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I T A L I A N A · avuto modo di conoscere da vicino la rete dei club e delle ... giornalismo...

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A C C A D E M I A I T A L I A N A D E L L A C U C I N A ACCADEMIA ITALIANA DELLA CUCINA ISTITUZIONE CULTURALE DELLA REPUBBLICA ITALIANA SUPPLEMENTO AL N. 215, APRILE 2010, DI CIVILTÀ DELLA TAVOLA, NOTIZIARIO DELL’ACCADEMIA ITALIANA DELLA CUCINA, DIRETTORE RESPONSABILE GIANNI FRANCESCHI A C C A D E M I A I T A L I A N A D E L L A C U C I N A ACCADEMIA ITALIANA DELLA CUCINA ORIO VERGANI APRILE 2010 ORIO VERGANI I QUADERNI DELL’ACCADEMIA 75 ISBN 978-88-89116-14-2
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ISBN 978-88-89116-14-2

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I QUADERNI DELL’ACCADEMIANUMERO SETTANTACINQUE

L’Accademia Italiana della Cucina ha loscopo di tutelare le tradizioni della cuci-na italiana, di cui promuove e favorisce ilmiglioramento in Italia e all’estero. L’Ac-cademia per il conseguimento del suoscopo: studia i problemi della gastrono-mia e della tavola italiana, formula pro-poste, dà pareri in materia su richiesta dipubblici uffici, di enti, di associazioni, diistituzioni pubbliche e private, ed operaaffinché siano promosse iniziative ido-nee a favorire la migliore conoscenza deivalori tradizionali della cucina italiana:promuove e favorisce tutte quelle inizia-tive che, dirette alla ricerca storica e allasua divulgazione, possano contribuire avalorizzare la cucina nazionale in Italia eall’estero anche come espressione di co-stume, di civiltà, di cultura e di scienza.

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ACCADEMIA ITALIANA DELLA CUCINAFONDATA DA ORIO VERGANI NEL 1953

ORIO VERGANIA CINQUANT’ANNI

DALLA SCOMPARSA

APRILE 2010

Collana a cura di: Gianni Franceschi, Silvia De Lorenzo e Francesco Ricciardi

ha collaborato Tilde Mattiello

Realizzazione editoriale: Ricciardi & AssociatiVia Casale di Tor di Quinto 1, 00191 Roma

Impaginazione: Maria Teresa Pasquali

© 2010 - Accademia Italiana della Cucina20124 Milano - Via Napo Torriani, 31tel. 02 6698 7018 fax 02 6698 7008www.accademiaitalianacucina.itsegreteria@accademiaitalianacucina.itISBN 978 88 89116 14

Stampato in Italia

In copertina: particolare del dipinto di Bernardino Palazzi, (“Bagutta”) di proprietà del Comune di Milano, conservato presso il Circolo della Stampa, Palazzo Serbelloni, che raffigura Orio Vergani (con il libro) in una riunione del premio Bagutta. (endstart photo gianpaolo finizio)

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O rio Vergani, giornalista e scrittore, lascia un ricordoche nel tempo non si è dissolto, soprattutto nell’ambito

degli amici e di coloro che ebbero la fortuna di conoscerlo edi frequentarlo.

Ma noi Accademici siamo certi di non peccare di pre-sunzione se ricordiamo che la sua creatura prediletta ful’Accademia sua e nostra, la più bella, duratura e luminosatra le sue mille “invenzioni”. Fu lui a pensarla, meditarla,proporla, tenerla a battesimo. Fu lui che le dette quell’im-pulso culturale che ancor oggi la anima e sempre l’ani-merà. L’Accademia Italiana della Cucina fu, e tale restanel tempo, come la “summa” della sua filosofia, del suo mo-do di intendere la vita, del suo ingegno, della sua cultura,delle sue intuizioni e delle sue meditazioni.

Ancor oggi, il pensiero di Vergani si è sviluppato e diffu-so, portato in Italia e nel mondo da migliaia di Accademiciche hanno meditato ed intuito il suo messaggio, frutto dellasua grande capacità di osservatore attento del costume e ditestimone del suo tempo in un momento di rapidissimaespansione della società italiana nella quale emergevanoanche nuovi valori che non ignorava ma studiava e com-prendeva, pur restando emotivamente legato al passato co-me preludio al presente.

Egli intuì la dimensione culturale del cibo nella dimen-sione umana ed ebbe la capacità di dare vita ad una istitu-zione d’alto profilo culturale, che volle come “Accademia”

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nel senso della rinascimentale tradizione italiana e, primaancora, dell’antica Grecia. Questa Accademia Orio Verga-ni la concepì rivolta alla tutela e al miglioramento delle tra-dizioni, delle esigenze e delle inquietudini umane e univer-sali, fuori del tempo e dello spazio, con una precisa caratte-rizzazione identitaria ove sviluppare un continuo processodi studio, ricerca ed approfondimento. Programma accade-mico ambizioso, al tempo stesso non facile, per il quale scel-se personalità di primo piano, tutte di elevato rilievo nelmondo della cultura, dell’economia e dell’editoria per con-dividere con coerenza un progetto di civiltà della tavola.

Ed è nella nostra Accademia, divenuta Istituzione cultu-rale della Repubblica, che il Fondatore continua a vivereinsieme al suo pensiero ben al di là di un affettuoso ricor-do. Anche per questo abbiamo ritenuto doveroso pubblicarequesto speciale “Quaderno dell’Accademia” a lui dedicatocon una scelta di suoi scritti e di giudizi e ricordi di chi loconobbe come compagno di lavoro, come amico, come mae-stro e, soprattutto, come Accademico. Nel cinquantesimoanniversario della sua scomparsa l’Accademia intende ri-cordare così Orio Vergani, com’era e cos’era, agli Accade-mici, agli immemori e ai distratti ma, soprattutto, a coloroche non hanno potuto conoscerlo e stimarlo.

Desidero esprimere il mio apprezzamento agli Accade-mici Gianni Franceschi e Francesco Ricciardi (che hannocurato questa pubblicazione).

GIOVANNI BALLARINI

Presidente dell’Accademia Italiana della Cucina

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Molti, fuori dell’Accademia Italiana della Cucina ma anchedentro di essa, udendo il nome di Orio Vergani sentono

sorgere spontanea la domanda: “Chi era costui?”, quasi fosseun novello manzoniano Carneade. E chi si pone questa do-manda certamente ignora che tra Vergani e Carneade c’è un fi-lo che li lega e collega. Un filo sottilissimo, che attraversa imillenni. Carneade, il filosofo di Cirene vissuto due secoli pri-ma di Cristo, fu prima stoico poi platonico, fondò ad Atene lacosiddetta Terza Accademia, detta “terza” per distinguerla daquella stoica e da quella di Platone.

Questa digressione parafilosofica è necessaria introducen-do un ricordo della straordinaria vita di Orio Vergani, fondato-re (come Platone e Carneade) di un’Accademia fatta a sua im-magine e somiglianza. Come facevano i filosofi greci. Parente-si necessaria perché fu proprio Vergani a volere fermamenteche la nostra Istituzione si chiamasse Accademia.

Egli aveva infatti bene in mente ciò che desiderava fosse, enel tempo diventasse, questa sua invenzione. Sì, perché pro-prio di invenzione si tratta.

Al nostro Fondatore l’idea dell’Accademia nacque in Fran-cia, nel corso di un tour ciclistico che seguiva per conto del“Corriere della Sera”, come raccontò poi Dino Villani: “avevaavuto modo di conoscere da vicino la rete dei club e dellechaînes che sostenevano in Francia un primato della tavolache tutto il mondo le riconosceva”.

Ora facciamo attenzione alle date. Vergani, con Villani e glialtri amici, fondò l’Accademia Italiana della Cucina il 29 luglio

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1953. Ma nella sua mente fervida l’idea dell’Accademia erasbocciata molto tempo prima. Il lussuoso mensile “L’Illustra-zione Italiana”, nel suo fascicolo del febbraio 1953 (quindi seimesi prima) pubblicava un articolo di Orio Vergani in cui tral’altro si legge: “Un giorno l’Accademia di Gastronomia dovràindicare le strade benemerite dell’arte culinaria italiana”. E lostesso Vergani scrisse, in altra occasione: “l’Accademia è natada una noterella di viaggio di un cronista vagabondo”.

Conosciamo tutti la discussione che ci fu, tra i nostri Fon-datori, sul nome da dare al neonato sodalizio. Sul fatto chedovesse essere un’Accademia, Vergani fu irremovibile. Ed ave-va ragione. Tutti d’accordo sulla parola “cucina”. Poi si discus-se sull’aggettivo: “italiana” doveva essere l’Accademia o la cu-cina? Prevalse l’idea, ed anche qui Vergani ebbe ragione, chead essere italiana fosse l’Accademia e non la cucina. Perché,disse con forza, una cucina italiana non esiste e mai esisterà.In Italia infatti la tavola, la buona tavola, è formata da un infi-nito mosaico di cucine legate al territorio, al paese, al campa-nile, alla famiglia. Ed era questo il patrimonio da salvare.

Non ebbe vita tranquilla. Inviato a Barcellona durante laguerra civile spagnola scampò per miracolo alla strage fattadai comunisti contro gli anarchici. Siccome era stato amico diGaleazzo Ciano, pur senza ricavarne alcun privilegio, dopo il25 luglio 1943, alla caduta di Mussolini, venne estromesso dal“Corriere” diventato improvvisamente antifascista. Rifiutò diaderire alla repubblica sociale, e fu per lui un lungo periododi difficoltà se non di miseria. Dopo il 25 aprile 1945, alla libe-razione, venne persino arrestato sotto l’accusa di atti rilevantia favore del fascismo, lui che non aveva mai ricoperto carichepolitiche né chiesto od ottenuto favori. Dopo alterne vicende,venne fatto rientrare al “Corriere” dalla porta di servizio, senzaperò l’onore della firma, e per riconquistarla dovette aspettareparecchio.

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Fu un ritorno trionfale. Le sue cronache del Giro d’Italia edel Tour de France restano momenti irripetibili nella storia delgiornalismo italiano, e non solo di quello sportivo. Scrisse dilui Indro Montanelli: “del Giro d’Italia e di quello di Franciasapeva tutto meno chi avesse vinto la tappa perché per stradasi era fermato a una trattoria famosa per i suoi arrosti o il suobaccalà, di cui il suo articolo illustrava le delizie”.

Ci sarebbe da riempire pagine e pagine senza per questoriuscire a dire tutto quel che Vergani merita e ha meritato. Maviene alla mente una riflessione di un amico fraterno di Orio,Luigi Volpicelli, che fu anche Vicepresidente dell’Accademia:“Vergani elevava un’osteria al ruolo avuto nel passato dal sa-lotto e dal caffè”. In questa semplice frase c’è tutto Vergani. Ec’è tutta la sua Accademia.

GIANNI FRANCESCHI

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Il dipinto di Bernardino Palazzi (“Bagutta”) conservato presso il Circolo della Stampa di Milano, Palazzo Serbelloni, che raffigura una riunione del premio Bagutta. Un particolare del dipinto è riprodotto sulla copertina di questo Quaderno (endstart photo gianpaolo finizio).

Intorno a Orio Vergani, al centro con il libro, sono raffigurati: E. Mazzolani, Umberto Folliero,G. Scarpa, Paolo Monelli, Anselmo Bucci, Raoul Radice, Riccardo Bacchelli, Mario Vellani Marchi, A. Franci, Marco Ramperti, Giuseppe Novello, O. Steffenini, Silvio Negro.

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L’UOMOE L’OPERA

Orio Vergani (a destra) nel 1932 a Desenzano con Gabriele D’Annunzio e Auguste Piccard, dopo l’immersione

dello scienziato svizzero nelle acque del lago di Garda.

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scompare un esemplare di umanità che poteva dirsi unico.Non avremo più, noi che scriviamo, un compagno di lavorocome Vergani: il suo stampo è rotto, la singolarità che riunivain lui un talento vulcanico, una fecondità senza precedenti eun cuore generoso - un cuore di fanciullo - non potrà ripeter-si. Orio Vergani è stato giornalista e scrittore di libri (romanzi,racconti, persino qualche lavoro teatrale) ma nell’enorme mo-le di lavoro che egli lascia è ben difficile tracciare confini. Inqualsiasi sua pagina, non solo nelle opere che egli poté rifini-re, ma anche nel frettoloso appunto dettato e improvvisato inuna cabina telefonica, il meglio di Orio riluce sempre comeuna vena di metallo allo stato incandescente. Non era nato peropere riposate e per un lavoro di scelta e di selezione. Era na-to per vivere con tutti i sensi, con tutti i pori della pelle e pertrasfondere sulla pagina questa sua vitalità. Per questo si eraforse in errore quando, vedendolo stanco, affaticato, più vec-chio di quanto l’età sua comportasse, ci si diceva: Vergani la-vora troppo, dovrebbe amministrar meglio le sue doti, riposar-si. Si era nel giusto ma si era anche in errore perché un Verga-ni a passo ridotto sarebbe stato ormai inconcepibile.

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Non proprio figlio d’arte ma nato in una famiglia in cui l’ar-te - e il teatro - contavano più che il benessere materiale, Orioera entrato giovanissimo nella vita giornalistica. Interrotti glistudi classici non doveva aver più di vent’anni quando si pre-sentò alla “Idea Nazionale”, accettandovi un posto di steno-grafo, lui che di illeggibile aveva solo la grafia e di rapido solola fulminea strutturazione del “pezzo” ma che, insomma, nullaconosceva dell’arte di abbreviare le parole. E riuscì tanto benenel compito - trascrivendo “corrispondenze” telefonate daogni parte del mondo e da lui in parte mandate a memoria, in

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Il “Corriere della Sera”, che era il “suo” giornale, il mattino do-po la sua morte, andò in edicola senza la drammatica notizia.Mentre il cuore di Orio Vergani cessava di battere, le rotativeavevano ormai terminato la tiratura. Ma poche ore dopo, sul“Corriere d’informazione” (che era l’edizione pomeridiana del“Corriere della Sera”) fu possibile leggere un’intera pagina a luidedicata. Vi campeggiava un titolo che prendeva tutte le classi-che “nove colonne”, in grossi caratteri “bastoni”, quelli che nel-la cassetta del compositore erano di legno: “Vergani principedel giornalismo” ed un sommario: “Chi era e come lavoraval’uomo che per quarant’anni ha speso i tesori del suo ingegno,della sua sensibilità, della sua cultura al costante servizio delpubblico. Come sono nati i suoi più famosi reportages, i suoi ar-ticoli più belli, i suoi romanzi e i suoi racconti”. Nella pagina,tre articoli, tre autori e colleghi che lo avevano conosciuto, ap-prezzato, stimato e anche amato: Eugenio Montale, il poeta chenel 1975 ebbe il premio Nobel diventando, poi, senatore a vita,scrisse in quella pagina un lungo, commosso e turbato ricordoche era al tempo stesso una biografia, una profonda critica let-teraria, un attento studio di carattere: “L’uomo e lo scrittore”.

L’UOMO E LO SCRITTORE

Quando muore un uomo che ha onorato le lettere e il gior-nalismo, con l’opera sua, è di prammatica dire che lascia

un vuoto incolmabile, e quasi sempre la frase suona davvero avuoto: ma nel caso di Vergani noi sentiamo tutti che con lui

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I L R I C O R D O D I U N P O E T A

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Manzotti e Dall’Argine egli sapeva tutto; ma sapeva anche checol ‘14 quel mito di positivismo progressista a sfondo umanita-rio s’era dissolto per sempre e questa consapevolezza tingevadi malinconia ogni suo ricordo o rievocazione. Ovviamentel’Ottocento di Orio non era quello che con i poeti maledettiporta all’estrema conseguenza, e liquida, una grande eredità.Era l’Ottocento della grande borghesia che fiorì in Francia do-po Sedan: la stagione opulenta del primo e maggiore impres-sionismo, e per l’Italia il tempo che riunì attorno ai tavoli delSavini gli scrittori usciti indenni dalla scapigliatura. Furono lascoperta e il gusto di quel tempo che permisero a Orio, natoromano, di sentirsi, qui a Milano, milanese d’amore e di ele-zione.

Non s’insisterà mai abbastanza sull’umanità di Orio, sullasua capacità di sentirsi uomo tra gli uomini, giovane tra i gio-vani. Quando egli, verso le sette pomeridiane, veniva nel suostudio (da poco ne aveva uno tutto per sé) e si metteva a scri-vere il “taglio” o l’elzeviro, con quella sua indecifrabile scrittu-ra a clessidra che si restringeva a metà del foglio per poi ri-gonfiare ancora nelle ultime righe, difficilmente egli era solo:c’era sempre con lui qualcuno che aveva qualcosa da chieder-gli: un impiego, una notizia, una prefazione, un consiglio, ma-gari un’elemosina: e non andava mai a mani vuote. La suapassione travolgente, ma non esclusiva, il giornalismo con ilunghi viaggi e le fatiche ch’essa implicava, non gli aveva im-pedito di vivere come il più onesto dei borghesi: uomo di fa-miglia, marito e padre esemplare, figlio (sua madre vive anco-ra) devoto e appassionato. Ma per il giornale quest’uomo cheamava, che credeva di amare la vita sedentaria era capace disacrificar tutto; e in effetti si può ben dire che per quella suapassione Orio ha accorciato di molto la sua vita.

Passione, ho detto, non esclusiva: l’altra era il teatro, unamalattia di famiglia. Sarebbe stato un grande attore se una leg-

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parte inventate di sana pianta - che fu presto in grado di get-tarsi ai piedi del direttore del giornale - se non erro il ForgesDavanzati - e di rivelargli il trucco: le più belle “corrisponden-ze” pubblicate dal giornale in quei mesi portavano sì altre fir-me, ma erano farina del suo sacco. E il risultato fu che il diret-tore, uomo evidentemente di ottimo gusto, lo assunse, comesuol dirsi, “in pianta”, ne fece un vero giornalista.

E, da allora, la firma di Orio Vergani - passato assai prestoal “Corriere della Sera” - apparve ininterrottamente sotto mi-gliaia e migliaia di articoli (chi mai li ha contati?) sul nostrogiornale.

