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I quantobasta della Libreria Archeologica 2 - Sapienza · Il volume è pubblicato da ... medioevo...

Date post: 15-Feb-2019
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I quantobasta della Libreria Archeologica 2

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“I quantobasta della Libreria Archeologica”è una collana di manuali tascabili a cura diREM - Roma Europa e Mediterraneo Antico

Collana diretta da:Gianfranco De Rossi, Filippo Avilia

Coordinamento editorialeSimona Lauro

Comitato scientifico:

Gianluca SoricelliUniversità degli Studi del Molise

Enrico A. StancoSoprintendenza Archeologica della Provincia di Caserta

Lucia SaguìSapienza Università di Roma - Facoltà di Scienze Umanistiche

Philippe PergolaUniversité de Provence, Aix-Marseille I

Il volume è pubblicato da

ESPERA s.r.l.Editoria e Servizi per ArcheologiVia Carlo Botta, 11 - 00184 RomaTel. 06 70451648e-mail: [email protected]

1° edizione, maggio 2010

ISBN 9788890305634Tutti i diritti riservati

Impaginazione e copertinaNicola Masuottolo / www.nickmason.it

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LUCIA SAGUÌIl vetro antico

2I quantobasta della Libreria Archeologica

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I quantobasta della Libreria Archeologica

INTRODUZIONE

Il vetro antico è quasi sconosciuto agli archeologi. I frammenti rinvenuti

negli scavi sono in genere considerati oggetti misteriosi, da riporre

immediatamente tra gli special finds affinché le abili mani di un esperto

possano in futuro toccarli e dare loro un’interpretazione. Quanti decideranno

di avvicinarsi all’argomento scopriranno invece che non esistono misteri,

e avranno molte piacevoli sorprese.

Non possiamo tuttavia nascondere che lo studio del vetro presenta qualche

problema supplementare rispetto a quello della ceramica e di altre classi

dell’instrumentum.

La sua fragilità rende praticamente impossibile il ritrovamento di esemplari

più o meno integri in uno scavo, a meno che non si tratti di contesti funerari

nei quali il vetro figura come elemento del corredo.

Le caratteristiche del materiale non permettono in genere di risalire all’area

di produzione di un oggetto, così come potremmo fare, ad esempio, grazie

al tipo di argilla e di vernice, nel caso di un frammento di sigillata italica

o africana.

Forme diverse possono condividere alcuni elementi significativi: lo stesso

tipo di orlo o di fondo può essere comune a piatti, scodelle, coppe, bicchieri.

Forme identiche possono essere prodotte in ambiti geografici differenti.

Nei contesti archeologici il vetro è più raro della ceramica, in quanto anche

nell’antichità era soggetto alla pratica del riciclo.

Sono questi alcuni dei motivi per i quali l’ingresso del vetro nel campo degli

studi antichistici è relativamente recente. A Donald B.Harden, che ne fu il

fondatore, dobbiamo il primo rapporto scientifico interamente riservato ai

vetri provenienti da uno scavo controllato. Pubblicato nel 1936, Roman glassfrom Karanis found by the University of Michigan Archaeological Expedition inEgypt, 1924-1929, rappresenta il modello al quale alcuni ricercatori del secolo

scorso si sono ispirati. Tanti altri sono stati, nell’arco della sua lunga attività,

i temi trattati in relazione al vetro da questo studioso davvero enciclopedico,

come si evince dalla sconfinata bibliografia raccolta in un volume in suo

onore (Newby-Painter 1991, pp. XI-XIX).

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I quantobasta della Libreria Archeologica

Altra pietra miliare è il lavoro di Clasina Isings. Pubblicato nel 1957, Romanglass from dated finds rappresenta la prima sistematizzazione tipologica a

tutto campo dei contenitori in vetro di età romana.

Ma la strada indicata dai primi maestri, che pure determinò o comunque favorì

la nascita, negli anni Cinquanta del secolo scorso, di una rivista specializzata

negli studi del vetro antico e moderno (Journal of Glass Studies, 1, 1959- ) e di

un’Associazione ad esso dedicata (AIHV: Association Internationale pour

l’Histoire du Verre, a cura della quale sono pubblicati gli Atti dei Congressi -

17 i volumi finora editi-), non è stata sempre seguita e il vetro, a differenza di

altre classi dell’instrumentum, ha continuato a lungo a rimanere relegato tra i

reperti minori degli scavi, o ad essere esaltato per gli aspetti estetici di esemplari

eccezionali ma ormai privi di contesto e quindi senza storia.

Negli ultimi anni, finalmente, si sono rivelate in pieno tutte le sue potenzialità.

Gli studi di carattere tipo-cronologico, storico-artistico e storico-economico,

arricchiti dalle nuove scoperte archeologiche e dall’impulso delle ricerche

archeometriche e di archeologia sperimentale permettono ormai di considerare

il materiale vetro come un importante indicatore di fenomeni economici e

produttivi, di scambi, di sviluppi tecnologici, di gusti della società antica e

anche, più semplicemente ma finalmente, come elemento affidabile per la

datazione.

Glass is hot, scrive Marianne Stern, una delle maggiori autorità nel campo,

passando in rassegna le più recenti pubblicazioni sul vetro (E.M. Stern, Glassis hot, in American Journal of Archaeology, 106, 2002, pp. 463-471).È vero, il vetro è materia ormai “bollente”, ed è sempre più sentita la necessità

di un lavoro di sintesi, che dia conto anche delle più recenti acquisizioni e

sperimentazioni, poiché ogni specialismo rischia di produrre un dannoso

isolamento.

Lo scopo di un QuantoBasta non è questo, ma forse è altrettanto ambizioso: esso

conta infatti di avvicinare gli archeologi non specialisti ai reperti provenienti

dagli scavi, quasi sempre ridotti in frammenti apparentemente modesti, perché

attraverso una conoscenza più diretta, unita alla curiosità e alla consapevolezza

del loro potenziale informativo, siano stimolati a contribuire in prima persona

ad un ulteriore sviluppo degli studi.

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1 - LE COMPONENTI DEL VETRO

La caratteristica principale del vetro consiste nel passare gradualmente

dallo stato liquido a quello solido attraverso una fase nella quale è abbastanza

“morbido” da poter essere lavorato. La viscosità dipende dalla temperatura

e dalla composizione.

Il vetro antico è ottenuto dalla sintesi di tre principali componenti: una

materia prima che vetrifica, un fondente e uno stabilizzante.

• La materia prima (70% ca.) è la silice sotto forma di ossido (SiO2), presente

in natura nelle sabbie o ricavabile dalla frantumazione di ciottoli ricchi

di quarzo.

• Il fondente (20% ca.) è necessario ad abbassare la temperatura di fusione

della silice, troppo elevata per la tecnologia antica (1700°), e a conservare

il vetro nello stato di viscosità che ne consente la lavorazione (intorno

ai 1000°). Il principale fondente usato dall’età romana fino agli inizi del

medioevo è un minerale noto con il nome arabo di natron (lat. nitrum).

Il natron, costituito da carbonato di sodio, proveniva essenzialmente

dall’Egitto, e in particolare dalla regione di Wadi an Natrun. In questa

zona, tra Il Cairo e Alessandria, il natron era presente in natura in una

serie di piccoli laghi salati stagionali, sotto forma di croste ed efflorescenze.

In Egitto il natron era usato anche per altri scopi, quali l’imbalsamazione,

la preparazione di sostanze medicinali, la sbiancatura del lino.

Un’altra fonte di sodio è costituita dalle ceneri di piante che, crescendo

in terreni salini, quindi lungo le spiagge o in zone semidesertiche, sono

definite alòfite (salicornie, tamerici, ecc.).

• Lo stabilizzante (10% ca.) ha la funzione di rendere il vetro più resistente

dal punto di vista chimico e di limitarne quindi la tendenza alla corrosione

e all’opacizzazione. Il principale stabilizzante del vetro antico è il calcio,

sotto forma di ossido (CaO).

Le impurità, e in particolare di ossidi di ferro contenuti nelle sabbie, davano

al vetro quello che si definisce il colore naturale: verde-azzurro, verde-

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giallastro, verde con diverse sfumature. Per colorare o decolorare il vetro,

o per renderlo opaco, alla miscela dovevano essere aggiunti altri ingredienti.

Gli agenti coloranti erano usati in forma di ossidi: tra i più comuni il rame

o il cobalto per ottenere il verde e il blu, lo zolfo per l’ambra, il manganese

per l’ametista.

Per decolorare si impiegavano composti di antimonio o manganese:

quest’ultimo, usato dall’età romana fino ai giorni nostri, è infatti definito

“sapone dei vetrai”.

Per opacizzare si introducevano, a seconda dei colori voluti e dei periodi,

antimonio, stagno e rame.

Lo stato di alterazione (ingl.: weathering) della maggior parte dei vetri antichi

fa sì che essi abbiano perso la brillantezza dei colori originari, e che siano

coperti da iridescenze (spesso erroneamente interpretate come effetti voluti)

o da patine lattiginose o scure, veri e propri strati di deterioramento, a volte

anche sovrapposti.

Una componente importante era infine rappresentata dal vetro riciclato,

che oltre ad aumentare la massa consentiva un ulteriore abbassamento della

temperatura di fusione. Così come ai nostri giorni, dunque, almeno a partire

dall’età flavia, secondo quanto possiamo ricostruire attraverso le fonti, gli

antichi riutilizzavano il vetro rotto. Che esistesse un vero e proprio commercio

di questo materiale è dimostrato anche dal carico rinvenuto in alcuni relitti,

quali quelli di Grado (II secolo d.C.) e di Serçe Limani, sulle coste meridionali

della Turchia (XI secolo).

Nell’antichità, del resto, ogni sorta di materiale era soggetta al riuso: dai

metalli ai marmi, dai tessuti al legno. Solo i manufatti in argilla, una volta

rotti, non potevano essere sottoposti al riciclaggio. Anche per questo motivo

la ceramica, testimone involontaria e ubiquitaria, riveste un ruolo

fondamentale per la conoscenza dell’economia e delle società del passato.

Nel considerare i rapporti quantitativi tra prodotti vitrei e prodotti ceramici

rinvenuti nei siti archeologici bisognerà dunque tenere conto di questa

pratica, che incide fortemente sulla presenza dei primi, non tanto nei contesti

funerari quanto, evidentemente, in quelli abitativi.

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2 - L’ORGANIZZAZIONE DELLA PRODUZIONE

Negli anni più recenti il lavoro di molti studiosi si è concentrato

sull’organizzazione della produzione vetraria. Il modello intorno al quale

esiste un notevole consenso vede una netta distinzione tra produzione della

materia prima e lavorazione del vetro, quindi tra officine primarie e officine

secondarie.

Officine primarie

Poiché la sabbia è una componente quasi ubiquitaria si potrebbe pensare

che la fabbricazione del vetro fosse estremamente diffusa nel mondo antico.

