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i ga a c i a...la crisi del proprio modo di produ-zione. Punto secondo. Questa incertezza e queste...

Date post: 08-Oct-2020
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il programma comunista tano il mondo economico e politico statunitense (protezionismo sì/pro- tezionismo no) o quello britannico (Brexit sì/Brexit no), al tortuoso cammino di formazione del nuovo governo tedesco, ai continui e con- traddittori balletti diplomatici inter- nazionali, ai posizionamenti e ripo- sizionamenti in Estremo Oriente, ai populismi e revanscismi che attra- versano l’Europa Dis-unita… Tut- to ciò e altro ancora è l’espressione di quest’incertezza, di questi con- flitti e contrasti tra capitali nazionali in lotta per ritagliarsi o difendere una fetta della torta e tra fazioni di- verse all’interno di ciascuno d’essi, di quest’incapacità sempre più evi- dente della classe dominante bor- ghese di fare i conti con le inevita- bili forze centrifughe prodotte dal- la crisi del proprio modo di produ- zione. Punto secondo. Questa incertezza e queste divisioni nel campo borghe- se (sia nazionale che internaziona- le) non devono però ingannare e il- ludere il proletariato. Divisa al pro- prio interno, la classe dominante è solida e compatta nell’affrontare il proprio nemico storico: il proleta- riato. Dalla sua ha il potere statale con tutte le sue articolazioni re- pressive (militari e legislative, le- gali e illegali), il dominio sui mez- zi di comunicazione di massa (an- che e soprattutto quelli che si pro- pongono come i più “democratici”!), l’indotta amnesia collettiva per tut- to ciò che riguarda la lotta di classe e l’inerzia sociale e culturale ali- mentate e modellate nel tempo che fanno sì che lo status quo e la “leg- ge e ordine” siano divinità cui in- chinarsi senza esitazioni, e un’espe- rienza plurisecolare di comando cul- minante in repressioni feroci ogni qual volta il proletariato imbocca la propria strada rifiutando le lusinghe della pace sociale (continuiamo a ri- cordare i nostri compagni comunardi massacrati a decine di migliaia nel 1871, o i nostri compagni sparta- chisti eliminati dai Freikorps con l’attiva complicità della socialde- mocrazia tedesca nel 1918-19!). Ne- gli ultimi tempi, sia con il pretesto di un terrorismo abilmente confe- zionato e alimentato sia a fronte dei piccoli o grandi episodi di lotta da parte di un proletariato che dimostra nei fatti d’essere indomito anche se disperso e abbandonato a se stesso, le diverse borghesie nazionali sono state concordi, compatte e coordi- nate tanto nel riesumare e rispolve- rare codici repressivi del proprio pas- sato più o meno recente (in Italia, il famigerato e mai abrogato Codice Rocco, in vigore dal 1931: a propo- sito di continuità fascismo-demo- crazia…) quanto nell’introdurvi va- rianti e ampliamenti nel senso di una Bimestrale – una copia € 1,00 Abbonamenti: – annuale € 10,00 – sostenitore € 15,00 Conto corrente postale: 59164889 DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: la linea da Marx a Lenin al- la fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comuni- sta d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenera- zione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti po- polari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del re- stauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco. organo del partito comunista internazionale www.partitocomunistainternazionale.org [email protected] Anno lxvI n. 2, marzo-aprile 2018 Il PROGRAMMA COMUNISTA Redazione: Casella Postale 272 20101 Milano Spedizione 70% - Milano sempre maggiore blindatura statale – quella che abbiamo chiamato (fra gli strilli scandalizzati dei “sinceri democratici”) “democrazia dittato- riale”. Per questo, la classe domi- nante si serve di un’ampia e cre- scente gamma di strumenti repres- sivi: cariche poliziesche ai picchet- ti, aggressioni da parte di squadrac- ce di crumiri, agguati ai delegati, in- tervento sempre più duro ed espli- cito della magistratura, uso mani- polatorio dei mezzi di comunica- zione di massa, sapiente utilizzo di formazioni fasciste e naziste in fun- zione apertamente anti-proletaria... Si tratta di una realtà internaziona- le. In Francia, le banlieues sono mi- litarizzate; negli Stati Uniti, il raz- zismo operativo delle “forze dell’or- dine” ha portato a uno stillicidio di assassinii di giovani proletari neri (di cui pare che oggi si sia già per- sa la memoria); in Egitto e in Tuni- sia, gli scioperi vengono repressi con inusitata violenza; in Gran Bretagna come in Cina, interi quartieri me- tropolitani periferici sono “svuota- ti” a forza della popolazione prole- taria per evitare pericolose concen- trazioni classiste; in Italia, oggetto di una brutale raffica di interventi da parte della “forze dell’ordine” e degli apparati statali sono le conti- nue, coraggiose lotte dei lavoratori della logistica – lotte che vedono fianco a fianco proletari di ogni pro- venienza, di credi diversi, maschi e femmine, e che dimostrano come solo la battaglia di classe può libe- rare ciascun lavoratore dai pregiu- dizi ideologici e sbattere sul muso del capitale la pratica dell’interna- zionalismo proletario… L’elenco potrebbe continuare e – come se non bastasse la miseria crescente ovun- que – dimostra che la crisi econo- mica procede inesorabile e alimen- ta i peggiori incubi per la classe do- minante. I proletari non debbono dunque il- ludersi. Ma nemmeno debbono la- sciarsi intimidire: al contrario, deb- bono tornare a sentire d’essere una forza possente e in cammino, che nessuno può fermare. Certo, hanno di fronte un nemico potente: ma han- no anche due grandi risorse. Una è quella del numero: ovunque nel mondo, sotto la pressione della cri- si economica, l’esercito proletario si gonfia e si diffonde creando una forza potenziale smisurata e, nei fat- ti e nelle condizioni oggettive pri- ma ancora che nelle convinzioni e nei comportamenti, solidale a livel- lo internazionale. L’altra risorsa è quella dell’organizzazione di resi- stenza sociale e di rivendicazione economica, prima, e di lotta socia- le e politica, poi: organizzazione che certo oggi manca, dopo le mille de- vastazioni teoriche e pratiche cau- Divisa al proprio interno, la classe dominante borghese è solida e compatta contro il suo nemico di sempre: il proletariato sate da novant’anni di controrivo- luzione, ma la cui necessità urgen- te scaturisce ogni volta che i prole- tari scendono in lotta, abbandonati come sono da partiti apertamente anti-proletari e da sindacati di regi- me. Un’organizzazione, la prima, che, allargandosi sul territorio e oc- cupandosi di tutte le questioni rela- tive alle condizioni di vita e di la- voro, permetta di opporre un fronte reale, non fittizio e parolaio, in gra- do di contrastare e rigettare l’attac- co ormai quotidiano; e, la seconda, di battaglia politica, che organizzi i proletari in un soggetto critico e an- tagonista, attivo e operante, e li pre- pari alla disarticolazione rivoluzio- naria della dittatura borghese e da lì li guidi nell’esercizio del potere per eliminare ogni traccia di quest’odio- sa società divisa in classi, aprendo la via a una nuova società dove il li- bero sviluppo di ciascuno sarà la condizione del libero sviluppo di tut- ti. Di queste due grandi risorse i pro- letari dovranno tornare a essere co- scienti. E allora è urgente che si rafforzi e radichi a livello internazionale il par- tito rivoluzionario: il necessario pun- to di riferimento politico per uscire dalla lunga, sanguinosa agonia di un modo di produzione superato dalla storia. A ciò noi lavoriamo da de- cenni. N on abbiamo alcuna intenzio- ne di commentare le recenti, buffonesche elezioni italia- ne. Sempre più, dagli USA al Re- gno Unito, dalla Francia alla Rus- sia, dalla Germania alla Spagna e via di seguito, il bordello parla- mentare è un unico schiamazzo in- decente. E sempre più acquista ri- lievo la posizione comunista: il par- lamento borghese è “una macchina che serve a un pugno di sfruttatori per schiacciare milioni di lavorato- ri” (Lenin), i sistemi politici usciti dal secondo massacro mondiale han- no ereditato la sostanza del fasci- smo travasandola nelle forme in- gannevoli di una democrazia che da più di un secolo e mezzo è svuota- ta di ogni contenuto progressivo, i proletari non hanno nulla da atten- dersi dalle istituzioni (statali, regio- nali, comunali) fondate sulle “libe- re elezioni” perché non è lì che si decidono le sorti che ci riguardano, bensì là dove pesa e detta legge il Capitale come forza economica e sociale impersonale. L’unica via da percorrere è dunque quella della pre- parazione rivoluzionaria all’abbat- timento, fin dalle sue stesse istitu- zioni, di questo modo di produzio- ne obsoleto e ormai solo assassino: e ciò vuol dire – in sintesi estrema – a partire dalla lotta aperta e in- transigente per difendere le proprie condizioni di vita e di lavoro, nel ri- fiuto di ogni illusione democratico- riformista e con l’impegno costan- te al rafforzamento e radicamento internazionale del partito rivoluzio- nario. In questa prospettiva, limi- tiamoci a due osservazioni. Punto primo. A dominare il mondo capitalistico e a riflettersi (sottoli- neiamo: riflettersi) negli schiamaz- zi elettorali è l’incertezza su come sciogliere il nodo di una crisi eco- nomica mondiale che, come stiamo documentando nel nostro lavoro di partito, al di là di episodiche e stam- burate “ripresine” continua la sua marcia inarrestabile, macinando po- sti di lavoro, “garanzie” illusorie, “diritti” immaginari, vite ed esi- stenze reali, originando conflitti e massacri impressionanti a ogni an- golo del mondo (dimentichiamo il Medio Oriente, dove le guerre infu- riano da decenni?), alimentando i più osceni rigurgiti di razzismo e una crescente brutalità nei rapporti interpersonali. La classe dominan- te borghese cerca disperatamente di giocare le proprie poche e vane car- te per far fronte a una crisi che pro- viene dal DNA stesso del Capitale: crisi di sovrapproduzione di merci e capitali, cui il Capitale può uscire solo con un nuovo conflitto mon- diale. Ma, al riguardo, è profonda- mente divisa al proprio interno: si pensi alle acute polemiche che agi- INFAMI PRODEZZE DELL’IMPERIALISMO Guerra in Siria e massacro proletario senza fine Una dopo l’altra, le città siriane sono devastate da missili e bombarda- menti aerei. Là dove si trovano le zone di fuoco, non resta più traccia di strade, case, scuole, ospedali. Da Damasco fino ad Aleppo, da Laka- tis a Tartus, città sulla costa, a Homs e alle tante piccole città del nord e dell’oriente “curdo”, non resta altro che massacro di civili, bambini, anziani, donne. Nella zona petrolifera di Deil ez-Zor, sull’Eufrate, un centinaio tra soldati “regolari”, contractors di Mosca, Hezbollah liba- nesi e truppe di Assad, sarebbe stato sepolto sotto una pioggia di mis- sili e bombe lanciati da droni e carri armati manovrati da siriani fo- raggiati dagli USA: secondo la stampa internazionale, si tratta dello “scontro militare più grave che si sia mai visto fra Stati Uniti e Russia dalla fine della guerra fredda”. Cronache di una guerra in cui si scon- trano a nord-ovest verso il mare e sul confine nord-orientale branchi di cani inselvatichiti ben armati e inquadrati dalle più o meno potenti “civiltà” militari, una miserabile massa di proletari straccioni ridotta a soldataglia jiadista, lealista… Mentre dall’alto delle Alture di Golan I- sraele vigila e con l’eloquente avviso di qualche cannoneggiamento e incursione aerea “spiega” a tutte le fazioni in lotta della borghesia si- riana a chi debbono render conto. La popolazione siriana, all’esplosione del conflitto costituita da 22,5 milioni di abitanti (divisibili non solo tra un 90% di arabi, un 9% di curdi, un 1% di armeni, ma anche tra un 74% di sunniti, un 11% di cri- stiani, un 10% di alawiti, un 3% di drusi e un 1% di sciiti), è allo stre- mo: quasi un terzo è in fuga, ammassato nei campi profughi turchi e giordani (dai 7 agli 8 milioni!!, di cui a “invadere” la grassa Europa so- no solo poche migliaia…), i morti sono almeno “solo” mezzo milione e altrettanti quelli che pudicamente vengono definiti “feriti”, cioè esseri umani orrendamente destinati a sopravvivere mutilati e invalidi… Le forze speciali della soldataglia turca si preparano ad entrare nell’enclave curda di Afrin, nel nord-ovest della Siria. Il loro obiettivo è di contrastare le “infiltrazioni” delle milizie dell’Ypg (Unità di prote- zione del popolo curdo). Nella stessa area, oltre alle unità curde, sono schierati anche gli arabi dell’‘Esercito siriano libero’. Il nuovo bilancio dell’operazione militare, il cosiddetto ‘Ramoscello d’ulivo’, festosa- mente agitato da Erdogan, ha già rivelato un pesante conteggio di morti: 2.059 il numero dei “terroristi” (curdi e arabi) uccisi, feriti o fat- ti prigionieri, dall’inizio della guerra. Quale aiuto servirà ai curdi per u- nificare la cosiddetta nazione kurdo-siriana-irachena-iraniana-turca, questo patchwork stiracchiato che già da tempo ha abortito la propria storia “nazionale”? In questa guerra che non cessa di seminare morte, quanto territorio sarà ingoiato dalle fauci degli imperialismi (USA, Russia, Turchia, Iran) e quanto sarà permesso di ingoiare alle piccole “patrie” senza storia? Ad Afrin sono arrivate anche le truppe siriane, per proteggere, così si dice, i curdi dall’attacco delle forze militari tur- che, quegli stessi curdi che hanno combattuto contro l’Isis con l’ap- poggio dall’intelligence e delle armi USA. Per circoscrivere le ambizio- ni di conquista turche – dicono – è stato trovato anche un accordo tra Continua a pagina 2
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il programma comunista

tano il mondo economico e politicostatunitense (protezionismo sì/pro-tezionismo no) o quello britannico(Brexit sì/Brexit no), al tortuosocammino di formazione del nuovogoverno tedesco, ai continui e con-traddittori balletti diplomatici inter-nazionali, ai posizionamenti e ripo-sizionamenti in Estremo Oriente, aipopulismi e revanscismi che attra-versano l’Europa Dis-unita… Tut-to ciò e altro ancora è l’espressionedi quest’incertezza, di questi con-flitti e contrasti tra capitali nazionaliin lotta per ritagliarsi o difendereuna fetta della torta e tra fazioni di-verse all’interno di ciascuno d’essi,di quest’incapacità sempre più evi-dente della classe dominante bor-ghese di fare i conti con le inevita-bili forze centrifughe prodotte dal-la crisi del proprio modo di produ-zione.Punto secondo. Questa incertezza equeste divisioni nel campo borghe-se (sia nazionale che internaziona-le) non devono però ingannare e il-ludere il proletariato. Divisa al pro-prio interno, la classe dominante èsolida e compatta nell’affrontare ilproprio nemico storico: il proleta-riato. Dalla sua ha il potere statalecon tutte le sue articolazioni re-pressive (militari e legislative, le-gali e illegali), il dominio sui mez-zi di comunicazione di massa (an-che e soprattutto quelli che si pro-pongono come i più “democratici”!),l’indotta amnesia collettiva per tut-to ciò che riguarda la lotta di classee l’inerzia sociale e culturale ali-mentate e modellate nel tempo chefanno sì che lo status quo e la “leg-ge e ordine” siano divinità cui in-chinarsi senza esitazioni, e un’espe-rienza plurisecolare di comando cul-minante in repressioni feroci ogniqual volta il proletariato imbocca lapropria strada rifiutando le lusinghedella pace sociale (continuiamo a ri-cordare i nostri compagni comunardimassacrati a decine di migliaia nel1871, o i nostri compagni sparta-chisti eliminati dai Freikorps conl’attiva complicità della socialde-mocrazia tedesca nel 1918-19!). Ne-gli ultimi tempi, sia con il pretestodi un terrorismo abilmente confe-zionato e alimentato sia a fronte deipiccoli o grandi episodi di lotta daparte di un proletariato che dimostranei fatti d’essere indomito anche sedisperso e abbandonato a se stesso,le diverse borghesie nazionali sonostate concordi, compatte e coordi-nate tanto nel riesumare e rispolve-rare codici repressivi del proprio pas-sato più o meno recente (in Italia, ilfamigerato e mai abrogato CodiceRocco, in vigore dal 1931: a propo-sito di continuità fascismo-demo-crazia…) quanto nell’introdurvi va-rianti e ampliamenti nel senso di una

Bimestrale – una copia € 1,00

Abbonamenti:

– annuale € 10,00

– sostenitore € 15,00

Conto corrente postale: 59164889

DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: la linea da Marx a Lenin al-la fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comuni-sta d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenera-zione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in unPaese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti po-polari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del re-stauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con laclasse operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

organo del partitocomunista internazionale

www.partitocomunistainternazionale.orginfo@partitocomunistainternazionale.org

Anno lxvI

n. 2, marzo-aprile 2018Il PROGRAMMA COMUNISTA

Redazione:

Casella Postale 272

20101 Milano

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sempre maggiore blindatura statale– quella che abbiamo chiamato (fragli strilli scandalizzati dei “sinceridemocratici”) “democrazia dittato-riale”. Per questo, la classe domi-nante si serve di un’ampia e cre-scente gamma di strumenti repres-sivi: cariche poliziesche ai picchet-ti, aggressioni da parte di squadrac-ce di crumiri, agguati ai delegati, in-tervento sempre più duro ed espli-cito della magistratura, uso mani-polatorio dei mezzi di comunica-zione di massa, sapiente utilizzo diformazioni fasciste e naziste in fun-zione apertamente anti-proletaria...Si tratta di una realtà internaziona-le. In Francia, le banlieues sono mi-litarizzate; negli Stati Uniti, il raz-zismo operativo delle “forze dell’or-dine” ha portato a uno stillicidio diassassinii di giovani proletari neri(di cui pare che oggi si sia già per-sa la memoria); in Egitto e in Tuni-sia, gli scioperi vengono repressi coninusitata violenza; in Gran Bretagnacome in Cina, interi quartieri me-tropolitani periferici sono “svuota-ti” a forza della popolazione prole-taria per evitare pericolose concen-trazioni classiste; in Italia, oggettodi una brutale raffica di interventida parte della “forze dell’ordine” edegli apparati statali sono le conti-nue, coraggiose lotte dei lavoratoridella logistica – lotte che vedonofianco a fianco proletari di ogni pro-venienza, di credi diversi, maschi efemmine, e che dimostrano comesolo la battaglia di classe può libe-rare ciascun lavoratore dai pregiu-dizi ideologici e sbattere sul musodel capitale la pratica dell’interna-zionalismo proletario… L’elencopotrebbe continuare e – come se nonbastasse la miseria crescente ovun-que – dimostra che la crisi econo-mica procede inesorabile e alimen-ta i peggiori incubi per la classe do-minante.I proletari non debbono dunque il-ludersi. Ma nemmeno debbono la-sciarsi intimidire: al contrario, deb-bono tornare a sentire d’essere unaforza possente e in cammino, chenessuno può fermare. Certo, hannodi fronte un nemico potente: ma han-no anche due grandi risorse. Una èquella del numero: ovunque nelmondo, sotto la pressione della cri-si economica, l’esercito proletariosi gonfia e si diffonde creando unaforza potenziale smisurata e, nei fat-ti e nelle condizioni oggettive pri-ma ancora che nelle convinzioni enei comportamenti, solidale a livel-lo internazionale. L’altra risorsa èquella dell’organizzazione di resi-stenza sociale e di rivendicazioneeconomica, prima, e di lotta socia-le e politica, poi: organizzazione checerto oggi manca, dopo le mille de-vastazioni teoriche e pratiche cau-

Divisa al proprio interno, la classe dominante borghese è solida e compatta contro il suo nemico di sempre: il proletariato

sate da novant’anni di controrivo-luzione, ma la cui necessità urgen-te scaturisce ogni volta che i prole-tari scendono in lotta, abbandonaticome sono da partiti apertamenteanti-proletari e da sindacati di regi-me. Un’organizzazione, la prima,che, allargandosi sul territorio e oc-cupandosi di tutte le questioni rela-tive alle condizioni di vita e di la-

voro, permetta di opporre un frontereale, non fittizio e parolaio, in gra-do di contrastare e rigettare l’attac-co ormai quotidiano; e, la seconda,di battaglia politica, che organizzi iproletari in un soggetto critico e an-tagonista, attivo e operante, e li pre-pari alla disarticolazione rivoluzio-naria della dittatura borghese e da lìli guidi nell’esercizio del potere pereliminare ogni traccia di quest’odio-sa società divisa in classi, aprendola via a una nuova società dove il li-bero sviluppo di ciascuno sarà lacondizione del libero sviluppo di tut-ti. Di queste due grandi risorse i pro-letari dovranno tornare a essere co-scienti.E allora è urgente che si rafforzi eradichi a livello internazionale il par-tito rivoluzionario: il necessario pun-to di riferimento politico per usciredalla lunga, sanguinosa agonia di unmodo di produzione superato dallastoria. A ciò noi lavoriamo da de-cenni.

