciando con l’analizzarne i vari significati.
In un primo senso la sincerità è veridicità: «il dire la verità – o
meglio, ciò che si ritiene sia la verità – ai nostri interlocutori,
appare come il livello più ampio, semplice ed elementare
della sincerità»1. La veridicità è affermare ciò che si pensa o
si ritiene vero, il far corrispondere le parole al pensiero.
Un secondo significato di sincerità è la veracità, cioè il comportarsi negli atti e nei
fatti coerentemente a come ci si esprime. «La veracità è essere conseguenti alla
verità. Non ci si limita a dire ciò che si pensa vero ma si fa come si dice, perché
nella prospettiva della veracità le parole sono fatti»2. Mentre il veridico dice la
verità sulle cose, il verace, non solo testimonia la verità con le parole, ma anche
con gli atti.
Questi due significati di sincerità riguardano strettamente il rapporto con gli altri.
Ma c’è un terzo modo di intendere la sincerità, che riguarda invece il rapporto
con se stessi: l’autenticità, che è «espressione di sé e dinamica del divenire ciò che
si è»3.
Cosi Tagliapietra descrive nell’introduzione del suo libro la nozione di autenticità:
Se nelle parole e negli atti possiamo anche disvelare i nostri pensieri agli altri e comunicare
loro ciò che crediamo sia la verità, gli unici testimoni di questa effettiva sincerità siamo
sempre noi stessi. Solo introspettivamente, infatti, nel dispiegarsi di quello spazio metaforico,
concavo e speculare, che la tradizione filosofica chiama, di volta in volta, con i nomi di
anima, interiorità, io, soggetto, persona, coscienza individuale, ecc., sappiamo con quale
intenzione diciamo le cose che diciamo e facciamo le cose che facciamo4.
Andrea Tagliapietra – La virtú crudele: filosofia e storia della sincerità – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
149
L’autenticità dunque è la sincerità con se stessi, è
quell’accordo interno che ci impone come un dovere morale, e ancor di più, come
un’irrinunciabile esigenza del nostro io e della nostra personalità individuale l’essere
autentici, il realizzare noi stessi, il riconoscersi e il farci riconoscere dagli altri per quello che
veramente siamo5.
Dunque intesa come autenticità, la sincerità abbandona ogni criterio di verità nei
confronti degli altri configurandosi come la ricerca di essere ciò che siamo. La
prima parte del libro intitolata Il lessico della sincerità è quindi dedicata
all’indagine linguistica ed etimologica dei termini che ruotano intorno al concetto
di sincerità, dalla veridicità alla veracità, dalla naturalità all’autenticità. Le altre
quattro parti sono invece dedicate, secondo una sequenza storica, all’analisi del
concetto di sincerità nel pensiero filosofico occidentale. In Archeologia della virtù
Tagliapietra si sofferma sulla genealogia della sincerità nel pensiero classico e
medioevale per passare nei capitoli successivi allo studio delle implicazioni
moderne di tale concetto: se infatti nell’antichità la sincerità si configura come la
virtù morale dell’adeguamento esteriore delle parole alle azioni, con l’età
moderna e sempre più in epoca contemporanea la sincerità diventa il modo di
essere dell’individuo attraverso la quale egli afferma la propria singolarità e la
propria autenticità. Tutto lo studio dell’autore è condotto attraverso l’analisi dei
grandi testi della filosofia e dei grandi autori della letteratura, da Shakespeare a
Molière, da Stendhal a Dostoevskij, da Baudelaire e Conrad a Ibsen e Pirandello.
Chiara Erbosi
Note
1. A.Tagliapietra, La virtù crudele. Filosofia e storia della sincerità, Biblioteca Einaudi Torino, 2003, p.3.
2. Ivi, p.30.
3. Ivi, p.43.
4. Ivi, p.IX.
5. Ivi, p.X.
150
RECENSIONE
GASPARE POLIZZI - GALILEO IN LEOPARDI - (LE LETTERE, FIRENZE 2007)
Nel suo Galileo in Leopardi Polizzi conduce un’attenta indagine, diretta a
evidenziare la presenza della figura, dello stile e del pensiero di Galileo nell’opera
di Giacomo Leopardi. La ricerca prende avvio dalle letture del giovane Leopardi,
per poi proseguire nei suoi scritti giovanili, quindi nelle opere della maturità, edite e
inedite. Ciò che emerge è un quadro diverso da quello che risulta dalla comune
ricezione degli scritti leopardiani, secondo la quale la presenza di Galilei, almeno
per quanto riguarda le opere pubblicate in vita, sarebbe “marginale e non
particolarmente significativa”(p. 5). Leopardi si accosta alla figura di Galileo fin
dalle letture giovanili: a questo proposito Polizzi ricorda la circostanza di un
contatto diretto con le sue Opere, presenti nella biblioteca monaldiana
nell’edizione del 1744, ma soprattutto ricostruisce minuziosamente il rapporto con
tutta una serie di fonti collegate alla stesure delle prime opere scientifiche di
Leopardi, prima fra tutte la Storia della Astronomia. Così facendo l’autore struttura
un primo sistema di riferimenti, dal quale risulta che la vita e l’opera di Galilei
furono presenti al poeta di Recanati in più versioni e interpretazioni, che sono però
accomunate da una scarsa attenzione alle vicende processuali e
dall’accettazione del copernicanesimo in forma ipotetica, e dunque compatibile
con l’ortodossia cattolica.
La stessa attenzione nei riguardi di Galileo è registrata da Polizzi anche nelle letture
legate alla maturità del pensiero leopardiano. Qui la presenza si fa più forte,
l’ammirazione si trasforma in un dialogo che penetra fino all’interno di alcuni snodi
teorici della filosofia leopardiana, quali “il problema del metodo della
conoscenza, il rapporto tra caso e progresso della scienza, la visione dinamica
della natura, la questione del valore della conoscenza in rapporto alla felicità e
del rapporto tra ragione e sentimento” (p. 50). Polizzi procede quindi all’esame
delle opere di Leopardi, rilevando come nei suoi lavori giovanili la figura di Galileo
Gaspare Polizzi – Galileo in Leopardi – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
151
sia certamente presente, e sovente con toni di elogio ed ammirazione. Tuttavia
egli non manca di mettere in evidenza come in questo stadio il contributo di
Galileo sia spesso sottodeterminato, e come le vicende processuali che lo videro
coinvolto siano quasi del tutto sottaciute o comunque sottovalutate, a
testimonianza di come sia presente nel giovane Leopardi la volontà di non entrare
in esplicito contrasto con la Chiesa cattolica. A tale riguardo occorre ricordare
come anche la favorevole descrizione del sistema copernicano, fornita nella
Dissertazione sopra l’astronomia, sia del tutto in linea con le posizioni ortodosse,
essendo questo sistema “una ipotesi più di ogni altra idonea a spiegare i celesti
fenomeni”.
Queste considerazioni, unite ad altre relative all’atteggiamento fortemente critico del
padre Monaldo nei confronti del sistema galileiano e delle sue conseguenze, inducono
Polizzi a sottolineare la “difficoltà di Giacomo nell’affrontare la questione del processo a
Galilei e nel rendere pubblicamente allo scienziato pisano quel posto centrale nella cultura
italiana che privatamente aveva riconosciuto con certezza, per stile e per pensiero” (p.
163).
Infatti, nella Crestomazia della prosa, opera della maturità, il pensiero di Galilei
assume un ruolo centrale: esso diviene il fulcro teorico su cui poggia la filosofia
della natura leopardiana; nelle selezioni dei brani galileiani, in buona misura
sapientemente manipolati da Leopardi, si registra forse il punto più alto della
presenza di Galileo in Leopardi. Nondimeno, è solo nello Zibaldone che si ha un
esplicito riconoscimento della grandezza di Galileo, che non viene soltanto
considerato un grande letterato, fisico e matematico, ma viene posto tra coloro
che “hanno veramente mutato la faccia della filosofia”. La presenza di Galileo in
Leopardi si fa progressivamente più forte e radicata: dal Galileo visto come
insigne uomo di cultura si passa al Galileo inteso come vero e proprio modello di
stile e di pensiero. A tale proposito occorre ricordare la predilezione leopardiana
per il ‘Galileo lunare’. In uno dei brani scelti per la Crestomazia si trova una
descrizione crepuscolare che ritorna nel verso 19 del Sabato del villaggio “Al
biancheggiare della recente luna”, una descrizione che, dice Polizzi, “non manca
di suggestioni nel quadro di un’estetica dell’infinito” (p. 84). Considerazioni come
Gaspare Polizzi – Galileo in Leopardi – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
152
questa inducono a ritenere che in Leopardi vi sia un diffuso apprezzamento
stilistico nei riguardi degli scritti di Galileo, che a volte trascende quello teorico,
soprattutto quando questo trova un limite nella diffidenza leopardiana nei riguardi
del linguaggio matematico.
A questo proposito riteniamo sia degna di una segnalazione particolare la prima
delle due appendici contenute nel testo di Polizzi, “Uno sguardo sul cosmo:
Calvino tra Galileo e Leopardi”, ove si mette in luce come Calvino avesse
“espressamente connesso la letterarietà di Galileo a quella di Leopardi proprio in
relazione al loro sguardo cosmologico, e in particolare al modo di ‘descrivere’ la
luna”(p. 166):
leggendo Galileo mi piace cercare i passi in cui parla della Luna: è la prima volta che la
Luna diventa per gli uomini un oggetto reale, che viene descritta minutamente come cosa
tangibile, eppure appena la Luna compare, nel linguaggio di Galileo si sente una specie di
rarefazione, di levitazione: ci s’innalza in un’incantata sospensione. […] L’ideale di sguardo
sul mondo che guida anche il Galileo scienziato è nutrito di cultura letteraria. Tanto che
possiamo segnare una linea Ariosto-Galileo-Leopardi come una delle più importanti linee di
forza della nostra letteratura. (I. Calvino, Due interviste su scienze e letteratura, in Id. , Una
pietra sopra, A. Mondatori, Milano 2002, pp. 225-226)
Ancora:
il miracolo di Leopardi è stato di togliere al linguaggio ogni peso fino a farlo assomigliare
alla luce lunare. Le numerose apparizioni della luna nelle sue poesie occupano pochi versi
ma bastano a illuminare tutto il componimento di quella luce o a proiettarvi l’ombra della
sua assenza. (I. Calvino, Lezioni americane, Sei proposte per il prossimo millennio, Mondatori,
Milano 1993, p. 31)
Matteo Leoni
153
RECENSIONE
PHILIP LIEBERMAN - TOWARD AN EVOLUTIONARY BIOLOGY OF LANGUAGE - BELKNAP PRESS, 2006
Il titolo dell’ultimo lavoro di Philip Lieberman, Toward an
evolutionary biology of language, ne richiama l’intento. Il
testo propone infatti un percorso che ha l’obiettivo di
mostrare come sia possibile ricondurre gli studi sul
linguaggio nell’alveo delle scienze evoluzionistiche del
vivente. La biologia evoluzionistica fornisce lo strumentario –
il toolbox – concettuale e argometativo, che consente al
linguista americano di analizzare il fenomeno, tutto storico-
biologico, del linguaggio in quanto discorso, in quanto
speech. Se questo è l’obiettivo che il testo si prefigge, è chiaro che, nonostante si
tratti di un lavoro in cui si parla soprattutto di anatomia, fisiologia, linguistica,
evoluzionismo e biologia, le sue ricadute sul piano della riflessione filosofica sono
estremamente interessanti. Il fenomeno del linguaggio può essere spiegato e
chiarito solo in relazione a un corpo, quello umano, che nella sua complessità
anatomica e fisiologica si è evoluto e continua a evolversi. In questo senso, è
lecito chiedersi, come fa lo stesso Lieberman, «Has anyone seen an ape dancing?
». Infatti «Fully human speech capacity involves having a species-specific tongue
and brain that reflects both the continuity and the tinkerer’s logic that mark
biological evolution» (pp. 1-2). Il testo è diviso in sette capitoli. Il primo è dedicato
ad una panoramica in cui Liebermann esplicita i motivi essenziali della sua
proposta teorica (Cap.1). Il secondo capitolo è dedicato alle componenti
anatomiche e ai meccanismi fisiologici del nostro corpo, grazie ai quali un discorso
(speech) può essere prodotto: polmoni, laringe, faringe e apparato sovralaringeo.
Queste caratteristiche vengono analizzate non in quanto specifiche dell’uomo,
ma poiché legano essenzialmente l’anatomia umana a quella di altre specie
(Cap.3). Al contempo, tuttavia, il linguaggio è una fenomeno che caratterizza la
specie umana ed è pertanto irriducibile alle forme di comunicazione che
Philip Lieberman – Toward an evolutionary biology of language – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
154
caratterizzano altre specie (Cap.2). Solo dopo aver considerato il linguaggio
come un fenomeno che può emergere solo da una complessa e articolata base
biologica (anatomo-fisiologica), Lieberman passa ad analizzare in che modo gli
atti linguistici sono regolati e controllati nel cervello. È in questo capitolo che
l’autore formula una delle tesi portanti dell’intero testo: la creatività e la capacità
reiterativa che caratterizzano il linguaggio umano sono radicati evolutivamente
nel controllo motorio; inoltre, flessibilità cognitiva e abilità sintattica derivano
entrambe dall’evoluzione del motor control (Cap.4). Nel quinto capitolo, inoltre,
viene affrontato il problema di quale sia il ruolo da affidare al cosiddetto gene del
linguaggio FOXP2. Si tratta di un gene regolatore che governa lo sviluppo della
strutture neurali subcorticali che controllano le abilità coinvolte nella produzione
orale. Nella parte finale, Lieberman si sofferma di nuovo sulle basi anatomiche e
fisiologiche del linguaggio umano, mettendone questa volta in evidenza la storia
evolutiva che ha consentito loro di divenire ciò che esse sono attualmente. Il testo
si conclude con una sorta di ecumenico “Studiosi del linguaggio di tutto il mondo
unitevi!” rivolto a biologi, psicologi, linguisti, filosofi e a chiunque possa apportare
contributi significativi alla comprensione di quel complesso fenomeno che è il
linguaggio (Cap.7).
È possibile entrare nel merito della peculiarità teorica del testo di Lieberman se si
mette in evidenza quale è il suo principale referente teorico, ossia l’evoluzionismo
di Charles Darwin nella particolare curvatura interpretativa che esso assume nei
lavori dello zoologo e storico della biologia E. Mayr. I meccanismi che guidano i
processi evolutivi sono considerati da Lieberman, alla pari di quanto fa Mayr,
come guidati da una logica complessa di tipo storico che vede nella casualità
degli eventi mutageni uno dei motori principali dei meccanismi evolutivi.
L’evoluzione è infatti un miserly tinkerer (p. 317). I sistemi biologici, inoltre, – ad
esempio il corpo che ci consente di parlare – e i fenomeni direttamente collegati
ad essi – ad esempio il linguaggio – non possono che essere estremamente
complessi. Per tali sistemi l’utilizzo del rasoio di Occam infatti non rappresenta uno
strumento metodologico adeguato. La tesi che regge le singole argomentazioni
dell’intero lavoro sembra essere la seguente: se mettiamo al centro delle nostre
Philip Lieberman – Toward an evolutionary biology of language – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
155
riflessioni sul mondo vivente la variazione e con essa la diversità, non è possibile
pensare che vi siano componenti essenziali e universali, siano esse fisiche o ideali,
che di quel mondo rappresentano l’essenza. Questa posizione si lascia declinare
da diversi punti di vista.
Passiamo ora ai bersagli polemici. In generale, da un punto di vista sia linguistico
che filosofico e storico-evolutivo, Lieberman elabora le proprie critiche facendo
riferimento alla cosiddetta standard view – all’interno della quale vengono
accomunati pensatori differenti come Pinker, Chomsky e Fodor –. Il nucleo teorico
della standard view consiste nel sostenere che: «The neural basis of human
language is a ‘module’ devoted to language and language alone, and this
module is distinct from the mechanisms that regulate other aspects of human or
animal behaviour. Modular theories implicitly claim that the functional architecture
of the human brain is similar to that of a conventional digital computer in which a
discrete set of devices controls a printer, another the display, another the
keyboard and so on.» (p. 3). È interessante, a questo punto, vedere secondo quali
direttrici si articola e sviluppa la critica di Lieberman a questa prospettiva teorica.
Innanzitutto è possibile individuare diversi sottoteorie che, se cucite assieme,
forniscono la base teorica su cui si fonda la standard view. In primo luogo, anche
per l’importanza attribuitagli nel testo, la linguistica generativa di Noam Chomsky
(1); in secondo luogo il modello esplicativo-riduzionistico del linguaggio di
Wernicke-Broca (2); in ultimo, il ruolo assegnato al cosiddetto gene del liguaggio
FOXP2 (3). (1) Nelle critiche alle nozioni elaborate originariamente da Chomsky si
fa sentire l’importanza assegnata da Mayr al pensiero darwiniano nel confutare
definitvamente posizioni di tipo platonico-essenzialiste. Infatti, Lieberman fa uso dei
risultati elaborati dalla biologia evoluzionistica al fine di criticare l’idea stando alla
quale: (a) le regole della sintassi umana sono innate; (b) tali regole sono inscritte
nel nostro codice genetico e (c) in quanto tali esse sono ereditabili e trasmissibili
(cfr. p. 62).
La peculiarità delle critiche di Lieberman sta nel fatto che gli strumenti concettuali
su cui essa fa perno sono di tipo biologico-evolutivo: “Biologic evidence does not
Philip Lieberman – Toward an evolutionary biology of language – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
156
support Chomsky’s claim. […] solid biologic evidence rules out any version of
innate Universal Grammar.” (p. 5). Infatti Lieberman argomenta contro l’esistenza
di regole universali che riguardano la sintassi sostenendo che, se tali regole
esistessero, (1) se ne troverebbero tracce nei nostri antenati o nelle specie
filogeneticamente più vicine all’homo sapiens; (2) dovrebbe essere possibile
spiegare il comportamento umano attraverso meccanismi innati e universali; (3)
tali regole dovrebbero riuscire a fornire le basi biologiche della reiterazione
motoria che è fisiologicamente alla base dei fenomeni linguistici. Ma in tutti tre i
casi le indagini biologico-evolutive non confermerebbero le ipotesi. 2) La critica
all’atteggiamento riduzionistico, etichettato da Lieberman come atteggiamento
di Broca-Wernicke, è un'altra delle costanti polemiche del testo. Infatti, secondo
Lieberman, se si assume una prospettiva di stampo evoluzionistico, non ha senso
voler individuare dei loci cerebrali in cui risiederebbe la facoltà de linguaggio: non
è possibile né ridurre né localizzare il linguaggio in particolari circuiti neurali, né in
altri organi del nostro corpo. Questo vale inoltre per molte caratteristiche
comportamentali. Ciò non significa, tuttavia, che una spiegazione del linguaggio,
che pretenda tra l’altro di dirsi biologico-evoluzionistica, possa fare a meno di
considerare il ruolo dei meccanismi neurali. Se si vogliono spiegare le basi neurali
del linguaggio, bisogna innanzitutto tener presente il fatto che le reti neurali – e, si
badi bene, non i luoghi cerebrali – che presiedono alla produzione del linguaggio
sono gli stessi che sono anche responsabili della flessibilità cognitiva, tipica
dell’homo sapiens, e di quel particolare tipo di controllo motorio, sviluppatosi
attraverso il passaggio al bipedismo. I gangli basali della corteccia subcorticale
sono responsabili sia delle nostre capacità di apprendimento, sia delle capacità
reiterattive che caratterizzano la nostra motorietà e il nostro linguaggio, nonchè
della regolazione delle emozioni (cfr. p. 211-2). 3) È chiaro che anche un
atteggiamto riduzionistico di stampo genetico, ovvero un atteggiamento che si
pone l’obiettivo di identificare quale sia il gene responsabile delle nostre capacità
linguistiche, il language-specific gene, come fa Pinker, deve a questo punto
essere reso oggetto di critica. Ciò non toglie che lo studio dei geni deputati allo
sviluppo di organi e capacità utili alle capacità linguistiche sia considerato di
Philip Lieberman – Toward an evolutionary biology of language – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
157
grande utilità. Infatti, è proprio lo studio delle mutazioni e modificazioni che hanno
interessato il FOXP2 a gettare nuova luce su come il linguaggio si è evoluto. Infatti,
questo gene contribuisce allo sviluppo delle strutture dei gangli basali che
servono, come detto precedentemente, a regolare il controllo della motilità oro-
facciale, della produzione di discorsi, delle regole sintattiche, del comportamento
cognitivo, e del motor learning.
In conclusione, il take-home-message del libro, come lo definirebbe il suo autore,
consiste nel diffidare di strategie di analisi che utilizzano spiegazioni monolitiche e
monocausali dei fenomeni linguistici. Al contrario, ed in questo sta l’esemplarità di
Toward an evolutionary biology of language, l’approccio biologico-
evoluzionistarisca può riescire nell’intento di chiarire e valorizzare la complessità di
tali fenomeni, spiegandoli in relazione a fenomeni di tipo cognitivo, neurale, fisico
e motorio: «The primary argument of this book is that the biologic bases of linguistic
as well as cognitive ability cannot be studied in isolation from other aspects of
human behaviour or the behaviour of other species.» (p. 17).
Guido Caniglia
158
Idee per una rilettura
D. G. STERN - THE AVAILABILITY OF WITTGENSTEIN'S PHILOSOPHY -CAMBRIDGE UNIVERSITYPRESS,1996
L’articolo fa parte di un tomo intitolato The Cambridge Companion to
Wittgenstein1, testo fondamentale che raccoglie quattordici saggi appositamente
commissionati ad altrettanti accademici di chiara fama, al fine di costruire un
manuale altamente referenziato.
Quella di D. G. Stern, in particolare, è una retrospettiva critica estremamente
documentata sulla intricata vicenda in cui incorse l’opera inedita di Ludwing
Wittgenstein; per inciso, la sua argomentazione ha il pregio di riconoscerla proprio
come un’ ‘opera’, piuttosto che come un insieme di appunti, sulla scia delle
considerazioni di Michel Foucault2 e in contrarietà agli standar editoriali proposti a
suo tempo da Joachim Schulte3. Conosciuta come Nachlass e costituita da circa
dodicimila pagine di manoscritti e ottomila di dattiloscritti, questa massa di
documenti autografi, da cui sono state estrapolate tutte le opere postume
attribuite all’autore, ha costituito un vero e proprio giallo filosofico-letterario che, a
più di cinquanta anni dalla morte di Wittgenstein, desta ancora sconcerto. Stern
cerca di far luce esaustivamente su questa incredibile vicenda per rispondere ad
una perplessità condivisa, ovvero come sia possibile il persistente disaccordo su
che cosa Wittgenstein credesse e perché. Egli ricostruisce la storia del lascito agli
eredi letterari,4 dall’apertura del testamento all’accordo con il Trinity College di
Cambridge; dall’istituzione dei due comitati (quello degli ‘amministratori’ e quello
degli ‘editori’)5 alla realizzazione della collezione microfilmata di Cornell (1967);
dalla vendita di copie ai ricercatori e alle biblioteche universitarie6 agli accordi
con l’università di Tubinga7 etc. Documenta lo scempio da loro perpetrato e tutte
le arbitrarietà di presentazione dell’opera - titolo per titolo-, come anche gli incerti
tentativi di pubblicazione del Nachlass. L’episodio più improbabile, tra tanti, è
David Stern – The availability of Wittgenstein's philosophy – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
159
quello del giornale spagnolo che pubblica la parte nascosta dei Quaderni 1914-
1916 senza il permesso degli eredi8.