Ma, pur essendo le sabbie molto diverse tra loro, il vetro di età romana e

dei primi secoli del medioevo rinvenuto in Occidente è caratterizzato da

una grande omogeneità. Il fenomeno era stato in genere spiegato con

l’utilizzazione di una stessa ricetta da parte di tutti i vetrai: ma come

giustificare in questo caso la presenza di alcuni elementi chimici dei quali

gli artigiani antichi non potevano essere assolutamente a conoscenza?

Le analisi di laboratorio sempre più frequenti e sofisticate condotte sui

reperti e le scoperte archeologiche degli anni recenti contribuiscono a

delineare un quadro che possiamo schematizzare nel modo seguente.

Il vetro antico, fino alle soglie del medioevo, utilizzava quasi esclusivamente

come fondente il natron egiziano e come principale vetrificante la sabbia

dell’area costiera siro-palestinese. In particolare si sarebbe trattato delle

sabbie presenti alla foce del fiume Belus (attuale Nahr Naaman),

eccezionalmente adatte anche perché contenenti già in origine, sotto forma

di minuscole conchiglie, una giusta percentuale di calcio, usato come si è

detto in qualità di stabilizzante. Sembra del resto che tale funzione fosse

sconosciuta ai vetrai antichi, ai quali sarebbe stato impossibile selezionare

sabbie con una giusta quantità di questa componente.

Una conferma della “mappa cromosomica” tracciata dalle analisi è venuta

dalle scoperte degli archeologi che hanno messo in luce, nella stessa area

costiera siro-palestinese, una serie davvero considerevole di officine nelle

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quali si produceva il vetro grezzo, e che per questo motivo sono definite

officine primarie (Fig. 1).

Particolarmente importante è il sito di Bet Eli’ezer, presso Cesarea, dove

sono stati rinvenuti ben 17 grandi forni datati tra il VI e gli inizi dell’VIII

secolo. Le strutture erano costituite da una camera di fusione rettangolare

e da due prefurni. L’aria calda proveniente da questi attraversava la camera,

riempita di sabbia e natron, e fuoriusciva da un camino (Fig. 2). Al termine

del processo la volta della camera veniva demolita per estrarne un grande

blocco di vetro, che era poi ridotto in pezzi per consentirne il trasporto. Gli

impianti non erano stabili, perchè funzionavano fino all’esaurimento del

combustibile presente nella zona, e poi venivano abbandonati per essere

ricostruiti in un’area vicina. Si è stimato che ciascuno di questi forni potesse

produrre per ogni cottura diverse tonnellate di vetro grezzo, corrispondenti

all’incirca a un milione di recipienti finiti del peso medio di 150 grammi.

Anche in Egitto, proprio nella regione di Wadi an Natrun, sono stati

individuati numerosi atelier primari, attivi nei primi secoli dell’età imperiale

Fig. 1 - Atelier primari e secondari nell'area costiera siro-palestinese e in Egitto(da Foy 2003, p. 26)

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Fig. 2 - Pianta, sezione e ricostruzione di uno dei forni di Bet Eli’ezer(da Gorin-Rosen 2000, figg. 3-4)

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romana i quali, succedutisi nel tempo, hanno creato addirittura con i loro

detriti alcune collinette artificiali. Sembra tuttavia che la maggior parte dei

prodotti di queste e di altre officine egiziane non fosse destinata

all’esportazione.

Da un passo di Plinio (NH XXXVI, 194) potremmo dedurre in realtà l’esistenza

di officine primarie anche in Campania. Ma di questi atelier, che avrebbero

usato le sabbie del Volturno, non è stata finora rinvenuta alcuna testimonianza

archeologica. L’uso di queste sabbie potrebbe essere stato del resto un

fenomeno di breve durata, conclusosi in seguito alla contaminazione

provocata dall’eruzione vulcanica del 79 d.C.

Una sorta di triangolazione legava dunque l’Egitto (natron) all’area del

Belus (sabbia), e dava luogo ad una produzione fortemente centralizzata

che si sviluppava in officine specializzate, dotate di impianti posti in

prossimità delle fonti di approvvigionamento. Qui si fondevano enormi

masse di vetro che poi venivano spaccate e distribuite, sotto forma di

cosiddetti pani o lingotti, a tutti gli altri centri. Questi centri minori non

necessitavano di impianti complessi, perché svolgevano un lavoro limitato

alla rifusione di materiale prelavorato: per questo motivo sono definiti

officine secondarie.

Nessuna struttura di tipo primario è stata del resto rinvenuta finora in

Occidente. Qui al contrario, grazie all’attenzione che ormai l’archeologia

ha sviluppato per gli aspetti produttivi, si fanno sempre più frequenti i

ritrovamenti non solo di quelli che si definiscono indicatori della produzione

vetraria (blocchi di vetro non lavorato, crogioli, ritagli, provini, ecc.: v. p.

00)), ma anche di piccoli forni. Le dimensioni ridotte e la semplicità di queste

strutture indicano che la loro funzione era limitata alla rifusione del vetro

grezzo, eventualmente con aggiunta di coloranti, decoloranti, opacizzanti

e di vetro riciclato, e con notevole risparmio di spese per il combustibile,

per lo stoccaggio e per il trasporto. L’integrazione di questi piccoli atelier

nel tessuto urbano rendeva più facili da un lato la distribuzione dei prodotti,

dall’altro il rifornimento di materiale da riciclare. Gli strumenti da lavoro

quali i crogioli che, sia pure raramente, sono stati rinvenuti nei pressi degli

impianti, sono spesso ricavati da ceramiche refrattarie ma di uso comune:

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si tratta dunque di oggetti non particolarmente specializzati, perché non

dovevano sostenere temperature troppo alte. La somiglianza con i modesti

atelier ancora oggi operanti in Oriente, sebbene ormai in via di estinzione,

deriva proprio dal fatto che anche questi continuano ad usare,

sostanzialmente, vetro prelavorato e riciclato.

La tesi del commercio da Oriente a Occidente è avvalorata anche dal

rinvenimento di numerosi relitti che trasportavano lingotti e dall’analisi di

queste masse che, spaccate in pezzi informi, si ritrovano con una certa

frequenza negli scavi, fornendoci l’indicazione della probabile vicinanza di

un’officina secondaria.

Il sistema produttivo fin qui descritto, frutto di una tradizione ormai

millenaria, cambia nel corso del IX secolo d.C.. In questo periodo si verifica

una svolta radicale sul piano tecnologico: l’Egitto non esporta più il natron,

e il fondente che questo forniva sarà ricavato dalle ceneri vegetali. In questa

fase le produzioni dell’Europa continentale andranno distinguendosi da

quelle dei paesi mediterranei per l’uso di un fondente potassico, ricavato

da ceneri di piante diverse.

Per orientarci nella lettura delle analisi, senza certo pretendere di interpretarle,

diremo quindi che la definizione di un campione di età romana o del primo

medioevo, realizzato con il natron come fondente, potrebbe essere la seguente:

“vetro di tipo silico – sodico – calcico”, con basso contenuto di potassio,

magnesio e fosforo. Queste tre componenti sono infatti sempre presenti in

quantità superiori nelle ceneri vegetali di entrambi i tipi, in quanto essenziali

per la crescita delle piante.

L’impossibilità di usare il natron non avrebbe determinato conseguenze

tanto importanti se fosse stato possibile continuare a sfruttare le sabbie del

Belus. Ma queste, essendo ricche di impurità e di calcio, potevano sopportare

soltanto un fondente molto puro, quale il natron. Con un fondente come

quello ricavato dalle ceneri vegetali, già contenente calcio e altri componenti,

potevano al contrario essere impiegate soltanto sabbie di natura diversa,

più depurate.

Che la sabbia del fiume Belus non potesse più essere usata con il nuovo tipo

di fondente è dimostrato anche da un eccezionale rinvenimento archeologico,

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avvenuto nel sito di Bet She‘arim, in Israele: una gigantesca lastra di vetro

di quasi 9 tonnellate, esito di una fusione mal riuscita, e per questo

abbandonata sul posto, probabilmente nel corso del IX secolo. Recenti studi

hanno dimostrato che la fusione era stata effettuata con materiali

incompatibili: uno tradizionale (la sabbia del Belus) e uno con il quale si

aveva evidentemente ancora poca dimestichezza (le ceneri vegetali). L’esito

era stato disastroso, perché il nuovo fondente aveva un contenuto di calcio

troppo alto per essere usato con sabbie di quel tipo.

È dunque nel corso del IX secolo che possiamo individuare, per quanto

riguarda il vetro, la fine del modello produttivo caratteristico dell’età romana.

L’ interruzione del grande commercio di vetro grezzo da Oriente a Occidente

decreta anche la fine di quella netta divisione del lavoro tra produttori della

materia base ed esecutori degli oggetti, e la nascita di centri autosufficienti

nei quali si svolgerà l’intero ciclo produttivo del vetro. A partire da questo

momento le analisi indicano una minore omogeneità delle ricette, segno di

un ricorso più generalizzato a materie prime disponibili localmente.

Il racconto di Plinio (NH, XXXVI, 190-191), secondo il quale la scoperta del

vetro sarebbe avvenuta casualmente proprio alla foce del fiume Belus,

sebbene accompagnato da elementi leggendari, coglie dunque una sostanziale

verità, consentendo anche di farla risalire più indietro nel tempo rispetto

a quanto gli studi hanno finora potuto dimostrare. Gli autori della scoperta

sarebbero stati, secondo Plinio, alcuni mercanti che, sbarcati alla foce del

fiume, avrebbero usato, in mancanza di pietre, i blocchi di natron oggetto

del loro commercio per allestire un focolare. Il calore avrebbe fuso sabbia

e natron, facendo scorrere rivoli di un liquido sconosciuto. Poco importa,

a questo punto, osservare che né la temperatura né la durata di questa

estemporanea fusione all’aperto avrebbero realmente potuto dar luogo al

vetro.

Officine secondarie

I forni per la rifusione del vetro grezzo, che definiamo officine secondarie,

sono costruzioni modeste. Capaci di accogliere un solo artigiano perché

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dotate di un'unica postazione di lavoro, sono destinate ad una breve durata

e quindi realizzate in modo piuttosto precario. La loro introduzione avviene

contestualmente alla diffusione della tecnica della soffiatura (fine I secolo

a.C. - inizi I secolo d.C.), che per le sue caratteristiche richiedeva strutture

stabili. In precedenza dovevano essere utilizzati forni ancora più piccoli,

forse mobili, dei quali non è un caso che non si rinvengano testimonianze

archeologiche.

In genere i forni sono conservati soltanto al livello della fondazione (Fig.

3a-b): nel corso di uno scavo o di una ricognizione si potrebbe così correre

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I quantobasta della Libreria Archeologica

Fig. 3a-b - Forno da vetro rinvenuto a Roma (Crypta Balbi) e ricostruzione(da Saguì 2007, figg. 3-4)

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il rischio di non identificarli, o di sottovalutarne l’importanza. È dunque

opportuno conoscere da un lato le loro caratteristiche strutturali, dall’altro

la tipologia dei reperti connessi alla lavorazione che potrebbero essere diffusi

nell’area circostante e che, anche in assenza del forno vero e proprio,

rappresentano un importante indizio dell’attività svolta sul sito (v. indicatori

di produzione, p...).