N on abbiamo alcuna intenzio-ne di commentare le recenti,buffonesche elezioni italia-

ne. Sempre più, dagli USA al Re-gno Unito, dalla Francia alla Rus-sia, dalla Germania alla Spagna evia di seguito, il bordello parla-mentare è un unico schiamazzo in-decente. E sempre più acquista ri-lievo la posizione comunista: il par-lamento borghese è “una macchinache serve a un pugno di sfruttatoriper schiacciare milioni di lavorato-ri” (Lenin), i sistemi politici uscitidal secondo massacro mondiale han-no ereditato la sostanza del fasci-smo travasandola nelle forme in-gannevoli di una democrazia che dapiù di un secolo e mezzo è svuota-ta di ogni contenuto progressivo, iproletari non hanno nulla da atten-dersi dalle istituzioni (statali, regio-nali, comunali) fondate sulle “libe-re elezioni” perché non è lì che sidecidono le sorti che ci riguardano,bensì là dove pesa e detta legge ilCapitale come forza economica esociale impersonale. L’unica via dapercorrere è dunque quella della pre-parazione rivoluzionaria all’abbat-timento, fin dalle sue stesse istitu-zioni, di questo modo di produzio-ne obsoleto e ormai solo assassino:e ciò vuol dire – in sintesi estrema– a partire dalla lotta aperta e in-transigente per difendere le propriecondizioni di vita e di lavoro, nel ri-fiuto di ogni illusione democratico-riformista e con l’impegno costan-te al rafforzamento e radicamentointernazionale del partito rivoluzio-nario. In questa prospettiva, limi-tiamoci a due osservazioni.Punto primo. A dominare il mondocapitalistico e a riflettersi (sottoli-neiamo: riflettersi) negli schiamaz-zi elettorali è l’incertezza su comesciogliere il nodo di una crisi eco-nomica mondiale che, come stiamodocumentando nel nostro lavoro dipartito, al di là di episodiche e stam-burate “ripresine” continua la suamarcia inarrestabile, macinando po-sti di lavoro, “garanzie” illusorie,“diritti” immaginari, vite ed esi-stenze reali, originando conflitti emassacri impressionanti a ogni an-golo del mondo (dimentichiamo ilMedio Oriente, dove le guerre infu-riano da decenni?), alimentando ipiù osceni rigurgiti di razzismo euna crescente brutalità nei rapportiinterpersonali. La classe dominan-te borghese cerca disperatamente digiocare le proprie poche e vane car-te per far fronte a una crisi che pro-viene dal DNA stesso del Capitale:crisi di sovrapproduzione di mercie capitali, cui il Capitale può usciresolo con un nuovo conflitto mon-diale. Ma, al riguardo, è profonda-mente divisa al proprio interno: sipensi alle acute polemiche che agi-

INFAMI PRODEZZEDELL’IMPERIALISMOGuerra in Siria e massacro proletario senza fine

Una dopo l’altra, le città siriane sono devastate da missili e bombarda-menti aerei. Là dove si trovano le zone di fuoco, non resta più tracciadi strade, case, scuole, ospedali. Da Damasco fino ad Aleppo, da Laka-tis a Tartus, città sulla costa, a Homs e alle tante piccole città del norde dell’oriente “curdo”, non resta altro che massacro di civili, bambini,anziani, donne. Nella zona petrolifera di Deil ez-Zor, sull’Eufrate, uncentinaio tra soldati “regolari”, contractors di Mosca, Hezbollah liba-nesi e truppe di Assad, sarebbe stato sepolto sotto una pioggia di mis-sili e bombe lanciati da droni e carri armati manovrati da siriani fo-raggiati dagli USA: secondo la stampa internazionale, si tratta dello“scontro militare più grave che si sia mai visto fra Stati Uniti e Russiadalla fine della guerra fredda”. Cronache di una guerra in cui si scon-trano a nord-ovest verso il mare e sul confine nord-orientale branchidi cani inselvatichiti ben armati e inquadrati dalle più o meno potenti“civiltà” militari, una miserabile massa di proletari straccioni ridotta asoldataglia jiadista, lealista… Mentre dall’alto delle Alture di Golan I-sraele vigila e con l’eloquente avviso di qualche cannoneggiamento eincursione aerea “spiega” a tutte le fazioni in lotta della borghesia si-riana a chi debbono render conto. La popolazione siriana, all’esplosione del conflitto costituita da 22,5milioni di abitanti (divisibili non solo tra un 90% di arabi, un 9% dicurdi, un 1% di armeni, ma anche tra un 74% di sunniti, un 11% di cri-stiani, un 10% di alawiti, un 3% di drusi e un 1% di sciiti), è allo stre-mo: quasi un terzo è in fuga, ammassato nei campi profughi turchi egiordani (dai 7 agli 8 milioni!!, di cui a “invadere” la grassa Europa so-no solo poche migliaia…), i morti sono almeno “solo” mezzo milione ealtrettanti quelli che pudicamente vengono definiti “feriti”, cioè esseriumani orrendamente destinati a sopravvivere mutilati e invalidi… Le forze speciali della soldataglia turca si preparano ad entrarenell’enclave curda di Afrin, nel nord-ovest della Siria. Il loro obiettivoè di contrastare le “infiltrazioni” delle milizie dell’Ypg (Unità di prote-zione del popolo curdo). Nella stessa area, oltre alle unità curde, sonoschierati anche gli arabi dell’‘Esercito siriano libero’. Il nuovo bilanciodell’operazione militare, il cosiddetto ‘Ramoscello d’ulivo’, festosa-mente agitato da Erdogan, ha già rivelato un pesante conteggio dimorti: 2.059 il numero dei “terroristi” (curdi e arabi) uccisi, feriti o fat-ti prigionieri, dall’inizio della guerra. Quale aiuto servirà ai curdi per u-nificare la cosiddetta nazione kurdo-siriana-irachena-iraniana-turca,questo patchwork stiracchiato che già da tempo ha abortito la propriastoria “nazionale”? In questa guerra che non cessa di seminare morte,quanto territorio sarà ingoiato dalle fauci degli imperialismi (USA,Russia, Turchia, Iran) e quanto sarà permesso di ingoiare alle piccole“patrie” senza storia? Ad Afrin sono arrivate anche le truppe siriane,per proteggere, così si dice, i curdi dall’attacco delle forze militari tur-che, quegli stessi curdi che hanno combattuto contro l’Isis con l’ap-poggio dall’intelligence e delle armi USA. Per circoscrivere le ambizio-ni di conquista turche – dicono – è stato trovato anche un accordo tra

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IL PROGRAMMA COMUNISTA2 A. LxvI, n. 2, marzo-aprile 2018

governo siriano e miliziani curdi,sostenuto e appoggiato dall’Iran edalla Russia. I bombardamenti ae-rei di Erdogan, tuttavia, non sonoriusciti a definire ancora una lineadi confine, una concreta linea dispartizione dell’intera Siria. Il go-verno turco vorrebbe creare unaspecie di “zona cuscinetto” oltre ilconfine meridionale, per evitaredi avere, appena al di là della pro-pria frontiera, una vera forza com-battente curda. L’azione militareturca ha avuto l’aiuto di una coali-zione di “ribelli siriani”, in passatoaddestrati dalla CIA per combat-tere il regime di Assad. Con il con-senso offerto dalla Russia a Erdo-gan per entrare nello spazio siria-no e bombardare i curdi, le geo-metrie di guerra hanno espressoaltre varianti. La situazione è tesaanche in un’altra città controllataa nord dai curdi e presa di miradalla Turchia: Manbij, dove gliStati Uniti hanno basi operative. Mentre arrivano le notizie dall’en-clave di Afrin, in un’altra parte delpaese proseguono i bombarda-menti del regime e piovono bom-be su Ghouta Est, una periferia neidintorni di Damasco. Si avanza ilsospetto che i governativi sirianiabbiano lanciato gas sulla città: lodimostrerebbero i sintomi disoffocamento diffusi nella popola-zione: ma, s’affrettano a precisarei media, “non esistono informazio-ni sicure sull’episodio e sulla na-tura delle armi usate nei raid”. Lacittà devastata e assediata nonpuò più aspettare, sostiene l’ipo-crisia generale: occorre l’inter-vento dell’ONU per “salvare” lamassa dei disperati, mentre sispara da una casa all’altra provo-cando altre centinaia di vittime.Negli ultimi giorni di febbraio, leforze militari hanno bombarda-to la città abitata da circa 400milapersone e controllata dai ribelli si-riani, uccidendo almeno 250 per-sone: è il bilancio più grave nellaguerra siriana dall’agosto 2013. Ivideo, le immagini e le testimo-nianze che negli ultimi giornigiungono da Ghouta Est sono cru-de: sembra che bombardamenticompiuti dagli aerei siriani e russiabbiano colpito gli ospedali; gli a-bitanti si nascondono nei rifugisotterranei e negli scantinati. Giàdal 2013, Ghouta è circondata eresiste alla fame, con i beni diconforto che entrano in cittàsfruttando tunnel sotterranei –traffico che si è interrotto daquando le forze alleate di Assadhanno preso il controllo dei terri-tori circostanti. La situazione, so-stengono i media, potrebbe aggra-varsi maggiormente nei prossimigiorni senza una tregua tempora-nea che permetta ai civili di trova-re una via di fuga… sempre che sipermetta alle autoambulanze dilasciare la città. Sembra tuttaviache Assad e i suoi alleati siano in-tenzionati a riprendere completa-mente il controllo totale del terri-torio e a sconfiggere definitiva-mente i cosiddetti ribelli.

Fino a quando dovrà durare que-sto massacro?

La “nuova” corsa all’Africa

A tutto gas (Eni!), il primo mini-stro italiano Gentiloni è andato inmissione speciale in Africa. DallaTunisia, si è spinto giù fino in An-gola e poi in Costa d’Avorio astringere un grande accordo eco-nomico. Qualche mese prima, ilpresidente Macron ha accolto aParigi i due rivali libici Sarraj eHaftar, scavalcando la posizione i-taliana sui migranti e nello stessotempo, sotto il rigido controllo delGoverno Gentiloni-Minniti, la si-tuazione degli sbarchi viene con-gelata: le masse di migranti sonofermate e rinchiuse nelle galere acielo aperto del deserto libico. Nel-la nuova gestione carceraria libi-ca, fioriscono come ai tempi diGheddafi i “campi di accoglienza edi smistamento” a pagamento,sotto il diktat caritatevole “Aiutia-moli a casa loro”! Il che significa lalegittimazione dell’impegno poli-tico delle autorità mercenarie do-minanti che si incaricheranno “le-galmente” di istituire nuovi e piùampi lager per i disperati nel de-serto. Nello stesso tempo, viene i-naugurato il cosiddetto “ponte li-bico”, che dall’Italia porterebbe inEuropa attraverso il Mediterra-neo, controllato dalla Marina mili-tare e da una task force terrestre,chiudendo rigidamente le parten-ze verso l’Italia. Anche le Organiz-zazioni Non Governative sono sta-te “disciplinate” al fine di più seve-ri controlli e limitazioni delle par-tenze dalle spiagge libiche.

Negli stessi giorni, il presidenteMacron è corso nella regione occi-dentale africana, nella capitale A-bijan in Costa d’Avorio e di lì inBurkina Faso, a rimettere a nuovoil vecchio colonialismo francese econsolidare la propria sfera d’in-fluenza in Africa Occidentale; in ri-tardo, tuttavia, di alcuni anni neiconfronti della Cina che sviluppaaffari ben più vistosi nell’Africa O-rientale, nella regione di Gibuti edel Corno d’Africa. A fine novem-bre 2017, poi, i colossi europei sisono incontrati sempre ad Abijan ehanno organizzato unità speciali(Unione Europea-Africa) per pre-parare le scadenze e ampliare ilbudget pluriennale, o almeno deiprossimi dieci anni 2017-27. Unafoto di gruppo ha inquadrato, inquell’occasione, molti personaggieuropei e africani presenti al verti-ce (Unione europea, Unione africa-na e Onu): praticamente l’interaclasse dominante europea e quellaafricana riunite attorno allaMerkel, a Macron e a Gentiloni conl’avallo delle Nazioni Unite. “Finan-za e scarponi chiodati”: è questa lanuova ricetta per l’Africa!

Quelle visitate in questi mesi daMacron sono soprattutto le zoneoccidentali e centrali dell’Africa(14 ex-colonie), ove l’imperiali-smo francese gode dei “frutti” deltradizionale passato coloniale. Lezone del franco e delle sue riservedepositate nelle banche di Parigi,prima legate alla moneta france-

se e ora all’euro (con un sistema dicambio fisso garantito dal Mini-stero del tesoro), continueranno amantenere i legami di un tempo.Dopo gli scontri in Mali, Parigi eBerlino si contendono il ruolo diguida nella stabilizzazione delpaese saheliano, pur non trovan-do ancora soluzioni concrete perdebellare i cosiddetti narco-jiha-disti locali (quando non ne utiliz-zano le forze!) che si spartisconotraffici e territorio. Il nuovo presi-dente francese punta ancora sulMali per testare la propria credi-bilità di leader mondiale, dandoall’Algeria un ruolo chiave nell’at-tivare i legami da anni sviluppaticon trafficanti, milizie e jihadistisahariani. Un’area in cui non tirapiù aria di pace, dopo il Mali, è ilBurkina Faso: il 2 marzo, infatti,un gruppo di “terroristi” pesante-mente armati, al grido di ‘AllahAkbar’, ha attaccato l’ambasciatafrancese a Ouagadaougou senzariuscirci. Gli assalitori sono poipenetrati nel quartier generaledello Stato maggiore delle Forzearmate locali.

Per la borghesia italiana, la faccen-da “missioni africane” è divenutapiù complessa perché si tratta diun ritorno agli anni ’60 del ‘900,quando, con la scoperta del giaci-mento di El Borma nel Sahara, il ga-sdotto Transmed venne congiuntoa quello proveniente dall’Algeria,che, attraversando il Mediterra-neo, risale oggi la penisola italica.In Angola, gli accordi stipulati neimesi passati prevedono per l’Eniun affare che ammonta al 50% deidiritti del Cabinda North, “una sor-ta di eldorado energetico angola-no”, ma in Costa d’Avorio si pro-spetta un ricco affare (l’Eni acqui-sirà il 30% del blocco esplorativo),come pure nel Ghana, dove si tro-vano giacimenti, secondo la BancaMondiale, per 41 miliardi di metricubi di gas e 500 milioni di barili dipetrolio.Per la Francia e, per esteso, perl’Europa (nel passaggio all’euro), leregole monetarie si sono fatte piùcomplesse dal punto di vista eco-nomico a causa della convertibilitàdel franco in euro, per la parità fis-sa con l’euro, per le riserve di cam-bio dei paesi della zona-franco cen-tralizzate nelle banche centrali, peri trasferimenti resi liberi tra zona-franco e Francia. Grazie alla parità,la Francia può continuare ad acqui-sire materie prime africane (cacao,caffè, banane, legna, oro, petrolio,uranio…) senza sborsare le proprievalute e le sue imprese possono in-vestire nella zona-franco senza ri-schi di deprezzamento monetario:grazie alla libera circolazione deicapitali, rimpatriano i profitti inEuropa senza ostacoli. Le multina-zionali francesi come Bolloré (set-tore delle telecomunicazioni),Bouygues (Compagnia telefonica),Orange (Telecomunicazioni e Te-lefonia) e Total (Compagnia petro-lifera) ne approfittano: mentre il si-stema permette di garantire profit-ti dei colossi europei, è la borghesiaafricana che attraverso le riserve dicambio collocate al Tesoro france-se, paga la stabilità del tasso dicambio.

Che l’intervento politico franceseabbia cercato di scalzare l’Italianella faccenda libica, e non soloper la questione dell’immigrazio-ne ma anche per la presenzadell’Eni, lo riconoscono in molti.Ma i “malintesi” sull’affare Nigersono stati ancor più pesanti. Laproposta di una missione italiananon è andata giù e lo si è capitonell’intervista rilasciata dal Mini-stro degli Interni e nelle osserva-zioni del Ministro degli Esteri delNiger. Secondo la propaganda, la

“Missione-Niger” non era che unaltro dei tanti interventi “umani-tari” che ormai appestano l’aria inAfrica e Medioriente: l’invio di uncontingente di 470 uomini e di u-na squadra di 40 specialisti da im-piegare “contro l’immigrazioneclandestina e il terrorismo”. La de-libera parlamentare, che si risol-veva nella partenza dei primi cen-to uomini prevista per giugno,pianificava un sopralluogo ai con-fini del Paese, sopralluogo prestocancellato. Da più parti, si è pensa-to a una chiusura nei confrontidell’Italia da parte del governo diParigi, che ha già in quell’area uncontingente con un ruolo di primopiano, pari a quello degli Stati Uni-ti e della Germania. La missione i-taliana è stata ritenuta “inconcepi-bile” dal governo nigerino perché“non ci sono stati contatti tra Ro-ma e Niamey”: non è stato maichiesto l’addestramento per ilcontrollo dei confini, si è detto –

“al massimo si può pensare ad unamissione di esperti senza ruoli o-perativi”. Se si considera che l’im-pegno prevede una presenza di120 uomini nel primo semestre2018 in Mauritania, in Nigeria eBenin (paesi che non sono politi-camente tra i più stabili) e l’inviodi 130 mezzi terrestri tra cui Lincee due velivoli C130, risulta evi-dente che la missione non era con-cepita come… una passeggiata. Inparticolare, il progetto prevedeva(per una spesa di circa 30 milionidi euro) l’invio di personale perlavori infrastrutturali, di squadredi rilevazioni contro minacce chi-miche-biologiche-radiologiche-nucleari (Cbrn), di un’unità disupporto, di un’unità per la rac-colta informativa, sorveglianza ericognizione a supporto delle ope-razioni (Isr).

Già: missioni umanitarie… Oh,gonzi!

Infami prodezze...

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INCONTRI PUBBLICI

A RomaLibreria Odradek - Via dei Banchi Vecchi, 57 - Roma .

Presentazione del V volume (dal maggio 1922 al febbraio 1923)Storia della Sinistra Comunista

Sabato 21 aprile ore 17,00

È finalmente uscito!Il V volume della Storia

della Sinistra Comunista...Dopo molti anni di lavoro, è uscito l’atteso V volume della no-stra Storia. Con una grande messe di documenti (articoli, lettere,mozioni, tesi), esso copre i mesi cruciali fra il maggio 1922 e ilfebbraio 1923, quando il giovane Partito Comunista d’Italia – (Se-zione dell’Internazionale Comunista) si trovò a dover far fronte,contemporaneamente, a una situazione economica e sociale sem-pre più drammatica, al riflusso delle lotte proletarie dopo anni dibattaglie cruente, all’attacco fascista esplicitamente sostenutodallo Stato e facilitato dal continuo tradimento sindacale e so-cialista e infine ai primi gravi ondeggiamenti tattico-strategicidell’Internazionale Comunista. Le sue quasi 700 pagine sono lapuntuale risposta a tutte le mistificazioni e falsificazioni che lastoriografia ufficiale (borghese, staliniana e post-staliniana) hasempre rovesciato sul PCd’I diretto dalla Sinistra, dimostrando-ne così, al contrario e involontariamente, il carattere rivoluzio-nario, l’aderenza al marxismo, la correttezza delle posizioni, l’at-tualità dell’esperienza. Articoli, polemiche, testi, manifesti e ap-pelli sono un lascito e un insegnamento di fondamentale impor-tanza per la formazione militante delle nuove generazioni che siavvicinano al comunismo.

InDIce

• Premessa• Introduzione• Capitolo I – Il movimento comunista mondiale nel 1922• Capitolo II – Il PCd’I davanti alle lotte economiche – Documenti

relativi al capitolo• Capitolo III – Gravi vicende interne e internazionali –

Documenti relativi al capitolo• Capitolo IV – Il IV Congresso dell’Internazionale – Documenti

relativi al capitolo• Capitolo V – La marcia della controrivoluzione – Documenti

relativi al capitolo

Il volume, di 694 pagine, costa euro 25,00 e può essere richiestoscrivendo a:

Istituto Programma Comunista, C.P. 272, 20101 Milano

[email protected]

Sedi di partito e punti di contatto

BENEvENTO: c/o Centro sociale LapAsilo 31, via Firenze 1(primo venerdì del mese, dalle ore 19)

BOLOGNA: momentaneamente sospeso

MESSINA: Punto di contatto in Piazza Cairoli (l’ultimo sabato del mese, dalle 16,30 alle 18,30)

MILANO: via dei Cinquecento n. 25 (citofono Istituto Programma), (lunedì dalle 21) (zona Piazzale Corvetto: Metro 3, Bus 77 e 95)

ROMA: via dei Campani, 73 - c/o “Anomalia” (primo martedì del mese, dalle 17,30)

TORINO: momentaneamente sospeso

BERLINO: Scrivere a: Kommunistisches Programm c/o Rotes Antiquariat Rungestrasse 20 - 10179 BerlinIndirizzo email: [email protected]

Chiuso in tipografia 21/3/2018

Edito a cura dell’Istituto Programma Comunista

Direttore responsabile: lella Cusin

Registrazione Trib. Milano 5892/ottobre 1952

Stampa: Arti Grafiche Fiorin SpA, Sesto Ulteriano (Milano)

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IL PROGRAMMA COMUNISTA 3A. LxvI, n. 2, marzo-aprile 2018

Si moltiplicano gli esempi di “cedimenti”del pensiero borghese, sia esso politico,economico o filosofico, spinto com’è a

prospettare soluzioni che non si potrebberoadottare se non mandando a gambe all’ariatutti i presupposti su cui si fonda la società ca-pitalista. Qualche esempio? Il “reddito di cit-tadinanza” dovrebbe garantire a tutti un mini-mum vitale: ma come si concilia con la ne-cessità, altrettanto vitale per il capitale, di unesteso esercito industriale di riserva affama-to, e pertanto sempre disponibile al lavoro?Come si conciliano le politiche per l’ambien-te con la voracità di risorse del capitale nellasua smania produttiva e dissipatrice? Chi e co-me dovrebbe regolamentare un capitale fi-nanziario ormai libero da ogni vincolo e con-trollo? La cosiddetta politica è prodiga di ri-cette, ma è in evidente stato di confusione eimpotenza di fronte al libero dispiegarsi del-le forze economiche: procede a tentoni e a pic-coli passi per conciliare l’inconciliabile, sen-za più una prospettiva che vada oltre le varietornate elettorali e gli interessi di questa o quel-la lobby. Naturalmente, le ricette non con-templano minimamente la messa in discus-sione di questo modo di produzione storico,giunto – si rassegnino gli ostinati e i ciechi –alla fine del suo ciclo evolutivo. Se poi qual-cuno è così ardito da affermare che il capita-lismo “non ha futuro”, lo fa perché l’idea ap-pare ormai più che realistica a chiunque abbiaconservato un po’ di sale in zucca. Ma un con-to è dirlo, altro è prospettare vie d’uscita chenon siano invenzioni intellettuali del tutto il-lusorie.

Una delle questioni più spesso evocate riguardala riduzione del lavoro umano indotta dallenuove tecnologie. Secondo l’istituto McKin-sey, nel giro di vent’anni l’introduzione di nuo-vi robot metterà a rischio circa la metà dei po-sti di lavoro (per l’ONU saranno il 60%). Gli1,8 milioni di robot industriali operanti ogginel mondo nel 2019 saranno 2,6 milioni: e sitratta di macchine sempre migliori, sempre piùcapaci di apprendere rapidamente e di libera-re, di conseguenza, forza-lavoro umana.

La questione crea imbarazzo perché tocca laradice della valorizzazione del capitale: losfruttamento del lavoro umano nella forma dellavoro salariato. Lo sviluppo delle forze pro-duttive sociali sta procedendo a ritmi tali dascardinare le basi economiche e sociali delcapitalismo. Che fare della marea di dispera-ti espulsi o mai entrati stabilmente nel pro-cesso produttivo, e che mai vi entreranno? Co-me gestirli capitalisticamente, facendo frutta-re la loro miseria? La sovrapproduzione mon-diale di forza-lavoro, l’enorme eccedenzadell’esercito dei senza riserve reso disponibi-le dalla sovrapproduzione di mezzi di produ-zione e la conseguente “messa in libertà” diforza lavoro umana sono a fondamento dell’in-tera isteria sull’immigrazione, essa stessa pro-dotto della sovrapproduzione di merci e mez-zi di produzione nei Paesi sviluppati e dellaeccedenza di forza lavoro in aree in cui il ca-pitalismo, senza portare il tanto decantato “svi-luppo”, ha sradicato gli antichi rapporti di pro-duzione nelle campagne e con ciò privato deimezzi di sussistenza milioni di esseri umani.La marea umana che preme per ottenere unreddito di sopravvivenza è causa ultima delterrore scomposto della borghesia, che nelmentre dispensa fiducia sui benefici del pro-gresso tecnologico trema per la propria ina-deguatezza da apprendista stregone di fronteai fenomeni che essa stessa ha provocato. Laborghesia sa che non ha molto (e ancor menoavrà!) da offrire alla gran parte dei proletariche, per campare, si prestano e si presterannoin futuro a essere sfruttati, e di cui in ogni ca-so ha vitale bisogno.

Quali soluzioni escono dal cappello a cilindrodella venerata schiera di intellettuali al suo ser-

vizio per affrontare questa crisi epocale? Ec-co un esempio: “Lo strumento, sottratto allapura finalità economico-finanziaria, è la levasu cui creare un lavoro che non sia volto alsolo profitto. Solamente ragionando in questitermini può tentarsi una risposta di lungo pe-riodo al problema della disoccupazione tec-nologica”1.

Lo strumento che serve solo al profitto non vabene. Dovrebbe servire anche all’uomo, al-meno un po’. Lo sforzo dell’intellighenzianon va oltre questa predica che si appella al-la ragionevolezza e ai buoni sentimenti. Maragionevolezza e buoni sentimenti di chi? For-se di una classe politica sempre più prona agliinteressi dei grandi gruppi finanziari mondia-li perché a essi legata organicamente? Forsedi singoli capitalisti di buon senso disposti arinunciare a una parte dei profitti occupandopiù forza-lavoro del necessario, per dare ilbuon esempio? I primi perderebbero imme-diatamente la sudata “cadrega” conquistata acolpi sapienti di lingua, mentre i secondi sa-rebbero spazzati via dalla concorrenza, ri-spettosa della legge draconiana del conteni-mento dei costi di produzione.

Se poi ci soffermiamo sulla necessità di unarisposta di lungo periodo, questa cozza con-tro la tendenza storica del capitale a tutti i li-velli ad accelerare il ciclo di riproduzione D-M-D’, a privilegiare investimenti che garan-tiscano un profitto ravvicinato nel tempo, me-glio ancora se immediato, ridotto alla sequenzaD-D’ caratteristica del capitale finanziario.Che fare contro questa smania di accumula-zione, più predatoria che reale? Come con-vincere il capitale a impegnarsi in investimentidai rendimenti troppo posticipati nel tempo,quando la logica del “mordi e fuggi” è ben piùredditizia?