Lo scandalo è che, nonostante Wittgenstein sia uno tra i filosofi più influenti dello
scorso secolo – e tra i più citati-, la sua filosofia non sia ancora ‘accessibile’. Per
fare un esempio della ricostruzione della storia delle singole pubblicazioni, basti
citare il caso delle Ricerche Filosofiche, a seguito del quale Stern conclude che la
prefazione di Wittgenstein è precedente all’abbozzo di quella che è edita come
Parte II; che niente ci testimonia che Parte II fosse la seconda parte (il dattiloscritto
originale è andato sfortunatamente perduto poco dopo la pubblicazione) e che
probabilmente è la rivisitazione della Parte I; infine che, secondo Oliver Scholz9,
Parte II sarebbe il dattiloscritto che Wittgenstein preparò per Norman Malcolm in
occasione della sua visita a Cornell, nel 1949 (e che avrebbe quindi un carattere
ancora più provvisorio della Parte I). Resta vero, come per tutti gli altri testi, che il
Nachlass, contenendo le altre possibili combinazioni proposte da Wittgenstein per
le Ricerche, getta, con ognuna di esse, nuova luce su ciò che è stato pubblicato
sotto questo nome. Ma un altro esempio valido per capire l’interesse ad una sua
pubblicazione integrale è la riflessione sul solipsismo, di cui nel Nachlass si può
seguire lo svolgimento, dalla fascinazione iniziale alla scelta di rigettarlo: un lavoro
prezioso se si considerano le telegrafiche affermazioni del Tractatus.
Accanto alla questione principe, ovvero la dissennata gestione dell’eredità
letteraria, Stern elenca tuttavia alcuni fattori singolari che contraddistinguono
l’interpretazione del pensiero di Wittgenstein, mostrando come di certe mancanze
siano responsabili anche i suoi divulgatori. La prima considerazione è rivolta al
peso esercitato dalle aspettative degli interpreti: la maggior parte dei filosofi ha
cercato in Wittgenstein una ‘teoria’ del linguaggio e, nel tentativo di attribuirgliene
una soggiacente le sue parole, ha disconosciuto la peculiarità del suo modo di
scrivere e, con essa, il suo antidogmatismo; un altro approcio scorretto, ma
ricorrente, consiste nel focalizzare l’attenzione sui passaggi maggiormente discussi
(perché in essi Wittgenstein sembra riassumere per sommi capi la sua concezione
David Stern – The availability of Wittgenstein's philosophy – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
160
delle cose) e, in seguito, attingere dal Nachlass l’appunto che sembra confermare
la propria interpretazione; in questi casi, inoltre, raramente viene reso conto del
contesto da cui le citazioni sono estratte, arrivando a giustificare ogni sorta di
conclusione.
La seconda considerazione va alla ‘letteratura secondaria’, ovvero alla folta
bibliografia di diatribe tra interpreti. Si tratta di una produzione così complessa da
scoraggiare qualsiasi neofita e che, infatti, ha ormai vita a sé stante; la tragica
conseguenza è che, quando crediamo di parlare di Wittgenstein, spesso stiamo
invece parlando delle opinioni sul suo pensiero. In sostanza, per Stern, una parte
della inaccessibilità alla sua filosofia è dovuta anche al fatto che chi si occupa di
Wittgenstein tende a proiettarvi le proprie idee (e questo non capita a caso) al
punto che, se anche egli diceva
I ought to be no more then a mirror, in which my reader can see his own thinking with all its
deformities so that, helped in this way, he can put it right.10
oggi la deformità che egli più d’ogni altra osteggiava, quella della filosofia
sistematica, è ricordata solo accidentalmente. Di questi aspetti si era già
occupato Stanley Cavell11, nel suo articolo The Availability of Wittgenstein’s later
philosophy. Egli criticava le assunzioni di David Pole, il quale, considerando lo stile
letterario e di composizione di Wittgenstein alla stregua di una idiosincrasia,
aveva concluso che la sua fosse l’esposizione parziale di una filosofia che ambiva,
senza riuscirci, ad essere sistematica. Per Cavell, Pole aveva arbitrariamente
attribuito a Wittgenstein quelle stesse posizioni che, paradossalmente, erano state
oggetto, quando egli era in vita, delle sue più feroci critiche. All’epoca, Cavell
scelse di enfatizzare la connessione tra lo stile di composizione di Wittgenstein e le
sue idee per concludere che, nonstante i suoi scritti contenessero
‘argomentazioni’, essi non chiedono ‘comprensione’, ma una nuova sensibilità, un
cambiamento nel modo di vedere le cose; ferme restando queste conclusioni,
sappiamo ora che il Nachlass non è altro che il corpus operae di Wittgenstein e
che pertanto una lettura come quella di Cavell è limitata dalla sua ostinazione12 a
David Stern – The availability of Wittgenstein's philosophy – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
161
considerare le opere postume testi dal valore nominale, mentre nessuno di essi
può essere capito a sé, essendo una parte sottratta all’intero. Quella che vuole i
singoli libri editi a suo nome come testi ‘reali’, è una percezione fallace e imposta
dal lavoro di presentazione portato avanti dai curatori. Ogni pubblicazione è una
selezione dal Nachlass, un prodotto che, per essere ‘convenzionale’, ha richiesto
scelte drastiche da parte degli editori: le manipolazioni occorse non sono mai
state rese pubbliche (talvolta sono accennate in termini molto generali nella
prefazione), perchè nessuno ha mai pensato di fornire un’edizione critica del
materiale. Considerato dunque il disordine che ha regnato per anni nei
documenti autografi, identificare il contesto di uno qualsiasi di essi resta più
problematico di quanto non si pensi: per mettere fine a tale situazione, è
fondamentale ora poter utilizzare una pubblicazione integrale del Nachlass,
finalmente considerato come un tutto, un insieme cronologicamente ordinato,
perché è così che Wittgenstein, nell’unicità della sua vicenda filosofica, lo ha
lasciato alla posterità. A partire dalla possibilità di attingere uniformemente al
Nachlass, diverrà impossibile usarlo per avallare interpretazioni infondate del
Tractatus o delle Ricerche Filosofiche. 13
In conclusione, non si è voluto tener presente che Wittgenstein sapeva di non
poter organizzare un ‘libro’: tra il 1929 ed il 1951, egli scrisse, risistemò, corresse le
sue opere, lasciando intenzionalmente alla posterità la dettagliata
documentazione di un dialogo interiore, che è la forza trainante del suo lavoro
filosofico. La gravità della vicenda editoriale del Nachlass, come della maldestra
cernita compiuta di volta in volta, consiste nell’aver escluso proprio il processo di
ripensamento e riscrittura, che collega ciò che è stato pubblicato a cosa non lo è
stato: una vera e propria negazione della natura della eredità filosofica di
Wittgenstein.
Laura Beritelli
David Stern – The availability of Wittgenstein's philosophy – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
162
Note
1 AA.VV. The Cambridge Companion to Wittgenstein, Cambridge University Press, NY, Usa, 1996.
2 Michel Foucault, Archeologia del sapere, Rizzoli, Milano, 1971.
3 Joachim Sculte è uno dei parteciapanti al primo tentativo di pubblicazione del Nachlass, nonchè
editore in Germania delle opere di L.Wittgenstein. All’epoca dell’articolo di D.G.Stern, Schulte
aveva proposto che venissero considerati testi compiuti solo quelli che rispondevano ad una serie
di requisiti.
4 G.E.M.Ancombe, R.Rhees, G.H.von Wright.
5 Entrambi formati dai tre eredi e poi allargati a Antony Kenny e Peter Winch.
6 Nonostante ciò sembrasse rendere finalmente accessibile il materiale (almeno agli accademici),
in realtà comportò altrettanta frustrazione. Gli studiosi si trovarono a che fare con microfilm di
scarsa qualità o copie illeggibili.
7 Nel 1974, i curatori presero accordi per la fondazione del Wittgenstein-Archiv Tubingen: un team
guidato da M. Nedo e dal professor H.J.Heringer avrebbe dovuto trascrivere in un database l’intero
Nachlass ma, nonostante nel 1980 fosse stato fatto più di metà del lavoro, il progetto s’interruppe e
non fu mai pubblicato niente.
8 Secondo Stern, fu Willhelm Baum a pubblicare su un giornale spagnolo le parti mancanti dei
Quaderni. Tuttavia, spiega, piuttosto che criptate, le parti in questione erano state trascritte in un
semplice codice di sostituzione delle lettere. L’incomprensibilità di un simile gesto - che
probabilmente voleva proteggere la privacy del filosofo davanti a lettori casuali -, ha dato adito
alle più svariate ipotesi sul perché fosse stato deciso di nasconderle.
9 Altro critico che si è occupato dell’esegesi del Nachlass.
10 AA.VV. The Cambridge Companion to Wittgenstein, Cambridge University Press, NY, Usa, 1996,
riportato in David Stern, The availability of Wittgenstein’s philosophy, come L.Wittgenstein, Culture
and Value, pp. 17-18. Souce:MS 112, p. 225.1931.
11 AA.VV. Op. Cit, p. 443, riportato come S. Cavell, The availability of Wittgenstein’s later philosophy,
in Wittgenstein: The Philosophical Investigations, ed. G. Pitcher (New York: Doubleday, 1966).
12 Così parla di sé Stanley Cavell in un’intervista riportata in D.G.Stern, Op cit, pp 445-446.
13 Per Stern, entrambi i due testi, nonostante solo il Tractatus sia stato pubblicato da Wittgenstein,
hanno un ruolo preminente, essendo i lavori che più si sono avvicinati a soddisfarlo.
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Idee per una rilettura
RAY JACKENDOFF - LINGUAGGIO E NATURA UMANA - IL MULINO, 1998
Pubblicato in Italia nel 1998 da Il Mulino, per la traduzione di Alberto Peruzzi,
Linguaggio e natura umana è un ottimo testo introduttivo ai moderni temi della
filosofia del linguaggio. Lo scopo di Jackendoff è mostrare l’ipotesi dello sviluppo
della capacità linguistica da un punto di vista biologico e funzionalista, per cui
l’acquisizione delle complessità del linguaggio umano è permessa grazie a
specifiche configurazioni cerebrali, geneticamente ereditate che strutturano
l’architettura di una grammatica mentale predisposta alla comunicazione
verbale.
“Il linguaggio è un prodotto di natura e cultura”
Seguendo le ricerche della filosofia del linguaggio e della linguistica degli anni
’60, intraprese da Noam Chomsky, l’autore integra l’analisi del linguaggio classica
con delle considerazioni di natura neuro-fisiologica, biologica e evoluzionistica
che inseriscono in un contesto più ampio la nostra capacità di acquisire fin dai
primi mesi di vita molti dei principi della comunicazione verbale.
Il testo è organizzato in quattro parti: nella prima l’autore delinea gli argomenti
fondamentali a favore di una grammatica mentale; nella seconda e terza parte
si sviluppano tali argomenti partendo da come si struttura la grammatica
mentale, e prosegue con l’individuazione biologica di queste capacità. Nella
quarta parte le conclusioni vengono inserite in un contesto che comprende
capacità mentali diverse dal linguaggio.
Gli argomenti fondamentali.
Tra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, Noam Chomsky , in contrasto con la
psicologia e la linguistica dell’epoca, ispirata dal comportamentismo, che
Ray Jackendoff – Linguaggio e natura umana – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
164
sosteneva che il linguaggio fosse sommariamente frutto dell’ambiente, sviluppa
l’intuizione per una nuova teoria del linguaggio.
Per spiegare le complesse configurazioni linguistiche di cui quotidianamente, con
la più completa naturalezza, facciamo uso, Chomsky suppone che il nostro
cervello sia strutturato con analoga complessità; la nostra mente, insomma, deve
già contenere una struttura in grado di codificare i suoni in enunciati corretti
sintatticamente e grammaticalmente, una ‘grammatica mentale’.
L’intuizione di Chomsky riguardo la ‘grammatica mentale’ viene definita da
Jackendoff come una “rivoluzione cognitiva”, uno dei pilastri delle moderne
teorie di filosofia del linguaggio e della linguistica. Il “secondo pilastro” della teoria
si integra alla nozione di grammatica mentale, che il nostro autore sviluppa come
l’argomento della “conoscenza innata” ossia un ‘bagaglio genetico’ ereditario. Il
lavoro di Jackendoff di portare argomentazioni favorevoli alle due ipotesi, che nel
corso degli anni sono diventate molto più precise e dettagliate grazie alle
numerose questioni risolte dalla ricerca, si sviluppa fino all’ultimo capitolo in cui
l’autore definisce, dopo averlo presentato, un terzo e conclusivo argomento del
lavoro: la ‘costruzione dell’esperienza’. Il linguaggio è solo una delle capacità
che mettiamo all’opera quando facciamo esperienza del mondo, esperienza,
quindi, che viene costruita da principi inconsci del nostro cervello. Prima di
considerare però la validità delle ipotesi e il contesto in cui operano, è opportuno
seguire Jackendoff e vedere cosa c’è dietro il linguaggio.
La grammatica mentale.
La nozione di “grammatica mentale” sostiene che la varietà espressiva dell’uso
linguistico implichi, nel cervello di chi impiega il linguaggio, l’esistenza di principi
grammaticali inconsci. C’è un numero infinito di enunciati che siamo in grado di
costruire, com’è possibile contenerli in un solo cervello, invita a chiedersi
Jackendoff, sicuramente non abbiamo un semplice elenco imparato a memoria,
infatti siamo in grado di costruire anche enunciati mai pronunciati prima; inoltre
Ray Jackendoff – Linguaggio e natura umana – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
165
l’informazione può essere tradotta in tutte le lingue senza che se ne perda il
senso.
Tutto ciò proverebbe l’esistenza di una struttura inconscia, una sorta di modello
ideale, sulla base del quale possiamo costruire un numero infinito di enunciati.
In breve, è assolutamente impossibile che memorizziamo tutti gli enunciati che ci capita di
sentire o che vogliamo impiegare, per non dire di quelli inverosimili. D’altra parte, siamo
evidentemente preparati a riconoscerli: è come se sapessimo quali sono le possibilità che
ci sono offerte dalla lingua.
Il modo in cui il cervello sembra conseguire questa varietà espressiva consiste
nell’immagazzinare non enunciati interi, bensì parole – con i loro significati – e certe
configurazioni o schemi (patterns), in cui si possono disporre le parole. 1
Non siamo certo l’unica specie che comunica informazioni, ma non esiste un’altro
animale in grado di articolare una così vasta gamma di elementi, o di esprimere
con precisione tutte le sfumature linguistiche di cui gli esseri umani sono capaci,
siamo biologicamente adatti allo sviluppo linguistico, uno sviluppo estremamente
complesso.
I linguisti si riferiscono a queste configurazioni come a regole linguistiche memorizzate e
indicano l’insieme completo delle regole come la grammatica mentale della lingua data
o, più semplicemente, la sua grammatica.2
L’organizzazione della grammatica mentale riguarda la produzione e la codifica
dei suoni linguistici, in altre parole: la fonologia. Il nostro autore indica come
processo di produzione del linguaggio, il percorso dal pensiero alle istruzioni
motorie, che azionano corde vocali, lingua e tutti gli apparati necessari; mentre
quello che va dalle percezioni uditive al pensiero è il processo di decodificazione.
1 Ray Jackendoff, Linguaggio e natura umana, Il Mulino 1998, p. 24-25.
2 Ivi, p. 27.
Ray Jackendoff – Linguaggio e natura umana – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
166
La capacità di percepire le vibrazioni dell’aria prodotte dalla bocca del nostro
interlocutore, codificarle in una frequenza che ha senso e ripetere il processo a
nostro piacimento, quasi istantaneamente è affascinante, presentata così,
questa capacità, sembra quasi miracolosa. Per rendere il processo più familiare al
lettore, Jackendoff opera un’analogia con il funzionamento del
videoregistratore. L’analogia è esemplare della strategia analitica di tipo
funzionale che il nostro autore intende delineare per spiegare la struttura della
grammatica mentale: “Questa impostazione generale dell’indagine sulle
capacità mentali prende il nome di funzionalismo e rappresenta una strategia
che funge da guida in gran parte della psicologia cognitiva e dell’intelligenza
artificiale, non meno che in linguistica.”3, questa impostazione consiste nel
considerare un elemento dal punto di vista di ciò che fa o permette di fare: dalla
sua funzione, indipendentemente dalla struttura fisica o dalla definizione comune.
Da un punto di vista funzionale quindi, non c’è molta differenza con il
videoregistratore costruito per codificare i segnali provenienti dal nastro
magnetico della videocassetta e inviarli al televisore che ce li presenta sotto
forma di immagini e suoni. Abbiamo quindi un codice che è il linguaggio e le
strutture per codificarlo/produrlo sono identificate nel cervello e gli organi
preposti, quali apparato vocale e uditivo: come il videoregistratore, così il cervello
deve contenere un complesso sistema di meccanismi in grado di leggere quel
particolare codice. Il processo di codifica gestito dalla mente viene spiegato dal
nostro autore attraverso l’ipotesi della modularità del cervello, che viene descritto
suddiviso in aree specializzate tra loro connesse.
La percezione e la produzione del linguaggio esigono meccanismi specializzati per
elaborare informazioni in formati diversi e per tradurle da un formato all’altro. Stiamo
dicendo che, nell’apprendere una lingua, i bambini non costruiscono dal nulla questi
3 Ivi, p. 66.
Ray Jackendoff – Linguaggio e natura umana – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
167
meccanismi specializzati. Piuttosto, non fanno altro che “sintonizzare”, rafforzare o
aggiustare certi meccanismi che sono già presenti grazie alla struttura biologica.4
Nei capitoli successivi vengono minuziosamente descritte le parti del corpo che
servono alla produzione fonetica, dall’analisi fonologica vengono estrapolate
serie di tratti distintivi la cui combinazione consente tutta la produzione verbale,
tale analisi, consente di spiegare anche curiose differenze che talvolta si
presentano tra pronuncia e scrittura. Se l’apparato vocale con la contrazione
delle corde vocali, della laringe e l’abbassamento e alzamento della lingua è il
protagonista della produzione verbale, altrettanto lo è l’apparato uditivo, il quale
deve distinguere tre fattori: chi sta parlando (riconoscimento vocale), cosa il
parlante sta dicendo (percezione del linguaggio) e come lo sta dicendo
(intonazione, implicazioni emotive); ognuno di questi fattori viene registrato da un
“modulo” distinto del cervello.
L’idea è che ci siano tre diversi processori specializzati, pronti ad attivarsi col segnale
uditivo. Ognuno di essi cerca di trovare ciò che è preparato a trovare: il processore
linguistico riguarda segmenti linguistici, il riconoscimento vocale riguarda la complessiva
miscela di frequenze che identifica la voce di chi parla, mentre il riconoscimento
emozionale riguarda la variazioni di frequenza che caratterizzano il tono di voce.5
L’elemento costitutivo seguente della grammatica mentale è la struttura
sintattica; dopo il riconoscimento dei suoni possiamo infatti capire ciò che viene
detto grazie al riconoscimento delle parti del discorso. La struttura sintattica è il
passaggio intermedio tra la percezione fonetica e la comprensione del
significato, essa esprime l’organizzazione della proposizione negli elementi
fondamentali che la costituiscono quali il soggetto, il verbo, gli aggettivi e le
preposizioni, nella posizione in cui vengono pronunciati. Jackendoff esclude
perentoriamente che la struttura sintattica dipenda dal significato, facendoci
4Ivi p. 73
5ivi p. 90
Ray Jackendoff – Linguaggio e natura umana – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
168
notare che tutte le entità linguistiche significanti possono ricoprire qualsiasi parte
del discorso, così il medesimo nome può avere un ruolo diverso a seconda del
posto in cui è collocato nella proposizione. L’autore ci mostra, a questo punto,
una serie di sintagmi sempre più complessi sottolineando la naturalezza con cui
riusciamo a distinguere l’organizzazione del discorso; tutto ciò a favore di
un’ulteriore prova della grammatica mentale, ipotizzando, in base alle
conclusioni raggiunte, una struttura mentale predisposta al linguaggio, identica, o
molto simile, per tutti gli esseri umani: una Grammatica Universale, a cui
corrispondono tutte le grammatiche.
Come già nel caso della Grammatica universale per la struttura fonologica, anche nel
caso della sintassi conviene pensare a un repertorio di presupposti universali (circa le
possibili unità e le loro mutue relazioni, adisposizione di tutte le lingue umane) con in più
una specie di menu (come il menu di un programma per computer) che aiuta chi
apprende ad orientarsi fra le varie opzioni.6
Prove per un fondamento biologico del linguaggio.
Il fatto che la grammatica mentale presenti un livello di astrazione molto più alto
rispetto al linguaggio parlato lascia supporre che qualcosa di innato deve essere
presente nel nostro cervello. Le ricerche sullo sviluppo linguistico a partire dal
periodo neo-natale aiutano Jackendoff nella mappatura della struttura
geneticamente determinata da cui dipendono le nostre capacità linguistiche.
Già nei primi mesi i neonati sviluppano una vocalizzazione costituita di gridolini per
passare, intorno ai sei mesi, a quella che viene definita la fase della “lallazione” in
cui il bambino si esercita legando insieme sillabe senza alcuna pretesa
comunicativa; il neonato balbetta in risposta a chi gli parla esibendo un
comportamento proto-linguistico come se stesse arrivando all’idea di come
funziona una conversazione.
6Ivi p. 114
Ray Jackendoff – Linguaggio e natura umana – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
169
Tra i dieci e i venti mesi il bambino comincia a parlare, pronunciando singole
parole o frasi elementari formate da soggetto e verbo; man mano che questi
stadi progrediscono il soggetto si sintonizza con la lingua parlata nel proprio
ambiente, contemporaneamente in grado di imparare più lingue diverse. Verso il
secondo anno di vita il lessico padroneggiato comincia ad essere notevole ed il
bambino si trova ad affrontare simultaneamente molti vocaboli, in questo stadio
preliminare di approccio linguistico è possibile notare come i bambini non
imparino a memoria ciò che sentono ma, al contrario, applichino delle regole: in
primo luogo quando pronunciano parole che non hanno sentito direttamente dai
propri genitori, in secondo luogo, e in modo più evidente, dagli errori che
commettono, ad esempio con i nomi irregolari. Nel tentativo di formulare il plurale
di alcuni termini irregolari , infatti, i bambini spesso sbagliano, dimostrando che il
loro parlare non è un semplice esercizio di memoria. La capacità d’acquisizione
linguistica rimane flessibile e facilitata fino all’età di circa dodici anni quando
ormai il linguaggio viene fissato e non è più possibile imparare una lingua senza
sforzo. Questo spiegherebbe come per gli adulti sia molto difficile imparare
correntemente una lingua diversa dalla propria, nonostante la cultura e
l’applicazione con cui si cimentano nello studio non avranno mai la fluidità
discorsiva di un madrelingua.7
Capacità mentali diverse dal linguaggio.