La struttura generale dei forni è nota soprattutto attraverso la documentazione

archeologica. Le testimonianze iconografiche sono infatti rare e spesso

ambigue, poiché non è sempre possibile stabilire a quale delle arti del fuoco

si riferisca l’impianto rappresentato. La sola eccezione è costituita dalla

decorazione sul disco di tre lucerne, ottenute dalla stessa matrice, che

raffigura un vetraio intento alla soffiatura accanto al forno. Le lucerne sono

del tipo a volute con becco a ogiva, databile tra la metà e la seconda metà

del I secolo d.C. (Fig. 4a-b).

La tecnica della soffiatura andava diffondendosi proprio in questo periodo

e il soggetto, complesso e non più sfruttato in seguito, deve essere stato

scelto per la sua originalità.

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Fig. 4a-b - Raffigurazione di un forno da vetro sul disco di una lucerna(da Lazar 2005, figg. 2-3)

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La scena mostra il forno, costituito da due parti: in basso lo spazio nel quale,

attraverso l’apertura del prefurnio, si inseriva il combustibile; in alto la

camera di fusione, anch’essa dotata di un accesso nel quale si introduceva

la canna da soffio per il prelievo del vetro fuso dal crogiolo. Una serie di

tratti indica la fuoriuscita del fumo attraverso alcune piccole aperture (fori

per il tiraggio) che dovevano essere ricavate nelle pareti della camera di

fusione. Sulla destra del forno un artigiano è intento alla soffiatura del bolo

di vetro, visibile all’estremità della canna; sulla sinistra un altro personaggio

è piegato, nell’atto di usare probabilmente un mantice. Una sporgenza

rettangolare all’esterno del forno, tra le due camere, indica il cosiddetto

marmo, cioé il piano di lavoro sul quale il vetro, nel corso della soffiatura,

veniva più volte poggiato e fatto ruotare con la canna per evitare

deformazioni. La raffigurazione delle tre lucerne e il confronto con gli

impianti artigianali più modesti, ancora operanti nei paesi industrialmente

meno avanzati, consentono di comprendere e integrare le testimonianze

archeologiche, a volte molto labili.

Dei forni da vetro si conserva infatti in genere soltanto la cosiddetta suola,

cioé la parte inferiore della camera di combustione, leggermente scavata

nel terreno. La pianta è per lo più circolare e il diametro interno generalmente

non raggiunge 1 metro. L’elevato è frequentemente in laterizi legati da malta

o argilla; anche l’interno può essere rivestito da uno strato di argilla che,

come i laterizi, presenta spesso tracce di vetrificazione. Della parte superiore

è difficile rinvenire tracce se non tra i resti del crollo. In questo spazio,

comunicante con quello inferiore, si svolgeva la fusione del vetro. Poiché

l’uso dei crogioli sembra generalizzarsi solo in età tardoantica, è possibile

che in precedenza il vetro fosse disposto in un apposito incasso ricavato sul

piano della camera di fusione. Le pareti e la volta dell’ambiente dovevano

essere provviste di piccole aperture che, consentendo il tiraggio del forno,

potevano essere chiuse all’occorrenza da una sorta di “tappo” in argilla,

manovrabile con un uncino.

Eccezionale è il caso di uno dei forni di Lione che, essendo stato costruito

a ridosso di un rilievo naturale, ha conservato un altro dispositivo: un

piccolo vano rettangolare nel quale doveva avvenire il raffreddamento

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graduale dei manufatti (ingl.: annealing), che non avrebbero potuto resistere

ad un rapido cambiamento di temperatura (shock termico).

È probabile che la maggior parte dei forni di età romana prevedesse uno

spazio con questa funzione, adiacente o sovrastante la struttura principale,

che in questo caso doveva presentare una tripartizione in senso verticale.

Una miniatura del Codice 132 De Universo di Rabano Mauro, redatto a

Montecassino nel 1023, ci offre la più antica raffigurazione di un forno di

questo tipo, probabilmente derivata da un disegno di età tardoantica (Fig. 5).

La camera riservata al raffreddamento è qui chiaramente individuata dal

calice adagiato al suo interno.

La durata dei forni da vetro, così come quella di altre strutture sottoposte

a temperature molto elevate, doveva essere relativamente breve. In un’area

produttiva non è quindi raro trovare più forni costruiti in sequenza e a

breve distanza, a volte addirittura sovrapposti. L’officina di Kaiseraugst,

l’antica Augusta Raurica, comprendeva almeno 14 forni la cui attività si

Fig. 5 - Miniatura del De Universo di Rabano Mauro raffigurante un forno davetro con soprastante camera di raffreddamento (da Sternini 1995, fig. 58)

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svolse complessivamente per circa un quarto di secolo, dal 130 al 160 d.C.

Il caso più eclatante, che testimonia anche la continuità e il radicamento

della pratica artigianale, è rappresentato da Lione, l’antica Lugdunum.

Famosa soprattutto per le succursali delle fabbriche aretine, la città ha

rivelato un intero quartiere artigianale nell’ambito del quale anche la

fabbricazione del vetro aveva una grande importanza. Nel quartiere, che

si sviluppava lungo la riva sinistra della Saône, in una posizione strategica

per l’approvvigionamento delle materie prime e per la distribuzione dei

prodotti, sono stati finora rinvenuti almeno 16 forni vetrari, che testimoniano

un’attività protrattasi dal I secolo d.C., pochi decenni dopo l’invenzione

della soffiatura, fino al III e forse oltre. La stele di Iulius Alexander, opifexartis vitriae, rinvenuta in una delle necropoli della città e databile alla prima

metà del III secolo, documenta d’altra parte il fiorire dell’attività vetraria

ancora in questo periodo. Da Lione, probabilmente il più antico e comunque

il più importante centro di produzione vetraria della Gallia, l’artigianato

del vetro si sarebbe diffuso in tutta la provincia.

Officine secondarie per la produzione del vetro sono diffuse in tutte le

province dell’impero. La natura della documentazione è molto varia e

spesso, soprattutto nel caso di rinvenimenti antichi, ricostruzione e datazione

sono destinate a rimanere ipotetiche. Le indagini più recenti dimostrano,

tuttavia, le potenzialità che lo scavo e lo studio di impianti di questo tipo

e dei loro reperti, se condotti con attenzione e consapevolezza, possono

offrire alla comprensione degli aspetti tecnologici e produttivi.

Emblematici sono, a questo proposito, i casi degli atelier di Avenches, in

Svizzera, e di Jalame, in Israele.

L’atelier di Avenches, l’antica Aventicum, capitale degli Elvezi e colonia al

tempo di Vespasiano, posta alla confluenza di importanti vie di

comunicazione fluviali e terrestri, sorgeva alla periferia della città ed era

dotato di almeno 5 forni attivi negli anni tra il 40 e il 70 d.C.

L’atelier di Jalame, presso Haifa, non lontano dalla foce del fiume Belus,

indagato proprio allo scopo di raccogliere dati sulla storia della tecnologia

vetraria e scelto tra molti altri siti dell’antica Palestina che offrivano

testimonianze produttive dall’età ellenistica alla prima età bizantina, nasce

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nel 350 d.C. e prosegue la sua attività per un trentennio.

In entrambi i casi l’analisi delle testimonianze materiali e soprattutto dei

numerosi resti di lavorazione ha consentito anche di risalire agli strumenti

usati dagli artigiani e ai loro gesti, ricostruendo così l’intera catena operativa

e il repertorio delle forme prodotte negli atelier.

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3 - LE PRODUZIONI PIÙ ANTICHE

Le più antiche testimonianze archeologiche sulla lavorazione del vetro

risalgono alla fine del III millennio a.C. e rimandano all'area della

Mesopotamia. In questo periodo non erano ancora prodotti recipienti, ma

piccoli oggetti quali monili e intarsi che imitavano le pietre preziose, in

particolare il lapislazzuli.

I primi contenitori in vetro sono documentati intorno alla metà del II

millennio nella Mesopotamia settentrionale e in Egitto (Fig. 6). Si tratta

quasi esclusivamente di forme chiuse di piccole dimensioni, che imitano la

ceramica coeva e sono destinate a contenere unguenti, profumi e cosmetici.

Queste forme sono realizzate con il procedimento definito modellazione su

nucleo friabile.

Nel corso del I millennio la produzione di piccoli contenitori ottenuti con

questa tecnica si estende alle nuove realtà economiche e politiche dell'Asia

occidentale e del mondo mediterraneo, raggiungendo la massima popolarità

e diffusione tra la metà del VI secolo a.C. e i primi anni del I secolo d.C.

Sebbene distinta in 3 gruppi (Mediterraneo

I, II, III) sulla base del repertorio tipologico

e decorativo, dei centri produttori

(identificati rispettivamente con Rodi, l'Italia

meridionale e forse altre officine non ancora

individuate, l'area siro-palestinese o siro-

cipriota) e della distribuzione, tutta la

produzione della seconda metà del I

millennio mostra una certa “aria di famiglia”

(Fig. 7a-c). Questa impressione è dovuta

soprattutto all'imitazione delle forme della

ceramica greca, tra le quali prevalgono

alabastra, aryballoi, amphoriskoi, oinochoai. La

Fig. 6 - Amphoriskos egiziano prodotto con la tecnica della modellazione su nucleofriabile (1400-1350 a.C. ca.) (da Grose 1989, p. 40, fig. 5)

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Fig. 7a-c - Esemplari del gruppo Mediterraneo I (a), II (b), III (c) (da Grose 1989,p. 99, n. 119; p. 101, n. 124; p. 107, n. 172)

tecnica della modellazione su nucleo, che rappresenta un’evoluzione

fondamentale nella produzione vetraria, resterà dunque in uso per oltre 15

secoli, fino alla tarda età ellenistica.

La tecnica (Fig. 8) consisteva nel plasmare, all’estremità di un’asta metallica,

un bulbo di argilla, sabbia e sostanze organiche leganti, dandogli la forma

corrispondente all’interno del recipiente da realizzare. Il bulbo, definito

appunto nucleo, veniva rivestito di vetro intorno al quale si avvolgeva

poi una serie di filamenti di colori diversi che potevano ricevere, mediante

un apposito strumento, un tipico andamento a zig-zag, a piume o a festoni.

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Fig. 8 - Modellazione su nucleo friabile: principali fasi di lavorazione(da Grose 1989, p. 31, fig. 4)

Per effetto del calore i filamenti applicati si fondevano con il vetro che

costituiva il corpo del vaso. Erano poi aggiunti e sagomati l’orlo, il piede

e le eventuali anse. A raffreddamento avvenuto l’asta veniva rimossa e

il nucleo frammentato ed eliminato. Il contatto del vetro con il nucleo

conferisce alle pareti interne una particolare scabrosità, che consente di

distinguere facilmente i recipienti prodotti con questa tecnica anche se

ridotti in piccolissimi frammenti.