Scrisse di tutto e fu sempre lui, Vergani, qualunque fosse lamateria trattata: costume, sport, teatro, cronache di guerra,cronache di viaggio, arte figurativa, arte applicata, pubblicità,e che altro mai? Nulla era estraneo a quest’uomo di quantofosse vivo, di quanto fosse specchio di un tempo o di una mo-da o di una stagione.

Ma il fatto strano non è ancora questo. Non era che conVergani fosse apparso un fenomeno nell’ordine della “gregue-rie”, dell’estemporanea facilità di tener sempre in moto il suocervello; ma era in realtà irripetibile che un ingegno così fattoserbasse viva in sé la contropartita di quell’incredibile vitali-smo; era e resta pressoché incomprensibile che un simile atti-vista della notizia fresca e della sensazione vissuta fosse rima-sto sostanzialmente alieno da ogni veleno del modernismo.Sotto la brace, mai del tutto in riposo, quasi sempre ribollentedi quel Mongibello che fu Orio, riposava uno di quei tempera-menti che in Italia, disgraziatamente, son detti crepuscolari mache in ogni altro Paese del mondo si direbbero romantici:onestamente, inguaribilmente romantici.

Nato nel ‘99 Vergani aveva fatto in tempo a uscire, sia pureper il rotto della cuffia, dallo “stupido” Ottocento, e n’era or-goglioso. Dell’età che produsse in Italia il Ballo Excelsior di

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le frequenti escursioni nel mondo dell’arte (ex) figurativa pos-siamo farci un’idea dell’enorme massa di lavoro giornalisticoda lui svolto in quarant’anni. Chi vorrà fare una scelta dei suoiarticoli avrà un problema difficile da risolvere. Si troverà sottogli occhi un cosmorama in cui certo abbonderanno, tra inevi-tabili ripetizioni, molte pagine degne di rilettura. Estraneo allericerche della prosa d’arte ma innamorato dei grandi “chroni-queurs” francesi, Vergani aveva trovato nello stampo dell’arti-colo la misura più adatta al suo temperamento. La sua pagina,più che costruita, era lumeggiata e toccata in ogni angolo: eracome se egli battesse con le dita una superficie per sentiredov’essa non dava vibrazione, distribuendo qua e là i centri ri-sonatori. Suono e colore, non sapiente uso di coordinate e su-bordinate, non faticoso lavoro di sintesi e di eliminazione for-mano la sua prosa. Adorava l’articolo come un perfetto genereletterario e ricordo con quale entusiasmo mi parlò di un libroche gli avevo fatto conoscere: La corsa del tempo di SilvioBenco: una semplice raccolta di elzeviri, fra i più belli e i me-no “virtuosi” che il giornalismo italiano abbia prodotto.

Restano poi i libri di Vergani perché, incredibilmente, que-sto schiavo del lavoro quotidiano a tamburo battente ha trova-to modo anche di scrivere alcuni volumi degni di lui. Il suoprimo libro di racconti è Acqua alla gola del ‘21, i primi suc-cessi gli furono dati dalle Soste del capogiro (‘27), dai Fantoccidel carosello immobile (‘27) e dal romanzo Io povero negro(‘29), libri di intonazione che un tempo si sarebbe detta nove-centista, con riferimento alla scuola bontempelliana e forseall’influsso di Pirandello. In essi è già tutto l’umore di Vergani,non ancora la sua anima. Il meglio venne dopo, quando Ver-gani, che si era trasferito a Milano nel ‘26, incominciò, sia purein forme trasposte, il suo personale recupero degli anni d’in-fanzia. I racconti di Domenica al mare (‘33), i due romanzi Le-var del sole (‘33) e Recita in collegio (‘40) ci dicono molto

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gera balbuzie non l’avesse tenuto lontano dalle scene e riusci-va in ogni caso ad essere un conferenziere e un “causeur” ca-pace di incantare gli ascoltatori. È probabile che il premio Ba-gutta da lui fondato possa sopravvivere, ma certo non si tro-verà per la sera della premiazione un imbonitore del suoestro. Quella piccola festa si risolveva sempre in un “recital” diOrio Vergani e domani non potrà che assumere il colore diuna mesta rievocazione. Grande attore “in nuce” Orio man-tenne viva la sua passione, almeno negli ultimi anni, come cri-tico, come suol dirsi, drammatico, in una serie di cronacheche sono autentiche fotografie animate di ogni spettacolo.Aveva, non meno di Simoni, l’arte di riassumere un lavoro tea-trale nel modo più limpido e di mettersi sempre onestamentedal punto di vista del pubblico, cercando di illuminare leoscure ragioni che avevano indotto gli spettatori a dir di sì o dino a una nuova commedia. Del teatro conosceva anche il ro-vescio della medaglia: la vita degli attori, le angustie, le infini-te difficoltà del mestiere. Ed è appena credibile quale esca of-frissero alla sua curiosità altri spettacoli, come l’opera o il bal-letto. Qui egli rivelava a fondo la sua esperienza di conoscito-re, quasi direi di “tailleur”, di tutto quanto la “belle époque” ciha tramandato. Un abito, un colore, l’ammobiliamento di unastanza erano per lui come la “madeleine” di Proust: la fonte diuna infinita orchestrazione di ricordi.

Una mia connaturale incompetenza mi fa metter da parteciò che Vergani ha scritto come giornalista sportivo e seguacedi non so quanti Giri d’Italia e di Francia. Ma anche qui biso-gna dire che, come nel teatro sapeva indovinare le lacrimedell’attore, così nello sport e in ogni forma di agonismo eglisapeva d’istinto portarsi dall’altra parte, dalla parte dell’“homoludens” che lotta (secondo un bisogno che sta scomparendo)più per amor di gloria che per amor di lucro. Se aggiungiamoalla prosa di sport quella di viaggio e di teatro, senza contare

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dalla Fondazione Marzotto) e come giornalista (il premio Rez-zara) ma egli non era uomo capace di volgersi indietro e di ti-rare le somme. Insaziabile nella sua febbre di fare e di farsempre più e meglio, egli viveva rivolto all’avvenire senzatroppo accorgersi che il peso dell’inumana fatica poteva stron-carlo all’improvviso, come è infatti accaduto. Ed almeno inquesto possiamo, anche oggi, continuare ad invidiarlo: di nonaver mai conosciuto quella che Gozzano chiamava “l’onta su-prema della decadenza”.

Non è morto, né potrà mai esserlo per gli amici: ha sempli-cemente piegato il capo e ci ha detto addio. Un addio che pernoi ha il valore di un “arrivederci”.

EUGENIO MONTALE

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dell’adolescenza di Orio, ci fanno sentire tutta la lenta accu-mulazione di sogni e di speranze che dovettero consolare lasua infanzia chioggiotta, la sua disperata vocazione al teatro.Levar del sole piacque ad Attilio Momigliano, Recita in colle-gio ebbe le lodi di Pancrazi; più recentemente un altro roman-zo di Orio (Udienza a porte chiuse uscito nel 1957) fu segna-lato da Cecchi e un altro ancora Un giorno della vita ebbe lar-ghi consensi anche all’estero.

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L’opera più impegnativa resta Udienza a porte chiuse,“fluttuante mosaico che poi continuamente si disgrega e si ri-compone con inaspettate combinazioni” (Cecchi) ed anche ul-timo portato del romanzo naturalista com’esso si presenta neltempo - il nostro - che ha portato nella narrativa la tecnica del“flash back” cinematografico. Ma non per questo libro dovreb-bero essere trascurati i precedenti più vicini al gusto umbratiledel Vergani libero dalle esigenze del giornalismo. Né, speria-mo, mancheranno lettori ai libri di viaggio di Orio, a quei vo-lumi che come Sotto i cieli d’Africa e Riva africana mostranotutta la ricchezza della sua tavolozza. Lascio ad altri la cura dianalizzare le sue commedie, alcune delle quali (Il camminosulle acque e Nuvoletta rosa) furono applaudite anche a Mila-no.

E neppure saprei elencare i molti studi, saggi, prefazioniche il critico Vergani dedicò a pittori e scultori d’oggi. Di fron-te a una produzione così vasta credo che neanche Orio - chemai rilesse un suo articolo in bozza e che probabilmente nontenne mai un archivio dei suoi scritti - saprebbe darci il filod’Arianna necessario all’orientamento.

Ha avuto molte soddisfazioni in vita, il povero Orio, haavuto anche premi come scrittore (dall’Accademia d’Italia e

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rono tanto entusiasmo, tanta voglia di lavorare, tanta capacitàdi sacrificio quanto dieci uomini, pur dotati, faticherebbero amettere insieme. Ma Vergani, ch’è stato indubbiamente il piùgrande giornalista dall’apparire in Italia del primo foglio stam-pato, aveva l’attività di venti, anzi dire attività è poco, bisognadire la vita, parola che esprime non soltanto l’enorme quantitàdi lavoro svolta in più di quarant’anni di “mestiere”, ma i tesoridi pensieri, di idee, di bontà, di generosità, di serenità, di sag-gezza prodigata non già sulla carta stampata ma con la parola,con l’esempio, con la presenza animatrice, col richiamo affet-tuoso, con l’ammonimento paterno, col giudizio sincero e pa-cato che non risparmiava le critiche a chi le meritasse ma nélo scoraggiava o lo sconfortava, anzi gl’indicava e gli spianavala strada giusta.

Vorrei lo aveste conosciuto, oltre che da lettori, da amici.Non lo dimentichereste più. Piangereste per aver perduto ipiù anziani un fratello, i più giovani un padre. E quanti, oggi,se la gratitudine è di questo mondo, debbono piangere chi di-sinteressatamente, gioiosamente, quasi questa fosse la suamissione, li ha spinti o, alle volte, addirittura li ha portati allavetta del successo!

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Aveva tutte le doti del grande scrittore. Meno tempo cheavesse dedicato al “mestiere” e agli altri, e su una vetta assaipiù alta che il giornalismo, anche se di classe, oggi siedereb-be, lui che invece tante ore della giornata e tanti mesi dell’an-no ha passato aiutando gli altri a salire. Un suo articolo erauna laurea, una sua lode una medaglia d’oro. Ha passato unquarto della sua prodigiosa vita a distribuire lauree e meda-glie; una metà l’ha trascorsa a scrivere per i giornali, e l’altroquarto a rubar ore al poco sonno che si concedeva per quei li-

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Giovanni Mosca, famoso giornalista, scrittore e disegnatore,nella pagina del “Corriere d’informazione” dedicata allascomparsa di Vergani racconta la visita da lui fatta all’amicoe collega disteso nel suo letto di morte, tra i libri della sua im-mensa biblioteca. Mosca parla dell’amicizia che lo legava adOrio ed alla sua famiglia ricordandone alcuni tratti affettivi,sociali e professionali ricchi di quell’umanità che lo distin-gueva pur nelle avversità e nelle ingiustizie che aveva dovutosubire e superare. È qualcosa più di un racconto, di una cro-naca, di una confessione: c’è tutta la pena, lo sconforto, ildolore per un’immane perdita, espressi senza lacrime, col ci-glio asciutto e un nodo alla gola. Ecco il suo titolo: “Scrissemigliaia di articoli”, con questo sommario: “Raccolti in volu-me potrebbero riempire gli scaffali di una biblioteca in unastanza immensa”. Leggendo queste righe si possono scoprirela profonda umanità di Orio Vergani, il suo elevato intelletto,la sua straordinaria e complessa personalità.

SCRISSE MIGLIAIA DI ARTICOLI

Scendevo le scale di casa Vergani - avevo ancora sulle lab-bra il gelo della fronte diventata di marmo - e veniva su

mio figlio. Io amico del padre, lui dei figli Guido e Leo, li uni-scono un amore fraterno e il batticuore e le speranze dei primipassi in questa professione (a Vergani piaceva dir mestiere)per primeggiar nella quale non è sufficiente l’ingegno: occor-

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U N O S T R A O R D I N A R I O P E R S O N A G G I O

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diecimila amici non avesse preso. Per tutta la vita non avevafatto che dare.

Ora è lì freddo, immobile e povero. Non ha lasciato altraricchezza se non d’affetti e di opere. Nulla di materiale. Fu ilprimo dei giornalisti non soltanto per l’ingegno e la bravurama per quanto di umiltà, di sacrificio e di disinteresse richiedequesto nostro mestiere. Vergani non fu certo inferiore per im-portanza morale, tecnica e sociale al grande medico, al grandeingegnere, al grande architetto. Ma i loro milioni non li conob-be mai. Guadagnò giorno per giorno, mese per mese, nonuna lira di più di quanto gli servisse per vivere. Chi parla deiguadagni favolosi dei giornalisti più noti non sa che la realtà èben diversa e pochi si rendono conto degli sforzi che un gior-nalista, giunto non dico alla vecchiaia ma all’età matura, devedurare per mantenersi la stima e il favore dei lettori. Ogni altroprofessionista, una volta affermatosi, vive sulla rincorsa finoalla più tarda età, anzi più l’illustre medico e l’emerito avvoca-to son vecchi, più clienti hanno. Coi giornalisti, invece, il pub-blico è crudele. “Basta, è vecchio, ha stancato”. Pesanti comeuna pietra tombale queste poche parole cadono su trenta,quarant’anni di lavoro e li riducono in polvere. Guai al giorna-lista arrivato. Voi non immaginate la fatica per mantenersisempre allo stesso livello. Ogni giorno il giornalista deve ri-conquistare il proprio successo. E Vergani a sessantun’anni -non tanti per un uomo ma per un giornalista moltissimi - riu-sciva ogni giorno a compiere il miracolo di mantenersi vivo,giovane, di non annoiare, di interessare ancora, apparente-mente senza fatica ma dentro di sé, e qualche volta nelle ab-bandonate confidenze agli amici più intimi, quanti momenti distanchezza e di sconforto, anche se poi subito in lui, che bena ragione è stato chiamato il Dumas del giornalismo, il mo-schettiere tornava a prevalere, l’occhio a farsi vivo e luminoso,il labbro a sorridere.

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bri, quelle commedie, quei saggi che fanno di lui l’ottimoscrittore il quale, però, avrebbe potuto esser sommo.

Si calcola che, radunati in volumi, tutti gli articoli che hascritto riempirebbero gli scaffali di una biblioteca d’una stanzaimmensa e d’una un poco più piccola, come quella nella qua-le, tra quattro pareti fatte solo di libri, dorme - oh, sarebbe unerrore dire il suo ultimo sonno - ma, finalmente, dopo tantafatica, il suo primo sonno lungo e abbandonato. È la primavolta che Vergani si riposa. Sereno, quasi sorridente, come as-saporasse questo buio e questo silenzio che lo circondano, luiche s’è consumato gli occhi alla luce della lampada elettricache batteva sulla sua mano e sui suoi fogli, lui che come i me-dici e come i chirurghi era abituato ad essere svegliato a qua-lunque ora della notte, e bisognava alzarsi senza neppure l’in-dugio d’un minuto e scrivere in un’ora o due, al massimo - intipografia ogni cinque minuti arrivava una delle sue miracolo-se cartelle vergate a mano con una scrittura minuta, rapidissi-ma, senza soste, giusto il tempo d’intinger la penna nel cala-maio - in un’ora, due al massimo, ciò che chiunque altro dinoi avrebbe sudato a scrivere in cinque ore. A lui, invece, leparole uscivano dalla penna facili, leggere, istantaneamentedisponendosi nella elegante tornitura del periodo e della frasepiù perfetta, e questa facilità che non finiva di stupire non so-lo il lettore, ma i compagni di mestiere, era l’espressione d’unachiarezza di idee, di una disciplina di pensieri, d’una prontez-za di riflessi, d’una cultura tanto vasta quanto profonda cheavevano dell’incredibile.

Questo straordinario artefice, questo artista sacrificatosi sullogorante ed effimero altare del giornalismo, giace disteso inun sonno senza limiti così come senza limiti è stata la sua fati-ca, tra i diecimila volumi della sua biblioteca. Li aveva letti tut-ti, e tutti li aveva ridati attraverso la grazia, il piacere, lo scintil-lio dei suoi articoli. Anzi, aveva dato più di quanto dai suoi

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Indro Montanelli scrisse questo breve profilo di Orio Verganinel 1999 quando il grande giornalista era ormai entrato, eda tempo, nella leggenda. E Montanelli ha avvalorato, forseinconsciamente, quel mito raccontando lo stratagemma diOrio quando si finse stenografo. Infatti non lo mise in atto,come raccontato nel testo montanelliano, per entrare al“Corriere” ma, come è ben documentato, per farsi assumere,appena diciannovenne, dal quotidiano romano “Il Messagge-ro”, come lui stesso raccontò in diverse occasioni. Al “Corrie-re” entrò ormai ventisettenne nel 1926, chiamato da UgoOjetti (che del quotidiano milanese era stato direttore). Ma ilsotterfugio di un ragazzo che voleva fare il giornalista hacontribuito a formare quella leggenda che non muore e nonmorirà. Come il suo modo di scrivere allineando le righe co-me una piramide sghemba ma con un filo conduttore bendritto e vigoroso. Ed i mille e mille tratti del suo carattere,della sua cultura, delle sue curiosità e delle sue passioni. Unmosaico che ne ha formato, appunto, la leggenda, il mito.

UN INVIATO MOLTO SPECIALE

Di Orio, quello che mi colpì quando, a mia volta, entrai al“Corriere” fu la rapidità con cui, quando si sedeva al ta-

volo di redazione, riempiva (a penna) le sue cartelle. Nonun’esitazione, non una cancellatura, mi colpiva soprattutto lagrafia. La prima riga della pagina era intera, senza margini; la

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Bisogna però dire che gli sconforti erano in lui, ancora, asessantun’anni, meno numerosi che i propositi e le speranze.Anche in questi ultimi mesi, quando il fisico denunciava aper-tamente la stanchezza che lo spirito riusciva a dissimulare,volgeva in mente nuovi libri, nuove commedie, nuovi saggi,nuove conferenze (con l’ultima, domenica scorsa, aveva com-memorato d’Annunzio a Pescara) e ogni giorno questo uomoincredibile (l’aggettivo non vi sembri esagerato) fioriva dinuove speranze, di nuove fiducie nell’avvenire. La primaveranon gli si era spenta nel cuore e gli è rimasta, ultimo fiore,nell’ultimo, anche se freddo e staccato, sorriso con il quale ca-lerà oggi nella tomba

v v v

Scendevo le scale di casa Vergani, veniva su mio figlio chel’altra sera, al teatro, alla prima di Montanelli, gli era stato vici-no, ed è l’ultimo giovane - oltre ai figli - che l’abbia sentitoparlare. Aveva ancora, alla vigilia della morte, tanta freschezzada riuscire il compagno ideale d’un ragazzo di ventitre anni,ed ancora tanto avvenire sembrava gli sorridesse dinanzi chela sua improvvisa scomparsa riesca crudele quanto quellad’un giovane la cui esistenza incompiuta lasci il rimpianto diciò che avrebbe potuto fare e non fece.