Quest’ultima parte del lavoro di Jackendoff completa la visione funzionalista ed
evoluzionista delle capacità mentali dell’uomo descritta attraverso lo sviluppo
linguistico. Fondato su un architettura modulare suddivisa in aree specie-
specifiche, il cervello è uno strumento complesso che permette l’esplicazione,
attraverso il linguaggio, di un corpo di regole articolato e complesso.
7 Il primo a formulare l’ipotesi di imprinting è l’etologo Konrad Lorenz, dopo una serie di esperimenti
simulando i comportamenti di uno stormo di oche. Ivi, p. 165.
Ray Jackendoff – Linguaggio e natura umana – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
170
Analogamente ciò accade con l’elaborazione visiva sottolineata attraverso
l’analisi delle figure gestaltiche, dimostrando la nostra predisposizione a vederle in
particolari modi. Più suggestiva ancora è l’analogia con la capacità di sentire la
musica; anche la percezione di una melodia, il riconoscimento di una sonorità
adeguata ai canoni musicali postula l’esistenza di una “grammatica musicale”.
Le ultime pagine sono dedicate all’importanza dell’ambiente e delle condizioni
sociali in relazione alle nostre caratteristiche naturali. Con un lessico semplice ed
una prosa scorrevole Jackendoff ci introduce nel dominio della ricerca linguistica
e neuro-biologica permettendo un accesso facilitato anche nei passaggi più
tecnici e permettendoci così di giudicare un’ipotesi affascinante che risponda
all’interrogativo su ciò che siamo senza avere l’impressione di trasformarci in meri
automi o “zombie” filosofici: un prodotto perfettamente integrato di natura e
cultura. Rileggere oggi il lavoro di questo autore consente di fare un po’ di
chiarezza sull’apporto della ricerca scientifica allo studio del linguaggio e ci offre
una prospettiva originale da cui guardare ad una dicotomia filosofica classica
come quella tra innatismo e anti-innatismo.
Riccardo Furi
Biblioteca Filosofica © 2007 - Humana.Mente, Periodico trimestrale di Filosofia, edito dalla Biblioteca Filosofica - Sezione Fiorentina della Società Filosofica Italiana, con sede in via del Parione 7, 50123 Firenze (c/o la Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università degli Studi di Firenze) - Pubblicazione iscritta al Registro Stampa Periodica del Tribunale di Firenze con numero 5585 dal 18/6/2007.
Filosofia del Linguaggio:
prospettive di ricerca Numero 4 – Febbraio 2008
Intervista a George Lakoff
The mind of the 21st century and its consequences
Duccio Manetti & Silvano Zipoli
http://www.humana-mente.it
Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
171
George Lakoff, americano, è professore di linguistica (in particolare, linguistica cognitiva)
all'Università di California, Berkeley.
Sebbene una parte della sua
ricerca riguardi questioni
tradizionalmente studiate dai
linguisti, è famoso soprattutto per le
sue idee riguardanti la centralità
della metafora nella società e nel
pensiero umano, nonché per le
descrizioni originali di come si
formano i processi di pensiero. Le
sue ricerche negli ultimi anni
vertono sul concetto di "mente
incorporata". Consulente politico
dei Democratici americani fa della
politica un suo impegno quotidiano. (fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/George_Lakoff)
Mente e linguaggio
1. Che cosa intende con “mente incorporata” così come la ha definita nel suo
testo Philosophy in the Flesh? Che relazione c’è tra la sua teoria della mente e il
filone dell’epistemologia naturalizzata inaugurata da Quine?
Ciò che Quine ha inaugurato è una cosa completamente diversa. Egli credeva
che una tradizionale logica simbolica fosse il modo in cui le persone pensano, e
che ciò sarebbe rimasto invariato. Perciò l’unico problema per Quine era stabilire
quali fossero le particolari costanti e i concetti all’interno della logica, quali fossero
i predicati; e ciò era da scoprire scientificamente. L’assunto da cui Quine partiva
era conservare la logica in quanto tale, poi la scienza avrebbe semplicemente
avuto il compito di scegliere “questo predicato” invece di “quest’altro predicato”.
Non era un’idea particolarmente interessante.
La mia teoria della mente è una faccenda completamente diversa. Un tempo mi
occupavo di logica, con la convinzione che la cognizione umana fosse qualcosa
di logico, e ho lavorato su quest’idea per molti anni. Ma non ha funzionato e ha
Figura 1 George Lakoff all’Università di Berkeley
(fonte: www.berkeley.edu/.../08/images/lakoff_1541_2.jpg)
Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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continuato a non funzionare, finché – verso la metà degli Anni Settanta – non è
nata la scienza cognitiva, che ha mostrato che le persone pensano in modi molto
diversi tra loro. Per esempio, prendiamo la frame semantics: è stata studiata allo
stesso tempo da Charles Fillmore in linguistica, da Marvin Minsky nel campo
dell’intelligenza artificiale, e da Erving Goffman in sociologia. Fondamentalmente,
sono tutti e tre giunti alle stesse conclusioni. Goffman si occupava dello studio
delle istituzioni – che era molto diverso da ciò di cui Fillmore si occupava –, e
giunse alla conclusione che, al proprio interno, ogni istituzione è caratterizzata da
un insieme di ruoli e che essi sono interpretati dalle persone quasi come in una
rappresentazione teatrale. Per esempio, in un ospedale ci sono dottori, pazienti,
infermieri etc., e ognuno sa esattamente ciò che deve fare: ognuno conosce il
proprio ruolo, e interpreta una determinata parte secondo un certo “copione”. E
ci si può accorgere di tutto ciò proprio quando qualcuno non rispetta le regole
imposte dal proprio ruolo. Infatti, se una persona entrasse in un ospedale come
visitatore e gli fosse messo in mano un bisturi con la richiesta di procedere ad
un’operazione chirurgica, quello sarebbe un esempio eclatante di “rottura” del
frame, perché i visitatori notoriamente non eseguono operazioni chirurgiche.
Ma il punto è che Fillmore scoprì qualcosa di molto diverso. Attraverso
l’osservazione del linguaggio, egli notò che ogni singola parola è definita rispetto
ad un frame dello stesso tipo (con ruoli, scenari, etc.), che se si usa la parola si
evoca il frame, e che le persone pensano in termini di sistemi di frame. Questa fu
una scoperta scientifica, e la stessa cosa fu anche scoperta nel campo della
psicologia cognitiva, dove – per altre ragioni – si arrivò alla stessa conclusione.
Così, entro la metà degli anni settanta, fu chiaro che la logica non funzionava in
quella maniera.
Inoltre, si vide anche che le persone pensano in termini di prototipi, e che esistono
molti tipi di prototipi, di logiche dei prototipi, e ciò è completamente diverso da
come funziona la logica formale. Un’altra scoperta di grande rilevanza fu che i
nostri concetti, come quello di “colore”, non sono là fuori nel mondo. Era risaputo
già da lungo tempo che i colori sono proprietà secondarie, ma non si aveva
ancora idea di come questi funzionassero. Nella tradizione filosofica anglosassone
Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
173
degli anni sessanta e settanta si riteneva che la verità dovesse essere stabilita in
base alla sua corrispondenza con il mondo. Perciò, se per esempio si dice “La
sedia è rossa”, si sta dicendo che tale affermazione è vera solo nel caso in cui la
sedia faccia parte del “gruppo delle sedie” e di quello delle cose rosse. Ma
abbiamo visto che non esiste nessun “gruppo delle cose rosse” al mondo, che il
colore non è causato da fattori esterni, ma da un’interazione tra lunghezze
d’onda, coni retinici, e un sistema di circuiti neurali. Il colore non esiste
autonomamente, è creato dal nostro funzionare nel mondo, con i nostri corpi. E
ciò significa che l’embodiment è di fondamentale importanza.
Ci sono anche altri motivi – scoperti negli anni settanta – per i quali l’embodiment
è importante. Per esempio, Leonard Talmy e Ronald Langacker studiavano i
termini usati per descrivere le relazioni nello spazio nelle varie lingue. In ognuna ci
sono tanti diversi modi di riferirsi alle relazioni spaziali. Nonostante vi fossero
differenze tra lingua e lingua, Leonard Talmy e Ronald Langacker scoprirono che
queste sono primitive, che sono le stesse in ogni lingua. Cose come contenitori,
sorgenti, schemi sorgente-percorso-obiettivo, schemi di rotazione, schemi di forza
dinamica, come contatto e supporto, erano presenti in ogni lingua. Ma erano
definiti rispetto al corpo; dunque, espressioni come “sopra” e “sotto”, “davanti” e
“dietro” sono definite rispetto al corpo. Come si può notare, anche in questo
campo l’embodiment ha avuto grande rilevanza.
Più tardi, Eleanor Rosch scoprì quelle che chiamò “categorie di livello basilare”. Le
categorie più semplici sono definite – ancora una volta – rispetto a ciò che il
corpo fa: rispetto alla percezione gestaltica, all’azione motoria e all’abilità di
sviluppare un linguaggio mentale simbolico. Quando si mettono insieme queste tre
cose, si ottiene l’idea che il significato sia incorporato, che dipenda dal modo in
cui il nostro corpo opera nel mondo.
Dunque, queste erano le idee; ed eravamo nel 1975.
Da allora, fu chiaro che studiare l’embodiment era necessario e di fondamentale
importanza.
Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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2. In Metafora e Vita Quotidiana, lei e Mark Johnson avete proposto una terza via
per la filosofia oltre all’oggettivismo e al soggettivismo, che chiamavate
esperienzialismo; è una traccia che si sentirebbe ancora oggi di seguire?
Sì. Allora lo chiamammo esperienzialismo, così come un altro modo per definirlo
era realismo incorporato – poiché è una posizione realista.
Una delle cose che abbiamo scoperto è che certe metafore non sono arbitrarie.
Se si afferma che “più” è “su” e “meno” è “giù”, e si dice – per esempio – “I prezzi
sono saliti” o “I prezzi sono scesi”, ciò che si sta usando è una metafora. Ma è
anche un’affermazione basata sull’esperienza: è un’esperienza vera ogni giorno
della nostra vita che se si versa più caffè in una tazza il livello sale, e che se si beve
il caffè il livello scende.
Abbiamo inoltre notato che alcune azioni corrispondenti nell’esperienza danno
vita a certe metafore e da allora abbiano imparato sempre di più riguardo a ciò.
Ma l’idea era che molte metafore fossero basate sull’esperienza e che perciò, in
aggiunta agli altri tipi di embodiment, questo tipo di esperienza – anche per cose
astratte come le metafore – fosse da considerarsi incorporata. Ciò significava che
non si poteva semplicemente avere una nozione di razionalismo ed empirismo, o
realismo ed idealismo; nessuna di queste sarebbe stata corretta. Bisognava
aggiungere una concezione attraverso la quale si potesse interagire con il mondo;
quando si interagisce con il mondo si ha a che fare qualcosa di reale che sta
accadendo, sia ha un’esperienza di questa interazione e ciò è reale. Ma non si
tratta di qualcosa di esterno che è là fuori nel mondo. Perciò si ha ciò che noi
chiamiamo un realismo incorporato; ed in molti casi sembra che ciò che
percepiamo sia semplicemente là fuori nel mondo, ma non è così: è solo perché
abbiamo tutti praticamente lo stesso corpo.
3. Nello stesso libro (Metafora e Vita Quotidiana), era evidente la sua idea di un
ancorarsi delle strutture cognitive a schemi basici corporei che poi nel testo
successivo (Philosophy in the Flesh) ha chiarificato. Ritiene che questo
Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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approccio alla mente consistente nel legare i processi mentali alla corporeità
sia un modo per risolvere molte delle diatribe della filosofia della mente?
Innanzitutto, la denominazione “filosofia della mente” deriva dall’idea che la
filosofia sia la disciplina ultima, che non dipenda dai fatti, che sia tutta a priori, e
che si possa spiegare la mente semplicemente attraverso il ragionamento a priori,
senza nessuno studio scientifico. Ma ciò sarebbe ridicolo. Sarebbe un po’ come
avere una filosofia della fisica senza neanche studiare la fisica! Comunque, ciò
che questo significa – poiché questo riguarda la mente, e i filosofi usano la ragione
– è che in effetti le scoperte scientifiche influenzano la filosofia, e che sono molti i
quesiti posti dai filosofi (o le supposizioni fatte dai filosofi) che potrebbero risultare
privi di senso per il semplice fatto che non tengono conto della scienza (in senso
proprio) della mente. Ed è proprio questo il nocciolo della questione.
Dovrebbe davvero esistere una scienza cognitiva della filosofia e quello che Mark
Johnson e io abbiamo tentato di fare in Philosophy in the Flesh è stato proprio
interrogarci su cosa accade quando si studia la filosofia dalla prospettiva della
scienza cognitiva. Facendo ciò, si scopre che ogni filosofia ha una struttura. In ogni
filosofia viene usato un metodo, un metodo di analisi. E la scienza cognitiva ha
anch’essa un metodo di analisi. Inoltre, bisogna applicare quel metodo di analisi a
una certa gamma di concetti e nella storia della filosofia questa include: il tempo,
gli eventi, la causalità, la mente, l’Io, la moralità, l’essere. Noi abbiamo preso
questa lista e abbiamo deciso di studiarla. È venuto fuori che sono tutti concetti
metaforici, il che è molto interessante.
Poi, l’altra cosa che le varie correnti filosofiche dovrebbero fare è rifarsi alle
filosofie precedenti e descrivere quanto esse si differenziano dalle precedenti.
Così, abbiamo deciso di applicare la scienza cognitiva alle filosofie precedenti, e
quello che abbiamo scoperto empiricamente è che ogni filosofia considera come
vere un certo gruppo di metafore e poi molto attentamente elabora tutte le
inferenze. Infatti, la metafora ha un’importantissima proprietà: la metafora
concettuale preserva l’inferenza, e preservando l’inferenza preserva i modi di
ragionamento. Quindi, se in ogni filosofia c’è una serie di metafore che sono
Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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considerate come vere, allora le inferenze scaturiranno da queste stesse
metafore. Ciò che abbiamo scoperto non è niente di più di quello che un
qualunque studente di filosofia potrebbe scoprire, cioè che i grandi filosofi sono
molto attenti quando elaborano le inferenze delle loro metafore. Abbiamo
studiato tutto questo nei minimi dettagli, scoprendo che porta a un approccio alla
filosofia completamente diverso. Bisogna guardare alla scienza cognitiva per
porre domande riguardanti la filosofia, perché abbiano senso, il che in pratica
significa che se una domanda filosofica non è compatibile con i fatti riguardanti la
mente e il sistema concettuale, allora è un concetto che “non funziona”, che
porta ad affermazioni sulla mente e sul linguaggio che sono false; quindi non
dovrebbe essere considerata una domanda filosofica ragionevole. In questo
modo, si può notare come molti quesiti posti da filosofi presuppongono una teoria
della mente o del linguaggio che si rivela essere non vera. Dovrebbe esserci un
vincolo scientifico a stabilire la ragionevolezza di una domanda filosofica.
4. Considera la sua posizione una forma di riduzionismo? Se sì, quale tipo di
riduzionismo, o eliminativismo?
Non è una forma di eliminativismo, per niente. Tuttavia, esistono altre versioni di
riduzionismo in cui potrebbe rientrare anche la mia posizione. In queste forme di
riduzionismo individuiamo le metafore che collegano certi livelli di analisi, e
prendiamo in esame quello che le nostre metafore creano nel fare ciò. Diciamo –
per esempio – che esiste un livello di analisi in cui si analizza il cervello fisico, uno in
cui si analizza la computazione neurale, e uno che si tiene in conto quando si
studia la semantica linguistica, etc., e che questi livelli devono tutti essere
compatibili fra loro: la linguistica deve essere compatibile con la computazione
neurale, e quest’ultima deve esserlo con tutto ciò che si sa riguardo al cervello. Ed
è questa “compatibilità” che si potrebbe chiamare riduzionismo (io non la
chiamerei così, ma alcune persone lo fanno). In ogni caso, tutto ciò non ha nulla a
che fare con l’eliminativismo.
Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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5. Pensa che la teoria delle categorie possa sostituire del tutto la teoria degli
insiemi, come sostenuto da Bill Lawvere, Colin McLarty e Alberto Peruzzi? Crede
che una delle ragioni sia che questa si accorda meglio proprio con quegli
schemi basici della mente di cui sia lei che Peruzzi parlate?
A dire il vero, la teoria delle categorie è molto diversa. È molto importante
distinguere una comprensione filosofica o cognitiva della matematica dalla
matematica in sé, e dai fondamenti o dalle correnti per i fondamenti. Le varie
correnti per i fondamenti della matematica supposero che i fondamenti fossero
essi stessi all’interno della matematica: una forma di meta-matematica. Così, nella
teoria degli insiemi si ritiene che la logica formale si trovi all’interno della teoria
degli insiemi. L’ipotesi è che tutta la matematica possa essere formalizzata nei
termini di quella logica, che si possa ricavare un significato dai simboli quando li si
combina con modelli teorici, che esistano funzioni che mappano dai simboli ai
modelli, e che queste funzioni siano esse stesse matematica. Alla fine, si ottengono
risultati all’interno della meta-matematica riguardo alla completezza o coerenza
di certi sistemi. Questi sono risultati matematici.
La teoria delle categorie, per quanto ne so, (poiché non sono certo un esperto su
questo argomento) è un tentativo di avere diverse forme di matematica (la teoria
delle categorie è essa stessa una forma di matematica), in modo da usare queste
come meta-matematica, di affermare che noi comprendiamo l’algebra,
l’aritmetica, la geometria, etc. secondo la teoria delle categorie, che la teoria
delle categorie dovrebbe essere la nuova meta-matematica, e che i risultati di
queste discipline dovrebbero essere ottenuti all’interno della teoria delle
categorie. In questo modo, ciò che si ottiene sono due versioni di matematica;
ma sono entrambe matematica.
Quello che noi stiamo facendo – invece – è completamente diverso. Noi ci
interroghiamo su come quella matematica venga compresa. Stiamo tentando di
capire come la mente e il cervello umano abbiano dato origine alla matematica.
La questione non è scegliere tra teoria delle categorie e teoria degli insiemi. Se
fosse la teoria delle categorie a essere la meta-matematica, noi vorremmo capire
Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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quella struttura cognitiva; se invece fosse la teoria degli insiemi, sarebbe
quest’altra struttura che vorremmo comprendere.
Ciò di cui ci occupiamo è su un piano completamente diverso rispetto alle due
teorie. La nostra scoperta è stata arrivare a capire che sono i comuni meccanismi
del pensiero che danno origine alla matematica. La matematica non è là fuori nel
mondo come se fosse indipendente dagli esseri umani, ma nasce da normali
processi, quali: frame, prototipi, metafore, metonimie, parole derivanti dalla
fusione di altre due parole, e legami neurali. È un prodotto del cervello umano, del
corpo umano e dell’esperienza incorporata umana. E questo si può notare in molti
modi. Innanzitutto, ciò che Nuñez ed io siamo riusciti a fare è stato proprio stabilire
i fondamenti. Uno dei quesiti più importanti che ci siamo posti è: qual è la
differenza tra le metafore in matematica e quelle usate nel linguaggio quotidiano
o in poesia? Qual è la differenza tra la cognizione matematica e quella usata
nella vita di tutti i giorni? La differenza è che esistono delle restrizioni in più, basate
sulla matematica. La matematica usa la normale cognizione, ma vi aggiunge
vincoli di coerenza, precisione, simbolizzazione, l’abilità di mettere per iscritto, la
formulazione di precise inferenze, la calcolabilità. Tutte queste sono restrizioni
applicate alla matematica, e ogni sistema cognitivo che soddisfi questi requisiti
potrebbe essere ragionevolmente considerato matematica. Affermando che la
matematica è speciale – e non perché è la fuori nel mondo, ma perché ha dei
requisiti speciali – abbiamo dunque caratterizzato in modo preciso i vincoli su
quella che è considerabile come un’analisi cognitiva della matematica. Oltre a
ciò, la meta-matematica, soddisfacendo queste condizioni, diventa essa stessa
una forma di matematica. Una volta abbiamo provato a farlo: abbiamo
realmente tentato di stabilire dei fondamenti cognitivi per caratterizzarli usando
metafore precise, precisi frame, precisi legami etc., e per mostrare come si
possano definire molti dei rami della matematica ed ottenere i risultati.
Inoltre, un’altra cosa molto importante riguardo la matematica, di cui ho parlato
in Donne, fuoco e cose pericolose, è che non è vero che esiste una sola
matematica. Per esempio, all’interno della teoria degli insiemi coesistono molte
teorie degli insiemi, e il grande risultato raggiunto da Paul Cohen è stato quello di
Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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mostrare che la risposta alla domanda “Esistono gradi di infinità tra ‘tutto di nulla’
e ‘tutto di uno’?” dipende da quale teoria degli insiemi si usa; la risposta è “sì” con
alcune teorie degli insiemi, e “no” con altre.
Perciò, se mi si chiede se la teoria delle categorie potrebbe prendere il posto della
teoria degli insiemi come fondamento della matematica – che è una domanda di
carattere prettamente matematico – io posso affermare che non esiste una
risposta netta. È anche stato scoperto che esistono alcune congetture in
topologia e in algebra in cui la risposta è vera se si usa una certa teoria degli
insiemi e falsa se se ne usa un’altra. Per questo non è possibile affermare che esiste
un regno platonico in cui tutto sia assolutamente vero o indiscutibilmente falso;
persino in algebra, in aritmetica e in topologia, semplici quesiti possono non avere
un’unica risposta. Nel libro con Nuñez, abbiamo posto un interrogativo simile: è
0,99999… uguale a 1? Non abbiamo mai creduto che lo fosse, ma tuttavia
eravamo in grado di dimostrarlo. Sapevamo perfettamente come dimostrare che
0,9999… è uguale a 1, ma sapevamo anche che tale dimostrazione avrebbe
implicato la doppia negazione e cose del genere. Alcune persone non
credevano a questa dimostrazione, e noi neanche! Alla fine, è venuto fuori che
tutto dipende da se si ammette o non si ammette l’uso dei numeri infinitesimali.
Esistono due metodi che sono stati elaborati per fare della analisi matematica: il
metodo più comune (elaborato da Newton) usa i limiti, mentre gli infinitesimi sono
stati introdotti da Leibniz, e sono numeri talmente piccoli che si può moltiplicarli
per un qualsiasi numero reale, ma non si arriverà mai ad ottenere un altro numero
reale. Quindi, ciò che abbiamo fatto è stato elaborare una forma di matematica
infinitesimale in cui 0,99999… non era uguale a 1 – ed era possibile calcolare la
differenza tra i due numeri –, e dove un altro numero – come per esempio
0,33333… – era anch’esso diverso da 1, ma in cui si potesse vedere chiaramente
che la differenza tra 0,33333… e 1 era ben diversa da quella tra 0,99999… e 1.
