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I RIMEDI CONTRO IL SILENZIO DELLA P · 2017. 3. 22. · rimedi contro il silenzio della pubblica...

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1 I RIMEDI CONTRO IL SILENZIO DELLA P.A. Capitolo I. IL SILENZIO DELLA P.A.: EVOLUZIONE NORMATIVA E LE TIPOLOGIE DI SILENZIO Capitolo II. QUANDO NASCE L'OBBLIGO DI PROVVEDERE IN CAPO ALLA P.A. 1-L’OBBLIGO DI PROVVEDERE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE . 2-ISTANZE DIRETTE A OTTENERE UN PROVVEDIEMNTO FAVOREVOLE. 3- ISTANZE DI RIESAME DI ATTI SFAVOREVOLI EMANATI IN PRECEDENZA. 4-ISTANZE DIRETTE A PRODURRE EFFETTI SFAVOREVOLI NEI CONFRONTI DI TERZI, DALL’ADOZIONE DEI QUALI IL RICHIEDENTE POSSA TRARNE INDIRETTAMENTE VANTAGGI ( INTERESSI STRUMENTALI). Capitolo III. IL SILENZIO INADEMPIMENTO (RIGETTO). 1- LA SUA FORMAZIONE. 2- I PRINCIPI IN BASE AI QUALI SUSSISTE L'OBBLIGO DI PROVVEDERE. 3- QUALI SONO LE CONSEGUENZE DELL'INADEMPIMENTO.
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I RIMEDI CONTRO IL SILENZIO DELLA P.A.

Capitolo I.

IL SILENZIO DELLA P.A.: EVOLUZIONE NORMATIVA E LE

TIPOLOGIE DI SILENZIO

Capitolo II.

QUANDO NASCE L'OBBLIGO DI PROVVEDERE IN CAPO

ALLA P.A.

1-L’OBBLIGO DI PROVVEDERE DELLA PUBBLICA

AMMINISTRAZIONE .

2-ISTANZE DIRETTE A OTTENERE UN PROVVEDIEMNTO

FAVOREVOLE.

3- ISTANZE DI RIESAME DI ATTI SFAVOREVOLI EMANATI

IN PRECEDENZA.

4-ISTANZE DIRETTE A PRODURRE EFFETTI SFAVOREVOLI

NEI CONFRONTI DI TERZI, DALL’ADOZIONE DEI QUALI IL

RICHIEDENTE POSSA TRARNE INDIRETTAMENTE

VANTAGGI ( INTERESSI STRUMENTALI).

Capitolo III.

IL SILENZIO INADEMPIMENTO (RIGETTO).

1- LA SUA FORMAZIONE.

2- I PRINCIPI IN BASE AI QUALI SUSSISTE L'OBBLIGO DI

PROVVEDERE.

3- QUALI SONO LE CONSEGUENZE DELL'INADEMPIMENTO.

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4- NATURA O MENO PERENTORIA DEL TERMINE FISSATO

DALL'ART 2 L 241 DEL 1990.

5- DECORRENZA DEL TERMINE.

6- IL DOVERE DI PROVVEDERE, LA SUA ESCLUSIONE E

FASI SUB PROCEDIMENTALI

Capitolo IV.

IL SILENZIO ASSENSO

1- FORMAZIONE.

2- DPR 26 APRILE 1992 N 300 E SUCCESSIVE MODIFICHE:

DOMANDA, TERMINI, INCOMPLETEZZA E IRREGOLARITA’

DELLA DOMANDA,

3-CASI NEI QUALI SI FORMA IL SILENZIO ASSENSO (CASI

GIURISPRUDENZIALI).

4 -CASI IN CUI NON SI FORMA IL SILENZIO ASSENSO (CASI

GIURISPRUDENZIALI).

Capitolo V.

RITO DEL SILENZIO E CODICE DEL PROCESSO

AMMINISTRATIVO.

1 -ART 31.2 E 117 DEL CODICE: I RIMEDI PROCESSUALI

CONTRO L'INERZIA DELL'AMMINISTRAZIONE.

2-AZIONE AVVERSO IL SILENZIO.

4- POSSIBILITA’ DI CONFIGURARE LA POSIZIONE DI UN

CONTROINTERESSATO E PROBLEMI INTERPRETATIVI.

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Capitolo VI.

RIMEDI CONTRO IL SILENZIO DELLA PUBBLICA

AMMINISTRAZIONE .

1- RISARCIMENTO DEL DANNO PER MANCATA E\O

RITARDATA OTTEMPERANZA DELLA P.A.

2 –LA NUOVA DISCIPLINA SULLA RESPONSABILITA’E

RISARCIBILITA’ DEL DANNO DEL DANNO DA RITARDO E

RISCORSO AVVERSO IL SILENZIO.

3- AZIONE DI CONDANNA AL RISARCIMENTO DEL DANNO.

-CONCLUSIONI.

-BIBLIOGRAFIA

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Capitolo I.

IL SILENZIO DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE:

EVOLUZIONE NORMATIVA E TIPOLOGIE DI SILENZIO.

Il problema giuridico del silenzio della P.A. è tra quelli che più ha

impegnato la dottrina.

Il silenzio costituisce un mero comportamento inerte in cui manca

ogni espressione volontaristica dell'amministrazione e assume una

connotazione giuridica solo nei casi in cui la legge gli attribuisce

valore tipico.

A tal fine, il legislatore ha individuato, a favore del cittadino, una

particolare forma di tutela che può essere successiva o preventiva.

Siamo di fronte a una tutela successiva quando è consentito al

cittadino rivolgersi all'autorità giudiziaria per eliminare gli effetti

negativi prodotti dall'inerzia amministrativa (cd silenzio

inadempimento). Siamo invece di fronte a un intervento preventivo

quando è lo stesso legislatore a intervenire per scongiurare gli effetti

pregiudizievoli connessi all'inerzia dell'amministrazione,

riconoscendo al silenzio dell'Amministrazione un significato legale

tipico non produttivo di effetti lesivi (cd silenzio assenso).

Nel tempo c'è stato un crescente rilievo dell'argomento del silenzio

tale da indurre il Legislatore, anche su stimolo della giurisprudenza

sviluppatasi, a dettare precise regole al riguardo.

La prima evoluzione normativa la troviamo negli anni ' 90, sia con la

legge 241, che canonizza il principio di doverosità dell'esercizio del

potere amministrativo e della certezza dei tempi dell'azione pubblica,

sia con la legge 86 che, nel riscrivere l'art. 328 c.p., incrimina la

condotta dell'agente pubblico il quale, entro trenta giorni dall'istanza

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di chi vi abbia interesse, non adotta l'atto del suo ufficio e non espone

le ragioni del ritardo.

A susseguire abbiamo le riforme "Bassanini". Attraverso l'art 17

(lettera f) della L 59\1997 viene introdotta la regola della generale

indennizzabilità dei pregiudizi derivanti dal ritardo in cui incorre la

Pubblica Amministrazione nella definizione dei procedimenti

amministrativi. La norma avrà una parziale attenuazione ma un

passo decisivo si avrà con la sentenza delle S.U. della Cassazione

n.500/1999 con la quale si riconosce la risarcibilità del danno da

lesione d’interessi legittimi e finisce per ricomprendervi anche la

ristorabilità del danno da silenzio.

L'interesse sul silenzio continua a persistere, così come quello per la

tempistica amministrativa: vengono introdotti due distinti

provvedimenti di modifica della Legge 241/1990: la legge 15/2005 e

80/2005. Esse sanciscono un vero e proprio cambiamento nel modo

di concepire l'inerzia amministrativa. Da una parte vengono

liberalizzate tutte quelle attività private prima sottoposte a

provvedimenti autorizzativi (cd DIA e successivamente modificata in

SCIA a seguito della Legge 122/2010), dall'altra invece

generalizzando, mediante la riformulazione dell'art 20 della L 241

del 1990, il silenzio assenso che viene esteso a tutti i procedimenti

rilasciati dalle amministrazioni preposte alla cura di interessi

qualificati (difesa nazionale, pubblica sicurezza, immigrazione,

patrimonio culturale e paesaggistico, ambiente) e dei casi in cui la

normativa comunitaria impone l'adozione di provvedimenti formali.

Il silenzio assenso diventa un istituto generale il cui scopo è quello di

ridimensionare il più possibile i casi in cui l'inerzia

dell'amministrazione è in grado di produrre effetti negativi in danno

al privato, costringendolo ad attivarsi sul piano giudiziario per

ovviare all'inattività creatasi.

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Il silenzio inadempimento, invece, non assume valore

procedimentale, ed è stato regolato dall'art. 2 della L 241 del 1990.

La norma ha introdotto importanti novità: l'eliminazione della previa

diffida ai fini della formazione del silenzio inadempimento,

l'eliminazione dell'assoggettamento al termine decadenziale di cui

all'art. 2 della legge TAR per la proposizione del ricorso avverso il

silenzio, l'introduzione di un maggior sindacato giurisdizionale del

giudice amministrativo in sede di ricorso che consente a quest'ultimo

di conoscere della fondatezza dell'istanza.

Recentemente il legislatore con la L. 69 del 2009, che modifica l'art.

2 della L. 241 del 1990, ha individuato un costante controllo dei

tempi dell'azione amministrativa con una rimodulazione dei termini

di conclusione del procedimento e ha introdotto forme di

responsabilità per scoraggiare l'inerzia ingiustificata

dell'amministrazione.

Le principali figure di silenzio amministrativo sono costituite da:

- Silenzio Assenso:

Si crea quando, decorso il termine di provvedere senza che la P.A. si

sia pronunciata, l'istanza presentata dal privato si ritiene accolta.

E' un rimedio preventivo in quanto essendo previsto con legge, non

rende inerte la P.A. e non produce effetti negativi per il privato. Il

riferimento normativo viene individuato nell'art. 20 della legge 241

del 1990.

A seguito della modifica introdotta dal d.l. 35\2005, convertito nella

legge 80\2005, il silenzio assenso costituisce la regola nel nostro

ordinamento per i procedimenti ad istanza di parte, pur essendoci un

temperamento da parte di una serie di eccezioni. Presupposto del

silenzio assenso è quello secondo cui la legge effettua una

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preliminare valutazione astratta della compatibilità dell'attività

privata con l'interesse pubblico.

Fatta salva l'applicazione dell'art. 19 (che attiene alla dichiarazione di

inizio attività), il silenzio equivale all'accoglimento dell'istanza del

privato e, quindi, all'adozione del provvedimento richiesto da questo,

senza necessità di ulteriori istanze o diffide, se l'amministrazione non

comunica all'interessato, nel termine in cui all'art. 2 c. 2 e 3, il

provvedimento di diniego, ovvero non procede ai sensi del c.2. Ci

sono però una serie di eccezioni in ordine alle quali il silenzio non

può valere come assenso, ma va qualificato come il silenzio-

inadempimento; la deroga opera in riferimento ai casi di

procedimenti "riguardanti" il patrimonio culturale e paesaggistico,

l'ambiente, la difesa nazionale, la pubblica sicurezza e

l'immigrazione, la salute, la pubblica incolumità e tutti gli altri casi

per i quali la Pubblica amministrazione dovrebbe provvedere su

istanza del privato.

-Silenzio- Rifiuto o Silenzio- Inadempimento:

Ormai si tratta di denominazioni assimilabili ma le due espressioni

costituiscono il risultato di due differenti impostazioni, elaborate

dalla dottrina, per qualificare l'inerzia della Pubblica

Amministrazione. Nelle prime teorizzazioni del fenomeno si

qualificava l'inerzia come provvedimento amministrativo tacito (in

giurisprudenza si richiama la storica pronuncia " LONGO" del

Consiglio di Stato, sez. IV, del 22 agosto del 1902 n . 429).

Muovendo dalla considerazione impugnatoria del processo

amministrativo si è aderito ad una concezione attizzia del silenzio,

rinvenendo nello stesso una manifestazione tacita della volontà di

respingere la richiesta avanzata dal privato. Ma, sul versante

processuale, questa impostazione reca con se la natura impugnatori

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del giudizio instaurato ovvero il silenzio e la natura costitutiva della

conseguente tutela dato che il giudice adito non poteva che annullare

l'atto tacito di reiezione. E' stata contestata l'equiparabilità del

comportamento inerte ad una forma tacita, fittizia o presunta di

esercizio del potere alla luce del fatto che l'agire della P.A. deve

svilupparsi secondo procedure che seguono schemi formali e non si

possono estendere a queste figure privatistiche quali le

manifestazioni tacite di volontà. Sul versante della consistenza della

tutela, la concezione attizzia è stata criticata laddove preclude al

giudice l'indagine sui motivi, di fatto e di diritto, sottesi al rifiuto

tacitamente manifestato, con la conseguenza che la P.A. conserva

intatte la disponibilità dell'affare amministrativo e la relativa potestà

decisionale, che potrà essere esercitata senza alcun condizionamento

derivante dalla sentenza, attraverso l'adozione di un successivo atto

formale. Diversamente, per la tesi ormai prevalente il silenzio integra

un mero comportamento e quindi un inadempimento dell'obbligo di

provvedere gravante sull'amministrazione. Si tratta quindi di un fatto

(di una violazione dell'obbligo di provvedere entro il termine fissato

dalla legge) avente un mero valore di presupposto processuale per

adire al giudice amministrativo.

Dapprima la giurisprudenza, abbandonando lo schema attizio, e

successivamente il legislatore, che nel forgiare il "nuovo" rito

avverso il silenzio ha accolto l'idea della inespressività del silenzio

sotto il profilo sostanziale e procedimentale, si sono resi conto

dell'inadeguatezza della ricostruzione in termini attizi del silenzio e

delle ricadute processuali connesse. Oggi il silenzio è da intendersi

alla stregua di inadempimento avverso l'inerzia della P.A.

nell'adozione di un provvedimento amministrativo. Questa figura di

silenzio è indicativa del solo inadempimento della Pubblica

Amministrazione rispetto al dovere di definire il procedimento con

l'adozione di un provvedimento espresso nel rispetto della tempistica

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procedimentale. Il silenzio inadempimento è disciplinato, sul

versante sostanziale dall'art. 2 della L. 241 del 1990 di recente

riscritto dalla L. 15 del 2005 e n 80 del 2005.

Attualmente è entrato in vigore il Codice del processo

Amministrativo. Nel libro IV, all'art. 117 ha tracciato le linee

essenziali del rito speciale per promuovere ricorso avverso il silenzio

amministrativo non significativo.

Il ricorso va promosso contro il silenzio amministrativo che si forma

ai sensi dell'art. 2 della L. n 241 del 1990, così come da ultimo

modificato dalla L. n 69/2009 da parte di chi vanti un interesse

legittimo al provvedimento omesso. In tal senso l'interesse al ricorso

va escluso nel caso in cui il bene della vita richiesto sia costituito da

attività materiale o da un provvedimento in autotutela della P.A.;

inoltre il rito può essere azionato solo laddove il ricorrente vanti una

posizione sostanziale di interesse legittimo e non laddove sia titolare

di un diritto soggettivo al provvedimento omesso.

Nel caso di silenzio amministrativo che si protragga oltre il termine

di cui all'art. 2 della L. n 241 del 1990, il titolare di un interesse

legittimo al provvedimento può adire il Giudice Amministrativo e

dovrà farlo con il rito camerale di cui all'art. 117 del processo

amministrativo, con atto notificato all'Amministrazione e ad almeno

un controinteressato nel termine oggi previsto dall'art. 31 del

medesimo codice che permane quello di un anno dalla scadenza del

termine per la conclusione del procedimento.

In ogni caso, anche se sul punto la nuova norma tace, dovrebbe

ritenersi confermata la possibilità di ricorrere avverso il silenzio

amministrativo una volta che lo stesso si sia formato e senza la

necessità della previa diffida ad adempiere. Confermato è, altresì, il

termine annuale dal momento della formazione del silenzio per poter

attivare il rito ex art. 117 del codice.

Particolarmente significative sono le previsioni di cui ai commi 5 e 6

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che sanciscono la possibilità di svolgere motivi aggiunti in seno al

rito camerale avverso eventuali atti medio tempore adottati

(provvedimento espresso sull'istanza o comunque provvedimenti

connessi).

Nella disciplina previgente, era opinione prevalente quella secondo

cui la specialità del rito non consentiva l'impugnativa del

provvedimento espresso a mezzo di motivi aggiunti ma determinava

la sopravvenuta cessazione della materia del contendere o

l'improcedibilità del ricorso per difetto di interesse.

Analoga concentrazione è prevista con riferimento all'azione

risarcitoria che può essere proposta congiuntamente con il ricorso

avverso il silenzio amministrativo ma la domanda risarcitoria sarà

trattata con il rito ordinario. La decisione del giudice è assunta in

forma semplificata e consiste nell'ordine di provvedere in un termine

normalmente non superiore a trenta giorni; con la sentenza il Giudice

Amministrativo può procedere alla nomina di un commissario ad

acta che si sostituisca alla P.A. in caso di sua persistente inerzia o

può limitarsi a compulsare la P.A. a provvedere salva la successiva

nomina del commissario ad acta in caso di persistente inerzia.

Innovativo è, poi, il terzo comma che stabilisce la competenza del

Giudice Amministrativo a decidere su tutte le questioni relative agli

atti del commissario che non dovranno, dunque, essere impugnati

con ricorso ordinario di legittimità.

Nell'art. 31 è previsto che il GA possa pronunciarsi sulla fondatezza

della pretesa solo qualora non residuino margini di discrezionalità

amministrativa. La norma chiude il dibattito formatosi all'indomani

delle modifiche apportate all'art. 21 bis della Legge Tar da parte del

Decreto 35 del 2005 che aveva indotto una parte della dottrina a

ritenere, nella specie, esistente una nuova giurisdizione di merito del

GA a fronte dell'illegittima inerzia della PA.

Ma questo verrà affrontato nei capitoli che seguono.

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Capitolo II.

QUANDO NASCE L'OBBLIGO DI PROVVEDERE DELLA

PUBBLICA AMMINISTRAZIONE.

1. L’OBBLIGO DI PROVVEDERE IN CAPO ALLA PUBBLICA

AMMINISTRAZIONE

Al silenzio non può ricondursi un significato negoziale, salvo che ad

attribuirgli un senso non siano, in via eccezionale, la legge e le

circostanze fattuali nel loro complesso, considerate secondo il

canone generale della buona fede (cd tipizzazione legislativa del

silenzio: art. 1333 del c.c. contratto con obbligazioni del solo

proponente; art. 1832 comma 1 del c.c. approvazione dell'estratto

conto.. ).

Nel diritto amministrativo, l'esplicazione dell'obbligo dell'autorità

pubblica di concludere un procedimento in forma espressa e in tempi

certi e, correlativamente, la tendenziale qualificazione del silenzio in

termini di disvalore, ossia di violazione di una norma cogente, è uno

dei capisaldi della Legge 7 agosto 1990 n. 241, il cui art. 2 recita, in

maniera sintetica ma eloquente: "ove il procedimento consegua

obbligatoriamente a un'istanza, ovvero debba essere iniziato

d'ufficio, le Pubbliche Amministrazioni hanno il dovere di

concluderlo mediante l'adozione di un provvedimento espresso".

Tuttavia questa previsione non assume portata innovativa

dell'ordinamento previgente limitandosi semmai a consacrare un

principio di civiltà giuridica, attraverso la tecnica legislativa della

norma in bianco, che di volta in volta costituiscono l'effettivo

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contenuto del dovere. L'obbligo di provvedere, se di solito si fonda

su una norma di legge o su un regolamento, può talora essere desunto

da un atto amministrativo con cui l'autorità decidente autolimita

l'esercizio dei suoi poteri discrezionali o predetermina i contenuti

futuri della sua azione1* ovvero dai principi regolatori generali

dell'azione amministrativa e quindi dei canoni di legalità, buon

andamento, correttezza, giustizia ed equità sostanziale, come ad

esempio nelle ipotesi in cui l'autorità, col suo comportamento, induca

un affidamento nel privato2* il che non si verifica nei casi di

domanda di riesame riguardo un atto divenuto inoppugnabile per

spirare del termine di decadenza3*, ove non siano sopraggiunti

significativi mutamenti della situazione di fatto e di diritto4* di

domanda di estensione ultra partes del giudicato5*; di istanza

manifestamente infondata6* o manifestamente assurda

7* od in ultimo

in presenza di domanda illegale, non potendosi dare corso alla tutela

di interessi illegittimi.

Quindi, indipendentemente dall'esistenza di specifiche norme che

impongano ai pubblici uffici di pronunciarsi su ogni istanza non

palesemente abnorme dei privati, non può dubitarsi che, in regime di

trasparenza e partecipazione, il relativo obbligo sussiste ogni

qualvolta esigenze di giustizia sostanziale impongano l'adozione di

un provvedimento espresso, in ossequio al dovere di correttezza e

buona amministrazione ( art. 97 della Costituzione), in rapporto al

quale il privato vanta una legittima e qualificata aspettativa a

1 1* (TAR Sicilia Palermo sez II 2 aprile 2008 n 436) 2 (Cons. di Stato sez V 22 novembre 1991 n 1331 e 15 marzo 1999 n 250, e TAR Lazio sez I

26 gennaio 1991 n 83 TAR Abruzzo 16 luglio 1990 n 360) 3 *(Cons. di Stato sez V 27 marzo 2000 n 1765 e Sez. VI 27 gennaio 1999 n 69; TAR

Campania - Napoli sez III 23 novembre 2001 n 5014) 4 ( Cass. Civile sez.un. 20 gennaio 1969 n 128; Cons. di Stato sez V 18 gennaio 1995 n 89) 5 ( Cons Stato sez IV 20 novembre 2000 n 4592) 6 *( Cons di stato sez IV 20 novembre 2000 n 6181; sez V 3 agosto 1993 n 838 e 7 maggio

1994 n 418 ) TAR Campania-Napoli sez III 10 aprile 2002 n 1969) 7 *( Cons di stato sez IV 28novembre 1994 n 950)

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un'esplicita pronuncia8.