Orio Vergani, questo ragazzo di sessantun’anni, che avreb-be ancora potuto dare il capolavoro rimastogli nell’ilare miste-ro dell’ultimo sorriso.

GIOVANNI MOSCA

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L A L E G G E N D A D I O R I O

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anche i non artisti e Orio era l’unico che non soltanto nel me-nu ma anche nella parola tenesse testa all’immenso (per di-mensioni fisiche) Bacchelli.

INDRO MONTANELLI

da una “Stanza” del “Corriere della Sera” del 16 marzo 1999

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seconda cominciava dopo un piccolo margine bianco; la terzacon un margine un po’ più grande, e così via sempre più ac-corciando la riga fino a dare alla pagina una geometria tuttasghemba fino all’ultima riga riempita di una sola parola.Quando gli chiesi perché faceva così mi guardo sorpreso:“Non so - mi rispose - così mi viene”.

Non era facile entrate al “Corriere”. Ai tempi di Vergani -che tuttora duravano anche a quelli miei - la selezione era du-rissima. Orio ne aggirò le difficoltà facendosi assumere noncome redattore ma come stenografo senza sapere, di steno-grafia, un’acca. Fu adibito a raccogliere e trascrivere le notizieche per telefono arrivavano dai corrispondenti di provincia,quasi sempre di scarsa qualità letteraria. Dopo qualche setti-mana la direzione si accorse che all’improvviso erano diventa-te rapide, sapide, brillanti. E lo credo bene. Non riuscendo astare dietro alla dettatura, Orio ne appuntava il contenuto, epoi lo riproduceva nello stile suo. Gli ci volle poco a usciredall’anonimato e a guadagnarsi i galloni di inviato speciale pertutti gli usi.

Era quello, di tutti noi, che della fiera del tartufo di Albapoteva fare un elzeviro da antologia. La sua versatilità non co-nosceva limiti: passava dalla critica teatrale (era amico di tuttigli autori, attori e soprattutto attrici) senza sbagliare un giudi-zio e gli restava ancora abbastanza tempo per correre dietro aiciclisti del Giro d’Italia e di quello di Francia di cui sapeva tut-to meno chi avesse vinto la tappa perché per strada si era fer-mato a una trattoria famosa per i suoi arrosti o il suo baccalà,di cui il suo articolo illustrava le delizie.

Furono lui, Bacchelli, Novello e Franci a inventare Bagutta,l’unico premio letterario pulito perché di sole cinquemila liree dove si andava non tanto per i fagioli del “sor Pépori” quan-to per ascoltare i conversari che si svolgevano al tavolo a ferrodi cavallo della “saletta degli artisti”, dove però erano accolti

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Una delle ultime pagine scritte da Orio Vergani. Scriveva sempre a mano, con le righe via via più corte.

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Nel 1976, per celebrare il centenario della nascita del giorna-le, il “Corriere della Sera” pubblicò un supplemento, in gran-de formato, che rievocava anno per anno la vita del quoti-diano milanese: ogni anno una pagina, ogni pagina un fat-to, un personaggio, un protagonista. Tra i curatori della pub-blicazione c’era anche un figlio di Vergani, Leonardo. L’an-no 1932 venne dedicato ad Orio Vergani con un lungo testo(che qui riproduciamo) corredato da tre immagini emblema-tiche del personaggio. Una foto di Vergani con Gabriele d’An-nunzio e lo scienziato Auguste Piccard, che aveva fattoun’immersione nelle acque del lago di Garda. Infine, unagrande foto di Fausto Coppi a simboleggiare le straordinariecorrispondenze di Vergani al Giro d’Italia e al Tour de Fran-ce. Quando Coppi morì Vergani gli dedicò un “pezzo” intito-lato “L’airone ha chiuso le ali”.

1932: ORIO VERGANI

Per riuscire ad entrare in un giornale Orio Vergani ebbel’idea di fingersi stenografo. “Di stenografia non conosce-

vo neppure un segno. Squillava il telefono, dovevo entrare incabina e il corrispondente di un paesino sperduto mi dettavaventi righe di un fatto di cronaca. Prendevo frettolosi appuntipoi mi mettevo alla macchina da scrivere e quelle venti righediventavano una colonna, una colonna e mezza. I corrispon-denti - allora erano pagati a riga - non protestavano, anzi era-no ben contenti di guadagnare un sacco di soldi. Quando iltrucco fu scoperto non mi rimproverarono. Mi passarono al‘Messaggero Verde’ come ragazzo di redazione e qui, in que-sto supplemento letterario, cominciai a conoscere Pirandello,Rosso di San Secondo, Federigo Tozzi. Frequentai Pirandello.

T R A I P R O T A G O N I S T I D E L “ C O R R I E R E ”

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Orio Vergani, Fondatore dell’Accademia Italiana della Cuci-na, è stato un personaggio di primo piano nel mondo delgiornalismo, della letteratura e dell’arte. Scrittore finissimo,commediografo, critico d’arte, cronista attento e curioso, halasciato di sé una profonda impronta nel giornalismo italia-no. Il figlio Guido, giornalista anche lui e di gran classe, hacurato la pubblicazione di un estratto dei suoi interessantis-simi diari: un libro che ha riscosso interesse e successo. Ilgiornalista Nello Ajello ne ha pubblicato questa lunga e ap-passionata recensione sul quotidiano romano “La Repubbli-ca”. Una lettura utile a tutti gli Accademici, particolarmenteai più giovani.

L’ALFABETO DEL XX SECOLO

“Gli italiani, a differenza dei francesi - sentenziava OrioVergani - non sono scrittori di diari”. Essi, “ansiosi di

sollevare grosse pietre, si lasciano sfuggire fra le dita la sabbiasottile di cui è fatta la grande spiaggia della vita”. Sarebbe ec-cessivo sostenere che a quel prestigioso giornalista, morto po-co più che sessantenne nel 1960, non sia sfuggito alcun granel-lo della vita italiana dei suoi tempi. Vergani ne fu, comunque,un testimone fra i più vivaci. Lo dimostra questo Alfabeto delXX secolo che il figlio Guido ha curato ripubblicando molte de-cine di articoli scritti da Orio in oltre trent’anni di carriera.

Il libro è denso e voluminoso, i personaggi evocati centi-naia, gli ambienti i più vari: dalla letteratura al teatro, dalla pit-

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V E R G A N I C O M ’ E R AGli vidi scrivere in una sola notte l’ultimo atto dei ‘Sei perso-naggi’ su una tavoletta appoggiata alle ginocchia. Pirandellopronunziava forte ogni battuta, qualche volta le gridava perprovare l’effetto”.

Vergani è un figlio d’arte, un suo zio è stato direttore d’ungiornale di provincia, suo zio Guido Podrecca è scrittore e de-putato socialista, direttore de “L’Asino”, un altro suo zio, Vitto-rio, fonda e dirige il “Teatro dei Piccoli”, un teatro di marionet-te che girerà il mondo per quasi cinquant’anni.

Vergani comincia il suo mestiere di inviato, di elzevirista, discrittore di terza pagina. Sarà - lui, alieno dalla politica - il cro-nista preferito da Mussolini per le adunate oceaniche perchériesce, in un paio d’ore, a riempire un’intera pagina di giorna-le, ma anche “suiveur” di venticinque giri d’Italia e di Francia,dai tempi di Binda e Guerra a quelli di Bartali e Coppi. Dopol’8 settembre si rifiuta di collaborare e viene messo in prigionedai fascisti per una vecchia denuncia dell’Ovra. Nella stessaepoca sarà fucilato a Verona Galeazzo Ciano di cui Vergani erastato per lunghi anni amico, sin da quando il futuro genero diMussolini virgolava le “Stefani”.

Una produzione giornalistica enorme - si calcola che nellasua vita abbia scritto più di ventimila articoli - non impediscead Orio Vergani di seguire la sua vocazione di letterato. Nel1926 Pirandello aveva messo in scena il suo Cammino sulleacque, un dramma considerato tra i più singolari e coraggiosidi quegli anni. Scrive una decina di romanzi, tra i quali Udien-za a porte chiuse che, nel 1957, fu considerato dalla criticafrancese uno dei libri più interessanti della letteratura italiana.Vergani fu il primo scrittore italiano a interessarsi di arti nuo-ve, musica jazz, cinema d’avanguardia, coreografia, alternan-do a questi reportage elzeviri, critiche drammatiche e artisti-che. Morì alle quattro del mattino del 6 aprile 1960. Sette oreprima aveva firmato il suo ultimo articolo.

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(il maestro inventore dell’”atto puro” non solo tagliò vertigino-samente il proprio scritto, ma offrì una minestra al ragazzo).

A vent’anni, Orio si aggirava nell’abitazione di Luigi Barzinisenior. Poco più tardi, facendo visita a Pirandello, gli carpì unaconfidenza: ho appena finito di scrivere, gli disse il comme-diografo, una pièce su “sei personaggi che cercano un auto-re”. Sarà inoltre un titolo d’onore per Vergani l’essere stato ilpiù giovane fra gli spettatori della dannunziana “Figlia di Jo-rio”, rappresentata sul colle del Vittoriale.

Fu così che il giornalista-scrittore collocò il proprio Eldora-do in una tarda Belle époque appena intravista. Prendeva, inogni suo articolo, la rincorsa da lontano.

Per lui, nato nel 1899, il secolo diciannovesimo restò “pro-digioso”; a volte anche in età matura, gli capitava di svegliarsi“per un improvviso battere del mio segreto cuore Ottocento”.

La sua “infanzia fiorì - così raccontava - in pieno trionfodel liberty”. Il decennio fra il 1910 e il 1920 gli sarebbe appar-so “determinante per la condizione umana”; è il tempo in cui“la donna amata si chiama con il solo nome di amante”, primache prevalgano i sinonimi soft di “amica” o “amichetta”.

Le adultere, “nascoste sotto il manto di tela cerata delle car-rozzelle, si riparano il viso sotto velette fiorate”. “Bistro, bistro,bistro”: mai le donne fecero tanto uso di questo cosmeticobluastro. Gli uomini indossano bombette e ghette, “con gran-de sciupio di amido per i colletti e i polsini”. “Il varieté non sichiama ancora music-hall” e nessuno ha ancora ribattezzatol’operetta con il nome di “rivista”. Aggirandosi fra le più illustriincarnazioni della donna fatale - il suo grembo genererà il li-berty -, della donna inquietante e della femmina stanca, fra gi-bus e pellicce d’ermellino, “lusso e peccato”, Vergani ha fissa-to per sempre il centro del suo mondo.

È proprio questa eccitazione nostalgica la nota dominantedello “stile Vergani”. Cronista super-documentato, non disde-

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tura al cinema o allo sport. È conclusione quasi ovvia che ilVergani redattore del “Corriere della Sera” - vi lavorò quasiininterrottamente dal 1926 - e il Vergani diarista privato fannotutt’uno. Non so se egli abbia lasciato degli inediti, ma la parte“emersa” della sua produzione già basta per comporre un af-fresco stimolante del secolo che ci ha appena lasciato o, alme-no, di quasi due terzi di esso. Molte tessere di questo mosaicosono saltate, e tuttavia dal tessuto del libro traspare il passatoanche più remoto.

Appostato sulla metà del Novecento, Vergani gioca di ricor-di e di aneddoti con personaggi dell’Ieri: anche di un “Ieri” cosìlontano da far supporre in lui una sua precocità prodigiosa. Difatto, egli osservava il mondo da una specola quanto mai privi-legiata. Un suo zio materno, Guido Podrecca, era stato deputa-to socialista e direttore del settimanale “L’Asino”. Un altro zio,Vittorio, aveva creato e diretto una raffinata compagnia di ma-rionette; Vera, sorella maggiore di Orio, è stata una delle attricidi prosa più brave e belle fra gli anni Dieci e Trenta, compagnad’arte e di vita del drammaturgo Dario Niccodemi.

Forte d’un simile equipaggiamento, Vergani cominciò pre-stissimo a usare, e in parte a dissipare, il proprio talento fraRoma e Milano, frequentando ambienti di primo piano. Avevaotto anni - lo racconterà in un articolo del 1946 - allorché con-templò su un palcoscenico Lyda Borelli, e gli parve di “nonaver mai visto una donna così bella”.

Ne aveva quattordici quando a scuola leggeva di nascosto,sotto il banco, la “proibitissima” rivista di Papini “Lacerba”. Adiciotto, s’insinuò nella stanza di lavoro di Ermete Zacconi, chedeclamò per lui un canto di Dante. Di lì a poco, redattore esor-diente del “Messaggero della domenica” - aveva conosciuto inquelle stanze Grazia Deledda, Rosso di San Secondo e Federi-go Tozzi - fu incaricato di portare a casa di Giovanni Gentile,in bozze, un articolo del filosofo che “cresceva” di cento righe

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formazione, ideologia, sentimento; razzista, senz’altro nonera. Basta pensare all’affetto ammirativo con il quale parla del-la “negritudine”: non soltanto celebrata in alcuni suoi persona-li idoli d’arte, dal jazz alla scultura africana, ma anche rievoca-ta in certi bozzetti di “vita vissuta” a Dakar o a Johannesburg,con quei neonati issati, “pelle contro pelle”, sulle schiene del-le madri: di lassù, chiosa teneramente Vergani, “il bimbo im-para a conoscere il mondo, il sole, la luna, la vita delle altrecreature, le forme del mondo vegetale”. Andrebbe fuori stradachi cogliesse in frasi del genere un’astuta manifestazione di“buonismo” terzomondista. Nel 1935, non usava.

NELLO AJELLO

da “La Repubblica”

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gna le immagini letterarie. Nei suoi ritratti s’insinua spesso untocco surreale, che li rende traslucidi. La voce di JoséphineBaker è “un po’ nera e un po’ azzurra”. In casa di Bruno Baril-li, scrittore squisito, la luce “piove verticale e accademicadall’alto”. Fra le divine del teatro di prosa, “Giacinta Pezzanaera il tragico inverno, Eleonora Duse il misterioso autunno, Ti-na di Lorenzo la fulgida estate e Lyda Borelli la primavera”.Petrolini è “una farfalla, uno strano insetto tra ilare e maca-bro”. Vincenzo Cardarelli ha “respirato l’aura mortale delletombe trimillenarie delle genti etrusche”.

Yves Montand sembra “saltato giù, quand’era ragazzo, daun vagone di terza classe”. Con la sua allegria, il comico Rena-to Rascel somiglia a “un chierichetto in un’ora di vacanza”,Totò “fa ridere con le ossa”. La musa di Salvatore Quasimodoha “le palpebre mestamente socchiuse”. Gino Bartali “sembrache pedali con le palpebre”. La voce di Duke Ellington “sa dipioggia”.

Sono soprattutto le mani dei suoi personaggi a impressio-nare Vergani. Le mani del “fine dicitore” Gino Franzi, creatoredello “Scettico blu”, sono “fatte per levare dalle spalle dellebelle donne del 1915-20 pellicce di ermellino” e “per dare follimance”. Quelle della Baker, “dal dorso bruno e dal palmochiaro”, sanno “di lontane foreste”. Quelle di Toscanini sono“mani che implorano, mani che comandano” e il “gesto hal’imperio di quello con il quale Padre Cristoforo fece tremare ilcuore del malvagio”. La mano di Leo Longanesi è “gentile ma,nella stretta, dura”.

Fra i “pezzi” di suo padre che Guido Vergani ha selezionatoce n’è uno dedicato a un’”adunata oceanica” convocata perascoltare Mussolini in piazza del Duomo, a Milano. “L’impene-trabilità dei corpi pare una vecchia bugia”, scrive il cronista,rapito. Il suo entusiasmo appare spontaneo.

Ma sarebbe arbitrario dedurne che Orio fosse fascista per

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contorto. In quel periodico si esponevano con semplicità, condiligenza e con gusto, anche con insolita verve.

Vergani, questo ignoto, spiccò subito per il suo estro, etrovò i suoi aficionados. In quel tempo, spenti ormai i clamoridelle riviste fiorentine, del “Leonardo” e della “Voce”, resistevaimmutato e imperturbato il “Marzocco” dei fratelli Orvieto,che si stampava a Firenze. Ma il “Marzocco” aveva un altro to-no: dannunzieggiava. Aveva però accettato Pascoli e lanciatoPirandello. Niente a che vedere col supplemento letterario ro-mano che era agile, scattante, vispo. Un Federigo Tozzi lì cistava bene: non ce l’avrei visto, invece, nel settimanale fioren-tino. Come non ci avrei visto Orio Vergani che sembrava aves-se un taglio di scrittura indiscutibilmente adatto per il giornaledi Roma. A un certo punto mi accorsi che compravo quel pe-riodico solo per leggere Orio: e lo seguii finché la pubblica-zione non smise.

Più tardi, andai a sentire una Compagnia di teatro proprioper Orio: perché nell’elenco degli artisti trovavo il nome Ver-gani, Vera Vergani, nella grande Compagnia diretta da DarioNiccodemi. Mi sembrava divina lei e stupenda la sua recitazio-ne. Sapevo che era sorella di Orio. Vidi prima lei che Orio.Orio l’ho visto, di persona, piuttosto tardi. Mi aveva impressio-nato, un giorno, un accenno di un amico, giornalista eminen-te. Costui aveva fama di uomo tanto illustre nel suo mestierequanto cinico, restio a commuoversi e a dare prova di senti-mento. Bé, una volta, tornato da Milano, mi rivelò una suascoperta. “Sa - mi disse - che Orio Vergani è proprio buono?”.Questo giudizio di Ansaldo mi colpì: e forse fu la segreta ra-gione per la quale cercai di conoscere Orio. Non ricordo oracome accadde: forse al “Corriere”, a Milano. Certo, si fece pre-sto a diventare amici: e con un affetto che sembrava presup-ponesse una lunga consuetudine. Avrà influito il settimanaleromano dei miei anni di liceo?