Osservare ciò è stato fondamentale per capire che quelle domande non hanno
risposte nette. Tutto dipende da cosa si accetta come numero. Quindi, se si
considerano gli infinitesimi come numeri, si ottiene una risposta; se invece non li si
considera come dei numeri, allora si ottiene un’altra risposta.
Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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Ma sono entrambe delle forme di matematica, ugualmente accettabili.
6. Alberto Peruzzi, ha proposto un modello degli schemi cognitivi (che fa uso di
alcune sue idee) basato su una definizione matematica di trasferimento di
struttura da un dominio ad un altro attraverso la nozione di “funtore”. Inoltre,
Peruzzi collega questa sua concezione della teoria matematica delle categorie
ad una visione generale secondo la quale “la comprensione umana non può
essere isolata dai naturali vincoli corporei che rendono possibile l’esistenza di
ogni soggetto conoscente”. Intravede punti di contatto tra l’”esperienzialismo”
e il “naturalismo intrecciato” di Peruzzi?
Ai tempi in cui scrivemmo Metafora e Vita Quotidiana, anche io e Johnson
pensavamo che la nozione matematica di funtore fosse corretta. Ora sappiamo
che non lo è. Fortunatamente o sfortunatamente, ma non lo è.
Ciò che è stato scoperto da allora è che le metafore hanno avuto origine dal
cervello umano e dal modo in cui esso funziona. Esiste un sistema di metafore
primarie, che vengono acquisite durante l’infanzia; questo processo avviene
grazie al modo in cui l’apprendimento neurale funziona. Per esempio, se tutti i
giorni uno versa dell’acqua in un bicchiere e vede il livello salire, ogni singolo
giorno il cervello registrerà che quantità e verticalità coesistono: entrambe sono
registrate contemporaneamente dal cervello; i due processi sono entrambi attivati
allo stesso tempo, ma in zone diverse del cervello. A causa della propagazione
dell’attivazione delle loro connessioni a varie parti del cervello e a molti pathway –
e attraverso questi –, l’attivazione si propaga attraverso le vie metaboliche fino a
quando vengono a congiungersi da entrambe le estremità formando circuiti
neurali; questi circuiti che si formano sono le metafore. E le persone ne imparano
tantissime, semplicemente vivendo nel mondo, semplicemente osservando quali
tipi di cose accadono contemporaneamente.
La cosa interessante di tutto ciò è che non funziona proprio come i funtori. Infatti,
prendiamo per esempio la frase: “Ti ho dato un’idea”. Se ti dessi un libro, subito
dopo non lo avrei più; se invece ti dessi un’idea, continuerei comunque ad averla
Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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anch’io. Tutto ciò ci è noto perchè sappiamo come funzionano le idee e come si
svolge la comunicazione. E quando impariamo la metafora per “comunicare
idee”, sappiamo che l’inferenza di perdere l’idea non è nel dominio bersaglio;
“imparare” quale connessione neurale mettere in atto per collegare le due cose
non è proprio possibile.
Ma su un funtore normalmente si prende un intero concetto e lo si mappa per
intero. Otre a ciò, in alcuni casi si ha un dominio bersaglio al quale vengono
aggiunte cose dal dominio sorgente, le quali potrebbero variare a seconda di
quale metafora si abbia. Per esempio, il dominio bersaglio per qualcosa come
“amore” sarebbe un concetto emozionale in cui vi siano due persone che si
amano in una relazione d’amore. Si tratta di uno stato emozionale positivo, ma
probabilmente questo è tutto. Poi, però, esistono metafore in cui l’amore è inteso
come “viaggio”, come “collaborazione”, oppure come “essere legati”, o come
“calore”… Esistono tantissime possibili metafore, ma ciò che una di queste
metafore aggiunge al concetto di amore potrebbe non essere coerente con
quello che un’altra aggiunge. Infatti, si può avere l’amore come “collaborazione”
o come “viaggio”, ma solitamente non si usano le due concezioni assieme:
intendere l’amore come “collaborazione-viaggio” non avrebbe molto senso.
I funtori matematici non aggiungono mai nulla e sono completi; danno tutto
l’input alla funzione. Le vere metafore concettuali possono aggiungere elementi
grazie al fatto che sono sistemi fisici che possono essere attivati o disattivati (o
inibiti) – e quindi è possibile che funzionino oppure no – invece i funtori matematici
ci sono oppure no; esistono o non esistono. Sono quindi le loro stesse proprietà a
rendere i funtori inutilizzabili in una scienza neurale della metafora.
7. Prima, lei ha parlato di prototipi; pensa che la memoria e i circuiti neurali creino
dei prototipi per le azioni?
Sì. Prima di tutto è importante rendersi conto che esistono molti e diversi tipi di
prototipi.
Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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Uno ha a che fare con i casi più tipici. Questo è ciò che Eleanor Rosch ha
scoperto. Se per esempio si prende in esame la categoria degli uccelli, si possono
osservare esemplari tipici (come i passeri e i pettirossi) e esemplari meno tipici
(come i pellicani, gli struzzi e i pinguini). Chiunque è in grado di riconoscere quali
sono quelli tipici e quali no. Poi, naturalmente, esiste tutta una gamma di
sfumature nel mezzo: esistono gradi di tipicità. E questo è un primo tipo di
prototipo.
Esiste un altro tipo di prototipo, che ha a che fare con le inferenze, in cui, per una
determinata categoria, si possono avere tre diversi prototipi: il prototipo ideale, il
caso tipico, e il caso “incubo”. Per esempio, per una categoria come quella delle
macchine usate, esiste la macchina ideale, quella tipica e quella “da incubo”. E
sono estremamente diverse: il caso ideale è usato per stabilire degli standard e
rappresenta ciò che è più desiderabile, il caso tipico è ciò che normalmente ci si
aspetta, e il caso “incubo” è ciò che si cerca di evitare. Ma tutti e tre
contribuiscono alla comprensione della categoria, e li si usa per ragionare in modi
diversi.
Poi ci sono quelli che sono chiamati “esemplari salienti”, che sono semplicemente
dei casi particolarmente rappresentativi di una categoria, e modificano i giudizi
probabilistici.
Un altro prototipo molto importante è il prototipo dell’essenza, che presuppone
una teoria delle essenze, secondo cui tutto è definito da un’essenza; è da questo
che deriva il concetto di “condizioni necessarie e sufficienti”.
Dunque, in conclusione, non ogni categoria è definita da condizioni necessarie e
sufficienti – che è ciò che la metafora dell’essenza suggerirebbe –, ma ci sono
tantissimi, diversi tipi di cose, e tutti avvengono.
8. Quindi, se sei un sistema fisico con diverse strutture percettive e hai una diversa
esperienza della realtà, tu crei prototipi diversi. In questo modo, sembra quasi
che lei stia dando ragione a Thomas Nagel, o a quel tipo di articoli sul
soggettivismo nella filosofia della mente.
Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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Non è per niente soggettivismo. Penso sia assolutamente sbagliato chiamarlo così.
Gli esempi di Nagel in Che cosa si prova ad essere un pipistrello? sono molto
arguti. Ma, pensandoci bene, egli afferma che se si ha una diversa mente fisica,
un corpo diverso, allora si avrà anche un diverso sistema concettuale. E credo che
ciò sia assolutamente vero. Ma non è comunque soggettivo. Ed è importante
capire perché non lo è. Infatti, gli esseri umani hanno tutti lo stesso tipo di corpo:
abbiamo praticamente tutti lo stesso tipo di cervello, viviamo in ambienti più o
meno tutti simili tra loro, etc. Tutto è simile, quasi uguale e il risultato di ciò è che
abbiamo sistemi concettuali che si assomigliano molto, ma che non sono
perfettamente identici. Il problema è che, spesso, quando si osservano le parti che
sono simili o praticamente uguali, si è portati a credere che esse siano
semplicemente reali e là fuori nel mondo, ma non lo sono: sono in realtà parte di
noi. Ma dire ciò non significa affermare che esse sono soggettive, poiché
“soggettivo” implica che qualcosa sia completamente diverso da persona a
persona. E questo sarebbe sbagliato, perché non sono completamente diverse:
sono in gran parte uguali.
9. Ma pensa che se un uomo vivesse in un ambiente diverso, per esempio in
assenza di gravità, avrebbe prototipi diversi (prototipi spaziali, o schemi di
movimento, etc.) nella sua mente?
Assolutamente sì. Quest’uomo avrebbe diverse nozioni di forza dinamica, diverse
metafore, etc. Variare il sistema concettuale di una persona renderebbe tutto
diverso.
10. Una scoperta molto importante fatta in Italia, i neuroni specchio, – che è stata
molto studiata anche da voi a Berkeley – apre molte strade alla ricerca sul
comportamento imitativo e getta luce almeno in parte su quella che la filosofia
ha chiamato intenzionalità. Quali sviluppi pensa che possano nascere da
questi progetti, specialmente nel campo della ricerca filosofica? E qual è la sua
opinione su questo programma di ricerca?
Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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Penso che sia un programma di ricerca meraviglioso e di estrema importanza.
Infatti, assieme a Gallese, ho anche scritto un articolo riguardo a questo. E ne ho
seguito gli sviluppi molto da vicino.
È importante sotto molti punti di vista. Innanzitutto afferma che esiste un legame
fisico-biologico con le altre persone, ma anche con altre cose del mondo, con la
natura, etc. Inoltre, afferma che esiste pure un legame emozionale, poiché i
neuroni specchio sono situati nella corteccia premotoria e sono collegati
attraverso la corteccia insulare alle vie metaboliche positive e negative (il
pathway della norepinefrina e quello della dopamina). Molti concetti e narrazioni
hanno componenti emozionali. È risaputo che la ragione non può esistere senza
l’emozione, e che l’emozione – invece di interferire con il ragionamento – in realtà
è ciò che lo rende possibile.
Il motivo è molto semplice. Se, per esempio, una persona subisse un ictus e non
potesse più provare nessuna emozione, quella persona non saprebbe più cosa
fare; se dovesse decidere come agire, se volesse stabilire un obiettivo, non
sarebbe neanche in grado di prevedere se questo potrebbe essere soddisfacente
oppure no, non potrebbe sapere se una determinata azione potrebbe ferire le
altre persone, o renderle felici o indurle ad attaccare, etc. Dunque, l’emozione è
assolutamente necessaria per essere razionali. Questa scoperta è di cruciale
importanza.
Grazie alla connessione tra le regioni emotive e la corteccia premotoria, esiste
quella che è chiamata la fisiologia dell’emozione, che è stata studiata da Paul
Ekman e da molti altri. È risaputo, per esempio, che quando una persona è
arrabbiata, la temperatura della sua pelle si alza di mezzo grado, la pressione
sanguigna aumenta, il battito del cuore accelera, etc. Inoltre, l’abilità percettiva è
condizionata da molti fattori fisiologici.
È grazie ai neuroni specchio che si può capire se qualcuno è arrabbiato,
spaventato o felice. E questo permette di immedesimarsi nelle altre persone, il che
suggerisce che l’empatia sia qualcosa di innato, e che quindi non sia affatto vero
che l’unico istinto naturale dell’uomo sia la ricerca e il conseguimento
Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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dell’interesse personale. Tutto ciò ha conseguenze morali, politiche ed
economiche molto importanti.
Sono molte le teorie delle scienze politiche incentrate sulla ricerca dell’interesse
personale. Ma non sono vere, e hanno pesanti ripercussioni politiche.
I neuroni specchio hanno anche importanti conseguenze per una teoria del
significato. I neuroni specchio si attivano quando si compie una certa azione,
oppure quando si vede qualcun altro compierla. Questo loro comportamento
mostra che sono in un qualche modo neutrali tra azione e percezione. E questo è
esattamente ciò che il linguaggio è. Se si considerano verbi come “bere”, o
“spingere”, o simili, è irrilevante che siano alla prima o alla terza persona. Ciò
significa che è molto probabile che i neuroni specchio siano coinvolti nel
significato di tali azioni. Ciò dà origine a una teoria del significato, che afferma
che questo è basato sulla simulazione mentale; e l’importanza di tutto ciò deriva
da altri studi nel campo delle neuroscienze.
Intorno al 1990, uno studio di Martha Farah ha mostrato che quando si immagina
di vedere qualcosa viene attivata una parte del cervello che è la stessa che viene
attivata quando si compie quella stessa azione; quando si immagina di muovere il
proprio corpo, è attiva la stessa parte del cervello che “lavora” quando il corpo si
muove per davvero. Ed è stato osservato un simile meccanismo anche per
quanto riguarda i sogni.
Tutto ciò ha portato ad una teoria del significato avanzata da Jerome Feldman, il
quale sostiene che se si ha una frase (per esempio: “Io bevo un sorso d’acqua”)
uno non capisce cosa significa l’azione descritta nella frase se non è in grado di
simularla e immaginarsela.
Dunque, l’idea è che la comprensione – come minimo delle frasi che descrivono
azioni fisiche – è basata sulla simulazione mentale, che può essere sia conscia che
non. Quando poi si ha a che fare con nozioni più astratte, esse possono essere
basate su metafore o azioni fisiche o su schemi dell’immagine, che sono
rappresentati da altri tipi di strutture mentali.
La convinzione è che tutto è incorporato in termini di significato e che da ciò si
possa ricavare un’appropriata teoria del significato. E una delle caratteristiche più
Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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importanti dei neuroni specchio è proprio il fatto che iniziano a sostenere una
teoria del significato.
Inoltre, i neuroni specchio sono alla base di una diversa concezione di moralità e
politica.
11. La NTL, che lei ha proposto assieme ad altri colleghi (in particolare con Jerome
Feldman, che ha da poco pubblicato From molecule to metaphor), viene
definita come uno dei contributi più importanti alla linguistica cognitiva. In
Italia, il ricercatore Andrea Moro ha verificato sperimentalmente la classica
idea chomskyana della grammatica generativa; nel suo ultimo libro I confini di
Babele. Il cervello e il mistero delle lingue impossibili, espone tutti i passi
dell’esperimento che lo ha portato a vedere come il cervello umano sia come
una radio pronta a sintonizzarsi su tante lingue, ma non su alcune che vengono
definite impossibili. Il cervello avrebbe innata una grammatica universale che
lo rende in grado di riconoscere regole possibili da regole impossibili, lingue
possibili da lingue impossibili. Il cervello del soggetto sperimentale si dimostra
capace di distinguere dove le strutture sintattiche violano questa specie di
grammatica universale da dove invece la rispettano. Cosa conosce e cosa
pensa di questa ricerca?
Non conosco i dettagli della ricerca, ma una delle prime cose che ogni filosofo sa
è che non si può semplicemente verificare qualcosa. Nella filosofia della scienza, si
impara che la verificazione è un errore. Quindi Moro non ha verificato nulla.
Tuttavia, alcuni dei risultati della sua ricerca potrebbero adattarsi a molte teorie.
Per esempio, la NTL – che è incompatibile con ciò che Chomsky afferma – sostiene
che il linguaggio è basato sul sistema concettuale, che è incorporato, e afferma
che esistono limiti alle lingue possibili e che non qualunque sintassi è possibile. Non
so se questo abbia a che fare con la ricerca di Moro, ma non importa se una
teoria è completamente incompatibile con quella di Chomsky: se ne può ricavare
comunque una teoria sui limiti del linguaggio. Mostrare che una sintassi non è solo
Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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arbitraria non significa ammettere che Chomsky aveva ragione, ma significa
semplicemente mostrare che una sintassi non è solo arbitraria.
12. Pensa che il sogno di un’intelligenza artificiale “forte” che ha dominato gli anni
Settanta e Ottanta del secolo scorso sia del tutto tramontato, oppure le nuove
teorie sull’umana computazione in relazione alla nuova strada suggerita dal
connessionismo ibrido, e con la sua specifica organizzazione in estese reti
neurali, potrebbero tener vivo quel sogno?
No, assolutamente non tiene vivo il sogno di un’intelligenza artificiale. È
scientificamente morto, ma non politicamente. Ci sono molte persone che
lavorano nel campo dell’intelligenza artificiale che ci credono ancora. Tutto il
lavoro e gli studi fatti sulla natura del cervello e del corpo, sull’embodiment, hanno
mostrato che non ha completamente senso fare una cosa del genere.
Si prenda come esempio la nozione di “emozione”: essa ha a che fare con gli
effetti dei neurotrasmettitori. Non è un effetto computazionale: è un effetto che ha
a che fare con altre proprietà neurochimiche del cervello e del corpo.
Dunque, i legami con l’emozione sono importantissimi per il linguaggio e per la
comprensione del pensiero. L’emozione non è certo parte dell’intelligenza
artificiale.
Tuttavia, potrebbe invece essere utile ideare dei modelli che possano essere fatti
funzionare attraverso computer, dai quali si possano ottenere modelli di
computazione neurale. Tutto ciò si potrebbe sicuramente fare, ma rimarrebbe
comunque molto diverso dal sostenere che un computer capisce qualcosa; i
computer non sono in grado di capire nulla.
13. NTL, neuroni specchio e biolinguistica sono tutte scoperte tramite le nuove
tecniche di indagine sul cervello chiamate neuroimaging. Queste nuove
tecniche consentono finalmente di svelare l’architettura del cervello. Pensa
che queste nuove tecniche ci porteranno a teorie che spieghino l’interazione
Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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tra mente e cervello, e che quindi superino quello che è stato chiamato gap
epistemico?
Quando un neurone è attivo, parte un flusso di ioni; poi il neurone ha bisogno di
nuovo ossigeno per attivarsi un’altra volta. Allora il sangue affluisce e
l’ossiemoglobina cede l’ossigeno al neurone, diventando, in questo modo,
deossiemoglobina. Ossiemoglobina e deossiemoglobina hanno proprietà
magnetiche diverse e il segnale dato dal sangue nella fMRI varia in funzione del
livello di ossigenazione. Infatti, tutto ciò che questa tecnica è in grado di
visualizzare è la risposta emodinamica (cioè i cambiamenti nel contenuto di
ossigeno) correlata all'attività neuronale del cervello.
La risoluzione con cui si vede il cervello è di circa 3 mm³; la risoluzione temporale è
1 secondo. In un secondo, ogni singolo neurone può attivarsi circa 200 volte, e in 3
mm³ di cervello esistono milioni di neuroni, ognuno dei quali forma circuiti che si
attivano 200 volte al secondo. È quasi come se si avesse una fotografia
dall’esterno di un palazzo, con un certo numero di finestre illuminate: tutto ciò che
si potrebbe concludere osservando questa fotografia è se la quantità di luci è
elevata o meno, senza però avere la minima idea di ciò che sta accadendo
all’interno del palazzo. La stessa cosa succede quando si osserva un fMRI del
cervello.
Tuttavia, se si fosse particolarmente scrupolosi e si portasse avanti un’attività
sperimentale su un considerevole campione di persone, si potrebbe arrivare a
scoprire che certe regioni del cervello sono attive quando si verificano alcune
esperienze. Si potrebbe imparare molto da una cosa del genere. Dunque, il lavoro
di ricercatori attenti sicuramente permette di apprendere molte cose sul cervello,
ma non potrebbe mai essere in grado di dare informazioni dettagliate sulle
strutture concettuali.
È sicuramente importante rendersi conto che le tecniche di neuroimaging sono
ottimi strumenti di indagine scientifica sul cervello, tuttavia non potranno mai dare
gli stessi risultati che si possono ottenere attraverso la semantica cognitiva.
Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
189
14. Recentemente è stato pubblicato anche in Italia il libro di Benjamin Libet, Mind
Time. Le ricerche di Libet sono state contrastate da più fronti. Cosa pensa dei
risultati della sua attività sperimentale e della sua teoria?
Libet, per quello che ricordo, ha mostrato che quando si decide di fare qualcosa,
la mente inconscia prende la decisione prima della mente conscia. È un fatto che
il 98% del pensiero sia inconscio. Sarebbe invero sorprendente se la mente conscia
e quella inconscia agissero contemporaneamente. L’idea che le persone pensino
consciamente di stare decidendo qualcosa in un determinato momento, mentre
invece lo hanno inconsciamente già fatto prima è esattamente ciò che comporta
l’affermazione che il 98% del pensiero è inconscio. Non è per nulla sorprendente. E
ha perfettamente senso.
15. Ma pensa che l’origine di questo esperimento sia una qualche folk
psychology?
Non saprei semplicemente rispondere. Se mi si interroga riguardo l’accuratezza
dell’esperimento, non saprei cosa dire. Libet è un ricercatore molto stimato e i suoi
risultati sono considerati accurati nel campo della psicologia cognitiva. Ma non
sono certo la persona più adatta per giudicare tutto ciò.
16. Qual è la sua opinione sulla filosofia della mente? Il suo compito è finito e la
parola spetta solo alle neuroscienze, oppure la filosofia ha ancora un qualche
ruolo teoretico?
Credo che la filosofia abbia una funzione regolatrice ancora molto importante.
Tuttavia, nonostante debba essere vincolata da quello che si è scoperto grazie
alle neuroscienze, la filosofia della mente consente di porre domande che non si
potrebbero formulare se si avesse a che fare solo con le neuroscienze. Esistono
molte dimensioni di coscienza. Alcune di queste possono o potranno essere
Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
190
comprese all’interno delle neuroscienze (per esempio la nozione di “attenzione”),
ma altre probabilmente non lo saranno mai (per esempio la nozione di “qualia”).
17. Crede che alcune nuove competenze sul cervello e sui processi cognitivi
potrebbero avere un impatto sul modo in cui concepiamo la nostra vita
sociale?
Sicuramente un impatto molto rilevante!
Farò soltanto un esempio. Ieri, sul New York Times, era riportato uno studio sul
concetto di rimozione, sul rifiuto di ammettere certi aspetti della realtà. Questo
studio mostrava che la rimozione è dappertutto, che ognuno la usa, e che serve
alle persone; in certi casi crea loro dei problemi, ma la maggior parte delle volte le
aiuta semplicemente ad andare avanti nella vita. La negazione è uno strumento
molto importante, ma bisogna essere consapevoli di quanto lo si sta usando e di
quanto ricorrere ad esso potrebbe nuocere.
Le cose che stiamo imparando sulla frame semantics sono molto importanti in
campo politico. Abbiamo scoperto che se si usa lo stesso linguaggio degli
oppositori politici, anche se si stanno in realtà sostenendo opinioni contrarie, si
finisce per aiutarli, poiché ogni parola è definita rispetto ad un frame, e ogni frame
è caratterizzato all’interno di un sistema di frame; perciò quando si attiva la
parola, automaticamente si attiva il loro frame, il loro intero sistema di frame e
quindi il loro intero sistema di valori. Dunque, quando si usano i frame di altre
persone – anche se per contrastare le loro opinioni – si sta in realtà accettando il
loro sistema di valori e di conseguenza li si sta favorendo.
Questa è la ragione per cui è estremamente importante essere consapevoli di
questo meccanismo.
18. In Da dove viene la matematica, lei e Rafael Nuñez suggerite che i concetti
basilari della matematica si trovino nella mente umana e nell’esperienza
incorporata. In questo modo, vi opponete alla classica idea di un dominio
della matematica trascendente e indipendente. Quali sono le più importanti
Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
191
differenze tra la vostra concezione e la tradizionale, platonica immagine della
matematica e anche della razionalità?