Prima che entrasse in vigore la L. 241 del 1990 si riteneva che la

presentazione di un'istanza da parte di un privato determinasse un

obbligo di procedere più che di provvedere, un obbligo cioè che di

sottoporre l'istanza all'ufficio che, nell'ambito del procedimento, era

investito della fase istruttoria o di altre fasi preliminari. Di

conseguenza l'inadempimento di uno qualunque degli uffici bloccava

la sequenza procedimentale, vanificando la pretesa sostanziale del

privato pregiudicandone la tutela.

Il giudice amministrativo si è in più occasioni posto il problema della

tutela da accordare al cittadino alla presenza di comportamenti

omissivi della P.A..

Infatti, se l'Amministrazione mantiene il silenzio sull'istanza di un

soggetto tale inerzia non può significare alcunché né in positivo né in

negativo. La formalizzazione dell'atto, infatti, rappresenta la modalità

attraverso cui si realizza il corretto esplicarsi dell'azione

amministrativa, ma è anche posta a tutela del privato il quale può

esercitare i suoi diritti di tutela giurisdizionale nei confronti di un

atto riconoscibile. Nel caso di silenzio inadempimento della PA

l'ordinamento reagisce in vario modo:

- prevedendo sanzioni amministrative civili (art 25 TU impiegati

civili dello Stato)

- sanzioni penali (art 328 c.p)

-sanzioni disciplinari

-si può imporre alla P.A. un obbligo di indennizzo per mancato

rispetto del termine di cui all'art. 2 della legge 241 del 1990

-conferendo poteri sostitutivi attribuendo in ipotesi tassativamente

determinate un significato all'inerzia.

8 ( Cons. di Stato sez VI 11 maggio 2007 n 2318 ; TAR CALABRIA - Catanzaro sez I 4

giugno 2010 n 1051.

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Non è sempre facile stabilire quando sussista o meno l'obbligo in

capo alla Pubblica Amministrazione di agire, anche se la

giurisprudenza prevalente, partendo dal principio generale della

doverosità dell'azione amministrativa, tende ad ampliare l'ambito

delle situazioni in cui per la P.A. vi è l'obbligo di provvedere, al di là

delle situazioni già stabilite dalla legge.

L'obbligo di provvedere, oltre ai casi previsti dalla legge, esiste in

tutte quelle particolari fattispecie nelle quali ragioni di giustizia ed

equità impongono l'adozione di un provvedimento.

La giurisprudenza amministrativa, in particolar modo con la sentenza

del Consiglio di Stato sez. VI 11 maggio 2007, n. 2318, ha tentato di

individuare alcune categorie di atti rispetto ai quali sussisterebbe o

meno il suddetto obbligo.

Tra queste categorie troviamo:

- Istanze dirette a ottenere un provvedimento favorevole.

- Istanze di riesame di atti sfavorevoli emanati in precedenza.

- Istanze dirette a produrre effetti sfavorevoli nei confronti di terzi,

dall’adozione dei quali il richiedente possa trarne direttamente

vantaggi ( interessi strumentali).

2. ISTANZE DIRETTE AD OTTENERE UN PROVVEDIMENTO

FAVOREVOLE.

Questo tipo di istanze determinano l'obbligo di provvedere della P.A.

quando chi le presenta sia titolare di un interesse legittimo

pretensivo. Il soggetto che ha un interesse differenziato e qualificato

a un bene della vita, per il cui conseguimento è necessario che la

P.A. eserciti il proprio potere mediante l'emanazione del

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provvedimenti, è titolare di una situazione giuridica che lo legittima,

anche in assenza di specifiche norme di previsione.

Se l'istanza presentata dal richiedente sia manifestamente infondata o

esorbitante rispetto alle pretese riconducibili al rapporto

amministrativo, l'obbligo di provvedere da parte della P.A. può

mancare.

3. ISTANZE DI RIESAME DI ATTI SFAVOREVOLI EMANATI

IN PRECEDENZA.

Questo tipo di istanza invece, volta ad ottenere il riesame da parte

dell'amministrazione di un atto amministrativo non impugnato

tempestivamente dal richiedente, non comporterebbe, di regola, un

obbligo di riesame da patte della P.A., in quanto il suddetto obbligo

potrebbe inficiare le ragioni di certezza delle situazioni giuridiche e

di efficienza gestionale che sono alla base dell'agire autoritativo della

P.A. nonché della inoppugnabilità dopo il termine di decadenza dei

relativi atti.

4. ISTANZE DIRETTE A PRODURRE EFFETTI SFAVOREVOLI

NEI CONFRONTI DI TERZI, DALL’ADOZIONE DEI QUALI IL

RICHIEDENTE POSSA TRARNE INDIRETTAMENTE

VANTAGGI.

Questo tipo d’istanza è volta a far ottenere al richiedente l'esercizio

da parte della P.A. di poteri sfavorevoli per soggetti terzi, come ad

esempio poteri repressivi, inibitori, sanzionatori. In realtà è difficile

distinguere tra istanza che fa nascere l'obbligo di provvedere e

l'esposto quale rappresentazione di una data situazione. Stante la

difficoltà, il criterio distintivo elaborato dalla giurisprudenza, tra

istanza idonea a innescare il dovere di provvedere e semplice

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esposto, va ravvisato nell'esistenza in capo all'istante di uno specifico

e rilevante interesse che valga a differenziare la sua posizione da

quella della collettività.

Esistono tre categorie di atti amministrativi alla cui emanazione il

cittadino può avere interesse:

1- Atti di contenuto favorevole che ampliano la sfera giuridica del

richiedente

2- Riesame di atti sfavorevoli precedentemente emanati;

3- Atti diretti a produrre effetti sfavorevoli nei confronti di terzi,

dall'adozione dei quali il richiedente possa trarre indirettamente

vantaggi (cd interessi strumentali).

Quanto alla prima categoria, l'istanza diretta ad ottenere un

provvedimento favorevole determina un obbligo di provvedere

quando chi la presenta sia titolare di un interesse legittimo

pretensivo. Non è dubitativo, infatti, che colui che ha un interesse

differenziato e qualificato a un bene della vita per il cui

conseguimento è necessario l'esercizio del potere amministrativo sia

titolare di una situazione giuridica che lo legittima, pur in assenza di

una norma specifica che gli attribuisca un autonomo diritto

d’iniziativa, a presentare un'istanza dalla quale nasce in capo alla

P.A. quantomeno un obbligo di pronunciarsi.

Anche in questi casi, tuttavia, l'obbligo di provvedere pur sussistendo

in astratto, può risultare mancante in concreto. Ciò accade ad

esempio quando la domanda inoltrata dal privato sia manifestamente

infondata o esorbitante dall'ambito delle pretese astrattamente

riconducibili al rapporto amministrativo.

Per quanto riguarda la categoria del riesame di atti precedenti non

impugnati, secondo la giurisprudenza consolidata, l'istanza del

privato che mira ad ottenere il riesame da parte della Pubblica

Amministrazione di un atto autoritario, non impugnato

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immediatamente dal medesimo, non comporta, di regola, la

configurazione di un obbligo di riesame, in quanto tale obbligo

inficerebbe le ragioni di certezza delle situazioni giuridiche e di

efficienza gestionale che sono alla base dell'agire autoritàtivo della

P.A. e della inoppugnabilità dopo il termine di decadenza dei relativi

atti.

Maggiori problemi li abbiamo con la terza categoria d’istanze:

quando il privato sollecita l'esercizio di poteri sfavorevoli (repressivi,

inibitori, sanzionatori) nei confronti dei terzi, non è sempre agevole

distinguere tra l'istanza che fa nascere l'obbligo di provvedere e il

semplice "esposto", che ha mero valore di denuncia inidonea a

radicare una posizione d’interesse tutelata sia dall'apertura del

procedimento conclusivo, sia della conclusione dello stesso in modo

conforme. Il criterio distintivo tra istanza (idonea a radicare il dovere

di provvedere) e mero esposto, deve essere ravvisato nell'istanza in

capo al privato di uno specifico e rilevante interesse che valga a

differenziare la sua posizione da quella della collettività.

Occorre quindi che il comportamento omissivo dell'Amministrazione

sia stigmatizzato da un soggetto qualificato, in quanto per l'appunto,

titolare di una situazione di specifico e rilevante interesse che lo

differenzia da quello generalizzato di per sé non immediatamente

tutelabile. Quando questo accade, l'eventuale inerzia

dell'Amministrazione assume una connotazione negativa e

censurabile dovendo l'Ente dar comunque seguito9 .*

9 (Consiglio di Stato, sez VI, Sent 11 maggio 2007 n 2318).

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Capitolo III.

IL SILENZIO INADEMPIMENTO (RIGETTO).

1. LA SUA FORMAZIONE

Di fronte a un mero comportamento inadempiente dell’obbligo di

provvedere dell’Amministrazione entro il termine fissato dalla legge,

c’è stato, negli ultimi 20 anni, oltre che un serrato confronto

dottrinale e giurisprudenziale, anche una intensa evoluzione

legislativa. La linea di partenza è rappresentata dall’art.2 della legge

241/1990 che ha introdotto il principio della certezza temporale

dell’azione della P.A. ed il principio di doverosità dell’esercizio del

potere amministrativo, e cioè dell’obbligo di concludere il

procedimento mediante l’adozione di un provvedimento espresso.

Dopo 10 anni il legislatore è ritornato sull’istituto con l’articolo 2

della legge 21 luglio 2000 n. 205 introducendo nella legge Tar del

1971 l’articolo 21- bis, per disciplinare un apposito rito sul silenzio

rifiuto, connotato dalla brevità dei termini processuali, senza, però,

nulla dire in ordine ai presupposti per la formazione del silenzio

stesso, il termine per impugnarlo e l’ampiezza del sindacato del

giudice amministrativo, aspetti questi ultimi costruiti e definiti dalla

giurisprudenza. Tali lacune vennero colmate in seguito con le leggi

n. 15 dell’11 febbraio 2005 e la successiva coeva legge 80 del 14

maggio 2005. La prima ha eliminato la necessità della previa diffida

per attribuire un significato al silenzio ed ha previsto un termine

annuale di decadenza per l’impugnazione del silenzio rifiuto tramite

il ricorso di cui all’articolo 21 bis della legge 1034/1971. La seconda

legge ha dettato una disciplina più articolata del termine per

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provvedere, sia in ordine alle modalità di determinazione della P.A.

sia in ordine al termine sussidiario, elevato da trenta a novanta

giorni.

Con la stessa legge n. 80/2005 il legislatore, nel riformulare l’art. 2

della legge 241 del 1990, ha introdotto al comma 5 la previsione

secondo la quale nei giudizi contro il silenzio–rifiuto il Giudice

Amministrativo può conoscere della fondatezza dall’istanza. In

ordine all’intensità di siffatto sindacato giurisdizionale si sono

fronteggiati in giurisprudenza due orientamenti. Il primo, criticato

dalla dottrina maggioritaria, secondo il quale il nuovo articolo 2,

comma 5 della legge 241/1990 avrebbe introdotto una ulteriore

ipotesi di giurisdizione di merito con conseguente potere (sostitutivo)

del giudice di conoscere il merito dell’istanza. Il secondo, più recente

e prevalente, che nega, con diverse argomentazioni, la possibilità del

giudice amministrativo di sostituirsi agli apprezzamenti discrezionali

della Pubblica Amministrazione, potendo valutare la fondatezza della

pretesa solo in relazione ad istanze tese a ottenere provvedimenti

vincolati e alle ipotesi di manifesta fondatezza.

Questa evoluzione legislativa sul comportamento inerte

dell’amministrazione e sulle conseguenze per il suo ritardo nella

conclusione del procedimento si è conclusa, oggi, con la legge 18

giugno 2009 n. 69 che ha apportato modifiche alla normativa sul

procedimento stesso con l’intento precipuo di una ulteriore

semplificazione e ottimizzazione dell’azione amministrativa.

La legge da una parte ha snellito le procedure d’individuazione dei

termini per provvedere, anche attraverso la limitazione del ricorso a

evenienze sospensive o interruttive della relativa durata, e, dall’altro,

prevedendo, come vedremo, nuove forme di responsabilità

conseguenti all’inosservanza degli stessi termini. Quanto al termine

per la conclusione del procedimento l’art. 2 della legge 241/1990,

come modificato dall’art.7 della legge n. 69/2009, ha reintrodotto il

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termine di 30 giorni dall’avvio del procedimento stesso,in mancanza

di un diverso termine previsto dalla Legge o dalle Amministrazioni

Pubbliche.

Esaminiamo la normativa nel dettaglio.

Nella formulazione dell'articolo sono state introdotte importanti

novità che riguardano il procedimento nei confronti del silenzio

inadempimento della Pubblica Amministrazione. Per prima cosa,

come già detto in precedenza, era finita la lunga disputa sulla

necessità o meno della previa diffida e sui termini del ricorso.

Il ricorso avverso il silenzio inadempimento non costituiva un'azione

impugnatori ma un'azione dichiarativa e di condanna . Le modifiche

apportate dalla novella del 2005 hanno disposto che la domanda

giudiziale non doveva più essere sottoposta alla previa diffida, e in

luogo dello stringente termine decadenziale di 60 giorni, ha

introdotto il termine lungo di un anno, decorso il quale il privato

perde ogni possibilità di tutela.

Una volta scaduto il termine annuale l'istante non può più impugnare

il silenzio che si è formato sulla sua prima istanza. Nonostante questo

potrà comunque procedere con la presentazione di una nuova istanza.

Infatti, il termine finale di un anno entro il quale l'azione non è più

proponibile è stato previsto a tutela della Pubblica Amministrazione,

affinché la situazione d’incertezza non si protragga per un tempo

indefinito. Scaduto l'anno, il soggetto non potrà più esercitare

eventuali azioni ma gli sarà consentito soltanto di attivare un nuovo

procedimento amministrativo.

Gli interventi normativi degli ultimi anni hanno sensibilmente

migliorato il quadro delle tutele riconosciute a cittadini e imprese nei

confronti della P.A.

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In particolare, la definizione di nuove regole sui termini di

conclusione dei procedimenti amministrativi e la previsione del

risarcimento del danno da ritardo causato dalla P.A. al privato per

effetto della loro colpevole inosservanza hanno fornito strumenti

importanti di tutela, che hanno già trovato applicazione

giurisprudenziale.

Il quadro normativo di riferimento è rappresentato dagli artt. 2 e 2bis

della legge n. 241/1990, come modificati dall’art. 7 della legge

competitività (legge n. 69/2009), dagli artt. 30 (azione di condanna) e

31 (azione avverso il silenzio) del Codice del Processo

Amministrativo (d.lgs. n. 104/2010 e dal d.lgs. n. 198/2009 per

l’azione per l’efficienza della P.A.).

L’art. 2, Co. 1, della legge n. 241/1990 prevede, come visto in

precedenza, l’obbligo della P.A. di concludere i procedimenti

amministrativi mediante l’adozione di un provvedimento espresso,

per assicurare al privato la certezza dei tempi di risposta degli uffici

pubblici. Questa disposizione viene derogata solo nell’ipotesi in cui

il silenzio della P.A. riceve una specifica qualificazione da parte

dell’ordinamento. Si tratta dei casi in cui, per finalità di

semplificazione e celerità dei procedimenti, il silenzio è equiparato

ad un atto di assenso (es. SCIA, DIA, silenzio-assenso), ovvero in

cui, per finalità organizzative e di tutela di interessi pubblici

superiori, il silenzio della P.A. viene equiparato al rifiuto (cd.

silenzio-rigetto). Per contestare eventuali illegittimità connesse a tali

tipologie di procedimenti l’azione prevista dall’ordinamento è quella

di annullamento di cui all’art. 29 del Codice del Processo

Amministrativo che, come per i provvedimenti espressi, può essere

proposta nel termine di decadenza di 60 giorni per violazione della

legge, incompetenza o eccesso di potere. Al di fuori di questi casi, la

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P.A., oltre all’obbligo di concludere il procedimento avviato su

istanza del privato o iniziato d’ufficio, deve anche rispettare i termini

previsti dalle norme di legge o di regolamento. Se non lo fa, il

silenzio è considerato inadempimento all’obbligo di provvedere (cd.

silenzio-inadempimento). Al riguardo, come già esaminato, l’art. 2

della legge n. 241 ha ridotto drasticamente i termini per la

conclusione dei procedimenti, fissandoli in via generale a 30 giorni, a

meno che con regolamento statale o con norme regionali vengano

innalzati fino a 90 o 180 giorni per motivi legati alla complessità

delle procedure, esigenze organizzative o rilevanza degli interessi

tutelati. L’obiettivo della norma è accelerare l’attività degli uffici

pubblici, posto che il tempo per la definizione delle pratiche

amministrative costituisce un importante fattore per la

programmazione e lo svolgimento delle attività private, soprattutto

per quelle economiche, per le quali la veloce definizione dei

procedimenti amministrativi costituisce un fattore di competitività.

A sostegno del privato, a fronte dell'esigenza di certezza e celerità

dell'attività amministrativa, troviamo l’art. 29, co. 2-bis, della legge

n. 241, anch'esso modificato dalla legge n. 69, che considera la

disciplina dei termini di conclusione dei procedimenti livello

essenziale delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che

devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale ai sensi dell’art.

117, co. 2, lett. m), Cost. Rientrano nel concetto di “diritti civili e

sociali” anche gli interessi legittimi, cioè le posizioni giuridiche

soggettive riconosciute dall’ordinamento ai privati quando entrano in

rapporto con la P.A. nell’esercizio dei suoi poteri autoritativi (artt. 24

e 113, Cost.). Considerato il riparto di competenze normative

disposto dalla Costituzione all’art. 117, lo Stato deve quindi

consentire alle regioni di regolare i procedimenti di loro competenza

nel rispetto delle norme minime previste dall’art. 2 della legge n.

241. La violazione dei termini procedimentali costituisce anche il

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presupposto per il riconoscimento del danno da ritardo patito dal

privato ai sensi dell’art. 2-bis della legge n. 241. Anche tale

disposizione è vincolante per tutte le amministrazioni pubbliche ai

sensi dell’art. 29, co. 1, della medesima legge. Tuttavia, in questo

caso la norma non rappresenta un livello essenziale delle prestazioni

che devono essere garantite su tutto il territorio, per cui è esclusa la

necessità di assicurare alle regioni un margine di potestà normativa,

posto che il tema rientra nell’ambito dell’ordinamento civile, su cui

lo Stato ha competenza esclusiva (art. 117, co. 2, lett. l, Cost.).

Infatti, l’art. 2-bis della legge n. 241 può essere considerato

un’applicazione del generale principio contenuto nell’art. 2043 c.c.,

che riconosce il diritto (soggettivo) al risarcimento dei danni patiti in

conseguenza della condotta dolosa o colposa tenuta da terzi,

compresa la P.A.

Il rispetto dei termini di conclusione dei procedimenti amministrativi

delinea il contenuto dell’interesse legittimo del privato che entra in

rapporto con la P.A., la cui violazione rende azionabile in giudizio

tale interesse al fine di ottenere protezione dal giudice. Il danno da

ritardo invece è la lesione di quello che la dottrina e la

giurisprudenza10

* chiamano “bene della vita” o “interesse

sostanziale”, che a differenza dell'interesse di mero fatto, rileva per

l'ordinamento e alla cui tutela è strumentale l’interesse legittimo del

privato.

La lesione di tale interesse quindi non genera di per sé un danno

risarcibile. Affinché si verifichi ciò è necessario che attraverso la

violazione dell’interesse legittimo (violazione dei termini del

procedimento) consegua anche uno svantaggio o un mancato

vantaggio nella sfera giuridica del privato titolare dell’interesse, che

giustificano la richiesta di risarcimento alla P.A. responsabile.

10 (v. per tutte Cassazione, sent. n. 500/1999)

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24

L'omesso o ritardato esercizio della funzione pubblica rileva quindi

sotto due profili: il primo attiene all'illegittimità della condotta della

P.A. connessa alla violazione delle regole del procedimento (obbligo

di provvedere nei termini definiti con legge o regolamento); il

secondo all'illiceità della condotta della P.A. che, nel violare le

regole del procedimento, cagiona un danno ingiusto al privato.

La tutela degli interessi dei privati è in concreto rimessa agli

strumenti previsti dall’ordinamento, considerata la patologica

inosservanza degli stessi da parte degli Uffici Pubblici. Le azioni

concesse al privato per contrastare gli effetti negativi di tali condotte

della P.A. sono rappresentate dall'azione avverso il silenzio (art. 31,

Codice del Processo Amministrativo), diretta a censurare l'illegittima

violazione delle regole procedimentali, e l'azione risarcitoria (art. 30,

Codice del Processo Amministrativo), diretta al ristoro del privato

danneggiato.