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Luigi M. Personé, un intellettuale eclettico ch’è stato docenteuniversitario, saggista, critico letterario, narratore, conferen-ziere e assiduo frequentatore delle redazioni dei giornali, eb-be modo di conoscerne i più importanti e noti direttori e re-dattori, da Matilde Serao ad Alberto Bergamini, da GiovanniAnsaldo a Mario Missiroli, da Ugo Ojetti a Dino Buzzati, daMontanelli a Spadolini. Di tutti questi e altri ancora tracciòdei gustosi profili riuniti in un libro dal titolo I managers del-la pubblica opinione, pubblicato nel 1977. E, tra questi, nonpoteva certo mancare Orio Vergani di cui egli schizza un ri-tratto a tutto tondo, intriso di ricordi, che qui riproduciamo.In queste pagine risalta soprattutto il lato umano di Orio Ver-gani, la sua generosità, il suo altruismo, la sua profonda cul-tura.

UN CONVERSATORE AFFASCINANTE

Ho cominciato a leggere Vergani, e quindi ad apprenderneil nome, quando ero studente di liceo. Egli scriveva allo-

ra, e credo che fosse al suo debutto, sul supplemento lettera-rio di un giornale di Roma, “Il Messaggero della domenica”.Su quelle pagine di carta verdolina si trovavano gli argomentipiù interessanti e più suggestivi, si dibattevano i problemi piùcomplessi, in chiave letteraria. Il direttore, Falbo, non l’ho co-nosciuto, ma deve essere stato di molto intuito e di accesapassione a divulgare, in un certo pubblico, argomenti che era-no in genere trattati con grande sussiego e con linguaggio

U M A N I T À D I V E R G A N I

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da Ruggero Ruggeri a Pasquariello, da Tina di Lorenzo a Lui-sella Viviani, “Luisella non ha avuto - mi disse - la fortuna chele sarebbe spettata. Non grande voce, voce roca ma grande ar-tista”. Mi venne in mente il giudizio di Orio Vergani quandome ne parlò, a Parigi, Edith Piaf. “Per quel che so, avete avutouna grande chanteuse e non ve ne siete accorti” Se ne era ac-corto Orio che conosceva le maggiori di quel tempo, dallaDonnarumma a Mistinguett.

Quali finezze, quale intelligenza, quale intuito nei suoi ro-manzi, oltre che nei libri di ricordi: uno scrittore che va studia-to da cima a fondo.

Capitò a una mia conferenza. Non mi aveva mai ascoltato.Non posso ora ripetere quel ch’egli mi disse: il suo stupore, ildesiderio di entrare “nel mio meccanismo”, di spiegarmi comescattavano le mie molle. Si provò a scoprirmi a me stesso.Qualcosa di affine, per un esame anatomico-oratorio, mi ètoccato qualche tempo addietro, a Napoli, per opera di Alfre-do de Marsico, grande penalista:

Io stavo a sentire incantato Orio come se parlasse di unpersonaggio che non aveva mai visto e conosciuto. Avevo ri-tegno d’assentire, di dirgli che mi aveva persuaso. Quella seraegli era accompagnato da suo figlio Leonardo. Mi salutò conun “arrivederci a Milano”. A Milano gli parlai per telefono.Orio mi chiese dove avrei tenuto una certa conferenza.Nient’altro. E invece eccolo lì che mi accoglie insieme con ilpresidente del sodalizio. “Se non ti dispiace, prima di te vorreidire due parole io”. Figuriamoci, da far diventare rosso un vol-to di marmo bianco. Poi se ne andò a precipizio perché dove-va partecipare a una riunione da Bagutta. “Ci rivedremo là”.

È stato questo il mio ultimo Vergani.

FAUSTO M. PERSONÉ

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Orio non tardò a entrare con me in confidenza, tanto chemi mise da parte della sua storia - una storia d’infanzia e digiovinezza - che andrebbe raccontata. Ora egli mi riceveva al“Corriere” quasi tutte le volte in cui capitavo a Milano. Mi face-va entrare immediatamente, senza sosta in anticamera. Se sta-va stendendo un articolo e non poteva darmi retta, mi conse-gnava un libro o un giornale. “Mettiti a leggere finché nonavrò finito”. Lo sbirciavo senza che egli se ne accorgesse. Scri-veva con caratteri piccini, a righe brevi come versi e pendenti,un po’ alla maniera di Benedetto Croce, un po’ a quella diEmilio Cecchi. Scorreva con la penna sul foglio, scorreva escorreva, senza un attimo di riflessione, senza un indugio dipentimento, come una macchina. Riempiva delle cartellineche dava al commesso. L’uomo andava e veniva: andava aprenderne un altro mucchietto finché, consegnato un foglioli-no, Orio gli annunziava: “Basta così. È finito”. Non ricordo diaverlo visto mai rileggere quel che aveva scritto. Compiuto ilsuo lavoro mi chiedeva: “Spero che non ti sarai annoiato. Senon ti dispiace vieni a sederti qui accanto. E chiacchiereremoun poco”. Quel poco poteva anche diventare un’ora, due ore.Vergani era un conversatore affascinante ma non della razzadi chi parla sempre lui e non lascia spazio all’interlocutore.Vergani colloquiava, non monologava. Diceva, poi ascoltava,poi rispondeva: e prima o poi per vie dirette o traverse si ca-scava nei ricordi. Allora sì ch’egli era incantevole: ne aveva vi-ste tante, ne aveva scoperte d’ogni colore. E i personaggi? Lischizzasse o li approfondisse, li presentava come effettiva-mente erano, nella loro insostituibile caratteristica, come se liavesse rovesciati per vederli anche nella fodera, nel sottofon-do. E per l’ambiente, poi! Lo ricreava così perfetto da sistemar-vi le figure, da farle respirare. Le riportava a casa, insomma.

Era un piacere sentirlo discorrere di teatro, di gente che, inun modo o nell’altro, si era “fatta” sul palcoscenico. Passava

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IL GASTRONOMO

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nomia e i vini dei paesi che traversava. “Vergani che conosce-va tutti i vini di Francia”, ha scritto Giovanni Mosca, “mettevain imbarazzo i camerieri con nomi che non avevano mai senti-to”, e Dino Villani ebbe a scrivere ancora più precisamenteche Vergani s’era convinto della necessità di far qualcosa inrapporto alla nostra cucina e alla nostra enologia “dopo cheaveva avuto modo di conoscere da vicino la rete dei clubs edelle chaînes che sostenevano in Francia il primato della tavo-la che tutto il mondo le riconosceva”.

“Chi ha seguito sul Corriere della Sera le cronache del Tourde France ricorderà certamente”, scrisse Villani, “le brillanticorrispondenze di Orio Vergani, inviato speciale del quotidia-no milanese al seguito della massacrante corsa ciclistica a tap-pe transalpina. Per mantenere vivo l’interesse degli sportivianche nelle giornate di stanco trasferimento del Tour, quandola cronaca puramente agonistica era priva di particolari, il bra-vissimo Orio si ingegnava in puntate enogastronomiche discoperta delle specialità delle zone attraversate, offrendone ilracconto con tanta effervescente aderenza da invogliare a leg-gere i suoi articoli anche coloro che non s’interessavano di ci-clismo e di suscitare una generale curiosità per le attrattivedella cucina locale francese, curiosità che nessuna guida sa-rebbe riuscita a risvegliare in ugual misura”.

Io sarei tentato di riportare assai più indietro nel tempo ilvagheggiamento, almeno il vagheggiamento da parte di Ver-gani, di arrivare alla fondazione di una Accademia Italianadella Cucina, o di qualcosa di simile: ad una valorizzazionedella nostra tavola, insomma, a mezzo dell’impegno di tutti gliintellettuali che gli fosse possibile coinvolgere. E risalgo, così,addirittura alla fondazione del premio Bagutta, un premio let-terario nato ed allevato all’insegna della buona tavola: un per-manente convegno di letterati, giornalisti, scrittori in una trat-toria. Che io rammenti il premio Bagutta è stato il primo e solo

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Il 27 maggio 1978, a Milano, in una sala dello storico Palaz-zo Serbelloni (sede del Circolo della Stampa), venne celebratoil 25° anniversario della nascita dell’Accademia Italiana del-la Cucina ricordando soprattutto il suo Fondatore. Oratoreufficiale Luigi Volpicelli, amico personale di Orio Vergani eVice Presidente dell’Accademia. Fu un discorso vivo, vivace ecommosso ad un tempo, un ritratto autentico denso di ricor-di e di testimonianze di chi lo conobbe, di aneddoti ma an-che di vicende personali e professionali, in un mosaico dallemolte sfaccettature tale da comporre il profilo vero di un per-sonaggio solo all’apparenza sfuggente ma, invece, soltantoeclettico e multiforme. L’Accademia Italiana della Cucinapubblicò questa lunga e articolata orazione di Volpicelli inun libricino diventato raro. Qui ne riproduciamo la parte fi-nale, dedicata alla figura di Orio Vergani, inventore e crea-tore dell’Accademia Italiana della Cucina, come gastronomocolto ed avveduto, autentico gentiluomo della buona tavola.

UN GENTILUOMO DELLA BUONA TAVOLA

Fu a Milano, tutt’insieme con la sua fortuna di grande gior-nalista e scrittore, che Vergani divenne gastronomo. È stato

più volte ripetuto che l’idea di fondare l’Accademia Italianadella Cucina dovrebbe essergli lentamente maturata durante igiri d’Italia, e soprattutto di Francia, che gli diedero modo discoprire, e via via di conoscere attentamente, anche la gastro-

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di fermarsi proprio su di esso; Severino Pagani, d’altro canto,ha raccontato di un successivo incontro con Vergani, una sera,in un locale caratteristico di Monza, dove avevano dovuto re-carsi per concretare con Anselmo Bucci una certa pubblicazio-ne. “All’una di notte eravamo seduti su una panchina in piazza,di contro al bel San Giovanni di Monza, e parlavamo, parlava-mo ancora. Avevamo mangiato bene e bevuto meglio, senzaesagerare. Che ne direste di un’accademia della cucina?... Per-ché dobbiamo essere schiavi delle guide straniere per saperein quali esercizi ci conviene recarci per mangiare bene anchenelle nostre città? Ne ho già parlato con Dino Villani e la cosa èpossibile. Ma non dobbiamo tardare a realizzarla”.

Quanto agli scopi dell’Accademia, ci viene in aiuto lo stes-so Vergani. In un articolo apparso sul “Corriere della Sera” egliebbe a chiarire che l’Accademia era nata sì nella patria del ri-sotto e del panettone ma “con criteri interregionali”. Era nata aMilano ma invitava i genovesi a difendere il “pesto” e la “tortapasqualina”, i veneti a difendere i “risi e bisi”, i napoletani adifendere “la pizza e la mozzarella”, i romani a difendere “ab-bacchio, cime di rapa e coda alla vaccinara”.

L’altro motivo di fondo dell’Accademia stava nel fatto, e ifrancesi lo sapevano bene, che la buona cucina non vale menodi un bel paesaggio o di un campo di neve, di una mattinata disole a Capri o in Versilia ed è, quindi, un elemento fondamen-tale per il turismo. Così, per quanto l’Italia seriosa potesse du-bitare “forse della serietà di un’iniziativa che pareva dovesseinquadrare solamente dei gaudenti e dei buontemponi, l’Acca-demia non era affatto composta da mangioni” ma da genteconsapevole dell’importanza della cucina. “in realtà si venne ascoprire”, scrive divertito Vergani, “che questi vessilliferi dellabattaglia per la tutela della cucina nostrana erano, nelle abitu-dini quotidiane, dei mangiatori assai modesti, che non rinnova-vano le prodezze culinarie di Gargantua e Pantagruel”.

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esempio della nostra storia letteraria. Fin lì avevamo avuticaffè famosi: dal “Gambrinus” di Napoli dove Francesco deSanctis, se non mi tradisce la memoria, andava a leggere igiornali com’era largamente in uso nei caffè dell’800, alla terzasaletta d’Aragno. Il premio Bagutta spostò le tende in una trat-toria; e non fu senza perché, io credo, nello spirito di Vergani,anche se l’idea appena “in nuce” ebbe bisogno ancora di annied anni soprattutto, e senz’altro, di esperienze prima di tradur-si in disegno preciso e di assumersi corpo reale con l’Accade-mia Italiana della Cucina.

Vergani scrisse incidentalmente, ma con estrema pertinen-za, che l’Accademia era “nata da una noterella di viaggio di uncronista vagabondo che si stupì di trovare nel civilissimo Ve-neto camerieri che gli offrivano cotolette alla milanese e quasisi stupivano ch’egli fosse ansioso di assaggiare delle lugane-ghe di Treviso, mentre l’oste, che era di Conegliano, gli offrivafrettolosamente vini toscani e non vini del Piave”.

Certamente anche l’Accademia, concretandosi via via nelsuo spirito gli offrì occasioni di questo genere, al pari delleesperienze di letterato, di scrittore, di giornalista e da quelle,senz’altro, derivanti dalle sue scoperte durante i Giri d’Italia e iTour de France. Però, ripeto, l’idea prima era già in quella de-cisione che elevava l’osteria al ruolo avuto nel passato dal sa-lotto o dal caffè. E, con buona pace di tutti, io credo che permolti invisibili e difficilmente documentabili tramiti, vi giocas-se un suo ruolo anche l’amicizia con Riccardo Bacchelli.

Dino Villani ha raccontato di un suo viaggio a Suzzara, do-ve Vergani gli parlò per la prima volta della sua idea. Scartaro-no il nome di club “perché in Italia esso non ha quel prestigiodi cui gode all’estero, mentre quello di Accademia pareva trop-po impegnativo e addirittura iperbolico”. Qualche tempo do-po, però, in un nuovo incontro al “Continental” di Milano, do-ve intervenne anche Ernesto Donà dalle Rose, concordarono

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Tre motivi fondamentali, come è chiaro, che solo ad un se-rio livello di cultura possono essere pienamente comprensibi-li: difendere e conservare le nostre tradizioni culinarie ricchis-sime e diversissime in un Paese come il nostro, dalle “moltevite”; mettere in evidenza un elemento fondamentale del turi-smo e, dunque, di un capitolo importantissimo della nostraeconomia; richiamare infine al gusto e al piacere della fami-glia, che proprio nel desco, specie per i ragazzi, trova un suofondamentale calore educativo.

LUIGI VOLPICELLI

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Massimo Alberini è stato un testimone di prima fila nella gran-de ed appassionata avventura gastronomica di Orio Vergani,vale a dire l’Accademia Italiana della Cucina. Gli era accanto,insieme a Vincenzo Buonassisi, la sera del 29 luglio 1953quando, ad un tavolo del ristorante “Diana” a Milano, Verga-ni ed un gruppo di amici dichiararono la nascita dell’Accade-mia. E dell’Accademia Alberini seguì sempre il cammino e lesorte, diventandone anche, dal 1983 al 1989, Vice Presidente.Questo profilo traccia, a grandi linee, la parabola umana e in-tellettuale di Orio Vergani, rispondendo con partecipazione edamicizia a tante domande, sovente inespresse, che molti sipongono sentendo citare il nome di questo grande giornalista escrittore.

CHI ERA VERGANI

Vittorio (il nome “d’arte” di Orio sarebbe venuto dopo) eranato il 6 febbraio 1898 a Milano. Rimase orfano di padre

pochi mesi dopo la nascita. La madre, maestra elementare, do-vette affrontare una scelta dolorosa: tenne con sé la figlia pri-mogenita, Vera, futura attrice di prosa, e affidò il bimbo al “vec-chio zio”, Guido Podrecca, molto noto nel mondo della politicae in giornalismo come direttore di un settimanale, “L’Asino”, vi-sceralmente, diremmo oggi, anticlericale. Con Podrecca, l’Orioragazzino cambiò spesso residenza: Venezia, Chioggia, BorgoSan Sepolcro, Viterbo, Colorno e finalmente Roma, dove co-minciò a lavorare prestissimo: a quindici anni collaborava a un

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soprattutto, per quella che sarà poi la “sua” Milano, non è anco-ra un nome che conta. In quel ventennio, due grandi avventure(gliene sentii parlare a lungo, a un tavolo di Bagutta, in serateindimenticabili): il viaggio in Africa e la guerra civile spagnola.

Effettuò il primo tra la fine del 1934 e i primi mesi dell’annoseguente, insieme al pittore (e suo grande amico) Mario VellaniMarchi che illustrava con i suoi disegni “dal vero” gli articoli cheOrio spediva al “Corriere”. Partirono da Tunisi per arrivare aCittà del Capo. Vi erano alcune linee aree, ma l’Africa, nel suoinsieme, conservava la sua fisionomia ottocentesca, solo in par-te modificata dai colonizzatori. I due videro i grandi mercati in-digeni, le carovane, navigarono il fiume Congo su un vecchiobattello a vapore; Vergani trasmise al giornale quaranta articoli,poi riuniti in due volumi, oggi reperibili solo in antiquariato.

Ben diversa l’avventura spagnola. Nel 1936, quando si intuìche gli avvenimenti avrebbero avuto una svolta, Vergani fumandato dal “Corriere” a Barcellona. Scese all’Hotel Falcon e,poche notti dopo, si trovò chiuso fra due barricate, una di anar-chici, l’altra di franchisti. Vinsero i primi, Orio fu catturato, e untribunale del popolo, presieduto da Luigi Longo appena arriva-to dall’Urss, lo condannò alla fucilazione come “corruttore dellagioventù”. Venne liberato assieme ad altri 1600 stranieri d’ogninazionalità, praticamente trattenuti come ostaggi, da un’azione,che ci appare oggi inconcepibile, del governo italiano di allora:vennero inviati a Barcellona due incrociatori, il “Fiume” e il“Montecuccoli”, assieme al piroscafo “Principessa Maria”. Conuna proposta molto semplice: o li lasciate imbarcare o sparia-mo.