Sono enormemente diversi! Non saprei da dove cominciare con le differenze! La
tradizionale concezione della matematica sostiene che essa è trascendente, che
è là fuori nel mondo, che struttura non solo quest’universo ma ogni possibile
universo. E ciò porta a certe idee pazzesche, come per esempio il progetto SETI,
dove alcune persone stanno cercando di scoprire se esiste vita intelligente nello
spazio. Queste persone inviano nello spazio il segnale di π in numeri binari, con la
convinzione che un qualsiasi essere intelligente proveniente da un qualunque
luogo dell’universo sia in grado di comprendere π in numeri binari. Ma a pensarci
bene, addirittura la maggior parte delle persone sulla Terra non capirebbero π in
numeri binari e se si prende per esempio un mammifero simile a noi, come il
pipistrello, anch’esso non capirebbe i numeri binari!
Una volta appurato che l’intelligenza umana e i sistemi concettuali sono
strettamente legati al corpo umano e all’esperienza umana, ci si rende conto di
come l’idea di trovare da qualche parte nell’universo degli esseri simili – che
abbiano lo stesso tipo di cervello, mente ed evoluzione – sia estremamente
improbabile, praticamente impossibile.
Dunque, questa era un’importantissima differenza; infatti, la matematica non è
semplicemente neutrale. Ci sono altre questioni cruciali riguardanti la
matematica. Chi si occupa di studi statistici presuppone che la statistica sia reale.
Gli studi statistici si basano su un importante gruppo di metafore, tra le quali quella
secondo cui la probabilità ha proprietà distributive. Le statistiche sono basate sulla
distribuzione: estendono alla realtà attuale i risultati ottenuti attraverso dati rilevati
in passato su un certo campione di popolazione. Supponiamo di studiare i rischi di
cancro: se fai un certo tipo di test ed ottieni un certo risultato, allora hai una
determinata probabilità di sviluppare un cancro. Questo risultato significa soltanto
che una certa percentuale di persone partecipanti allo screening ha avuto il
cancro, e che tu condividi con loro alcune caratteristiche (per esempio il luogo di
residenza); ma questo potrebbe anche non c’entrare nulla con il cancro. Davanti
Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
192
ad un risultato di questo tipo – che, in realtà, dà solo informazioni su persone con
le quali condividi alcune, ma non molte altre, caratteristiche – non puoi avere la
minima certezza che esso abbia davvero a che fare con te. È così che funziona la
statistica.
Le statistiche sono continuamente utilizzate per stabilire i piani di azione politica,
quasi come se i risultati predetti dalle statistiche si realizzassero poi davvero nel
mondo reale. Per esempio, supponiamo di fare un sondaggio (le risposte al
sondaggio dipendono dalla domanda che si fa, dai frame che si adottano, etc.),
e che l’83% delle persone intervistate risponda “sì” alla domanda. Il conduttore del
sondaggio, allora, se ne verrebbe fuori con affermazioni del tipo, “Gli americani
credono a ‘questo’!”, ma non sarebbe per niente vero, perché molte altre
persone avevano risposto “no” alla domanda. Le statistiche non descrivono per
niente fatti oggettivi e reali.
Sono molti i casi in cui le statistiche sono usate per presentare un’idea della
persona “tipica”; come se esistesse davvero una persona “tipica”! Non esiste un
individuo del genere.
È molto importante capire che il modello matematico non è il mondo; ci si può
rendere conto di ciò, per esempio, prendendo in considerazione il modello della
scelta razionale come utilizzato in economia e in politica estera. Il modello della
scelta razionale è costituito da un insieme di metafore e può essere applicato solo
attraverso il linguaggio metaforico. Tuttavia, la maggior parte di coloro che ne
fanno uso non notano neanche le metafore e credono che la matematica sia là
fuori nel mondo, ma no lo è. La matematica non ha nulla a che fare con la
razionalità o con l’azione; necessita di tre livelli di metafore per arrivare ad avere a
che fare con la razionalità o l’azione. Se si crede alla teoria della scelta razionale,
si ritengono veri dei concetti riguardanti l’analisi costi-benefici in economia che in
realtà sono falsi. E di conseguenza si elaboreranno delle linee di azione politica
che danneggeranno le persone.
Per questo, è molto importante rendersi conto che la metafora non è
semplicemente là fuori nell’universo, ma che la matematica è sempre compresa
in termini di qualcos’altro.
Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
193
Scienza e Società
19. Lei è in Italia per ritirare un premio della Regione Toscana intitolato alla
memoria di un grande filosofo italiano – ma molto poco riconosciuto in Italia –,
Giulio Preti. Cosa pensa del forte legame sostenuto da Preti tra lo sviluppo di
una cultura scientifica, filosoficamente consapevole dei suoi modelli linguistici,
e la crescita di una democrazia, ugualmente consapevole dei frame di
pensiero del linguaggio corrente?
Ci sono molte questioni complicate da prendere in considerazione a questo
proposito.
Innanzitutto, ciò cui si sta assistendo negli Stati Uniti è l’uso e l’abuso della cultura
scientifica, in modo tale che anche la democrazia ne risulta danneggiata.
L’interesse per tutto ciò si è manifestato – negli Stati Uniti – verso gli inizi degli anni
settanta, quando si sono stanziate ingenti somme di denaro (per un totale – a
tutt’oggi – di circa 4 miliardi di dollari) per creare dei think tank, in pratica degli
organismi di ricerca non dipendenti dalle università, con il compito di applicare il
conservatorismo a ogni possibile ambito della vita. Hanno speso così tanti soldi in
questo processo che sono riusciti pienamente nel loro intento: fare in modo che il
linguaggio riflettesse le idee dei conservatori, diffondere tutto ciò attraverso i
media, e cambiare il cervello delle persone per far pensare tutti come dei
conservatori.
I think tank hanno avuto un forte impatto anche sul mondo accademico. L’analisi
economica del diritto, ad esempio, è un movimento conservatore – sviluppatosi
nell’Università di Chicago – che a sostegno della propria oggettività vanta un
legame con solide teorie economiche. Ma naturalmente non è per niente
oggettivo: è basato su metafore per il modello della scelta razionale, metafore
che, come mostrato dalla scienza cognitiva, non funzionano. Invece l’analisi
economica del diritto applica queste metafore come se fossero oggettivamente
vere, quando invece non lo sono.
Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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La scienza cognitiva ha dovuto assolutamente rivelare tutto ciò, ha dovuto
denunciare questo “attentato” alla democrazia. La società ha estremo bisogno
che la scienza cognitiva mostri che le idee conservatrici sono idee conservatrici,
perché spesso – invece – succede che, quando le idee conservatrici sono le
uniche in circolazione, allora vengono considerate neutrali. Il compito forse più
importante della scienza cognitiva è proprio quello di svelare quali tipi di idee
derivano da dove, quali sono le loro implicazioni, etc. È per questo che la
mancata comprensione della scienza cognitiva da parte dei leader politici, dei
loro staff, dei commentatori e dei giornalisti politici ha creato e sta creando una
situazione disastrosa. La situazione che si verifica. Infatti, accade che i
commentatori politici, i giornalisti e gli studiosi usino le metafore e i frame “di
destra” come se fossero neutrali, e – senza neanche accorgersene – finiscano per
favorire la linea politica avversaria.
20. Cosa pensa dell’immagine “pubblica” della scienza?
Lei vive in un paese che dal secondo dopoguerra in poi ha preso il posto della
Germania come paese leader in campo filosofico e che è stato considerato
per molti anni l’eldorado della ricerca. Quali sono i fattori che rendono le vostre
università così appetibili ai ricercatori di tutto il mondo?
Sicuramente molti fattori. La Seconda Guerra Mondiale ha avuto importantissime
conseguenze sulle università americane. Arrivarono in America non solo molti
profughi del regime nazista, ma anche l’intera comunità intellettuale ebrea che
era sopravvissuta in Europa. Inizialmente, gli ebrei non furono ammessi nelle
università a causa dell’antisemitismo allora diffuso anche in America, ma questa
situazione presto cambiò grazie a Einstein. Finalmente, a partire dagli anni
sessanta, agli ebrei fu concesso di insegnare nelle università, cosa che solo poco
tempo prima sarebbe stata impensabile.
Anche l’istituzione del cosiddetto G.I. Bill of Rights [fondo statale stanziato da un
Government's Issue, “disegno di legge governativo”, ndr] segnò una svolta
fondamentale per le università americane. Quando i soldati tornarono in America
Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
195
dopo la guerra, il governo fornì ad ognuno di loro una somma di denaro per
frequentare l’università, e ciò – di conseguenza – consentì alle università di
svilupparsi ulteriormente.
Un altro importante impulso allo sviluppo scientifico in America fu l’inizio delle
missioni spaziali sovietiche con lo Sputnik, che mise in allarme il Dipartimento della
Difesa e lo indusse a finanziare le università affinché incrementassero la ricerca
scientifica e gli studi nelle discipline ad essa correlate, come per esempio la
linguistica e l’antropologia. Io stesso ho potuto frequentare l’università solo grazie
ad una borsa di studio messa a disposizione dal Dipartimento della Difesa a causa
dello Sputnik.
La follia dell’industria della Difesa ha dato – a causa dello Sputnik – delle ingenti
quantità di denaro alle università, il G.I. Bill ha permesso di frequentare l’università
anche a chi non avrebbe mai potuto permetterselo, e la persecuzione nazista ha
scacciato dall’Europa e riversato negli Stati Uniti grandi cervelli: l’insieme di questi
fattori ha prodotto una combinazione straordinaria, che ha creato nelle università
un ambiente perfetto per un’eccezionale crescita, creatività, e apertura.
Un altro elemento che ha favorito enormemente lo spirito di crescita delle
università americane è stato assicurare a ogni docente assunto un contratto di
lavoro, garantito per un minimo di sei anni. Terminato questo periodo, l’università
avrebbe deciso se prolungare il rapporto di lavoro del docente a tempo
indeterminato, o interromperlo. Questo sistema assicurava l’assenza di pressioni
politiche di alcun tipo sui docenti e di conseguenza ne garantiva la libertà di
pensiero; anche se alcuni avessero avuto idee politiche diverse, avrebbero
comunque avuto la sicurezza di un posto di lavoro fisso per almeno sei anni.
Oggigiorno – invece – le università americane stanno attraversando un periodo
molto difficile di cui molti non americani – ma anche moltissimi americani – non si
sono ancora resi conto. Esistono parecchi problemi. Il primo è sicuramente che le
grandi compagnie stanno “comprando” le università, in particolare quelle
pubbliche, così che – di conseguenza – i loro budget vengono tagliati
dall’assemblea legislativa. Perciò, le compagnie hanno il controllo, promuovono
solo il tipo di ricerca scientifica che permetta loro di incrementare i profitti, e – in
Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
196
questo modo – finiscono per dirigere la ricerca stessa, creando una situazione
molto pericolosa.
Un’altra situazione estremamente negativa presente negli Stati Uniti riguarda il
modo in cui i lavoratori vengono trattati. I lavoratori non hanno un’occupazione
garantita per un lungo periodo, sono costretti a passare continuamente da un
lavoro all’altro e vengono pagati sempre meno perché la politica occupazionale
negli Stati Uniti tende ad abbassare sempre di più le retribuzioni. La forza lavoro è
vista come una semplice risorsa da comprare, alla stregua di carbone e acciaio:
l’idea è di minimizzarne i costi ed è per questo che si concedono in appalto a
società esterne determinate funzioni o servizi. A causa di tutto ciò, le organizzazioni
sindacali hanno perso il loro potere, e i loro diritti vengono sempre più ridotti.
Le università americane stanno praticamente mettendo in atto una strategia
simile: assumono sempre più personale a tempo determinato in qualità di docenti
a contratto, invece di offrire reali posti di lavoro come docenti di ruolo. Questo
processo è terribile, non solo perché i professori a contratto sono pagati molto
poco e hanno turni di lavoro pesantissimi, ma anche perchè finiscono per non
avere più tempo da dedicare alla ricerca, che dovrebbe essere portata avanti
proprio da persone molto creative. Il risultato di questo meccanismo è un vero
disastro. Sono molto preoccupato per il futuro delle università americane.
Politica
21. Lei è stato consulente dei Democratici Americani. Di recente è stato nominato
come consulente dal governo Zapatero.
Sono un membro del consiglio di personalità di livello internazionale istituito dal
loro governo; è più che altro una posizione onoraria, ma ha comunque alcune
importanti funzioni.
Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
197
Lei non rispecchia minimamente la “classica” figura del filosofo o scienziato
cognitivo, rinchiuso nel suo iperuranio accademico. Quale ruolo pensa che la
grammatica cognitiva e la sua filosofia possano giocare nell’attuale società?
C’è sicuramente un importante ruolo da giocare.
Ciò che è davvero interessante è che la grammatica cognitiva e la sua filosofia
hanno già avuto un fortissimo impatto in America. Il concetto di frame e framing è
ormai dappertutto; spesso non è ben compreso, ma tuttavia è ovunque e ha reso
consapevoli molte persone che la mente e il cervello sono importanti.
Drew Westen, nel suo libro di recente pubblicazione – The Political Brain –, ha
insistito molto sul fatto che il ruolo dell’emozione in politica è estremamente
importante. E io sono convinto che la possibilità che la scienza cognitiva possa
influenzare la politica americana sia molto aumentata. Ma non è semplice, per
svariati motivi. Innanzitutto, ci sono molte persone nel Partito Democratico che
davvero credono nell’Illuminismo della ragione, e non capiscono che metafore e
frame sono reali; molti semplicemente non comprendono il significato di queste
parole. Il problema è superare questo scoglio.
Questo fatto è vero anche per molti giornalisti, viene loro insegnato a pensare in
termini di Illuminismo della ragione: credono che ogni cosa che studiano e della
quale scrivono sia neutrale, che i fatti siano neutrali, che si possa semplicemente
riportare i fatti in modo neutrale e che la lingua stessa sia neutrale. Tutto ciò è
falso. Ma i giornalisti sono formati in questo modo e ciò è un considerevole
ostacolo.
L’altra difficoltà risiede nel ruolo delle campagne elettorali e nell’apparato
pubblicitario che le porta avanti. Tutti coloro che si candidano per una carica
governativa devono avere alle proprie spalle una squadra che li supporti: esperti
pubblicitari, agenti elettorali, strateghi, consulenti, etc. Queste persone fanno soldi
grazie alla pubblicità e hanno un loro tornaconto economico nel non pensare in
termini di linguaggio metaforico.
Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
198
22. La guerra al terrore è stata spacciata per esportazione della democrazia. Ma
con l’approvazione del Patriot Act l’amministrazione Bush è arrivata fino al
punto di bandire alcune canzoni ritenute anti-patriotiche. Se da un lato portare
alla destituzione di dittatori può essere considerato un bene così come
l’instaurarsi di regimi democratici, dall’altro gli stessi Stati Uniti hanno visto al
loro interno sfaldarsi gli elementi minimi di quella stessa democraticità che
vogliono diffondere. Cosa possono fare gli Stati Uniti per garantire una migliore
vita democratica interna?
Credo sia importante sottolineare che non si deve mai parlare degli Stati Uniti
come se fossero una cosa sola. Occorre ricordarsi che nelle elezioni del 2000 Bush
ha preso la minoranza dei voti e che Gore poteva contare su mezzo milione di
preferenze in più. La decisione di affidare la presidenza a Bush è stata presa con
un voto della Corte Suprema. Bush da allora concepisce il proprio potere in termini
assoluti, una possibilità che gli è concessa anche grazie all’incapacità dimostrata
dall’ala democratica di comprendere l’efficacia comunicativa dei modelli
espressi nel suo pensiero.
Oggi la metà, o forse anche più della metà, degli americani si riconoscono in
disaccordo con ciò che il governo sta facendo; sembra pertanto difficile poter
parlare degli Stati Uniti come di una cosa sola. Sarebbe opportuno, piuttosto,
parlare del governo Bush.
Per quanto riguarda la domanda che mi è stata posta, ci sono diversi problemi da
considerare. Il più importante riguarda cosa si debba intendere per democrazia.
Occorre inoltre chiedersi se il governo Bush voglia realmente diffondere la
democrazia. Cosa si deve intendere per diffusione della democrazia?
Occorre tener ben distinte queste diverse questioni.
Conservatori e Progressisti in America hanno due modi diversi di intendere la
democrazia. Se ci si identifica con un Conservatore radicale, qual è Bush, la
parola democrazia non significa solo capitalismo, ma anche libero mercato. I
Conservatori di questo tipo sostengono la teoria secondo la quale il libero
mercato, se introdotto come primo elemento, condurrà necessariamente a
Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
199
elezioni, permetterà l’affermarsi di diritti civili, l’equilibrio del potere e così via. In
questo modo, i Conservatori dimostrano di possedere un’erronea teoria riguardo a
ciò che la democrazia può consentire (del resto se la teoria fosse vera Singapore
sarebbe una democrazia, ma in realtà non lo è). Questo tipo di visione non è la
stessa che la maggior parte degli americani condivide, essa rappresenta piuttosto
una prospettiva ideologica.
Quando l’amministrazione Bush attaccò l’Iraq era davvero intenzionata a
diffondere la democrazia nei termini in cui la concepiva? Certo non lo fece per
sostenere le idee e la concezione di democrazia di qualcun altro! Così la prima
cosa che fu fatta dopo la rimozione di Saddam Hussein fu privatizzare tutto,
eccetto alcune porzioni del mercato del petrolio. La ragione di quest’eccezione
la si comprende alla luce della necessità che il governo iracheno garantisca per i
prossimi trent’anni i contratti di appalto alle compagnie americane, concedendo
loro il 75% dei profitti derivanti dall’estrazione. Si comprende come le intenzioni
dell’amministrazione non si limitino quindi all’instaurazione di un libero mercato, ma
a qualcosa di più della semplice privatizzazione. Un obiettivo che non sono stati
ancora in grado di ottenere dal governo iracheno.
La questione è: l’amministrazione Bush è andata in Iraq per portare la
democrazia? Credo che essi siano propensi a trasformare l’Iraq in una democrazia
conservatrice secondo il modello caro a Bush, e non credo certo che sarebbero
soddisfatti se l’Iraq diventasse una democrazia di tipo progressista. Le due formule
sono piuttosto diverse.
L’amministrazione Bush ha predisposto in Iraq cinque basi permanenti, ha fatto
costruire un’ambasciata dieci volte più grande di ogni altra ambasciata presente
sul territorio, la quale disporrà di ben cinquemila impiegati. La sola ragione che
giustifica una simile ambasciata si rintraccia nel desiderio di controllare il paese e i
suoi affari. Una parte delle privatizzazioni eseguite in Iraq hanno permesso alle
compagnie americane di comprarsi il paese; ciò non è destinato a produrre le
condizioni per una democratizzazione dell’Iraq, quanto piuttosto a incrementare
gli interessi finanziari dell’amministrazione Bush in Medio Oriente.
Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
200
Alcune persone in America sono convinte che quando è in carica un presidente
conservatore, il quale crede nella militarizzazione e privatizzazione del paese, e
quando gran parte della capacità di governo è sottratta a favore delle grandi
compagnie, una simile condizione possa ancora essere definita democrazia. Allo
stesso tempo, una buona metà del popolo americano non crede che ciò possa
rappresentare la vera democrazia, ma piuttosto una forma di tirannia.
Come possiamo cambiare tutto ciò? I Democratici sono convinti che basti
semplicemente eleggere un loro presidente, o aumentare la presenza
democratica al Congresso. Ma non è così semplice. La ragione è che i
Conservatori hanno modificato non solo la mente di molti americani, ma anche le
istituzioni: hanno fatto in modo che il governo divenisse incapace di attuare
programmi sociali aumentando la spesa pubblica. Hanno fatto fuori i buoni
amministratori e chi intendeva effettivamente servire lo stato.
L’intero governo degli Stati Uniti necessita di essere risanato affinché si possa
ricostituire una Democrazia. Questa è la maggiore difficoltà e la più grande sfida
da affrontare, ma purtroppo molti in America non se ne rendono conto e i
Democratici non stanno attuando una buona campagna comunicativa. Coloro
che si sono schierati contro il governo repubblicano non riescono a esprimere la
concretezza del pericolo che stiamo correndo. Esiste un serio rischio per la
democrazia; solo alcuni progressisti hanno compreso la situazione e sono
continuamente impegnati a scriverne per renderla nota, ma la questione non è
ancora entrata al centro di una vera discussione pubblica.
23. In Europa molti condividono la sua stessa opinione, ma di questi tempi
contestare la linea politica degli Stati Uniti porta ad essere immediatamente
considerati “anti-americani”, così come disapprovare la linea politica
israeliana porta a essere accusati di essere “anti-israeliani”, – o peggio ancora
“antisemiti”. Non si tratta forse di un evidente caso di fallacia concettuale?
Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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Il problema qui sta nell’uso delle metonimie. Questa è una metonimia che
scambia l’esistente governo per l’intera nazione. Due cose completamente
diverse.
La metonimia è un processo cognitivo naturale, l’unico modo per evitare questa
confusione consiste nel parlare del governo, o dell’amministrazione Bush, piuttosto
che degli Stati Uniti, così come del governo israeliano piuttosto che di Israele.
Ritengo che si debba fare questo, ma non è certo una cosa facile.
24. Negli ultimi cinque anni negli Stati Uniti, ma anche in una larga parte d’Europa, i
progressisti si trovano a fare i conti con una comune crisi ideologica e
programmatica. I movimenti conservatori negli Stati Uniti, così come in Francia
e in Germania, hanno la maggioranza e, diversamente dalla sinistra, appaiono
all’opinione pubblica capaci di risolvere i problemi in agenda e mantenere il
potere per lungo tempo. Quali sono secondo lei le ragioni di questa crisi?
La destra europea sta assumendo consulenti dall’America in grado di insegnare
come influenzare le menti dei cittadini europei, facendoli diventare più
conservatori attraverso l’ausilio dei media e di altri meccanismi. Allo stesso tempo, i
progressisti in Europa hanno lo stesso problema dei progressisti in America:
entrambi continuano a pensare nei termini di una ragione illuministica. Essi non
hanno idea del ruolo del framing o di come la mente e il cervello lavorino, e in
questo modo continuano a peggiorare le cose.
In Europa vi trovate in una situazione davvero difficile, simile a quella statunitense,
solo che negli Stati Uniti le condizioni sono ancora più gravi.
Un altro problema è che in Europa la sinistra si rifà a una tradizione socialista e
marxista più solida di quella americana. La sinistra americana è maggiormente
democratica e capitalista, questo grazie a Roosevelt. In Europa è diverso, ma le
risposte socialista e marxista probabilmente non funzionano più. A questo punto la
questione è: qual è l’altra forma di democrazia capitalistica che propone
l’America? La forma tradizionale che deriva da Roosevelt assume che il
capitalismo è fondamentalmente un’opzione valida, ma anche che ci possono
Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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essere delle occasioni in cui il mercato fallisce, ed è per questo che esso va
costruito, ovvero regolato attraverso la legge. Ciò che secondo Roosevelt occorre
fare consiste nel monitorare i crolli del mercato e solo allora utilizzare il governo per
porvi rimedio, facendo attenzione ai diversi gruppi sociali (bambini senza
assicurazione sanitaria, veterani, studenti, etc.) Individuare realtà sociali sensibili e
sviluppare programmi di governo in loro sostegno: questa è la strada tracciata da
Roosevelt verso il capitalismo democratico.