Al fondo di questi patetici richiami al “doveressere” c’è la consapevolezza che così il ca-pitale non può andare avanti, unita alla totaleimpotenza dei presunti rimedi. Il capitale di-mostra ogni giorno di più la propria incapa-cità di programmare il futuro. La produzionenon può che svilupparsi all’insegna dell’anar-chia, attraverso fasi di espansione eccessivaalternate a fasi di contrazione sempre più pro-lungate; gli effetti catastrofici di questo svi-luppo caotico e incontrollato sull’ambiente esulla salute dei viventi sono da lungo tempoevidenze innegabili. La programmazione delfuturo che il capitale può concepire e attuareè produzione e ancora produzione per com-pensare con la massa dei profitti la riduzionedel tasso di plusvalore contenuta in ogni sin-gola merce. Chiedere al capitale di rinuncia-re anche solo in parte a produrre per il pro-fitto equivale a chiedergli di rinunciare a sestesso. Come questo continuo incremento chealimenta l’immensa raccolta di merci (Marx)si possa coniugare con la salvaguardia dellecondizioni di vita sul pianeta è affidato a unatto di fede nel potere della tecnica di prov-vedere a tutto. In effetti, la tecnica è, in epo-ca capitalistica, l’unica manifestazione dellecapacità umane che conosce un progresso co-stante: ma la sua potenza produttiva è diret-tamente proporzionale alla sua potenza di-struttiva e di annientamento. Questa capacitàè tanto reale quanto è teorica la sua capacitàsalvifica, affidata com’è, anch’essa, assai piùalla capacità di coniugarsi col profitto che al-la… “buona volontà”.

Per quanto attiene alla capacità di liberarel’umanità dal bisogno e dalla fatica del lavo-ro, la tecnica sarebbe in grado, in altre condi-zioni, di farlo: ma in regime capitalistico que-sto compito le è precluso, e si volge nel suoopposto, in capacità di dominio e controllosul lavoro vivente. E laddove libera lavoro vi-vente rendendolo superfluo, lo trasforma inesistenze emarginate, prive di fonti di reddi-

to, ridotte alla miseria. È questa la leggedell’accumulazione capitalistica (Marx): con-centrazione ed estensione dei prodotti del sa-pere tecnico e produttivo dal lato del capita-le, concentrazione ed estensione della miseriadal lato del lavoro vivente. Così, il progredi-re tecnico dell’automazione della produzionesi accompagna alla crescente povertà ed emar-ginazione sociale. Sul piano culturale, la ten-denza alla distruzione di lavoro vivente, sop-piantato dalle macchine, fa a pugni con l’eti-ca del lavoro inculcata fin dalla nascita a chiun-que abbia la ventura di venire al mondo di que-sti tempi – etica d’altra parte ampiamente ero-sa dal parassitismo e dall’illegalità che carat-terizza la società a tutti i livelli.

Nel generale trionfo dello spreco e della dis-sipazione, mentre una minoranza gozzoviglianel lusso e i comportamenti predatori sono al-la fine sistematicamente premiati, ai proleta-ri si chiede il massimo di dedizione in termi-ni di fatica di lavoro, di livelli di sfruttamen-to, di tempo di vita.

A sentire gli esperti, se la disoccupazione cre-sce non è a causa del continuo rivoluziona-mento delle condizioni di produzione, ma acausa di un ambiente poco favorevole, speciese salari troppo elevati inducono le imprese anon investire. Così si pronunciò l’illustre can-celliere socialdemocratico Schroeder, neglianni in cui il capitalismo tedesco preparava ilproprio rilancio, coniugando la delocalizza-zione e gli investimenti esteri con la riduzio-ne del costo della forza lavoro interna: “Il co-sto dei salari ha raggiunto un livello non piùsostenibile dai lavoratori e che impedisce aidatori di lavoro di creare attività […] Dovre-mo tagliare le spese dello Stato, incoraggia-re la responsabilità individuale ed esigere sfor-zi maggiori da parte di ognuno”2.

Ma è vero proprio l’opposto, esimio cancel-liere! Ci si aspetterebbe di più da un alto espo-nente della tradizione socialdemocratica te-desca, che un tempo (molto lontano!) anno-verava il fior fiore del marxismo mondiale! E’quando i salari sono bassi che il capitalista nonha alcun interesse a investire in quella che og-gi si dice “innovazione”, dato che questa com-porta investimenti e costi che saranno ripaga-ti solo in seguito dal risparmio sull’impiegodi manodopera e dall’intensificazione dellosfruttamento di quella rimasta. A che pro que-sto sforzo se la manodopera costa poco e ga-rantisce buoni profitti ora? Sono proprio i sa-lari elevati a spingere il capitalista a investirein nuovi macchinari! Non solo, il grande espo-nente politico tedesco – a cui si deve in buo-na parte il merito di aver promosso la fami-gerata legislazione Hartz – trascura il fatto chei salari elevati si accompagnano a un’occupa-zione crescente e i bassi salari a un’estesa di-soccupazione... A meno che, ai tempi della di-chiarazione, non auspicasse un’estensione del-la disoccupazione involontaria come strumentoper abbassare i salari. Il sospetto si fa certez-za quando si consideri che l’obiettivo della le-gislazione Hartz era di estendere la platea del-la forza lavoro disponibile, a qualunque con-dizione, privando disoccupati e sottoccupatidelle tutele del welfare allora in vigore. Il pen-siero del nostro socialdemocratico si comple-ta con quest’altra bella dichiarazione: “Coluiche può lavorare, ma non vuole, non ha alcundiritto alla solidarietà. Nella nostra societànon esiste il diritto alla pigrizia” (Schroederin un’intervista a Bild, 6 aprile 2001; cfr nota2). La dichiarazione ambisce a una certa for-za morale, ma è imprecisa. Il diritto alla pi-

grizia esiste, eccome, ma è riservato a quantihanno il culo parato, come l’esimio, dalla pre-stigiosa “cadrega”, o da conti in banche – sviz-zere o tropicali – che permettono di far la mo-rale agli altri, che non li hanno. Ancora piùbrutale, nella sua essenzialità, la battuta di unsuo collega di partito di pari grado: “Chi la-vora, mangia” (F. Munterfering, presidenteSPD, vice cancelliere e ministro del lavoro edegli affari sociali, 9 maggio 2006; cfr nota2). Facile immaginare le conseguenze di un’ap-plicazione letterale del principio, se solo vol-giamo la frase alla forma negativa,: ma anchequi rileviamo un difetto di precisione che ac-comuna le due dichiarazioni, entrambe fina-lizzate a sostenere la nuova legislazione dellavoro. Non se ne trova uno, tra quanti si ab-buffano di ogni ben di dio, che appartenga al-la schiera del lavoro salariato. In questa so-cietà, essere ricchi non è certo una colpa, malo è senza alcun dubbio essere dei poveracci.Senza scomodare l’orwelliana uguaglianza cheprevede un surplus per i maiali, il differentetrattamento riservato agli oziosi ricchi rispet-to a quelli poveri è ben spiegato dalla famosabattuta del Marchese del Grillo: Io so’ io, e voinon siete un c...

In questa società così altamente “morale”, nonha dunque alcuna rilevanza che la potenza pro-duttiva della tecnica sia in grado di garantirel’abbondanza universale. Il poveraccio devedimostrarsi devoto al lavoro, non importa co-me: altrimenti resti a mandibole ferme. Lo con-ferma un’altra citazione, questa volta di unaamante della natura: “Invece di essere paga-te per l’inattività, le persone dovrebbero fareun lavoro di pubblica utilità […] A Berlino sipotrebbero reclutare venti disoccupati HartzIV in ogni quartiere per controllare che i pro-prietari di cani raccolgano gli escrementi deipropri animali […] così, si prenderebbero duepiccioni con una fava: i disoccupati trovereb-bero una nuova occupazione e i berlinesi unanuova città” (Claudia Himmerling, deputatadei Verdi al parlamento di Berlino, Bild, 6 apri-le 2010; stessa fonte).

Merita sottolineare, per inciso, che tutte que-ste belle idee sono partorite da esponenti del-la ineffabile sinistra borghese, quella che do-vrebbe difendere i lavoratori, ed in effetti sileva in difesa del lavoro, sì, ma di quello sa-lariato, cioè del lavoro per il capitale. In Ita-lia, la nuova legislazione del lavoro – il JobsAct – ha avuto gli stessi padri, più o meno no-bili, e le stesse finalità della Hartz IV, con l’ag-gravante di una indisponente ipocrisia rias-sunta nella birbonata delle “tutele crescenti”,in contratti che fanno strame dei cosiddetti “di-ritti” del lavoro.

Ma torniamo al problema della tecnica che do-vrebbe liberare l’uomo e invece lo affligge.La questione è così importante da scomodarenientemeno che il grande filosofo EmanueleSeverino, il quale le ha dedicato “un rametto”– dice lui! – della sua… gigantesca opera. Ilprogredire incessante della tecnica, secondocostui, comporta la distruzione di tutte reli-gioni e ideologie, comunismo compreso (cimancherebbe!). Infatti, mentre queste si com-battono e si escludono a vicenda, lei, la tecni-ca, continua imperterrita a operare e a tra-sformare il mondo: il futuro le appartiene. E’dunque possibile l’avvento del Paradiso in Ter-ra? L’esistenza dell’uomo si libererà, per quan-to possibile, dalle catene della sofferenza? Que-sta la risposta del filosofo: “Sì, ma solo se cisarà una unione tra la voce della filosofia chedice ‘non ci sono limiti’ e la capacità tecno-logica di oltrepassarli”3.

Il momento verrà, dunque, quando la tecnicaincontrerà... la filosofia! Immaginiamo il fi-losofo – perché è in lui che la filosofia si faatto – andare in giro a comiziare, avvertendoche “non ci sono limiti” all’impiego della tec-nica. Nemmeno il profitto? Nemmeno, Seve-rino è d’accordo. Per lui, la tecnica affossa an-che il capitalismo. Bene! Si tratta solo di con-vincere la borghesia capitalistica a smetterlacon questa… fissazione del profitto, diventa-

A PROPOSITO DI CAPITALISMO E FUTURO DELLA SPECIESe il capitalismo ha ancora un futuro, allora si riducono le possibilità di sopravvivenza della specie umana; se non ce l’ha, sarà solo perché la rivoluzione proletaria avrà interrotto il suo corso caotico e distruttivo e superato le sue insanabili contraddizioni.

1. G. Tonelli, “Universo precario in equilibrio sulbaratro”, Il fatto quotidiano, 25/5/2017. 2. G. Schroeder, Discorso al Bundestag, 14 mar-zo 2003. Questa e le altre perle che seguono sonotratte dal dibattito di inizio 2000 in Germania invista dell’introduzione della nuova legislazione dellavoro che ha preso il nome di Hartz IV. Le ripor-tiamo da Le MondeDiplomatique/Il Manifesto diottobre 2017. Su Hartz IV, cfr. il nostro articolo“Dalla Germania. La ‘crisi’ dello Stato sociale te-desco”, Il programma comunista, n. 2/2017.3. http://www.lettera43.it/articoli/economia/2012/12/27/severino-capitalismo-senza-futuro Continua a pagina 4

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IL PROGRAMMA COMUNISTA4 A. LxvI, n. 2, marzo-aprile 2018

to superfluo in un mondo di abbondanza uni-versale; di smetterla di armare eserciti, di fi-nanziare apparati polizieschi, di inquinare, dicostruire bombe, missili, veleni... Il placidofilosofo avrà la meglio su tutto questo? Evi-dentemente, Severino ha una gran fiducia inuna categoria ingiustamente ritenuta in estin-zione. Sorge però in noi, ostinati seguaci del“già perento comunismo”, il sospetto del “giàvisto”. Non manifestavano forse i positivistidi fine Ottocento altrettanta certezza nella ca-pacità della scienza di preparare per l’umanitàun futuro di progresso, facendo piazza pulitadi fedi, superstizioni, ideologie? Non passògran tempo dal fiorire del nuovo credo che lascienza e la tecnica espressero la loro capacitàdi superare ogni limite conosciuto, sì, ma nonnel miglioramento delle condizioni di vita del-la specie, bensì nella guerra più devastante emicidiale dell’intera storia umana. E sebbeneai tempi la “filosofia” godesse ancora di gran-de prestigio, non solo non riuscì a impedire lastrage, ma produsse anche buoni argomenti asuo sostegno. Il fatto è che, come non esiste“la filosofia” in sé, ma esistono “i filosofi” cheper definizione esprimono sistemi di pensie-ro differenti, così non esiste una tecnica astrat-ta, al di sopra del mondo degli uomini. Esistela tecnica del capitale, con i suoi scopi fina-lizzati a precisi interessi di classe, e solo l’ab-battimento della dittatura di classe della bor-ghesia abbatterà le barriere che ostacolanol’evoluzione sociale. Severino non può igno-rare la contraddizione individuata dal marxi-smo tra lo sviluppo delle forze produttive e ilimiti imposti dai rapporti di produzione: manon intende servirsene. Deve dire la sua sulmorente capitalismo senza confondere il pro-prio pensiero con quello di “filosofi” del pas-sato, ritagliandosi così un posto proprio nella“storia della filosofia”.

Quando Marx – che era un rivoluzionario chesi occupava anche di filosofia, ma al serviziodella rivoluzione – scrisse che “I filosofi han-no [finora] solo interpretato diversamente ilmondo; ma si tratta di trasformarlo” (Tesi suFeuerbach), non intendeva certo affidare ilcompito ai filosofi. Con buona pace di Seve-rino, e senza mettere in discussione la sua pro-fessionalità nell’arte di interpretare il mondo,per la sua trasformazione preferiamo ancoraaffidarci alla prospettiva comunista rivoluzio-naria. Per quanto da ogni parte si ripeta il man-tra della sua morte, è l’unica strada realistica,perché è l’unica materialisticamente fondatache l’umanità possa percorrere per liberarel’umanità dalle catene che la opprimono.

Dunque dietro questa cosiddetta crip-tomoneta non c’è alcuna banca cen-

trale che ne garantisca la scambiabilità conqualsivoglia merce o la conversione in mo-neta legalmente riconosciuta. Non avendoalcuna rappresentazione fisica, se non laquantità di bit che la rappresenta nei com-puter (coniata in bit, appunto), questa mo-neta sembrerebbe esprimere una tappa ul-teriore nel processo, già avanzato, di sma-terializzazione del denaro indotto dallo svi-luppo capitalistico. L’ancoraggio all’oro harappresentato a lungo la garanzia che lebanconote emesse dalle banche rappre-sentassero effettivamente la cifra stampa-ta su un pezzo di carta privo di valore in-trinseco; quando le banche centrali hannoassunto il monopolio dell’emissione, que-sta si è completamente svincolata dall’ob-bligo della conversione sul mercato inter-no, mentre a livello internazionale le bilan-ce dei pagamenti si compensavano con iltrasferimento dell’oro che manteneva lasua funzione di moneta mondiale. Questosistema è stato, in apparenza, completa-mente superato con la dichiarazione di in-convertibilità dollaro/oro (1971). Da allo-ra, il denaro si muove liberamente sui mer-cati mondiali e i paesi con la bilancia deipagamenti in attivo accumulano riservemonetarie in forma di valute accettate ne-gli scambi internazionali, con il dollaro afarla da padrone.Che cosa c’è dietro il dollarone, da farne unpezzo di carta così ambito da riempire iforzieri degli Stati? C’è la credibilità dellaBanca centrale USA, e dietro le virtù di que-sta c’è la potenza economica e politica USA,ben rappresentata dalle assai materiali do-tazioni in bombardieri, missili nucleari esoprattutto portaerei qua e là nel mondo. In realtà, sappiamo che con lo sviluppo del

credito la possibilità di emissione di mo-neta dipende solo in parte dalle banchecentrali, le quali all’occorrenza sono indot-te a nuove massicce emissioni per soste-nere il valore dell’enorme massa di crediticoncessi e di prestiti contratti entro la ine-stricabile rete di relazioni tra banche esoggetti economici pubblici e privati. Tut-to ciò è il risultato del processo di libera-lizzazione avviato proprio a partire dalladichiarazione di inconvertibilità, che haposto le basi per l’espansione della massamonetaria globale a sostegno di uno svi-luppo decentrato che permettesse unasempre più estesa valorizzazione del capi-tale fuori dai confini dai Paesi di vecchiaindustrializzazione.

Come se l’enorme massa di denaro varia-mente generato non bastasse, ora salgonoalla ribalta queste “criptovalute”, che a dettadei sostenitori più o meno interessati costi-tuirebbero la grande novità in campo mone-tario, se non addirittura il futuro prossimodella moneta. La grande novità starebbeproprio nel fatto che dietro il bitcoin e simi-li non v’è la garanzia di alcuna banca centra-le, e pertanto esso sarebbe espressione di u-na emissione di moneta finalmente liberadal monopolio dello Stato emittente (manon libera dal signoraggio, che nel presentecaso sarebbe rappresentato dal compensoin bitcoin dei cosiddetti miners). Su questoaspetto, le fantasticherie libertarie sulla po-tenzialità della rete di creare spazi in cui gliindividui si affranchino dal potere politicoed economico si sposano con le opportunitàdi fare affari senza dover rispettare regole o,quel che è peggio, pagare tasse. Una nuovamanna per la vasta platea degli speculatori,nella quale alla fine prevalgono i grandimarpioni, e non certo gli smanettoni convelleità libertarie. Nel caso delle “criptovalu-te”, l’emissione “democratica” di moneta,controllata dalla piattaforma di rete, si por-rebbe in alternativa a quella del famigeratoStato sovrano.

A quanto ci risulta, il bitcoin nasce all’inter-no del progetto di una rete di computers col-legati tra loro (blockchain), finalizzato a ga-rantire operazioni di acquisti, vendite,scambi (peer to peer) e ricerche nel totale a-nonimato. La funzione originaria del bitcoinera quella di remunerare quanti si impegna-vano a mantenere l’efficienza e la sicurezzadel sistema da intromissioni esterne. Lablockchain risulta così essere un sistema au-tonomo con una propria moneta fondatasulla fiducia dei partecipanti nei confrontidel sistema per ciò che riguarda affidabilitàe criteri della sua generazione.

I cosiddetti miners hanno il compito di “con-validare tutti i pagamenti e le transazionidelle criptovalute e devono riunirli in pac-chetti che vengono chiamati ‘blocchi’” (Il So-le24ore, 3 marzo 2018). Il “minatore” cheper primo convalida un blocco ottiene in ri-compensa le commissioni dei pagamenti delblocco, più 12,5 bitcoin generati da zero. Inquesto modo, la massa totale del valore deibitcoin corrisponde al totale delle passatetransazioni in criptomoneta più la creazionedi nuova moneta per remunerare l’attivitàdi convalida dei miners. Anche ammettendoun qualche fondamento alle fantasie liberta-rie, quest’idea di una moneta libera dal con-trollo centralizzato dello Stato non esce daiconfini angusti della società di classe. Perquanto “democratico”, il nuovo denaro è pursempre denaro, o almeno ambisce a diven-tarlo. In quanto tale, la sua esistenza rimaneindissolubilmente legata al valore, e pertan-

to a una società fondata sullo scambio mer-cantile che, a un dato livello di sviluppo del-la produzione sociale, non può che basarsisullo sfruttamento del lavoro umano.

Il denaro – Marx insegna – non è una “co-sa”, ma, in quanto espressione del valoreincarna un rapporto sociale: “Il presuppo-sto elementare della società borghese è cheil lavoro produce immediatamente il valoredi scambio, ossia il denaro; e che quindi an-che il denaro compra immediatamente il la-voro, e quindi l’operaio, soltanto se egli stes-so, nello scambio, aliena la sua attività.” Inaltre parole, se esiste denaro (in qualunqueforma), esso non può che essere espressio-ne della legge del valore; se esiste il valore,allora esiste nell’attuale modo di produzio-ne l’appropriazione fraudolenta di unaparte del valore prodotto socialmente. E setutto questo, come fenomeno, esiste, se nededuce che siamo ancora immersi in unasocietà di sfruttamento, dove una granmassa di valore prodotto dai proletari vie-ne espropriata dai produttori e drenata aicapitalisti e al capitale.

Su queste premesse, se il denaro, qualunqueforma assuma, è espressione di una societàmercantile e di classe, il fenomeno dellecriptomonete, anche se nato come espres-sione di tendenze antiautoritarie, è funzio-nale agli interessi del capitale. In particolare,nell’epoca del dominio pervasivo del capita-le finanziario, è destinato a essere fagocitatonel processo, ben espresso nell’ideologianeoliberista, che tende a sottrarre allo Statosettori sempre più ampi di attività. L’esten-sione dell’invadenza degli interessi privati –del capitale privato nelle forme associateche assume oggi – all’emissione di moneta siprefigura come l’ultimo boccone della buli-mia privatizzatrice e liberalizzatrice, chetende a piegare ogni aspetto dell’esistenzaal profitto nelle sue varie espressioni.

Posto che bitcoin (e simili) ambiscono a di-ventare denaro a tutti gli effetti, e quindi aconcorrere alla mistificazione di un equiva-lente generale che occulta il lavoro non pa-gato come condizione fondante della produ-zione, in realtà ad oggi non ne hanno i requi-siti. Come equivalente generale per lo scam-bio di merci sono utilizzati in ambiti moltocircoscritti, mentre come misura del valoresono soggetti ad alti e bassi da ottovolante, equesto aspetto ne compromette anche lafunzione di riserva di valore: dunque, necompromette la possibilità di essere tesau-rizzati. Nondimeno funzionano benissimocome mezzo di pagamento e dunque si pre-stano perfettamente come strumento dispeculazione, specie da quando la Fed ne haaccettato la quotazione in borsa.

Il meccanismo è elementare: si acquistanobitcoin con la scommessa di un loro ap-prezzamento e la profezia si … auto-avve-ra: finché gli acquisti prevalgono sulle ven-dite il valore dei bitcoin aumenta. Poi vieneil momento del realizzo, della conversionedella moneta (fasulla) in denaro (espressoin divise che hanno alle spalle le banchecentrali, meglio se con la faccia di GeorgeWashington in bella mostra). In quei fran-genti, i furboni si riempiono le tasche disoldi veri ai danni dei fessi ultimi arrivati.Subentra la caduta delle quotazioni, cuipuò seguire un rimbalzo se vi sono le con-dizioni per una ripresa dei movimenti spe-culativi. Tutti questi movimenti possonoavvenire anche allo scoperto, senza l’ac-quisto effettivo dell’asset in gioco, o a debi-to. Se i grandi speculatori agiscono a leva, il60% dei piccoli investitori americani spe-culano indebitandosi con carte di credito,comprese le famigerate revolving, che per-mettono di andare allegramente in rosso.Finché il valore delle criptovalute cresce-va, gli indebitati sono stati nelle condizionidi rimborsare; poi, quando i grossi investi-tori che muovono i giochi hanno deciso di

A proposito di capitalismo...

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Due parole a proposito di “foibe”

Ogniqualvolta si parla di foibe, due fazioni si confrontano. La prima, nazionalista,fascista (o fascistoide), vede nelle foibe il prodotto della “ideologia comunista”:

come sempre, il “male assoluto”. La seconda, democratica e figlia del partigianesimostalinista e titino, cercando di ridimensionare quegli eventi, li riduce alla reazione sla-va alle nefandezze dell’Italia fascista. Entrambe borghesi e nazionaliste, utilizzando imorti e mistificando i fatti, si confronteranno all’infinito, a scadenze fisse. Noi ricordiamo innanzitutto che entrambi i “contendenti” si sono distinti in quegli an-ni per una feroce politica anti-proletaria, che ha avuto il suo culmine proprio nell’“infoi-bare” i comunisti internazionalisti; e che la questione dei confini fra “latini” e “slavi”è ben più antica di questa tragedia, frutto diretto del dominio capitalista e delle suecontraddizioni interne. Per sradicare l’origine di queste atrocità squisitamente capitalistiche, l’unica via èquella già indicata dal comunismo rivoluzionario. Infatti, già nel 1921, la prospettivainternazionalista animava le lotte dei proletari di quella regione. In un articolo usci-to nel 1950 su quello che allora era il nostro giornale e intitolato “Il proletariato e Trie-ste”, ricordavamo che allora il Partito comunista d’Italia, diretto dalla Sinistra, “presea Trieste la sezione politica, il giornale, la Camera del Lavoro. Compagni italiani e sla-vi vi lavoravano in tutto accordo. Gli stessi articoli, tradotti dal buon Srebrnic, anda-vano nelle due edizioni italiana e slovena. La generosa classe operaia di Trieste, nonmeno dei lavoratori agricoli del contado, vibrava di entusiasmo per la rivoluzione di Le-nin, e per le stesse ragioni” (Battaglia comunista, n. 8/1950).Nel medesimo articolo, sottolineavamo che “Il ‘principio di nazionalità’ si presta bel-lamente a tutte le plastiche della arruffianata chirurgia diplomatica, specie nelle zo-ne in cui, come nei disgraziati Balcani, non sono tracciabili sulla carta geografica i con-fini etnici linguistici e nazionali; i villaggi turco, greco, serbo e bulgaro, con i preti delcaso, stanno a un passo tra loro, e mai l’odio, la guerra e la forza sistemeranno queiterreni sul piano della nazionalità. Queste zone abbondano in Europa: la democraziaoggi vincitrice le tratta col sistema ultra-liberale della deportazione forzata in massa.Al fantasma letterario della libertà di lingua e di unione razziale si aggiunge quellodella libertà di residenza, e con essi dilegua in nebbia”.E concludevamo: “È in queste frange di incontro dei popoli, in queste zone bilingui,che l’internazionalismo proletario deve fare le sue prove rifiutando le bandiere di tut-te le patrie per quella unica e rossa della rivoluzione sociale”.Ieri, come oggi e domani!