Vergani non era una giornalista politico. Ciò nonostante, nelcorso della guerra, venne nominato capo della redazione roma-na. Spiegava: “Il direttore Borelli me lo disse chiaro: ormai lacatastrofe è inevitabile, la guerra è persa. Potremmo arrivare aazioni insurrezionali! È bene che a Roma ci sia tu, che non hai

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mensile, il “Secolo XX”: poi passò al “Messaggero”, alla “IdeaNazionale”, alla “Tribuna”. Sono di quel periodo la sua frequen-za alla celebre e celebrata terza saletta di Aragno, un caffè dellacapitale, e i suoi incontri con Federigo Tozzi, Luigi Pirandello(la cui compagnia di prosa mise in scena, nel 1926, la primacommedia di Vergani, “Il cammino sulle acque”). Lì nacque an-che l’amicizia disinteressata col giovane, e allora sconosciuto,Galeazzo Ciano che voleva intraprendere la via del giornali-smo. Una “colpa” che gli antifascisti segnarono sul loro libro ne-ro, per ricordarsene nel giorno della vendetta (e lo fecero).

Sul finire del 1925 dopo la liquidazione, per motivi politici,del direttore Luigi Albertini, l’amministratore del “Corriere dellaSera”, il grande Eugenio Balzan, decise che era venuto il mo-mento di rinnovare il giornale portandovi delle forze nuove.Due, soprattutto, i nomi di spicco fra gli “eletti”: Paolo Monelli eOrio Vergani che sorprese tutti chiedendo, come primo “servi-zio”, di occuparsi dell’incontro di boxe fra Carnera e PaolinoUzcudum. Ebbe via libera; e iniziò quella straordinaria attivitàche avrebbe fatto di lui un caso unico nella storia del giornali-smo.

Un grande quotidiano, per essere tale, deve avere a disposi-zione un numero, quanto più alto sia possibile, di collaboratorispecializzati, da interpellare al momento opportuno. Ma chi “fail giornale”, sono i redattori e gli inviati speciali, in grado di pas-sare, con rapidità, da un argomento all’altro. Vergani fu l’insu-perabile principe di questi giornalisti “per tutte le stagioni”. En-trò persino, trionfalmente, in uno dei settori più chiusi, quellodello sport, e diede agli avvenimenti dei risvolti umani. Si parlamolto dei “servizi” di Vergani dal Giro d’Italia e dal Tour deFrance: erano “pezzi” che lui solo poteva permettersi.

Gli anni fra le due guerre vedono la sicura ascesa di Vergani,non solo come giornalista, ma anche quale commediografo, ro-manziere, autore di saggi d’arte: ma, per il grande pubblico e,

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fisionomia politica: un tuo appello alla concordia, alla fratellan-za, potrà essere ascoltato”. Discorso che non teneva conto deldesiderio di rivalsa dei “rimasti fuori”. Il 25 luglio i redattori,scopertisi antifascisti, cacciarono Borelli. Il 31 luglio il nuovo di-rettore, Ettore Janni, licenziò in tronco, per motivi politici, Ver-gani.

Per lui fu un trauma: “Una condanna a morte”, scrisse nelsuo diario, “che mi portò vicinissimo al suicidio”. Vergani nonfece parte della redazione del “Corriere” durante la Repubblicadi Salò ma, nel 1945, fu lo stesso “epurato”, e dovette lavorareper altri giornali. Poi, nel 1946, rientrò nel “suo” “Corriere”.

Cominciò, per lui, un periodo particolare, e se si tiene contodel suo carattere e della sua indole, del tutto anomalo. Lavoravamoltissimo: qualcuno ha calcolato che, oltre ai libri e alle com-medie, egli abbia scritto circa ventimila articoli. In una sola not-te, nel giugno del 1959, mentre era a Venezia per una “prima”teatrale, Vergani riuscì a scrivere e a dettare, uno dopo l’altro,sei servizi: la critica dello spettacolo; un “pezzo di colore” suBurano; un commento “umano” sulla morte di alcuni passegge-ri di un aereo caduto, poche ore prima, a Olgiate; la critica dellamostra di un pittore e il ricordo del commediografo e paroliereLuciano Ramo, morto quel giorno. E, cosa importante, tutti testieccellenti, senza sbavature, ripetizioni, “cadute”.

Egli fu sempre e solo un grande giornalista: non ebbe maiuno di quegli incarichi non ben definiti ma redditizi come diret-tore editoriale aggiunto, responsabile del settore periodici o si-mili, che “portano” ad alti stipendi, senza richiedere impegnoeccessivo. Scriveva. Poteva dire, come un suo celebre collega,Renato Simoni, “Tutto quello che ho, è stato prima una riga dipiombo”.

MASSIMO ALBERINI

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Nell’aprile 1960 l’allora “Bollettino” dell’Accademia, antesigna-no della rivista “Civiltà della tavola”, pubblicò un ricordo delFondatore scritto da Ernesto Donà dalle Rose, un imprenditoreilluminato che era accanto a lui la sera della nascita dell’Acca-demia, al tavolo del “Diana”, il 29 luglio 1953 e fu successoredi Vergani alla Presidenza dell’Accademia dal 1960 al 1963. Sitratta di un accorato e commosso viaggio nella memoria, tuttosospeso tra passato e presente, di un senso doloroso di privazio-ne non scevro di un barlume di sommessa speranza. Riprodu-ciamo questa testimonianza, nata sull’emozione della morte diOrio. Era preceduta da un breve testo che diceva tra l’altro: “Lasua scomparsa, che ha lasciato un vuoto irrimediabile nel gior-nalismo e nella letteratura italiana, è pure per noi un colpo du-rissimo. La navicella dell’Accademia, proprio quando sembravaavviarsi verso felici approdi, è rimasta senza comandante”

ORIO CI HA LASCIATI

Nel mare di coloro che si accalcavano quel giovedì, davantialla casa di Vergani, per porgergli l’ultimo saluto eravamo

in tanti, dell’Accademia: tutti i milanesi, naturalmente, e poic’era Giovanni Ansaldo che si era precipitato da Napoli appe-na gli avevano comunicato l’angosciosa notizia; e Freda, eGiuseppe Gavotti, e Silvestri accorsi dalle loro sedi e molti al-tri che, mi scuso, in questo momento di confusione terribile,di non ricordare. Che faremo senza di lui? L’Accademia eracreatura sua, ci aveva scovati e messi insieme, si può dire, ad

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zione, siamo riusciti a portare avanti lo schedario dei migliori ri-storanti d’Italia e questa guida, che egli tanto aspettava, è ora instampa. Orio non la vedrà ma avemmo almeno la gioia di mo-strargli le prove dell’impaginazione per le ultime decisioni. An-che il ricettario delle regioni italiane è molto avanti. E ancora uneditore milanese, caro nostro amico, aveva ottenuto recente-mente da lui l’assenso entusiastico e il patrocinio dell’Accade-mia per una collana di tutti i più bei libri stampati in Italia sullagastronomia negli ultimi 50 anni e ormai esauriti.

E quante idee, quanti progetti ancora, erano in cantiere conlui, vivevano già nella sua speranza, nella sua parola, nei contatticontinui che aveva senza mai dimenticare l’Accademia. Dovun-que andasse, si preoccupava di mandarci le sue cartoline (diesempio anche in questo) con l’indicazione di trattorie, di piattiche aveva conosciuto; al ritorno aveva sempre una messe di cu-riosità, di nomi, di indirizzi. Era quello il tessuto del suo modod’intendere la vita e la gente, sempre aperto. Intendiamoci: chilo ha conosciuto sa che Vergani era l’ultimo a cui si potesse darel’etichetta di gaudente, di edonista: era, al contrario, un lavorato-re inesauribile, reggeva ad un ritmo che avrebbe distrutto chiun-que in pochi anni, fino al momento in cui anche la sua fibra ec-cezionale si è spezzata. Ma in tutto quello che faceva portava ca-lore, convinzione, altruismo, entusiasmo: questa era la sua risor-sa immensa e anche per la nostra Accademia non faceva altroche dare, prodigarsi, perché credeva che potesse servire a ren-dere migliori quanti ne facevano parte e a sua volta anche altri.

Siamo presuntuosi se diciamo che questa era forse, negli ulti-mi anni, la sua creatura prediletta, che era il suo veicolo più lar-go di fraternità, e che il suo sogno era di vederla prosperare subasi salde e durature? Era un’altra sua famiglia, lui che aveva cosìforte il senso e il pudore dei legami affettivi. Promettiamo che fa-remo ogni sforzo per continuare come lui avrebbe voluto.

ERNESTO DONÀ DALLE ROSE

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uno ad uno. Con il suo esempio ed il suo affetto aveva fatto dinoi, suoi amici, tutti amici. Ricordiamo la letizia di tanti incontri,attorno a lui, accomunati e spinti ad adoperarsi per una idea diciviltà che era la stessa radice umana, cordiale, limpida dellasua personalità multiforme. Orio si batteva con costanza, conpassione tenace, anche se temperata dal suo sorriso e dalla suabontà, per salvare e continuare quanto di più schietto e raffina-to (non importa se tra i signori o la povera gente) la tradizioneitaliana della tavola e dell’ospitalità esprime.

Era una idea che cercava le sue ragioni profonde nel tempo,fino al Rinascimento. Il senso del cibo, della mensa (quante voltece lo aveva insegnato) non solo come manifestazione materiale enecessaria ma come aspetto di vita sociale, di gentilezza, di cultu-ra. E aveva saputo convincere tutti che valeva la pena di farequalcosa per un’idea come questa, così ci aveva collegati nell’Ac-cademia per agire e condurre insieme una buona battaglia.

Orio mi diceva spesso: ben pochi riflettono sul fatto che ledue ore passate a tavola ogni giorno, in casa, sono forse la solaoasi di vita familiare tranquilla, di scambi affettuosi con i nostricari, nella fretta della vita di oggi. Perché non difendere questaultima trincea, far sì che la tavola nella sua presentazione, nellacura del pasto, in un minimo di rispetto delle forme non con-servi meglio questo significato amoroso? Perché non dobbiamofar sì che anche fuori di casa, in un qualsiasi ambiente pubbli-co, la mensa non sia veicolo di misura, di comprensione, infine(qui torna la parola più sua) di civiltà?

Cercheremo di fare del nostro meglio per continuare su que-sta strada, come egli desiderava. Si è già fatto molto per rimuo-vere equivoci ed errori, per svolgere una propaganda fortunata.Lo scorso anno gli amici dell’entusiasta gruppo romano hannodedicato a lui la loro fatica che ha portato ad una nuova edizio-ne critica ed integrale dell’Artusi. Con le indicazioni dei nostriamici di tutta Italia, malgrado la pochezza dei mezzi a disposi-

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Nel 1996, per iniziativa di Guido Vergani, la famiglia fece unaimportante donazione al Museo della Ceramica di Bassano:cinquantasei piatti popolari veneti dell’Ottocento, che Orio ave-va pazientemente cercato, trovato e acquistato nel corso deisuoi numerosi e frequenti viaggi in terra veneta. Oggi questipiatti sono conservati a Bassano del Grappa nello storico Pa-lazzo Sturm, sede del Museo della Ceramica, nel luogo piùadatto alla loro esposizione, e che Orio Vergani avrebbe senzadubbio approvato: l’antica cucina di quel palazzo nobiliare.In concomitanza con l’inaugurazione, venne pubblicato un

I L C O L L E Z I O N I S T A bel catalogo illustrato dei piatti di Orio, tutti dedicati ai mesi ealle stagioni. Nel catalogo figurano due testi di Vergani colle-zionista: “Mi parlarono di pace” e “L’arcipelago della cerami-ca”, di cui riportiamo qui di seguito alcuni brani. Ma è digrande interesse anche uno scritto introduttivo del figlio Guidoche narra come il padre avesse invaso la casa con tutti i suoipiatti. Quando andava nel Veneto “sempre deviava verso Nove,verso Bassano, approdi che mia madre fortemente temeva”,scrive Guido e prosegue: “Orio lo chiamava il ‘viaggio cerami-co’. Il timore di mia madre era legittimo perché vivevamo asse-diati da successivi accumuli di antiquariato minore e sapeva-mo che Orio sarebbe tornato carico di rami da cucina e divecchi piatti, i piatti delle stagioni. Ogni viaggio erano tre,quattro piatti. Orio, così, si portava a Milano un’idea del suoVeneto e del Friuli materno. Per evitare rimproveri (le paretidella stanza del nostro appartamento di via Appiani erano giàquasi completamente occupate) - prosegue Guido - il collezio-nista graduava il debutto dei nuovi tesori: prima li nasconde-va in un armadio del suo studio al ‘Corriere’, lasciandoli qua-si a decantare; poi, a poco a poco, li portava in via Appiani”.

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NASCITA DI UNA COLLEZIONE

Quando ripartii da Bassano avevo con me un grosso pacco.Quel pacco conteneva dodici piatti di vecchia terraglia ot-

tocentesca. Tutta l’annata era dedicata, a Dio mercè, ad operedi pace, nei piatti ch’eran diventati miei e una sola immagineera cruenta: quella che rappresentava l’onesta, inevitabile finedi un porcello sotto il coltello del padrone. Nell’Ottocento le ca-se avevano quasi tutte il tetto di paglia e qualche volta i muri difango secco tenuti su con le cannucce e scialbati con una manodi calcina. Le cucine non avevano altra allegria al di fuori diquella del ceppo acceso sulla pietra del focolare e di quella diquesti piatti dai colori vivaci e dagli emblemi semplici comequelli delle carte da gioco trevigiane.

da “Mi parlavano di pace”

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LE ANTICHE MANIFATTURE

Quasi ogni casa porta l’insegna di un’antica manifattura diceramiche. L’arte si è salvata, quando la ceramica rustica

subì l’assedio di quella industriale, proprio per la sua tradizionecasalinga. I vecchi l’avevano imparata dai vecchi, i nonni dai bi-snonni. L’aveva protetta la quiete delle veglie invernali, quandoi campi riposano, quando le stalle sono chiuse contro il soffiodella tramontana. Le fornaci andavano ancora a legna, l’elettri-cità non era ancora venuta a riscaldare i forni nelle case doveancora ardevano le lampade a petrolio. Le madri badavanoall’orto e alle galline e il marito stava ancora alla ruota mossa,come al tempo dei vasai etruschi, dal regolare colpo del piede.I colori erano quelli antichi: i bruni, gli azzurri, i rossi, i giallisenza ricerche di riflessi rari. Ogni casa di ceramista aveva, co-me un sacrario, la raccolta dei modelli foggiati e dipinti dallamano degli avi.

da “L’arcipelago della ceramica”

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Marco Guarnaschelli Gotti, nella monumentale “Grande Enci-clopedia illustrata della Gastronomia”, pubblicata nel 1990 daSelezione del Reader’s Digest, ha sintetizzato, alla voce “Verga-ni Orio”, la figura del Fondatore dell’Accademia, ponendoparticolarmente in risalto il suo rapporto con la cucina, simbo-lo di una sua spiccata curiosità ma anche, e soprattutto, unimportante richiamo culturale.

SINTESI DI UNA PASSIONE

Vergani Orio, giornalista e scrittore milanese (1899-1960), fuil fondatore dell’Accademia Italiana della Cucina. La madre

Maria, sorella del marionettista Vittorio Podrecca, era di famigliafriulana, dai pochi mezzi materiali ma ricca di fermenti politici eintellettuali. È da un Podrecca che Orio viene allevato fraChioggia, San Sepolcro, Viterbo e Colorno. La sua infanzia e lasua adolescenza hanno, dunque, i sapori di quattro gastrono-mie regionali: veneta, umbra, laziale ed emiliana. Ci deve esse-re stato il ricordo di quelle esperienze nell’idea di una difesa edi un rilancio della gastronomia regionale che Vergani realizzòfondando, appunto, nel 1953 l’Accademia e opponendosi cosìall’appiattimento della cucina italiana minacciata da menu or-mai indifferenziati e alberghieri. Quel ricordo Vergani lo aveva,negli anni, alimentato andando e venendo per l’Italia come in-viato speciale del “Corriere della Sera” che lo aveva assunto nel1926 dopo una lunga carriera a “L’Idea Nazionale” e “Il Messag-gero” (era il ragazzo di redazione nel supplemento culturale di-

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retto da Luigi Pirandello). Lungo gli itinerari dei fatti di cronaca,degli eventi politici e del Giro d’Italia (ne seguì una trentina) lagastronomia, lo stare a tavola come consolazione delle fatichema anche come curiosità di mestiere, fu uno dei tanti interessidi Vergani che nel giornalismo letterario, umanistico, introdusseper primo l’attenzione al balletto, al circo, al cinema, alla boxe,al ciclismo. Quella per la gastronomia non fu per lui un’atten-zione specifica, nel senso che non diventò mai o assai raramen-te materia di “pezzi”, di rubriche, come avvenne poi nel giorna-lismo a firma di veri e propri specialisti. Era, però una curiositàche affiorava di continuo nei suoi “reportage” come contorno,come colore, come richiamo culturale.

MARCO GUARNASCHELLI GOTTI

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PICCOLAANTOLOGIA

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Una lista del ristorante Bagutta, dove Vergani fondòinsieme a Bacchelli il premio letterario “Bagutta”,

dedicata al suo romanzo “Recita in collegio”

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nalmente. Il testo, dattiloscritto ma con molte e pertinenti corre-zioni e aggiunte manoscritte, era corredato da una lettera aVolpicelli che vale la pena di rileggere:

“Cerchiamo, per la prossima volta che verrò a Roma, cer-chiamo, caro Volpicelli, di tornar ragazzi. Non darmi appunta-mento in un ristorante di lusso. Informati se ci sono ancora deicarrettini dove, infilata al palo, solidamente imbottita di rosma-rino o di salvia, ci stia ad aspettare una porchetta arrosto comelo intendevamo noi. Dove? Ho paura che ci tocchi fare chilome-tri assai, io che ero abituato a trovare la porchetta nella piaz-zetta del Lavatore, al mercatino sotto la spalla architettonicadel Quirinale, o sotto al primo albero del viale subito al di là diPorta San Giovanni. Informati dove possiamo trovare la cararustica porchetta della giovinezza. Due o tre fette a testa, unosfilatino di pane croccante e magari, per sedere, i gradini diuna chiesa. Ritroveremo la vecchia Roma di quarant’anni fa,l’appetito dei venti, il segreto più semplice e più antico di quellacucina che, per dirla alla maniera del Carducci, ‘nel cor mi sta- piena di forza e di soavità’. Orio Vergani”.