Questa proposta è però fallita a causa di molteplici ragioni. Innanzitutto, i
Conservatori hanno attaccato il governo, rendendo impossibile un suo
funzionamento secondo il progetto concepito da Roosevelt. Inoltre, i Democratici
non hanno compreso cosa stavano sostenendo i loro avversari e non hanno
saputo reagire. Prendiamo la questione delle tasse – problema peraltro presente
anche in Europa e in molti altri paesi del mondo; è importante comprendere qual
è il giudizio dei progressisti attorno a questo tema. In America la storia delle tasse è
molto interessante. Fu il Re d’Inghilterra ad introdurre le tasse in America,
imponendole ai coloni americani e usando poi tutto il ricavato per sé; dopo la
Rivoluzione Americana le tasse non furono abbattute, ma fu ridefinito il loro ruolo.
Da un punto di vista progressista la tassazione ha due funzioni: la protezione e lo
sviluppo. I soldi sono utilizzati dal governo per proteggere la gente, non solo
attraverso l’esercito, la polizia o i vigili del fuoco, ma anche per prevenire alluvioni,
proteggere i lavoratori, i consumatori etc. La tassazione permette la costruzione di
strade, di progettare la costruzione di ferrovie, la possibilità di comunicazioni
satellitari o via Internet, di migliorare la rete bancaria del paese etc. Questo
processo aiuta la gente comune, ma anche e soprattutto le imprese e le società,
infatti a quest’ultimi sono destinati i maggiori contributi – ed è per questo che
dovrebbero pagare più tasse.
Fondamentalmente, la tassazione è un metodo per promuovere protezione e
sviluppo basato sul trasferimento di denaro o di altre risorse; esso dà alle persone
la possibilità di ricevere beni e servizi che in altra maniera non sarebbero loro
accessibili (strade, servizi bancari etc.). Ma il fatto che la tassazione dia qualcosa
a tutti è spesso un dato tralasciato. Per esempio, prendiamo il caso in cui si riceve
Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
203
una notifica delle tasse. Spesso si prende tale notifica come se dicesse: “Tu
guadagni una certa cifra e adesso siamo venuti a prenderne una parte”. Invece,
bisognerebbe leggerla come qualcosa del tipo: “Il governo ti restituisce – sotto
forma di beni e servizi – la somma che ti sottrae attraverso le tasse”. In questo
modo, la parola ‘tassa’ acquisterebbe il significato di un dare qualcosa alle
persone. È molto importante comprendere tutto ciò.
C’è un miliardario in America – Warren Buffett –, il quale deve la sua fortuna a vari
investimenti. È un miliardario liberale, e sostiene di non pagare abbastanza tasse.
Buffett afferma che le tasse sulle aziende sono già troppo basse, e che egli paga
meno della sua segretaria. Warren Buffett si domanda: “Cosa farei e dove sarei
oggi se non fossi un cittadino americano? Se mi avessero paracadutato in
Bangladesh trent’anni fa, oggi sarei povero: non c’è sistema bancario, non potrei
avere un conto in banca, non esiste la borsa valori e io non potrei investire. Ciò
che mi ha permesso di fare miliardi di dollari è il modo in cui il governo ha
sviluppato il commercio e ha permesso l’affermazione individuale. Gli sono
debitore. Ogni compagnia, ogni persona che fa soldi in America è debitore al
governo”. Ciò che Buffett va sostenendo è che esiste una reciprocità fra denaro e
sviluppo, che il governo fornisce beni e servizi, per i quali si paga un costo
relativamente basso, che è in proporzione molto minore quanto più è alto il
reddito.
Ci sono inoltre altri casi di trasferimento di benessere, che non sono però chiamati
così. Ad esempio, quando un’industria (come quella del petrolio, o altre) viene
sovvenzionata, questo è trasferimento di benessere; o quando si sovvenziona il
settore agricolo, si sta trasferendo benessere dai comuni cittadini che pagano le
tasse agli investitori. Tutto ciò non è comunemente definito come un trasferimento
di benessere, ma in realtà lo è. Il problema è che nessuno ne parla in questi
termini.
Esistono poi ancora altre modalità di trasferimento che appaiono importanti. Per
esempio, il petrolio oggi costa 100$ al barile; prima della guerra in Iraq ne costava
25. Tre quarti dell’aumento del prezzo sono imputabili proprio alla guerra in Iraq.
Questo è un fatto molto importante: rappresenta praticamente una forma di
Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
204
tassazione. Possiamo considerarlo come una ‘tassa’ sulla guerra in Iraq; certo, non
viene sicuramente usato questo termine, ma sarebbe opportuno farlo. Si
dovrebbe tener presente il prezzo del petrolio prima della guerra, e quando si
passa a fare rifornimento fare la considerazione: “Questo è il prezzo standard a cui
è stata aggiunta una tassa sulla guerra in Iraq, che ammonta a tre volte il prezzo
originale”. Ma nessuno lo fa.
Come si può vedere, è estremamente importante impiegare i giusti concetti per
comprendere la realtà; questa è una delle ragioni per cui le scienze cognitive
sono così cruciali.
25. Qual è la sua opinione sulle primarie dei Democratici del 2008? Pensa che
l’elezione di un presidente democratico porterebbe il suo paese a muoversi
diversamente sullo scacchiere internazionale?
Entrambe sono due questioni molto complesse.
Nelle primarie, i tre candidati da prendere sul serio sono: Hillary Clinton, Barack
Obama e John Edwards. Quest’ultimo ha però meno possibilità, dato che ha
raccolto una minor quantità di fondi.
Hillary Clinton dispone della miglior organizzazione: la vecchia ‘struttura Clinton’ e
l’ormai collaudato sistema di raccolta di fondi. Se lei fosse eletta, governerebbe il
paese nel modo in cui l’ha fatto suo marito: attraverso una triangolazione,
spostandosi verso destra, verso quello che lei ritiene il centro. Hillary si considera
una progressista pragmatica; inoltre, in quanto donna, si sente in dovere di
mostrare un’immagine forte, ed è per questo che sta spingendo per un’energica
politica estera. La scommessa è che Hillary Clinton otterrà la sua nomination
semplicemente perché lei possiede il miglior staff organizzativo; ciò non toglie che
sia anche una candidata formidabile, molto intelligente e popolare.
Barack Obama è una persona notevole; è probabilmente il più intelligente dei tre
candidati, oltre ad essere sicuramente il più eloquente e carismatico. Ma la sua
campagna sta soffrendo a causa dell’incomparabilità organizzativa rispetto alla
Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
205
Clinton. Credo anche che Obama di per sé non si sia impegnato abbastanza.
Potrà essere il solo carisma a trascinare Obama verso la vittoria?
John Edwards sta facendo leva esclusivamente su argomenti popolari che
toccano la sfera economica, ma il populismo è una forma di cultura, non di
economia. Dubito seriamente che possa andare lontano. Edwards, Hillary e
Obama, per quanto riguarda il caucus dell’Iowa, sono considerati l’uno vicino
all’altro, ma dopo Edwards sarà fuori (ndr: l’intervista è stata rilasciata un mese
prima del caucus in Iowa).
I tre candidati sono tutti promettenti riguardo alla soluzione di molte
problematiche, ma purtroppo ognuno dei loro programmi ha delle carenze
riguardo ad alcuni dei problemi che affliggono il paese. Personalmente, preferisco
avere un Presidente con il quale sono d’accordo l’85% delle volte piuttosto che in
nessun caso. Ciò fa dei candidati democratici un’opzione preferibile rispetto a
quella dei conservatori, e sarei felice di eleggerne uno qualsiasi piuttosto che un
conservatore.
Il suo nuovo libro
26. Il suo nuovo libro su Gödel sta per uscire; può anticiparci qualcosa sul suo tema
principale?
Un altro suo libro, The Political Mind: Why You Can’t Understand 21st-Century
American Politics with an 18th-Century Brain, mette assieme scienze cognitive e
politica. Qual è il suo scopo?
Negli ultimi trent’anni è stato scoperto molto riguardo al rapporto tra la mente e il
cervello, e ciò ha distrutto le teorie illuministe al riguardo. Ma la maggior parte
della gente non ha idea dei passi avanti che si sono fatti. Questo porta con sé
diverse conseguenze politiche. L’idea che muove The Political Mind è proprio
quella di introdurre una conoscenza della mente che metta in evidenza le sue
conseguenze politiche.
Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
206
Il libro su Gödel è scritto assieme ad altri due autori: Aaron Siegel, il quale è stato
un mio studente ed è ora un ottimo matematico, e Rafael Nuñez, un eccellente
storico della matematica, nonché una persona eccezionale con la quale scrivere
un libro.
Aaron ed io abbiamo estrapolato le metafore contenute all’interno del teorema
di Gödel. Ciò che abbiamo fatto è stato mettere in evidenza le metafore che
collegano uno dei maggiori teoremi di Cantor, il teorema di diagonalizzazione, il
quale dimostra che esistono più numeri irrazionali che razionali. Abbiamo
dimostrato che se si parte con questo teorema e si aggiungono cinque metafore
si ottiene il teorema di Gödel.
Alcuni pensano che i teoremi di Gödel provino che non esiste alcun insieme
infinito di assiomi dai quali si possa derivare tutta la matematica, ovvero che non è
possibile che la matematica si basi su un insieme finito di assiomi. Ma questo non è
ciò che Gödel ha effettivamente dimostrato. Con la sua dimostrazione, Gödel
mette in luce come una volta scelti gli assiomi si arrivi sempre alla possibilità di
definire delle affermazioni indecidibili. Certo, si potrebbe sempre aggiungere tali
affermazioni in qualità di nuovi assiomi, ma – pur facendo questo – si otterrebbe
comunque sempre una nuova affermazione indecidibile. E si potrebbe andare
avanti all’infinito con questo processo. Perciò, l’idea è che un’assiomatizzazione
finita per la matematica non è possibile.
Tuttavia, se si guarda al contenuto di ciascun teorema si può notare come questi
non riguardino direttamente la matematica, ma piuttosto la formalizzazione della
matematica e della logica. Essi affermano che certe assunzioni sono indecidibili,
ma la decidibilità non è una proprietà che riguarda l’aritmetica. La decidibilità
diventa una proprietà dell’aritmetica solo quando formalizzata all’interno della
logica. L’aritmetica riguarda le addizioni, le moltiplicazioni, l’elevamento a
potenza e non ciò che i giudizi di indecidibilità affermano. Si assume normalmente
che la formalizzazione in matematica preservi i propri oggetti, ma Gödel ha
provato che non è così. Una conseguenza davvero notevole per la matematica.
Biblioteca Filosofica © 2007 - Humana.Mente, Periodico trimestrale di Filosofia, edito dalla Biblioteca Filosofica - Sezione Fiorentina della Società Filosofica Italiana, con sede in via del Parione 7, 50123 Firenze (c/o la Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università degli Studi di Firenze) - Pubblicazione iscritta al Registro Stampa Periodica del Tribunale di Firenze con numero 5585 dal 18/6/2007.
Filosofia del Linguaggio:
prospettive di ricerca Numero 4 – Febbraio 2008
Intervista a Luigi Perissinotto
Etica e mistica in Ludwig Wittgenstein
Laura Beritelli
http://www.humana-mente.it
Intervista a Luigi Perissinotto – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
207
Luigi Perissinotto, Professore di Filosofia del Linguaggio all’Università degli Studi Ca’
Foscari di Venezia..
In occasione del seminario Etica e mistica in Ludwig Wittgenstein, organizzato
dall’associazione Asia a S. Vincenzo dal 1 al 4 novembre 2007, abbiamo avuto
l'opportunità di chiedere al relatore delucidazioni su ciò di cui si era discusso.
Tuttavia, se in questo stesso numero di ‘Humana.mente’ abbiamo deciso di offrirvi
una puntuale recensione dell’evento, questa intervista ha piuttosto lo scopo di
soddisfare alcune nostre illegittime curiosità.
Professore, ci siamo chiesti quale sia la motivazione che l’ha spinta a condurre
questo seminario; in particolare, dato il suo impegno come responsabile del
master in Consulenza Filosofica presso l’università Ca’ Foscari di Venezia, ci siamo
chiesti se ciò non avesse a che fare con una sua più ampia progettualità, volta ad
avvicinare i ‘non addetti ai lavori’ alla filosofia.
No, non partecipo di questo tipo di tensioni…Inoltre, la consulenza filosofica, così
come è offerta dalla nostra didattica, non è legata alla cosidetta ‘educazione
degli adulti’ (come nel caso della consulenza filosofica individuale), quanto
piuttosto alla preparazione di professionisti che lavorino in team eterogenei (con
psicologi ed educatori, ad esempio), per gestire collettivamente richieste
specifiche (come quelle dei malati terminali o quelle necessarie all’interno di
strutture quali case famiglia, consultori).
Come è approdato qui, allora? Conosceva l’associazione Asia, ne era socio?
Devo ammettere che, prima di essere contattato, avevo un’idea molto vaga di
cosa fossero le Vacances de l’esprit. Mi è sembrata una cosa interessante ed ho
accettato. In effetti, questa si è rivelata un’esperienza intensa e gratificante
rispetto alle normali conferenze o, più in generale, alle dinamiche congressuali. In
Intervista a Luigi Perissinotto – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
208
quattro giorni abbiamo avuto tempo di approfondire gli argomenti ogniqualvolta
è stato necessario ed ho potuto rispondere a tutte le domande dei partecipanti.
Nella prima lezione lei ha illustrato uno scenario di barbarie, una sorta di
medioevo, durante il quale i curatori letterari di Wittgenstein ritennero di poter
tenere il mondo all’oscuro di una consistente parte di documenti autografi. Il loro
scopo sarebbe stato di mantenerne il ‘decoro’ e, soprattutto, l’immagine
‘pubblicitaria’ di neopositivista che il filosofo aveva ottenuto in vita. Tuttavia,
sembra impossibile che nessun neopositivista si fosse precedentemente opposto a
questa considerazione.
Ed infatti non è così. Tuttavia, tra tutti gli appartenenti al Circolo di Vienna, un solo
membro comprese che Wittgenstein non era un neopositivista, ed è Otto Neurath.
Egli fu decisamente critico nei suoi confronti, avvertendo che fuoriusciva dalla
sensibilità, dalle atmosfere, del neopositivismo. Molto tempo dopo, nella sua
biografia, Rudolph Carnap, raccontando di quando si trovavano a leggere il
Tractatus, scrisse che lo spirito di Wittgenstein era diverso da quello dello
‘scienziato’ (ovvero del filosofo).
Passando invece alle interpretazioni religiose del Tractatus: come mai, anche in
questo caso, nessuna voce si è alzata per osteggiarle come ‘distorsioni’?
Il problema della lettura teologica è diverso - nonostante anche in questo caso
non si possa prescindere dal dato che due curatori letterari fossero cattolici. Sul
piano generale, le interpretazioni teologiche non sono così peregrine: soprattutto il
Tractatus ed i Quaderni 1914-1916 danno loro buoni appigli e materiale. Molti
passaggi le sostengono. La sua biografia ci dice che Wittgenstein non era
credente, ma la sua aspirazione ad una vita etica, l’antidogmatismo e l’interesse
per la religione hanno lasciato impressioni contrarie su chi lo conosceva. Ad
esempio, il suo allievo Norman Malcolm racconta di come Wittgenstein osservasse
tutte le cose con ‘sguardo religioso’.
Intervista a Luigi Perissinotto – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
209
Lei ha parlato in questi giorni ad una platea di ‘non-filosofi’ richiamati dal tema:
‘etica e mistica’. Ha spiegato loro la logica del Tractatus; ha sostenuto che non
può essere scissa dall’etica, che l’etica non è formulabile ed infine che la filosofia
niente può dire sui loro problemi vitali. Come crede sia stata recepita questa
massa di ‘sentenze’, questa affermatività?
Credo, in primo luogo, che l’etica proposta da Wittgenstein, per quanto non
performativa, proponga un ‘io devo’. Ho quindi cercato di mostrare come,
nonostante Wittgenstein non voglia fornire alcun criterio di valutazione, attraverso
di essa egli indichi un verso, orientato secondo tre linee direttrici: l’etica in prima
persona, la necessità di chiarezza e di sincerità e l’antidogmatismo. Potrà
sembrare inconsistente o vago, ma non è meno di quel che offrono molte forme
di etica, come quella dell’autoresponsabilità, ad esempio. La differenza da
un’etica riconosciuta come tale è che quella di Wittgenstein non è conoscitiva.
Esiste, per lei, la possibilità di ‘essere aiutati’ da Wittgenstein?
Spesso mi viene chiesto: quale filosofia, per la consulenza filosofica? Certamente
non suggerirei Carnap! La fenomenologia, ad esempio, dà ottimi spunti per
risolvere i problemi che Wittgenstein chiamava ‘vitali’, perché insegna la messa in
parentesi dei pregiudizi che ci impediscono di accedere alle cose. Secondo me,
Wittgenstein è un filosofo a cui potersi ispirare, nonostante sostenesse esattamente
il contario, ovvero che la filosofia corrompe. Se c’è qualcuno che ha ricucito la
cesura tra filosofia e vita - che da Hume arriva fino a Nietzsche-, quello è proprio
Wittgenstein.
La fortuna di un pensiero che unisce linguaggio ed etica è stata infatti alimentata
dall’ispirazione che da esso hanno tratto artisti e letterati. Penso all’opera di
Ingeborg Bachmann, la poetessa austriaca che a Wittgenstein dedica Il dicibile e
l’indicibile e alla sua riflessione sul linguaggio in Letteratura e utopia, ovvero anche
Intervista a Luigi Perissinotto – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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alla ricerca di una prassi orientata dalle idee di Wittgenstein sul pensiero (uso del
linguaggio ed etica).
Purtroppo, non mi sono mai interessato a confronti di questo genere. Da un punto
di vista strettamente filosofico, penso che queste similitudini non siano
propriamente fuorvianti, ma oziose. Personalmente, per lavorare alla relazione tra
Wittgenstein e altri autori, preferisco avere un riscontro filologico. Tuttavia, già nel
confronto tra due grandi personalità, quali Wittgenstein e Heidegger, abbiamo a
disposizione poco materiale: sappiamo solo che il primo cita il secondo e che
questi aveva una copia del Tractatus in biblioteca, niente di più.
Ma non si può negare che esista un ‘successo’ di Wittgenstein tra gli artisti…
Wittgenstein ha ispirato soprattutto l’arte visiva. Tra tanti, il più famoso è lo scultore
Eduardo Paolozzi, esponente della pop-art inglese. In ambito musicale è invece
famoso un compositore svedese, M.A.Numminen, che ha musicato il Tractatus
(The Tractatus Suite), o la composizione Un'immagine di Arpocrate (su frammenti di
Goethe e Wittgenstein) di Salvatore Sciarrino.
Durante il seminario, lei ha accennato anche alla questione etica nella scienza,
dato che nel Tractatus si distinguono le proposizioni scientifiche, sensate, da quelle
dell’etica, insensate: ovvero del problema dell’orientamento etico della ricerca
scientifica. Lei che cosa ne pensa?
Seguendo Wittgenstein, sembra si possa affermare l’oggettività della scienza e
quindi ritenere che essa sia ‘avalutativa’, occupandosi del ‘come’ del mondo.
Tuttavia, rifacendosi in questo caso alla questione così come la pose Max Weber
in La scienza come professione (1919), una scienza davvero neutrale, i cui fini sono
posti dalla società, o dall’istituzione che la rappresenta, e che si limiti a trovare i
mezzi adeguati per raggiungerli, non può esistere (come per altro sosteneva la
scuola di Francoforte). In primis, perché lo scienziato non dovrebbe mai
pronunciare un giudizio etico; in secondo luogo, perché i fini sono in
contraddizione e contrapposizione tra loro e, quindi, non è possibile rendere la
Intervista a Luigi Perissinotto – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
211
scienza estranea alla questione del valore; ma, soprattutto, anche volendo ridurre
la pertinenza della scienza ai soli mezzi, poichè questi sono diversi e vari, la ricerca
scientifica opererà comunque una valutazione ed una scelta tra di essi.
Molti partecipanti al seminario erano interessati al collegamento tra la filosofia di
Wittgenstein e le discipline orientali, in virtù di un messaggio che riconoscono
curiosamente analogo. Lei ha già risposto che il paragone era fuori luogo, ma in
particolare cosa le impedisce di accogliere questo genere di riflessioni?
Come ho già spiegato, anche in questo caso non esistono prove storiche del
contatto o dell’influenza di simili discipline su Wittgenstein: in effetti, l’unico
collegamento tra Wittgenstein e l’oriente è il fatto che aveva letto Schopenauer.
Tuttavia, per chi fosse interessato, esiste una nutrita letteratura sull’argomento.
Da un punto di vista filologico, che radice ha la coincidenza tra etica ed estetica
in Wittgenstein?
Per quel che possiamo capire, sembrerebbe che bello, buono e vero siano
inseparabili, come se Wittgenstein avesse recuperato i trascendentali medievali
che Nietzsche aveva demolito. Di un quadro, come di una vita, non ci importa
‘che cosa’ rappresenta: il bello sta dove si mostra e si realizza la meraviglia.
Biblioteca Filosofica © 2007 - Humana.Mente, Periodico trimestrale di Filosofia, edito dalla Biblioteca Filosofica - Sezione Fiorentina della Società Filosofica Italiana, con sede in via del Parione 7, 50123 Firenze (c/o la Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università degli Studi di Firenze) - Pubblicazione iscritta al Registro Stampa Periodica del Tribunale di Firenze con numero 5585 dal 18/6/2007.
Filosofia del Linguaggio:
prospettive di ricerca Numero 4 – Febbraio 2008
Intervista a Gaspare Polizzi
Le attività 2008 della Biblioteca Filosofica
Matteo Leoni e Duccio Manetti
http://www.humana-mente.it
Intervista a Gaspare Polizzi – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
212
Gaspare Polizzi, docente a contratto di Storia della Scienza presso l’Università di
Firenze, vicepresidente e membro del direttivo della Biblioteca Filosofica, di
Duccio Manetti e Matteo Leoni
La Biblioteca Filosofica si è costituita più di un secolo fa, nel 1905, con l’intento di
promuovere una vivace attività di lezioni, letture, e discussioni. Pur tra molte
difficoltà l’associazione è stata capace di durare e di proporsi come luogo
d’incontro tra studiosi e cultori della filosofia. Dunque essa risponde a delle reali
esigenze del mondo filosofico e, più in generale, culturale? In particolare, ritiene
che il dialogo tra mondo universitario e scuola secondaria, argomento
tradizionalmente caro alla Biblioteca Filosofica, sia tra queste?
Il richiamo alla “Biblioteca Filosofica” mi offre l’opportunità per una breve
riflessione. La storia della “Biblioteca Filosofica” – così efficacemente ricostruita da
Eugenio Garin (La Biblioteca Filosofica di Firenze, in AA. VV., Le Biblioteche
Filosofiche italiane. Firenze, Palermo, Torino, Edizioni di “Filosofia”, Torino 1962, pp.