Bitcoin: se non è denaro...lo faranno“Il bitcoin è una moneta digitale distribuita e generata da una rete decentralizzata‘peer to peer’. Questo significa che non esiste alcuna banca o autorità centrale chestampa moneta e influenza il valore di un bitcoin che invece è affidato solo alle leggidella domanda e dell’offerta. Non c’è un ente centrale ma un database distribuito chetraccia le transazioni, e sfrutta la crittografia per gestire gli aspetti funzionali comela generazione di nuova moneta e l’attribuzione di proprietà dei bitcoin.”

(Il Sole-24 ore online, 16 settembre 2017)

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IL PROGRAMMA COMUNISTA 5A. LxvI, n. 2, marzo-aprile 2018

Conseguenzeedesitidellafinanziarizzazione

I vari aspetti che caratterizzano lo sta-dio attuale della finanziarizzazioneeconomica si trovano spiegati ampia-mente e in dettaglio in numerosi stu-di e pubblicazioni di fonte borghese.Spesso si tratta di lavori critici neiconfronti dei meccanismi predatoridella finanza e delle conseguenzepolitiche e sociali dello strapotere fi-nanziario. Il loro limite è che quasisempre portano alla conclusione cheun ritorno alla sovranità piena degliStati in materia monetaria, la limi-tazione della libertà dei sistemi fi-nanziari, una regolamentazione e uncontrollo delle banche che contrastie persegua “l’azzardo morale” sianola soluzione possibile della crisi delcapitalismo e delle sue conseguenzesociali. Dopo la crisi c’è stato in ef-fetti qualche provvedimento inter-nazionale in materia bancaria final-izzato a limitare gli eccessi del ri-corso alla leva da parte della banche,ma l’intervento sui requisiti patri-moniali non ha fatto che spingere lebanche a spostare ulteriormente fuoribilancio molte attività, affidate allesocietà veicolo2 (i principali sogget-ti della shadow banking) da lorostesse create. In una certa misura,quindi, la regolamentazione ha in-centivato il ricorso al settore non re-golamentato delle attività finanziarie.Di fatto, dopo la crisi questo settoresi è ripreso dal crollo e muove volu-mi finanziari superiori a quelli dellebanche regolamentate. Gli hedge fundhanno ingigantito il giro d’affari,potenziandosi come strumento dellebanche per accedere a investimentifinanziari ultraspeculativi in reazioneai tassi d’interesse al minimo stori-co (“Hedge fund alla carica dei mer-cati”, Il Sole24ore, 25/11/17). NegliStati Uniti, anche quel minimo di re-golamentazione bancaria che era sta-ta timidamente reintrodotto dopo lacrisi con la legge Dodd-Frank è orasotto attacco da parte delle lobbiespolitico-finanziarie.

D’altra parte, una regolamentazionee un controllo internazionale dei flus-si di capitale è del tutto illusoria. Lelamentazioni dei politici sulla man-canza di “una giurisdizione inter-nazionale di politica economica” checonsente alla criminalità organizza-ta di sguazzare negli spazi oscuri del-la finanza sono le lacrime di cocco-drillo di chi ha sostenuto, sostiene esi guarda bene dal mettere in discus-sione il dominio del capitale fi-nanziario (“La criminalità sguazzanella finanza opaca”, Il Sole24ore,24/11/17). Pecunia non olet; il cap-itale finanziario è indifferente allefonti del denaro, specie se copioso.Una volta asceso al cielo della fi-nanza, anche il denaro frutto del peg-gior crimine ritrova la sua purezza,si mescola e si confonde nel flussogenerale, dimentico di sé, e magaritrasmigra in qualche opera buona fi-nanziata dallo IOR vaticano. Poten-za della Provvidenza divina!

Posto quindi che il richiamo alla ne-cessità di regolamentare inter-nazionalmente gli eccessi del capi-tale finanziario è destinato a caderenel vuoto, lo slancio regolamentatorerichiede un ritorno del protagonismodello Stato e del controllo del fattoeconomico in una prospettiva neces-sariamente nazionale. Questa prospet-tiva è stata surclassata dall’evoluzionedel capitalismo mondiale, ormai pro-

fondamente internazionalizzato, oltreche nella finanza, anche nelle strut-ture produttive organizzate nellecatene di valore. Nessun Paese cheabbia perso parte della propriasovranità, in campo monetario o nelcontrollo dei movimenti di capitali,è in grado di riconquistarla pacifica-mente, semplicemente per effetto del-la volontà popolare espressa per viademocratica. Una limitazione leg-islativa su base nazionale degli ec-cessi capitalistici entrerebbe in aper-to conflitto con gli interessi del cap-itale internazionale, ossia dei centridominanti dell’imperialismo, i qualidispongono degli strumenti per met-tere sotto pressione e riportareall’ovile la pecorella smarrita. An-che questa via si rivela dunque im-praticabile. Lo è altrettanto lo slan-cio legalitario della “lotta alle mafie”.E’ forse vero che su questo terrenotalvolta si manifesta una collabo-razione internazionale, ma mai taleda mettere a rischio gli apporti mil-iardari alla circolazione della finan-za mondiale che vengono dai grandigruppi criminali. Anche questo è unaspetto della crescente impotenza del-lo Stato di fronte alle forze che con-trollano i movimenti della finanzamondiale, in grado di farsi beffe ditutte le regole e di subordinare gliStati ai propri interessi.

La subordinazione dello Stato agliinteressi del capitale finanziario in-ternazionale, infatti, non ha nientedi astratto; da una parte si realizza– come abbiamo cercato di illustrarenel precedente articolo – attraversola sottrazione del controllo del deb-ito pubblico da parte dei soggetti fi-nanziari privati, quindi attraverso gliefficaci meccanismi di mercato;dall’altra, questi stessi meccanismiridisegnano e rafforzano le gerar-chie tra gli Stati: gli imperialismidominanti attraverso la finanza sub-ordinano e condizionano quelli piùdeboli, ne sottraggono quote di plus-valore, ne orientano le sceltepolitiche. Nelle rete di relazioni didebito e credito tra capitalismi

nazionali valgono le stesse regoledei rapporti tra le banche e tra pri-vati: contano la forza e le dimen-sioni. Un grande creditore è ancheun grande debitore, ma nessuno chevanti crediti nei suoi confronti sisognerebbe di portarlo al fallimen-to, col rischio di fallire esso stesso.Tra i grandi, la reciproca dipenden-za è anche reciproco sostegno.Viceversa un piccolo debitoresubisce fino in fondo la servitù deldebito, vi si assoggetta e versa il suosangue fino all’ultima goccia per farfronte agli impegni, senza per questoavere l’assicurazione di salvarsi dal-la rovina (Grecia docet). Se i piccolistringono la cinghia, i grandi si ris-ervano tutti i vantaggi di una po-sizione di forza. La banca centraledegli Stati Uniti, che a differenza dialtre omologhe gode di un’indipen-denza dal Tesoro più formale chereale e che mantiene tra i suoi obi-ettivi statutari il contrasto alla dis-occupazione, in virtù dell’esorbi-tante privilegio del dollaro contin-ua a finanziare il deficit pubblico,cosa che nessun altro Stato potrebbepermettersi senza incorrere nelle iredel dio capitale. Il debito pubblicoamericano finanzia il colossaledeficit con l’estero e lega a filodoppio i suoi maggiori creditori,Cina e Giappone in testa, alle sortidella principale economia mondi-ale. In Europa, la macchina comu-nitaria al servizio del dominante cap-italismo tedesco usa il debito pub-blico per sottomettere ai diktat del-la UE i governi dell’Eurozona, e laGermania sfrutta la sua influenzaper definire la disciplina bancariacomunitaria pro domo sua, diseg-nata per mettere in difficoltà i siste-mi bancari dei partners di area, e fa-vorire il proprio.

Al rafforzamento dei principali cen-tri imperialisti fa riscontro la ridu-zione dei Paesi periferici entro unagerarchia che li vede orbitare, con di-verse gradazioni di subalternità, at-torno ai poli dominanti. Ogni tenta-tivo di sganciarsi da questa subordi-nazione o anche solo attenuarla de-ve fare i conti con ostacoli economi-ci e politici internazionali enormi. Inun simile quadro le velleità sovrani-ste, che abbiano il segno dell’anti-politica, del populismo o del fasci-

smo più o meno dichiarato, sono de-stinate a rientrare nel recinto dellacompatibilità con gli interessi del ca-pitale finanziario internazionale e delcentro imperialista di riferimento.

Il limite di queste presunte soluzionipolitiche della crisi nasce dalla inca-pacità di riconoscere il carattere stori-camente transitorio del modo di pro-duzione dominante e di intendere chele sue dinamiche distruttive sono nec-essarie e inevitabili. L’autonomiz-zazione del capitale in quanto capi-tale finanziario che esercita ed es-tende il suo dominio sull’intero pi-aneta e su tutti gli aspetti della soci-età non è frutto di una scelta di unacomponente della classe borgheseche possa essere revocata a favore diun indirizzo meno socialmente dev-astante, ma il risultato dello svilup-po delle forze produttive sociali e del-la raggiunta fase terminale del ciclostorico del modo di produzione cap-italistico. Come tale, è un processoinevitabile e irreversibile.

A un grado di sviluppo inferiore, magià imperialista, il fascismo storicosi era posto lo scopo di controllare econtenere le forze economiche e diclasse indirizzandole ad ambiziosiobiettivi politici nazionali; il suo èstato un progetto politico, economi-co e sociale, su base nazionale, dirisposta alla crisi capitalistica e allaminaccia rivoluzionaria, destinato alfallimento, certo, ma a suo modo or-ganico. Il fascismo concepiva un suoordine interno e lo proiettava all’es-terno in un nuovo ordine mondiale apredominio eurasiatico, con precisegerarchie nazionali e razziali. Se nonfosse stato sconfitto dallo schiera-mento atlantico lo sarebbe stato dalprorompere delle forze economiche.Nessun fascismo avrebbe mai potu-to contenere lo sviluppo economicorilanciato dalle distruzioni belliche,né cambiare la traiettoria distruttivadelle dinamiche capitalistiche in virtùdi un’ideologia che pretende di gov-ernarle.

Il livello attualmente raggiunto dal-la crisi capitalistica, le dimensionidella produzione e la sua estensionealla scala mondiale, la pervasività delcapitale finanziario, la crescente in-stabilità e le tensioni disgregatrici sp-

ingono gli Stati, dal livello di mediapotenza in giù, ad aggregarsi attornoai principali centri imperialisti, ad af-fidarsi alla loro struttura economicae politico-militare. Il grado di sovran-ità va poco oltre l’assecondare gli in-teressi del capitale internazionale cre-ando l’ambiente più adatto per at-trarre flussi d’investimento in ognisettore della vita sociale potenzial-mente profittevole. Gli Stati nazion-ali – ad eccezione delle grandi poten-ze – sono tendenzialmente ridotti apoco più che agenzie di allocazionedi capitali mondiali liberi da ogni vin-colo nazionale, annidati in paradisifiscali inaccessibili ai comuni mor-tali dai quali dettano le condizioni diesistenza a governi, popolazioni, agliStati in quanto tali.

Le trasformazioni politiche inter-venute negli ultimi 30-40 anni sonostrettamente legate al percorso di lib-eralizzazione finanziaria: l’indeboli-mento dell’autonomia decisionaledella politica si accompagna a unmarcato interventismo a favore delsettore finanziario, al rafforzamentodella sua capacità di controllo sociale,repressione, imposizione fiscale percontinuare ad alimentare la renditache si nutre degli interessi sui titolidi Stato e della speculazione che fior-isce su di essi. La grande recessioneha rappresentato una svolta, un’ac-celerazione in questa direzione. Lerisposte capitalistiche alla crisi del’29 e a quella del 2008 hanno in co-mune un massiccio interventismostatale, ma diversi sono stati gli obi-ettivi. Nella Grande Depressione, l’in-tervento mirava alla ripresa della pro-duzione e dell’occupazione con mas-sicci investimenti pubblici, nel men-tre una nuova regolamentazione rista-biliva limiti stringenti all’operativitàbancaria. Allora la risposta capital-istica fu il tentativo di rilanciare ilmeccanismo di accumulazione imp-iegando capitali e forza lavoro per ri-dare vigore al sistema delle imprese.L’esperienza del New Deal comequella dell’Europa, sia democraticasia totalitaria, si propose l’obiettivodella coesione sociale nazionale, edovette pertanto concedere qualcosaal proprio proletariato in termini dioccupazione e stato sociale, i cui ap-parati le moderne democrazie hannoin gran parte mutuato dal fascismo.Sappiamo che il tentativo di rilanciodell’accumulazione non andò a buonfine finché non fu imboccata la stra-da del riarmo e della guerra.

Mentre nella crisi d’interguerra il sis-tema bancario-finanziario subì unduro ridimensionamento e passò inbuona parte sotto il controllo delloStato, l’interventismo seguito allacrisi 2008 ha convogliato abbondantedenaro pubblico nei sistemi bancari,prima salvandoli e nazionalizzando,poi facendovi affluire masse enormidi liquidità senza intaccarne l’au-tonomia e l’autoreferenzialità. L’es-perienza storica dei fallimenti ban-cari e dei crolli borsistici che aprironola strada alla Grande depressione hasenz’altro pesato sulla scelta dei sal-vataggi e delle temporanee nazion-alizzazioni; ma l’effetto è stato un’ul-teriore espansione della massa deldebito/credito globale e un ulteriorerafforzamento del potere del capitalefinanziario sulla società, la sua de-finitiva autonomizzazione. Il poteredella finanza si presenta oggi comeun immenso sistema di drenaggio di

La crescita del debito mondiale e la suavalenza nel corso storico del capitale (II)

Nella prima parte dell’articolo (pubblicata sul n.1/2018 de “Il programma comunista”), abbiamo collega-to la continua crescita del debito mondiale al processo di finanziarizzazione capitalistica, le cui radici af-fondano nella crisi del meccanismo di accumulazione che ha chiuso la grande fase espansiva del secondodopoguerra. La risposta alla crisi fu la progressiva liberalizzazione dei movimenti di capitale sui mercatimondiali, che ha finanziato lo sviluppo della produzione e degli scambi globali nell’arco di oltre un trenten-nio. Tale sviluppo è avvenuto all’insegna del credito e della speculazione, sfociata in ricorrenti crisi tantonei Paesi a capitalismo maturo quanto nei cosiddetti “emergenti”. Anima e motore di questa espansionesono stati i sistemi bancari dei centri imperialisti, che – attraverso la leva dell’indebitamento e con l’utiliz-zo di strumenti finanziari sempre più sofisticati – hanno aumentato enormemente il loro peso e la loro ca-pacità di controllo sull’economia, la politica e la società. L’espansione del credito è stata insieme fattore eprodotto dell’espansione della produzione mondiale: “con lo sviluppo della forza produttiva del lavoro equindi della produzione su vasta scala, 1) i mercati si espandono e si allontanano dal luogo di produzione,2) i crediti in conseguenza devono essere a più lunga scadenza e quindi 3) l’elemento della speculazionedeve impadronirsi sempre più delle transazioni […] Lo sviluppo del processo di produzione amplia il cred-ito, e il credito a sua volta porta all’ampliamento delle operazioni commerciali e industriali” (Marx)1. Ilprocesso è giunto a termine con la grande crisi finanziaria del 2008 che, se ha consacrato il ruolo domi-nante dei sistemi bancari e della finanza, ha concluso l’epoca dell’espansione forzata della produzione at-traverso il credito e aperto una fase in cui i capitali in cerca di valorizzazione si avvitano sempre più nei cir-cuiti della rendita finanziaria, non trovando nel plusvalore generato dal contatto col lavoro vivo una fontesufficiente ad alimentare la fame di profitto di questa massa crescente di denaro.In questa seconda parte, intendiamo sviluppare alcune considerazioni generali sulle ricadute di questa ten-denza autoreferenziale nei rapporti tra Stati, negli indirizzi politici dei governi, nelle modalità di valoriz-zazione del capitale, nelle sue ricadute sociali. I parziali risultati di questo lavoro vanno assunti, come sem-pre, in via provvisoria, come tappa del costante lavoro di indagine militante che cerca nel caotico procederedel Capitale i percorsi possibili della rottura rivoluzionaria. Se ne conclude che nel suo avanzare il Capi-tale, alle prese con la caduta del saggio del profitto, vera origine di tutte le magagne che lo affliggono, tendea regredire verso forme storiche precedenti, segno della raggiunta fase terminale del suo ciclo evolutivo.

1. Marx, Il capitale, Libro III, Cap. “Sud-divisione del profitto”, Editori Riuniti,1980, p. 566.2. Baranes, Per qualche dollaro in più,Datanews, 2011, p. 84 e seguenti. Continua a pagina 6

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IL PROGRAMMA COMUNISTA6 A. LxvI, n. 2, marzo-aprile 2018

ricchezza sociale da ogni settore del-la società: la produzione, i servizi, ilwelfare (sanità, scuola, pensioni), icosiddetti “beni comuni”... tutto sipresenta come potenziale fonte diprofitto e oggetto di privatizzazione.Contemporaneamente, tutto ciò cheè pubblico è sottoposto al ricatto deldebito che cresce, e deve essere svil-ito, ridimensionato, espropriato,smantellato.

Se si va oltre alle dichiarazioni pro-grammatiche delle politiche anticrisiche insistono sulla “crescita”, nellesue dinamiche reali il capitale nonsembra riporre grande fiducia nel ri-lancio del meccanismo di accumu-lazione attraverso la ripresa della pro-duzione. Nel dopo crisi si continuaad investire poco, e la ragione ulti-ma – lo ripetiamo fino alla nausea –va identificata nella caduta del sag-gio del profitto. Se non è più possi-bile far crescere i profitti attraversoulteriori incrementi di produttività,se il livello delle forze produttive so-ciali impedisce l’impiego di massesempre crescenti di manodopera equindi un’estensione della base del-la valorizzazione, se anche l’intensi-ficazione dello sfruttamento e ilrisparmio sui costi del capitale fissohanno raggiunto limiti difficilmentesuperabili, allora le opportunità giun-gono da altre vie. Ne indichiamo al-cune:

- l’espropriazione di ciò che resta inmano pubblica3 (privatizzazioni deiservizi, del welfare)

- l’espropriazione delle imprese e deibeni gravati dall’indebitamento

- la concentrazione dei servizi com-merciali data dalla sinergia logisti-ca-telecomunicazioni- internet aridurre i costi di distribuzione

- la forzatura della domanda attra-verso il credito al consumo

- la speculazione ai danni degli Sta-ti e delle imprese, anche se “sane”(attraverso i CDS, assicurazionicontro il default di un ente) (4)

- la predazione dei risparmi delle clas-si non capitaliste in seguito a falli-menti di soggetti finanziari

- l’imposizione di prezzi monopolis-tici in settori fondamentali come en-ergia, telecomunicazioni, Internet

- investimenti e azzardi finanziari intutte le loro molteplici forme, fa-voriti dalla velocità delletransazioni tramite i sistemi infor-matici...

Tutto questo certamente non escludeche temporanee riprese produttivepossano ridare un po’ di ossigeno intermini di plusvalore reale all’asfit-tico sistema, ma queste non avrannomai la forza di invertire il percorsooramai completato della finanziariz-zazione. In una certa misura, la poten-za acquisita dal sistema bancario-fi-

nanziario nel dominio sull’economiasi volge contro la produzione, datoche lo rende in grado di massimiz-zare la quota riservata all’interessesul totale del plusvalore estorto allaproduzione e di accrescere il suocarattere parassitario.

In tutto questo colossale sistema disfruttamento, espropriazione,ladrocinio e truffa non c’è niente diassolutamente nuovo, se non quell’el-emento di velocità e potenza data daInternet. Tuttavia nel loro insiemequeste opportunità costituiscono unasoluzione immediata alle difficoltàdi valorizzazione che permette al cap-itale di sopravvivere. Il capitalismorimane alla base un sistema di “pro-duzione di merci a mezzo di merci”,ma la crisi del meccanismo di accu-mulazione, il suo rallentamento, rel-ega la “produzione di merci a mez-zo di merci” a comprimaria nella for-mazione del profitto generale. Il cap-itale è spinto a valorizzarsi altrove, acercare spasmodicamente ognisoluzione possibile per sopperireall’esaurirsi dell’unica autentica fontedi profitto: lo sfruttamento del lavoroumano5.

L’espansione del debito è l’elemen-to che lega insieme la gran parte diquesto spettro di opportunità (deb-ito pubblico, utilizzo della leva a fi-ni speculativi e di acquisizioni, es-pansione della domanda tramite ilcredito al consumo... ). A essa cor-risponde l’impoverimento di settoricrescenti della società. Più si estendeil fronte degli strati sociali poveri oin via di impoverimento, più cresconole opportunità di lucrare sul loro in-debitamento. Lo stesso indebitamentoè fattore di pauperizzazione. Non po-tendo più espandere la platea deisalariati, il capitale espande quelladegli indebitati: non salari ma deb-iti, pegni sulla produzione e il reddi-to futuri. Con il progressivo esaurir-si delle possibilità di sfruttamento dellavoro salariato, il capitale si volgealla rapina. Oggi, dopo essersi nutri-to per oltre due secoli di sangue e su-dore operaio, può crescere comeespressione di valore (monetario),ma non in misura corrispondente aun valore nuovo equivalente effetti-vamente prodotto; si impadroniscedi tutto ciò che può essere tradotto invalore, ma non è in grado di produrnedi nuovo a sufficienza in rapporto allesue dimensioni.

All’inizio della sua evoluzione il cap-itale ha conosciuto una fase di accu-mulazione originaria; ora, alla finedel suo ciclo storico, sembra metterein atto una sorta di “accumulazioneterminale”. Predazione ed espropri-azione sono i tratti comuni alle duefasi; analogo il ruolo del debito pub-blico, essenziale nell’accumulazioneoriginaria6 quanto in quella termi-nale. Si tratta in realtà di un unicoprocesso che abbraccia tutto l’arcodi sviluppo storico del capitale, seg-nato dalla brutale espropriazione pri-ma dei produttori individuali, poidegli stessi capitalisti, che non potràche concludersi con l’espropriazionedel residuo pugno di usurpatori cheancora detiene il possesso della ric-chezza sociale. A differenza di quel-la originaria, che creava le premesseper lo sviluppo del modo di pro-duzione capitalistico e l’espansionedella produzione sociale, l’accumu-lazione attuale è fine a se stessa, haraggiunto il culmine del paras-sitismo7.

Questo estremo sviluppo del capitaleè regressivo. Marx rileva come nelmovimento del capitale il profittooriginato dal plusvalore subisca unaserie di trasformazioni che lo ren-dono irriconoscibile, fino ad as-sumere “la forma dell’esterioriz-zazione assoluta nel capitale pro-

duttivo d’interesse […] Nella misurain cui l’accelerazione di questoprocesso di trasformazione – comenel credito secondo la sua essenzagenerale – accelera la riproduzionee quindi la produzione di plusvalore,il denaro prestato è capitale. Invecenella misura in cui non serve che apagare debiti, senza accelerare ilprocesso di riproduzione, rendendo-lo forse impossibile o riducendolo[…] l’interesse, come il profitto up-on expropriation, è un fatto indipen-dente dalla produzione capitalistica– dalla produzione di plusvalore –come tale […] appartiene a modi diproduzione precedenti”8, rimanda aitempi in cui il capitale produttivod’interesse dominava in forma diusura sui produttori indipendenti.Quando assume questa forma, il prof-itto generato dal debito non è fruttodel plusvalore ma si fonda sulla pu-ra e semplice espropriazione.Il sis-tema del credito, nato per liberare ilcapitale produttivo dal giogo usuraio,si trasforma a sua volta in un sistemadi usura sopra e non di rado contro ilcapitale produttivo di plusvalore, giàstremato dalle difficoltà di valoriz-zazione.