Recenti studi dimostrerebbero che il rivestimento del nucleo non avveniva

per immersione, in quanto in questo periodo non esistevano ancora fornaci

e crogioli adatti alla fusione, ma per applicazioni successive di polvere

di vetro, che veniva più volte sottoposta ad una fonte di calore. Nel caso

dei vasi riferibili all’ultima fase produttiva (gruppo Mediterraneo) è stato

dimostrato che il corpo poteva essere ottenuto avvolgendo intorno al

nucleo un filamento che, sotto l’effetto del calore, dava luogo ad un

rivestimento omogeneo.

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4 - L’ETÀ ELLENISTICA:CONTINUITÀ E INNOVAZIONI

L'età ellenistica, che vede un'intensa produzione dei vasi realizzati ancora

con l'antica tecnica del nucleo friabile (gruppi Mediterraneo II e III), segna

una svolta fondamentale anche nel campo dell'artigianato vetrario. Si

sviluppa infatti, a partire dal III secolo a.C., un nuovo repertorio di forme,

non più di piccole dimensioni, prodotte con una tecnica diversa: quella

della matrice.

Di questa tecnica abbiamo alcune testimonianze già nei secoli precedenti,

nel corso dei quali era stata tuttavia riservata alla produzione di contenitori

il cui grande valore è indicato dalla rarità e dal rinvenimento in contesti

privilegiati. Tra gli insiemi più significativi vanno segnalate le coppe

emisferiche emerse tra le rovine dei palazzi di Nimrud (fine VIII/VII secolo

a.C.), ritenute di produzione assira o fenicia, e le coppe achemenidi del

tesoro palaziale di Persepoli (fine V/IV secolo), che per forma e decorazione

rimandano ad esemplari in argento e in bronzo dello stesso periodo (Fig. 9).

Fig. 9 - Coppe e piatti achemenidi del V e IV secolo a.C.(da Grose 1989, p. 80, fig. 48)

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L'affermarsi della tecnica della matrice, che consente di realizzare in tempi

relativamente brevi recipienti di forme anche complesse, va vista alla luce

delle trasformazioni che caratterizzano l'età ellenistica. In questo periodo

infatti l'espansione dei commerci, l'apertura di nuovi mercati, lo sviluppo

delle classi medie favoriscono la diffusione dell'artigianato a livello

“industriale”, determinando anche un grande incremento della manifattura

vetraria e la moltiplicazione dei centri produttori. La koinè ellenistica si

riflette anche nelle forme in vetro che, fra il III e il II secolo a.C., compaiono

ora con una certa frequenza in Grecia, in Asia Minore, sulle coste del mar

Nero, in Italia (soprattutto in Magna Grecia, Sicilia, Etruria), in Cirenaica.

Si tratta di una decina di forme diverse, nelle quali è evidente l'intenzione

di comporre un servizio (piatti, coppe, crateri, skyphoi, un'anfora), tutte

derivate da prototipi in argento e in ceramica (Fig. 10). Nella maggior parte

dei casi il vetro è intenzionalmente decolorato, ma non mancano esemplari

in colori molto accesi (blu, acquamarina, porpora) o con decorazioni dipinte,

tra le quali è usato anche l'oro, a volte costituito da una sottilissima lamina

racchiusa tra due strati di vetro. Piatti, coppe e, più raramente, altre forme

sono realizzati in qualche caso anche in vetro policromo, ottenuto

assemblando sezioni di canne con motivi e colori diversi (vetro mosaico):

si tratta di una tecnica molto rara nei secoli precedenti, che ora le officine

organizzano e perfezionano, e che vedremo esplodere tra la fine dell'età

ellenistica e gli inizi dell'età imperiale romana.

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Fig. 10 - Principali forme del “gruppo di Canosa” (da Grose 1989, p. 186, fig. 92)

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Per indicare i vasi in vetro di questo periodo si usa la definizione “gruppo

di Canosa”, derivata dalla loro particolare concentrazione tra i corredi dei

monumentali ipogei appartenenti ai ceti dominanti fortemente ellenizzati

della ricca città dauna.

Anche se prodotti in luoghi diversi (tra i quali sono stati chiamati in causa

Alessandria, la capitale dell'Egitto tolemaico, uno dei principali centri

produttori di ogni sorta di beni di lusso in questo periodo, e l'Italia

meridionale), i vasi del “gruppo di Canosa” risaltano per la loro omogeneità

e per la loro raffinatezzasi tratta di una merce di lusso, ancora riservata alle

élites.

A lungo si è discusso a proposito del tipo di matrici impiegate per realizzare

i vasi della prima età ellenistica. Le sperimentazioni, condotte soprattutto

in anni recenti, sembrano escludere il procedimento della cera perduta

che, utilizzato nel campo della metallurgia, era ritenuto in passato uno

dei più plausibili. Tale procedimento (Fig. 11) sarebbe consistito nel

versare vetro in polvere nello spazio che, racchiuso tra due valve, conteneva

il modello in cera con la forma corrispondente a quella del vaso che si

voleva ottenere. La cera, liquefatta per effetto del calore, sarebbe fuoriuscita

da appositi fori e sarebbe stata sostituita da piccoli frammenti di vetro.

Un metodo più rapido, giustificato anche dalle tracce visibili sulle pareti

dei vasi, sembra potesse consistere nel ricavare da un modello in cera

una matrice di gesso o di altro materiale plasmabile. Una volta inserito

il vetro allo stato viscoso nella matrice, che avrebbe determinato il profilo

esterno del vaso, la massa sarebbe stata pressata per mezzo di “pistoni”

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Fig. 11 - Realizzazione di una coppa con il procedimento della cera perduta(rielaborazione da Schuler 1959, p. 49)

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in legno variamente sagomati, la cui forma corrispondeva a quella

dell'interno (Fig. 12). Durante questa operazione la matrice veniva

probabilmente disposta su un tornio, in modo che la spinta verticale del

“pistone”, associata al movimento rotatorio, determinasse una

distribuzione più uniforme del vetro.

Tra la fine del II e gli inizi del I secolo a.C. si compie un ulteriore progresso

verso la semplificazione dei sistemi produttivi e del repertorio formale:

questo costituirà l'elemento determinante per una definitiva e più

generalizzata diffusione del vetro. Responsabili delle innovazioni furono

certamente le officine dell'area costiera siro-palestinese, già impegnate nella

produzione e nel commercio del vetro nei secoli precedenti e ancora famose

ai tempi di Strabone (fine I secolo a.C.), che attribuisce loro la scoperta del

vetro, e di Plinio (I secolo d.C.), che definirà la città di Sidone artifex vitri.Le indagini archeologiche effettuate in questa zona, e in particolare nel

villaggio di Tel Anafa, nella Galilea settentrionale, in contesti datati tra il

125 e l'80 a.C., hanno infatti messo in luce un'incredibile concentrazione di

esemplari riconducibili ad un repertorio molto ridotto di forme. Si tratta di

Fig. 12 - Realizzazione di una coppa mediante pressatura in matrice(rielaborazione da Lierke 2009, p. 39)

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coppe coniche o più o meno emisferiche dai profili essenziali, lisce o segnate

da scanalature (cd. grooved bowls) o da costolature (cd. ribbed bowls), incolori

o nelle tonalità naturali del vetro (Fig. 13). La semplicità di queste forme,

che avranno un enorme successo, come indica la loro grande diffusione,

rivela un metodo di esecuzione rapido e geniale. Questo metodo, che

potremmo definire della matrice rovesciata, o della curvatura (ingl.: sagging),

è qui usato per la prima volta su ampia scala. In seguito il suo campo di

applicazione diverrà ancora più vasto.

La tecnica (Fig. 14) consiste nel versare una certa quantità di vetro allo

stato viscoso su una superficie piana, formando un disco. Una volta

raffreddato, il disco viene disposto su una matrice la cui funzione, al

contrario di quanto abbiamo visto nella tecnica precedente, sarà quella

di dare forma all'interno del recipiente. La matrice sarà quindi disposta

a rovescio, con la parte ricurva in alto. Nuovamente sottoposto ad una

fonte di calore, il disco di vetro si adagerà sulla matrice e ne assumerà il

profilo, che verrà regolarizzato con appositi strumenti soprattutto nella

zona dell'orlo. Questo, per effetto della curvatura e del peso, avrà uno

spessore maggiore rispetto a quello del fondo e delle pareti.

Si stima che con questo sistema il tempo di esecuzione di una coppa non

fosse superiore a 1 o 2 minuti.

La realizzazione di esemplari decorati da costolature è solo apparentemente

più complessa. In questo caso sarebbe stato infatti sufficiente praticare

Fig. 13 - Principali forme prodotte in area siro-palestinese tra la fine del II e gliinizi del I secolo a.C. (da Grose 1989, p. 193, fig. 110)

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Fig. 14 - Realizzazione di una coppa con il procedimento della matrice rovesciata

i rilievi di forma allungata sul disco, prima di poggiarlo sulla matrice,

pressandolo con un punzone dotato di tagli disposti a raggiera (Fig. 15a),

oppure disporre la matrice con il vaso già formato su un tornio e, facendolo

ruotare lentamente, schiacciare più volte la parete con una sorta di asticella

(Fig. 15b).

Nel corso dell’età ellenistica diviene più frequente anche l’uso del vetro

policromo o vetro mosaico. Con questa definizione si indica un tipo di vetro

ottenuto dalla giustapposizione di elementi diversi, così come, appunto, in

un mosaico. Gli elementi sono ricavati da canne già contenenti al loro interno

Fig. 15a-b - Due diverse ipotesi di realizzazione di una coppa costolata(a: da Grose 1984, fig. 4; b: da Stern, Schlick-Nolte 1994, p. 76, fig. 137)

a

b

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Fig. 17 - Alcuni motivi del vetro millefiori della prima età imperiale romana(rielaborazione da Grose 1989, p. 257, fig. 143)

Fig. 16 - Principali motivi del vetro millefiori di età ellenistica(da Grose 1989, p. 190, fig. 102)

un motivo decorativo, o da bacchette monocrome o policrome.

Alle varietà di vetro mosaico (millefiori e a reticelli) già presenti, ma ancora

rare, nei contesti che hanno restituito i vetri monocromi del “gruppo di

Canosa” la fiorente produzione dei centri del Mediterraneo orientale ne

aggiunge altre (a nastri e a bande d’oro), che si diffondono nel corso del I

secolo a.C.

Le varietà del vetro mosaico sono determinate dal tipo di canne o bacchette

utilizzate. Le definizioni “millefiori” e “a reticelli” sono state coniate dai

vetrai muranesi, che hanno imitato con grande successo le produzioni

antiche.

Gli elementi che compongono il vetro millefiori ricordano in effetti, il

più delle volte, piccoli disegni floreali. Questo è vero, tuttavia, soltanto

per quanto riguarda una parte dell’ampio repertorio decorativo di età

romana (Fig. 17). Infatti in epoca ellenistica i motivi impiegati sono

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soltanto due: una sorta di stella e una spirale, che costituiscono quasi una

“firma” di questo periodo (Fig. 16).