1-11) – è significativa per chi voglia ripensare alla storia della cultura filosofica
fiorentina del primo Novecento e può fornire spunti e ammaestramenti per il
presente. Tale istituzione espresse tuttavia – nel breve periodo della sua esistenza
(dal 1905 al 1917) – una tensione speculativa per certi aspetti mistica e teosofica,
che ad esempio contrastava con gli indirizzi, prevalentemente positivistici, della
nascente filosofia accademica fiorentina, evidenti in figure esemplari dell’Istituto
di Studi Superiori, quali Pasquale Villari, direttore della Sezione di Filosofia e
Filologia. Scrive Garin: «La Biblioteca Filosofica di Firenze ebbe origini teosofiche e
magiche, ben rispondenti a un certo clima culturale del primo decennio del
secolo»; e aggiunge: Sotto un certo profilo verrebbe fatto di dire che la Biblioteca
Filosofica con il suo nucleo di libri e riviste, con le sue discussioni, coi suoi cicli di
lezioni e conferenze, tendesse a concretare in un istituto, in una specie di libera
facoltà di studi filosofici e religiosi, quelle posizioni culturali, idealistiche,
spiritualistiche, moderniste, che in qualche modo polemizzavano con la tradizione
universitaria ufficiale». Mentre da un lato il professore ordinario di filosofia teoretica
Intervista a Gaspare Polizzi – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
213
dell’Istituto di Studi Superiori Francesco De Sarlo ricordava, nel discorso inaugurale
dell’anno accademico 1906-1907, letto nell’aula magna di Piazza San Marco il 3
novembre del 1906, che la filosofia ha una funzione di critica «sul valore obbiettivo
delle cognizioni ottenute coi metodi e i procedimenti delle singole scienze», nelle
sale della “Biblioteca Filosofica” in Piazza Donatello si tenevano fortunate
conferenze domenicali su temi come Per un nuovo umanesimo ariano (Roberto
Assagioli) o Il Paradiso terrestre e il dogma del peccato originale (Salvatore
Minocchi) e uno tra i principali promotori della Biblioteca, Guido Ferrando,
scriveva nell’introduzione a un volume che raccoglieva le conferenze del 1907
(Per una concezione spirituale della vita. Conferenze, Seeber, Firenze 1907) – in
sintonia con uno tra i più noti sostenitori e collaboratori della Biblioteca, Giovanni
Papini – che le conferenze di Piazza Donatello avevano per fine «la glorificazione
dell’energia creativa dello spirito umano», ben oltre, se non contro, l’oggettività
della scienza, e aggiungeva, nel segno di una netta reazione anti-positivistica e
anti-accademica, che vi era «bisogno di una istituzione che si adoperi
efficacemente alla formazione del carattere e della mente dell’individuo e che
tenga alto, ben alto, l’ideale della vera cultura». Le distanze e i dissidi si
attenuarono con il tempo e si realizzò infine una produttiva circolazione di idee tra
l’Istituto di Studi Superiori e la Biblioteca, soprattutto nell’ambito dei temi etico-
religiosi, più consoni allo spirito delle conferenze e delle letture della Biblioteca
stessa.
L’esperienza della Biblioteca è quindi senz’altro rilevante per aver posto l’esigenza
di un superamento della cultura filosofica di ambito accademico e di un
avvicinamento ai problemi del tempo, tra i quali avevano largo spazio quelli
morali e religiosi, in un orizzonte storico di crisi che avrebbe di lì a poco condotto
alla prima guerra mondiale. Tuttavia la fisionomia attuale della Società Filosofica
fiorentina, come ha ben ricordato Amedeo Marinotti nella sua bella e articolata
ricostruzione, L’attività della sezione fiorentina della Società Filosofica Italiana dal
1953 al 1998 (presente nel nostro sito), è descritta da vicende che partono dal 14
marzo 1953 e che non hanno un’immediata connessione con la storia della
“Biblioteca Filosofica”. Basta leggere l’elenco dei soci fondatori – «Gaetano
Intervista a Gaspare Polizzi – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
214
Chiavacci, E. Paolo Lamanna, Alessandro Levi, Ernesto Codignola, Arrigo Levasti,
Antonio Lantrua, Vito Fazio-Allmayer, Eugenio Garin, Cesare Luporini, Pietro
Piovani, p. Ernesto Balducci, Domenico Pesce, Francesco Adorno, Francesca
Rivetti Barbò, Giulio Preti, Maria Luisa Stringa» – per cogliere la distanza rispetto a
quell’esperienza di inizio secolo. Mi pare che sia quindi più opportuno cercare
oggi i nostri riferimenti ideali in quella schiera di filosofi rigorosi, aperti alla cultura
europea e alle più moderne istanze della filosofia. Per limitarmi a quell’elenco,
penserei che valgono molto di più per l’odierna cultura filosofica fiorentina, per
l’attuale orientamento degli studi filosofici a Firenze, il modello di ricerca e di
impegno filosofico e civile di Giulio Preti (rinnovato dal nostro attuale presidente
Alberto Peruzzi) o, su un terreno teoreticamente divergente, ma parallelo per la
vocazione a far convergere la rigorosa pratica filosofica con l’iniziativa civile,
quello di Eugenio Garin, piuttosto che non quelli di Ferrando o di Papini. Oggi la
cultura filosofica fiorentina è radicalmente cambiata e non credo vi sia un
rimpianto per il mondo da Belle Epoque. Rimane tuttavia viva l’esigenza –
presente nella “Biblioteca Filosofica” – di coltivare luoghi di incontro filosofico che
non siano collocabili nel contesto pur variegato dell’università fiorentina e che
mettano in gioco competenze ed interessi di origine diversa. Neppure il mondo
della scuola, spesso soffocato da richieste strettamente e a volte asfitticamente
didattiche, offre spazio a tale esigenza, che ha la possibilità di esprimersi in luoghi
e tempi cittadini, nei quali docenti universitari e di liceo, cultori di filosofia, studiosi
variamente interessati, cittadini colti e studenti possono incontrarsi e interagire a
partire da problemi filosofici di sicuro impatto pubblico e attuale. Certo è
pressante anche il bisogno di mettere in gioco competenze oggi non valorizzate,
spesso presenti in forma frammentata nel mondo della scuola, ma anche
nell’università, di far interagire stili diversi del filosofare; rispetto a tale bisogno la
Società Filosofica Italiana nel suo complesso e la sezione fiorentina in particolare
molto ha fatto e molto può ancora fare.
Corre l’obbligo di ricordare che il suo interessamento, insieme a quello di altri soci
provenienti dal mondo della scuola, è stato fondamentale per il rilancio
Intervista a Gaspare Polizzi – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
215
dell’attività della Biblioteca alla fine degli anni ’90. Che cosa è cambiato da
allora?
Alla fine degli anni ’80 del secolo scorso – ricordo una lettera dell’8 novembre 1989
indirizzata alla presidente di allora, Maria Moneti Codignola – un gruppo di
docenti di filosofia volenterosi e impegnati, sia sul piano didattico che su quello
scientifico, stimolò il Direttivo della SFI fiorentina ad attivare momenti di incontro, di
confronto e di studio che coinvolgessero i soci, sia insegnanti che ricercatori, e ad
operare con maggiore incisività nel settore dell’aggiornamento degli insegnanti,
da intendersi soprattutto come aggiornamento disciplinare, dinanzi alle grandi
linee di movimento della filosofia novecentesca, che a stento erano conosciute
dai colleghi di liceo e raramente venivano trasmesse agli studenti. L’operazione
ebbe un certo successo, perchè mise in moto cicli e attività di aggiornamento e di
approfondimento disciplinare. Ricordo, oltre agli incontri sullo stato
dell’insegnamento della filosofia, cinque seminari di approfondimento organizzati
nel periodo 1991-1995, anche con la collaborazione del CIDI di Firenze, e rivolti agli
insegnanti di filosofia: Epistemologia ed etica nella filosofia contemporanea,
Filosofia e scienze umane; il circolo di Vienna e la filosofia analitica, Nietzsche e
Wittgenstein nella cultura e nella filosofia del Novecento e La riflessione sul
linguaggio tra comunicazione e interpretazione. Tale attività permise di far
emergere un settore, minoritario, ma motivato, di giovani docenti liceali che
hanno poi in vario modo rinnovato l’insegnamento della filosofia e offerto
contributi anche di qualche rilievo nella cultura filosofica fiorentina.
Tanto è tuttavia cambiato. Innanzitutto i docenti liceali di filosofia oggi non sono
più così disponibili e ricettivi per iniziative che, oltre al piacere del confronto e della
ricerca, non offrono alcuna concreta gratificazione, né di tipo remunerativo, né
per un miglioramento della carriera lavorativa. E poi i momenti di
approfondimento e di formazione si sono diversificati e frammentati e un ruolo
sempre maggiore giocano le relazioni e le esperienze anche conoscitive via
internet, come peraltro dimostra la stessa rivista che ospita questa intervista. Un
qualche ruolo può ancora essere svolto – a mio avviso – da un impegno di
Intervista a Gaspare Polizzi – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
216
discussione, anche filosofica, rivolto alla cittadinanza, indirizzato a coltivare
problemi e riflessioni che concernono da vicino il presente.
Come responsabile dell’organizzazione del ciclo di conferenze al Vieusseux può
illustarci l’attività del 2008?
Quest’anno proporremo per il terzo anno consecutivo (ma con maggiori difficoltà,
soprattutto nelle risorse) il fortunato ciclo Pensare il presente, che - a mio avviso -
possiede alcune peculiarità nel panorama culturale fiorentino. Innanzitutto si tratta
di una serie di incontri che per la prima volta ha messo in relazione istituzioni
culturali molto diverse tra loro – la SFI, il Gabinetto Scientifico Letterario “G.P.
Vieusseux”, l’Istituto Gramsci Toscano, la Società Italiana per lo studio dei rapporti
tra Scienza e Letteratura – facendole convergere per la realizzazione di un
progetto che ha una forte vocazione al potenziamento dello spirito di
cittadinanza, di una cittadinanza attiva e motivata, e che richiede alla filosofia di
mettere e mettersi in questione intorno a temi legati al presente delle forme di
sapere e di esperienza. In secondo luogo la formula degli incontri, sempre
organizzati a due voci, una delle quali filosofica, modulate da un moderatore che
sappia equilibrarle, è particolarmente efficace, perché impone “socraticamente”
allo specialista, sia esso uno scienziato o un artista, di mettere in discussione le
proprie competenze e al filosofo di interrogare sapientemente e non oziosamente
l’interlocutore, uscendo dalle secche a volte opprimenti di un presunto e ostinato
“specialismo” filosofico. Infine la dimensione dialogica è valorizzata dall’intervento,
spesso incisivo, del pubblico, che mostra non soltanto di gradire la formula, ma
anche di voler partecipare attivamente al dialogo, ridefinendone e a volte
trasformandone i termini e la direzione.
La sfida di quest’anno sarà rivolta al mondo delle arti figurative e della musica,
settore verso il quale la filosofia ha di recente testimoniato un rinnovato e
articolato interesse, come mostrano anche a Firenze le iniziative promosse negli
ultimi anni dal Dipartimento di Filosofia nella direzione della cultura musicale e dal
Seminario permanente di Estetica in quella delle forme artistiche più recenti, che
Intervista a Gaspare Polizzi – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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mettono in gioco e costringono a ripensare con una mise en abime il concetto di
esperienza estetica. Mi pare utile riportare al proposito la presentazione del ciclo,
redatta da Fabrizio Desideri:
«In un’epoca in cui le questioni all’ordine del giorno sono quelle della pluralità e
del fattuale intreccio di fedi, culture e tradizioni e uno dei problemi più dibattuti è
quello del relativismo quale significato può avere un dialogo tra le pratiche della
filosofia e quelle delle arti? Si può parlare di una responsabilità di fronte alla inedita
drammaticità comune sia all’esercizio filosofico del pensiero e all’impegno degli
artisti sul fronte dei differenti linguaggi espressivi? È ancora lecito parlare di una
trama comune o almeno di affinità e zone di contatto e di sinergia tra l’evidente
pluralismo dei modi stessi di intendere la filosofia e l’arte? A queste domande
cercherà di rispondere il ciclo di quest’anno di “Pensare il presente”, dedicato
appunto a dialoghi tra filosofi e artisti. Diverse saranno le questioni dibattute.
Anzitutto quella relativa alla dialettica tra invenzione e vincoli che caratterizza sia il
lavoro del filosofo sia quello dell’artista. Seppure in modalità diverse, in entrambi i
casi nessun compito e nessuna sfida, soprattutto rispetto a questioni inedite che
oggi si profilano per gli umani destini (per il senso stesso di cosa significhi
“umanità”), possono essere affrontati senza un’accelerazione e un potenziamento
delle virtù immaginative della ragione. D’altra parte, nel momento stesso in cui il
lavoro filosofico e quello artistico scoprono la libertà del procedere e la necessità
dell’invenzione, capiscono anche che entrambe non sono per così dire assolute: si
muovono all’interno di tradizioni e debbono rispondere non solo a problemi, ma a
leggi e vincoli immanenti. Una seconda cruciale questione che impegna le
filosofie e le arti oggi è quella relativa a un rapporto né di generica ripulsa, né di
adesione senza riserve con le nuove tecnologie e, ancor più, con le nuove forme
di produzione, organizzazione e diffusione del sapere. A questo proposito, forse,
hanno molto da insegnare ai filosofi proprio quegli artisti che si sono mostrati
capaci di fare dell’attuale orizzonte tecnologico e multimediale dell’espressione e
della comunicazione il terreno di un lavoro innovativo. Proprio a partire dal
dialogo con questi artisti, né catastrofici né integrati, possiamo infatti
comprendere lo spazio della tecnica come una chance, anziché come un
Intervista a Gaspare Polizzi – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
218
destino. Una chance per ricostituire un nuovo senso dell’identità umana, né risolta
in una fluidità senza trama, né meramente nostalgica di pur nobilissime tradizioni.
In questo senso i dialoghi tra filosofi e artisti che proponiamo hanno anche il valore
di avviare una riflessione su cosa significhi oggi, proprio a Firenze, pensare e
ripensare il Rinascimento. Se c’è una trama problematica comune che lega –
oggi – arte e filosofia, questa è data, forse, proprio dalla necessità di un nuovo
“umanesimo”, di un senso dell’umano non ancora scritto o fissato, dove pluralismo
e unità respirino assieme in un comune ethos dialogico».
Il rilievo internazionale degli artisti coinvolti e lo spessore teoretico dei filosofi che
interverranno fanno scommettere sulla qualità del ciclo. Riporto l’elenco degli
incontri, perché gli interrogativi posti e le presenze mostrano bene di che si tratta:
Pensare la musica, comporre la musica: un ritmo comune? (31 gennaio, Daniele
Lombardi e Sergio Givone, coordina Eleonora Negri); Una nuova arte per l'epoca
delle tecnologie? (12 febbraio, Paolo Rosa e Pietro Montani, coordina Fabrizio
Desideri); Qual è il "laboratorio" per l'arte oggi? (29 febbraio, Gianfranco
Baruchello e Giuseppe Di Giacomo, coordina Fabrizio Desideri); Un’arte possibile
tra Oriente e Occidente? (6 marzo, Omar Galiani e Pina De Luca, coordina
Fabrizio Desideri); Musica, scienza e filosofia: quale ordito le lega insieme ? (3
aprile, Lelio Camilleri e Maria Luisa Dalla Chiara; coordina Luca Farulli); Pensare il
rinascimento: un nuovo umanesimo? (17 aprile, Michel Serres e Carlo Sisi, coordina
Roberto Berardi); tavola rotonda conclusiva Filosofia, musica, arti figurative: quale
trama le unisce? una trama in comune? (6 maggio, Marco Bagnoli, Fabrizio
Desideri, Elio Matassi e Dani Gal, coordina Angelika Stepken). I filosofi, ben noti al
pubblico fiorentino, si confronteranno stavolta con compositori e artisti di fama
nazionale e internazionale, e non mancherà anche un Accademico di Francia…
Sappiamo anche che si è prodigato per organizzare una giornata di
commemorazione del prof. Carlo Monti il 19 febbraio. Può brevemente ricordarne
la figura e, in particolare, il contributo che diede alla Biblioteca Filosofica ?
Intervista a Gaspare Polizzi – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
219
Carlo Monti è stato un testimone attivo delle vicende della SFI fiorentina fin dagli
anni ‘60 del secolo scorso e non ha mai mancato di aderire alle sue iniziative e di
condividerne lo spirito aperto e dialogico. La sua lunga esperienza didattica e di
ricerca è stata esemplare per la sua capacità di collegare il rigore di studi
impegnativi, quali soprattutto quelli sull’opera di Giordano Bruno, con l’entusiasmo
dell’insegnamento della filosofia a numerose generazioni di allievi, alcuni dei quali
hanno seguito la sua strada affermandosi nella comunità filosofica italiana, come
Emanuela Scribano, ordinario di storia della filosofia presso l’Università di Siena e
Nicoletta Tirinnanzi, ordinario di storia della filosofia presso l’Università di Chieti-
Pescara, che peraltro ha sviluppato interessi di ricerca strettamente connessi a
quelli del suo insegnante liceale, divenendo una tra le principali esperte italiane di
Bruno. Il nome di Monti rimane a segnare l’edizione UTET dei Poemi latini di Bruno,
tuttora insostituibile per gli stessi studiosi del Nolano, ma è anche profondamente
scolpito nella memoria dei suoi numerosissimi allievi, che seguivano con
venerazione il loro maestro non vedente, e in quella degli associati dell’Unione
Italiana Ciechi, alla quale ha dedicato gran parte del suo impegno di vita.
Vorremmo quindi dedicargli un pomeriggio di ricordo, nell’anniversario della sua
morte, il 19 febbraio, nel Liceo che più a lungo lo ha visto alacre e instancabile
docente di filosofia, il Liceo “Machiavelli”, sito ora nel Palazzo Rinuccini, in Via
Santo Spirito 39. L’iniziativa, coordinata insieme alla vedova, la prof. sa di filosofia
Mariarita Bartalucci, vedrà la partecipazione delle ricordate Scrivano e Tirinnanzi e
di Giorgio van Straten, un fiorentino ben noto a livello nazionale, sia come
Presidente dell'Orchestra Regionale Toscana, consigliere della Biennale e
presidente dell'AGIS, sia e soprattutto come autore di romanzi, molto apprezzati
dalla critica.
Attualmente ci sono altre attività della Biblioteca Filosofica che ritiene degne di
nota?
La SFI fiorentina sta sviluppando, grazie al suo presidente e anche ai giovani
studiosi di filosofia che ne hanno di recente rivitalizzato l’ambiente, una mole
Intervista a Gaspare Polizzi – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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rilevante di iniziative che possono contribuire al suo rilancio. Non starò qui a
ricordare il recente convegno sul Linguaggio e l’adesione al Progetto nazionale SFI
per la lettura di testi filosofici nelle scuole secondarie superiori. E neppure l’impulso
che può dare alle azioni locali la recente elezione di un illustre storico della filosofia
come Stefano Poggi a presidente della SFI nazionale. Ma anche attività meno
appariscenti e più di servizio, come l’apertura del sito della sezione fiorentina
(http://www3.unifi.it/bibfil/), attivato nel gennaio 2007, la bella rivista elettronica
“humana.mente”, che ci ospita, o il protocollo per la cura nazionale della sezione
“filosofia” dell’archivio di schede bibliografiche on line offerto dall’INDIRE ai
docenti, sono degne di nota perché sviluppano contatti e interessi di lettura e di
approfondimento su temi filosoficamente rilevanti. Mi pare che possa avere un
ruolo importante per il futuro della SFI fiorentina il collegamento tra i giovani
studiosi, pieni di volontà di impegnarsi e di sviluppare iniziative, e gli insegnanti
liceali di filosofia, che vivono a stretto contatto con il mondo giovanile e sanno
coglierne le esigenze, tra le quali spicca un forte interesse per le problematiche
filosofiche. Riuscire a mettere in moto un circuito virtuoso che avvicini i giovani
universitari ai docenti liceali potrebbe fornire alla SFI una leva per far breccia nel
mondo degli interessi giovanili, che rappresenta oggi il punto critico per la
trasmissione del sapere e per la diffusione ragionata e consapevole della
riflessione filosofica. Le ultime attività menzionate, che si servono egregiamente
della rete informatica, mostrano quanto ampia sia l’opportunità di internet per
potenziare il dialogo filosofico, estendendolo anche ai giovani, e come la SFI
fiorentina appaia ben attrezzata in questo settore, che assume un’immediata
visibilità nazionale. Vanno infine menzionate le conferenze e le presentazioni di
libri, che svolgono sempre una funzione propositiva e stimolante: ricordo l’interesse
per l’incontro recente tra Fritjof Capra e Paolo Galluzzi intorno alla figura filosofica
e scientifica di Leonardo da Vinci.
Lei fa parte anche dell’Istituto Gramsci; che collaborazione ci sarà con la
Biblioteca e quali saranno invece le attività del 2008 proprie del Gramsci?
Intervista a Gaspare Polizzi – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
221
Il ciclo Pensare il presente è il frutto di una collaborazione con l’Istituto Gramsci
Toscano che risale al 2001, anno in cui fu inaugurata la serie Filosofi nella città,
ospitata nella sede del Gramsci e primo modello dei cicli attuali. Mi sembra utile
riportare la presentazione di quel ciclo (proposta da Fabrizio Desideri), perché vi
sono tutte le ragioni della collaborazione, non così ovvia, con l’Istituto Gramsci e
della funzione cittadina e “socratica” della SFI:
«“Filosofi nella città” nasce dalla collaborazione tra l’Istituto Gramsci Toscano e la
Sezione fiorentina della Società Filosofica Italiana. L’idea-guida di tale iniziativa è
quella di dare un respiro ‘cittadino’ alla riflessione e alla ricerca filosofica,
portando i filosofi nello spazio pubblico della città e nella dimensione plurale. Si
tratta, perciò, di invitare dei filosofi (fiorentini e non) a misurarsi pubblicamente su
parole-chiave e temi (come “responsabilità”, “disagio”, “coscienza” e così via)
che riguardano la singola esistenza ed il comune destino di ciascuno di noi.
Proprio per sottolineare il carattere ‘civile’ di questa iniziativa, appunto nel senso di
non essere destinata ad un nucleo ristretto di addetti ai lavori o di interessati
d’ufficio alle discipline filosofiche (insegnanti, studenti e così via), si è preferito dare
una forma dialogica a ciascun incontro. Due o più relatori intrecceranno di volta
in volta un pubblico dialogo intorno al tema sul quale sono stati invitati a parlare.