La violazione dei termini di conclusione dei procedimenti rileva

anche ai fini dell'esperimento del ricorso diretto a ripristinare le

condizioni di efficienza di una determinata P.A. (art. 1, d.lgs.

198/2010). Si tratta, come si vedrà, di una particolare tipologia di

azione che può essere esercitata collettivamente dai privati, anche per

mezzo delle associazioni o comitati di rappresentanza d’interessi

collettivi.

Con l’approvazione del nuovo Codice del Processo Amministrativo è

stata riscritta la disciplina del ricorso contro il silenzio della P.A.,

prima contenuta nell’artt. 2, co. 8, della legge n. 241 e nell’art. 21-bis

della legge TAR (legge n. 1034/1971). L’art. 3, co. 2, lett. a),

dell’Allegato 4 del Codice ha sostituito l’art. 2, co. 8, della n. 241,

stabilendo che la tutela in materia di silenzio della PA è disciplinata

dal Codice, mentre l’art. 4, co. 1, n. 10), del medesimo Allegato ha

abrogato l’art. 21-bis della legge TAR.

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25

A decorrere dal 16 settembre 2010 la nuova disciplina del ricorso

contro il silenzio della P.A. è quindi contenuta negli artt. 31 e 117 del

Codice. L’art. 31 del Codice disciplina i presupposti per l’esercizio

dell’azione. La norma prevede che, decorsi i termini per la

conclusione del procedimento amministrativo, chi vi ha interesse può

chiedere l’accertamento dell’obbligo della P.A. di provvedere.

L’azione può essere proposta fintanto che perdura l’inadempimento,

ma in ogni caso non oltre un anno dalla scadenza del termine di

conclusione del procedimento (art. 31, co. 2, Codice). Si tratta di un

termine di decadenza la cui ratio è di stabilizzare la situazione

venutasi a creare per effetto dell’inerzia della P.A.. Trattandosi di

decadenza e non di prescrizione, solo l’esercizio dell’azione ha

effetti interruttivi (si v. art. 2966, c.c.). Ciò comporta che eventuali

diffide non hanno alcun effetto ai fini della sua decorrenza. Tuttavia,

il Codice fa salva la possibilità di riproporre l’istanza di avvio del

procedimento da parte del privato, anche qualora sia scaduto il

termine di decadenza dell’azione avverso il silenzio (art. 31, co. 2),

sul presupposto che quest’ultima incide su posizioni giuridiche

processuali e non sostanziali.

Sebbene il Codice utilizzi il termine “accertamento”, l’azione

avverso il silenzio rappresenta una tipica azione di condanna. Infatti,

mediante tale rimedio giurisdizionale il privato ottiene una pronuncia

da parte del giudice amministrativo con la quale si ordina alla P.A.

inadempiente di provvedere. La pronuncia del giudice ha quindi per

oggetto l’obbligo o meno della P.A. di adottare il provvedimento

conclusivo del procedimento, ma non l’atto positivo chiesto dal

privato ai fini della soddisfazione del suo interesse.

L’art. 31, co. 3, del Codice tuttavia consente al giudice di

pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa dedotta il giudizio quando

si tratta di attività vincolata, ossia quando la P.A., accertati i

presupposti richiesti dalla legge, deve provvedere in senso

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favorevole al privato senza alcuna valutazione discrezionale, o

quando, pur trattandosi di attività discrezionale, non residuano

ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono

necessari adempimenti istruttori. Tale valutazione da parte del

giudice deve essere condotta caso per caso. La norma recepisce la

giurisprudenza formatasi durante la vigenza della precedente

disciplina11

*, che prevedeva genericamente la possibilità per il

Giudice Amministrativo di conoscere la fondatezza della pretesa del

privato (art. 2, co. 8, legge n. 241). Nel caso in cui al giudice sia

consentito di conoscere la fondatezza della pretesa la P.A. può essere

condannata a provvedere in senso favorevole al privato. Tale

condanna però non sostituisce l’emanazione del provvedimento di

esclusiva spettanza della P.A.. L’azione avverso il silenzio, infatti,

rientra nella cd. giurisdizione generale di legittimità, riguardante atti,

provvedimenti e omissioni della P.A., ai fini della tutela degli

interessi legittimi (art. 7, co. 4, Codice). Tale tipologia di

giurisdizione si differenzia quindi da quella con cognizione estesa al

merito, nella quale il giudice amministrativo nei casi consentiti dalla

legge può sostituirsi alla P.A., adottando un nuovo atto, ovvero

modificando o riformando quello impugnato (artt. 7, co. 6, 34, co. 1,

lett. d), 134, Codice).

La pronuncia del giudice può quindi obbligare la P.A. a provvedere

in senso favorevole al privato in conformità alle indicazioni

contenute nella sentenza, ferma restando per la stessa la titolarità di

adottare il relativo atto. L’impossibilità per il giudice di sostituirsi

alla P.A. deriva dal fatto che, una volta intervenuta la pronuncia del

primo, alla seconda non sarebbe consentito di intervenire mediante

gli ordinari poteri di autotutela amministrativa (es. revoca), qualora

ne ricorrano i presupposti, con evidente pregiudizio per la tutela

degli interessi pubblici. Infatti, la P.A. non potrebbe con proprio atto

11 (si v. Consiglio di Stato, IV, sent. n. 5311/2007)

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privare di efficacia la sentenza del giudice, posto che per il principio

della divisione dei poteri non è titolare di tali prerogative.

Va infine segnalato che, nel silenzio della norma, l’accertamento

della manifesta infondatezza dell’istanza del privato alla P.A.

dovrebbe portare a una pronuncia di rigetto da parte del giudice

amministrativo, posto che risulterebbe priva di utilità pratica una

pronuncia del giudice che ordinasse alla P.A. di rigettare l’istanza del

privato.

2. I PRINCIPI IN BASE AI QUALI SUSSISTE L'OBBLIGO DI

PROVVEDERE.

L'obbligo della P.A. di provvedere sussiste in tutte le ipotesi in cui,

in relazione al dovere di correttezza e di buona amministrazione,

sorge per il privato la legittima aspettativa a conoscere il contenuto e

le ragioni delle determinazioni amministrative. In realtà, in ipotesi

del genere, il privato non vanta soltanto una aspettativa, ma una vera

e propria pretesa, che può essere fatta valere in giudizio per ottenere

la condanna della P.A. a pronunciarsi.

Sulla base dell'art. 2 della L 241 del 1990 la Pubblica

Amministrazione deve pronunciarsi su ogni istanza non palesemente

abnorme dei privati e in conseguenza ha sempre l'obbligo di

concludere il procedimento con un provvedimento espresso, positivo

o negativo, che dia puntuale contezza delle relative ragioni, in

ossequio ai principi di affidamento, legittima aspettativa, trasparenza,

partecipazione, correttezza e buona amministrazione di cui all'art 97

Cost.

Ai sensi del comma 3 dell’art. 2 della L. 7 agosto 1990 n. 241, la

P.A. ha l’obbligo di provvedere sulle istanze dei soggetti privati nel

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termine previsto dall’istanza stessa. Decorso tale termine, senza

necessità di previa diffida l’istante può proporre ricorso avverso il

silenzio ex art. 21 bis L. 6.12.1971 n. 1034 entro un anno da tale

scadenza. L’istanza di avvio del procedimento può essere riproposta.

La P.A. è tenuta a fornire motivata risposta sulle istanze dei privati.

Nell’ottica della L. n. 205/2000 il silenzio formatosi su diffida dei

privati a concludere il procedimento è ex se illegittimo.

Deve perciò concludersi che le competenti strutture regionali hanno

il dovere di concludere i procedimenti che vengono avviati con

l'emanazione di un provvedimento espresso12

*.

Ai sensi dell'art. 2 comma 1 L. 7 agosto 1990 n. 241,

l'Amministrazione deve pronunciarsi su ogni istanza non

palesemente abnorme dei privati, e in conseguenza ha sempre

l'obbligo di concludere il procedimento con un provvedimento

espresso, positivo o negativo (e che dia puntuale contezza delle

relative ragioni) in ossequio ai principi di affidamento, legittima

aspettativa, trasparenza, partecipazione, correttezza e buona

amministrazione di cui all’art. 97 Cost.13

La Pubblica Amministrazione ha il dovere di pronunciarsi

sull'istanza del privato, indipendentemente dalla pretesa sostanziale

dedotta dal medesimo; il ricorso contro il silenzio è diretto ad

accertare la violazione dell'obbligo di provvedere sull'istanza del

privato tendente a sollecitare l'esercizio di un pubblico potere, la

sussistenza dell'obbligo di provvedere e la violazione di tale obbligo

in caso d’inerzia14

*.

12 (arg. ex Consiglio Stato, sez. IV, 22 giugno 2004, n. 4441). 13 (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 14 dicembre 2004, n. 7955; Consiglio

Stato, sez. V, 30 marzo 1998, n. 398).

14 (cfr. Consiglio di Stato V sez, 5 febbraio 2007, n 457)

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E', quindi, necessario che l'istante sia titolare di una posizione

qualificata e differenziata, che lo abiliti a richiedere l'adozione di un

provvedimento espresso sulla pretesa da lui azionata. Ed è, altresì,

indispensabile che l'Amministrazione risulti titolare del potere, di cui

sia stato sollecitato l'esercizio, e che, avendo essa l'obbligo di

provvedere, sia rimasta, invece, del tutto inerte sull'istanza del

privato. Posto, dunque, che il nuovo testo dell'art. 2 della legge n 241

del 1990, come sostituito dall'art 3 del D.L. 13.3.2005, n 35

(convertito in L. 14.5.2005, n 80)- il quale ha eliminato

l'obbligatorietà della diffida ed ha introdotto la cognizione del

giudice amministrativo sulla fondatezza dell'istanza, nel giudizio

avverso il silenzio della Pubblica amministrazione, proposto ai sensi

dell'art 21 bis della Legge n 1034/71- non ha fatto venir meno il

presupposto fondamentale consistente nell'ingiustificato

comportamento omissivo della pubblica amministrazione15

.

Con sentenza 8 marzo 2012, n. 453, la Seconda Sezione del TAR

Campania, Salerno, ha affermato l’illegittimità del silenzio serbato

dall’amministrazione nel caso di una richiesta di attribuzione del

numero civico e di denominazione della strada in cui è ubicato

l’immobile di proprietà del ricorrente. Il silenzio della P.A. e, in

particolare, l'omissione di provvedimento acquista rilevanza come

ipotesi di silenzio - rifiuto quando la medesima si sia resa

inadempiente, restando inerte, a un obbligo di provvedere.

Pertanto, a prescindere dall'esistenza di una specifica disposizione

normativa impositiva, l'obbligo di provvedere sussiste in tutte quelle

ipotesi in cui, in relazione al dovere di correttezza e di buona

amministrazione della parte pubblica, sorga per il privato una

legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle

15 * (CONSIGLIO DI STATO N 5499/2007)

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30

determinazioni (qualunque esse siano) di quest'ultima (art. 117 c. p.

a.).

Sotto il profilo processuale, i giudici salernitani hanno rilevato che il

presupposto per l'applicazione del rito speciale è il silenzio della P.A.

e, in particolare, l'omissione di provvedimento che acquista rilevanza

come ipotesi di silenzio - rifiuto, che viola l’obbligo di provvedere

derivante dalla legge o dalla peculiarità della fattispecie per la quale

ragioni di equità impongono l'adozione di un provvedimento.

L'obbligo di provvedere presuppone che l'istanza del richiedente sia

rivolta ad ottenere un provvedimento cui questi abbia un diretto

interesse e che essa non appaia subito irragionevole ovvero risulti

all'evidenza infondata. Pertanto, scopo del ricorso contro il silenzio

rifiuto è ottenere un provvedimento esplicito dell'Amministrazione,

che elimini lo stato di inerzia ed assicuri al privato una decisione che

investe la fondatezza o meno della sua pretesa.

Si legge infatti nella sentenza che il presupposto per l'applicazione

del rito speciale è il silenzio della P.A. e, in particolare, l'omissione

di provvedimento che acquista rilevanza come ipotesi di silenzio

rifiuto, attraverso il relativo, caratteristico procedimento, quando la

medesima si sia resa inadempiente, restando inerte, a un obbligo di

provvedere. Quest'ultimo può scaturire dalla Legge, o dalle

peculiarità della fattispecie, per la quale ragioni di equità impongono

l'adozione di un provvedimento al fine, soprattutto, di consentire al

privato (data la particolarità del processi amministrativo, che è

sostanzialmente un processo sull'atto) di adire la giurisdizione per far

valere le proprie ragioni. L'obbligo di provvedere

dell'Amministrazione, poi, a sua volta, presuppone che l'istanza del

richiedente sia rivolta a ottenere un provvedimento cui questi abbia

un diretto interesse e che essa non appaia subito irragionevole ovvero

risulti all'evidenza infondata.16

*

16 ( cfr T.A.R. LAZIO ROMA SEZ I, 1 DICEMBRE 2010 N 34860)

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Pertanto, scopo del ricorso contro il silenzio rifiuto è ottenere un

provvedimento esplicito dell'Amministrazione, che elimini lo stato

d’inerzia e assicuri al privato una decisione che investe la fondatezza

o meno della pretesa.

La fonte dell'obbligo giuridico di provvedere consiste, di solito, in

una norma di legge, di regolamento o in un altro atto amministrativo,

ma non necessariamente deve derivare da una disposizione puntuale

e specifica, potendosi, talora, desumere anche da prescrizioni di

carattere generale e/o dai principi generali regolatori dell'azione

amministrativa17

*

Il rimedio giurisdizionale previsto dall'art. 117 del codice del

processo amministrativo, che affronteremo nello specifico nei

capitoli successivi, è volto esclusivamente a far accertare l'inerzia

dell'Amministrazione nel pronunziarsi in ordine ad un'istanza, a

fronte del quale, a carico della stessa Amministrazione, sussiste un

obbligo a provvedere; di conseguenza il giudice investito della

relativa cognitio deve limitarsi a constatare l'illegittimità del

comportamento omissivo con conseguente dichiarazione dell'obbligo

a provvedere, senza peraltro poter entrare nel merito della fondatezza

o meno della pretesa sottesa all'istanza di provvedere18

*.

Pertanto, si può ritenere che, a prescindere dall'esistenza di una

specifica normativa impositiva, l'obbligo di provvedere sussiste in

tutte quelle ipotesi in cui, in relazione al dovere di correttezza e di

buona amministrazione della parte pubblica, sorga per il privato una

legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle

determinazioni ( qualunque esse siano) di quest'ultima.19

*

17 (cfr TAR CALABRIA CATANZARO, N 939/2009) 18 (cfr Consiglio di Stato, sez IV, 2 marzo 2011, n 1345.)

19 cfr Consiglio di Stato, sez V 22.11.1991 n. 1331)

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32

3. QUALI SONO LE CONSEGUENZE DELL'INADEMPIMENTO

La scadenza del termine qualifica la condotta dell'amministrazione

procedente come inadempimento. da tale qualificazione discende ex

legge:

- Funzionalmente, la fondatezza della pretesa del ricorrente che

intende far dichiarare l'illegittimità dell'inadempimento, con

conseguente condanna dell'amministrazione.

- Sul piano patrimoniale, la responsabilità della Pubblica

Amministrazione per danno da ritardo, nei limiti tracciati dalla

decisione n 7/2005 dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato e

dell'art. 2 bis comma 1 l. 241 del 1990 inserito nell'art. 7 comma 1

lettera c) della legge 69/2009.

Una volta stabilito che nella fattispecie considerata, la scadenza del

termine per provvedere qualifica la condotta dell'amministrazione

procedente come inadempimento, ai sensi dell'art. 2 della legge n.

241 del 1990, da tale qualificazione discendono ex lege due

conseguenze: funzionalmente, la fondatezza della pretesa della

ricorrente che intende far dichiarare l'illegittimità di siffatto

inadempimento, con conseguente condanna dell'amministrazione

inadempiente a provvedere; sul piano patrimoniale, la responsabilità

dell'amministrazione procedente per il danno da ritardo, nei limiti

tracciati dalla decisione n. 7/2005 dell'Adunanza Plenaria del

Consiglio di Stato e dall'art. 2 bis, comma 1, della legge n. 241/1990,

inserito dall’articolo 7, comma 1, lettera c), della legge 18 giugno

2009, n. 6920

*, che reca una fattispecie espressa di responsabilità

risarcitoria per danno da mero ritardo nel provvedere.21

*

20 (T.A.R. Sicilia – Palermo, Sez. II, 25 settembre 2009, n. 1539) 21 (TAR ROMA LAZIO SEZ III SENT 9940/2010)

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33

L’introduzione del principio della certezza temporale del

procedimento e della generale risarcibilità delle posizioni d’interesse

legittimo, ad opera della sentenza 500/1999 delle SS.UU. della

Cassazione, ha reso sempre più calda la complessa questione della

responsabilità e risarcibilità del danno da ritardo

dell’amministrazione nell’esercizio delle sue funzioni o da c.d.

silenzio rifiuto o inadempimento e delle connesse problematiche

relative: alla nozione del danno in questione, alle sue categorie ,alla

natura della stessa responsabilità, alle modalità per far valere il

diritto al risarcimento del danno da ritardo ed alle condizioni di

ammissibilità dell’azione risarcitoria, ai poteri di cognizione e

decisori del giudice amministrativo con riferimento alla particolare

tipologia del rito speciale avverso il silenzio-rifiuto,alla necessaria o

meno pregiudizialità tra l’attivazione di tale rimedio giurisdizionale e

l’azione risarcitoria.

Del danno da ritardo vengono configurate due nozioni:

La prima incorpora ogni pregiudizio scaturente dal ritardato esercizio

della funzione pubblica, e cioè sia quello ricollegabile all’interesse

sostanziale al bene della vita sia quello concernente il rispetto del

termine conclusivo del procedimento.

La seconda nozione riduce l’area del danno risarcibile alla sola

lesione dell’interesse legittimo che si fa valer in sede procedimentale.

La risarcibilità viene, quindi, delimitata ai casi in cui si dimostri la

spettanza del bene della vita, senza possibilità di ristoro per la sola

violazione dell’interesse procedimentale alla certezza dei rapporti

giuridici di diritto pubblico e cioè per il semplice decorso del

termine. La giurisprudenza prevalente ha preferito, fino all’entrata in

vigore della citata legge 69/2009, questa seconda soluzione.

Quanto alle categorie del c.d. danno da ritardo mentre in dottrina

sono state proposte diverse classificazioni o sotto categorie, la

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34

giurisprudenza22

* ha elaborato una tripartizione in forza della quale

al danno stesso si riconducono tre differenti ipotesi imperniate le

prime due sul provvedimento tardivo e la terza sul rifiuto di

provvedere.

La prima ipotesi concerne l’adozione tardiva di un provvedimento

legittimo ma sfavorevole al destinatario: è questa l’ipotesi del c.d.

danno da ritardo mero, identificabile nella lesione dell’interesse

procedimentale alla tempestiva conclusione del procedimento a

prescindere dalla spettanza del bene della vita.

La seconda riguarda l’adozione del provvedimento richiesto,

favorevole all’interessato, ma emesso in ritardo (es. rilascio tardivo

di un permesso di costruire).

L'ultima ipotesi ha a che vedere con l’inerzia dell’amministrazione e

quindi la mancata adozione del provvedimento richiesto: è questa

l’ipotesi del silenzio rifiuto. Istituto che oltre ad essere diverso dalle

altre fattispecie di silenzio cd significativo e cioè dalle ipotesi di

qualificazione normativa del comportamento inerte (silenzio-

assenso; silenzio-diniego tipizzato; silenzio rigetto) ha conosciuto

una rilevante evoluzione giurisprudenziale e legislativa.

Il nodo cruciale è quello della risarcibilità o meno del danno da mero

ritardo e cioè se spetti la tutela risarcitoria nell’indicata ipotesi in cui

la P.A. non emetta nei termini di conclusione del procedimento

l’atto, ma lo emetta, accogliendo l’istanza, oltre il termine

normativamente prefissato. Prima dell’introduzione, ex novo,

dell’articolo 2 bis della legge 241/1990 si è molto discusso in

dottrina e giurisprudenza sul se l’interesse del privato al rispetto della

tempistica procedimentale fosse risarcibile ex se, a prescindere, cioè,

dalla spettanza del bene della vita richiesto ed indipendentemente

dalla successiva adozione e del contenuto del provvedimento oggetto

dell’istanza.

22 (Cons.St., ord.sez.IV, marzo 2005, n. 875)

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Sulla tutela risarcitoria e il risarcimento del danno da mero ritardo

torneremo a trattare nel dettaglio nei capitoli che seguono.

4. NATURA O MENO PERENTORIA DEL TERMINE PER

PROVVEDERE

Lo spirare del termine fissato dall'art 2 legge 241 del 1990 alla

Pubblica Amministrazione per la conclusione del procedimento non

esclude il potere della stessa di emanare l'atto conclusivo, che anzi

resta obbligatorio.23

*

Fino al 1990 il legislatore non aveva mai preso posizione in modo

generale ed univoco riguardo l'obbligatorietà, per l'amministrazione

procedente, di agire celermente e in modo espresso. Quindi la

previsione normativa in questione si presenta come novità nel

panorama normativo italiano.