E questo verso lo pose come titolo al “pezzo” sulla cucina ro-mana. Purtroppo, quella “prossima volta” non arrivò mai. Ap-pena tornato a Milano dopo la parentesi dannunziana, spedìquel “pezzo” a Volpicelli per posta e questo arrivò a Romaquando Orio non c’era più. Volpicelli lo pubblicò in facsimilenell’Almanacco “Roma a tavola” del 1960-1961 con un brevis-simo commento che diceva tra l’altro: “È l’ultimo suo scritto.Qualche ora dopo che l’aveva spedito un attacco di cuore lostroncò inesorabilmente”. E il titolo di quello splendido saggiogastronomico e autobiografico ad un tempo era proprio sinte-tizzato da quel verso carducciano scritto di pugno da Verganiin testa al suo “pezzo”. Uno squarcio di prosa che più d’ogni al-tro scritto ci aiuta a comprendere l’intelletto, il valore, la cultu-ra, i sentimenti e il grande cuore di Orio Vergani.

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LA CUCINA ROMANA

Orio Vergani morì a Milano all’alba del 6 aprile 1960, unmercoledì. Tre giorni prima era a Pescara per tenere una

conferenza su Gabriele d’Annunzio, il poeta con il quale avevaavuto, oltre trent’anni prima, uno scontro memorabile.

Ricordava questo episodio Sandro Dini sul quotidiano pia-centino “Libertà” del 15 giugno 1997. Ecco cosa accadde quan-do Vergani, appena assunto al “Corriere della Sera”, entratonella sala di redazione (la famosa “Sala Albertini”), agilissimocom’era, saltò a piedi pari il grande tavolo di noce che ospitavai redattori, dicendo: “Eccomi, sono il nuovo assunto e mi chia-mo Orio Vergani!”:

“Sette teste, tra le quali quella calva di Gabriele d’Annunzio,si alzarono dallo scrittoio e, uno per tutti, il caposala gli risposecalmo: ‘Ben venuto! Si faccia dare dal commesso carta, penna,colla e forbici’. Chi se la prese a male fu invece il Vate che loapostrofò malamente scagliandosi verso di lui. Orio lo guardòdall’alto in basso e gli gridò: ‘Sta buono, nanerottolo, che sonotroppo forte per te!’. Vergani era un pacioso ma non accettavaprovocazioni. Da nessuno”. Fin qui Dini.

Durante la sua breve visita a Pescara per quella conferenza,trovò il tempo e il modo di scrivere un mirabile “pezzo” sullacucina romana in chiave autobiografica. Glie lo aveva chiestoil suo grande amico Luigi Volpicelli, Delegato di Roma dell’Ac-cademia (e, dall’anno dopo, Vice Presidente) per la pubblica-zione di un Almanacco della Delegazione, che curava perso-

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va però l’obbligo di mandar giù larghe scodelle di “acqua di ci-coria”. Sempre con il pretesto della buona salute.

Avevamo una domestica originaria di Parma - una santa don-na che, ultra ottuagenaria, vive ancora - alla quale il bilancio fa-migliare non permetteva troppi capricci. Essa ha cucinato pernoi più polpette che dette Avemarie nella sua lunga e devotissi-ma vita. Sarebbe stata una “maestra” per le fritture: ma potevasfogarsi solamente nei giorni degli onomastici quando prepara-va le “frappe” o “galani”, versione veneta delle “chiacchiere” edei “nastri” fiorentini. Il suo capolavoro era la Torta di Ricotta. Atavola si beveva acqua fresca. Il caffè di mia madre - rinforzatocon un cucchiaino di micidiale “estratto” - era imbevibile.

Mio padre era toscano, di Bibbiena. Come toscano si ritene-va un ottimo intenditore d’olio: assaggiava ogni fiasco stropic-ciandone qualche goccia nel palmo della mano e fiutandolo alungo. Era estremamente sofistico: andava personalmente in cu-cina a preparare le uova al tegamino e diceva che nessuno sa-peva cuocerle al punto giusto come lui. Quando mio padrecuoceva il suo “personale” tortino di carciofi, tutta la casa stavain ansioso silenzio. Non crederò mai che le uova facciano veni-re il mal di fegato: le ho mangiate per anni e anni, mattina e se-ra, e un giorno di particolare appetito spazzolai una frittata didiciotto uova con la cipolla. All’indomani segnai un altro re-cord: un certo invito famigliare era andato a monte all’ultimominuto: vuotai io, tranquillamente, due zuppiere di pasta e fa-gioli preparate per dodici persone. Come vedete, in tutto que-sto la cucina romana c’entra pochissimo.

v v v

Quante volte avrò mangiato fuori di casa, fra i quindici e iventisette anni? Potrei farne il conto, tanto rare furono quelleoccasioni. Tre o quattro volte, fuori Porta San Giovanni, fave e

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PIENA DI FORZA E DI SOAVITÀ

Imiei ricordi della cucina romana fino al 1926 dovrebbero es-sere definiti singolarmente esili. Per quanto io abbia vissuto a

Roma per molti anni tanto che, tornato nella mia città natale,venni considerato “romano” e quasi mi chiusero in faccia laporta della trattoria del “Boeucc” in via Durini non lontano dallacasa di Toscanini - gli scrittori milanesi vi si adunavano una vol-ta alla settimana - per quanto, ripeto, Roma io l’abbia avuta nelsangue dai quindici ai ventisette anni, le mie prime esperienzegastronomiche romane furono molto ristrette. Ero “figlio di fa-miglia” e a diciassette anni guadagnavo già un piccolo stipen-dio, ma la maggior parte di quei soldi doveva passare nella“cassa di famiglia” e a me ne avanzavano i soldi solamente perle sigarette e per le caldarroste.

Mangiar fuori di casa era una bisboccia quasi vietata. A casala cucina era frettolosa e piuttosto economica. Nessuno nuotavanell’oro. Mia madre era - e lo è ancora - assai più brava pianistache buona cuciniera: ed il suo ricettario era quasi tutto veneto efriulano. Non posso considerare come appartenente alla cucinaromana la polenta “pasticciata” delle nostre grandi occasioni, le“radici” romane che mia mamma mi faceva mangiare con il pre-testo che mi tenevano in buona salute, la minestra di verduraall’uso veneto che riempiva fino all’orlo le nostre “fondine”.

Roma si annunciava ogni tanto con il profumo di uno spez-zatino d’abbacchio, bene imbottito d’aglio e di rosmarino; re-gnava sovrano con le insalate di cicoria all’agro alle quali segui-

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Umberto, e quello del successivo cosciotto d’abbacchio.Bevvi il mio primo bicchiere di vino di Frascati a ventiquat-

tro anni, in un’osteria di via dei Pontefici, seduto fra ArmandoSpadini e Anton Giulio Bragaglia. Ad Anton Giulio devo infinitipiatti notturni - gratuiti - di mediocri ma generosi spaghetti neisotterranei delle Terme di via degli Avignonesi.

Devo confessare che, per quanto ci passassi davanti ognigiorno, non ho mai avuto i soldi per sperimentare da Alfredo inVia della Scrofa le fettuccine al doppio burro. Ugo Ojetti, invi-tandomi a pranzo alla Casina Valadier il giorno dopo avermi“arruolato” fra i redattori del “Corriere della Sera”, mi rivelò le“puntarelle di cicoria”. Ecco un altro sapore che dura ormai datrentaquattro anni.

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Come vedete il mio ricordo della cucina romana si basa supiccolissimi elementi: ma tali da permetterne la ricostruzione,come sapeva fare il Cuvier con le vertebre fossili del Dinosauro.

È un ricordo che si rinforza con le esperienze di dopo itrent’anni mangiando, nei ritorni romani, nelle osterie dietro alPantheon e alla Villetta e in Via della Croce al tavolo degli amici“frondisti”: talvolta cadendo nell’anonima gastronomia dei risto-ranti di lusso, talvolta approdando alle semplici delizie di certipranzi ai Filippini, al tavolo di Trilussa e sui divani dello scom-parso “Don Carlo” assieme a Pasquariello. Ma la “prima pietra”è quella delle prime esperienze di ragazzo “invitato”: vivono so-prattutto, in queste memorie, una trattoria di Vicolo Alibert, lapergola del “Forte di Adigrat”, certo pecorino assaggiato neglistambugi del Teatro di Marcello, certi spaghetti all’aglio, olio epeperoncino nell’osteria dopo Ponte Molle: al bel tempo deisoldi contati e delle “villeggiature” sul Tevere ai Polverini, chemi rivive “romano”. Chi più felice di me, che avevo due stanze

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pecorino: e, sempre a Porta San Giovanni, tre o quattro volteuna fetta di porchetta, comprata su un carrettino. Per il restodovevo aspettare un “invito” che interrompesse la serie dellepolpette domestiche. Debbo a ben apprezzati inviti se una serami trovai seduto, con molto impaccio, al Valiani della vecchiaStazione di Termini, e se conobbi i suoi carciofini sott’olio. Deb-bo confessarlo, non mi entusiasmarono mai; e un’altra sera mitrovai seduto sotto al pergolato di un’osteria sul Tevere, dalleparti della Farnesina, a mangiare gli “spaghetti” all’Amatricianae l’abbacchio al forno. Pagava il “basso” Nazareno De Angelis,che non sapeva il nome del ragazzo seduto in fondo alla tavola.Una volta, per ragioni d’amore - avevo diciannove anni - pran-zai in una trattoria dalle parti di via del Pozzetto, anche quellavolta invitato. Pagava lo scenografo milanese Rovescalli che al-lestiva uno spettacolo al Costanzi e che certamente non com-prese che la mia discrezione nei “consumi” era dovuta a nasco-sti intensissimi palpiti del cuore. Ricordo ancora il menu cheogni buon romano disdegnerebbe: prosciutto e melone, risottoalla milanese, fritto di sogliole.

Raggiunsi i fastigi di un invito all’Excelsior: mi avvelenò ladifficoltà di usare le pinze per gli asparagi e il fatto che non sa-pevo cosa fare della vaschetta d’acqua tiepida con fettine di li-mone che mi venne presentata a fine tavola. Cercai di berne al-cuni sorsi.

Partecipai - questa volta posai la mia quota - a due pranzi digiornalisti: uno, a diciassette anni, per onorare il decano dei re-dattori del “Messaggero”, il caro Panattoni; un altro, con i colle-ghi della “Idea Nazionale”, da Umberto in via dell’Orso, sedutoaccanto ai vecchi cronisti Ettore Veo e Gino Carocci. Da Umber-to, che era un ottimo cuoco, avvenne il mio effettivo incontrocon la Cucina Romana: su quel pranzo si fonda l’edificio dellamia nostalgia. Se sollevo la lingua verso il palato - sono passatiquarant’anni - mi par di sentire ancora il sapore dei carciofi di

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sulla gradinata della Trinità dei Monti e, più tardi, due terrazzesu Piazza di Spagna?

Poi, tanti anni dopo, venne il “tempo nero”. Avrei potutoconcedermi qualunque pranzo, fare le più intense esplorazioni,avventurarmi nei paesi dei dintorni raggiungendo le vere “fon-ti” dell’abbacchio, del pecorino, dei carciofi, dei pisellini. Avreipotuto assoldare una “cicoriara” solo per me, che s’impegnassea cercare per me le “puntarelle” nei prati sotto l’Acquedotto diClaudio, in quell’Appia antica che sa di tufo e di Storia. Avreipotuto diventare un “maestro” della “coda alla Vaccinara”. Fos-sero andate lisce le faccende della Storia, oggi caro Volpicelli,sarei io al tuo posto di capo dei gastronomi romani.

Dovetti invece imparare a dire, al telefono, “Grazie per queibei cosini bianchi che mi hai fatto avere... Grazie per quella ra-gazza fiorentina che mi hai mandato... Ho passato con leiun’ora squisita…Quel tuo amico che doveva portarmi quei do-cumenti da Norcia non si è ancora visto...”. Era il solo modocon cui potevo parlare di fagioli, di bistecche, di prosciutto echi rilegge capisce perché. Le difficoltà di quel vocabolario ca-muffato erano gravissime: come potevo cercare un buon sino-nimo per “cotiche”, per “animelle”, per “porchetta”, per “ricot-ta”? E venne il triste tempo delle scaloppine nascoste sotto aduna coltre di spinaci, mangiate con il cuore in gola; del cosciot-to d’abbacchio afferrato al volo in cucina e rosicchiato pavida-mente nel gabinetto dell’osteria; il tempo delle rapidissime di-gestioni, dei “bollini” preziosi tagliati con caute forbici dalle tes-sere, del formaggio nascosto dentro al fazzoletto... La potreichiamare “cucina romana”, questa? Tre anni perduti...

ORIO VERGANI

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Nel 1957 Orio Vergani, Presidente dell’Accademia, organizzòa Milano, nelle sale della “Permanente”, una mostra di pitturasul tema “L’arte e il convito” con la partecipazione dei maggio-ri pittori di quegli anni. E questo non era difficile a Verganiche proprio con il mondo dell’arte intratteneva frequenti e fe-condi rapporti. E poi Milano stava vivendo in quegli anniun’importante stagione intellettuale all’insegna della cultura,con grandi fermenti innovativi. L’iniziativa ebbe un notevolesuccesso, tanto che Vergani si riprometteva di ripeterla conl’inserimento, accanto ai pittori moderni, di alcuni capolavoridel passato che si sarebbe fatto prestare (e a lui non lo si potevanegare) da alcuni musei. Questa seconda mostra venne poi or-ganizzata secondo il suo intendimento, qualche tempo dopo lasua morte, ad opera di Vincenzo Buonassisi, sempre sotto l’egi-da dell’Accademia. Per la prima mostra Orio Vergani avevascritto la presentazione al catalogo, che riproduciamo, e cherappresenta un autentico “manifesto” della civiltà della tavola.

LA MORALE DI UNA MOSTRA

L’invito rivolto agli artisti italiani perché partecipassero aduna mostra che ha per tema il Convito, indetta per iniziati-

va dell’Accademia Italiana della Cucina, è stato compreso datutti i pittori nel suo preciso ed intimo significato. Non si chie-deva l’elogio della gola e tanto meno quello della ghiottoneriané quello della mensa fastosa. Non si chiedevano neppure deiquadri con i quali illustrare didatticamente un “ricettario” o che

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una massaia dovesse mandarseli a mente per farsene una guidasulla scelta delle migliori “materie prime” passando per il mer-cato o entrando in un negozio. Si chiedeva, sostanzialmente,l’elogio di ciò che la terra ci dà rispondendo alla fatica degli uo-mini: l’elogio del dono antichissimo con il quale la Provvidenzaaiuta il genere umano a vivere, nutrendolo, solo ch’esso sia unpo’ attento, nel più gradevole e saporito dei modi. Elogio dellamensa vuol dire, “ab antiquo”, elogio della Vita e della materna,immortale Natura.

Elogio del desco significa elogio della Famiglia e del focola-re perché veramente potremmo dire che - come disse un gran-dissimo poeta che cantò le gesta degli eroi ma più dolcementecantò le gioie incruente della vita agreste e della sua opera - lostesso fanciullo impara a riconoscere il padre dal gesto con cuiegli rende ricca la mensa nell’ora più serena della giornata.

Questo hanno compreso, se pur con modi espressivi diversia seconda della personalità di ciascuno, gli artisti che hanno ri-sposto al nostro invito. Il visitatore che percorrerà le sale dellaMostra vi troverà una visione serena e sostanzialmente confor-tante, un consiglio affettuoso di gioia, di pace, di letizia. In altreore e in altre sedi lo spazio è giusto sia dedicato alle polemiche,alle meditazioni, alle ansie, ai travagli estetici. Questo era il luo-go e l’ora del caro racconto domestico, della cara favola, chetutti i giorni riaccende i suoi fuochi e spande quei profumi checon un sorriso potremmo definire insostituibili.

“L’aiola che ci fa tanto feroci” mostra qui i suoi doni di pace.Ogni atto della vita ha la sua morale. E questa è la morale dellaprima Mostra dell’Arte e del Convito che ci auguriamo di poterripetere con gli artisti d’Italia e con la presenza dei Maestri delpassato per una lunga serie di anni senza sangue e senza dolori.

ORIO VERGANI

Prefazione al catalogo della mostra “L’Arte e il Convito”

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Un testo curioso e sapido, in cui Orio distribuisce piatti e ghiot-tonerie a tutti i suoi amici, viventi o meno, virtualmente sedutial suo stesso tavolo, dei quali conosce a menadito le inclinazio-ni e le debolezze gastronomiche. Ma è anche un gustosissimorepertorio dei piatti, dei prodotti e delle specialità di quella cu-cina italiana che, diceva, non esiste perché frammentata inmille luoghi, mille campanili, mille famiglie. È uno scritto in-trecciato tra l’ironia e l’impegno, che prende lo spunto da unlibro del suo amico Antonio Baldini, massimo esponente diquel movimento letterario che fu chiamato “La Ronda”.

I MIEI AMICI A TAVOLA

Un giorno scriverò forse un capitolo di ricordi intitolato: “Imiei amici a tavola”. Non sognò una volta Antonio Baldini

di essere nominato Papa e di distribuire porpore cardinalizie eprebende ai suoi amici della “Ronda” o dei dintorni? Entravanoal suo seguito, in Vaticano, Armando Spadini e Goffredo Bel-lonci, Bruno Barilli - per cui Papa Melafumo faceva costruireaddirittura un teatro d’opera nei giardini vaticani - ed EmilioCecchi, che avrebbe dovuto collaborare alla buona stesura let-teraria di certe encicliche da far “rincitrullire il mondo…”. Ec’era anche lo scrittore e giornalista mantovano Adone Nosari,nativo, per esser precisi, di Gonzaga, in gioventù dilettante do-matore di leoni e pioniere dell’aviazione morto due o tre annior sono, lontano dalla patria, in Argentina, con il cuore gonfio

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chi, un cacciucco alla livornese per Dario Niccodemi; delle “va-lenciennes” per Bruno Barilli; delle luganeghe trevigiane perGiovanni Comisso, cappelletti in brodo di cappone per AlfredoTestoni; risi e bisi per Ferruccio Benini che me li rivelòquand’ero fanciullo; tre etti di peperoni sott’aceto per il pittoreGuido Tallone, che continua a mangiarne durante tutto il pasto,mattina e sera.