Alla base del motivo millefiori, qualunque esso sia, vi è un elemento

cilindrico di notevoli dimensioni, composto da canne prefabbricate di

colori diversi (Fig. 18). Nel caso del motivo a spirale il cilindro è formato

dall’avvolgimento, ovviamente a caldo, di due “sfoglie” di vetro di colore

contrastante intorno ad un nucleo centrale (Fig. 19). Il cilindro, sottoposto

ad una fonte di calore, viene allungato fino a raggiungere un diametro

molto inferiore, corrispondente grosso modo a quello di una matita. In

questo processo di assottigliamento il motivo decorativo iniziale non

cambia, ma si riducono soltanto le sue dimensioni. Il lungo cilindro così

Fig. 18 - Preparazione di elementi del vetro millefiori: cilindro composto da cannedi colore diverso (1-2), allungato e tagliato in sezioni circolari (3-4)

(rielaborazione da Stern, Schlick-Nolte 1994, p. 60, fig. 89)

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Fig. 19 - Preparazione di elementi del vetro millefiori: cilindro composto da unmotivo a spirale (da Stern, Schlick-Nolte 1994, p. 58, fig. 85)

Fig. 20 - Realizzazione di una coppa in vetro millefiori(da Stern, Schlick-Nolte 1994, p. 69, fig. 118)

ottenuto viene tagliato in sottili sezioni circolari che, disposte su un piano,

sono accostate in modo da formare un disco. Il disco viene poi riscaldato

affinché le sezioni raggiungano il punto di coesione e poggiato su una

matrice rovesciata, sulla quale si curverà fino ad assumerne il profilo

interno (Fig. 20).

Nel caso del vetro a reticelli il motivo di base sarà costituito da un cilindro

in vetro il più delle volte incolore sul quale sono disposte una o due

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Fig. 22 - Realizzazione di una coppa in vetro a reticelli con disposizione a spirale(da Stern, Schlick-Nolte 1994, p. 72, fig. 125)

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Fig. 21 - Preparazione di elementi del vetro a reticelli(da Stern, Schlick-Nolte 1994, p. 55, figg. 72-73)

bacchette in vetro opaco, in genere giallo o bianco. Il cilindro verrà tirato

e assottigliato con un movimento rotatorio (Fig. 21) e poi, a seconda del

disegno che si vuole realizzare, avvolto a spirale (Fig. 22) o tagliato in

bacchette di diversa lunghezza che formeranno un disco.

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Fig. 23 - Realizzazione di una coppa in vetro a nastri (da Grose 1984, fig. 9)

Le stesse operazioni di “miniaturizzazione” di elementi decorativi tramite

tiraggio, di accostamento delle sezioni e di curvatura del disco sulla

matrice rovesciata caratterizzano anche le altre varietà del vetro mosaico,

composte da bacchette di colori diversi (vetro a nastri: Fig. 23), a volte

associate ad altre costituite da una foglia d’oro racchiusa fra due strati

incolori (vetro a bande d’oro). L’orlo dei vasi realizzati con tutte queste

tecniche è spesso rifinito con un filamento a reticelli, che serviva anche

a compensare le irregolarità causate lungo la circonferenza dalla curvatura

del disco sulla matrice.

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5 - L’EREDITÀ ELLENISTICAE LO SVILUPPO DELLA PRODUZIONE IN ETÀ ROMANA

L’età di Augusto segna una vera svolta epocale anche nel campo della

produzione vetraria. L’artigianato e il commercio, favoriti dalla pace augustea,

vedono a partire da questo periodo un’espansione senza precedenti. La

conquista dei regni ellenistici determina un afflusso in Occidente di

maestranze esperte nella lavorazione del vetro, forti di una tradizione che

aveva reso famosi i centri produttori dell’area siro-palestinese e dell’Egitto.

Un fenomeno analogo riguarderà anche altri settori dell’artigianato: valga

per tutti l’esempio della ceramica aretina. Nel corso di pochi decenni il

patrimonio delle officine orientali verrà del tutto acquisito e ampliato.

L’artigianato romano darà infatti prova di grande versatilità e capacità

produttiva, e farà del vetro un bene ormai accessibile a tutti gli strati sociali,

in grado di competere addirittura con la ceramica (è questo il caso dei vasi

potori in ceramica a pareti sottili, la cui produzione entra in crisi verso la

fine del I secolo d.C., in concomitanza con la maggiore diffusione dei

recipienti con funzione analoga, realizzati ormai in questo periodo soprattutto

in vetro soffiato). Nel 54 a.C. il vetro era ancora considerato una merce di

pregio, alla stregua del papiro e del lino, come testimonia Cicerone (Rab. P.,40). A pochi anni di distanza Strabone, il geografo vissuto in età augustea,

ci informa (Geogr., 16.2.25) che si trattava ormai di un genere accessibile, e

che nelle officine di Roma erano avvenute innovazioni nel campo dei colori

e della semplificazione dei procedimenti esecutivi, che ne avevano appunto

ridotto i costi.

A quelli di Roma si affiancarono ben presto altri atelier, sia in Italia (certo

in Campania dove, secondo la testimonianza di Plinio, le sabbie del Volturno

fornivano una buona materia prima) sia nelle province, in un processo di

emancipazione delle periferie che caratterizza tutta l’economia antica.

Materiale versatile per eccellenza, il vetro comincia ora ad essere utilizzato

per fabbricare non solo recipienti, ma anche lastre, trasparenti o opache,

destinate rispettivamente alla chiusura di finestre e alla decorazione di

pareti in edifici di prestigio, e se ne diffonde l’uso nei mosaici. Tra le

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produzioni più raffinate della prima età imperiale ricordiamo anche quella

del vetro cammeo che, riservato ad una committenza di altissimo livello

(basti pensare al vaso Portland, che rappresenta l’esempio più illustre:

Fig. 24), è usato per decorare sia recipienti sia lastre.

Fig. 24 - Vetro cammeo: il vaso Portland (da Harden et al. 1988, p. 61)

Il vetro cammeo è così definito per la sua somiglianza con le pietre preziose

a più strati (agata, onice, sardonica), dalla lavorazione dei quali si

ricavavano effetti coloristici. Anche il vetro cammeo è infatti costituito

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nella maggior parte dei casi da due colori contrastanti: in genere blu scuro

per il fondo e bianco opaco per la decorazione. Sui procedimenti seguiti

per realizzare vasi di questo tipo sono stati compiuti diversi studi e

sperimentazioni, che ne hanno sempre messo in evidenza la notevole

complessità. Il recipiente da decorare doveva essere infatti costituito da

due strati, dei quali quello esterno (il bianco) sarebbe stato poco a poco

asportato lungo i contorni delle figure: con intagli e abrasioni si sarebbe

raggiunta in questo modo la superficie dello strato inferiore (il blu), sulla

quale far spiccare la decorazione in bianco.

Secondo recenti ipotesi il metodo utilizzato doveva essere più semplice

(Fig. 25). Lo strato bianco, invece di essere distribuito sull'intera superficie

del vaso, poteva infatti essere limitato già in origine alle sole porzioni da

decorare. Queste, previste come una serie di cavità nella faccia interna di

Fig. 25 - Esecuzione di una bottiglia in vetro cammeo secondo le ipotesi più recenti(rielaborazione da Lierke 2009, p. 69)

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una matrice ricavata da un modello in cera, sarebbero state riempite di

polvere di vetro bianco. Nella stessa matrice sarebbe poi stato pressato,

con l'ausilio di un “pistone”, il vetro blu. Nel caso di una forma chiusa

l'operazione poteva essere completata con il rovesciamento del recipiente:

il vetro, colato verso il basso dopo una fase di riscaldamento, sarebbe poi

stato opportunamente sagomato.

L'indicatore più importante delle prime produzioni romane è rappresentato

dalle coppe nate in età ellenistica avanzata, decorate da scanalature e da

costolature (Fig. 26). Dalla fine del I secolo a.C. le coppe emisferiche,

Fig. 26 - Coppe scanalate e costolate della prima età imperiale, di derivazioneellenistica (da Grose 1989, p. 247, fig. 121)

soprattutto nella versione decorata da costolature, ora più marcate, regolari

e simmetriche, rappresentano una fonte d'ispirazione inesauribile e il

maggiore successo dell'artigianato vetrario di età romana. Fino agli ultimi

decenni del I secolo d.C., resistendo alla concorrenza del vetro soffiato, le

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coppe costolate (forma Isings 3) saranno diffuse ovunque, perfezionate nella

tecnica, variate nella forma e nella decorazione e arricchite da una sconfinata

gamma di colori e sfumature.

La vivacità dei colori è una caratteristica peculiare non solo di queste coppe,

ma anche delle nuove forme prodotte con uso di matrici nella prima età

imperiale romana, la maggior parte delle quali si ispira alle argenterie e alla

sigillata italica contemporanee (Fig. 27). La realizzazione di molti contenitori

prevede anche un largo ricorso alla policromia. I vetrai di età augustea e

giulio-claudia amplieranno infatti all'infinito la gamma delle variabili

connaturate nella lavorazione del vetro mosaico, inventando nuovi motivi

e associazioni (Fig. 17) e raggiungendo un livello che sarà superato soltanto

dagli artigiani muranesi di età moderna e contemporanea. Il gusto così

spiccato per le tinte vivaci e per i contrasti cromatici cambierà ben presto,

insieme alla tecnica della colatura su matrici: già intorno agli anni 70 del I

secolo d.C. la maggior parte dei vasi sarà realizzata in vetro decolorato o

nei colori naturali: verde-azzurro o verde chiaro. Il colore rappresenta

dunque anche per gli studiosi un elemento utile ad un primo inquadramento

cronologico.

Fig. 27 - Principali forme della prima età imperiale, realizzate a matrice(da Grose 1989, p. 254, fig. 135)

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6 - UNA SCOPERTA RIVOLUZIONARIA:LA SOFFIATURA

A partire dall'età augustea, ma con maggiore frequenza nel corso dei decenni

successivi, ai vetri ottenuti con l'impiego di matrici si affiancano quelli

realizzati con la nuova tecnica della soffiatura, che si affermerà

definitivamente nella seconda metà del I secolo d.C.

La scoperta che una massa di vetro allo stato viscoso potesse espandersi

semplicemente soffiando al suo interno fu veramente straordinaria, e

destinata a cambiare il corso della storia. Avvenuta probabilmente in modo

casuale, e perfezionata nel tempo, questa scoperta determinò un'ulteriore

e definitiva espansione della produzione.