La previsione di un termine entro il quale agire sancisce il principio

di certezza dell'azione stessa.

Tuttavia nell'art. 2 non si era stabilito circa la natura del termine del

procedimento né sulle circostanze giuridiche dell’eventuale

violazione dello stesso. La discussione verteva appunto sulla natura o

meno perentoria del termine e il compito di arrivare alla conclusione

fu affidato all'opera della Giurisprudenza e della Dottrina. Dalla

concezione ordinatoria o perentoria del termine discendono

conseguenze legali assai rilevanti.

Alla fine si arrivò alla conclusione che il termine non potesse essere

considerato perentorio se non menzionato come tale dal Legislatore.

Di conseguenza, la mancanza di un termine espressamente

23 (CONSIGLIO DI STATI SEZ IV SENT N 3695/2010)

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considerato inutiliter datum il provvedimento tardivo.

La violazione del termine del procedimento, di conseguenza, non

comportava l'invalidità del provvedimento tardivo, ma vale a

connotare, in termini di illegittimità, l'azione amministrativa.

Altra parte della dottrina sostiene che il termine non debba ritenersi

ordinatorio dal momento che tale conclusione non sarebbe in linea

con la ragione ispiratrice delle innovazioni apportate con la legge sul

procedimento amministrativo.

La legge 241 del 1990 tende, infatti, a umettare le tutele del privato

nei confronti di un agire irresponsabile della P.A. e, allo stesso

tempo, responsabilizzare maggiormente i soggetti pubblici grazie al

principio di certezza che deve essere accompagnato da una idonea

sanzione.

Ecco che si ritiene per la prima volta riconosciuto un obbligo di

provvedere generalizzato della Pubblica amministrazione.

Le ipotesi di silenzio dovute all'inerzia di questa sono quindi simbolo

di un inadempimento.

Ecco che il silenzio inadempimento assume una connotazione

patologica.

La previsione di un termine per l'esercizio dell'azione amministrativa

e l'adozione di una forma espressa del provvedimento conclusivo del

procedimento fa si che il silenzio non significativo diventi eccezione

e non la regola dell'attività amministrativa. L'azione amministrativa

è, infatti, finalizzata alla produzione di un risultato concreto, che è

l'atto amministrativo espresso in un tempo determinato.

Per quanto riguarda il tempo, la previsione normativa s’innestava sul

meccanismo legislativo di formazione del silenzio rifiuto previsto

dall'art 25 TU DEL 1957.

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5. DECORRENZA DEL TERMINE

Il ritardo illegittimo della P.A. si configura come illecito permanente

che cessa solo al momento dell'adozione dell'atto che definisce il

procedimento e pone fine all'inadempimento, con la conseguenza che

il termine di prescrizione della conseguente pretesa risarcitoria,

comincia a decorrere solo dal momento della cessazione

dell'illecito.24

*

La giurisprudenza prevalente, sino al 2005, riteneva che, formatosi il

silenzio inadempimento (allora anche per effetto della diffida e non

solo per il decorso del termine), che il privato disponesse del termine

decadenziale di 60 gironi per la relativa impugnazione.

Tuttavia erano emersi due orientamenti dottrinali, divergenti da

quello perentorio, che assumevano l'inapplicabilità dell'ordinario

termine decadenziale per la proposizione del gravame avverso il

silenzio.

Secondo l'autorevole dottrina l'interessato poteva adire al giudice

amministrativo fintanto che perdurasse l'inadempimento della P.A. e,

con esso, il suo potere-dovere di definire l'istanza. Alla maturazione

della decadenza processuale ostava, infatti, la circostanza che il

perdurare dell'inadempienza determinava la rinnovazione del termine

per impugnare di giorno in giorno, evitando in tal modo la

consumazione del diritto ad agire dinanzi al giudice amministrativo.

Altra parte della dottrina riteneva che, presentata l'istanza, il privato

diventasse titolare di due diverse posizioni soggettive nei confronti

dell'amministrazione: di una posizione di interesse legittimo

all'esercizio del potere, con modalità tali da soddisfare l'interesse

sostanziale vantato; di un autentico diritto soggettivo all'esercizio del

24 (CONSIGLIO DI STATO SEZ V N 5899/2009)

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potere nel rispetto della tempistica procedimentale, come regolato

dal legislatore.

A fronte di questo diritto soggettivo al rispetto dei tempi, si riteneva

gravasse sull'Amministrazione una posizione di autentico obbligo e

non già di natura autoritativa, con il conseguente assoggettamento

dell'esercizio del relativo diritto spettante al privato al termine

prescrizionale ( non decadenziale).

Pertanto, secondo questa seconda tesi, il privato avrebbe dovuto

impugnare il silenzio inadempimento non nel termine di 60 giorni

dalla formazione del silenzio, ma entro il ben più lungo termine di

prescrizione.

Sul dibattito è intervenuta la novella del 2005, con cui il legislatore,

muovendo dalla natura dichiarativa e di condanna, non già

impugnatori, dell'azione avverso il silenzio rifiuto, ha previsto che la

relativa domanda giudiziale sia proponibile "fintanto che perdura

l'inadempimento" e comunque entro un anno dalla scadenza del

termine per provvedere da parte dell'Amministrazione. Tuttavia, la

mancata proposizione dell'azione giudiziale, nei tempi previsti, non

priva definitivamente di tutela il privato che, permanendo l'inerzia,

potrà sollecitare nuovamente la Pubblica Amministrazione con una

nuova istanza e, se dal caso, procedere con un ulteriore gravame a

fronte del rinnovato silenzio rifiuto sulla seconda richiesta avanzata.

In tal modo, il legislatore ha inteso coniugare l'efficace tutela

dell'istanze del privato con l'esigenza di certezza

dell'amministrazione, altrimenti incisa dalla protratta pendenza

dell'azione giudiziaria.

In giurisprudenza si è ritenuto che il termine annuale non ha la natura

decadenziale, ma di prescrizione breve del diritto d'azione, essendo

prevista, alla sua scadenza, la reiterabilità dell'istanza di avvio del

procedimento e la possibilità di presentare ricorso, qualora il

ricorrente, diffidando l'amministrazione , abbia dato prova della

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preesistenza dell'intersse all'adozione del provvedimento da parte

dell'amministrazione. La natura prescrizionale del termine annuale

consente, secondo principi generali, di assegnare rilevanza ed

eventuali interventi interruttivi.

6. IL DOVERE DI PROVVEDERE, LA SUA ESCLUSIONE E

FASI SUB PROCEDIMENTALI

Il dovere di provvedere scaturisce non solo dalle puntuali previsioni

legislative o regolamentari ma anche dalla peculiarità della

fattispecie, nella quale ragioni di giustizia o equità impongono

l'adozione di provvedimenti o comunque lo svolgimento di un'attività

amministrativa.25

*

L'art 2 della l.241 del 1990 ha fissato un principio generale secondo

cui, ove il procedimento consegue obbligatoriamente ad un'istanza

del privato ovvero debba essere iniziato d'ufficio, la Pubblica

Amministrazione ha l'obbligo di concluderlo con un procedimento

espresso.

Detto obbligo non sussiste nelle seguenti ipotesi :

- istanza di riesame dell'atto inoppugnabile per spirare del termine di

decadenza

-istanza manifestamente infondata

-istanza di estensione ultra partes del giudicato26

.

25 (TAR NAPOLI CAMPANIA SEZ III SENT N 7048/ 2009)

26 Come risulta dalla sentenza del TAR NAPOLI CAMPANIA, SEZ V, n. 76/ 2010. TAR

NAPOLI CAMPANIA SEZ V SENT 76/ 2010)

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L'obbligo di provvedere è un principio, pertanto il legislatore,

nell'escludere ogni forma di insabbiamento dei procedimenti si

estende il principio anche alle fasi sub procediementali, dando così

attuazione ai principi costituzionali del buon andamento.

Secondo la Corte costituzionale, il legislatore, con l’art. 2, citato, ha

inteso canonizzare “l’efficacia dell’obbligo di provvedere già

esistente nell’ordinamento, con esclusione di ogni forma

d’insabbiamento di procedimenti, anche nelle fasi sub

procedimentali”, dando così “applicazione generale a regole che sono

attuazione, sia pure non esaustiva, del principio costituzionale di

buon andamento dell’amministrazione (art. 97 della Costituzione)

negli obiettivi di trasparenza, pubblicità, partecipazione e

tempestività dell’azione amministrativa, quali valori essenziali in un

ordinamento democratico” [Corte Cost., 23 luglio 1997, n. 262].

27*

27 (CONSIGLIO DI STATO N 5433/2007)

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Capitolo IV.

Il SILENZIO ASSENSO

1.FORMAZIONE

Perché vi sia silenzio assenso, previsto al comma 1 dell'art 20 della

Legge 241 del 1990, è necessaria la presentazione di un'istanza di

parte; diversamente il silenzio non si forma.

L'Amministrazione inoltre non deve comunicare all'interessato, entro

i termini di cui all'art. 2 della L. 241 del 1990, un provvedimento di

diniego né indire, entro 30 giorni, dalla presentazione dell'istanza,

una conferenza di servizi.

La disciplina concernente la procedura di formazione del silenzio

assenso è contenuta nel DPR 26 aprile 1992, n. 300 e successive

modifiche e prevede:

I termini per la formazione del silenzio decorrono dalla data di

ricevimento della domanda del privato; (art. 3, comma 1 DPR

300/1992.)

La domanda deve contenere:

- Le generalità del richiedente e le caratteristiche dell'attività che si

intende svolgere;

- Una dichiarazione allegata del richiedente che indichi la sussistenza

dei presupposti e dei requisiti prescritti dalla legge per lo

svolgimento dell'attività, nonché il versamento di eventuali tasse e

contributi;

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- I dati necessari per verificare il possesso o il conseguimento dei

requisiti soggettivi nel caso che questi siano richiesti dalla legge.28

*

In caso d’incompetenza o irregolarità della domanda,

l'Amministrazione entro 10 giorni, ne da comunicazione al

richiedente ed il termine per la formazione del silenzio decorre dal

ricevimento della domanda regolarizzata (art. 3 comma 3 DPR

300/1992), se l'Amministrazione non provvede alla comunicazione,

il termine del procedimento decorre comunque dalla domanda

(comma 4).

All'interessato viene rilasciata una ricevuta all'atto di presentazione

della domanda, recante le indicazioni di cui all'art.8 comma 2 della

L. 241 del 1990 (comunicazione di avvii o del procedimento)

(comma 5).

In caso d’istanza inoltrata a mezzo di raccomandata la ricevuta è

costituita dall'avviso stesso debitamente firmato, ed entro 3 giorni dal

ricevimento della domanda, l'amministrazione comunica

all'interessato le indicazioni di cui all'art. 8, comma 2 della L. 241 del

1990. art. 3, comma 6 DPR 300/1992)

Il silenzio assenso si forma quando la domanda è conforme a quanto

indicato ai punti precedenti. Nel caso in cui sia prescritto il

versamento di un contributo o di una tassa in relazione

all'emanazione di un provvedimento, questi sono comunque dovuti

per la scadenza del termine del silenzio assenso.

L'eventuale versamento effettuato in misura inesatta non priva di

efficacia il silenzio assenso ( art 4 DPR 300/1992). Nella tabella C

del DPR 300 del 1992 sono indicate le attività sottoposte alla

28 ( art.3 comma 2 DPR 300/1992)

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43

disciplina dell'art 20 della legge 241 del 1990, con indicazione del

termine entro cui la relativa domanda si considera accolta.

I termini di formazione del silenzio assenso possono essere interrotti

una sola volta dall'amministrazione esclusivamente per la tempestiva

richiesta, l'interessato, di elementi integrativi o di giudizio che non

siano già in possesso della P.A . Nel caso di richiesta di elementi

integrativi, i termini iniziano a decorrere di nuovo dalla data di

ricevimento, da parte della P.A., degli elementi richiesti ( art. 5 DPR

300/1992).

2. DPR 26 APRILE 1992 N 300 E SUCCESSIVE MODIFICHE:

DOMANDA, TERMINI, INCOMPLETEZZA E IRREGOLARITA’

DELLA DOMANDA.

Come osservato nel paragrafo precedente, la disciplina concernente

la procedura di formazione del silenzio assenso è contenuta nel DPR

26 aprile 1992, n. 300 (e successive modifiche)

Il presente regolamento disciplina i casi in cui l'esercizio di

un'attività privata può essere intrapreso sulla base della denuncia

d’inizio dell'attività stessa, da parte dell'interessato,

all'amministrazione competente e quei casi in cui la domanda di un

atto di consenso, cui sia subordinato lo svolgimento di un'attività

privata, si considera accolta qualora non venga comunicato

all'interessato il provvedimento di diniego entro il termine fissato per

categorie di atti.

Questi casi sono elencati in tabelle allegate e che costituiscono parte

integrante del regolamento .

In una prima tabella A sono elencate le attività alle quali può darsi

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inizio immediatamente dopo la presentazione della denuncia.

Sono elencate nella tabella B le attività cui può darsi inizio una volta

decorso il termine indicato dalla medesima tabella per ciascun tipo di

attività.

Sono elencate nella tabella C le attività al cui svolgimento si applica

il silenzio-assenso ai sensi dell'art. 20, comma primo, della legge.

I termini di cui agli artt. 19, comma secondo, e 20, comma primo,

della legge decorrono dalla data di ricevimento della denuncia o della

domanda del privato.

La denuncia e la domanda devono identificare le generalità del

richiedente e le caratteristiche specifiche dell'attività da svolgere;

inoltre, alla denuncia o alla domanda deve essere allegata una

dichiarazione del richiedente che indichi la sussistenza dei

presupposti, ivi compreso il versamento di eventuali tasse e

contributi, e dei requisiti prescritti dalla legge per lo svolgimento di

quell'attività. Quando la legge richieda particolari requisiti soggettivi,

la denuncia e la domanda devono contenere anche i dati necessari per

verificare il possesso o conseguimento dei requisiti stessi.

Qualora la denuncia o la domanda del privato non siano regolari o

complete, l'amministrazione ne dà comunicazione al richiedente

entro dieci giorni, indicando le cause di irregolarità o di

incompletezza. In questi casi, il termine di cui al comma primo

decorre dal ricevimento della denuncia o della domanda regolari.

Nel caso in cui l'amministrazione non provveda alla comunicazione

il termine del procedimento decorre comunque dal ricevimento della

denuncia o della domanda.

L'atto di assenso si considera formato quando la domanda è

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conforme alle disposizioni riportate nel dpr stesso. Restano ferme le

disposizioni legislative che subordinano la formazione dell'atto di

assenso a diverse e/o ulteriori condizioni..

I termini fissati negli allegati B e C possono essere interrotti una

volta sola dall'amministrazione, fatto salvo il disposto dell'art. 3,

comma terzo, esclusivamente per la tempestiva richiesta

all'interessato di elementi integrativi o di giudizio che non siano già

nella disponibilità dell'amministrazione e che essa non possa

acquisire autonomamente. La richiesta di elementi integrativi può

avere per oggetto anche la trasmissione, da parte dell'interessato, di

elementi o allegati della domanda o della denuncia, che risultino

prescritti dalle leggi o dai regolamenti vigenti e che siano diversi da

quelli contemplati dall'art. 3, comma secondo.

Nel caso di richiesta di elementi integrativi, i termini fissati iniziano

a decorrere nuovamente dalla data di ricevimento, da parte

dell'amministrazione competente, degli elementi richiesti. I termini

fissati negli allegati B e C non sono interrotti da eventuali richieste di

nuovi elementi integrativi, successive alla prima..

4. QUANDO SI FORMA IL SILENZIO ASSENSO (Casi

giurisprudenziali).

Il silenzio assenso si forma nei procedimenti ad istanza di parte per il

rilascio di provvedimenti amministrativi, con un richiamo alla macro

categoria dei provvedimenti di natura autorizzativa.

Con le ultime modifiche il silenzio assenso diviene regola generale,

mentre diventano tassative le eccezioni 29

* .

29 (Consiglio di Stato, n. 1034 del 2010).

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La generale applicazione del silenzio-assenso introdotta con la

novella della legge n. 80/2005 ha capovolto la prospettiva risultante

dal quadro normativo precedente, nel quale si era demandato a un

atto di normazione secondaria (il DPR n. 300/92, ) la individuazione

delle fattispecie alle quali applicare il meccanismo di semplificazione

amministrativa di cui si tratta, con la conseguenza che, nelle ipotesi

non espressamente previste, il privato che aspirasse ad un

provvedimento esplicito, a fronte dell’inerzia dell’amministrazione,

conservava la possibilità di proporre ricorso avverso il c.d. silenzio-

rifiuto (o silenzio-inadempimento).

Se prima delle modifiche alla l. n. 241 del 1990 sopravvenute nel

2005, infatti, il meccanismo di cui all’art. 20 poteva essere

considerato un’eccezione al principio della conclusione del

procedimento mediante provvedimento espresso (cfr. art. 2, comma

1, legge n. 241/90) ed era ammesso solo in ipotesi tassativamente

determinate, ora con la legge n. 80/2005 esso diviene una regola

generale, mentre sono divenute tassative le eccezioni a tale regola.

Nel nuovo assetto conferito all’istituto, la tutela dell’interesse

pubblico non è priva di adeguati strumenti di tutela posto che l’art.

20 prevede al comma 3 l’adozione di determinazioni in via di

autotutela ai sensi degli artt. 21-quinquies e 21 nonies.

Casi giurisprudenziali :

- Silenzio assenso in caso di istanza di sanatoria edilizia per opere

abusive realizzate in aree sottoposte a vincolo.

Il silenzio assenso per decorso del termine di 24 mesi dall'emissione

del parere dell'autorità preposta alla tutela del vincolo si forma solo

nel caso di parere favorevole e non anche in caso di parere contrario

Tar Umbria Perugia n. 2/2010)

Nel caso di specie si fa riferimento alla richiesta, da parte del

proprietario di una rata di terreno che premette di avervi

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abusivamente posto in opera una piccola casa prefabbricata, di titolo

edilizio, che gli era già stato negato in precedenza.

Il proprietario espone che, con successiva ordinanza sindacale,

veniva ordinata la rimozione (in parte) e demolizione (in parte) del

manufatto, ma tale provvedimento è stato sospeso con

provvedimento cautelare di questo T.A.R.

Essendo sopravvenuta la legge 28 febbraio 1985, n. 47, Norme in

materia di controllo dell'attività urbanistico - edilizia. il ricorrente ha

presentato domanda di sanatoria.

Solamente a distanza di circa quindici anni dall’istanza di sanatoria,

è intervenuto il diniego, fondato sul duplice presupposto della

sentenza 30 dicembre 1992, n. 435, con cui il T.A.R. Umbria ha

rigettato il ricorso avverso il provvedimento disponente la

demolizione d’ufficio di una serie di opere, e del parere negativo al

rilascio della sanatoria comunicato dal Consorzio Economico

Urbanistico della Media Valle del Tevere.

A sostegno del ricorso deduce i seguenti motivi di diritto :

1) Violazione dell’art. 35, comma 12, della legge 28 febbraio 1985,

n. 47; violazione dei principi in materia di autotutela; eccesso di

potere per difetto assoluto di motivazione e per errore nei

presupposti.

La norma indicata in rubrica prevede che, salvo i casi di opere

insuscettibili di sanatoria di cui al precedente art. 33, decorso il

termine perentorio di ventiquattro mesi dalla presentazione della

domanda, quest’ultima s’intende accolta; di conseguenza sulla

domanda di sanatoria presentata dal proprietario si è formato il

silenzio assenso.

Né appare ostativa l’esistenza di un vincolo di bellezza panoramica

ai sensi della legge n. 1497 del 1939, dal momento che lo stesso non

rientra tra quelli d’inedificabilità assoluta ma tra quelli contemplati

dall’art. 32, richiedenti il nulla osta dell’Autorità preposta alla tutela

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del vincolo stesso.

Formatosi dunque il silenzio assenso, il Comune non poteva adottare

un provvedimento di diniego, ma, se del caso, procedere

all’annullamento d’ufficio del “provvedimento tacito”, in

applicazione del potere generale di autotutela amministrativa.

2) Eccesso di potere per travisamento dei fatti, per errore nei

presupposti e per illegittimità derivata dall’illegittimità della delibera

del Consiglio direttivo del Consorzio Economico Urbanistico della

Media Valle del Tevere.

Erronei sono i presupposti su cui si basa il provvedimento

impugnato; in particolare, inconferente è il richiamo della sentenza

del T.A.R. Umbria, avente a oggetto il provvedimento d’ingiunzione

della demolizione del manufatto; allo stesso modo, privo di rilievo è

il parere negativo espresso dal Consorzio Economico Urbanistico

della Media Valle del Tevere, il quale rileva che l’abuso ricade in

zona di notevole interesse ambientale, senza però tenere conto che

tale circostanza non impedisce in assoluto l’edificazione, ma soltanto

la subordina a una speciale autorizzazione da parte dell’Autorità

preposta alla tutela del vincolo.

Come può ravvisare, il ricorrente deduce l’illegittimità del diniego di

sanatoria opposto alla propria istanza nell’assunto che sia comunque

maturato il silenzio assenso previsto dall’art. 35, comma 17, della

legge 28 febbraio 1985, n. 47.