ORIO VERGANI

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per le nostalgie di Roma e di Gonzaga. A lui Papa Baldini asse-gnava il comando delle Guardie Pontificie...

Perché, mettendomi una volta tanto a capotavola in un im-maginario convito, non dovrei io distribuire buoni bocconciniinvece che cappelli cardinalizi ai miei buoni amici - qualcunopurtroppo vivo ormai solamente nella memoria - oggi che sullamia scrivania è venuta a deporsi quella che potremmo chiama-re l’edizione nazionale dell’Artusi, che insegnò a ben cucinarealle nostre nonne e alle nostre mamme?

Per Riccardo Bacchelli raccomanderei al cuoco, di buonmattino, di approntare per la colazione un paio di fegatelli dimaiale con la “rete”, seguiti da una costata alla fiorentina, altadue dita e che trabocchi abbondantemente dal piatto, senza di-menticare di collocare, accanto al piatto stesso, quel coltelluc-cio aguzzo e ben affilato che in Toscana si usa per scarnire l’os-so là dove ci sono i bocconcini più ghiotti.

Per Giuseppe Novello, pittore, suggerirei al cuoco almenodue o tre torte, perché so come il “signore di buona famiglia”sia ghiotto, quasi fanciullescamente, di dolci; senza dimentica-re, per lui, un pan di miglio e una tazza di panna come s’usa nelsuo paese, a Codogno, patria di meravigliosi latticini.

Per Marino Moretti, conteso fra i brodetti di Cesenatico, i tor-tini di carciofo fiorentini e la soupe à l’oignon parigina, fareipreparare una piada romagnola; per Giuseppe Ravegnani ferra-rese una salama da sugo, di quelle che maturano per sei mesisotto la cenere; per Luigi Pirandello - mai conobbi uomo piùfrugale di lui - due uova all’olio, di quelle che in Toscana sichiamano “all’occhio”; “cime” di cicoria romana, candide e ar-ricciate, raccolte sotto gli archi dell’acquedotto romano di Clau-dio per Ugo Ojetti, che di primavera se ne faceva arrivare ognigiorno un cestino al Salviatino.

Dolci gravidi di aromi, quasi orientali, per Giorgio de Chiri-co, zamponi di Telesforo Fini modenese per Mario Vellani Mar-

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derot, che ne comunicava l’indirizzo in una lettera ad un’amica,lamentandosi, però, perché il brodo di Mr. Boulanger era moltocaro.

Con la nascita del primo restaurant nasce dunque anche ilprimo cliente esigente e che scruta attentamente il conto. Ilfrancese ama, elogia, onora e premia i suoi restaurants, ma nonvuole andare incontro a dei “coups de fusil”. Fra cliente e tratto-re deve essere rispettato un onesto patto commerciale. A tavolail francese si concede, sì, un’ora di oblio, ma al “risveglio” delconto il suo cervello funziona con una lucidità cartesiana. Nona caso uno dei maggiori filosofi francesi ed uno dei maggioripoeti, Pascal e Paul Valery, erano due grandi matematici. Il ga-stronomo francese può aver girato a lungo nei più complessi la-birinti della gourmandise: non ne avrà mai, alla fine, quella spe-cie di capogiro che di solito vieta all’italiano di verificare il con-to. È ciò che osservo, dal mio silenzioso tavolino di vagabondodella gastronomia e, per dirla alla francese - non oso tradurre laparola così sapiente usata dai trattatisti francesi - di “culino-graphe” solitario.

Soprattutto se, accanto a me, siedono due amiche - di solitosi tratta di amiche non più nel fiore dell’età - si comprende im-mediatamente che esse, le grandi e anche minori ricette le co-noscono perfettamente. Le conoscono per tradizione: ne conso-lidano la conoscenza attraverso la lettura di una editoria gastro-nomica che ogni anno sforna almeno una cinquantina di volu-mi. Non si tratta di opere destinate ad essere inviate in dono adun vecchio zio ghiottone, o ad una nonna provinciale nota infamiglia per i suoi sformati. Si tratta di volumi che i librai espon-gono ai posti d’onore, accanto a quelli della Pléiade o del nuo-vo Prix Goncourt.

Non sono destinati agli chefs de cuisine o alle cuoche: ma aquelle che chiameremo cuoche “du dimanche” dilettanti di cu-cina come il doganiere Rousseau lo era di pittura. Si comincia

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Nel decimo anniversario della scomparsa di Orio Vergani,nell’aprile 1970, Massimo Alberini (in quel tempo direttore re-sponsabile del “Notiziario” dell’Accademia) volle che, in apertu-ra di quel fascicolo, comparisse l’ultimo articolo di carattere ga-stronomico di Orio Vergani apparso sul “Corriere della Sera” il15 marzo 1960, tre settimane prima della sua morte. È impor-tante riproporre oggi quello scritto nella sua parte centrale, incui Orio Vergani, parlando della cucina francese illustra anchei pregi e i difetti, le virtù e le insufficienze della cucina italianadi quegli anni. Da allora è trascorso un mezzo secolo ma que-sta analisi non ha perduto nulla della sua spiccata attualità.

FILOSOFIA E LETTERATURA

Il primo restaurant parigino fu aperto nel 1765 da un certoBoulanger, che non era affatto un fornaio, ma una specie di

pittoresco ribaldo, con spada al fianco e aria giovialissima, chesi offriva come guida ai viaggiatori e che finiva a guidarli versola sua bettola, in Rue de Poulies, vicino al Louvre. Là egli prepa-rava, secondo la ricetta del medico Clarens - in seguito, per ra-gioni commerciali, molto semplificata - un bouillon, una zuppacomposta di carni di selvaggina e di carne tritata di bue, che ve-niva passata ad un filtro aromatizzandola con un infuso d’orzo,di petali di rose appassite e di uva di Damasco. Dato il “tipoBoulanger”, sospetto ch’egli, sottovoce, vantasse, di quel bouil-lon, arcani poteri afrodisiaci. Due anni dopo egli aveva uncliente molto famoso nella storia letteraria e molto pignolo, Di-

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“Non siate egoista... Pensate ai vostri compagni di tavola... Voi,con l’odore della vostra sigaretta, rubate loro un po’ del profu-mo di ciò che stanno mangiando...” - e, se non fumo, leggo perpopolare il mio inevitabile mutismo di viaggiatore. Aspettandoun canapé d’écrevisses sfogliavo un volume sull’Art des mets diFrancis Anumategui, in un capitolo dedicato all’escalope mila-naise. “Bonaparte l’ha sempre mangiate durante la campagnad’Italia, e per offrirgli qualcosa di meno consueto il suo cuocogli improvvisò un “pollo alla Marengo”; l’hanno mangiato LordByron e Stendhal, Barrés e Anatole France e gli innumerevoli“amanti di Venezia” e tutte le vedove in viaggio autunnale suilaghi”. E poi seguiva questa lucidissima osservazione: “I Paesiche sono stati spesso dei campi di battaglia non hanno mai avu-to tempo di dedicarsi ad una cucina accurata. Essi sono allamercè delle invasioni. Il nemico può arrivare da un momentoall’altro, e mangia ciò che era stato preparato con tanta attenzio-ne per denti ben diversi. La cucina del Nord e dell’Est dellaFrancia, sulla via delle invasioni, è molto più improvvisata diquella che comincia al Sud della Loira. La Russia ha potuto de-dicarsi in tutta tranquillità alle sue cotolette Pojarski e al Bue al-la Stroganov”.

Storia e Letteratura sono, dunque, le buone invisibili compa-gne di mensa, mentre aspetto un conto che, da buon italiano,troverò molto “signorile” di non controllare: con una indifferen-za che ha origini spagnolesche. E penso a Marcel Proust la cui“Recherche du temps perdu” è suggerita dal sapore di un bi-scottino, tanto per dimostrare che anche le vie del palato posso-no essere quelle della poesia.

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con i solenni volumi del Larousse - un supplemento gastrono-mico della Treccani indignerebbe gli italiani - per arrivare aimanualetti, centinaia ogni anno, che occhieggiano nel cassettodi cucina della buona massaia. Una “prima” edizione di BrillatSavarin costa assai più, in antiquariato, che non in Italia un’edi-zione cinquecentesca della “Divina Commedia”. Ma la grandeeditoria “sforna” volumi che non sono solamente fastosi, madottissimi, sollevando anche i più oscuri piatti provinciali alruolo di rappresentanti della grande Cucina Francese, che è tut-ta francese, e non solamente “parisienne”. Anche per chi è emi-grato a Parigi l’attaccamento alla cucina regionale resta fortissi-mo: e questo è forse il solo caso in cui non si riconosca un dirit-to di Parigi alla dittatura e in cui anche il modesto villaggio nonsi sottomette alle leggi della Capitale. È il modo perfetto per di-fendersi dall’anonimato e dal male inteso cosmopolitismo. C’èuna “Ecole de Paris” in pittura: ma, in fatto di cucina, no, anchese Parigi riuscirà con il suo gigantesco afflusso turistico a ex-ploiter i repertori gastronomici che chiameremo dialettali. Perquesto la “grande cucina” rimane sostanzialmente quella di pro-vincia, dove si vive meno in fretta e dove la tradizione e il ri-spetto della piacevole intimità familiare sono una legge per unasocietà che venera i suoi classici in libreria e le salse della non-na in cucina.

Filosofia, letteratura, amore per l’aneddoto e per la storia,per l’esattezza del “piatto documentario” e per onestà della ma-teria prima - siamo in un Paese che dispone di un’agricolturaricchissima e attentissima - si fondono nella cultura gastronomi-ca di un Paese dove l’ultima opera di Alessandro Dumas fu uncolossale libro di cucina, che ebbe come revisore editorialeAnatole France e per la cui ultima ristampa ha voluto scrivere laprefazione Maurois.

Come tutti i “culinographe” solitari, mangiando io fumo - lacosa mi fu criticata da uno dei più sapienti gastronomi di Parigi:

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nale, l’eminenza grigia, e il ragazzo di diciotto anni il “tappabu-chi”. Pirandello, Rosso, Tozzi han fatto l’orecchio al mio stranomodo di parlare, e cioè di non parlare. Quando non riesco aspicciare una parola Rosso mi dice: “Canta! Quando si cantanon si balbetta...”. Pirandello, invece, consiglia: “Recita... Di’ leparole di un altro. Quello che si emoziona e si impunta ad ogniparola sei tu, il ragazzo timido, lo scolaro impreparato... Pensadi essere un altro: uno degli altri che sono in te, o che gli altripossono credere che tu sia. Cosa ti importa, dell’altro? Cheemozione possono darti le emozioni di quell’altro che è in te,ma che non sei tu? Filerai come una locomotiva...”. Pirandelli-smo applicato alla balbuzie di un ragazzo che tutti i mesi dove-va portare novanta lire a casa.

Davanti alla bozza che “cresceva” di cento righe, Pirandello,disse: “Non possiamo «tagliare» noi cento righe a un articolo diGiovanni Gentile. Bisogna che Vergani vada a casa sua, che glispieghi, che preghi, con un po’ di tatto... Come si fa a chiedereun taglio di queste proporzioni? Non possiamo mica farglielodire da un fattorino! Vergani gli spiega, va e viene...”.

In tram, con la fronte imperlata di sudore, immaginai tutte lepossibili domande di una specie di interrogatorio, da parte delfilosofo, al ragazzo che al primo esame di filosofia era stato boc-ciato e aveva interrotto gli studi: “Bravo! - mi avrebbe detto -.Così giovane e già redattore di un settimanale letterario!”. Unuomo simile, il Grande Saggio, aveva certamente passato la suavita fra i “primi della classe”. Come avrei potuto nascondere cheio ero stato l’ultimo, forse l’ultimissimo? Mi pareva di andare aun terribile esame: e dietro all’uscio, forse, origliava BenedettoCroce. E se, a bruciapelo, avesse detto: “Caro ragazzo parliamoun po’ di Kant e di Fichte?”. La gente che era con me in tramnon capiva certamente perché quel ragazzo era così pallido.

Mi ricordai del consiglio di Pirandello: “Recita. Le tue parolenon riesci a spiccicarle? Di’ quelle di un altro...”. Il miglior partito

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Orio Vergani indulgeva a scrivere di sé stesso in forma scanzo-nata e disinvolta, quasi a rendere meno amari i ricordi nonsempre felici ma, evidentemente, metabolizzati nella sua men-te fertile ed ingegnosa. Un chiaro esempio di questo modo volu-tamente leggero di interpretare fatti ed episodi è il racconto diun giovanissimo Vergani alle prese con i primi scogli di unaprofessione che doveva poi percorrere alla grande per tutta lavita. La prosa scorre lieve, talvolta ironica, fino alla fine,quando commenta con parole secche ed amare la morte del fi-losofo Giovanni Gentile. In cui non mancano la battuta ironi-ca, il colpo del maestro.

ALLA TAVOLA DEL FILOSOFO

Cattivo scolaro, ragazzo balbuziente, diciottenne timido epronto a passare dalle vampe del rossore a tremanti pallori,

ritrovo attorno a questo personaggio né carne né pesce la Ro-ma del 1917, la tipografia del vecchio “Messaggero”, lo stanzinoambiziosamente chiamato sala di redazione del “Messaggerodella Domenica”: una scala buia dove incontrai per la primavolta Luigi Pirandello; e, sulla stessa scala buia, una signora chescendeva lenta lenta, e che mi sembrava vecchissima: GraziaDeledda. Due tavolini, e due redattori: Rosso di San Secondo,nevrastenico, e Federico Tozzi, melanconico e rissoso. E io inmezzo, balbuziente e senza tavolino, a fare, fra i due, da cusci-netto, penetrato non so come, con novanta lire mensili di sti-pendio, nella Repubblica delle Lettere. Pirandello è, del settima-

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zione. Al tocco del campanello ogni voce si spense: ogni segnodi vita si incenerì. Quel silenzio faceva pensare a un coro disguardi che si domandavano: “Chi sarà mai a quest’ora?”. Dietroall’uscio un orologio a pendolo suonò il tocco e mezzo, comeper dire: “Importuno!”. Una donnetta aprì, e dietro a lei, nell’an-ticamera buia, mi sembrò di intravedere su una soglia un ragaz-zotto curioso.

- Bozze del “Messaggero”, disse la voce dell’immaginario fat-torino.

- Il professore sta mangiando...- Gli dica che c’è da tagliare cento righe.- Cento righe?- Sì. Cento righe.In quel silenzio le parole di questo modestissimo dialogo

suonavano come in un teatro.- Il professore è a colazione.- Cento righe... Stanno impaginando.Dalla porta a vetri del fondo socchiusa che custodiva quel si-

lenzio sepolcrale, una voce disse: “Fai venire avanti!”.Era una stanza da pranzo, dai mobili assai modesti e, nel con-

troluce che veniva dalla finestra aperta sull’estate romana, io nonavevo mai veduto tanti ragazzi seduti a tavola, né mai tanti occhicuriosi e sospettosi: una specie di collegio che dice: “Chi è co-stui?”. A capotavola stava il professore, alto e massiccio, che an-dava scodellando la minestra per i suoi figli. I più grandi passava-no le fondine ai più piccolini e, inserendo il suo gesto in tuttoquel girotondo di piatti, la madre di quei ragazzi, in pari tempo,compiva la prima distribuzione del pane. Al mio apparire, quellagiostra - scodelle, fette di pane, cucchiai già branditi - si fermò. Iomostrai da lontano i fogli delle bozze. Li prese il primo ragazzo: lipassò a un secondo, e questo al terzo, e il terzo al quarto, e intan-to quelli dell’altro lato della tavola guardavano con nerissimi oc-chi un po’ le bozze, un po’ me, un po’ la zuppiera della minestra.

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era proprio quello di recitare la parte del fattorino. A un fattorinonon si parla di Kant. Un fattorino lo si fa aspettare in anticamera.Mi sentii come liberato da una grossa pietra. Tirai il fiato.

Era estate. Era passato di qualche minuto il tocco. Pensavo:“Magari starà mangiando, Giovanni Gentile... Mi farà aspettare.Anche i filosofi hanno diritto di mangiare in pace...”. Via Pale-stro era una brutta strada, una delle strade “torinesi” di Roma:casoni dalle facciate giallicce, immensi, squallidamente austeri eanonimi come ministeri. Trovato il numero, presi il fiato, guar-dai nell’atrio buio, mi volsi verso il gabbiotto vetrato della por-tiera, dissi a me stesso: “Non tartagliare! Fai subito la voce delfattorino...”. Cominciava la povera recita del ragazzo timido.Dovevo prendere a modello una voce. Pensai alle grosse vociromanesche dei postini delle raccomandate, dei garzoni dei pa-nettieri, dei lattai, dei ragazzi della macelleria per i quali i nomianche più illustri sono come un numero anonimo. Domandai:“Gentile?”.

Senza alzar gli occhi dal suo tavolo la portiera rispose:“Terzo!”.

Ecco la scala, e con la scala il batticuore aumenta, il batticuo-re del timido che recita la parte del fattorino e che, a ogni gradi-no, sente avvicinarsi l’istante in cui entrerà in scena. Ecco la sca-la vasta, sparsa qua e là di lievi ragnatele, le porte chiuse comeostilmente, i gradini grigi, le ringhiere di ghisa, un lucernario li-vido e un odor di minestra di verdura che filtra sotto gli usci:“Fantasia - dice una voce -, fantasia di ragazzo; l’avevi immagi-nata così la scala di un grande filosofo?”.

Di là dall’uscio del terzo piano - non si può sbagliare: sullatarghetta di ferro smaltato è scritto: “Gentile” - non si udivano,in verità, filosofici silenzi, ma uno strano tramestio, un rimesco-lio indistinto di voci e di rumori, una specie di infantile cagnara,come si diceva allora a Roma: voci un po’ grosse di ragazzi epiù acute di ragazzini; una specie di scuoletta durante la ricrea-

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mente, pensando a cose lontanissime dalle quali ogni tanto“riapprodava” con un sorriso alla nostra realtà di ragazzi fameli-ci. Venne la carne, e poi venne la frutta, e intanto il taglio dellecento righe era finito, e mi ero pulito la bocca col tovagliolo eavevo preso le bozze, e non toccavo la frutta. Erano delle pe-sche: contate giuste per quanti erano a tavola prima di me.