Assumendo questa forma, anziché quella tradizionale della conferenza, l’iniziativa
è pensata proprio per coinvolgere nel vivo di un dialogo il pubblico che di volta in
volta interverrà. Lo scopo, in breve, è quello di gettare dei semi al fine di favorire
una crescita dello spirito di cittadinanza, nel presupposto che il senso comune è
innanzitutto qualcosa che si costruisce e che suppone l’autonomo sviluppo della
capacità critica di ognuno. “Filosofi nella città” è pensata, dunque, come una
chance attraverso la quale la filosofia potrebbe dimostrare, proprio all’interno
della vita cittadina, il carattere non semplicemente retorico-astratto della sua
vocazione universalistica. Movendo, appunto, da quella forma del comune
interrogarsi e, dunque, del libero dialogare che, sin dall’esperienza socratica, lega
filosofia e città in un unico nodo. Come sappiamo, spesso si è trattato di un nodo
difficile, carico di tensioni e di contraddizioni e, talvolta, di un nodo tragico.
Eppure la città che sciogliesse ogni legame con la dimensione propria della
Intervista a Gaspare Polizzi – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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riflessione filosofica sarebbe più esposta al pericolo di una perversa oscillazione tra
l’omologazione di massa e l’atomistica solitudine dei singoli (individui o gruppi, che
siano). Ogni dialogo suppone l’ascolto delle parole e delle ragioni dell’altro; è
proprio da questa disposizione che dovranno partire i filosofi partecipanti a questa
iniziativa, nel presupposto che nessuna domanda è inutile o sciocca. Anche nella
domanda più apparentemente ingenua si nasconde un problema e, con esso,
l’occasione per una pubblica chiarificazione e un pubblico approfondimento, il
più possibile affrancato dai paternalismi semplificatori della divulgazione a buon
mercato. Un modo per mostrare la persistente attualità dell’intreccio
problematico che stringe insieme la vita della polis e i percorsi tentati oggi dalla
filosofia, sarà, perciò, anche quello di mettere in scena un confronto tra il sapere
filosofico e altri tipi di sapere (quello scientifico, quello teologico, quello artistico).
Intesa in questo senso, la filosofia non sarà certo chiamata a dare facili risposte o a
surrogare funzioni che non le competono. Semmai sarà chiamata a rinnovare il
senso della sua presenza nella città e, con esso, il suo autentico ruolo di voce
scomoda, talvolta ostinatamente critica, talaltra inquieta e inquietante verso le
irriflesse consuetudini e le opinioni consolidate. Una voce difficile, senza la quale,
però, la vitalità democratica di una città risulterebbe priva di un nervo essenziale.»
Tale impegno per una riflessione democratica, che veda al centro l’obiettivo di
una crescita del senso comune collettivo e «l’autonomo sviluppo della capacità
critica di ognuno», è un obiettivo “socratico” della filosofia ed è parimenti da
sempre al centro dell’interesse del Gramsci, che di recente ha dato luogo a una
serie di iniziative per il 70° della morte di Antonio Gramsci, culminate in un
convegno “intrigante” e interdisciplinare su Gramsci e la questione dell’identità
nazionale (15-17 novembre 2007), con la presenza di italianisti quali Giulio Ferroni,
Bartolo Anglani e Umberto Carpi, studiosi del linguaggio quali Tullio De Mauro e
Franco Lo Piparo, filosofi come Giuseppe Cacciatore, Michele Maggi e Alberto
Burgio.
Mi auguro che la sintonia tra la SFI fiorentina e il Gramsci Toscano possa proseguire
e consolidarsi e che il Gramsci possa superare la fase di difficoltà che sta
attraversando.
Intervista a Gaspare Polizzi – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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Pochi mesi fa è uscito per Le Lettere il suo ultimo libro, Galileo in Leopardi. Esso non
è che l’ultimo dei lavori che ha dedicato allo studio di Leopardi; crede di poterci
illustrare brevemente a che punto è arrivata la sua ricerca?
Ringrazio per questa domanda, particolarmente gradita, perché tocca il settore di
ricerca che mi è al momento più caro e che coltivo da più di dieci anni. La mia
“passione” per il pensiero di Giacomo Leopardi mi ha condotto a battere vie
nuove nella pur vastissima bibliografia leopardiana, quali quelle del suo rapporto
con il sapere scientifico e filosofico del suo tempo, che hanno messo in luce
aspetti insospettati della sua formazione più propriamente scientifica e la
profondità del confronto con la scienza naturale, che costituisce un asse decisivo
del pensiero leopardiano, non riducibile soltanto alla visione poetica della natura
“madre” e “matrigna”, ma esteso a una filosofia della natura articolata e
argomentata. Il nostro più grande filosofo ottocentesco ha scritto pagine di
grande spessore teoretico nello Zibaldone sui limiti e le forme della nostra
conoscenza della natura; il nostro più grande poeta e scrittore ottocentesco ha
offerto segni e motivi ineguagliabili di una poetica cosmica della natura che
permea di sé i Canti e le Operette morali, un’opera «filosofica, benché scritta con
leggerezza apparente» (Lettera ad Antonio Fortunato Stella del 6 Dicembre 1826).
Su questi temi ho lavorato a lungo, pubblicando tre libri – G. Polizzi, a cura di,
Leopardi e la filosofia, Polistampa, Firenze 2001; Leopardi e “le ragioni della verità”.
Scienze e filosofia della natura negli scritti leopardiani, Prefazione di R. Bodei,
Carocci Editore, Roma 2003 e Galileo in Leopardi, Le Lettere, Firenze 2007 – e
mettendone in cantiere un quarto che conto di pubblicare presto per Franco
Angeli di Milano («…per le forze eterne della materia». Natura e scienza in
Giacomo Leopardi).
Nel mio ultimo libro – Galileo in Leopardi – ho cercato di dimostrare, attraverso una
lettura attenta dei libri astronomici della formazione e dell’opera di Galileo
posseduta in Casa Leopardi, come Leopardi scopra Galileo negli studi scientifici
giovanili e nella Storia della Astronomia e quanto cresca il suo apprezzamento
Intervista a Gaspare Polizzi – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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dell’opera di Galilei nel contesto della sua maturazione filosofica e letteraria, fino
al riconoscimento del fisico pisano come «forse il più gran fisico e matematico del
mondo» e ancor più come «il primo riformatore della filosofia e dello spirito
umano». Se da un lato il pensiero di Galilei sostiene la riflessione leopardiana sul
problema del metodo della conoscenza, sul rapporto tra caso e progresso nella
scienza, ma anche la sua concezione “stratonica” del cosmo e finanche la sua
visione della relazione tra conoscenza e felicità, dall’altro Leopardi glissa sulla que-
stione del processo allo scienziato pisano, non soltanto per la sua nota ritrosia a
seguire gli ideali liberali, ma anche per la presenza di un celato conflitto a distanza
con il padre sulla legittimità del sistema galileiano e in fondo sull’accettazione o
meno della centralità della fede cristiana rispetto alle verità dei filosofi. Mi pare di
poter riconoscere al proposito, nel pensiero di Leopardi, forme di dissimulazione
che ben evidenziano le difficoltà culturali e religiose presenti ancora nei primi
decenni dell’Ottocento e subite pesantemente dal filosofo e poeta di Recanati.
In studi più recenti, non ancora resi pubblici, mi sono progressivamente orientato a
indagare le relazioni tra l’elaborazione leopardiana di una filosofia della natura e
la corrispondente filosofia “pratica”, ovvero la riflessione di Leopardi su temi
antropologici e di filosofia morale, così largamente diffusa in tutta l’opera
leopardiana, ma prevalente a partire dalle venti Operette morali del 1824. A mio
avviso è riconoscibile e ricostruibile un itinerario che dalla filosofia della natura
conduce all’antropologia, specie per ciò che concerne la grande questione della
condizione umana, lungo un percorso che dall’utopia, esemplificata nel mito dei
Californi, conduce al disincanto, ben rilevabile in alcune operette e, tra tutte, nella
Scommessa di Prometeo. La genesi di tale concezione antropologica negativa
avviene in Leopardi attraverso un processo di letture e di pensiero che sto
cercando di ricostruire, anche in vista della relazione che terrò al XII Convegno
internazionale di studi leopardiani, intitolato La prospettiva antropologica nel
pensiero e nella poesia di Giacomo Leopardi, che si terrà in autunno a Recanati.
Esso muove da una visione utopica e “positiva” di un’umanità primitiva “felice” e
di una cultura greco-latina eroicamente naturale e progressivamente perviene a
riconoscere la negatività della condizione umana in ogni tempo e in ogni luogo
Intervista a Gaspare Polizzi – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
225
rispondendo negativamente alla domanda “retorica” posta nelle ultime parole
dell’Islandese («[…] a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima
dell'universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo
compongono?»). Si tratta di seguire da vicino una trama di letture e di riflessioni
che sfocia in un’elaborazione tematica che darà luogo all’Abbozzo dell’Inno ai
Patriarchi e alla quinta strofa dell’Inno. Se si pone come termine a quo dell’utopia
antropologica dei popoli primitivi “felici” la quinta e ultima strofa dell’Inno ai
Patriarchi (luglio 1822), considerata l’ultimo significativo reperto del “mito” dei
Californi, quasi il residuo di una concezione ormai abbandonata, e si guarda alle
letture compiute nel primo soggiorno romano, fra il 17 novembre 1822 e il 3
maggio 1823, si possono rintracciare nelle note di lettura e nelle meditazioni
zibaldoniche gli elementi costituitivi che daranno luogo al grande affresco
dell’antropologia negativa tracciato nelle Operette. Ne emerge la nuova visione
leopardiana della Grecia antica che riconosce le radici del pensiero tragico
greco e consolida una concezione negativa della condizione umana,
sintetizzabile nel motto “meglio non esser nati”. In questo contesto La Scommessa
di Prometeo rivela un’originale torsione della tradizione prometeica e si sviluppa in
una dinamica di pieno disincanto antropologico.
Spero di aver la fortuna di proseguire questi miei studi, che possono
accompagnare degnamente la vita di un uomo e renderla degna di esser vissuta.
Biblioteca Filosofica © 2007 - Humana.Mente, Periodico trimestrale di Filosofia, edito dalla Biblioteca Filosofica - Sezione Fiorentina della Società Filosofica Italiana, con sede in via del Parione 7, 50123 Firenze (c/o la Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università degli Studi di Firenze) - Pubblicazione iscritta al Registro Stampa Periodica del Tribunale di Firenze con numero 5585 dal 18/6/2007.
Filosofia del Linguaggio: prospettive di ricerca
Numero 4 – Febbraio 2008
Intervista a Marino Rosso
L’eredità di Wittgenstein
Riccardo Furi
http://www.humana-mente.it
Intervista a Marino Rosso – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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Marino Rosso, Docente di Filosofia del Linguaggio all’Università degli Studi di
Firenze…
Il professor Marino Rosso è uno stimato e profondo conoscitore della filosofia di
Ludwig Wittgenstein. Accettato o criticato che sia, il suo controverso pensiero è
ancora oggi oggetto delle più disparate interpretazioni e viene citato da linguisti,
psicologi e filosofi della mente come fulcro di molte loro teorie.
In occasione di un numero dedicato al linguaggio abbiamo ritenuto utile porre a
Marino Rosso alcune domande riguardanti una tra le opere di Wittgenstein: le
“Ricerche filosofiche”.
Pubblicate postume grazie alla supervisione dell’amico G.E. Moore e alla
dedizione della sua allieva Anscombe, possiamo considerare il pensiero
contenuto nelle Ricerche come l’espressione più matura della filosofia
wittgensteiniana.
Nelle ricerche filosofiche, per sua stessa ammissione, Wittgenstein cerca di
rimediare ai ‘gravi errori’ contenuti nel Tractatus Logicus -filosoficus.
Prende corpo l’idea del linguaggio come insieme/sistema di ‘giochi linguistici’.
Questa svolta segna il ritorno di Wittgenstein alla filosofia e la fine della ricerca di
un linguaggio logico univoco che descriva la realtà.
Le due opere presentano notevoli divergenze; secondo lei possiamo parlare di
uno sviluppo coerente nel lavoro di Wittgenstein, o di rottura e abbandono di un
sistema esclusivamente teorico?
Non c’è distanza, in realtà, tra il Tractatus e le Ricerche, in entrambe possiamo
osservare il tormentato bisogno di chiarezza che Wittgenstein manifesta in tutta la
sua filosofia, e, seppur con percorsi metodologicamente diversi, è simile anche la
conclusione dell’umana impossibilità di trovare la forma logica del linguaggio
naturale.
Nonostante Wittgenstein detestasse terribilmente anche le più piccole
imperfezioni, uno degli errori più gravi, che lo convinse a rimettere l’opera
Intervista a Marino Rosso – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
227
completamente in discussione, riguarda la natura proposizionalistica delle
complessità logiche che rivestono il Tractatus. Tutta la struttura logica del
Tractatus, costruito con le più sofisticate formalizzazioni fregeane e russelliane
descrive ben poco della realtà effettiva, bensì genera ulteriore, eccessiva,
proposizionalità che riveste il fatto puro, senza spiegarlo ma nascondendolo.
Cosa ha convinto Wittgenstein dell’inapplicabilità del Tractatus al linguaggio
ordinario?
Già durante i colloqui con Ramsey, Wittgenstein intuisce le problematiche
principali del Tractatuts, ma è nel periodo intermedio che prende consapevolezza
della struttura ‘monadologica’ dell’opera: tutte le conclusioni derivate nel
Tractatus hanno significato solo come descrizione alternativa e soggettiva della
realtà.
La visione soggettiva, messa in primo piano, descrive il mondo che è
esclusivamente il mondo del soggetto e il linguaggio è il suo limite. Monologando
con se stesso il soggetto esprime il limite del mondo.
Il rischio di cadere nel solipsimo tormentava Wittgenstein che si accorse presto del
rivestimento proposizionalistico del Tractatus, rivestimento che nascondeva il
fenomeno così come si dà.
Il Wittgestein del periodo intermedio, dei “Quaderni”, radicalizza le conclusioni del
suo primo periodo. L’osservazione che fa sull’inutilità logica della doppia
negazione è esemplare della nascente concezione dei giochi linguistici: nella
grammatica una doppia negazione si annulla, cosa che non accade nel
linguaggio naturale, in quanto non viene annullato il senso della negazione.
Progressivamente Wittgenstein prende consapevolezza della natura
fenomenologica del linguaggio.
Non è essenziale, anzi, forse è sbagliato cercare una forma logica assoluta; il
linguaggio ordinario presenta una moltitudine di “linguaggi” che funzionano, non
sempre e non necessariamente tramite espressioni grammaticalmente corrette o
verbali.
Intervista a Marino Rosso – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
228
La comprensione linguistica avviene ad un livello fenomenico puro di cui è
ininfluente, se non impossibile, voler chiarire le cause. Abbiamo in questo caso un
raro esempio di convergenza concettuale con Husserl, sulla considerazione del
fenomeno puro, senza che Wittgenstein l'avesse mai letto.
Possiamo considerare le intuizioni di Wittgenstein come fondamento dell’attuale
ricerca, filosofica e non, sul linguaggio?
Wittgenstein è stato interpretato partigianamente da molti filosofi del linguaggio;
esiste una letteratura esegetica che si allontana molto da Wittgenstein; dare un
quadro complessivo è molto rischioso proprio per la varietà e diversità delle
traduzioni filosofiche.
Sarebbe utile tuttavia al linguista, per capire meglio la nozione di gioco linguistico,
guardare dei film muti che contengono solo il minimo linguaggio verbale, in
modo da sviluppare una comprensione riguardante esclusivamente la mimica.
L’asserzione verbale infatti, in alcuni casi, può essere vuota proposizionalità.
Pensiamo a due enunciati come: “Ho mal di denti” e “Lui ha mal di denti”.
Sembra che veicolino la stessa informazione, ma sono radicalmente diversi.
Allo stesso modo vedere film in lingua straniera può essere un altro modo per
studiare i ‘giuochi linguistici’. È strabiliante vedere quanto si capisca anche con
l’handicap linguistico.
Tutto ciò era per Wittgenstein completamente marginale, in quanto, per lui,
l’analisi del linguaggio avviene ad accordo linguistico avvenuto; in sostanza il
linguista si occupa dell’inessenziale del linguaggio.
L’interpretazione del movimento di un punto ci permette di considerare numerosi
aspetti da cui ricavare leggi fisiche; questa osservazione viene usata nelle
Ricerche filosofiche come analogia con il comportamento umano: osservandolo
possiamo dunque ricavare leggi psicologiche?
Intervista a Marino Rosso – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
229
Nello stesso passo da lei ricordato possiamo osservare il punto di vista di
Wittgenstein: «in psicologia sussistono metodi sperimentali e confusione
concettuale».
Cercare di ricavare leggi è un’attività fallimentare nell’idea stessa della
psicologia.
Nonostante la pubblicazione postuma delle Ricerche filosofiche (’64), il testo è
attualissimo per l’epoca, anche grazie alla diffusione del Comportamentismo di
Gilbert Ryle. Fondamento del comportamentismo è l’idea che l’analisi logica del
comportamento parafrasi gli stati interni di un individuo. Anche nelle Ricerche si
parla di stati interni ma in relazione alla loro espressione proposizionale, quanto le
intuizioni di Wittgenstein hanno influenzato Ryle?
Il comportamentismo di Gilbert Ryle ha sicuramente Wittgenstein tra i suoi massimi
ispiratori.
Ryle, se si può dire, è un divulgatore di Wittgenstein, e - come molti divulgatori
scientifici - è autore di un’interpretazione qualitativamente inferiore. Wittgenstein
era molto duro con i suoi allievi, che definiva, non proprio teneramente, come
possessori di un mazzo di chiavi rubate.
Gli stati interni menzionati dai due autori sono radicalmente diversi: mentre il
comportamentismo esteriorizza tutti i processi mentali, riconoscendoli come
processi del cervello, nelle Ricerche essi sono esperienza e vissuto.
Per Wittgenstein il mentalista commette un errore inferiore rispetto al
comportamentista, poiché riconosce gli stati interiori come parte effettiva
dell’esperienza, mentre l’ipotetica traduzione del comportamentismo è coattiva
e aggiunge proposizionalità al fenomeno puro.
Quanto hanno in comune le espressioni come “credere”, “volere”, “desiderare”,
ecc…, che informano sull’azione dell’individuo - che Ryle chiama proprietà
‘disposizionali’ - e Wittgenstein stati interiori e che possono essere accostati ai
moderni stati intenzionali dibattuti in filosofia della mente?
Intervista a Marino Rosso – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
230
C’è una grossa differenza qualitativa del mentale: gran parte degli asserti sul
mentale infatti non sono asserti. Secondo Wittgenstein qualsiasi analisi che si
occupi di stati mentali genera proposizionalità, cioè un volume proposizionale
eccessivo che non riesce comunque ad individuare le cause dell’accordo.
Enunciati che esprimono stati interni del tipo: «io credo di sapere come sento…» o
«so ben io come mi sento…» non aggiungono niente alla comprensione,
l’accordo è un primum che avviene nei giochi linguistici, un primum che
ipostatizza la proposizione.
Per il nostro filosofo la traduzione di uno stato mentale genera falsa
proposizionalità e ritiene che qualsiasi conclusione sia solo superstizione.
Cosa risponderebbe Wittgenstein ai riduzionisti che eliminerebbero il vocabolario
della psicologia per ricondurre le spiegazioni dei fenomeni mentali al vocabolario
della neurobiologia, a scapito di numerosi giochi linguistici?
Come appena detto sarebbero solo proposizioni vuote.
L’analisi del mentale presenta un doppio inganno solo nella riflessione filosofica;
nel linguaggio ordinario è sufficiente l’esperienza del fenomeno, della ripetizione
e funzionalità del gioco linguistico.
La lingua è una iattura dal punto di vista dell’analisi filosofica, è l’analisi della
superfluità; la filosofia del linguaggio è giocata dal linguaggio come sistema in cui
si attua l’interpretazione dei giochi linguistici.
La duttilità del riferimento linguistico viene considerata da Wittgenstein con
l’osservazione delle figure gestaltiche, in cui si mischiano vari elementi come: la
percezione, il pensiero, il comportamento e il contesto. Essi determinano la
varietà semantica da cui Chomsky ricava la nozione di ‘grammatica mentale’.
È possibile che la forma logica tanto cercata da Wittgenstein nelle sue ricerche
sia dentro di noi?
Intervista a Marino Rosso – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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Anche Fodor negli anni ’70 cerca di formalizzare una grammatica mentale, ma
per Wittgenstein sarebbe stato come costruire un grattacielo su di uno spillo. Le
regole di una grammatica universale hanno un’evidenza non probatoria.
Wittgenstein è molto lontano da una causa genetica, non è, anzi, affatto
interessato ad una teoria della causazione della comprensione linguistica: sia che
parli di cervello, di una grammatica mentale o di altro, la nozione fondamentale
è che i giochi linguistici che facciamo continuamente funzionano. Nel momento
in cui il gioco si manifesta e viene giocato ha soddisfatto tutte le nozioni di cui ha
bisogno.
In linguaggio e natura umana di Jackendoff si descrive il linguaggio come un
prodotto di natura e cultura, per cui la comprensione linguistica è in parte
esplicata da una determinazione genetica. Pensa che W. si riferisca a questa
quando definisce l’esperienza vissuta come costituita da un substrato che
evidenzia una tecnica/capacità particolare?
Il substrato indicato da Wittgenstein è un colpo basso al vissuto. Il vissuto è come
un’increspatura nel fluire della realtà e del mondo.
Padroneggiare una tecnica permette di lasciar fluire il vissuto; se l’acquisizione
delle regole tramite l’esperienza non riesce, questo fluire s’inceppa, come
succede in alcune situazioni patologiche o particolari in cui, sottoponendo ad un
individuo una figura come l’anatra-lepre, egli non riesca a vederne che una sola
per quanto ci provi. In questo caso il fluire si arresta e il soggetto non riesce a
giocare quel particolare gioco.
Quando Wittgestein parla di tecnica in relazione ad un ‘gioco linguistico’ si
riferisce ad una tecnica da condividere poiché non si può giocare ai giochi
linguistici da soli.
Per Wittgenstein dunque il linguaggio ordinario è una collezione di giochi
linguistici, nei contesti dei quali un termine acquisisce un significato specifico in
base al suo impiego.
Intervista a Marino Rosso – Humana.Mente 4, Febbraio 2008
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L’uso di un termine, tuttavia, deve essere appreso e ogni gioco ha il suo corpo di
regole.
Quanto conta l’insegnamento della grammatica e quanto l’esperienza, nel saper
giocare un ‘gioco linguistico’?
L’insegnamento della grammatica permette di acquisire le regole di alcuni giochi
linguistici ed è fondamentale nella costruzione di giochi nuovi, tuttavia la
padronanza delle regole viene consolidata dalla pratica. Il rapporto
maestro/allievo a cui semplicemente allude l’autore viene integrato dal vissuto
che, più che di una conoscenza, permette l’acquisizione delle capacità per
comprendere le varie situazioni cui ci sottopone il flusso della vita.
Cosa penserebbe Wittgenstein della sovraesposizione mediatica dell’odierna
società?
L’estrema vivacità dell’informazione globale, nell’odierna società,
rappresenterebbe per Wittgenstein una serie di fenomeni totalmente superflui.
L’onnipresente rumore prodotto dai media, che siano consigli per gli acquisti o
idee imposte con forza da uomini potenti, sono un continuo parlare senza dire
nulla, il trionfo quasi onnipervasivo del marginale: una semplice curiosità.