Gli studiosi hanno sempre ritenuto che i primi passi in questa direzione

siano stati compiuti in un'officina dell'area siro-palestinese. I ritrovamenti

archeologici effettuati negli anni settanta del secolo scorso hanno confermato

che proprio qui avvennero le prime sperimentazioni. Infatti un deposito

costituito dagli scarti di un'officina vetraria rinvenuto a Gerusalemme,

databile intorno alla metà del I secolo a.C., ha restituito le testimonianze di

una tecnica di soffiatura ancora primitiva. Essa consisteva nel soffiare entro

cannucce di vetro che venivano chiuse ad un'estremità ed esposte ad una

fonte di calore. Il bulbo così formato veniva poi staccato dal resto della

cannuccia (Figg. 28-29). Con un sistema del genere potevano essere realizzati

soltanto piccoli contenitori, tozzi e dalle pareti piuttosto spesse. Il salto di

qualità essenziale nella produzione del vetro soffiato avvenne a breve

distanza di tempo, con l'introduzione della canna da soffio in ferro, in tutto

simile a quelle in uso ancora oggi, che fu forse preceduta da una canna più

spessa e corta, in terracotta, con la quale non era possibile realizzare vasi

grandi e pesanti. Con questo semplice strumento, accompagnato da pochi

altri utensili quali pontelli (v. p. 00) e pinze, analoghi a quelli ancora oggi

in uso, era possibile ottenere grande libertà nella manipolazione, creando

oggetti di ogni forma e grandezza, in breve tempo e, di conseguenza, con

un costo molto contenuto. Il confronto con forni ancora operanti, caratterizzati

come quelli antichi da una tecnologia non evoluta, consente di stimare che

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Fig. 29 - Esemplificazione della soffiatura primitiva testimoniata dal deposito diGerusalemme (da Grose 1984, fig. 12)

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Fig. 28 - Testimonianze di una soffiatura primitiva dal deposito di Gerusalemme:cannucce in vetro dalle quali venivano distaccati piccoli contenitori

(da Israeli 2005, p. 55, fig. 3)

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la produzione media di un artigiano potesse corrispondere a circa 100

esemplari al giorno.

Le prime produzioni realizzate con tecniche evolute di soffiatura compaiono

simultaneamente in Oriente e in Occidente, testimoniando la velocità e la

facilità con le quali le idee, gli artigiani e i loro prodotti potevano diffondersi

ormai entro i confini dell'impero.

Oltre alla soffiatura del tipo più comune, definita libera, o a canna libera,

le officine della costa siro-palestinese sperimentano e mettono a punto

un'altra tecnica, consistente nel soffiare il vetro all'interno di una matrice.

I contenitori realizzati in questo modo sono simili a raffinati oggetti in

metallo lavorato a sbalzo: argenti modo caelare è la definizione che di questa

tecnica darà Plinio, osservando l'effetto finale e ignorando forse che non

poteva trattarsi di lavoro a cesello. Le forme, molto articolate, sono cariche

di valenze simboliche: piccole bottiglie, unguentari e bicchieri assumono

l'aspetto di grappoli d'uva, pigne, teste di Medusa, clave di Eracle, datteri

resi con grande naturalismo, preziosi equivalenti dei frutti che in segno di

augurio si donavano all'inizio dell'anno (Fig. 30). Nelle matrici, oltre alla

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Fig. 30 - Piccole bottiglie a forma di frutti, soffiate in matrice(da Stern 1995, p. 56, fig. 17)

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decorazione, può essere impresso il nome dell'artigiano, in greco e a volte

seguito dal verbo epoiesen o epoiei. I nomi più frequenti sono quelli di Ennion-il più famoso-, Aristeas, Iason, Meges, Neikais: quest'ultima era una donna,

una delle pochissime finora note per aver operato nel campo dell'artigianato

vetrario antico.

La tecnica della soffiatura in matrice, nata intorno agli inizi del I secolo d.C.,

viene subito recepita in Occidente, ma per quanto riguarda i vasi decorati

a rilievo si esaurisce già verso l'80 d.C. L'impiego di matrici continuerà

anche nei secoli successivi, ma sarà limitato quasi esclusivamente alla

realizzazione di marchi sul fondo di contenitori di uso quotidiano: tra i più

comuni ricordiamo le bottiglie a corpo quadrangolare o prismatico,

particolarmente adatte per la loro forma all'imballaggio e al trasporto.

Soffiatura libera (Fig. 31). Con l'estremità della canna si raccoglie dal

crogiolo una certa quantità di vetro e si comincia a soffiare la massa,

definita bolo (fr. e ingl: paraison). L'operazione è in genere seguita da

vari e rapidissimi movimenti della canna, che servono da un lato ad

allungare il bolo, dall'altro ad evitarne l' afflosciamento e la deformazione.

In diversi stadi della soffiatura si può reintrodurre il bolo nel forno per

renderlo più malleabile. Dopo aver sagomato la maggior parte del vaso

si fissa su quello che ne diverrà il fondo, quindi nella parte opposta alla

canna da soffio, l'estremità di un'asta metallica, chiamata pontello (fr.:

pontil; ingl.: pontil o punty), che viene fatta aderire con una goccia di

vetro. A questo punto il recipiente, sostenuto con il pontello, viene

staccato dalla canna, in modo che si possa lavorare l'imboccatura e rifinire

l'orlo.

Diversi elementi consentono di distinguere un vetro soffiato, anche se

ridotto in frammenti, da uno eseguito con la tecnica della matrice: la

sottigliezza delle pareti, sempre molto lisce e in genere piuttosto lucide,

e la loro sinuosità; la presenza di bolle d'aria di forma allungata, prodotte

dallo stiramento del bolo; il segno prodotto dal distacco del pontello

(ingl.: pontil mark) nella parte centrale esterna del fondo. Quest'ultimo

è facilmente riconoscibile da una piccola rugosità più o meno circolare

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Fig. 31 - Principali fasi della soffiatura di un bicchiere veneziano in vetro smaltato(inizi XIV secolo). Introducendo la canna nel crogiolo (1) si raccoglie alla sua estremitàuna certa quantità di vetro, che viene fatto rotolare su un piano per renderlo cilindricoe conservarlo in asse con la canna (2). Iniziando a soffiare si forma una bolla sulla

quale si pratica, con le pinze, una strozzatura nel punto di congiunzione con la canna(3). La bolla viene riscaldata nella parte inferiore (4) e ancora soffiata, fino a raggiungerela forma, la lunghezza e lo spessore voluti (5). L'estremità arrotondata della bollaviene appiattita per formare il fondo del bicchiere (6). Sul fondo viene applicato ilpontello (7). La strozzatura praticata tra la bolla e la canna (3) viene afferrata con

le pinze (8), al contatto con le quali, per la differenza di temperatura rispetto alvetro, si forma una serie di crepe. Con un colpo netto la canna viene staccata (9).Il recipiente, tenuto con il pontello, viene avvicinato all'imboccatura del forno inmodo da ammorbidirne l'estremità, che poi viene dilatata e regolarizzata con le

pinze per sagomare l’orlo, mentre la continua rotazione del pontello ne assicura lasimmetria (10). Un colpo netto al pontello lo stacca dal fondo del bicchiere (11),lasciandovi il caratteristico “segno del pontello”. Dopo il raffreddamento vieneeseguita la decorazione a smalto (rielaborazione da Tait 1991, pp. 223-225)

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che, essendo nascosta, non veniva quasi mai eliminata.

Soffiatura in matrice (Fig. 32). Il bolo raccolto all'estremità della canna

viene introdotto nella matrice e poi soffiato, prendendone così la forma

e la decorazione. Questa risultava in rilievo sulla faccia esterna del

recipiente, essendo realizzata in incavo su quella interna della matrice.

Per consentire l'estrazione del vaso ed evitare di distruggere la matrice

era necessario che questa fosse composta da almeno due parti o valve

(solo le matrici più antiche sono in genere formate da più di due elementi),

che aderivano tra loro mediante appositi incassi. Il punto di congiunzione

tra le valve della matrice è tuttavia quasi sempre visibile sull'oggetto

finito, sul quale si forma un leggero rilievo.

Le matrici potevano essere realizzate ex novo, ma spesso si faceva ricorso

al surmoulage, utilizzando recipienti decorati in metallo prezioso o gli

stessi vasi in vetro già finiti. Anche in questo caso le affinità tra l'artigianato

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Fig. 32 - Soffiatura di un grande contenitore in una matrice a due valve(da Stern 1995, p. 46, figg. 40-41)

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della ceramica e quello del vetro sono evidenti.

Per quanto riguarda il perfezionamento della tecnica e la diffusione del

vetro soffiato la città di Roma deve aver esercitato ancora una volta un ruolo

fondamentale in Occidente, agendo da un lato come luogo di richiamo delle

maestranze dai più famosi centri produttori, dall'altro come cassa di risonanza

e centro propulsore di idee, mode e tecnologie.

Le officine nate nel corso del I secolo d.C. in Italia e nelle province

elaboreranno un repertorio di forme che, pur cedendo a qualche peculiarità

locale, avrà un carattere di sostanziale omogeneità. Con questo repertorio

“internazionale” saranno soddisfatte non solo la domanda di ogni categoria

sociale, ma anche le più svariate esigenze funzionali, con tipologie di

contenitori destinate alla mensa, alla dispensa e al trasporto. La seconda

metà del I secolo d.C. rappresenta il momento più fecondo della produzione

vetraria in Occidente: la quantità, la gamma delle forme, la varietà delle

loro funzioni non avranno uguali in nessun altro periodo.

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7 - DALL’ETÀ IMPERIALEALLA TARDA ANTICHITÀ: LINEE GUIDA

Forme, colori e decorazioni cambiano nel corso del tempo. Dovendo

sintetizzare questi mutamenti (Fig. 33) potremmo dire che il I e il II secolo

sono dominati da recipienti a carattere funzionale (unguentari, bottiglie,

olle, queste ultime spesso usate anche in funzione di urne cinerarie) in vetro

del tipo più comune, di colore verde-azzurro. Alcuni esemplari di queste

forme, soprattutto delle bottiglie, presentano sul fondo un marchio o un

bollo epigrafico, il cui scopo non può più essere quello di rivendicare la

paternità di un vaso raffinato, come era avvenuto per Ennion e gli altri

maestri artigiani contemporanei. Ora il bollo si trova su un contenitore che

non ha alcun valore estetico, ma è usato per il trasporto di sostanze pregiate

quali cosmetici, medicinali, vini di qualità, e si riferirà quindi al produttore

di queste merci. Tra il vasellame da tavola (coppe, bicchieri, piatti) prevalgono

forme non decorate o con decorazioni facilmente realizzabili quali scanalature,

depressioni, filamenti di vetro applicati. Soprattutto nei recipienti da tavola

al vetro verde-azzurro si affianca, verso la fine del I secolo, quello incolore.

Il gusto per il materiale perfettamente decolorato, opposto a quello dominante

nella prima età imperiale, si affermerà nel corso del II secolo, caratterizzando

sia il vasellame di uso quotidiano sia recipienti più raffinati, come quelli

decorati con sfaccettature di forma geometrica. Questi intagli, ottenuti a

freddo asportando con uno strumento abrasivo piccole porzioni di vetro,

creano una serie di riflessi e di effetti ottici molto apprezzati.