La censura non appare meritevole di positiva valutazione, e deve

pertanto essere disattesa.

La norma in questione dispone che «con esclusione dei casi di cui

all’art. 33, decorso il termine perentorio di ventiquattro mesi dalla

presentazione della domanda, quest’ultima s’intende accolta ove

l’interessato provveda al pagamento di tutte le somme eventualmente

dovute a conguaglio ed alla presentazione all’ufficio tecnico erariale

della documentazione necessaria all’accatastamento».

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Ora, è pur vero che, al momento dell’adozione del provvedimento

negativo gravato, era ampiamente decorso il termine di ventiquattro

mesi dalla presentazione della domanda (di sanatoria), ma nel caso di

specie non poteva trovare applicazione la formazione del

provvedimento tacito di assenso alla concessione in sanatoria,

incidendo l’abuso in zona assoggettata a vincolo panoramico dal

D.M. 8 maggio 1956.

Nelle aree interessate da vincolo paesaggistico il silenzio assenso

prefigurato dall’art. 35, comma 17, della legge n. 47 del 1985 postula

indefettibilmente la previa acquisizione del parere favorevole

dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo stesso, ai sensi dell’art.

32, comma 1, dello stesso corpus normativo.

Occorre ricordare che nella fattispecie controversa il Consiglio

direttivo del Consorzio Media Valle del Tevere ha espresso un parere

sfavorevole al rilascio del titolo abilitativo in sanatoria con la

conseguenza di impedire, per effetto del combinato disposto degli

artt. 32, comma 1, e 35, comma 17, della legge n. 47 del 1985, la

formazione del silenzio assenso ai fini del rilascio della concessione

edilizia in sanatoria, e di legittimare dunque il provvedimento

espresso di diniego.

Ed invero, giova ripeterlo, in caso di istanza di sanatoria edilizia per

opere abusive realizzate in aree sottoposte a vincolo, il silenzio

assenso per decorso del termine di ventiquattro mesi dall’emissione

del parere dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo si forma solo

nel caso di parere favorevole, e non anche di parere contrario, atteso

che il rilascio della concessione in sanatoria per abusi in zone

vincolate presuppone necessariamente il parere favorevole, e non già

il parere sic et simpliciter della predetta Autorità.

Le considerazioni che precedono inducono a disattendere anche il

secondo mezzo di gravame, con cui si deduce l’erronea

presupposizione del provvedimento di diniego ma soprattutto con

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riguardo al suindicato parere del Consorzio Economico Urbanistico.

In particolare, assume parte ricorrente che il parere, nel sottolineare

che «l’abuso ricade in zona di notevole interesse ambientale quale è

il colle della Rocca ove non possono essere consentiti tali

inserimenti», non avrebbe tenuto conto che tale condizione non si

traduce in un vincolo di inedificabilità assoluta ai sensi dell’art. 33

della legge n. 47 del 1985, inficiando per tale ragione in via derivata

il provvedimento impugnato.

La tesi non merita condivisione sotto un duplice profilo.

Il primo, di ordine processuale, consiste nel fatto che il parere

dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo, avendo natura

obbligatoria e vincolante, nel procedimento di condono assume

carattere di atto con autonoma capacità lesiva, e doveva dunque

essere tempestivamente impugnato, risultando il relativo gravame, in

questa sede, verosimilmente inammissibile.

Ad ogni buon conto, sotto il profilo sostanziale, il parere in questione

appare legittimo, in quanto, non equiparando il vincolo panoramico a

quei “vincoli di inedificabilità” che rendono le opere non suscettibili

di sanatoria ai sensi dell’art. 33 della legge n. 47 del 1985, si è

limitato ad affermare che, nello specifico, l’opera abusivamente

realizzata contrasta con l’interesse generale; ciò nell’esercizio di

quella congrua ponderazione degli interessi che si attua subordinando

l’esecuzione di opere edilizie già eseguite al parere favorevole

dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo (ovvero subordinando

l’esecuzione di opere nuove ad un provvedimento autorizzatorio) (in

termini Cons. Stato, Sez. V, 4 maggio 1995, n. 696).

Quanto esposto, ed in particolare l’incontestata esistenza del vincolo

panoramico, rende evidente anche l’inutilità dell’istruttoria richiesta,

nel corso dell’udienza, da parte ricorrente, peraltro inconferente con i

motivi di ricorso articolati, perché finalizzata a dimostrare che il

sedime interessato dall’abuso è, dal punto di vista urbanistico,

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qualificato come “verde privato” (e non già come “verde pubblico”).

La reiezione del ricorso giustifica comunque, sussistendone giusti

motivi, la compensazione tra le parti delle spese di giudizio.

5.QUANDO NON SI FORMA IL SILENZIO ASSENSO (casi

giurisprudenziali).

Il legislatore ha escluso l'ambito di applicazione ha escluso

dall'ambito di applicazione del silenzio assenso due ipotesi:

a. Quando l'amministrazione, ai sensi del comma 2 dell'art. 20 della

L. 241 del 1990 avvia una conferenza di servizi entro 30 giorni dalla

presentazione dell'istanza. I questo caso, stante l'espressione " può

indire" si ritiene che trattasi di conferenza di servizi facoltativa,

b. Quando, ai sensi del comma 4 dell'art. 20 della L. 241del 1990 si

tratti:

1) Di atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e

paesaggistico, l'ambiente, la difesa nazionale, la pubblica sicurezza,

l'immigrazione, l'asilo e la cittadinanza, la saluta e la pubblica

incolumità.

Si tratta di una categoria di atti che, data la rilevanza costituzionale

degli interessi a essi sottesi devono essere oggetto di una espressa

determinazione amministrativa, non essendo possibile equiparare al

provvedimento espresso eventuali comportamenti inerti.

La riforma del 2005 ha generalizzato le ipotesi di silenzio assenso,

prevedendo, però, all'art 20, comma 4 della L. 241 del 1990 una serie

di materie in cui esso è escluso, sicché l'istituto del silenzio assenso

non è applicabile agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio

culturale e paesaggistico. Poiché l'art. 4 della L. 13/1998 è norma

speciale rispetto all'art. 20 comma 4 della legge 241 del 1990, essa

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non può ritenersi implicitamente abrogata dalla nuova formulazione

del citato articolo.

Secondo una recente giurisprudenza del Consiglio di Stato (VI, n.

6591/2008), le eccezioni alla regola generale del silenzio assenso

comportano solo che nelle materie suddette non sia applicabile in

modo automatico la regola generale del silenzio assenso, e non già

l’impossibilità in assoluto di prevedere speciali ipotesi di silenzio

assenso, con norme puntuali anziché con previsione generalizzata. In

altri termini, si ritiene ammissibile, in quanto non in contrasto con i

principi costituzionali e comunitari, una speciale previsione di

silenzio assenso destinata ad inserirsi in un procedimento

caratterizzato da un tasso di discrezionalità non elevato ed in cui

ulteriori specifici interessi ambientali vengono valutati in modo

espresso. 30

*

Casi giurisprudenziali :

- Silenzio assenso in materia portuale

Secondo la disciplina speciale, in materia portuale, di cui all'art 36

del codice della navigazione, l'amministrazione competente ha

sempre la discrezionalità di decidere se concedere ai privati lo

sfruttamento delle aree di cui ha l'amministrazione, sì che NON è

applicabile la regola generale del silenzio assenso di cui all'art 20

della legge 241 del 1990. L'ambito di determinazione che la norma

attribuisce all'amministrazione induce a ritenere che sussista sempre

la necessità di una autonoma manifestazione di volontà della P.A.

30 (Tar Campania Napoli n. 8834/2009).

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anche per la tutela di possibili contro interessati ( art. 37 del codice

della navigazione) allo sfruttamento commerciale delle aree

richieste31

*.

Nella sentenza in questione si faceva riferimento a una compagnia

portuale che si riteneva lesa dalle ingiunzioni di pagamento di

somme di denaro da parte dell'autorità portuale di Genova relative

all’occupazione senza titolo di aree demaniali, agli accessori sulle

somme così dovute, nonché per la revisione del canone dovuto per il

legittimo utilizzo delle aree stesse, per cui ha notificato un atto

depositato, con cui denuncia una serie di violazioni tra le quali una

occupazione abusiva delle aree portuali.

L’occupazione delle aree portuali non avrebbe potuto in ogni caso

considerarsi abusiva: infatti la compagnia portuale aveva presentato

la domanda 30.10.2005 per ottenere la concessione dei sedimi di che

si tratta, sì che dopo il novantesimo giorno da tale data si sarebbe

dovuto considerare integrato il silenzio assenso, dal che deriverebbe

la legittimità dell’utilizzo fatto delle aree di che si tratta.

La censura non opera un diretto riferimento a norme di legge che

prevedono l’effetto diretto denunciato con la censura, ma il collegio

può compiere un richiamo alla norma dettata dall’art. 20 della legge

7.8.1990, n. 241, a proposito del silenzio assenso che si forma nei

procedimenti a istanza di parte per il rilascio di provvedimenti

amministrativi. Tuttavia la materia in questione è regolata da

disposizioni speciali, e l’art. 36 del codice della navigazione prevede

che l’amministrazione competente ha sempre la discrezionalità di

decidere se concedere ai privati lo sfruttamento delle aree di cui ha

l’amministrazione, sì che non può ritenersi che sulla domanda

dell’interessata si sia formato il silenzio assenso. L’ambito di

determinazione che la norma attribuisce all’amministrazione induce a

ritenere che sussista sempre la necessità di una autonoma

31 (Tar Liguria Genova, n. 634 del 2010)

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manifestazione di volontà della p.a., anche per la tutela dei possibili

controinteressati (art. 37 cod. nav.) allo sfruttamento commerciale

delle aree richieste.

- Silenzio assenso nei procedimenti di Pubblica Sicurezza

Ai sensi dell'art 20 comma 4 della legge 241/1990 come modificata,

l'istituto del silenzio assenso NON si applica agli atti e ai

procedimenti riguardanti, tra l'altro, la pubblica sicurezza, in cui è

fatta applicazione delle disposizioni del t.u.l.p. ( Tar Campania,

Napoli n. 1014/2009)

- Silenzio assenso nei casi di emissioni in atmosfera

In materia di emissioni in atmosfera, NON opera la regola del

silenzio assenso di cui all'art 20, trattandosi di autorizzazioni aventi

ad oggetto la tutela della salute (Cassazione Penale n. 27118/2008,

conferma Tribunale di Pescara 14 dicembre 2007)

- Silenzio assenso nel caso di Patrimonio culturale

paesaggistico

Ai sensi dell'art. 20 comma 4 le disposizioni del presente articolo

NON si applicano agli atti e procedimenti riguardanti il patrimoni

culturale e paesaggistico quindi non può sostenersi che, alla scadenza

del sessantesimo giorno dalla presentazione dell'istanza di rilascio di

una concessione temporanea di occupazione di suolo pubblico, si sia

formato il silenzio assenso, ricadendo il relativo procedimento, in

virtù della chiara previsione dell'art. 4 bis comma 3 della

deliberazione consiliare n. 119 del 2005, tra quelli esclusi dall'ambito

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applicativo dell'art. 20 comma 1 della legge 241 del 199032

*

- Silenzio assenso e codice della strada

NON si applica il silenzio assenso nel caso d’istallazione lungo le

strade di cartelloni pubblicitari, atteso che l'art 23 del Codice della

Strada espressamente stabilisce che per ragioni di sicurezza della

circolazione i cartelloni pubblicitari per essere apposti lungo le strade

necessitano di apposita autorizzazione33

*.

- Silenzio assenso e provvedimenti per la difesa personale

NON si applica il silenzio assenso in caso di reclutamento del

personale militare dato che non si tratta d’istanza che è espressione

di iniziativa economica privata. Tale peculiare meccanismo di

formazione della volontà provvediementale non è invocabile in

materia di difesa nazionale34

*.

- Silenzio assenso per il rilascio del nulla osta delle aree

protette

Questa problematica è stata ampiamente discussa a livello

giurisprudenziale. Gli orientamenti assunti dai giudici amministrativi

sono mutati nel tempo. In particolare si tratta di verificare il rapporto

che intercorre tra il comma 4 dell'art 20 della legge 241 del 1990, che

di fatto impedisce il formarsi del silenzio assenso in materia

ambientale, e la disposizione dell'art 13 della Legge 391/1994 ( legge

quadro delle aree protette), che invece prevede, in tale materia la

possibilità di silenzio assenso. In altre parole, si tratta di stabilire, se

32 ( Tar Lazio Roma n. 6474/ 2008)

33 ( Cassazione Civile n. 4869/2007; Tar Lombardia n. 6048/2004)

34 (Consiglio di Stato n. 6814/2007.)

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deve prevalere la norma speciale o quella generale.

Il primo orientamento prevede l'abrogazione tacita dell'art. 13 della

L. 391/1994. Tutto inizia con la pronuncia del Tar Lazio sezione 2bis

del 22 novembre 2007 n. 13241. Si era statuito un importante

principio: l'istituto del silenzio assenso previsto dalla norma speciale

era tacitamente abrogato dalla norma generale sopravvenuta,

modificata dalla L. 80 del 2005. Più precisamente l'art 13 comma 1

della Legge quadro prevedeva, e continua a prevedere, che il nulla

osta dell'ente parco, atto preventivo e prodromico al rilascio di

concessioni o autorizzazioni relative a interventi da svolgere

all'interno dell'area protetta, debba intendersi tacitamente rilasciato

dall'ente una volta trascorso il termine di 60 giorni dalla

presentazione dell'istanza da parte dell'interessato.

Le modifiche intervenute alla norma generale, e in particolare all'art.

20, hanno rivoluzionato, secondo il giudice, l'intero sistema, in

quanto hanno attribuito, al comportamento inerte della Pubblica

Amministrazione, il valore del silenzio assenso con l'una eccezione

delle materie previste al comma 4 nelle quali, non è ipotizzabile

l'accoglimento tacito della domanda. Pertanto, la nuova disciplina

contenuta nell'art 20 della legge 241 del 1990, è concepita come

legge generale regolante l'intera materia e ad essa devono adeguarsi

ed armonizzarsi tutte le norme procedimentali di settore. Da ciò

consegue che nel contrasto tra le due norme non si può far ricorso al

principio di specialità che postula l'equivalenza tra le norme stesse,

ma deve necessariamente applicarsi il criterio cronologico, in base al

quale la legge successiva prevale su quella precedente anche se

speciale. In altre parole alla presenza di una nuova legge che regola

l'intera materia, già regolata da una legge anteriore, non può che

sussistere l'abrogazione tacita di quest'ultima (art. 13 legge

391/1994), con conseguente applicazione della nuova legge (art. 20

della Legge 241 del 1990).

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A conferma di tale orientamento segue la pronuncia del Tar Lazio

Roma sezione 2bis del 19 febbraio 2008 n. 1512.

Fece poi seguito un opposto orientamento.

La tesi dell'abrogazione tacita del silenzio assenso ex art 13 della

legge 394 del 1991 viene ribaltata dalla pronuncia del Consigli odi

Stato sez. VI del 29 dicembre del 2008, n. 6591, con la quale i

giudici ribadiscono la piena vigenza dell'art 13. Secondo

quest’orientamento l'analisi deve partire dal dato testale contenuto

nel comma 4 dell'art. 20 della legge 241 del 1990, a detta del quale

l'espressione "Le disposizioni del presente articolo non si applicano

agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e

paesaggistico…" non può estendersi tout court, a disposizioni

precedenti aventi ad oggetto il silenzio assenso e rispetto alle quali i

commi 1, 2 e 3 dell'art 20, nulla hanno innovato. In sostanza non si

può applicare in modo automatico la regola del silenzio assenso alle

materie indicate al comma 4 dell'art. 20 ma ciò non impedisce al

legislatore di introdurre in tali materie norme specifiche aventi ad

oggetto il silenzio assenso a meno che non vi siano espressi divieti,

derivanti dall'ordinamento comunitario o dal rispetto dei principi

costituzionali.

A tal proposito il Consiglio di Stato osserva che sul piano di questi

ultimi, spetta comunque al legislatore determinare la tempistica della

Pubblica amministrazione e le modalità di conclusione del

procedimento, mentre con riguardo all'ordinamento comunitario

osserva come più volte la Corte di Giustizia abbia manifestato

notevoli dubbi in ordine alla possibilità di prevedere il silenzio

assenso con riferimento ai procedimenti amministrativi di rilevanza

comunitaria in quanto provvedimenti di rifiuto, concessione, ovvero

di revoca devono necessariamente risultare da un provvedimento

esplicito e seguire regole procedurali precise. Secondo la

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giurisprudenza comunitaria la volontà implicita può ritenersi formata

laddove la domanda sia in grado di definire in modo sufficientemente

completo l'ambito e le caratteristiche dell'attività oggetto

dell'autorizzazione. Questa impostazione giurisprudenziale, fatta

propria dal Consiglio di Stato, aiuta a evidenziare come il nulla osta

di cui all'art 13 della legge 391 del 1994 s’inserisca un procedimento

più complesso nel quale gli interessi ambientali vengono

adeguatamente valutati anche a prescindere dall'eventuale carenza di

istruttoria da parte dell'Ente parco . Proprio attraverso la ricognizione

dei principi comunitari e costituzionali si arriva ad affermare la piena

compatibilità del meccanismo previsto dall'art. 13 come l'intero

sistema rivitalizzando così l'istituto del silenzio assenso in questo

settore specifico che, invece, sulla base delle decisioni assunte in

precedenza dai Tar appariva destinato ad una totale disapplicazione.

A conferma di tale orientamento ha seguito la pronuncia del Tar

Puglia Bari sezione II del 14 gennaio 2010 n. 53

Ultimamente il Tar Lazio Latina sezione I, con la sentenza del 3

marzo 2010 n 203 ha confermato che, sebbene vi sia diversità tra la

disciplina urbanistica in cui è previsto a certe condizioni l'istituto del

silenzi assenso. E la disciplina in materia di vincoli ambientali, l'art.

20 comma 4, nel testo modificato ed integrato dalla legge 80 del

2005, ha espressamente escluso il ricorso allo strumento del silenzio

assenso in materia paesaggistica ed ambientale e detta disciplina

sopravvenuta avrebbe comportato l'abrogazione tacita della

disposizione dell'art. 13 della legge 394 del 1991 consentendo,

quindi , all'Ente Parco di pronunciarsi espressamente sulla domanda

anche oltre il termine di sessanta giorni.

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- Silenzio assenso e normativa comunitaria che impone

l'adozione di provvedimenti amministrativi formali.

La dottrina ha evidenziato che non si tratterebbe, nel caso di specie,

delle fattispecie in cui la normativa comunitaria impone

espressamente un provvedimento formale bensì delle ipotesi in cui si

rende indispensabile una espressa valutazione amministrativa, come

ad esempio un accertamento tecnico o una valutazione. E' da ritenere

che la Pubblica amministrazione, quando è chiamata a curare

interessi pubblici di rilievo comunitario, il silenzio assenso deve

ritenersi precluso, se non in casi in cui sussistano atti di bassissima

discrezionalità.

- Casi in cui la legge qualifica il silenzio della P.A. come

rigetto dell'istanza.

Il silenzio rigetto si pone nell'ordinamento come ipotesi

normativamente qualificata in cui di fronte alla mancata risposta

dell'Amministrazione viene attribuito un significato di rigetto della

domanda del privato. Il silenzio rigetto si pone come figura speculare

e opposta rispetto al silenzio assenso. I casi offerti dall'ordinamento

in cui vi è formazione di silenzio rigetto sono riscontrabili in

particolare, nell'articolo 13 della legge 47 del 1985 in tema di rilascio

di concessioni o autorizzazioni in sanatoria di opere abusive e

dell'art. 25 comma 4 della legge 241 del 1990 in tema di diritto

d'accesso agli atti amministrativi.

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- Silenzio del Comune sulle domande di sanatoria.

Il questo caso, sulla base all'art. 13 della l. 47/1985, come modificata

dall'art 36 del DPR 380/2001, il silenzio è qualificabile come

provvedimentale, con contenuto di rigetto e non come silenzio

inadempimento all'obbligo di provvedere, impugnabile ex art 2 della

legge 205/200035

*: ai sensi dell'art. 13, l'omessa pronunzia espressa

dall'Amministrazione sulla domanda di sanatoria nel termine di

sessanta giorni ha valore legale di rigetto implicito della domanda,

senza che sia necessaria la notifica di un apposito atto di diffida,

anche se la Pubblica amministrazione non perde il potere- dovere di

provvedere nel senso di un rigetto esplicito36

*.

- Silenzio sulle istanze di accertamento di conformità

urbanistica.

La giurisprudenza qualifica il silenzio serbato dall'amministrazione

su un’istanza di accertamento di conformità urbanistica ai fini della

concessione edilizia in sanatoria (art. 13 legge 47 del 1985) quale

atto tacito di reiezione. Quindi, una volta decorso il termine di

sessanta giorni il formatosi silenzio rigetto può essere impugnato nel

prescritto termine decadenziale, senza avere però la possibilità di

dedurre vizi formali propri degli atti, quali difetti di procedura o

mancanza di motivazione.37

*

35 (TAR Campania Napoli sez. VI del 15 luglio 2010 n. 16805) 36 ( Consiglio di Stato sez. V , 11 febbraio 2003, n. 706)

37 (Tar Campania Napoli sez. VI , 6 febbraio 2006, n. 3568)

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- Silenzio negli atti e procedimenti individuati con uno o

più decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri su

proposta del Ministro per la Funzione Pubblica, di

concerto con i Ministri competenti.