In questo paradosso si manifesta l’ag-onia storica del capitale, preludio al-la sua morte virtuale. Nulla si può an-cora dire sulla durata dell’agonia,finché il risveglio del proletariato riv-oluzionario internazionale, l’unicaforza in grado di spezzare il collo albestione trionfante, non avrà annun-ciato l’imminenza della fine.

3. Su questo, L. Gallino, Il colpo di Sta-to di banche governi, cit. Anche Bara-nes, cit. p. 69-70.4. Baranes, cit. p.40-41.5. Baranes, cit., p 47-48: “la sovrap-produzione e l’aumento di offerta si scon-tra con la domanda che non cresce... lacostruzione di nuove fabbriche e gli in-vestimenti produttivi che implicano unulteriore incremento dell’offerta diven-tano sempre meno convenienti [...] Nel1950 le imprese finanziarie realizzava-no il 9,5% dei profitti totali delle im-prese. Nel 2005 il rapporto era schizza-to al 45% [...]”6. Marx, Il capitale, Libro I, Cap. “Lacosiddetta accumulazione originaria”,Editori Riuniti, 1980, p.817-819.7. “Vulcano della produzione, paludedel mercato”, Il programma comunista,n.13-19/1954.8. Marx, Storia delle teorie economiche,III, Einaudi, p. 506-507; sottolineaturanostra.

La crescita del debito...

Continua da pagina 5DUE INTERVENTI DEL PARTITO IN ITALIA

Sotto forma di comunicati e/o volantini, questi due testi sono stati diffusi in rete e distribuiti in occasionedi alcune manifestazioni in varie città italiane, nei mesi scorsi

combattere il razzismo. Ma come?

Di fronte ai molti, continui fatti recenti di razzismo aperto (le ripetute cariche di polizia ai picchetti di lavo-ratori della logistica in grande maggioranza immigrati, il tentato omicidio di sei immigrati da parte del na-zista di Macerata, gli schifosi rigurgiti di demagogia pre-elettorale) e? bene ribadire alcune cose. Il razzismo non si combatte con i “buoni sentimenti” o il “multiculturalismo”, ne? tanto meno con gli appel-li a Stato e istituzioni. Il razzismo e? uno degli strumenti con cui le classi dominanti di ogni Paese cercano didividere e quindi indebolire il fronte proletario: giovani/anziani, uomini/donne, “garantiti”/precari, occu-pati/disoccupati, e per l’appunto lavoratori “nazionali” e lavoratori immigrati. I flussi migratori sono unacostante nella storia del capitalismo mondiale: ad alimentarli sono il suo sviluppo ineguale, la miseria cheaffama vaste aree (frutto di colonialismo e imperialismo), le guerre incessanti che massacrano intere po-polazioni (e di cui lo Stato italiano e? diretto responsabile, a fianco degli altri Stati, sia con la vendita d’armisia con l’invio di truppe), gli effetti dell’attuale crisi sistemica da cui il capitale non riesce a uscire e che anzie? destinata ad aggravarsi e approfondirsi, avvelenando oggi, in ogni modo, la vita sociale e creando i pre-supposti tutt’altro che ipotetici di un futuro nuovo conflitto mondiale. Il razzismo dunque si puo? combattere solo comprendendo il suo stretto legame con queste dinamiche, ma-teriali e ideologiche, e dunque disponendosi a combattere il capitalismo, in tutte le sue manifestazioni, ma-teriali e ideologiche. Ma combatterlo non vuol dire solo operare contro il divide et impera. Vuol dire ancheabbandonare ogni “speranza illusoria” che Stato e istituzioni siano al di sopra delle parti, che rivolgendosi aessi e facendo pressione su di essi si possa in qualche modo “migliorare” la condizione di masse proletariee proletarizzate in fuga da ogni parte del mondo: Stato e istituzioni (sia quelle legali e ufficiali, sia quelle il-legali e mafiose) sono strumenti della dittatura della classe dominante e difenderanno sempre i suoi inte-ressi, immediati e storici. I partiti e i sindacati ufficiali, insieme ai mezzi di comunicazione, ne sono i dociliservi, con il ricorso (specie nelle settimane che precedono l’ennesima buffonata elettorale) agli strilli osce-ni sulla necessita? per lo Stato di mantenere in esercizio le “forze dell’ordine”, anche a fronte di possibili mi-nacce future sul terreno sociale. Quanto ai fascisti, nazisti e altri patriottici idioti che oggi inneggiano e sca-tenano la caccia al “nero”, essi sono solo crudeli e pericolosi strumenti della dittatura democratica borghe-se, oggi tollerati o tenuti sotto controllo da quelle stesse istituzioni che, in un domani di inasprimento dellelotte sociali, li lasceranno scatenare contro ogni proletario “rosso”. È necessario rendersi conto di tutto cio?. E, se davvero si vuole combattere il razzismo, tornare a combat-tere contro il sistema capitalistico che lo produce, lo alimenta e se ne serve. Altrimenti, lo si voglia o no, sie? soltanto dei miserabili complici.

10/2/2018

Il fascismo c’è già: si chiama democrazia

(comunicato a proposito dei fatti di Piacenza)

Quattro giorni dopo l’aggressione delle “forze dell’ordine” al corteo di lavoratori a Piacenza, il 10/2, ecco chefioccano gli arresti. Di fronte a questi fatti, non abbiamo che da ricordare quanto sempre sostenuto: fasci-smo e democrazia sono due forme del dominio borghese, e non sono in antitesi l’uno con l’altra.Negli ultimi anni, abbiamo assistito a un’intensificazione delle azioni repressive nei confronti di lavoratoriin lotta: cariche poliziesche ai picchetti, aggressioni da parte di squadracce di crumiri, agguati ai delegati, u-so sempre più esplicito della magistratura e sapiente utilizzo di formazioni fasciste e naziste in funzione an-ti-proletaria… Ma fascisti, nazisti e altri patriottici idioti sono solo crudeli e pericolosi strumenti della dit-tatura democratica borghese, oggi tollerati o tenuti sotto controllo da quelle stesse istituzioni che in un do-mani di inasprimento delle lotte sociali li lasceranno scatenare contro ogni proletario in lotta. Contro queste aggressioni, è necessario quindi prepararsi alla difesa di ogni singolo proletario, delle formedi lotta come i picchetti e delle sedi stesse di aggregazione dei proletari: perché se davvero si vuole com-battere il fascismo (come il razzismo), bisogna tornare a prepararsi a combattere il sistema capitalistico cheli produce, li alimenta e se ne serve. Altrimenti, lo si voglia o no, si è soltanto dei miserabili complici.

17/2/2018

Due importanti pubblicazioni di PartitoNei mesi scorsi, sono usciti il n. 4 di “The Internationalist” e il n.1 di “Kommunistisches Programm”. Si tratta di due importantipubblicazioni che andranno sostenute e diffuse. Eccone i contenuti:

The Internationalist n. 4

1917-2017: Long Live Red October ! Long Live the Proletarian Revolution of the Future!The World of Capital Increasingly AdriftThe Rot Is Growing in the United KingdomIn and Around TurkeyUS Proletarians“Once-Upon-A-Time” America. But Is It Really So?The “Black Panther” MovementNo to the Military Adventures of “Our” Bourgeoisie!Residues and Cankers of the So-Called “National Issues”Class WarLong Live the French Workers' Struggle!The Enemy Is At Home. But “Our Home” Is the WorldTerritorial Organisms for the Proletarian Struggle

Kommunistisches Programm n. 1Editorial Die “Krise” des deutschen Sozialstaates Die kommunistische Kritik des AntifaschismusDie Laufbahn des Weltkapitalismus – Einführung Die Laufbahn des Weltkapitalismus – Weiterführung Deutsche Bahn 2017 – Auf Streik von Anfang an verzichtet Verdi sabotiert den Arbeitskampf der Bodendienstarbeiter innen anden Berliner Flughäfen Italien: Neue Angriffe auf die Basisgewerkschaft S.I. Cobas unddie Kämpfe der Arbeiter Verfaulte Überreste der sogenannten “Nationalen Frage”Der G20-Gipfel – eine Riesenshow demokratischer1917-2017. Es lebe der rote Oktober! Es lebe die zukünftige pro-letarische Revolution!

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IL PROGRAMMA COMUNISTA 7A. LxvI, n. 2, marzo-aprile 2018

Poiché l’Africa ha una presenzasempre più importante nello sce-nario mondiale, sia dal punto divista degli appetiti e della pene-trazione imperialisti sia dal pun-to di vista delle guerre che questistessi imperialismi vi conduconoe, di conseguenza, delle tragichemigrazioni di popolazioni, rite-niamo utile ripercorrere il lavoroche il nostro partito ha condottoal riguardo, dal 1952 in avanti. Sitratta di un lavoro che ha inte-ressato il continente africano intutta la sua estensione, da Nord aSud e da Ovest a Est, dalla cosid-detta sponda sud del Mediterra-neo al Sudafrica, dai paesi delGolfo di Guinea fino al Madaga-scar, dal Corno d’Africa fin dentroal cuore dell’Africa, all’area sub-sahariana ed equatoriale. In que-sta grande mole di articoli pub-blicati sulla nostra stampa ab-biamo tracciato la storia del Con-tinente, soffermandoci sull’eco-nomia, sulla società e sulle lottedella giovane borghesia e dell’al-trettanto giovane proletariatod’Africa, fin dall’epoca della de-colonizzazione nel secondo do-poguerra. In particolare, la sto-ria del Nordafrica, comunque lasi voglia trattare, si intreccia conquella mediorientale, non fossealtro che per il fatto che i terri-tori dalla “mezzaluna fertile” fi-no al Marocco, hanno una storia,una lingua e una religione alme-no in parte comuni: la penisoladel Sinai e l’istmo di Suez fannoda cerniera naturale connetten-do strettamente l’Asia all’Africae al Mar Mediterraneo, che da co-sta a costa bagna la parte più im-portante delle due aree 1.

Riassumendo

All’alba del ’900, con lo sviluppo insenso imperialista del capitalismo,già previsto da Marx e quindi ana-lizzato da Lenin, finiva l’epoca delpuro e semplice saccheggio colo-niale dell’Africa che nei secoli pre-cedenti aveva accompagnato lo svi-luppo industriale dell’Europa e, dilì a poco, nelle due guerre mondiali,avrebbe portato al generale mas-sacro delle popolazioni civili e mi-litari proletarie. Con l’aiuto di ca-pitali stranieri, le giovani, emer-genti borghesie africane, nateall’ombra del dominio coloniale,cominciano a impiantare le primestrutture produttive e contempo-raneamente nascono le formazio-ni operaie più o meno stabili. Dal-la fine del secondo conflitto mon-diale, si apre, per l’Africa, l’epocadella decolonizzazione, ovvero del-la massiccia e rapida transizionedi quasi tutti i paesi africani versol’indipendenza, propiziata anchedalla complessità e contradditto-rietà dei processi di “ricostruzio-ne nazionale” in cui sono impe-gnate tutte le borghesie europee. Imovimenti nazionalistici africanicercano di “definire” una mappapolitica africana: emergono così iprimi contrasti, le prime frizioni,fra le giovani borghesie autoctonee la borghesia imperialista euro-

pea. Si tratta però di un processo a“bassa potenzialità rivoluzionaria”.Le giovani borghesie africane, com-poste soprattutto da ceti impiega-tizi e militari rinnovatisi sì, ma pursempre eredi del regime colonialeprecedente, prive come sono di unavera base produttiva industrialeche non sia quella estrattiva (diquelle materie prime che tanto fan-no gola all’imperialismo euro-ame-ricano), non hanno la forza e la vo-lontà di rompere del tutto con levecchie classi mercantili e usuraie“indigene”. A questa condizione dipartenza, s’aggiungono poi l’inca-pacità organizzativa e direttiva, icontinui ridisegni del territorio ef-fettuati dai vari imperialismi, l’as-senza o carenza di capitali (e dun-que l’impossibilità di emanciparsifino in fondo dalla “madrepatria”o da questo o quell’imperialismo),la miserabile realtà agraria, e so-prattutto – sul piano politico – lamancanza di un’autentica pro-spettiva rivoluzionaria. Le lotte, chetuttavia dilagano ovunque nellospazio africano, da Nord a Sud, ven-gono quindi frenate, contenute, re-presse: e le punte potenzialmentepiù avanzate sono eliminate, anchefisicamente, in accordo e compli-cità fra borghesie locali e imperia-lismi euro-americani. La borghesia autoctona, in tutte lesue varianti (comprese quelle se-dicentemente “socialiste”), non èdunque capace di vera azione ri-voluzionaria. Ci sono sì esempistraordinari, in cui essa cerca diattaccare sia le condizioni di ar-retratezza del passato sia il do-minio oppressivo del presente im-perialistico: in prima linea sonocomunque, in maniera tanto ge-nerosa quanto disperata, il giova-nissimo proletariato che si va for-mando intorno alle miniere e aiprimi gracili insediamenti indu-striali e i contadini poveri e affa-mati di terre.I movimenti “rivoluzionari” afri-cani si orientano così sul territorioin base alle divisioni già introdot-te dai primi colonizzatori e dai suc-cessivi avvoltoi. Quello che abbia-mo chiamato “il risveglio dei po-poli di colore” è il tormentato pro-cesso di messa in moto di masse eorganizzazioni più ampie, conl’obiettivo della liberazione nazio-nale contro la borghesia imperia-lista. E tuttavia la territorialitàscomposta, disegnata e ridisegna-ta a tavolino dal colonialismo edall’imperialismo e accettata dal-le borghesie africane e mediorien-tali, frena il corso degli eventi. Laguerra fredda prima e la successi-va distensione tra Russia e Usa de-cidono la spartizione del continenteafricano e mediorientale nei ruolie nelle alleanze: insomma, nel do-minio.Dalla seconda metà degli anni ’70del ’900, mentre si manifestano glieffetti della crisi economica siste-mica, si può dire chiusa l’epoca del-la decolonizzazione dell’Africa. Apartire da quel momento, in primalinea sarà sempre più la lotta diclasse del proletariato africano emedio-orientale contro le borghe-sie autoctone e le metropoli impe-rialiste alleate: una lotta economi-ca in difesa delle condizioni gene-rali di vita e di lavoro, che grida lamancanza e il bisogno di una pro-spettiva politica rivoluzionaria. Èinfatti dal 1979, con le dure lottedel proletariato iraniano scoppia-te ben prima della nascita della co-siddetta “Repubblica islamica”, che

si può datare lo svolto di tuttaun’epoca storica. Trent’anni dopo,con i diffusi disordini per il pane ele forti ed estese agitazioni nellefabbriche tessili, nelle miniere enelle aree petrolifere, presto de-viate e incanalate nei vicoli ciechidi un’impotente prospettiva de-mocratica e piccolo-borghese (lecosiddette “primavere arabe”, dal2007 al 2012 che coinvolgerannoEgitto, Libia, Tunisia, Algeria, Ye-men), si fanno strada i segnali diun cambiamento radicale in atto,economico e sociale: il confrontoaperto fra proletariato e borghe-sia, locale e internazionale. E nonè un caso che esso si sprigioni nelbel mezzo della seconda più gran-de crisi di sovrapproduzionedell’ultimo dopoguerra e che ven-ga infine contrastato dal genera-lizzato massacro che oggi si pro-trae nel tempo (Libia, Siria, Ye-men…). Come conseguenza della crisi de-gli anni ’70, infatti, l’epoca che vi-viamo dall’inizio degli anni ’80 haaperto le porte a nuovi interventimilitari imperialisti: con la guerraIran-Iraq e la prima guerra delGolfo, quindi con le guerre nei Bal-cani e la seconda guerra del Golfodel 2003, il massacro delle popo-lazioni e le devastazioni territorialiprendono il sopravvento in Me-dioriente, dalla Siria allo Yemen. Aquel punto, il pendolo della migra-zione inverte moto e direzione: in-calzate da miseria, corruzione, re-pressioni e incessanti massacri aopera di fazioni locali e bande di“legionari” legate a questo oquell’imperialismo, masse enormi

si vanno spostando dal Sud eco-nomico verso il Nord e l’Est delmondo, lasciando sul fondo del MarMediterraneo un’immensa eca-tombe di morti. In Occidente, ci siriempie la bocca con parole come“globalizzazione”, “automazionetecnologica”, “svolte di civiltà”… Sitratta al contrario della crescitaiperbolica della disuguaglianzamondiale, ovvero di quella miseriacrescente (soprattutto proletaria)che Marx indica come prodotto ge-nuino del capitalismo imperialista.Un nuovo ciclo di accumulazionesi è messo in moto anche in Africa:un nuovo sviluppo (industriale,agrario, minerario, petrolifero) sirovescia in alcune aree del Conti-nente africano impoverendone al-tre; la miseria generale cresce e siaddensa in aree già massicciamentepopolate e sviluppate capitalisti-camente; un vasto flusso di non vi-vi percorre il continente africano,attraversa foreste e zone deserti-che, migra indifferentemente ver-so i più diversi paesi – un autenti-co tsunami umano che fugge dacondizioni disumane.

Il ritardo storico: condizioninaturali e colonizzazione

Facciamo ora un passo indietro.Una mappa territoriale etnico-lin-guistica-economica dell’Africa per-mette di mostrare la rete di rela-zioni tra i gruppi umani – una re-te di legami sociali e quindi di ci-viltà. Il Nordafrica è il luogo di in-tersezione delle civiltà greca, ro-mana e araba, il cui lascito ha fat-to da lievito allo sviluppo preca-

pitalistico e poi capitalistico. I grup-pi etnici che si affacciano sull’Atlan-tico, al Nord e al Sud del Golfo diGuinea, hanno avuto maggiori con-tatti con gli europei impegnati acosteggiare l’Africa o attraversarel’Atlantico verso le Americhe. Learee che dal Golfo Persico e dall’ist-mo di Suez si protendono versol’Oceano Indiano da molto tempoavevano già aperto e seguito viemercantili: ben prima della colo-nizzazione, la civiltà del Cornod’Africa aveva conosciuto un’eco-nomia fiorente. L’Africa subsaha-riana, tra cui il Congo, ha avuto asua volta un ruolo centrale nell’in-terscambio tra civiltà nilotiche, delCorno d’Africa e dei Grandi Laghi.Altre economie e altri gruppi uma-ni a Sud ebbero un ruolo specificodi collegamento tra area subsaha-riana di lingua nera-sudanese (l’at-tuale Africa equatoriale e occi-dentale “francese”) a Nord e l’areadi lingua nera-bantù a Sud. Furo-no i mercanti olandesi i primi acreare un insediamento in Suda-frica tra le popolazioni autoctonee Città del Capo fu fondata comestazione di rifornimento per le im-barcazioni della Compagnia olan-dese delle Indie orientali.L’articolo che riproponiamo di se-guito in ampi stralci, uscito su Ilprogramma comunista nel 1958,mette in evidenza le precondizioninaturali che furono causa del ri-tardo storico africano in relazioneallo sviluppo economico e politicoeuropeo e asiatico. Leggiamo dun-que: “L’Africa, non meno degli al-tri continenti, ha partecipato at-traverso i secoli all’evoluzione so-ciale della specie umana. Se lo Sta-to è un necessario ponte di pas-saggio dalla barbarie alla civiltà, bi-sogna dire che gli africani cono-scevano l’arte di governarsi, cioèerano civili prima ancor che ne-grieri e missionari scendessero acristianizzare la boscaglia tropica-

Il tormentato percorsodel proletariato africano

Continua a pagina 8

STATI

DATA D’INDIPENDENZA

Membri fondatori dell’Onu nel 1945

Tra il 1949 e il 1959

Tra il 1960 e il 1961

Tra il 1962 e il 1970

Dopo il 1970

Data dell’indipendenza

Territorio conteso

1975

Tunisia1956

Libia1951

EgittoFormale

Sostanziale1922

EgittoFormale

Sostanziale1952

1922

Sudan1957

Gibuti

Somalia1960

Somalia

1977

1960

Etiopia

Eritrea1993

Tanzania1961

Kenia1963

Uganda1962

Malawi1964

Comore1975

Seychelles1976

1958Madagascar

1968Mauritius

Zambia1964

Botswana1966

Zimbabwe1980

Mozambic

o

1975

Sudafrica

Swaziland1968

Lesotho1968

Namibia1990

Angola1975

Congo-Kinshasa1960

Ruanda1962

Burundi1962

CongoBrazzaville1960

Cabinda

Gabon1960

São Tomé e Principe 1975

Guinea Equatoriale1968

Camerun1960

Centrafrica1960

Ciad1960

Niger1960

Nigeria1960

BeninTogo

1960 1960

Ghana1957

Costad’Avorio

1960Liberia

SierraLeone

1961

GuineaGuineaBissau 1958

1974

Gambia

Senegal

1965 Mali1960

Algeria1962

Marocco1956

*SaharaSpagnolo

Isole del Capo Verde1975

BurkinaFaso

1960

Mauritania1960

1960

*La tutela spagnola sul Sahara Occidentale ha avuto fine nel 19761. Per approfondimenti, rimandiamoall’ampia bibliografia riportata in que-ste pagine.

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le. Fiorenti imperi, organizzati se-condo lo schema delle gerarchiefeudali, sorsero nel Sudan occi-dentale, sulle coste del Golfo di Gui-nea, nell’Africa congolese, nellaRhodesia […]. Queste giurisdizio-ni statali tenevano sotto la loro giu-risdizione vastissimi territori e po-poli diversi e intrattenevano rela-zioni commerciali e diplomatichecon tutta l’Africa Araba e il Medi-terraneo: testimonianza dell’altolivello raggiunto dalla ‘tecnica pro-duttiva’ africana. I popoli di razzanegra percorsero, prima di esseregettati nelle galere del coloniali-smo, tutte le tappe della civiltà an-teriori a quella introdotta dal ca-pitalismo: la coltivazione della ter-ra, l’allevamento del bestiame, l’in-dustria, il commercio [...]. Ovvia-mente la civiltà è un processo chesi svolge in stretta dipendenza conl’allargamento indefinito delle sfe-re delle relazioni sociali fra gli uo-mini. La civiltà si evolve a secondache esistano o no condizioni di fit-ti e frequenti rapporti tra le nazio-ni e le collettività. E quale forma dicomunicazione è più redditizia chela navigazione marittima? [...]. Eb-bene in Europa e in Asia esisteva-no le condizioni naturali per il pro-gresso della navigazione e la con-seguente intensificazione del traf-fico intercontinentale. Ineluttabil-mente dietro le merci si diffonde-vano le tecniche produttive, cioè leculture. Orbene, le condizioni delmondo fisico hanno permesso chel’Europa e l’Asia fossero i grandicollettori delle correnti vivificatri-ci dell’attività di numerosi agglo-merati sociali. Per gli altri conti-nenti, l’Africa e soprattutto le Ame-riche, al contrario, assediate tra due

Oceani invalicabili allora, tali con-dizioni mancarono in gran parte.Ecco perché la civiltà euro-asiati-ca ha marciato più in fretta. Le raz-ze hanno progredito socialmenteraggiungendo livelli diversi, nonperché soggette a leggi biologichedifferenziate, ma perché in un di-verso rapporto con le condizionidella natura fisica” 2.