A partire dal II secolo avanzato il panorama vetrario comincia a perdere

l'uniformità che lo aveva caratterizzato: le diverse aree regionali esprimono

ormai il loro gusto con repertori tipologici e decorativi diversi. In Italia, e

in particolare a Roma e in area laziale, tra III e IV secolo la produzione è

ancora varia, ma si concentra su alcune forme funzionali (bottiglie con corpo

globulare e collo imbutiforme, bicchieri e coppe con orlo tagliato o

arrotondato), realizzate in vetro decolorato, anche se non sempre

perfettamente, o con varie sfumature di verde. In questi secoli alcune officine,

le più importanti delle quali operano in Egitto e in area renana, esprimono

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Fig. 33 - Principali forme in vetro diffuse in Occidente tra I e IV secolo d.C.

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un alto livello artigianale nella produzione di vetri incisi con scene figurate.

Anche Roma, nel corso del IV secolo, è un centro artistico di primaria

importanza: qui sembrano attivi due atelier i cui prodotti sono riconoscibili

dallo stile delle incisioni ma non dai soggetti, che si riferiscono in entrambi

i casi al repertorio pagano e cristiano. Il primo realizza i contorni delle

figure con intagli lineari e campisce il loro interno con abrasioni che

rendono opaca la superficie (Fig. 34), il secondo procede con asportazioni

dai contorni più morbidi, di ampiezza e profondità diverse, che creano

un effetto di chiaroscuro (Fig. 35). A quest'ultimo si attribuiscono alcuni

esemplari che devono aver rappresentato un vero tour de force per l'artigiano,

e i cui destinatari erano certo personaggi di alto rango. Il pezzo più famoso

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Fig. 34 - Piatto in vetro inciso con intagli lineari e abrasioni(da Saguì 1996, p. 339, fig. 2b)

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è il piatto che raffigura un imperatore insieme a personaggi di corte in

occasione dei suoi vicennali (Fig. 36).

Fig. 35 - Coppa in vetro inciso con intagli ampi e dal profilo curvilineo(da Saguì 2009, p. 212, fig. 4.1-2)

Fig. 36 - Piatto in vetro inciso realizzato in occasione dei vicennali di un imperatore(da Harden et al. 1988, p. 223)

Alle élites del IV secolo sono destinati anche i famosi diatreta o vasi a gabbia

(ingl.: cage cups), la cui funzione principale sembra fosse quella di lampade

a sospensione. Si tratta di vasi lavorati “a giorno”, così da risultare rivestiti

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Fig. 37 - Diatretum noto comecoppa Trivulzio

(da Harden et al. 1988, p. 238)

Fig. 38 - Diatretum noto comecoppa di Licurgo

(da Harden et al. 1988, p. 246)

da una sorta di rete che aderisce alla parete del recipiente soltanto in alcuni,

invisibili punti (Fig. 37). Il più noto fra i diatreta è la cosiddetta coppa di

Licurgo (Fig. 38), nella quale una scena che rappresenta la morte del re si

sostituisce alla più semplice decorazione a rete.

Alcuni studiosi ritengono che la realizzazione di un diatretum consistesse

in una sorta di scavo di un blocco di vetro. Procedendo con laboriose

asportazioni e abrasioni della parte superficiale del blocco l'artigiano

intagliatore (diatretarius) avrebbe creato una maglia esterna che appariva

del tutto distaccata dal fondo, ma in realtà era unita ad esso tramite una

serie di peduncoli trasversali, definiti ponticelli, nascosti sotto la maglia.

Come per il vetro cammeo, anche in questo caso studi e sperimentazioni

recenti consentono di proporre un metodo più semplice, che esclude la

complessa fase di asportazione del vetro in eccesso (Fig. 37). Secondo

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Fig. 39 - Esecuzione di un diatretum secondo le ipotesi più recenti(rielaborazione da Lierke 2009, pp. 82-83)

questa ipotesi sarebbe stato fabbricato anzitutto l'involucro esterno, cioè

quello destinato a formare la maglia, pressando il vetro in una matrice.

All'interno della forma così realizzata sarebbe poi stata introdotta un'altra

matrice, analoga alla precedente ma dotata di una serie di fori passanti.

Un nuovo strato di vetro, pressato in questa seconda matrice, avrebbe

formato la parte interna del recipiente e, inserendosi anche nei fori,

avrebbe creato i ponticelli che dovevano collegarlo all'involucro esterno.

Asportata la matrice esterna si sarebbe proceduto all'apertura delle maglie,

che in questo caso doveva richiedere un numero limitato di tagli: l'involucro

esterno e quello interno erano stati infatti già separati in origine, grazie

alla presenza della matrice forata. Questa sarebbe stata asportata solo

dopo l'apertura delle maglie.

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Tra le produzioni romane più raffinate e caratteristiche del IV secolo

ricordiamo anche quelle decorate con una sottilissima foglia d'oro incisa a

bulino e a volte dipinta, racchiusa tra due strati di vetro. Le definizioni di

questa produzione sono varie: vetri dorati; a sandwich, con riferimento al

fatto che la foglia d'oro è racchiusa tra due strati di vetro; fondi d'oro.

Quest'ultima deriva dal rinvenimento della maggior parte degli esemplari

nelle murature che chiudevano i loculi delle catacombe: qui i recipienti

venivano inseriti dopo essere stati in genere grossolanamente ritagliati in

modo da conservare la parte circolare del fondo, che conteneva la decorazione

(Fig. 40).

Fig. 40 - Fondo di vetro decorato a foglia d'oro (da Harden et al. 1988, p. 288)

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Fig. 41 - Principali forme in vetro diffuse a Roma tra V e VIII secolo d.C.(da Saguì 1993, p. 116, fig. 3)

Una ulteriore semplificazione del repertorio tipologico caratterizza i secoli

dal V all'VIII. Le produzioni di questo periodo sono ben distinguibili da

quelle più antiche, grazie al colore e ad alcune forme-guida molto diffuse

in ambito romano e laziale (Fig. 41). Se il colore prevalente tra V e VI secolo

è il verde nelle sue varie tonalità, anche molto scure, nel VII e soprattutto

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Fig. 42 - Lampada asospensione

nell'VIII secolo torna ad essere apprezzato il verde-azzurro dei primi secoli

dell'età imperiale. Tra le forme più tipiche del V secolo ricordiamo coppe

e piatti con orlo decorato da un filamento di vetro molto spesso, come quello

che, avvolto in vari ordini sovrapposti, ne costituisce il piede, o con orlo

ripiegato all'esterno a formare un anello o una larga fascia. A partire da

questo periodo si registra un exploit delle lucerne in vetro che, riempite di

acqua sulla quale veniva versato uno strato di olio, consentivano di

economizzare sul combustibile e, rispetto a quelle in ceramica, producevano

una luce molto più intensa. Le lucerne in vetro furono in gran parte destinate

ad illuminare gli edifici di culto, sospese singolarmente (Fig. 42) o in gruppi

inseriti in elaborati supporti di metallo (polycandela) (Fig. 43). Il più utile

Fig. 43 - Polycandelon con lampade di vetro(da L’art byzantin 1992, p. 121)

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Fig. 44a-b - Calici(a: da Paroli, Ricci 2007, tav. 72.30; b: da Paroli, Ricci 2007, tav. 113.2)

fossile guida della tarda antichità e dei primi secoli del medioevo è tuttavia

rappresentato dai calici (forma Isings 111), ben individuabili nei contesti

archeologici grazie alla solidità dello stelo e del piccolo fondo a disco (Fig.

44). Le lucerne a sospensione e soprattutto i calici, che compaiono a Roma

alla fine del V per restare la forma più comune ancora nell'VIII secolo, sono

prodotti in diversi centri, e la loro diffusione è enorme. Queste due forme

sono l'espressione di un gusto che, nonostante la crescente differenziazione

delle produzioni regionali, costituisce un elemento unificante del repertorio

vetrario in tutto il bacino del Mediterraneo.

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8 - IL VETRO DA FINESTRA

È importante saperlo riconoscere, poiché si trova con una certa frequenza

negli scavi. La sua caratteristica principale è quella di essere perfettamente

piano: questo consente di distinguerlo dal fondo di un recipiente, in genere

più o meno concavo o convesso, anche nel caso di frammenti di piccole

dimensioni.

La sua introduzione, che risale all’inizio del I secolo d.C., deve aver

rappresentato, con la conquista della luce nell’architettura pubblica e privata,

un notevole miglioramento della qualità della vita.

I ritrovamenti di lastre in vetro da finestra si moltiplicano nella seconda

metà del secolo: nei centri vesuviani sono frequenti specie negli edifici

costruiti o restaurati dopo il terremoto del 62.

Fino al III secolo le lastre sono prodotte colando il vetro su una piastra,

in genere dotata di bordi rialzati, e spianandolo con spatole e altri

strumenti, dei quali a volte si individuano i segni, specie negli angoli e

lungo i bordi. La lastra veniva poi tagliata secondo la forma e la dimensione

volute, e inserita nel telaio della finestra. Le bolle d’aria sono per lo più

circolari. Il vetro ottenuto con questo procedimento è piuttosto spesso e

la superficie inferiore, che si trovava a contatto con la piastra, è più ruvida

e opaca di quella superiore. Il colore è in genere verde-azzurro, più o

meno chiaro, ma nel corso del tempo sembrano diventare più comuni le

lastre decolorate, che consentivano un maggiore passaggio di luce.

Nel III secolo in Occidente comincia ad essere usata una tecnica diversa,

che diventa esclusiva a partire dal IV e sarà utilizzata fino agli inizi del

XX secolo. La tecnica è in pratica quella della soffiatura, ed è nota anche

come “metodo del cilindro” (Fig. 45). Essa consiste infatti nel soffiare un

bolo e nell’allungarlo progressivamente, dandogli grosso modo la forma

di un cilindro. Questo viene poi staccato dalla canna, tagliato alle estremità

e, con un ulteriore taglio longitudinale, aperto e spianato.

Le lastre ottenute con questo procedimento sono in genere molto più

sottili e trasparenti, hanno superfici lisce e bolle d’aria tendenzialmente

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di forma allungata. Sono per lo più incolori, ma possono avere anche

diverse sfumature verdi o verdi-azzurre.

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Fig. 45 - Realizzazione di una lastra di vetro con il “metodo del cilindro”(da Gagliardi 1945, p. 49)

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9 - INDICATORI DI PRODUZIONE

Lo studio dei resti di lavorazione costituisce la base di qualsiasi tentativo

di identificazione delle tecniche impiegate e delle produzioni realizzate sul

posto. La diffusa pratica del riciclaggio deve infatti metterci in guardia

dall'attribuire indiscriminatamente alla produzione di un'officina tutti i

frammenti di vetro rinvenuti nelle sue adiacenze.

Nell'elenco che segue sono segnalati i reperti particolari più frequentemente

associati ad un impianto produttivo.

Blocchi di vetro non lavorato: si tratta di materiale proveniente dalle officine

primarie, destinato ad essere rifuso nelle officine secondarie. Si presentano

come masse più o meno grandi e molto irregolari, spesse, con spigoli vivi.

Sulle superfici sono in genere evidenti i segni concentrici prodotti dai colpi

che hanno ridotto in pezzi le masse di vetro originarie (Fig. 46, a d.).