Si tratti di casi in cui una disposizione regolamentare esclude

l'applicazione del silenzio assenso. I decreti in questione, essendo

diretti a determinare in via generale e astratta la disciplina applicabile

a una serie di procedimenti, hanno natura regolamentare. Non si

tratta però di regolamenti di delegificazione, dal momento che non vi

sono i requisiti formali e sostanziali di cui all'art. 17 comma 2 della

legge 400/1988. tali regolamenti si limitano a mantenere il regime

legislativo preesistente.

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62

Capitolo V.

RITO DEL SILENZIO E CODICE DEL PROCESSO

AMMINISTRATIVO.

1. L’ART 31.2 E 117 DEL CODICE DEL PROCESSO

AMMINISTRATIVO: I RIMEDI PROCESSUALI CONTRO

L'INERZIA DELL'AMMINISTRAZIONE.

Il ricorso giurisdizionale avverso il silenzio della Pubblica

amministrazione è esperibile solo a tutela di posizioni d’interesse

legittimo e non se l'inerzia è serbata a fronte di un'istanza diretta al

riconoscimento di un diritto soggettivo.38

*

L'azione è regolata dagli articoli 31 e 117 del codice del processo

amministrativo.

Secondo il chiaro disposto del codice, la legittimazione a insorgere

contro il silenzio- inadempimento, in capo a chi "ha interesse"

all'adozione dell'atto, sorge con la scadenza del termine per

provvedere ed anche in assenza di una previa diffida.

Si vuol pensare che il Legislatore in questo modo abbia voluto

affrancare l'interpretazione dal riflesso incondizionato che

tralaticiamente induce a riconoscere il legittimario a causam in testa

al solo titolare dell'interesse giuridico pretensivo al rilascio del

38 ( Cons di Stato, sez. V, 6 Luglio 2010, n 4320 e sez. IV, 12 Novembre 2009, n 7057)

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63

provvedimento, quale potenziale beneficiario degli effetti favorevoli

del medesimo.

Questa tecnica normativa- che qualifica espressamente l'azione come

di accertamento dell'obbligo e non d’impugnazione (di un atto che

non c'è), lascia indeterminata l'indicazione del legittimanti attivo

(che non è identificabile in via esclusiva col soggetto nei cui

confronti il provvedimento finale produrrà effetti diretti), ribadisce la

superfluità della previa diffida e precisa che la legittimazione non

deriva in esito alla produzione di un'istanza, ma alla scadenza del

termine di provvede- conduce a ritenere che i soggetti abilitati a

promuovere siano più estesi di quanto si possa pensare.

La platea di legittimati include "i soggetti nei confronti dei quali il

provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti" e "quelli

che per legge debbono intervenirvi", cui ai sensi dell'art. 7 della

legge 241 del 1990, va comunicato l'avvio del procedimento ed in

ultima analisi "qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o

privar", nonchè " i portatoti di interessi diffusi costituiti in

associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal

provvedimento", ai quali l'art.9 attribuisce " la facoltà di intervenire

nel procedimento".

Infatti, quando il legislatore ha voluto limitare l'esercizio di un

rimedio o di una tutela ai soli titolari dell'interesse pretensivo al

rilascio dell'atto, l’ha fatto in modo inequivocabile, come all'art. 10

bis della legge, che attribuisce soltanto agli "istanti" il diritto di

ricevere la comunicazione dei motivi che ostano all'accoglimento

della domanda e opporvisi.

Una volta scaduto il termine finale del procedimento, il soggetto

interessato a reagire contro il silenzio per la vi giurisdizionale, senza

dover assegnare un nuovo termine a mezzo diffida- conditio sine qua

non per la costituzione dell'inadempienza pubblicistica, prima

dell'entrata in vigore del decreto- legge 14 marzo 2005, n 35,

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convertito nella legge 14 maggio 2005 n 8039

* -, può notificare il

proprio ricorso all'amministrazione ed ad almeno un

controinteressato. Alla presenza di controinteressati pretermessi,

spetterà al giudice ordinare l'integrazione del contraddittorio, entro

un termine perentorio, ai sensi dell'art. 27 del codice di rito.

Sul ricorso, il giudice decide con la sentenza in forma semplificata di

cui all'art. 74 del codice.

Trattandosi di un'azione di accertamento (e non di annullamento),

non vale il termine generale di decadenza di sessanta giorni, di cui

all'art. 29 del codice, ma quello di un anno dalla scadenza del termine

di conclusione del procedimento, appositamente previsto dall'art. 31.

Se, trascorso l'anno, l'inadempimento perdura, all'interessato è data la

facoltà di riproporre l'istanza di avvio del procedimento, ove ne

ricorrano i presupposti. Questo all'evidente scopo di consentire la

presentazione di un nuovo ricorso, se l'inerzia viene mantenuta anche

dopo quest'ultimo ulteriore atto d'impulso.

La previsione appare frutto di un'impropria commistione tra profili

sostanziale e profili processuali.

Si deve ritenere che- dalla scadenza del termine annuale di

presentazione del ricorso- discenda la sanzione (processuale) della

decadenza dell'azione, con conseguente pronuncia d’irricevibilità del

ricorso eventualmente proposto, per tardività della notificazione, ai

sensi dell'art. 35, comma 1 lettera a), del codice. Non anche l'effetto

(sostanziale) dell'archiviazione tacita del procedimento.)

Questo significa che, anziché fare salva la "riproponibiità dell'istanza

di avvio" di un procedimento mai archiviato ( e quindi ancora

pendente in fase istruttoria), sarebbe stato più corretto attribuire

all'interessato la possibilità, ricorrendo i presupposti, di diffidare

l'amministrazione a concludere il procedimento entro un nuovo

termine, alla cui utile scadenza, fare scaturire la rinnovazione della

39 *( Cons. di Stato, Ad. Plen. 15 settembre 2005, n. 7)

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legittimazione processuale contro il ( reiterato) silenzio.

L'adozione, nelle more del giudizio, di un provvedimento esplicito

anche non satisfattivo, costituisce valida manifestazione della potestà

amministrativa e fa venire meni i presupposti per la declaratoria

dell'obbligo di provvedere, rendendo inutile il meccanismo di tutela

del silenzio: al giudice non resterà che pronunciare l'improcedibilità

del gravame per sopravvenuto difetto d'interesse, ai sensi dell'art. 35

comma 1, lettera c), del codice.

Per contro, il provvedimento in tutto o in parte negativo può essere

gravato in separato giudizio ovvero, con motivi aggiunti, in quello in

corso, ma nei termini e con il rito previsto per il nuovo

provvedimento.

Con la sentenza di accoglimento il giudice ordina

all'Amministrazione di provvedere entro un termine normalmente

non superiore a trenta giorni e, con la medesima decisione o con

ordinanza successiva, su istanza di parte, può nominare un

commissario ad acta, ai fini dell'esecuzione.

In presenza di attività vincolata, o quando non risulta che residuino

ulteriori margini di discrezionalità e non sono necessari adempimenti

istruttori che debbano essere compiuti dall'Amministrazione, il

giudice può pronunciare anche sulla fondatezza della pretesa

azionata in giudizio.

Questa disposizione amplia il novero delle ipotesi per le quali già

all'art. 3 del decreto- legge 14 marzo 2005 n. 35, convertito nella

legge 80/2005, nel formulare l'art. 2 della legge 241/1990, ha

previsto che il giudice del silenzio "può conoscere della fondatezza

dell'istanza”.

Prima della novella del 2005, la giurisprudenza aveva circoscritto la

cognizione sul silenzio alla semplice verifica dell'esistenza di un

obbligo di provvedere, senza che in nessun caso all'organo decidente

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fosse consentito l'esame del merito dell'istanza40

*. La novella,

ribaltando questa impostazione, aveva introdotto un potere di verifica

giudiziale sulla fondatezza della richiesta, nei soli casi di "attività

vincolata".

L'interpretazione formatasi sulla norma aveva escluso un'ipotesi di

giurisdizione di merito senza confini, il che si sarebbe prestato a seri

dubbi di incostituzionalità: vuoi per la ritenuta sostituzione del

giudice amministrativo che ne sarebbe derivata; vuoi per il fatto che

il privato avrebbe conseguito un risultato ben maggiore di quello

ottenibile nel giudizio ordinario di legittimità ( l'annullamento del

provvedimento impugnato).

Nella stessa logica acceleratoria dell'istituto, il legislatore si sarebbe

limitato ad attribuire al giudice del silenzio uno strumento

processuale ulteriore esercitabile solo in caso di provvedimento

vincolato: quando, cioè "una sola sia la soluzione conforme

all'ordinamento e l'Amministrazione non abbia emanato il dovuto

atto" e non quando la decisione sul ricorso postuli accertamenti

valutativi complessi, per altro ontologicamente incompatibili con le

caratteristiche di celerità del giudizio camerale sul silenzio41

*.

Vediamo la norma nel dettaglio.

L'art. 31 del codice del processo amministrativo limita il potere del

giudice a conoscere della fondatezza della pretesa giuridica

introdotta solo "quando si tratta di attività vincolata o quando risulta

che risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della

discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che

40 *( Cons. di Stato, Ad. Plen, 9 gennaio 2002, n. 1).

41 *( Cons. di Stato, sez. IV, 28 aprile 2008; n. 1873; sez. VI, 10 ottobre 2007, n 5310; sez

V, 9 ottobre 2006, n 6003; sez. VI, 3 marzo 2006, n 1023).

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debbano essere compiuti dall'amministrazione". Ed invero, la

disciplina della tutela in materia di silenzio dell'amministrazione non

introduce una norma sulla giurisdizione, ma nel solco di quanto già

tracciato dall'art. 21 bis, L. 1034/1971, sul rito, non essendo

ammissibile, sul piano costituzionale, l'introduzione di fatto di una

sconfinata cognizione di merito, attraverso la possibilità di conoscere

della fondatezza o meno della pretesa sostanziale, con un

generalizzato potere del giudice amministrativo di sostituirsi alla

P.A., dovendosi, per altrettanto, escludere, anche sul piano logico,

che il giudice possa sempre conoscere della fondatezza della pretesa,

tutte le volte in cui l'esperimento del rito speciale consenta di

pervenire d un risultato maggiore di quello ottenibile da un giudice

ordinario di legittimità finalizzato all'annullamento di un

provvedimento illegittimo, oltre che nei casi in cui detto

accertamento, per la sua complessità, si riveli incompatibile con la

struttura celere attribuita dal legislatore al nuovo rito. Pertanto, ove

l'amministrazione adotti un provvedimento espresso a seguito della

diffida dell'interessato, ci determina l'inammissibilità del ricorso, o

improcedibilità del ricorso, a seconda che intervenga prima o dopo la

proposizione del ricorso medesimo.

Ai sensi dell'art. 117 comma 6 del Codice del processo

amministrativo, quando l'azione di risarcimento del danno subito

dopo l'inosservanza del termine per la conclusione del procedimento

è proposta congiuntamente a quella avverso il silenzio, "i giudice può

definire con il rito camerale l'azione avverso il silenzio a trattare con

il rito ordinario la domanda risarcitoria".

Affinché dunque il predetto capo di domanda venga trattato ed

esaminato in udienza pubblica, la parte ricorrente dovrà formulare

apposita istanza di fissazione di udienza per la discussione dello

stesso ricorso, secondo quanto stabilito dall'art. 71, Cod. Proc.

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68

Amm.42

*

2. AZIONE AVVERSO IL SILENZIO.

Nell'azione avverso il silenzio, come abbiamo visto, non v'è

impugnazione di un provvedimento, neppure di carattere tacito. Il

giudice amministrativo, se accoglie il ricorso, ordina

all'Amministrazione di adempiere entro un congruo termine (di

regola, non superiore ai trenta giorni).Come dispone l'art. 117 del

Cod. proc. Amm. Tale ordine può avere anche un contenuto

specifico, in quanto il giudice può conoscere pure della pretesa

sostanziale dedotta in giudizio e sottesa all'istanza rivolta alla P. A,

sia pure soltanto quando si tratti di attività amministrativa vincolata

ovvero quando risulti che non residuino margini di esercizio della

discrezionalità e che non siano necessari adempimenti e che non

siano necessari adempimenti istruttori da parte dell'Amministrazione

( art. 31 comma 3 C.p.A).

Il Codice, sulla contestazione del silenzio, sembra aver introdotto

una tutela modellata sul modello dell'azione di adempimento. Lo

svolgimento del processo è regolato dall'art. 117. C.p.A. e in

particolare:

a) Il rito è sempre quello camerale, con termini ex art. 87 C.p.A.

b) La decisione assume la forma della sentenza semplificata.

c) Il giudice nomina ove occorra, un commissario ad acta già con la

sentenza che conclude il giudizio oppure successivamente ad istanza

di parte.

d)Il giudice conosce anche di tutte le questioni relative all'esatta

adozione del provvedimento richiesto ( comprese quelle inerenti gli

42 * ( Tar Lazio, Sez. III, n, 11868 del 2010).

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atti adottati dal commissario ).

e) Se dovesse sopravvenire il provvedimento dell'amministrazione,

ovvero un atto comunque connesso con la pretesa fatta valere dal

privato e quindi con l'oggetto della lite, è oggi pacificamente

ammessa la proposizione di motivi aggiunti all'interno del giudizio

del silenzio, nei termini e secondo il rito previsto per il

provvedimento sopravvenuto (art. 117 comma 5 C.p.A):

f) In caso di domanda risarcitoria proposta con il ricorso ex art. 117

C.p.A,il giudice può definire il giudizio con il rito camerale la

domanda sul silenzio e trattare con il rito ordinario la domanda di

danni: il che realizza un vantaggio per una più celere definizione del

giudizio sul silenzio. In alternativa, in omaggio al principio di

prevalenza del rito ordinario se connesso a uno speciale (art. 32

comma 1 C.p.A), si applica il primo in entrambe le domande.

3. POSSIBILITA’ DI CONFIGURARE LA POSIZIONE DI UN

CONTROINTERESSATO.

Nel giudizio sul silenzio deve ritenersi controinteressato colui che

resta direttamente pregiudicato dalla dichiarazione dell'obbligo

dell'amministrazione di provvedere.

L'art. 31 del Codice del Processo Amministrativo ha previsto la

possibilità che sia configurabile la possibilità di un controinteressato

anche nel ricorso avverso il silenzio. <si tratta di una sostanziale

novità stante il fatto che sono assai rare le pronunce che prima

dell'entrata in vogare del o Codice, avevano profilato questa

possibilità.

Nel giudizio contro il silenzio non si attacca un provvedimento, ma

un comportamento (per giunta, appunto, silente). Dunque potrebbe

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individuarsi un controinteressato nella stessa istanza di avvio del

procedimento formulata da parte di colui che poi diventerà ricorrente

al TAR, a condizione che costui in quella stessa istanza abbia in un

certo senso fatto riferimento all'esistenza di un soggetto che vanta

una posizione diretta e contraria a quella a lui palesata (richiedente

l'emanazione del provvedimento).

E' certamente conteointeressato chi ha presentato una domanda di

accesso in seno al procedimento amministrativo del quale il

ricorrente contesta la mancata conclusione, nonché ogni altro

soggetto che, a seguito di una istruttoria processuale, sia stato

individuato dal Collegio come portatore di una situazione giuridica

soggettiva incompatibile con quella recata dal i corrente. In questo

caso è piuttosto evidente l'obbligo in capo al giudice amministrativo

di procedere ad impartire l'ordine di integrazione del contraddittorio

ex art. 49 del Codice.

Altra ipotesi configurabile è quella in cui il terzo, che assume essere

danneggiato dal mancato esercizio di poteri sanzionatori da parte di

un Comune destinatario di una denuncia d’inizio attività, impugni il

silenzio serbato dall'Amministrazione sulla sua istanza di adozione di

atti repressivi o inibitori: in questa fattispecie è certamente

controinteressato il beneficiario della D.I.A.

Sullo stesso piano si pone colui che non vuole che l'Ente rilasci un

titolo concessori a terzi, i quali lo sollecitano impugnando l'inerzia

manifestata dalla stessa P.A.

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Capitolo VI .

I RIMEDI DONTRO IL SILENZIO DELLA PUBBLICA

AMMINISTRAZIONE.

1.RISARCIMENTO DEL DANNO DA MANCATA E/O

RITARDATA OTTEMPERANZA DELLA P.A.

Il cosiddetto danno da ritardo nell'emanazione del provvedimento

conclusivo del procedimento non ha alcun collegamento con la

lesione di un interesse legittimo al rispetto dei termini per

provvedere, posto che, come si è cercato di dimostrare, un simile

interesse legittimo (oppositivo all'avvenuta adozione del

provvedimento tardivo) non si prospetta, prospettandosi invece, il

contrario interesse legittimo (pretensivo) a che la Pubblica

Amministrazione emetta il provvedimento conclusivo del

procedimento nonostante lo scadere del termine per provvedere. Il

danno da ritardo, dunque, è risarcibile solo in quanto ne è

espressamente contemplato il diritto al risarcimento dell'art. 2bis

della legge 241 del 1990. La ristorabilità del pregiudizio sofferto del

soggetto interessato al provvedimento intervenuto solo dopo lo

spirare dei termini per provvedere risponde a una logica acceleratoria

di tali termini che abbiano visto, non essere quella (dilatoria) che

scaturisce dall’interpretazione sistematico- teleologico della norma

che impone alla P.A. di concludere i procedimenti entro i termini

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stessi. Questo conduce all'affermare che il risarcimento del danno in

questione trova la propria legittimazione sul piano dell'ammissibilità

giuridica nel fatto che il legislatore ha inteso attribuire un diritto ad

hoc al soggetto leso dall'intempestiva assunzione del provvedimento.

Questo diritto è stato riconosciuto non solo per ragioni di equità

sostanziale facilmente immaginabili, ma anche allo scopo "tecnico"

di munire i suddetti termini anche se per le vie traverse del

riconoscimento di un potere privato di far "sanzionare" il ritardo, di

un qualche carattere acceleratori che, altrimenti mancherebbero loro

totalmente.

proprio perché pretesa del privato protetta in modo piena ed

esclusivo ( diritto soggettivo), molto opportunamente l'art. 2 bis

sopra citato, nella sua originaria stesura, rimetteva la giurisdizione

esclusiva del giudice amministrativo la cognizione delle questioni

attinenti al risarcimento del danno da ritardo, disposizione poi

soppressa dal d.lgs. 104/2010 non si sa con quanto cognizione di

causa.

L'introduzione del principio della certezza temporale del

procedimento e della generale risarcibilità delle posizioni d’interesse

legittimo, ad opera della sentenza 500/99 delle SS. UU della

Cassazione, ha reso sempre più calda la complessa questione della

responsabilità e risarcibilità del danno da ritardo

dell'amministrazione nell'esercizio delle sue funzioni o da cd

silenzio-rifiuto o inadempimento e delle connesse problematiche

relative: alla nozione del danno, alle sue categorie, alla natura della

stessa responsabilità, alle modalità per far valere il diritto al

risarcimento del danno da ritardo ed alle condizioni di ammissibilità

dell'azione risarcitoria, ai poteri di rifiuto, alla necessario o meno

pregiudizialità tra l'attivazione di tale rimedio giurisdizionale e

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l'azione risarcitoria.

Del danno da ritardo vengono configurate due nozioni.

La prima incorpora ogni pregiudizio scaturente dal ritardato esercizio

della funzione Pubblica, e cioè sia quello ricollegabile all'interesse

sostanziale al bene della vita sia quello concernente il rispetto del

termine conclusivo del procedimento.

La seconda nozione riduce l'area del danno risarcibile alla sola

lezione dell'interesse legittimo che si fa valere in sede

procedimentale. La risarcibilità viene, quindi, delimitata ai casi in cui

si dimostri la spettanza del bene della vita, senza possibilità di ristoro

per la sola violazione dell'interesse procedimentale alla certezza dei

rapporti giuridici di diritto pubblico e cioè il semplice decorso del

termine.

La giurisprudenza prevalente ha prediletto, fino all'entrata in vigore

della legge 69 del 2009, questa seconda soluzione.

quanto alle categorie del cd danno da ritardo mentre in dottrina sono

state proposte diverse classificazioni o sotto categorie, la

giurisprudenza 43

* ha elevato una tripartizione in forza della quale al

danno stesso si riconducono tre differenti ipotesi imperniate le prime

due sul provvedimento tardivo e la terza sul rifiuto di provvedere.

La prima ipotesi riguarda l'adozione tardiva di un provvedimento

legittimo ma sfavorevole al destinatario: è questa l'ipotesi del c.d.

danno da mero ritardo, identificabile nella lesione dell'interesse

procedimentale alla tempestiva conclusione del procedimento a

prescindere dalla spettanza del bene della vita.

La seconda concerne l'adozione tardiva del provvedimento richiesto,

favorevole all'interessato, ma emesso un ritardo (ES: rilascio tardivo

del permesso di costruire).