La colonizzazione africana come “processo di dissocia-zione”

A queste precondizioni naturalivanno poi aggiunte quelle legateallo sviluppo economico, legato afilo doppio alla realtà della colo-nizzazione su suolo africano, che,dal punto di vista storico, non è sta-ta una spinta verso il capitalismo,ma un processo destinato a ritar-darne ulteriormente lo sviluppo.In un altro articolo, del 1961, scri-vevamo infatti: “Marx parla dellapretesa accumulazione del capita-le, perché si tratta di un processodi dissociazione e non di accumu-lazione progressiva dei mezzi diproduzione nelle mani dei borghesi[…] In Europa, essa significa insie-me dissoluzione delle forme feu-dali e formazione del rapporto fracapitale e lavoro salariato, mentrenei paesi di colore è essenzialmenteprocesso di dissoluzione delle for-mazioni sociali ed economiche pre-cedenti, senza che ne segua un se-condo momento, quello dell’avvioverso un modo di produzione su-

periore; le ricchezze che ivi sonostate separate dai loro precedentiproduttori sono avviate verso lemetropoli per esservi accumulatein masse mostruose. […] L’impe-rialismo si sforza di mantenere lecolonie al primo stadio dell’accu-mulazione, quello della dissolu-zione dei rapporti locali e del loroaccaparramento da parte del capi-tale (trust, compagnie straniere).[…] Nelle colonie come nelle me-tropoli bisogna, prima che abbiainizio il processo dell’accumula-zione primitiva, che esistano giàdenaro e merci, vale a dire la cir-colazione commerciale e moneta-ria, il mercato. In Europa, il pro-cesso di accumulazione classica si-gnificò il passaggio della circola-zione alla produzione capitalista, latrasformazione del denaro in ca-pitale. Nelle colonie, questo pro-cesso si limita alla circolazione del-le merci […]: il denaro e le mercinon vi si trasformano in capitaleattraverso il lavoro salariato pro-duttivo” 3.La formazione degli attuali “Statinazionali” in Africa ha avuto dun-que un processo travagliato. Pren-dendo come base di partenza lasituazione nel 1914 (e lasciandofuori il periodo che mette l’Africaoccidentale al centro della trattadegli schiavi neri diretti verso leAmeriche, tra il XVI e il XIX seco-lo), troviamo l’Africa dall’estremoNord al Sud divisa tra i paesi co-lonizzatori. L’intrusione e l’espan-sione europea in Africa avvengo-no per tappe e trovano al centrodella dominazione Gran Bretagna,Francia, Germania, Portogallo,Spagna, Belgio e Italia. Immensearee sono occupate e divise con ilsolo criterio di disporre delle ri-sorse minerarie e agrarie da sac-cheggiare. Alla vigilia della Primaguerra mondiale, si ha già un’Afri-

ca britannica (Egitto, Sudan, Ni-geria, Kenya), un’Africa francese(occidentale ed equatoriale),un’Africa belga (Congo) e tedesca(Camerun, Tanzania e Namibia),ma anche un’Africa portoghese-spagnola (Angola) e italiana (Li-bia, Somalia, Eritrea). La divisio-ne in entità statali separate spez-zerà inesorabilmente al loro in-terno le nazionalità, le diverse po-polazioni, i gruppi etnici e le or-ganizzazioni tribali, sovente crean-do artificiali contrapposizioni efrizioni. Il concetto di colonizza-zione come “civilizzazione” giu-stificherà la violenza economica,sociale, culturale, politica sulle po-polazioni: un “annuncio di pro-gresso”!... Con una grande opera-zione di marketing, la borghesiaeuropea mobilita sociologi, filo-sofi, politici, religiosi, scienziati,per giustificare la propria pre-senza illuminata: garantirà in fu-turo – dice – grandi conquiste so-ciali, politiche ed economiche... Nelfrattempo, diffonde le idee di su-periorità razziale, di civiltà supe-riore: ovvero, il suo darwinismosociale.Si tratta di un lungo periodo di co-lonizzazione borghese, economicae sociale, espressione moderna del-la carta dei Diritti dell’Uomo e delCittadino, che dall’impresa napo-leonica in Egitto e attraverso il suoCodice Civile, si imporrà fino al pri-mo conflitto mondiale e di lì fino alsecondo. A questo svolto, la giova-ne borghesia africana è chiamataa combattere con la forza i legamicoloniali. La nascita dei nuovi Sta-ti richiederà la discesa in campo diuna grande forza organizzata, areaper area e zona per zona, di forzecombattenti di straordinarie di-mensioni. Le idee astratte di Li-bertà, trascinate anche dal Pana-rabismo e dal Panafricanismo, sa-

ranno le ideologie, le aspirazioniideali universalistiche, di questaborghesia: ma non avranno mai laforza di trascinamento che gli “eroinazionali” prefigurarono e imma-ginarono; anzi: via via intralceran-no il corso dello sviluppo del capi-talismo e quindi l’organizzazionein classe del proletariato – troppogrande lo squilibrio politico-mili-tare tra gli agenti borghesi in cam-po, autoctoni e imperialisti. Saran-no le forze produttive e i rapportidi produzione che andavano sor-gendo e instaurandosi ad aprire,lentamente ma inesorabilmente, lastrada verso lo sviluppo capitali-stico: per poi però rinchiuderlo inrecinti miserabilmente nazionali.Le grandi metropoli imperialistehanno tentato in tutti i modi di bloc-care, frenare, deviare le forze pro-duttive e sociali, tanto sul pianomateriale e quanto su quello so-vrastrutturale, tenendole nel lim-bo di un’accumulazione primitivadestinata a uscire solo molto len-tamente dal bozzolo mercantile eda uno sviluppo economico che al-la fine non sarà affatto una “con-quista dello spirito umano”, ma unprocesso determinato dalla lottatra la classe borghese ascendenteafricana e quella imperialista. I fondamenti politici erano questi:quali classi potevano assicurare la“liberazione nazionale” nella lottacontro le metropoli imperialiste?il proletariato africano nascente ela grande massa di contadini po-veri avrebbero potuto presentarsisulla scena storica come combat-tenti d’avanguardia e, nello stessotempo, la giovane borghesia afri-cana sarebbe stata capace di diri-gere in modo rivoluzionarioquell’alleanza composita delle clas-si in campo, interessata alla rivo-

Il tormentato percorso...

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Articolisull’AfricauscitisuIl programma comunista frail1952eil1976

1952.• Egitto: Le riforme del Neguib (n. 2)• La marcia sanguinosa del capitale in Africa (n. 3)• Kenya: I negri assaggiano la libertà (n. 5)• Neguib inedito (n. 6)

1953.• Moti coloniali e rivoluzione proletaria (n. 2)• Sud Africa: i servi negri (n. 2)• Pressione razziale del contadiname, pressione classistadei popoli colorati (n.14)• IV Repubblica e Marocco (n.15)• Imperialismo e lotte coloniali (n. 23)

1954.• Congo: Paradisi coloniali (n. 3)

1955.• La conferenza afroasiatica di Bandung (nn. 3, 4, 10)• La cosiddetta fine del colonialismo (n. 15)• Da Nantes a Bidonville (n. 15)• Il Marocco un esempio di... aiuto alle aree depresse (n. 16)• Voli di corvi in vista sui cadaveri dei proletari marocchini(n 22)

1956.• Dietro l’indipendenza del Sudan (n.1)• Le prime vittime della borghesia indipendente del Sudan (n. 5)• Rapporti fra classi e fra razze nel Sud-Africa (nn. 13, 14)• Suez, vertenza fra ladroni (n. 18)• Egitto: Una società di pirati (n. 19)• La sovrana Internazionale Altocapitalista mette i Nagy e i Nasser sotto il tallone di ferro (n. 23)• Egitto: Suez, problemi di rendita (n. 25)• L’anticolonialismo e noi (nn. 25, 26)

1957.• Usa e Urss: padroni-soci in Europa; avversariimperialistici in Asia e Africa (n. 1)• L’imperialismo delle portaerei (n. 2)• Bolle la pentola (n. 5)• Si snoda il tragico rosario dell’imperialismo (n. 6)• Anticolonialisti in cerca di colonie (n. 6)• Colonialismo storico e colonialismo termonucleare (nn. 6, 7)

• L’imperialismo straccione dell’Eni (n. 8)• La chimera dell’unificazione araba attraverso le intese tra Stati (n. 10)• Fisionomie sociali delle rivoluzioni anticolonialiste (nn. 11, 12)• La questione coloniale: un primo bilancio (nn. 14, 15, 16)• Allah sta di casa a Washington (n. 15)• Algeria: I nodi di Marianna al pettine (n. 19)

1958.• Quattro punti sulla questione coloniale (nn . 2, 3)• Le lotte di classe e di Stato nel mondo dei popoli non bianchi… (nn. 3, 4, 5, 6)• Algeria: borghesia francese supermacellaia (n. 4) • Teoria e pratica nella questione coloniale (n. 5)• Le cause storiche del separatismo arabo (n°6)• Mondo coloniale in fermento (n. 10)• La menzogna algerina (n. 11)• Fasti della colonizzazione francese in Algeria (n. 12)• Aspetti della rivoluzione africana (nn. 12, 13)• L’imperialismo gangster del dollaro aggredisce larivoluzione araba (n. 14) • Le grandi epoche della storia africana (nn. 14, 15, 16)• Medioriente e Algeria: L’ipocrita piratesco regno della coesistenza pacifica (n. 16)• L’opportunismo lega le mani al proletariato francese (n. 17)• Riunione generale (Parma 20-11 settembre): La questione algerina (n. 18)• Evoluzione politica dell’Africa nera (n. 18)• La questione algerina (n. 18) • Thorez ha gettato la maschera (n. 19)• Un paese negro all’avanguardia: Il Togo (n. 19) • Introduzione alla storia recente del Camerun (n. 20)• Lo stalinismo ha sempre tradito l’Algeria (n. 21)• La lotta d’indipendenza del Camerun (n. 21)• Stalinismo e Algeria (n. 22)• Lo stalinismo di fronte all’Algeria (n. 23)• Nazionalismo e federalismo nel movimento afroasiatico (n. 23)

1959.• Onore ai negri di Leopoldville (n.1)• Nazionalismo e federalismo nel movimento afro-asiatico (n. 1)• L’amaro risveglio della borghesia belga (n. 2)

• Africa, gigante in marcia (n. 2)• Africa nera, gigante in marcia (n. 3)• Leopoldville-Borinage e ritorno (n. 4)• Un nuovo organismo statale africano è sorto: la Federazione del Mali (n. 4)• Nyassa e dintorni (n. 5)• Posizioni di ieri e di oggi (n. 5)• Luci ed ombre sul Borinage (n. 6)• Mondo coloniale (n. 7)• Rapporto della riunione interconfederale sull’Africa (La Spezia, fine aprile) (n. 10)• Alcuni punti sulla questione coloniale (nn. 10, 11)• In Africa fa caldo (n. 12)• Le spine del Congo nella corona belga (nn. 16, 17, 18)• Congo sotto chiave (n. 20)• Zagaglie congolesi contro schede belghe (n. 21)• L’Algeria (Riunione di Milano, 17-18 ottobre) (nn. 20,21, 22)

1960.• L’ora del Camerun (n. 1)• Algeria: la democrazia salvata dal fascismo (n. 3)• Anticolonialisti a rovescia (n. 6)• Sangue nero (n. 6)• I proletari neri all’avanguardia (n. 7)• Medaglia belga alla pace sociale (n. 13)• Avvoltoi sul Congo (n. 14)• Ore decisive per l’Africa (n. 16)• Gentilezza dei bianchi nel trattamento dei Bantù (n. 16)• Le lotte dei popoli coloniali e gli sviluppi della questionealgerina (nnn. 18, 19)• Congo: dal rapporto Commissione 1904 sulle atrocitàdel Congo (Riunione di Casale, 9-10 luglio) (n. 22)• Algeria-Sangue e referendum (n. 24)

1961.• L’incandescente risveglio delle “genti di colore” nellavisione marxista (Riunione di Bologna, 12-13 nov.) (nn. 1, 2, 3)• Angola: Evviva la “zagaglia” barbara (n. 6)• La base economica del conflitto algerino (nn. 7, 8)• Africa amara (n. 8)• La terribile responsabilità dello stalinismo di fronte aimoti coloniali (nn. 9, 10)• La pace “negoziata” per l’Algeria è la peggiore (n. 10)• L’ora dei colorati (n. 11)• Il proletariato africano si desta (n. 14)

Continua a lato

2. “Aspetti della rivoluzione africana”,Il programma comunista, nn. 12,13/1958.3. “Incandescente risveglio delle ‘gen-ti di colore’ nella visione marxista. Rap-porti collegati alla riunione di Bolognadel 12-13/11/1960”, Il programma co-munista, nn. 1-2/1961.

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luzione anticolonialista e antim-perialista? La risposta non potevaessere che una sola, densa di dram-matiche implicazioni: poteva farlosolamente il proletariato rivoluzio-nario diretto dal suo partito. Parlare di “nazioni africane” primadella decolonizzazione è un nonsenso, così come lo è parlare di“classi sociali moderne” in sensostretto. Le prime e le seconde na-scono insieme. Le forme mercan-tili e monetarie, che caratterizza-rono l’epoca pre-capitalistica sonointrodotte a forza dall’esterno e irapporti di produzione con le loroantiche forme proprietarie deter-minano un freno allo sviluppo ca-pitalistico. Si trattava di trasfor-mare strutture familiari e tribali,civiltà antiche e antichissime, Sta-ti senza nazione e organizzazioniregolate da nessun diritto norma-tivo che non fosse quello consue-tudinario, ma anche forme irrigi-dite e consolidate di proprietà, ma-gari istituite con la forza dai colo-nizzatori. La transizione da un’agri-coltura minuta a un’agricoltura fon-data sullo sviluppo industriale e suldenaro attraverso le riforme agra-rie (forme collettive e proprieta-rie) era enormemente difficile daavviare. Le nazioni europee, comesappiamo, si sono formate all’usci-ta dal feudalesimo, e hanno impie-gato almeno quattro o cinque se-coli per decantarsi, attraversandol’epoca di transizione mercantili-stica e quella del trapianto del si-stema usuraio e percorrendo la fa-se dell’accumulazione primitiva edella sottomissione formale del la-voro al capitale. Non meravigliadunque, in Africa, l’uscita lenta efaticosa dalle forme più primitivedi comunità, più o meno feudali earretrate, più o meno mercantili,

verso la struttura capitalista e laforma nazionale moderna. La lunga mano, attiva e feroce,dell’imperialismo moderno ebbepoi un ruolo negativo nella for-mazione delle “nazioni africane”:non mancarono gli urti tra le bor-ghesie nascenti e le vecchie clas-si dominanti, gli scontri tra le di-verse “forme costituzionali” (fe-derali e centraliste), i massacri trale diverse popolazioni, gli appeti-ti contrapposti delle grandi po-tenze, le guerre a carattere mo-derno e le lotte ormai mature traborghesia e proletariato. La rapi-dità con cui si è avviata la decolo-nizzazione, con i suoi “eroi nazio-nali” 4, ha richiesto alle giovaniborghesie africane una grande de-terminazione, segnata tuttavia an-che dalla gracilità di fondo che ab-biamo indicato all’inizio e, so-prattutto, dalla paura di una rapi-da caduta dei diversi paesi in unostato generalizzato di moderna mi-seria: la divisione in classi socialimoderne non avrebbe generatoun processo di sviluppo armoni-co perché, con la sottomissione elo sfruttamento del proletariato edelle masse contadine senza ter-ra, la divaricazione tra ricchezzae miseria sarebbe cresciuta rapi-damente, e con essa sarebbe au-mentato il terrore per la crescitadel proletariato, nemico storico del-la borghesia.

Moti anticoloniali: strategia proletaria e indifferentismo

Scrivevamo in un altro articolo, del1953: “I marxisti degni di questonome si rifiutano di accettare chei paesi coloniali ed arretrati deb-bano passare, per arrivare al so-cialismo, attraverso le infamie del-la rivoluzione borghese. Aperta-mente sostengono la possibilità ela necessità del ‘salto’ dal pre-ca-pitalismo al socialismo nei paesicoloniali d’Africa, Asia, Oceania, co-me nei paesi semicoloniali e arre-trati dell’America del Sud. Identi-ca strategia si proponevano Marxed Engels per la Germania del 1848,Lenin e i bolscevichi per la Russia1917. Condizione indispensabiledel salto, ieri per la Germania e Rus-sia, oggi per i paesi coloniali e ar-retrati, è la dittatura del proleta-riato trionfante nei grandi paesi disuper-industrializzato capitalismo:ieri l’Inghilterra, oggi la zona geo-grafico-sociale che abbraccia tuttal’Europa, compresa la Russia, e ilNord-America. Solo alla condizio-ne di tenere in pugno il potenzialeindustriale immenso di tale spazio,la rivoluzione proletaria potrà faravanzare l’economia dei rapportisociali dei paesi coloniali ed arre-trati ’saltando’ la fase capitalistica”. E così proseguivamo: “Da tale gi-gantesco piano strategico discen-de coerentemente il criterio da se-guire nell’atteggiamento politicodi fronte ai moti nazionalisti nellecolonie. Se il movimento rivolu-zionario internazionale è lanciatonella suprema lotta contro i centrimondiali dell’imperialismo per laconquista del potere in Europa ein America, e la guerra di classecontro le metropoli capitalisticheè in atto, come lo era nel 1917-’20,si comprende che le lotte nelle re-trovie imperialistiche, vale a dire

le insurrezioni nazional-popolarinelle colonie, si inseriscono nellastrategia rivoluzionaria del parti-to mondiale del proletariato inquanto contribuiscono a disgrega-re le difese dell’imperialismo, adallargare le guerre delle classi. Larivoluzione proletaria trionfantelavorerà, una volta atterrata la for-tezza capitalista, a liquidare senzascosse i residui nazionalismi pic-colo-borghesi. E come? La rispostaper un marxista non può essere cheuna: mediante l’inquadramento deipaesi coloniali, alfine liberi da se-colari oppressioni, nel ‘piano di eco-nomia proletaria mondiale’”. E, attenzione!, precisavamo: “Unacosa è rifiutarsi di affittare il par-tito proletario a rivolgimenti bor-ghesi, altra è negare l’influenzaobiettiva che l’eventuale successodella scissione statale dei paesi co-loniali plurinazionali esercita sulprocesso di maturazione delle pre-messe del crollo finale del capita-lismo. La fusione dei popoli, senzadi che il socialismo è inconcepibi-le, non si otterrà con mere misurecostituzionali (federazione, confe-derazione, ecc.), ma mediante l’as-sorbimento e la spersonalizzazio-ne delle economie nazionali nel pia-no economico mondiale. A ciò siopporranno i pregiudizi nazionalipiccolo-borghesi, che traggono ali-mento dall’ambiente sociale de-terminato dalla produzione agri-cola minuta, dall’arretratezza del-la dispersione del proletariato. Diconseguenza, se i paesi coloniali edarretrati riescono, approfittandodelle contraddizioni imperialisti-che, a scindersi dagli inquadra-menti statali metropolitani, rivol-gimenti siffatti, in quanto miranoa concentrare alla maniera capita-listica i mezzi di produzione, a crea-re un’industria nazionale che li-quidi i residui feudali e patriarca-

li, debbono necessariamente con-centrare in masse considerevoli ilproletariato indigeno, creando nuo-ve reclute per la futura rivoluzio-ne. D’altra parte, l’esperienza delgoverno nazionale indipendentevarrà a guarire le masse sfruttatedall’infatuazione nazionalistica in-culcata dalla nascente borghesiaindigena, che presto o tardi dovràmostrare il suo volto di sfruttatri-ce e apparire non meno oppressi-va dei dominatori bianchi. […] Ven-ga pure la rivoluzione nazionale inTunisia, Algeria, Marocco, Indoci-na, Malesia, venga pure l’accelera-mento dei tempi dello sviluppo in-tegrale del capitalismo in Cina, In-dia, Bolivia, Brasile, ecc., se non èpossibile operare oggi il ‘salto’ ri-voluzionario (di quei paesi) del ca-pitalismo. Significa che plaudiamoa Mao-tse-tung o al Pandith Nehruo a Paz Estensoro? Che i fessi lo di-cano significa che nulla hanno ca-pito della dialettica marxista di cuisi atteggiano comicamente a de-positari. Forse che Marx, quandonel famoso passo della talpa si fe-licitava della progressiva centra-lizzazione della macchina stataledella borghesia, in cui vedeva lapremessa dell’assalto frontale ri-voluzionario del proletariato, pro-fessava con ciò un’ammirazione eun appoggio politico al totalitari-smo borghese in evoluzione? Ehno! La scissione di Stati nazionalidalle vecchie compagini imperialia supremazia bianca, l’instaura-zione di un potere esecutivo indi-geno fondato sulla borghesia, chia-rificano i rapporti tra le classi, di-sdicono crudamente l’alleanza in-surrezionale delle classi contro l’op-pressore bianco, oppongono lo Sta-to nazionale al Proletariato. Ognimisura atta a rafforzare il potere

• La questione coloniale (Riunione interfederale diMilano, 15-16 luglio) (n. 14) • Lacrime e sangue nell’Angola (n. 16) • Africa nera (n. 17)• Ancora sull’Angola (n. 17)• Conferme congolesi (n. 18) • Il mito della solidarietà araba (n°. 8)• Richiami alla questione dei popoli coloniali esemicoloniali (Riunione di Milano, 15-16 luglio) (n. 19)• Tesi sulle questioni nazionali e coloniali votate al II Congresso dell’Internazionale Comunista (1920)(nn. 20, 21)• Fiumi di retorica bianca e tricolore sul Congo in lotta (n. 22)

1962.• Allori africani (n. 2)• “Pace” in Algeria? (n. 9)• Realtà e limiti della rivoluzione algerina (nn. 15, 16, 17)

1963.• La nuova ora dell’Africa (n. 17)• Il “trotskismo” a rimorchio della nuove borghesienazionali (n. 21)• “Vie al socialismo” e “ socialismo africano” (n. 22)

1964.• Ancora sull’atteggiamento del proletariato rivoluzionariodi fronte ai moti coloniali (n. 7)• Zanzibar: punti nodali (n. 7)• Tunisia: Burghiba, le basi militari dell’imperialismo e la loro eliminazione (n. 11)• Il filisteismo borghese si avventa sul Congo (n. 23)

1965.• Un’unica via d’uscita per il Congo come per tutti i paesiarretrati (n. 1)• Lotta di classe in Algeria (n. 2)• Le balle di Ben Bella (n. 7)• La riprova algerina dell’inesistenza delle “viepacifiche”(n. 13) • Impotenza delle borghesie coloniali (I) (n. 19) • Impotenza cronica delle borghesie ex coloniali (II) (n. 20)• L’Algeria dopo l’indipendenza (I) (n. 21)

1966.• L’Algeria dopo l’indipendenza (II) (n. 2)• Il letto di Procuste delle rivoluzioni coloniali (n. 5)

1967.• La questione rhodesiana un vicolo cieco (n. 4)• La borghesia algerina fa i conti in tasca alla propria“indipendenza nazionale”(n.17) • Passato e presente del mito del “socialismo egiziano”(nn. 20, 21)

1968.• La tragedia del Biafra (n. 14)• Congo: Si perpetua “indipendente” lo sfruttamentocoloniale (n. 16)

1969.• Ciad e Zambia: Fatti e figure del regime borghese (n. 15)• Libia: Commenti (n. 16)

1970.• Algeria socialista (n. 9)

1971.• Il federalismo arabo è una chimera (n. 14)• Qualche lezione dagli avvenimenti del Sudan (n. 19)• Mozambico: La questione coloniale (n. 22)

1972.• Tanzania: la Cina è soddisfatta ma gli operai scioperano(n. 2)• La grande menzogna della decolonizzazione africana(nn. 3, 4)• Decolonizzazione dell’Africa francese e interessi del proletariato (n. 6)• Tesi sulla questione nazionale e coloniale al I Congressodei popoli d’Oriente (Baku 1920) (nn. 12, 13)• Discorso di Zinoviev al I Congresso dei popoli d’Oriente(n. 14)• Oriente (da “Prometeo”, febbraio 1951, n°2 serie II) (n. 15)• Tesi sulla questione nazionale e coloniale al II Congressodell’Internazionale Comunista (1920) (n. 16) • La nostra Riunione Generale del 16-17 settembre:Questione nazionale e coloniale (n. 19)• Sul problema dell’autodecisione dei popoli nei classicidel marxismo (nn. 22, 23)

1973.• La questione nazionale e coloniale (n. 4)• Ciad. Africa nera: barbarie del capitalismo (n. 4)• L’imperialismo francese in Mauritania (n. 8)• Fame e rivolte nell’Africa nera (n. 14)

1974.• Immobilismo “dialettico” e questione coloniale (n. 2)• Iniziato il lavoro sulla Rivoluzione Permanente (o“doppia”) (n. 4)• Angola: Farsa portoghese e tragedia africana (n.10) • Etiopia: Che cosa bolle nel calderone etiopico? (n. 10) • Etiopia: Esercito lealista e rivendicazioni democratico-borghesi (n. 15)• Etiopia (n. 17) • Mozambico (n. 17)• L’emancipazione controllata dai militari di fronte ai primi intoppi (n. 18)• Il movimento di liberazione in Angola e Mozambico (n. 20)• Nel ventennale della rivoluzione algerina (n. 22)