Filamenti terminanti con un ingrossamento: sono comunemente definiti

Fig. 46 - Indicatori di produzione da Roma(Crypta Balbi e pendici NE del Palatino)

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ghiaccioli o provini, poiché possono essere il risultato del prelievo di una

piccola quantità di vetro dal crogiolo, per saggiarne lo stato di affinamento

e di viscosità. Sulla parte ingrossata sono talvolta visibili i segni dello

strumento con il quale il prelievo è stato effettuato (Fig. 46, in alto a sin.).

Nastri irregolari: definiti ritagli, perché sono il risultato dell'eliminazione

del vetro in eccesso, ad esempio in seguito all'applicazione di un'ansa.

Recipienti deformati: in assenza di altri elementi rischiano di essere

fuorvianti, perché la deformazione potrebbe non essere avvenuta nella fase

di lavorazione ma solo in seguito, per il forte calore sviluppato da un

incendio o da un rogo funebre. Del resto, al contrario di quanto avviene per

le officine ceramiche, in prossimità delle quali si rinviene frequentemente

una grande quantità di scarti, un recipiente in vetro mal riuscito avrebbe

potuto essere rifuso. Si spiega così la rarità di oggetti di questo tipo in

contesti produttivi.

Cilindretti o anelli piuttosto spessi e irregolari: definiti colletti (fr.: mors;

ingl.: moils), perché formati dal vetro che, aderendo alla parte terminale

della canna durante la soffiatura del bolo, si elimina quando il recipiente

finito ne viene distaccato. Il diametro interno del “colletto” corrisponde

dunque a quello esterno della canna usata per soffiare, che spesso lascia

sulla parete tracce nerastre di ferro. Il “colletto” cilindrico è il risultato della

soffiatura di una forma chiusa, oppure di una forma aperta il cui orlo sarebbe

stato variamente lavorato, e quindi riscaldato più volte, sostenendo il fondo

con il pontello dal momento in cui la canna veniva distaccata (Fig. 46, al

centro; Fig. 47.1).

Elementi svasati, a forma di calotta, con orlo tagliato: a questi elementi si

applica la stessa definizione dei precedenti, perché anch'essi derivano dal

distacco del recipiente dalla canna. In questo caso, però, si trattava di forme

aperte (bicchieri, coppe, piatti) il cui orlo non veniva lavorato, ma

semplicemente tagliato e poi eventualmente rifinito mediante molatura

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I quantobasta della Libreria Archeologica

(Fig. 47.2). Il diametro dei “colletti” di questo tipo corrisponde quindi a

quello dell'imboccatura dei recipienti dai quali derivano. Anche l'aspetto,

nel caso di frammenti piuttosto ridotti, è quello di una forma aperta con

orlo tagliato, dalla quale possono essere distinti grazie alla presenza di

impurità, quali tracce di ruggine provenienti dall'estremità della canna,

frequenti bolle d'aria allungate nella direzione della soffiatura, spirali dovute

alla rotazione in fase di soffiatura e rugosità lungo il margine del distacco.

Frammenti di vetro da riciclare: non è facile distinguere gli oggetti pronti

Fig. 47 - Indicatori di produzione: cilindro (1) e elemento svasato (2) derivatidall'estremità della canna da soffio nella fase del distacco

(rielaborazione da Amrein 2001, p. 23, fig. 12)

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I quantobasta della Libreria Archeologica

per essere rifusi da quelli prodotti nell'officina, a meno che i primi, dei quali

dovrebbe risaltare l'eterogeneità, non siano raccolti in un deposito presso

il forno. Anche per le tessere di mosaico, che sappiamo essere usate soprattutto

in contesti tardoantichi e altomedievali per colorare il vetro, può sussistere

il dubbio che si tratti di materiale prodotto sul posto. Solo eventuali tracce

di malta sul retro potrebbero denunciarne il riuso.

Utensili di metallo: il rinvenimento di utensili, e in primo luogo di canne

in ferro per la soffiatura, i soli strumenti indubitabilmente attribuibili ad

un'officina vetraria, è rarissimo. Lo spostamento o il deliberato abbandono

di un impianto produttivo dovevano prevedere del resto il recupero delle

attrezzature. I pochi esemplari finora noti e soprattutto le dimensioni dei

“colletti” trovati in diverse aree produttive indicano un diametro esterno

delle canne compreso mediamente fra 1 e 2 centimetri. La lunghezza originale,

mai conservata, doveva essere di 1 metro circa, poiché il ferro è un buon

conduttore di calore.

Il pontello, che si applicava sul fondo del recipiente per sostenerlo nel corso

della lavorazione, dopo il distacco dalla canna da soffio, ma poteva essere

usato anche per altre operazioni, quali l'applicazione di anse e di filamenti

decorativi è una semplice asta di ferro pieno.

Crogioli: anche in questo caso l'attribuzione ad un'officina vetraria deve

essere suffragata da altri elementi. Infatti il crogiolo, recipiente in materiale

refrattario, è genericamente riferibile alle arti del fuoco, e la presenza di

incrostazioni vetrose non costituisce un dato dirimente. I crogioli utilizzati

nelle officine secondarie, peraltro piuttosto rari fino al IV secolo d.C., sono

d'altra parte recipienti di dimensioni piuttosto modeste, e non così

specializzati come quelli che compariranno nel corso del medioevo. Anche

un vaso di uso comune, purché prodotto con impasto refrattario e magari

rivestito da uno strato di argilla per resistere meglio alle alte temperature,

poteva assolvere questa funzione. Recenti studi e sperimentazioni indicano

d'altra parte che i crogioli non dovevano essere sempre indispensabili (e

questo ne giustificherebbe anche la rarità), poiché il vetro grezzo non aveva

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I quantobasta della Libreria Archeologica

bisogno di essere completamente rifuso: per lavorarlo sarebbe stato sufficiente

riscaldarne qualche frammento, raccogliendolo poi direttamente, ad esempio

in caso di soffiatura, con l'estremità della canna. Tale procedimento, seguito

ancora oggi, viene definito in inglese chunk gathering.

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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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HARDEN et al. 1988D.B.HARDEN, H.HELLENKEMPER, K.PAINTER,D.WHITEHOUSE (a cura di)Vetri dei CesariMilano 1988

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I quantobasta della Libreria Archeologica

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I quantobasta della Libreria Archeologica

LIERKE 2009R. LIERKEDie nicht-geblasenen antiken Glasgefässe. The non-blown ancient glassvesselsOffenbach/Main 2009

NENNA 2007M.-D.NENNAProduction et commerce du verre à l'époque impériale: nouvelles découverteset problématiquesin Facta, 1, 2007, pp. 125-147

NEWBY-PAINTER 1991M.NEWBY-K.PAINTER (a cura di)Roman glass: two centuries of art and inventionLondon 1991

STERN 1995E.M. STERNThe Toledo Museum of Art. Roman mold-blown glass. The first throughsixth centuriesToledo, Ohio 1995

STERN 1999E.M. STERNRoman glassblowing in a cultural contextin American Journal of Archaeology, 103, 1999, pp. 441-484

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BIBLIOGRAFIA DELLE DIDASCALIENON CITATA NELLA BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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Gagliardi 1945 - C.A.Gagliardi, Conoscere il vetro, Milano 1945

Gorin-Rosen 2000 - Y.Gorin-Rosen, The ancient glass industry in Israel. Summaryof the finds and new discoveries, in M.-D.Nenna (a cura di), La route du verre.Ateliers primaires et secondaires du second millénaire av. J.-C. au Moyen Âge,Lyon 2000, pp. 49-63

Grose 1984 - D.F.Grose, Glass forming methods in classical antiquity: someconsiderations, in Journal of Glass Studies, 26, 1984, pp. 25-34

Israeli 2003 - Y.Israeli, What did Jerusalem's first-century BCE glass workshopproduce?, in Annales du 16e Congrès de l'Association Internationale pour l'Histoiredu Verre (London 2003), Nottingham 2005, pp. 54-57

L’art byzantin 1992 - Byzance, L’art Byzantin dans les collections publiquesfrançaiser, Paris 1992

Lazar 2005 - I.Lazar, An oil lamp depicting a Roman glass furnace - a new findfrom Slovenia, in Instrumentum, 22, 2005, pp. 17-19

Paroli, Ricci 2007 - L.Paroli, M.Ricci, La necropoli altomedievale di Castel Trosino,Firenze 2007

Saguì 1993 - L.Saguì, Produzioni vetrarie a Roma tra tardo-antico e alto medioevo,in L.Paroli, P.Delogu (a cura di), La Storia economica di Roma nell'alto Medioevoalla luce dei recenti scavi archeologici (Roma 1992), Firenze 1993, pp. 113-136

Saguì 1996 - L.Saguì, Un piatto di vetro inciso da Roma: contributo ad uninquadramento delle officine vetrarie tardoantiche, in M.G.Picozzi, F.Carinci (acura di), Studi Miscellanei 30. Studi in memoria di Lucia Guerrini, Roma 1996,pp. 337-358

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I quantobasta della Libreria Archeologica

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I quantobasta della Libreria Archeologica

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Saguì 2009 - L.Saguì, Ateliers de verre gravé à Rome au IVe siècle ap. J.-C. :nouvelles données sur le verre gravé «à relief négatif», in Annales du 17e Congrèsde l'Association Internationale pour l'Histoire du Verre (Antwerp 2006), Antwerp2009, pp. 206-216

Schuler 1959 - F.Schuler, Ancient glassmaking techniques. The molding process,in Archaeology, 12, 1959, pp. 47-52

Stern, Schlick-Nolte 1994 - E.M.Stern, B.Schlick-Nolte, Early Glass of theAncient World 1600 b.C. - a.D. 50. Ernesto Wolf Collection, Ostfildern 1994

Sternini 1995 - M.Sternini, La fenice di sabbia. Storia e tecnologia del vetro antico,Bari 1995

Tait 1991 - H.Tait (a cura di), Cinquemila anni di Vetro, Milano 1991

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INDICE

INTRODUZIONE

1 - LE COMPONENTI DEL VETRO

2 - L’ORGANIZZAZIONE DELLA PRODUZIONE

3 - LE PRODUZIONI PIÙ ANTICHE

4 - L’ETÀ ELLENISTICA: CONTINUITÀ E INNOVAZIONI

5 - L’EREDITÀ ELLENISTICAE LO SVILUPPO DELLA PRODUZIONE IN ETÀ ROMANA

6 - UNA SCOPERTA RIVOLUZIONARIA: LA SOFFIATURA

7 - DALL’ETÀ IMPERIALE ALLA TARDA ANTICHITÀ: LINEE GUIDA

8 - IL VETRO DA FINESTRA

9 - INDICATORI DI PRODUZIONE

BIBLIOGRAFIA

BIBLIOGRAFIA DIDASCALIE

pag. 7

pag. 9

pag. 11

pag. 23

pag. 27

pag. 39

pag. 45

pag. 53

pag. 63

pag. 65

pag. 71

pag. 73

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Finito di stampare nel mese di maggio 2010presso la tipografia ROTOSTAMPA - via Tiberio Imperatore, 23 - 00145 Roma


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