La terza ipotesi concerne l'inerzia dell'amministrazione e quindi la

mancata adozione del provvedimento richiesto: è questa l'ipotesi del

43 (Cons.St. sez. IV,marzo 2005 n. 875)

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silenzio rifiuto, istituto che, come detto oltre ad essere diverso dalle

altre fattispecie di silenzio c.d. significativo e cioè delle ipotesi di

qualificazione normativa del comportamento inerte ( silenzio

assenso, silenzio diniego tipizzato; silenzio rigetto) ha conosciuto

una rilevante evoluzione giurisprudenziale e legislativa. Ciò

premesso, la questione è quella della risarcibilità o meno del danno

da mero ritardo e cioè se spetti la tutela risarcitoria nell'indicata

ipotesi in cui la Pubblica amministrazione non emetta nei termini di

conclusione del procedimento l'atto, ma lo emetta, accogliendo

l'istanza, oltre il termine normativamente prefissato. Prima

dell'introduzione, ex novo, dell'art. 2 bis della legge 24 del 1990 si è

molto discusso in dottrina e giurisprudenza se l'interesse del privato

al rispetto della tempistica procedimentale fosse risarcibile ex se a

prescindere, cioè, dalla spettanza del bene della vita richiesto ed

indipendentemente dalla successiva adozione del contenuto del

provvedimento oggetto dell'istanza.

La questione stessa è strettamente connessa al controverso dibattito

sulla natura extracontrattuale o contrattuale della responsabilità della

pubblica amministrazione relativamente ai danni da ritardo o

silenzio, tema delicato in quanto l'adesione all'una o l'altra tesi

comporta profonde differenze in ordine alla disciplina applicabile, in

particola e con riferimento agli elementi costitutivi della

responsabilità. al termine della prescrizione, all'onus probandi

dell'elemento soggettivo, ecc….

Una parte della dottrina (Scoca, Cacciavillani, Protto) ha optato per

la risarcibilità del danno da mero ritardo sul rilievo che l'inerzia, il

ritardo nell'adozione del provvedimento configurano una violazione

dei principi e delle regole riguardanti l'azione amministrativa e

provocano la lesione dell'interesse legittimo allo stesso modo in cui

provoca lesione il provvedimento finale sfavorevole.

nell'ambito di siffatta impostazione dottrinaria si è posto rilievo

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come, nel nuovo modello di azione amministrativa, possano

assumere rilevanza autonoma, rispetto all'interesse legittimo al bene

della vita, posizioni soggettive di natura strumentale che mirano a

disciplinare il procedimento amministrativo secondo criteri di

correttezza, idonei a ingenerare un'aspettativa qualificata al rispetto

di dette regole, con la conseguenza che " la selezione degli interessi

giuridicamente rilevanti non può essere effettuata con riguardo al

solo bene finale idealmente conseguibile" avendo il privato

comunque diritto a una risposta certa e tempestiva.

La risarcibilità, pertanto, prescinderebbe dalla fondatezza dell'istanza

del privato e cioè dalla spettanza del bene della vita. Si ritiene,

persino, da taluni autori che l'interesse alla certezza dei tempi

procedimenti costituirebbe un bene della vita in sé, il bene- tempo,

(del tutto indipendente dalla pretesa a un provvedimento favorevole)

la cui lesione si configurerebbe nell'inosservanza del termine di

conclusine del procedimento. Secondo tale dottrina la responsabilità

per la PA derivante dalla predetta violazione è di natura contrattuale

e più precisamente da un contatto amministrativo qualificato, con le

relative conseguenze in ordine al problema dell'accertamento della

colpa.

Si afferma che tale contatto del cittadino con l'amministrazione, è

oggi, a seguito della procediementalizzazione dell'attività

amministrativa, caratterizzato da uno specifico dovere di

comportamento nell'ambito di un rapporto che, in virtù delle garanzie

che assistono l'interlocutore dell'attività stessa, diviene specifico e

differenziato.

Sulla stessa ricostruzione del danno da ritardo come pregiudizio

conseguente alla violazione dell'interesse al rispetto dei tempi di

definizione dell'istanza si è mossa la quarta sezione del Consiglio di

Stato.

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Quest'ultima, nel rimettere all'Adunanza Plenaria, con Ord.

875/2005, la questione della risarcibilità del danno da ritardo, aveva

prospettato l'eventualità di riconoscimento del rimedio risarcitorio

per danno da mero ritardo, per violazione del dovere di correttezza

procedimentale da parte della Pubblica amministrazione in caso di

mancato rispetto dei termini di conclusione del procedimento.

A distanza di pochi mesi da tale decisione dell'Adunanza Plenaria del

Consiglio di Stato con la sentenza n. 7 del 15 settembre 2005, ha

escluso la risarcibilità del danno correlato alla mera violazione dei

tempi, su rilievo che esso non può rivendicare un'autonoma posizione

strutturale rispetto alla fattispecie procedimentale da cui è generato e

dal fatto che, in base all'allora vigente legislazione, non era dato

rinvenire un meccanismo riparatore dei danni provocati dal ritardo

procedimentale in se e per se considerato.

In altri termini, seconda la Plenaria, l'inerzia amministrativa per

essere sanzionabile in sede risarcitoria richiede non solo il preventivo

accertamento in sede giurisdizionale della sua illegittimità, ma, ancor

più, il concreto esercizio della funzione amministrativa in senso

favorevole all'interessato, ovvero il suo esercizio virtuale, in sede di

giudizio prognostico da parte del giudicante investito della richiesta

risarcitoria.

Tale ultima impostazione è stata confermata dalla giurisprudenza

successiva44

*, la quale ha ribadito che il risarcimento è ammissibile

solo dopo e a condizione che l'amministrazione, riesercitato il potere,

abbia riconosciuto all'istante il bene stesso; in tal caso il danno

riscontrabile non potrà che ridursi al solo pregiudizio determinato da

ritardo nel conseguimento del bene.

44 (Cons. St. sez.IV, nn 248 e 6242 del 2008; sez., n 1162 del 2009),

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2. LA NUOVA DISCIPLINA DELLA RESPONSABILITA’ E

RISARCIBILITA’ DEL DANNO DA RITARDO E DEL RICORSO

AVVERSO IL SILENZIO: L'ART. 2 BIS DELLA LEGGE 241

INTRODOTTO DALL'ART 7 DELLA LEGGE N 69 DEL 2009 E

GLI ART. 30 CM 4 E 31 DEL CODICE DEL PROCESSO

AMMINISTRATIVO.

La positivizzazione dell'istituto della responsabilità per danno da

ritardo o da silenzio è avvenuta per effetto dell'art. 2 bis della legge

241 del 1990.

Con tale disposizione il principio della risarcibilità del danno da

ritardo dell'Amministrazione ha trovato, per la prima volta, il

generale riconoscimento sul piano legislativo ( in precedenza solo

nell'inattuata legge delega n. 59 del 1997 si era previsto il pagamento

di un indennizzo per il mancato rispetto del termine di procedimento

da parte della Pubblica amministrazione).

Il primo comma del citato articolo 2 bis letteralmente recita " Le

pubbliche amministrazione e i soggetti di cui all'articolo 1 comma 1

tre sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in

conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di

conclusione del procedimento".

Più precisamente è statuito l'obbligo della stessa Amministrazione di

risarcire il danno ingiusto cagionato dall'inosservanza del termine.

Più precisamente è statuito l'obbligo della stessa amministrazione di

risarcire il danno ingiusto cagionato dall'inosservanza del termine di

conclusione del procedimento,da farsi valer, in sede di giurisdizione

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esclusiva del giudice amministrativo, con l'azione soggetta a

prescrizione quinquennale (comma2), ferma restando la necessità di

una imputabilità soggetti a, almeno a titolo di colpa, dell'apparato

amministrativo e la prova del danno nel suo ammontare secondo

parametri di cui all'art. 2043 c.c..

Inoltre è prevista la considerazione della violazione del termine in

sede di valutazione della responsabilità dirigenziale (comma 9

dell'art. 2 L. 241 del 1990), responsabilità che incombe sul dirigente,

in aggiunta a quella c.d. erariale, nei suoi rapporti con

l'Amministrazione di appartenenza.

Come già rilevato in dottrina con il nuovo art. 2 bis il legislatore ha,

quindi, inteso prevedere uno strumento di tutela contro l'inerzia della

Pubblica Amministrazione; strumento che trova la sua collocazione

nell'ambito del rito ordinario, in pubblica udienza, affiancandosi ( ma

in posizione autonoma) a quello rappresentato dal rito speciale in

camera di consiglio ex art. 21 bis della legge 1034 del 1971contro il

silenzio rifiuto; giudizio, quest'ultimo, che mira solo all'accertamento

dell'obbligo dell'Amministrazione di provvedere e non consente,

secondo recente giurisprudenza ì, l'esame di ulteriori domande, quale

quella risarcitoria che può essere azionata indipendentemente dal

giudizio avverso il silenzio.

In conclusione sembra potersi affermare che, con le ipotesi di

mancato esercizio del potere amministrativo, ed in particolare di

mancato rispetto di termine procedimentale di emanazione dell'atto,

cioè di ritardo nella sua adozione, il legislatore del 2009 abbia

attribuito rilevanza procedimentale specifica ed oggettiva al ritardo

medesimo, indipendentemente dall'atto, favorevole o sfavorevole, o

del silenzio.

La previsione normativa dell'obbligo del risarcimento del danno

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ingiusto cagionato dall'amministrazione in conseguenza

dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del

procedimento è ora processualmente garantita dall'art. 30 comma 4

del codice del processo amministrativo, che prevede una specifica

azione in favore del ricorrente che comprovi di aver subito un danno

in conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di

conclusione del procedimento.

Tale ultima disposizione vale a rendere applicabile al procedimento

amministrativo, finalizzato a far conseguire un'utilità, il noto

principio secondo il quale la indebita protrazione di tempi del

procedimento, oltre quelli legalmente previsti, non deve andare a

danno del destinatario dell'utilità.

Lo stesso codice si occupa anche del silenzio dell'Amministrazione e

più precisamente del procedimento giurisdizionale speciale contro lo

stesso.

In base all'art. 31 il ricorso avverso il silenzio è proposto, anche

senza previa diffida, finché perdura l'inadempimento e comunque

entro un anno dalla scadenza del termine per provvedere.

Il giudice decide sul silenzio con sentenza in forma semplificata; in

caso di accoglimento ordina all'Amministrazione di provvedere

entro, di regola, trenta giorni.

Se sopravviene un provvedimento espresso, o altro atto connesso,

questo può essere impugnato con motivi aggiunti; il giudizio

prosegue con rito ordinario.

Il codice stabilisce che il giudice può decidere sulla fondatezza della

pretesa solo se l'attività è vincolata oppure quando non residuano

margini di esercizio della discrezionalità.

Appare evidente la consacrazione di quell'orientamento dottrinario

già favorevole all'affermazione della responsabilità per danni

conseguente alla mancata tempestiva adozione del provvedimento

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amministrativo.

Questa impostazione trovava e trova la sua giustificazione non solo

nella profonda trasformazione che nell'ultimo ventennio ha

riguardato la Pubblica amministrazione e il suo rapporto con il

cittadino , non più in posizione di sudditanza, ma anche con

riferimento al fenomeno patologico dell'inerzia amministrativa ed, in

alcuni casi, a veri e propri abusi amministrativi, fonte di danni non

solo per il privato cittadino ma anche per la stessa economia

nazionale.

Il cittadino e la collettività ricercano, oggi più che mai. non più e

solo il rispetto della legalità in astratto, come vuota formula ma

pretendono di ottenere quei risultati concreti che altro non sono che il

precipitato effetuale dell'attività dell'amministrazione, in definitiva lo

scopo stesso delle norme impostate alla stessa amministrazione

pubblica.

C'è solo da auspicare, in conclusione, che la novella legislativa del

2009 ed il codice del processo amministrativo, apprezzabili per

l'attenzione mostrata all'esigenza di assicurare l'effetto utile

dell'affermata risarcibilità del danno da ritardo, possa finalmente

giocare un ruolo fondamentale nella creazione di una maggiore

sensibilità degli enti pubblici al rispetto dei termini procedimenti, a

tutto beneficio di una minore conflittualità tra Pubblica

amministrazione e i cittadini.

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3.AZIONE DI CONDANNA AL RISARCIMENTO DEL DANNO

Ai sensi dell'art. 2 bis della legge 241 del 1990, in presenza di colpa

o dolo, il ritardo nel provvedere obbliga l'amministrazione a risarcire

il danno ingiusto cagionato.

Si suole distinguere il "danno da ritardo" ( individuabile nella lesione

di un interesse pretensivo, cagionato dalla lentezza con cui

l'amministrazione a emesso il provvedimento finale ampliativo della

sfera giuridica del privato) dal danno "da disturbo", che si

caratterizza dalla lesione di un interesse oppositivo e consiste nel

pregiudizio subito in conseguenza dell'illegittima compressione delle

facoltà di cui il provato è già titolare 45

*.

Il danno da ritardo è artatamente sussumibile in due categorie: quello

da ritardata adozione e quello da mancata adozione dell'atto.

La prima categoria comprende le ipotesi di pregiudizio in cui un atto

conclusivo del procedimento, sia pure intempestivo, è comunque

stato adottato dall'amministrazione.

Rientrano nella seconda ipotesi in cui l'autorità procedente non è più

nelle condizioni di adottare alcun atto conclusivo, ovvero in cui

l'istante, per ragioni proprio e, non ha più interesse all'adozione

dell'atto, la cui assunzione postuma assurgerebbe alla stregua di mero

simulacro provvediementale.

In ambito processuale, la fattispecie è governata dall'art. 30 commi 4

e 5, del codice di rito, dove è stabilito che l'azione "per il

risarcimento dell'eventuale danno per il ricorrente comprovi di aver

subito in conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del termine

di conclusione del procedimento" è sottoposta al termine di

45 *( Cons di Stato sez, V 30 giugno 2009, n . 4237 e Sez VI 12 marzo 2004 n 1261)

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decadenza di centoventi giorni, che inizia a decorrere, trascorso un

anno dalla scadenza del termine a provvedere, salvi sia stata proposta

azione di annullamento, nel qual caso la domanda risarcitoria può

essere formulata nel corso del relativo giudizio o, comunque, sino a

centoventi giorni dal passaggio in giudicato della sentenza.

Il successivo art. 117, al comma 6, prescrive che se la domanda

risarcitoria è proposta "congiuntamente" a quella di accertamento

dell'obbligo , il giudice può definire con il rito camerale l'azione

avverso i silenzio e trattare con rito ordinario la domanda risarcitoria.

Ai sensi dell'art. 133, comma 1 lettera a), la controversia sul

risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza

dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del

procedimento amministrativo è devoluta al giudice amministrativo in

sede di giurisdizione esclusiva.

La domanda risarcitoria può essere proposta per la prima volta nel

processo di ottemperanza, purché nel termine di centoventi giorni dal

passaggio in giudicato della sentenza, stabilito dall'art. 30 comma 5

ed in tal cos il giudizio di ottemperanza si svolge nelle forme, nei

modi e nei termini del processo ordinario (art. 112comma 4 del

codice).

Nello schema dell'art. 2 bis della legge 241 del 1990, quattro sono gli

elementi fondanti la fattispecie dannosa:

a) la violazione dell'obbligo di provvedere

b) la presenza della colpa o del dolo

c)la produzione di un danno ingiusto

d)il nesso di consequenzialità tra la violazione dell'obbligo e il danno

ingiusto cagionato.

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L'individuazione degli estremi della colpa o del dolo postula un

giudizio d’imputabilità dell'evento all'amministrazione, almeno a

titolo di violazione delle usuali regole di buona fede, trasparenza,

leale e fattiva collaborazione, cui si riconnette, ai sensi dell'art. 2777

del c.c., la presunzione semplice della sussistenza della "colpa

dell'apparato amministrativo".

Spetterà di contro l’amministrazione dimostrare che si è trattato di un

errore scusabile, configurabile ad esempio, in caso di contrasti

giurisprudenziali sull'interpretazione di un precetto, di formulazione

incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità

del fatto, d’influenza determinante dei comportamenti di altri

soggetti, d’illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di

incostituzionalità della norma applicata , od altro.46

* L'accertamento

del nesso di causalità tra la violazione dell'obbligo e il danno ingiusto

cagionato va eseguito secondo i dettami fissati dalla Corte di

Cassazione, in base ai quali esso "è soggetto alle regole dettate dagli

art. 40 e 41 del c.p., secondo cui tale nesso sussiste in tutti i casi in

cui possa ritenersi che la condotta colposamente omessa, ove fosse

stata tenuta, avrebbe impedito l'evento. Tuttavia l'accertamento della

causalità omissiva in sede civile differisce dall'analogo accertamento

in sede penale sul piano della prova, perché, mentre nel processo

penale la diversa posizione dell'accusa e della difesa impedisce di

ritenere sussistente il nesso di causalità se non vi sia la prova che la

condotta omessa avrebbe impedito l'evento al di là di ogni

ragionevole dubbio (vale a dire con quasi assoluta certezza), nel

processo civile la paritaria posizione dei litiganti consente di ritenere

provato il nesso causale tra l'omissione e l'evento di danno in tutti i

casi in cui la condotta omessa avrebbe impedito quest'ultimo con

ragionevole probabilità, vale a dire con una probabilità superiore al

46 (Cons. Stato, Sez VI, 23 marzo 2009 n. 1732).

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50 per cento, che va desunta non solo dalle statistiche eventualmente

esistenti, ma da tutte le circostanze del caso concreto".47

*

Molto dibattuta la nozione di "danno ingiusto".

Secondo la giurisprudenza formatasi prima dell'entrata in vigore

dell'art. 2 bis della legge n. 241 del 1990, il ritardo nella definizione

dell'istanza non comporta di per sé l'affermazione della responsabilità

per danni, posto che il sistema di tutela dell'interesse pretensivo

consente il passaggio a riparazioni per equivalente solo quando esso

assume ad oggetto la tutela di posizioni sostanziali e perciò la

mancata emanazione od il ritardo nell'emanazione riguarda un

provvedimento vantaggioso, suscettibile di appagare un bene della

vita. Non è quindi possibile accordare il risarcimento nel caso in cui

il provvedimento tardivo abbia carattere negativo e sia divenuto

intangibile per l'omessa proposizione d’impugnativa o per il suo

rigetto.48

*

Minoritario è rimasto l'orientamento che pone l'accento sul nuovo

modello di azione amministrativa introdotto dalla legge n. 241 del

1990, informato secondo le regole di correttezza idonee a radicare

un'aspettativa qualificata al loro rispetto e la cui violazione dà luogo

a responsabilità per lesione di posizioni soggettive ulteriori rispetto a

quelle di natura sostanziale (i c.d." interessi strumentali" o "

procedimentali"), indipendentemente dalla spettanza del

provvedimento richiesto. In quell'ottica, l'avvio di un procedimento

amministrativo genera un " contatto amministrativo qualificato" e il

sorgere di un rapporto giuridico autonomo a struttura complessa, nel

47 ( Cass. Civ, Sen. Un., 11 gennaio 2008, n. 576).

48 (Con. Stato, Ad. Pl., 15 settembre 2005, n. 7; sez. V 13 luglio 2010, n. 4522; Sez. IV, 29

gennaio 2008, n .348).

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cui ambito si formano, a carico del soggetto pubblico, dei veri e

propri obblighi di protezione della sfera giuridica del privato, cui

sono correlati specifici diritti di quest'ultimo ad un comportamento

diligente e conforme alla buona fede49

*.

Dal mancato di esercizio di un potere autoritativo nei tempi

prefigurati dalla legge, possono in linea astratta discendere le

seguenti situazioni di fatto:

1) L'amministrazione non adotta alcun provvedimento dei il privato

istante, nonostante il tempo trascorso, mantiene interesse alla sua

emanazione;

2) L'amministrazione adotta in ritardo il provvedimento dovuto e

questo è satisfattivo dell'interesse del privato istante;

3) L'amministrazione adotta da prima un provvedimento negativo,

ma poi lo riforma in senso positivo, d'ufficio o in esecuzione di una

pronuncia giurisdizionale;

4) L'amministrazione adotta in ritardo il provvedimento positivo

dovuto, ma questo è solo astrattamente satisfattivo dell'interesse del

privato istante, perché il decorso del tempo ha provocato

l'irrimediabile inutilità dell'atto, ai fin dell'attribuzione del bene o

dell'utilità finale richiesta;

5) L'amministrazione non adotta alcun provvedimento perché, a

causa del tempo trascorso, non è più nella condizione di provvedere

49 ( Cons. Stato, sez IV, 7 marzo 2005, n 875; sez VI, 15 aprile 2003 n. 1945 e 20 gennaio

2003, n 204).

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sull'istanza.

E' evidente che le ipotesi poste al numero 1, 2 e 3 variano solo per le

diverse modalità di accesso alla tutela giudiziaria in quanto:

1) in caso di mero silenzio, l'interessato potrà proporre il relativo

ricorso nel quale inserire anche l'azione di danno per il ritardo, fermo

restando che - in linea con la tesi giurisprudenziale dominante-

l'accoglibilità di quest'ultima resta subordinata alla previa adozione

di un provvedimento positivo da parte dell'amministrazione, salvi i

limitati casi nei quali il giudice può valutare la fondatezza

dell'istanza, ai sensi dell'art. 31 comma 3 del Codice;

2) in caso di provvedimento tardivo favorevole adottato in prima

battuta, l'interessato potrà proporre direttamente azione di condanna

per il risarcimento del danno da ritardo;

3) In caso di provvedimento tardivo emesso in riforma di un

precedente atto di segno negativo, l'interessato che abbia esperito

azione generale di annullamento, se non ha agito in tale sede anche

per il danno da ritardo, potrà farlo con separato processo.