1975.• Le doglie dell’Etiopia (n. 2)• Involuzione dei movimenti di liberazione nazionale in tutta l’Africa australe (n. 3)• Riforma agraria in Etiopia e secessione Eritrea (n. 6)• Il secondo “decennio di sviluppo” dell’Africa nera (n. 6) • L’Angola e l’Europa (n. 22)• Danza di sciacalli intorno alla preda sahariana (n. 24)

1976.• Guardie bianche italiane per l’Angola (n. 3)• Onore a Luanda e alle lotte d’emancipazione in Africanera (n. 5)• Per l’unità degli sfruttati del Maghreb (volantino) (n. 7)• Si ridistribuisce l’Africa (n. 10)• Omaggio ai proletari in pelle nera del Sud (n. 12)• Anche l’Algeria ha codificato il suo socialismo (n. 14) • Investito dalla lotta di classe il bastione sudafricano del capitalismo mondiale (nn. 16, 17)• Angola: Dopo la guerra di liberazione il MPLA combattelo spettro della radicalizzazione (n. 19)

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4. Vogliamo citarli, sempre ricordandoche per noi i nomi degli individui han-no valore solo in quanto simboli di for-ze sociali: Naguib e Nasser (Egitto), Bur-ghiba (Tunisia), Lumumba (Congo),Sankara (Burkina Faso), Ben Bella (Al-geria), Neto (Angola), Mandela e Biko(Sudafrica), Kenyatta (Kenya), Senghor(Senegal), Nyerere (Tanzania), Azikiwe(Nigeria), Nkrumah (Ghana), Cabral(Guinea-Bissau)…

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IL PROGRAMMA COMUNISTA10 A. LxvI, n. 2, marzo-aprile 2018

acutizza le contraddizioni sociali,concentra contro di esso gli sfrut-tati e gli oppressi, conquista all’ideadella necessità della rivoluzionemondiale larghe masse. Come Marxnon parteggiava per il Terzo im-pero e Napoleone III, pur gioendodel continuo accentramento del po-tere governativo della borghesiafrancese, che così smascherava ilmonopolio politico capitalista e conciò stesso spingeva il proletariatoa prenderne coscienza; così noi nonparteggiamo, né attivamente népassivamente, per le forze politi-che che montano nelle colonie e neipaesi arretrati la mostruosa mac-china statale borghese” 5.Il nostro partito, quando mise alcentro della propria attenzione glieventi rivoluzionari in Asia, in Afri-ca e in Medioriente, vide giusto nelproporre, come in Russia 1917, lastessa tattica della doppia rivolu-zione, della rivoluzione in perma-nenza. Fu generoso: credette nelgiovane proletariato africano cheentrava sulla scena della storia e siaugurò che gli effetti dello stalini-smo non riuscissero a fermare ilsuo istinto di lotta e il suo senti-mento di classe. Ma sapeva beneche non era possibile che il proleta-riato potesse intraprendere un sal-to della portata di quello della Rus-sia senza l’aiuto del partito di clas-se. La storia dei movimenti di libe-razione dal colonialismo ha con-fermato che il proletariato africa-no e medio-orientale poteva for-nire l’energia per il salto storico,ma non poteva essere la guida delprocesso di liberazione. Le giova-ni forze della borghesia combat-tente africana, che si erano forma-te nelle metropoli capitaliste e ave-vano appreso dallo stalinismo nonla via verso il socialismo ma la “vianazionale al capitalismo”, eranoquindi già state “istruite” dalla sto-ria. Lo stalinismo ha significato lateoria e la tattica politica che con-segnano la lotta di classe del prole-tariato alla controrivoluzione bor-ghese. Così, il processo rivoluzio-nario si rivelava certamente mol-to più arduo di quello attraversa-to dalla Russia di Lenin, perché lacontrorivoluzione staliniana ave-va lasciato macerie su macerie neiprincipi, nelle finalità, nell’orga-nizzazione economica e politica delproletariato. Si confermava che lerivoluzioni borghesi, quando si af-faccia il loro tempo storico, così co-me avvenne nel corso della rivolu-zione francese, non sono fatte pro-priamente neppure dai borghesi,ma dalle masse contadine e prole-tarie, dai diseredati, dai miserabi-li. A questo sentimento, a questasperanza, si aggrappò il nostro par-tito, perché l’“albero della vita”(quello dell’attivo processo rivo-luzionario in permanenza) fossepiù ricco di quanto la teoria con-cedeva. Quelle masse, tuttavia, losapevamo, non avrebbero potutoportare verso l’obiettivo socialistasenza la direzione politica, senzaquello Stato maggiore che avevadato prove straordinarie nel pri-mo dopoguerra.Negare il possibile dispiegarsi del-

la lotta di classe, negare la neces-saria saldatura tra movimento diclasse del proletariato interna-zionale e il movimento dei popo-li colorati: ecco l’indifferentismo,che si barricava, come scriveva-mo sempre nell’articolo del 1961,“dietro il pretesto che i moti colo-niali sono di origine e contenutoideologico (e in parte anche so-ciale) borghese e si prestano adessere manovrati dai blocchi con-trapposti dell’imperialismo. E’ quila turpe insidia: è appunto l’indif-ferenza (che poi, sul terreno del-le lotte di classe, significa passag-gio al nemico) del proletariato ri-voluzionario e, peggio ancora, delsuo Partito, che blocca il proces-so di radicalizzazione dei moti co-loniali, che ne restringe le pro-spettive nell’ambito di program-ma e di forze sociali borghesi equindi li espone alla possibilità diun cinico sfruttamento ad operadel grande capitale arroccato su-gli spalti della Casa Bianca o delCremlino. È la rinunzia ad assu-mersi la missione affidatagli nonda Marx, Engels, Lenin, ma dallastoria di cui essi furono i porta-voce, che inaridisce un fenomenostorico, così gravido di potenzia-lità avvenire” (corsivi nostri).E ancora: “Da anni, quasi giornoper giorno, il pugno rude dei ‘co-lorati’ batte alla porta non dei bor-ghesi, ma dei proletari metropoli-tani; e non è un battere metafori-co, perché i proletari belgi 1961 oi francesi dei grandi scioperi di an-ni trascorsi rispondono e rispon-devano, lo sapessero o no poco im-porta, all’‘ondata di disordine’ ema-nante dalla boscaglia congolese odal Bled algerino; la risposta vienea sussulti nella grande estensionedella classe proletaria, non vienedal suo partito o, quando viene, èla risposta inversa a quella dellagrande tradizione rivoluzionaria,è la belante risposta democratica,conciliatrice, diplomatica, patriot-tica, o è la non meno turpe rispo-sta dell’altezzosa e sufficiente ‘in-differenza’. Moti borghesi! E tutta-via, la prima campana a stormo nelCongo, nel 1945 come nel 1959-’60, è venuta da giganteschi scio-peri non certo di borghesi, ma diproletari autentici […]. O non eraborghese l’orizzonte del febbraio1848 e del febbraio 1917? Non sa-rebbe caduta definitivamente pre-da dell’imperialismo e della guer-ra la ‘prima rivoluzione’ russa, se ibolscevichi non avessero fatto pro-prio il compito di portarla di là dase stessa, e si fossero chiusi nellastupida roccaforte dell’‘indifferen-za’? Il proletariato rivoluzionariooccidentale deve riguadagnare iltempo e lo spazio tragicamenteperduti nel ricorrere il miraggio disoluzioni democratiche di un pro-blema che, alla scala del mondo, so-lo la rivoluzione comunista puòsciogliere. Esso non può chiedereai moti coloniali ciò che solo da luidipende”.“Ma anche così – continuavamo –li saluta con passione divorante:anche così, perché unica scintilla divita in un mortifero presente, scar-dinano l’equilibrio internazionaledell’ordine costituito […] perchécatapultano nell’arena della storiagigantesche masse popolari – e inesse sono comprese masse prole-tarie – finora vegetanti in un ‘iso-lamento senza storia’, perché,quand’anche potessero ridursi –ma la dialettica marxista si rifiutadi ridurli – a moti puramente bor-ghesi, essi alleverebbero nel pro-prio seno i becchini che il putridooccidente, sommerso in una pro-sperità beota ed assassina, culla inun sonno più ottuso di quello pro-vocato dalla ‘soporifera droga chia-mata oppio’; perché, insomma so-no, nella tradizione della storia d’ol-tre un secolo, rivoluzionari mal-grado se stessi. La qual cosa, per i

borghesi e per i radicali indiffe-rentisti di oggi, come per quelli cheMarx copriva di ridicolo in una let-tera del 1853 a Engels, è moltoshocking, molto scandalosa: nonper noi, non per i marxisti degni diquesto nome!”6.

L’indipendenza e il cosiddetto “socialismo nazionale”

Le borghesie africane e medio-rientali, che negli anni ’60 del ‘900vantarono la presenza di una “so-cietà socialista” nel loro paese perl’appartenenza al campo imperia-lista russo, battezzandola tale invirtù dell’“indipendenza” raggiun-ta o creduta tale, si dimostraronoimpotenti, e non poteva essere al-trimenti, a gestire l’energia che ilproletariato africano e arabo espri-meva in quegli anni. Il nostro lavo-ro sulla “questione nazionale” chiarìpunto per punto l’infamia e il tra-dimento dello stalinismo. Tutte leforme di “socialismo africano” (egi-ziano, tunisino, algerino, congole-se, ecc.) sono state caratterizzatedalle illusioni di poter evitare l’in-ferno capitalistico: la piccola bor-ghesia nascente, industriale e agra-ria, ha tentato di sfuggire al desti-no di essere schiacciata dalle forzeborghesi industriali emergenti,mentre le forze borghesi parassi-tarie, legate al possesso delle ma-terie prime e alla terra, trovavanoil terreno più adatto all’accumula-zione della rendita fondiaria e fi-nanziaria capitalistica.Il loro “socialismo” altro non erache l’economia dei piccoli produt-tori indipendenti e delle piccoleeconomie che scambiano indivi-dualmente i prodotti, costrette o afallire miseramente o a sviluppar-si differenziandosi sempre di più,creando insieme i grandi comples-si statali e le monoculture richie-ste dal grande capitale industrialeed agrario mondiale e spingendoal massimo il grande parassitismofinanziario. Solo la congiunzionestretta delle lotte tra proletariatodelle metropoli e quello delle peri-ferie del mondo in Asia, in Medio-riente e in Africa avrebbe potuto in-dicare la prospettiva del socialismoe tracciarla decisamente. Scriveva-mo allora che le classi sociali afri-cane nel periodo tra le due guerrenon si erano ancora del tutto diffe-renziate: il livello della società eraancora pre-capitalistico e quindiben al di sotto della condizione re-cente in cui le masse proletarie sisono sviluppate con il sorgere del-le strutture di fabbrica e delle or-ganizzazioni economiche, incapa-ci tuttavia di difendere appieno lecondizioni di vita e di lavoro. Conl’introduzione dell’industrialismoe della divisione moderna del la-voro, gli Stati africani hanno cono-sciuto più tardi le piacevolezze del-la divisione sociale in classi anta-goniste. Ma è mancato il soggettoattivo della rivoluzione, il partitocomunista che, collegando la rivo-luzione proletaria dei paesi avan-zati alle lotte del proletariato afri-cano e dei contadini poveri, potes-se produrre l’effetto-valanga ver-so il socialismo. Lo stalinismo hadisastrosamente fatto credere, aiproletari africani e agli stessi pro-letari dei paesi imperialisti, a unGhana e un Mali “socialisti”, a un’Al-geria, a una Libia e a un Egitto “so-cialisti”, a un Congo e a un’Angola“socialisti”… L’introduzione del cosiddetto “so-cialismo” non fu altro che una que-stione di “dichiarazioni ideologi-che”, e non di grandi lotte di clas-se internazionali. D’altronde, i pae-si dell’Est europeo, economica-mente più avanzati dei paesi afri-cani, che altro potevano diventa-re a loro volta, nati sotto il domi-nio imperialista russo come con-seguenza della spartizione terri-toriale mondiale tra i vincitori del

5. “Moti coloniali e rivoluzione prole-taria”, Il programma comunista, n.2/1953.6. “Incandescente risveglio delle ‘gen-ti di colore’ nella visione marxista. Rap-porti collegati alla riunione di Bolognadel 12-13/11/1960”, cit. La lettera diMarx a Engels è del 14 giugno 1853(Marx-Engels, Opere complete,Vol.XXXIX, pp.281-283.7. Per chi voglia approfondire, nel n. 5-6/2017 di questo stesso giornale è ri-portata una bibliografia dei nostri ar-ticoli sul Nord Africa, pubblicati nel de-cennio 2007-2017.

Il tormentato percorso...

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DovetrovarelanostrastampaABenevento:• Edicola stazione Appia• Edicola di Via T. Ferrelli 4• Edicola di V.le Mellusi 126• Edicola della Stazione RFIACagliari:• Edicola sotto i portici, via Roma ang. via Napoli AMilano:• Libreria Feltrinelli di Corso Buenos Aires• Libreria Feltrinelli di Via Ugo Foscolo (Duomo)• Libreria Cuesp (Facoltà di Scienze Politiche - via Conservatorio)• Libreria Calusca (via Conchetta)• Edicola di P.za Santo StefanoARoma:• Libreria Anomalia di Via dei Campani 73• Edicola di Largo Spartaco - Roma TuscolanoAUdine:• Libreria dell’Università, via GemonaInCalabria:a Reggio Calabria, C.so Garibaldi, ang. Agenzia delle Entrate,

di fronte ottica SalmoiraghiEdicola via Galileo Galilei

a Siderno (RC), presso la Libreria Mondadori, Centro Commerciale Le Gru;

a Gioiosa Ionica (RC), presso l’Edicola fuori dalla Stazione FSInPiemonteeLiguria:a Torino, Libreria Stampatori via Sant’Ottavio 15

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a Ivrea, Edicola Corso Bottaa Bordighera, Libreria Amico libro, corso Vittorio Emanuele II 30a Imperia, Edicola via Caramagna 139a Imperia Oneglia, Edicola Piazza S. GiovanniInSicilia:a Catania, C.so Italia (altezza 270 - vicino p.za Europa)

P.za IolandaP.za G. Verga (ang. via Ventimiglia)Via Umberto 149Via Etnea 48 (vicino p.za Università)

a Lentini,Via Garibaldi 17 e 96 a Palermo, p.za Giulio Cesare (sotto i portici),

p.za Giulio Cesare angolo Via Lincoln, via Lincoln 128 chiosco angolo via Mariano Stabile/via Roma

a Priolo, Via Trogilo (accanto supermercato Punto)a Santa Margherita Belice, V.le Libertà,

via Corbera angolo p.za Libertàa Siracusa, Via Tisia 59,

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ta anticoloniale intorno a metà an-ni ’70 del ’900 inaugurò un lungoperiodo (almeno un ventennio) incui il proletariato ha cominciato afare le proprie esperienze sul pia-no della lotta di difesa delle con-dizioni di vita e di lavoro. La crisi economica d’inizio secolo(2000-01) e quella più profondainiziata nel 2007-08 hanno pro-dotto i primi effetti di grande im-patto sociale sull’area nordafrica-na o, più specificamente, sulla rivameridionale e orientale del Medi-terraneo. Qui, un proletariato com-battivo, con esperienze di lotta giàpluridecennali, è ricomparso convigore sulla scena, come abbiamopiù volte mostrato negli ultimi an-ni 7. Purtroppo, in mancanza di unpolo di riferimento rivoluzionario(non solo in quell’area, ma anchee soprattutto nelle metropoli capi-talistiche “avanzate”), quelle lottecoraggiose e disperate sono stateimbrigliate e incanalate nel vicolocieco delle rivendicazioni demo-cratiche piccolo-borghesi (appun-to, le cosiddette “primavere ara-be”). Il risultato lo possiamo vede-re in Libia, in Egitto e in particola-re in Siria, insanguinata ormai daanni da un massacro senza pari per-petrato da tutti gli agenti in cam-po. Le “primavere arabe” sono sta-te cioè l’avvisaglia di processi checontinueranno a portare morte edistruzione su tutta la riva meri-dionale del Mediterraneo. Ma le lotte proletarie non sono ces-sate: covano sotto la cenere, sottole macerie e i cimiteri di illusioninefaste e poi, con fiammate im-provvise, tornano a incendiare lascena. Torneremo di certo a par-larne. Soprattutto, lavoriamo e la-voreremo perché i proletari afri-cani e mediorientali non siano piùsoli come lo sono stati da decenni,complici tutte le forze controrivo-luzionarie borghesi e piccolo-bor-ghesi, fintamente socialiste o di-chiaratamente imperialiste.

secondo conflitto mondiale, se nonuna melma “socialista”, nata perdecreto e finita penosamente in uncesso?

concludendo (per ora)

In quest’articolo, abbiamo deli-neato – sulla base del grosso la-voro di partito sviluppato nel cor-so degli anni ’50 e ’60 – i trattiprincipali dell’evoluzione storico-economica africana e i lunghi tem-pi nel corso dei quali si sprigiona,in quell’immensa area e in fasi di-verse, la spinta che permette alleantiche strutture e forme socialiprimitive e poi pre-capitaliste didar luogo a nuove classi socialimoderne (borghesia, contadina-me e proletariato), artefici di unnuovo modo di produzione. Ab-biamo sottolineato il ritardo sto-rico dell’evoluzione africana a cau-sa di condizioni naturali avversee di quella stessa colonizzazioneche la borghesia europea condus-se contro le popolazioni africane,schiavizzandole e asservendole,dominandole quindi economica-mente – un processo non di accu-mulazione economica progressi-va, ma di dissociazione, destinatoad aggravare quello stesso ritar-do. I successivi moti anticolonia-li, diretti dalla borghesia autocto-na (priva di grande azione stori-ca) contro la borghesia già impe-rialista delle “madrepatrie”, si nu-trirono soprattutto dell’azione edella forza delle classi d’avan-guardia, il contadiname povero eil proletariato, che dovettero bat-tersi anche contro l’opportunismocolonialista e l’indifferentismo neiriguardi della lotta stessa. L’indi-pendenza formale permise quin-di di asservire il proletariato e ilcosiddetto “socialismo nazionale”fu il terreno di semina dello stali-nismo per stroncare ogni tentati-vo di lotta rivoluzionaria di clas-se. La chiusura dell’epoca della lot-

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IL PROGRAMMA COMUNISTA 11A. LxvI, n. 2, marzo-aprile 2018

Il24novembre2017 è stato procla-mato uno sciopero in sei hub Ama-zon in Germania e in quello di CastelSan Giovanni (Piacenza)1. Quest’ul-tima sede si trova in un territorio mol-to vasto che comprende più poli del-la logistica sull’asse Milano-Piacen-za-Bologna, con migliaia di addetti,che in molte aziende hanno mostra-to una generosa combattività. Nellaregione Emilia Romagna gli addettidel settore trasporto e logistica sonocirca 92mila (90 mila in Lombardia):nella provincia di Piacenza, 9.600;nella sola città di Piacenza, circa 5mi-la, come riportano i dati Istat del 2014.E in 3 anni l’espansione del settore èandata aumentando. L’obiettivo dichiarato di tutti gli scio-peri nei magazzini Amazon è unico,anche se non ha una vera coordina-zione o piattafroma comune: in tuttisi chiedono aumenti di salario e si de-nunciano condizioni di lavoro con rit-mi intensi e ambienti malsani. Il la-voro si svolge su tre turni nell’arcodelle ventiquattro ore, con ampio uti-lizzo dello straordinario. Lo sciope-ro, che è stato fatto coincidere con ilfamigerato Black Friday, avrebbe do-vuto creare danni all’azienda in unperiodo di picco di lavoro; di fatto, èstato solo simbolico e non ha prodottoalcun risultato. In tutti gli impianti,in Germania e in Italia, il lavoro è pro-seguito; a Piacenza, anche ammessoche abbia scioperato la metà dei 1600lavoratori a tempo indeterminato, co-me sostengono i sindacati, i 2000 la-voratori interinali non hanno aderitoalla lotta su indicazione degli stessisindacati che così facendo hanno di-mostrato la propria intenzione di nonvoler arrecare danni al padrone Ama-zon. Tutti i lavoratori a tempo inde-terminato dell’hub di Castel San Gio-vanni sono entrati come lavoratorisomministrati, ossia temporanei, for-niti dalle agenzie interinali, i moder-ni caporali. Nei giorni precedenti losciopero, i lavoratori somministratiattuali sono stati avvicinati dai capidi Amazon che hanno suggerito lorodi non aderire, con la motivazione ri-cattatoria che un’adesione allo scio-pero avrebbe reso difficile l’assun-zione a tempo indeterminato.Considerando la dimensione inter-nazionale di Amazon è importantenotare che la gestione della logisticavia software e information techno-logy consente di ridurre gli effetti diuno sciopero in un solo polo, spo-stando il lavoro e le spedizioni su al-tri poli. La scala internazionale delcapitale rende ancor più evidente enecessaria alla classe proletariaun’analoga strategia, come arma con-tro il capitale. Ma è evidente che dalriconoscimento di questo fatto a unareale consapevolezza della necessitàdi una strategia internazionale la stra-da è lunga e passa attraverso l’espe-rienza e la lotta all’interno delle stes-se organizzazioni del proletariato. Il24 novembre, davanti alla sede Ama-zon di Castel San Giovanni, si pote-vano vedere i lavoratori raccolti sot-to le bandiere confederali rivendica-re una manifestazione pacifica, sa-pendo che la produzione sarebbe an-data avanti e avrebbero fatto passarei lavoratori interinali e i camion conle merci in uscita! A quello sciopero, però, si sono ag-giunti anche altri lavoratori della lo-

gistica, che hanno già combattuto ostanno combattendo in situazioni si-mili, organizzati dai sindacati di ba-se: con il megafono hanno chiamatoa uno sciopero vero, con i picchetti,per bloccare le merci in uscita: è conl’utilizzo degli scioperi che bloccanola produzione e dei picchetti che mol-te lotte nella stessa logistica nel NordItalia hanno ottenuto delle conquiste,sia pure parziali e insufficienti. Daqueste esperienze, da questa condi-zione reale, parte oggi il proletariatoper il suo lungo e tortuoso camminodi ripresa delle lotte: da una parte, ilavoratori di Amazon ancora impri-gionati dalle bandiere dei confedera-ti a favore di una manifestazione pa-cifica; dall’altra, i sindacati di baseche esortavano a uno sciopero vero;in mezzo, la polizia, braccio armatodello Stato. Questo è stato il 24 no-vembre! Divisione. Fallimento dellosciopero. Polizia. E’ evidente però chela responsabilità non è stata certo dichi, sotto le bandiere dei sindacati dibase, portava la propria solidarietà esoprattutto la propria esperienza ai la-voratori in lotta di Amazon.Il 20 dicembre 2017, nuovo stato diagitazione in Amazon Piacenza. Co-me sua regola, Amazon diserta l’in-contro con confederali e prefetto. Isindacalisti confederali dichiaranoche “Amazon disprezza lo Stato”2 esi fanno scortare dalla polizia per en-trare nello hub a tenere le assemblee!Viene indetto uno sciopero – udite!udite! – di due ore per ogni turno, daprotrarsi per più giorni; i sindacati di-chiarano l’adesione allo sciopero di400 lavoratori il primo giorno, ma poila lotta, nonostante le dichiarazioni,non viene sostenuta nei giorni suc-cessivi. Ancora una volta, l’azione dipompieraggio dei sindacati confede-rali ha dato i suoi frutti: annullare lastessa volontà e necessità di lotta deilavoratori.Il lavoro temporaneo è una caratteri-stica di tutti gli hub Amazon in Euro-pa, e nel mondo. Negli Stati Uniti,Amazon recluta i lavoratori all’inter-no del cosiddetto programma Cam-perforce, unità di lavoro composta dalavoratori nomadi, i cosiddettiworkampers, che vivono in camper oin auto e lavorano come dipendentistagionali: come migliaia di altri la-voratori temporanei, vengono assun-ti per far fronte al picco di richieste dispedizioni. Amazon prevede che, en-tro il 2020, un lavoratore nomade suquattro negli Stati Uniti avrà lavora-to per Amazon. Tutto ciò fa parte delpiù generale attacco del Capitale alproletariato, insieme all’erosione delsalario e al peggioramento delle con-dizioni di vita e di lavoro. È stato co-niato una nuova espressione (“Meto-do Amazon”) per indicare il massimosfruttamento del lavoratore, che unavolta logorato viene buttato via: inAmazon, infatti, vi è un ampio turno-ver e i lavoratori sono incentivati adandarsene dopo un paio d’anni. Pernoi, queste sono solo conferme del so-lito metodo del capitale. “La Repub-

blica” del 25/11/2013 ci informavache, in Germania, “Le riforme schrö-deriane hanno di fatto diviso il mer-cato del lavoro tedesco, creando unaclasse lavoratrice spaccata in due: dauna parte i garantiti ben pagati, pro-tetti da sindacati forti […]; dall’altramilioni di dipendenti dei servizi (lo-gistica, spedizioni, supermercati e ser-vizi aeroportuali) ingaggiati con sa-lari minimi, spesso con contratti pre-cari, con tagli retributivi su straordi-nari e giorni di malattia, e ben menotutelati sia dalle leggi sia dai sinda-cati”. Da parte sua, “The Guardian”del 25/11/2013, scriveva, sempre aproposito della Germania: “Lo scor-so inverno i salariati temporanei diAmazon, per lo più spagnoli e dell’EstEuropa, assunti prima delle feste na-talizie, oltre a non beneficiare dellenormali indennità (per straordinari elavoro festivo), erano pagati un euromeno di quanto promesso, e maltrat-tati dalle guardie di una società di si-curezza. Finora i lavoratori hanno ot-tenuto che Amazon pagasse una tre-dicesima una tantum fino a 500 euro,ma solo per il personale a tempo in-determinato. Amazon sta aprendo 3nuovi centri di distribuzione in Polo-nia, e questo rischia di indebolire lelotte dei suoi salariati in Germania.Amazon Germania ha dichiarato chequest’anno i 14.000 lavoratori sta-gionali verranno cercati in Germaniae non nei paesi confinanti. Amazon èin grado di reclutare in pochi giorniquesti stagionali, tra lavoratori nonqualificati, grazie al lavoro altamen-te standardizzato; i lavoratori gli ven-gono forniti dalle agenzie e dai centriper l’impiego. A Brisenlang ci sonogià 12.000 addetti, di cui 300 a tem-po indeterminato, e 800 a tempo de-terminato; quasi tutti provengono dal-la disoccupazione di lungo termine;nell’area ci sono 10.500 percettori disussidi di disoccupazione. Bastano 4giorni per imparare il lavoro”.Qui da noi, i sindacati confederali re-

clamano a gran voce un’“unione eu-ropea dei sindacati” al fine di svilup-pare una vertenza europea, ricordan-do che “A Parigi c’è stata una gran-de manifestazione dei lavoratori delGruppo che in Francia denuncianole stesse cose che denunciamo noi”3.Ma la strategia che mettono in cam-po smentisce palesemente i proclamialtisonanti: continuano a far finta dilottare localmente per portare Ama-zon alla trattativa e piagnucolano per-ché non ci riescono. A noi è chiaroche il confronto tra quanto avviene aPiacenza e quanto avviene nel restodel mondo è emblematico e mostrala necessità di unirsi e lottare per di-fendersi. In queste condizioni, qualsiasi lottapacifica e solo locale è infatti desti-nata al fallimento. Ecco perché noidiciamo da sempre che è ora di smet-terla con le manifestazioni pacifichee gli scioperi farsa, senza picchetto esenza blocco delle merci. Basta conla ricerca del dialogo! I padroni, i ma-nager, li “convinci” a trattare solo seprima gli fai perdere milioni bloc-candogli produzione e distribuzione!A Piacenza, i sindacati confederalivanno a cercarsi i lavoratori a uno auno, per vincere la loro diffidenza ver-so il sindacato e convincerli che es-so vuole migliorare le loro condizio-ni: fingono di accettare il terreno del-le necessità dei lavoratori per avereun seguito tra essi, ma comunque litengono dentro i confini di una lottafasulla, pacifica e legalitaria, dialo-gante con lo Stato e con l’azienda,che puntualmente gli sbatte la portain faccia. Solo il picchetto, lo scio-pero che blocca le merci, sono il mo-do per rompere la separazione tra la-voratori temporanei e lavoratori atempo indeterminato: i lavoratori deb-bono organizzarsi per difendersi. Cer-to, i nostri auspici non possono de-terminare gli eventi. Ma è dall’anali-si della struttura del capitale che ilproletariato sarà costretto a tornare

protagonista. Nell’andamento stessodella propria economia il capitale con-tinua a produrre i propri becchini: unostrato sempre più ampio di proletariresi schiavi del capitale. Ormai, pergran parte del proletariato, non c’ènulla da perdere: è senza riserve. Vi-ste in un’ottica internazionale, que-ste lotte di oggi, con tutte le loro fra-gilità e contraddizioni, ci dicono mol-to sulla presenza di un proletariato ri-dotto alle condizioni delle origini, chesi muove e cerca di reagire alle fru-state: purtroppo, è diviso, e perciò fa-tica moltissimo a organizzarsi e op-porsi ai colpi dei padroni e dei loroStati. È ancora intrappolato dagli op-portunisti, dagli agenti della borghe-sia in seno alla classe, che voglionole manifestazioni pacifiche e il dia-logo e così sabotano lo sciopero. Abbiamo già visto in passato il pro-letariato riprendere il cammino do-po un periodo di sconfitte e passività:a quel punto, è la forza messa in cam-po dai proletari a “scortare” dentrole assemblee i propri organizzatori,e non la polizia! È la forza degli ope-rai, disposti a mille sacrifici e capa-ci di grande generosità, a imporre imetodi e gli obiettivi della lotta: losciopero e i picchetti, la lotta che siallarga oltre l’ambito locale. Quellacombattività è soprattutto un prodottodelle condizioni materiali di vita, ecome tale si ripresenterà, animata dal-la necessità e dall’urgenza dei pro-letari di unirsi per difendersi. Ai ri-catti dei padroni, alle loro dimostra-zioni di forza, bisogna rispondere conaltrettanta forza, la forza data dal nu-mero e dall’organizzazione. Ma èpossibile solo se i proletari torne-ranno a riconoscersi come fratelli diclasse, internazionalmente. Per que-sto i comunisti lavorano, nelle lotteimmediate e locali del proletariato,pur tra mille difficoltà, e sempre ac-cerchiati da nemici: e soprattutto dafalsi amici.“C’è una lotta di classe, è vero, ma èla mia classe, la classe ricca, che stafacendo la guerra, e stiamo vincen-do”, ha proclamato Warren Buffett,il plurimiliardario USA al terzo (oquarto?) posto nell’elenco dei Pape-roni del mondo. Bene, tocca ai lavo-ratori di tutto il mondo ricacciargli ingola questa sprezzante affermazione!

Dal mondo del lavoroAMAzOn: LA LOTTA

ChE AnCORA nOn C’E

1. Lo stato di agitazione alla Amazon in Germania dura da tempo. Leggiamo sulquotidiano inglese “The Guardian”, del 25/11/ 2013: “I magazzini tedeschi di Ama-zon, con 9.000 dipendenti, sono la maggiore filiale all’estero del gigantesco ma-gazzino internet americano, che negli Usa ha 90.000 salariati. Il maggiore hub inGermania è quello di Bad Hersfeld (Assia), 3500 dipendenti, e di Lipsia. In Ger-mania ci sono altri 8 centri Amazon, dove sono maggiori i lavoratori temporanei,e quindi più ricattabili. I lavoratori Amazon Germania hanno iniziato la lotta adaprile 2013, sono scesi in sciopero il 19 e 20 settembre, di nuovo il 25 novembreper aumenti salariali”. 2. Vedi Ansa, 20 dicembre 2017.3. Dichiarazione di una delegata CISL, citata da “La Stampa” del 21 dicembre 2017.

“Siamo felici di annunciare che da oggi potrai sce-gliere un nuovo modo di lavorare con Deliveroo – il mo-dello di pagamento a consegna. […] I dati raccolti di-mostrano che, grazie al nuovo modello di pagamen-to, puoi arrivare a guadagnare fino al 70% in più negliorari di picco (le sere dei weekend), grazie all’alto vo-lume di ordini. […]Riceverai 5 € lordi per ogni consegna che effettui. […]Siamo sicuri di poterti proporre almeno 1,5 ordini perogni ora. Nel caso in cui non ci fosse possibile proportiquesto numero di ordini, ti corrisponderemo comunquel’importo relativo. […]Per il mese di Marzo, l’incentivo sarà il seguente: Com-pleta 20 consegne tra l’1 e il 31 Marzo e guadagnerai30 €, completa 50 consegne e guadagnerai 50 €.”

Si tratta di alcuni estratti presi dalla lettera che la so-cietà di consegne a domicilio Deliveroo ha mandato atutti i suoi lavoratori via e-mail. È arrivata, era nell’ariaormai da molto tempo ma da alcuni giorni è diventa-ta realtà: è l’ultima trovata di Deliveroo, che proponeai suoi “dipendenti” di passare al salario a cottimo. Sein precedenza la paga era costituita da una compo-nente oraria (la principale) e da un piccolo incentivoper ogni consegna, i rider sono ora “liberi” di sceglie-re se continuare con questo regime (5,60 € netti ogniora e 1,20 € netti ogni consegna) oppure iniziare a gua-dagnare 5 € lordi per ogni consegna effettuata.Inutile sottolineare il ribrezzo che ci suscita il tono sub-dolo e ipocrita con cui la proposta è stata scritta e in-fiocchettata a dovere; inutile evidenziare come questamodalità di pagamento sia nel complesso (e non con-

siderando soltanto le sere dei week-end) sconvenien-te: se con l’attuale stipendio un rider che effettua 1,5consegne ogni ora, come garantito da Deliveroo, met-te in tasca 7,40 €, scegliendo il cottimo ne guadagne-rebbe soltanto 6.Due elementi occorre quindi sottolineare e ricordare.In Francia e in Belgio il nuovo metodo di pagamento ègià in vigore; l’arrivo dell’obbligatorietà anche in Ita-lia è solo questione di tempo, non si può essere in-gannati da questa iniziale possibilità di scelta.Questa tendenza non è limitata al settore delle conse-gne a domicilio e non è frutto di una crudeltà intrin-seca nella mente del caporalato di queste aziende; èuna tendenza globale che affonda le sue radici nel mo-do di produzione capitalistico che, nella sua fase im-perialistica e durante le crisi, cicliche e sistemiche, ve-de assottigliarsi i profitti e non può che ricorrere allasua arma più efficace: l’intensificazione dello sfrutta-mento attraverso una generalizzata compressione deisalari.Come comportarsi dunque? I lavoratori hanno, stori-camente, una sola arma per difendersi e questa è losciopero. Lo sciopero a oltranza, senza limiti di tempoe allargato a tutte le società del settore, finalizzatoall’abolizione del cottimo, all’ottenimento di un au-mento salariale e di maggiori garanzie in termini diore di lavoro minime, durata del contratto e forme diassicurazione.Allo sfruttamento occorre rispondere con lo sciopero;dunque, con l’organizzazione e con la lotta aperta, in-differente alle compatibilità aziendali o nazionali. Peri lavoratori non può esserci altra via.

Se c’è del marcio in Deliveroo è perché marcio è il Capitale

Page 12: i ga a c i a...la crisi del proprio modo di produ-zione. Punto secondo. Questa incertezza e queste divisioni nel campo borghe-se (sia nazionale che internaziona-le) non devono però

IL PROGRAMMA COMUNISTA12 A. LxvI, n. 2, marzo-aprile 2018

Dieci anni fa, nel considerare la rivoluzione di Ot-tobre come fase della lotta politica internazionale

del proletariato, indicavamo su queste colonne i po-tenti caratteri che come tale la definiscono, e che esor-bitano totalmente dai limiti di una rivoluzione nazio-nale ed antifeudale, nei seguenti termini, per noi im-mutabilmente validi:a) Lenin aveva stabilito che la guerra europea e mon-

diale avrebbe avuto carattere imperialista «ancheper la Russia» e che quindi il partito doveva comenella guerra russo giapponese che provocò le lottedel 1905, tenere attitudine aperta di disfattismo. Ciònon per la ragione che lo Stato non era democrati-co, ma per le stesse ragioni che dettavano a tutti ipartiti socialisti degli altri paesi lo stesso dovere.Non vi era in Russia abbastanza economia capitali-stica e industriale da dare base al socialismo, ma vene era abbastanza da dare alla guerra carattere im-perialista. I traditori del socialismo rivoluzionarioche avevano sposato la causa dei briganti borghesiimperialisti sotto pretesto di difendere una demo-crazia «di valore assoluto» contro pericoli di là te-deschi, di qua russi, sconfessarono i bolscevichi perla liquidazione della guerra e delle alleanze di guer-ra, E cercarono di pugnalare Ottobre. Ottobre vin-se contro di loro, la guerra e l’imperialismo mon-diale, e fu conquista solo proletaria e comunista.

b) Nel trionfare dell’attentato di costoro, Ottobre ri-vendicò le carte dimenticate della rivoluzione e re-staurò la rovina dottrinale del marxismo da loro tra-mata; ricollegò la via per qualunque nazione dellavittoria sulla borghesia all’impiego della violenza edel terrore rivoluzionario, al laceramento delle «ga-ranzie» democratiche, alla applicazione senza limi-ti della categoria essenziale del marxismo: la dit-tatura della classe operaia, esercitata dal partitocomunista. Chiamò per sempre bestia chi dietro ladittatura legge un uomo, quasi quanto chi, treme-bondo al pari delle meretrici democratiche di quel-la tirannide, vi legge una classe amorfa e non orga-nizzata, non costruita in partito politico.

c) Quando fittiziamente la classe operaia si presentisullo scenario politico divisa tra diversi partiti, lalezione di Ottobre, indistrutta, mostrò che la via nonpassa per un potere gestito da tutti insieme, ma perla liquidazione violenta successiva di una collanadi servitori del capitalismo, fino al potere totale delpartito unico.

“La grandezza dei punti da noi ricordati sta nel fattoche forse proprio in Russia la speciale condizione sto-rica della sopravvivenza dispotica e medievale pote-va spiegare una eccezione in rapporto ai paesi bor-ghese sviluppati, mentre all’opposto la via russa mar-tellò, tra lo sbalordimento di terrore o di entusiasmodel mondo, la via unica e mondiale tracciata dalla dot-trina universale del marxismo, da cui mai Lenin si di-staccò in nessuna fase, nel pensiero o nell’azione; econ lui il mirabile partito dei bolscevichi.“È ignobile che questi nomi siano sfruttati da quelliche, vergognosi in modo schifosissimo di quelle glo-rie che ostentano teatralmente di voler celebrare, siscusano che quella via la Russia abbia «dovuto», perspeciali circostanze e condizioni locali, percorrere, epromettono o concedono, come se fosse tanto loromissione, di far pervenire i paesi dell’estero al socia-lismo per altre disparate vie nazionali, lastricate daltradimento e dall’infamia con tutti i materiali che ilfango da fogna dell’opportunismo vale ad impastare:libertà, democrazia, pacifismo, coesistenza ed emu-lazione.“Per Lenin il socialismo in Russia aveva bisogno, co-me dell’ossigeno, della rivoluzione occidentale. Perquesti, che il 7 novembre sfilano davanti al suo stol-to mausoleo, l’ossigeno è che nel resto del mondo ga-vazzi il capitalismo, con cui coesistere e coire”.Dieci anni dopo, mandiamo allo stesso indirizzo – alCremlino e relative Botteghe Oscure [leggi: il PCI –ndr] – la stessa rovente rampogna, e ai proletari rivo-luzionari di oggi e di domani lo stesso grido di ri-scossa, perché le carte dimenticate del marxismo e diOttobre ritornino a splendere nella loro interezza.

tuali precari equilibri a tutti i li-velli, effetto dell’assiduo e cripticolavoro di scavo della nostra vec-chia talpa…

Nel frattempo le principali ban-che – non potendo rischiare di es-sere tagliate fuori da un processodi disintermediazione analogo aquello che, via Web, ha sottrattoquote di mercato alle telecomuni-cazioni e al commercio al detta-glio – stanno studiando le pro-spettive delle blockchains e le op-portunità che possono offrire incampo monetario e finanziario.Un indubbio vantaggio delle piat-taforme che muovono criptovalu-ta è il risparmio dei costi delletransazioni, delle commissioni,ecc... Alla fin fine, tutta la poten-zialità di questa tecnologia, comeavviene nelle fabbriche automa-tizzate, finisce non per liberarel’essere umano dalla fatica e dalcontrollo, ma per portarlo a unostato ancora peggiore di dipen-denza e oppressione. In compen-so abbatte i costi di esercizio. Atanto si riduce la “rivoluzione”delle criprovalute, come per tuttele “rivoluzioni” a cui il capitale im-pone il suo marchio.

In conclusione, se il bitcoin o chiper esso non può ancora dirsi de-naro a pieno titolo, non è esclusoche possa diventarlo sulla spintadelle innovazioni tecnologiche esoprattutto delle contraddizioniche attualmente segnano il siste-ma monetario e finanziario mon-diale. Ma, quale ne sia il destino,non potrà sottrarsi alle contrad-

realizzare, hanno recitato comed’uso la parte della vittima sacri-ficale.

Il valore delle criptovalute è e-stremamente volatile: nel corsodi un anno (da febbraio ‘17 a di-cembre), la loro capitalizzazionedi borsa è salita da 20 miliardolla-ri al picco di 800 miliardi, per poiscendere a 500 miliardi durantela crisi borsistica dei primi di feb-braio di quest’anno. Negli stessiperiodi, il valore di un bitcoin èpassato da circa 1100$ a20.000$, per poi precipitare a6.000 e risalire a 10.000 e oltre.Un’altalena che per una monetanormale corrisponderebbe a unadeflazione del 900% in un anno.

Tutto ciò ci fa concludere che lecriptovalute sono assets che inquesto momento più di altri at-traggono capitali speculativi: masono ancora ben lontane dal pro-porsi come monete alternative aquelle a corso legale. Ciò non to-glie che all’interno di determinaticircuiti, più o meno opachi, possa-no già oggi svolgere la funzione didenaro a tutti gli effetti. Sotto que-sto aspetto, l’anonimato degli uti-lizzatori della catena, garantitodalla crittografia, tutela tanto losmanettone di cui sopra quanto ilcriminale che usa il sistema perriciclare denaro sporco o trasferi-re mercanzia sospetta, e preservalo speculatore “legale” borghesedalla fastidiosa attenzione del fi-sco; e se consideriamo che i capi-tali sono per lo più in mano ai bor-ghesi e alle organizzazioni crimi-nali, si capisce bene che questi ul-timi due soggetti brindano felicialla dabbenaggine dei poveri “an-tiautoritari” stile Anonymous. Sipotrebbe obiettare che ogni stru-mento è buono o cattivo in funzio-ne dell’uso che se ne fa: ma quan-do lo strumento ha delle prospet-tive di utilizzo economicamentepromettenti, ci puoi giurare che aprenderne il controllo sono grup-pi che lo usano per trarne profittie potere. Lo stesso è accaduto conil Web, di cui originariamente sicelebravano le potenzialità e cheoggi è in mano a poche grandi cor-porations che ne hanno fatto unostrumento micidiale di controllo,

di condizionamento sociale e disfruttamento del lavoro a livelli i-nauditi. Non è un caso che, oggi,soggetti come Google e i grandifondi di investimento abbianomesso gli occhi sulle società di mi-ners che generano criptovalute.

Al momento, le criptovalute rap-presentano dunque, sui mercati fi-nanziari, una nuova occasione diinvestimento speculativo. Ma tut-te queste multiformi rappresenta-zioni del denaro, nel momento incui subentra una crisi, tendono aessere convertite in denaro effet-tivo garantito da una solida bancacentrale, rappresentante di unaforza economica e politico-milita-re in grado di garantire il valore diquella moneta. Nella generale fugadai titoli di debito, i bitcoin e tuttele consimili rappresentazioni crip-tiche del valore sarebbero tra i pri-mi a essere brutalmente svelatinella loro vera essenza. Perfino lamoneta più solida, in presenza diuna generale crisi che dalla finan-za si estenda alla produzione cer-cherà l’ancoraggio nell’oro, la ma-nifestazione più materiale e con-creta, per unanime consenso, delvalore. Lo conferma il fatto che leprincipali banche centrali euro-pee, quelle di Cina, Russia ed altriemergenti, dalla crisi del 2008 inpoi sono impegnate a far rientrarenei propri forzieri l’oro depositatopresso la Fed e la Bank of En-gland. Che questo rientro sia incorso senza alcun clamore media-tico rafforza l’ipotesi che si trattidella manifestazione fattiva di u-na crescente sfiducia nell’attualesistema monetario mondiale cen-trato sul dollaro – causa l’insoste-nibilità del deficit con l’estero el’enorme debito americano – e diuna rivalutazione dell’oro comegarante ultimo delle relazioni mo-netarie ed economiche interna-zionali. Assistiamo così, in questitempi di incertezza e confusionemassime, accanto a nuove formedella smaterializzazione del de-naro quali sono i bitcoin, a segnalidi tendenza a un nuovo gold stan-dard, effetto della crescente sfidu-cia delle maggiori banche centra-li nei confronti della Fed, cuoredell’attuale sistema monetario in-ternazionale.

Qualcuno si è chiesto se il para-dosso non sia destinato a risol-versi in una nuova sintesi: “nel fu-turo del metallo giallo è in incuba-zione un ruolo-guida nella rivolu-zione finanziaria del denaro vir-tuale e delle Blockchain? Insom-ma, siamo alla vigilia di un nuovoGold Standard 2.0?” (A. Plateroti).In effetti, lo stesso Mario Draghi,nel condannare le criptomonetecome oggetto di speculazione, haelogiato le modalità di generazio-ne di moneta proprie delle block-chains. Una generazione pro-grammata che ne presuppone laprevedibilità nel tempo costitui-rebbe un fattore di stabilità mo-netaria, nel momento in cui se nefacciano garanti le principali ban-che centrali. Alla blockchains so-vrana potrebbe aderire un’area e-stesa di Stati con un’unica monetavirtuale destinata ad affossarel’attuale ruolo del dollaro. La con-vertibilità in oro della nuova bit-moneta chiuderebbe il cerchio.Insomma, la creazione maturatanei cervelli di smanettoni genia-loidi potrebbe rivelarsi lo stru-mento capace di scardinare il se-misecolare dominio del dollaro!Ma certo non di decretare o con-tribuire alla fine del plurisecolaredominio del capitalismo!

Per ora sono soltanto fantastiche-rie: ma chissà se sono davveroprive di fondamento, in un pano-rama mondiale dove stanno ma-turando sconvolgimenti degli at-

Bitcoin: non è denaro...

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Le carte dimenticate di Ottobre

Quest’articolo apparve nel n.19/1967 de “Il programma comunista”. Lo ripubblichiamo come necessario antidoto all’ubriacatura di fesserie alimentata dai mezzi di comunicazione di massa nel corso di tutto il 2017, centenario della Rivoluzione d’Ottobre.

Breve bibliografia

• P. Soldavini, “La moneta si disintermedia”, Nova Il Sole24ore, 18 maggio 2016

• A. Plateroti, “La squadra dei Goldfinger accumulamunizioni d’oro pronteall’uso”, Il Sole24ore, 21 dicembre 2016

• A. Mincuzzi, “Gondo, nellaminiera delle criptovalute”, Il Sole24ore, 3 marzo 2018

• “Il bitcoin potrebbe diventarel’arma segretadell’antipolitica”, La Stampa,14 febbraio 2018

• V. Lops, “Bitcoin, salel’allarme in Europa”, Il Sole24ore, 13 febbraio 2018

• “Perché crollano le borse.Intervista a R. Malnati (Ten Sigma), esperto di VIX,l’indice della volatilità deimercati finanziari”. Due di denari, Radio24, 6 febbraio 2018

• K. Marx, Lineamentifondamentali della criticadell’economia politica, vol. I,La Nuova Italia, 1968, p. 53, p. 187.

dizioni inerenti al denaro in quan-to rapporto sociale: “Le varie for-me del denaro possono anche cor-rispondere meglio alla produzionesociale a tutti i livelli; e l’una può e-liminare inconvenienti per i qualil’altra non è matura; ma nessuna,

finché esse rimangono forme deldenaro, e finché il denaro rimaneun rapporto di produzione essen-ziale, può togliere le contraddizio-ni inerenti al rapporto del denaro:può soltanto rappresentarle in u-na forma o nell’altra” (Marx).


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