A non mutare nelle tre ipotesi sopra citate è la determinazione del

danno risarcibile, che è pari alla minore utilità patrimoniale

conseguita a causa del tempo illegittimamente decorso tra la

scadenza del termine per provvedere e il momento in cui il

provvedimento è adottato.

Nel caso n. 4, un provvedimento positivo è stato emesso ma per il

notevole tempo trascorso esso è inidoneo ad appagare le giuste

pretese del privato istante. Si pensi, ad esempio, alla richiesta di un

imprenditore, accolta quando l'attività è ormai cessata, ovvero alla

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domanda di autorizzazione al trasposto di un bene ai fini della sua

successiva vendita, accolta dopo il perdimento della merce od il ritiro

del compratore.

In questa situazione, per l'istante il ritardo nel provvedere non

determina l'ottenimento di una motore utilità patrimoniale, ma gli

impedisce di realizzare una qualsivoglia utilità.

Conseguentemente, il ristoro è necessariamente pari alle intere utilità

fallita e va chiesta con autonoma azione di danno, senza si debba

previamente impugnare il provvedimento sopravvenuto che anzi

giova al ricorrente, nella misura in cui lo affranca dall'onere di

provare in giudizio che il bene vantato gli sarebbe stato attribuito

all'esito di un apprezzamento discrezionale .

Più problematica è l'esame dell'ipotesi n. 5, nella quale

l'amministrazione non si è mai pronunciata sull'istanza né può

ulteriormente farlo perché, per norme o fatti sopravvenuti, ha perso il

potere di provvedere sulla materia o non può più concedere l'utilità

richiesta.

In questi casi, restando nell'alveo tracciato dalla giurisprudenza,

l'inerzia amministrativa è sanzionata in sede risarcitoria solo previo

accertamento della fondatezza della pretesa.

Sicché l'interessato avrà interesse a promuovere un'autonoma azione

di danno da mancato provvedere, solo se e in quanto sia in grado di

provare in giudizio la certa, o statisticamente probabile, attribuzione

del bene o dell'utilità finale, all'esito della prognosi di quella che

sarebbe stata la decisione virtualmente assunta dall'amministrazione.

Diversamente, dovrà promuovere una causa avverso il silenzio, al

fine di obbligare l'autorità ad affettare comunque la valutazione

discrezionale circa la (astratta) spettanza del bene o dell'utilità: allo

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scopo, se l'esito è positivo, di poter chiedere il risarcimento del

danno per equivalente e, se è negativo, di precostruirsi un

provvedimento da impugnare in sede di legittimità.

In tutte queste ipotesi, i sensi dell'art. 30, comma 3, del o dice, sono

escluse dal risarcimento quelle voci di danno che si sarebbero potute

evitare con l'ordinaria diligenza, anche attraverso l'esperimento degli

strumenti di tutela previsti dall'ordinamento.

Si tenga conto, per altro, che l'azione risarcitoria richiedeva prova

della quantificazione dei danni subiti, con riferimento sia al danno

emergente, che al lucro cessante, in quanto elementi costitutivi della

relativa domanda, ai sensi dell'art. 2697 del codice civile, non

essendo di per sé sufficiente il riconoscimento tardivo del titolo

vantato, in quanto, in linea di principio, l'ingiustizia e la sussistenza

stessa di un danno non possono presumersi iuris tantum, in

meccanica ed esclusiva relazione al ritardo nell'adozione dell'atto

richiesto 50

.*

Pertanto, in caso d’illegittimo ritardo nel provvedere, la regola

equitativa può soccorrere unicamente nelle ipotesi in cui il danno

allegato, ancorché sussistente, non sia tuttavia comprovabile nel suo

preciso ammontare ma non quando uno dei parametri determinabili

sei l'incidenza di detto parametro sulla qualificazione del

risarcimento.51

*

Occorre ora chiedersi se le considerazioni espresse dall'Adunanza

Plenaria n 7/2005 sono state in qualche modo superate dall'art. 2 bis

della legge 241 del 1990, inserite dall'art. 7, comma 1 lettera c), della

legge n. 69/09.

50 *(TAR Puglia- Lecce, Sez III, 7 ottobre 2009, n 2262).

51 *(Cons. Stato, Sez. V, 30 settembre 2009, n. 5899).

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A tal proposito, si segnale una recente decisione di prime cure che,

pur disconoscendo l'applicabilità della nuova norma al giudizio in

corso, a una prima lettura, ritiene non priva di fondamento l'opzione

ermeneutica di un riconoscimento legislativo di un danno da mero

ritardo, " sganciato cioè dal conseguimento dell'utilità finale".52

*

L'opzione avanzata in forma dubitativa dal TAR Puglia non appare

tuttavia sorretta da argomentazioni persuasive.

D'altronde, quando nel recente passato si è voluto far discendere

dalla violazione dei termini procedimenti conseguenze negative di

ordine patrimoniale nei confronti dell'amministrazione, l'art. 17,

comma 1, lett. f), della legge 15 marzo 1997, n. 59 ( al c.d. "Prima

Legge Bassanini") ha conferito al Governo la delega ( rimasta

inattuata) ad introdurre " forme di indennizzo automatico e

forfettario" a favore del privato richiedente nelle ipotesi in cui

l'amministrazione non adotti tempestivamente un provvedimento,

anche se negativo.

Laddove la natura indennitaria, automatica e forfettaria- e non

risarcitoria - della somma spettante sta proprio dimostrare quanto

meno l'estrema riluttanza del legislatore a considerare rispettabili per

danno situazioni prive della consistenza del diritto o dell'interesse di

tipo sostanziale.

Per la portata non innovativa della disciplina, depongono poi sia la

struttura dell'art. 2 bis della legge 241/90, sia la successiva

formulazione di più di una norma del codice del processo

amministrativo.

52 * (TAR Puglia- Bari, Sez. II, 31 agosto 2009, n. 2031).

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90

Per vero, l'art. 2 bis riconnette il pregiudizio cagionato

dall'inosservanza del termine di conclusione del procedimento, al

verificarsi del danno "ingiusto".

Secondo l'art. 23 del decreto del presidente della Repubblica 10

gennaio1957, n. 3, il danno è ingiusto se deriva da una "violazione

dei diritti dei terzi" e ciò in conformità all'art. 28 della Costituzione,

secondo cui " i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti

pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali,

civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione dei diritti. In

questi tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti

pubblici …"

L'interpretazione evolutiva affermatasi presso la Suprema Corte dopo

anni di aspro dibattito è nel senso che per " violazione dei diritti"

evoco intendersi le aggressioni all'integrità patrimoniale

dell'individuo e dunque lesioni, oltre che ai diritti veri e propri, anche

agli "interessi pretensivi, la cui lesione si configura nel caso

d’illegittimo diniego del richiesto provvedimento o di ingiustificato

ritardo nella sua adozione ".53

*

L'ingiustizia del danno, quale presupposto della condanna al

risarcimento, è richiesta dall'art... 30, comma 2, del codice, sia per

l'illegittimo esercizio dell'attività amministrativa, sia per il ritardato o

mancato esercizio della stessa.

Poiché è indiscusso che il danno da uso illegittimo del potere

presuppone sempre la titolarità dell'interesse sostanziale in capo

all'istante, non si vede perché, quando nello stesso contesto

l'aggettivo "ingiusto" è utilizzato per il danno da mancato uso del

potere, questo debba assumere un'accezione diversa e più favorevole.

53 *( ciò, almeno, a partire dalla storica Cass. civ, Sez. Un 22 luglio 1999, n 500).

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Ancora, il comma 6 dell'art. 117 prevede che se l'azione per il

risarcimento del danno da ritardo è proposta nello stesso processo

avente per oggetto il silenzio, " il giudice può definire con il rito

camerale l'azione avverso il silenzio e trattare con rito ordinario la

domanda risarcitoria".

Se il risarcimento del danno dovesse conseguire al mero

accertamento dell'inadempimento dell'obbligo di provvedere, non si

comprenderebbe per quali logiche di economia processuale il giudice

del silenzio possa o debba separare un giudizio unitario, rinviando ad

altro rito la cognizione su una domanda il cui merito decisorio è già

in gran parte contenuto nella deliberazione sul silenzio, appena

eseguita.

Sarebbe tutt'al più sufficiente pronunciare una sentenza parziale, che

accerti l'obbligo di provvedere e rinviare ad altra udienza la

trattazione della stima del danno, sempre che la domanda non vada

respinta per mancata prova sul quantum ovvero non possa procedersi

per via equitativa.

La norma, invece, acquista senso compiuto, se si ritiene nel senso

che il giudice separa le due azioni connesse quando nel giudizio sul

silenzio non sia possibile stabilire la spettanza del bene della vita: o

perché, nelle more del processo, non è intervenuto un provvedimento

positivo o perché non si verte in un'ipotesi di attività vincolata o

priva di ulteriori margini di discrezionalità e non comportante

adempimenti istruttori, ai sensi dell'art. 31 comma 3 del codice.

In conclusione, non vi è ragione per sostenere cessato il vincolo di

pregiudizialità esistente tra il riconoscimento, anche solo virtuale,

della spettanza del bene della vita ( la c.d. fondatezza sostanziale

dell'istanza) e la condanna al risarcimento del danno da ritardo.

Pertanto, ogni qual volta siffatta valutazione non sia d'immediata e

pacifica evidenza, il giudice del silenzio è tenuto a rinviare la

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domanda sul danno ad altro giudizio, da celebrare secondo le forme

del rito ordinario.

4. LA RESPONSABILITA', I POTERI SOSTITUTIVI E

COMUNICAZIONE ALLA CORTE DEI CONTI

E' stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, del 31 luglio 2012 la

Circolare n. 4 del Ministero della Funzione Pubblica, con la quale

sono stati forniti chiarimenti sull'applicazione delle norme della

legge 241 del 1990, introdotte o novellate dall'art. 1 del D.L. n 5/

2012 (c.d. Decreto semplificazioni), convertito con Legge n. 35 del 4

aprile 2012. Si tratta dell'art. 2 comma 8, che prevede la trasmissione

alla Corte dei Conti delle sentenze passate in giudicato di

accoglimento dei ricorsi avverso il silenzio inadempimento

dell'amministrazione, del comma 9, che individua le sanzioni a

carico del dirigente e del funzionario ce hanno omesso di adottare il

provvedimento conclusivo o che lo hanno adottato in ritardo, e dei

commi 9- bis -9 quinquies, del medesimo art. 2, che disciplinano

l'attivazione dei poteri sostitutivi.

In merito alla prima questione (art. 2, c. 8), il Ministero chiarisce che

la trasmissione alla Corte dei Conti delle sentenze di accoglimento

dei ricorsi avverso il silenzio inadempimento non debba essere curata

dall'amministrazione, bensì dagli stessi uffici giudiziari, i quali ,

oltretutto , possono agevolmente reperire, in quanto in loro possesso,

i dati relativi al passaggio in giudicato delle sentenze54

*.

54 *( art. 1 dell'All.to 2 al Dlgs 7 luglio 2010 n 104, il cale prevede la

segreteria dei TAR annotino nel registro generale dei ricorsi la

notizia relativa alle impugnazioni proposte avverso i provvedimenti

del giudice e il relativo esito).

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L'art .1 del D:L: n 5/2012 ha poi modificato l'art. 2 della legge sul

procedimento amministrativo, specificando la responsabilità del

dirigente e del funzionario inadempiente. Il comma 9, il quale

disponeva che "la mancata emanazione del provvedimento nei

termini costituisce elemento di valutazione della responsabilità

dirigenziale", era stato introdotto dalla legge n. 69 del 2009; il nuovo

testo dell'art. 2 comma 9, come modificato dal decreto

semplificazioni, amplia la responsabilità e la estende anche nei

confronti del funzionario, stabilendo che :" la mancata o tardiva

emanazione del provvedimento costituisce elemento di valutazione

della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e

amministrativo- contabile del dirigente e del funzionario

inadempiente".

L'inerzia del funzionario o del dirigente, legittima, secondo i nuovi

commi 9-bis- 9 quinquies, l'esercizio dei poteri sostitutivi da parte

dell'organo di governo. Anche su questo punto erano sorti dei dubbi

interpretativi che il Ministero ha ritenuto di dover chiarire.

L'organo di governo può, dunque, individuare un soggetto al quale

attribuire poteri sostitutivi. Soltanto nel caos in cui l'organo di cui

governo ometta di provvedere a tale nomina, il potere sostitutivo si

considera attribuito al dirigente in generale o, in mancanza, al

dirigente preposto all'ufficio, ancora in mancanza, al funzionario di

più elevato livello nell'amministrazione.

Secondo la circolare, tale conclusione è confermata dalla ratio sottesa

alla novella, diretta a responsabilizzare il vertice e assicurargli la

cognizione di tutti i i casi in cui nono è stata rispettata la tempistica

prevista per chiudere i soggoli procedimenti, evitando la

frammentazione delle notizie. Il comma 9 quater dell'art. 2 della

legge 241 del 1990 dispone, in tal senso, che il soggetto al quale è

stato assegnato il potere sostitutivo, entro il 30 gennaio di ogni anno,

deve comunicare all'organo di governo i procedimenti, suddivisi per

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tipologia e strutture amministrative competenti, nei quali non è stato

rispettato il termine di conclusione previsti dalla legge o dai

regolamenti. Si tratta di adempimento che assume connotato di

notevole importanza, perché consente di monitorare i settori dei quali

è pi frequente il mancato rispetto dei termini di chiusura del

procedimento.

Al fine di rendere operative la modifiche introdotte dal decreto

semplificazioni, con particolare riferimento all'onere del privato di

sollecitare l'esercizio del potere sostitutivo ( art. 2 c. 9 -ter), è inoltre

precisato che il nominativo del soggetto al quale sosto stati affidati i

poteri sostitutivi deve essere reso noto e pubblicato, con congrua

evidenziazione, sul sito istituzionale dell'Amministrazione, con

l'indicazione di un indirizzo di posta elettronica dedicata al quale il

privato interessato, decorso inutilmente per la conclusione del

procedimento, possa inviare la richiesta di cui al comma 9 ter.

Congrua pubblicità deve essere data anche ai nominativi di coloro

che sono stati individuati dalla norma come titolari del potere

sostitutivo in caso di omessa indicazione da parte dell'organo di

governo.

Il titolare del potere sostitutivo, ricevuta la denuncia di omessa

chiusura del procedimento, ha, ai sensi del comma 9 ter dell'art. 2

della legge 241 del 1990, un termine, pari alla metà di quello

originariamente previsto, per l'adozione del provvedimento,

servendosi delle strutture competenti o, eventualmente, nominando

un commissario.

Infine, in tutti i provvedimenti adottati su istanza di parte, ove non

siano rispettati i termini per la conclusione del procedimento, deve

essere indicato ( così prevede l'art. 3,c. 9 quinquies), oltre al termine

di legge o di regolamento , quello effettivamente impiegato per il

rilascio del provvedimento stesso.

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CONCLUSIONI

Con l’introduzione del Codice del Processo Amministrativo si sono

tracciate anche le linee essenziali del rito speciale per promuovere il

ricorso avverso il silenzio della Pubblica Amministrazione non

significativo.

Come abbiamo potuto vedere in precedenza, nei casi in cui il silenzio

sia equiparato a un atto di consenso o come rifiuto le eventuali

illegittimità connesse a tali tipologie sono sollevate attraverso le

azioni di annullamento, anch’esse previste dal Codice ( art. 29 Cod.

Proc. Amm.).

Al di fuori di questi casi, l’art. 2 della l. 241 del 1990 ha ridotto

drasticamente i termini per la conclusione del procedimento. In

questo modo ha accelerato l’attività degli Uffici Pubblici.

A sostegno del privato,a fronte della certezza e della celerità

dell’azione amministrativa, troviamo l’art. 29 comma 2 bis che,

come visto in precedenza, considera la disciplina dei termini di

conclusione del procedimento livello essenziale delle prestazioni

concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su

tutto il territorio nazionale ai sensi dell’art. 117 comma 2 lettera m)

della Costituzione.

Lo stato deve quindi garantire alle Regioni di regolare i procedimenti

di loro competenza nel rispetto delle norme minime previste dall’art.

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2 della legge 241 del 1990.

La villazione dei termini previsti costituisce anche il presupposto per

il riconoscimento del danno da ritardo patito dal privato ai sensi

dell’art. 2 bis l.241/90.

Le a<ioni concesse al privato per contrastare gli effetti negativi di

tali condotte della Pubblica Amministrazione sono rappresentate

appunto da un’azione avverso il silenzio ( art. 31 Cod.Proc.Amm.)

diretta a censurare l’illegittima violazione delle regole

procedimentali e l’azione risarcitoria ( art. 30 Cod.Proc.Amm.)

diretta al ristoro del privato danneggiato.

La violazione dei termini di conclusione del procedimento rileva

anche ai fini dell’esperimento del ricorso diretto a ripristinare le

condizioni di efficienza di una determinata Pubblica

Amministrazione ( art. 1 d.lgs. 198/2000).

Nell’azione avverso il silenzio non vi è impugnazione di un

provvedimento, neppure di carattere tacito.

Il giudice amministrativo, se accoglie il ricorso, ordina alla Pubblica

Amministrazione di adempiere entro un congruo termine.

Tale ordine può avere un contenuto specifico, in quanto il giudice

può conoscere pure della pretesa sostanziale dedotta in giudizio e

sottesa all’istanza rivolta alla Pubblica Amministrazione, sia pure

soltanto si tratti di attività amministrativa vincolata ovvero quando

risulti che non residuino margini di esercizio della discrezionalità e

che non siano necessari adempimenti istruttori da parte della

Pubblica Amministrazione.

Il Codice quindi sembra aver introdotto una tutela modellata sul

modello dell’azione di adempimento.

Un’altra considerazione importante è quella riguardante il danno da

ritardo e la possibilità di un risarcimento. Il danno da ritardo è

risarcibile solo in quanto ne è espressamente contemplato il diritto al

riconoscimento all’art. 2 bis della L. 241/90. Il legislatore ha infatti

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inteso attribuire un diritto ad hoc al soggetto leso dall’intempestiva

assunzione del provvedimento.

Tutto questo trova la sua giustificazione non solo nella profonda

trasformazione che nell’ultimo ventennio ha riguardato la Pubblica

Amministrazione e il suo rapporto con il cittadino, non più in

posizione di sudditanza ma anche in riferimento al fenomeno

patologico dell’inerzia amministrativa e, in alcuni casi, a veri e

propri abusi amministrativi, fonte di danni e non solo al privato

cittadino ma anche alla stessa economia Nazionale.

Il cittadino e la comunità tutta ricercano ora pi che mai non più e non

solo il rispetto della legalità in astratto, come vuota formula, ma

pretendono di ottenere risultati concreti che altro non sono che il

precipitato effettuale dell’attività amministrativa, in definitiva, lo

scopo stesso delle norme impostate dalla stessa amministrazione

Pubblica.

C’è da auspicare che la novella legislativa del 2009 e il Codice del

Processo Amministrativo, apprezzabili per l’attenzione mostrata

all’esigenza di assicurare l’effetto utile dell’affermata risarcibilità del

danno da ritardo, possa finalmente giocare un ruolo fondamentale

nella creazione di una maggiore sensibilità degli enti pubblici al

rispetto dei termini procedimentali, a tutto beneficio di una minore

conflittualità tra Pubblica Amministrazione e cittadini.

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Bibliografia

Sul Silenzio della Pubblica Amministrazione:

- S. Cassese, Istituzioni di Diritto Amministrativo, Milano,

Giuffrè Editore, 2012.

- E. Casetta, Compendio di Diritto Amministrativo, Milano,

Giuffrè Editore, 2011.

- F. Merusi, A. Fioritto, G. Ciaglia, V. Giomi, A. Bertani, Il

Silenzio della Pubblica Amministrazione, in Lezioni sul

Procedimento Amministrativo, a cura di V. Giomi, Edizioni

Plus.

- R. Garofoli, Tracce di Diritto Amministrativo, Nel Diritto

Editore, 2012.

- E. Cassese, F. Fracchia, Manuale di Diritto Amministrativo,

Ed. Giuffrè, 2012.

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- Garofoli- Ferrari, Manuale di Diritto Amministrativo, Nel

Diritto Editore, 2012.

Siti:

- www. nelDiritto.it : Obbligo di provvedere e silenzio della

Pubblica amministrazione.

- www.Diritto.it : Rimedi avverso il silenzio della Pubblica

Amministrazione.

- www.altalex.com: Silenzio inadempimento della Pubblica

amministrazione.

- www.mondolegale.it : Processo amministrativo.

- www.Filodiritto.it

- www.giustiziaamministrativa.it : Primo bilancio sul Codice

del Processo Amministrativo.

Per la ricerca delle Leggi e delle Sentenza:

- www.Giustizia.it

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- www.giustiziaamministrativa.it

- www.Leggid’Italia.it

- www.Mondolegale.it

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