- Non prendi la frutta?Indovinò forse il mio imbarazzo. Dal suo posto contò le pe-

sche. Disse: “Per mia moglie e per me ne basta una. Non farcomplimenti”.

- Devo correre al giornale.- Te la mangerai per le scale.Quando seppi come era stato ucciso, ricordai quella lontana

giornata d’estate, il branco dei ragazzi, la minestra brodosa,rinforzata di tanto pane. Ricordai quando ero stato “fattorino”alla sua tavola familiare: la mano, che assieme alle bozze, met-teva quasi con forza affettuosa, nella mia, la pesca. Non avreimai più potuto ringraziarlo di quel posto dato a tavola a unosconosciuto, di quella lezione di umanità, più chiara di ogni fi-losofia. Ma ogni volta che mi tocca di tagliare una bozza, dicofra me: “Grazie, Gentile...”.

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- Ci sarebbe - dissi - da tagliare cento righe.- Mi dispiace che devi aspettare. Anche per te deve essere

l’ora di mangiare. Vuoi andare a casa e tornare? Abiti lontano?- In Prati.- In Prati? Attraversare due volte tutta Roma... Quanti anni

hai?- Diciotto.- Beh! A diciotto anni non si può stare a stomaco vuoto. Vuoi

mangiare qui?Pensai: “Adesso finisco in cucina con la serva...”. Dissi: “Gra-

zie, non voglio disturbare”.- Lo vuoi o non lo vuoi un piatto di minestra? Non farai com-

plimenti - continuò Gentile -. Ragazzi, stringetevi un po’, e unovada a cercare una sedia. Come sei venuto. In bicicletta?

- No. In tram.- Il giornale non vi passa la bicicletta?- No. Così risparmiamo che ce la rubino.Mi pareva un miracolo. Non tartagliavo. Il “fattorino” se la

cavava benissimo, come aveva detto Pirandello. Parlava tran-quillo davanti a quell’uomo che aspettava di scodellare un piat-to di minestra. La sedia arrivò portata in aria dal ragazzo piùpiccino. I posti si strinsero, e a me toccò quello in fondo, accan-to alla madre di tutti quei ragazzi, che mi passò subito il pane.Arrivò poi di laggiù, sbrodolando un po’, una fondina un po’troppo colma e mi sembrò che i ragazzi, mentre la passavano,la guardassero e la misurassero perché ero stato servito megliodi tutti. Era una minestra paesana, un po’ brodosa; i ragazzi la“rinforzavano” con il pane. E così feci anch’io, perché insommaera proprio vero ch’io ero di poco, di poco più grande di queiragazzi. Il professore, laggiù, non parlava più: su un angolo del-la tovaglia s’era già messo a lavorare alle bozze prendendo ognitanto un cucchiaio di minestra, e guardando un po’ verso noiragazzi, verso i figli e verso il fattorino ch’ero io ma, evidente-

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Lo scenario era quello di un vero congresso. C’era un tavolodella presidenza, c’era una “tribuna dei Fondatori”, c’erano i ta-voli delle varie Delegazioni, come all’ONU, e davanti ad ognicongressista il cartello con il nome delle regioni rappresentatedalle varie Delegazioni. La cornice era quella di un salone all’ul-timo piano del Grattacielo di Genova, con le finestre che inqua-dravano il panorama dei colli e quello del porto e l’azzurro sce-nario del mare. Sui tavoli nemmeno un piattino, salvo quelli deiposacenere: non forchette, ma penne stilografiche, non menu,ma taccuini di note per affrontare i vari dibattiti.

Non si è visto nemmeno un caffè e nemmeno un aperitivo.Chi avesse guardato stando di là dai vetri, nel vedere quellapensosa assise di uomini fra i quaranta e i settantant’anni, a tut-to avrebbe pensato fuorché ad un raduno di buongustai. C’era-no - possiamo dirlo - un discendente dei dogi e persino il di-scendente di un santo; un insigne professore di ingegneria, ter-rore, probabilmente, degli studenti del Politecnico milanese; ilpreside di una delle facoltà più importanti dell’Università di Ro-ma, studiosi d’arte e di storia, eruditi topi di biblioteca, archeo-logi, un bibliofilo che ha al proprio attivo ben settantacinquevolumi di storia del libro, l’organizzatore della più grande fierad’Italia, il capo della più grande associazione turistica italiana,direttori di giornali, “principi del foro”, elzeviristi con decine dimigliaia di articoli alle spalle, capitani della grande industria na-vale. Di cosa parlavano, così animatamente, dietro ai cristallidell’ultimo piano del Grattacielo di Genova?

L’Accademia Italiana della Cucina è nata nella patria del ri-sotto e del panettone, ma è nata subito con criteri interregionali.È nata a Milano, ma ha invitato i genovesi a difendere il “pesto”e la “torta pasqualina”, i veneti a difendere i “risi e bisi”, i napo-letani a difendere la pizza e la mozzarella, i romani a difenderel’abbacchio, le “cime di rapa” e la “coda alla vaccinara”. Com-posta da gente che ha girato tutto il mondo, ha invitato gli Acca-

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La seconda Assemblea dei Delegati dell’Accademia, svoltasi aGenova nel 1957, ebbe sul “Corriere della Sera” un cronistaeccezionale, e per due eccellenti motivi. Infatti l’autore dellacronaca apparsa sul “Corriere” con notevole risalto era OrioVergani, che era giornalista insigne e aveva in più, come os-servatorio privilegiato, la poltrona di Presidente dell’Accade-mia. Di quella cronaca riportiamo tutta la prima parte, chepossiamo definire “programmatica”, tralasciando il nudo reso-conto necessariamente legato all’attualità. Ma la parte qui ri-prodotta è degna di entrare nella storia dell’Accademia.

I GASTRONOMI AL LAVORO

Si può parlare o no di “gastronomi al lavoro”? O non è consi-gliabile accostare il nome di “lavoro”, che implica un con-

cetto di fatica, al nome di “gastronomia”, da cui la fatica sembratanto lontana? Il cronista che è venuto a Genova a pedinare ipiù famosi gastronomi d’Italia - si parla addirittura di sacerdoti edi missionari dell’arte di mangiar bene - non sa come risponde-re a questi interrogativi. Nel congresso - il secondo congressonazionale - degli Accademici della Cucina Italiana, tali quesiti fi-losofici sono stati esclusi dall’ordine del giorno che elencava ivari argomenti in discussione. Ma si può parlare di “lavori”, per-ché il congresso ha “lavorato” e abbastanza lungamente e moltointensamente, non solamente con il cucchiaio e con la forchet-ta, durante tutta la giornata. Otto ore di discussioni e di votazio-ni non sono poche.

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per la tutela della cucina nostrana erano, nelle abitudini quoti-diane, dei mangiatori assai modesti che non rinnovavano leprodezze di Gargantua e Pantagruel.

Più che “forchette gigantesche”, erano forchettine sapienti,assaggiatori e spilluzzicatori più che divoratori che per primacosa slacciano al riparo della tovaglia il primo bottone dei pan-taloni. Gente più di tavolini che di tavola, hanno pensato a rac-cogliere per prima cosa lo schedario delle ricette tipiche regio-nali, che pare siano più di duemila. Intanto essi facevano, a for-za di cartoline postali, il censimento e la valutazione “critica”delle trattorie d’ogni regione, e preparavano così la prima guidadei “locali” italiani, passati al vaglio di una critica che non tieneconto tanto della valentia dei seguaci dell’Escoffier quanto diquella del “cuoco all’italiana”, che non arrossisce a parlar difoiolo o di bagna cauda invece che di julienne o di épinards à lacrème, di baccalà mantecato invece che di sôle à la meunière.

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demici a radunarsi per difendere proprio il più stretto regionali-smo gastronomico. Dobbiamo parlare di battaglia nazionalisticae di schieramento contro l’Internazionale gastronomica domi-nata dalla “école de Paris” e dalle varie regioni francesi? Parlia-mo, piuttosto, di concetti federativi, con i quali ogni paese di-fende le proprie caratteristiche senza voler sopraffare quelle al-trui.

La buona cucina - lo sanno bene i francesi, e in genere tutti ipaesi dove il turismo è parte integrante del bilancio nazionale -non vale meno di un bel paesaggio, o di un campo di neve pergli sport invernali, o di una mattinata di sole a Capri o in Versi-lia. La buona cucina, non corrotta dal volapük dell’internazio-nalismo dei rapidi tegami, aiuta i popoli a intendersi. La bouilla-baisse per la Francia e la paella alla valenciana per la Spagnahanno sulla bilancia turistica il valore, per lo meno, di un buonaffresco o di un insigne rudere archeologico. Questo in sede divalorizzazione turistica. Ma c’è anche, nella buona cucina, tuttoun patrimonio di attenzioni morali e civili: l’affetto alla famiglia,al focolare, alla poesia delle tradizioni d’ogni città e d’ogni re-gione.

L’Accademia - nata da una noterella di viaggio di un cronistavagabondo che si stupì di trovare nel civilissimo Veneto came-rieri che gli offrivano cotolette alla milanese e che quasi si stupi-vano ch’egli fosse ansioso di assaggiare delle “luganeghe” diTreviso, mentre l’oste, che era di Conegliano, gli offriva frettolo-samente vini toscani e non vini del Piave - è nata in uno spiritodi volontariato, come nacque il glorioso Touring di Bertarelli. Isuoi primi archivi i fondatori li ebbero in tasca, con i taccuinidel lavoro. Tutto fu fatto con incontri fra amici, vincendo primadi tutto la diffidenza di chi, in questa nostra Italia un po’ “serio-sa”, dubitava forse della serietà di una iniziativa che pareva do-vesse inquadrare solamente dei gaudenti e dei buontemponi. Inrealtà si venne a scoprire che questi vessilliferi della battaglia

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poter contare su quella “compensazione” e non ci ribellavamoa quel “primo” pervicacemente cementizio.

Erano gli anni dell’inoltrato dopoguerra e di un miracoloeconomico agli albori. Dopo tanta fame, la felicità di Orio se-nior era di vedere i suoi ragazzi mangiare, di portarci al risto-rante. Ma, in quella stagione, la gastronomia milanese pagavaun forte pedaggio alla cucina toscana che dagli anni Venti mo-nopolizzava i ristoranti della città grazie alle dinastie dei Pepori,di Bice e Cesarina Mungai. Andavamo spesso al “Bagutta”, luo-go di trippe, di ribollita, di fagioli, ma non di risotti. La sublimedelizia del riso al salto e all’onda invase il nostro palato e la no-stra giovanile ingordigia solo dopo l’approdo al “Biffi Scala”,dove lo chef Alfredo Valli (oggi è al “Gran San Bernardo” di Mi-lano, il pontefice del culto gastronomico meneghino) saziava lagran fame della “divina”, di Maria Callas: Camilla Cederna la vi-de papparsi due risotti al salto, mezzo pollastrello ai ferri, unagamba d’anatra bollita, una scodella di peverada veronese, frut-ta e panettone.

Solo allora potemmo misurare tutta l’ignominia del “cemen-to” casalingo. Era (ed è) il “salto” di Alfredo, basso, croccante,ma non duro di chicchi, non unto. Era (ed è) come quando ilmare s’avvalla e poi rimonta, l’onda del “mantecato”.

Fu allora che scoprii i portenti del risotto. Il “Biffi” e, via via,la “Brasera meneghina” in via Circo (ahimè è ormai soltantomemoria) con il suo grande glicine, la “Trattoria milanese” deiVilla in via Santa Marta sono state le mie università risottare. Il“salto”, la “Brasera” lo cucinava tenendogli il “cuore” sottile, mamorbido. La “Milanese” lo serviva e lo serve più alto e soffice.Queste facoltà non mi hanno laureato. Del “salto” manco a par-larne: mi si è sempre frantumato nella padella. Quello “all’on-da” non mi viene malaccio. L’ho usato anche come arma di se-duzione e ha funzionato. Ma non bisogna dirlo a Giorgio Boccache, provetto cuoco, mi ha, tanti anni fa, maledetto per un risot-

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In questa gustosa rievocazione uno dei due figli di Orio Verga-ni, Guido (recentemente scomparso), parla della vita quotidia-na nella casa del grande giornalista, da cui traspare la filoso-fia del Fondatore dell’Accademia, secondo cui gli Accademici“nelle abitudini quotidiane sono dei mangiatori assai modesti,che non rinnovano certo le prodezze culinarie di Gargantua ePantagruel: forchettine sapienti, assaggiatori e spiluccatori piùche divoratori, gente più di tavolino che di tavola”.

IL RISOTTO DI CASA VERGANI

Acasa, nonostante l’aureola gastronomica di mio padre, fon-datore dell’Accademia Italiana della Cucina, e la nostra mi-

lanesità, il risotto arrivava invariabilmente scotto in tavola: pocozafferano, tritato di cipolle non ben soffritto e pallido, viscido,economia di burro, niente midollo, chicchi imbevuti sino a gon-fiarsi di un brodo melenso di dadi e aggrumati in una sorta di“palta” giallina. Ai fornelli mia madre badava poco e tirandovia, sia che ci stesse lei, sia che ci stesse la cameriera addestra-tissima non alla cucina ma alla polvere, alle pulizie, di cui lamamma era ossessivamente maniaca e per le quali passava lamattina a strofinare. Mio padre Orio era tanto conscio del quoti-diano disastro cucinario e tanto rassegnato che, ogni giorno,tornando dal “Corriere”, allungava il tragitto sino a una salume-ria di via Solferino o di via Turati e “metteva in tavola” qualcheleccornia, qualche antidoto allo squallore del risotto scotto edelle scaloppine al limone. Mio fratello Leo e io sapevamo di

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to che sapeva di fumo, di bruciato. Lo avevo cotto con tutti i cri-smi, mescolando e rimescolando nel brodo-brodo e aggiungen-do noci di burro per mantecarlo, ma lo avevo fatto dentro unapentola rastremata sul fondo. Errore imperdonabile. Il risottos’era “attaccato”, schifando Bocca e i commensali.

GUIDO VERGANI

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Quando, nel 1953, Orio Vergani fondando l’Accademia lan-ciò il celebre suo grido di dolore, “La cucina italiana muore”,auspicava che accanto ad una più coerente ed accorta gestio-ne della buona tavola sorgesse anche una precisa visione diuna buona cucina, intesa come luogo in cui la buona tavolanasce e si esprime. A Ferrara, circa vent’anni fa, per iniziativadell’Accademia e, soprattutto, degli Accademici ferraresi, il lo-cale Istituto professionale alberghiero prese il nome di OrioVergani, come riconoscimento della sua opera di promozione edivulgazione della civiltà della tavola nei suoi aspetti storici,culturali e pratici. Oggi questo Istituto vanta un’affluenzamassima in Italia, grazie al valore degli insegnanti, alla co-stante presenza dell’Accademia ma anche, e soprattutto, al for-te e intenso richiamo che il nome di Orio Vergani gli dà.

IL SUO NOME A UNA SCUOLA

All’ingresso dell’Istituto Professionale di Stato per i ServiziAlberghieri e della Ristorazione di Ferrara una targa in mar-

mo e bronzo celebra la dedica della scuola ad Orio Vergani, av-venuta nel 1993, con questa epigrafe dettata da Giovanni Nuvo-letti Perdomini, a quel tempo Presidente dell’Accademia: “OrioVergani - generoso fondatore - dell’Accademia Italiana dellaCucina - qui incita i giovani capaci e volonterosi - a difendere- un comune patrimonio di valori e cultura - garanzia - perun avvenire di civile convivenza - e benessere economico”.

L ’ I S T I T U T O “ O R I O V E R G A N I ” D I F E R R A R A

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mune di Ferrara e trasformato in ricovero; fu arricchito dalla co-struzione, nel 1608, dell’oratorio di Santa Margherita sull’attualevia de’ Romei, probabilmente su progetto dell’Aleotti. Con leleggi napoleoniche vennero soppressi il ricovero e l’oratorio e ilcomplesso fu trasformato in caserma. Nel 1831 un incendio de-vastò la chiesa, in quel tempo usata come magazzino, e quindisi decise una trasformazione radicale di tutto l’edificio, poi de-stinato in parte ad abitazione, in parte a caserma dei Vigili delFuoco e ad una scuola elementare. Nel 1926 l’edificio viene tra-sformato e adibito esclusivamente a scuola.

L’ultimo intervento di ristrutturazione risale a una trentina dianni or sono, puntando a recuperare il più possibile l’impiantotipologico dell’edificio, ripristinando le parti demolite, riportan-do alla luce affreschi e decori, cercando di collocarli in una de-gna sede per l’Istituto alberghiero, con sale di rappresentanza edi ricevimento. in modo particolare la sala in cui è collocato ilpregevole affresco “La flagellazione”. Sono stati restaurati i vec-chi soffitti lignei ricchi di decorazioni pittoriche, si è ricostruitala scala ed è stato ripristinato l’antico ingresso da via Sogari.

Nel palazzo sono state attrezzate una ventina di aule, un’in-fermeria, una palestra, laboratori di informatica, numerose salededicate alle esercitazioni pratiche di ricevimento, sala, bar, cu-cina. L’allestimento dei laboratori di cucina è stato realizzatonella parte già rimaneggiata nel 1913; sono stati ricavati spoglia-toi nel sottotetto senza alterare le altezze e la struttura ligneadella copertura.

Sono da ricordare alcune occasioni nelle quali l’Accademia el’Istituto “Orio Vergani” hanno realizzato comuni iniziative. Nel1997 e nel 1998 organizzarono, con il patrocinio del Comune diFerrara, due concorsi gastronomici intitolati a Orio Vergani, ri-servati a cuochi professionisti che dovevano realizzare piatti ap-partenenti alla cucina territoriale e tradizionale della zona diprovenienza. In entrambe le occasioni le gare riscossero grande

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La cerimonia si tenne il 3 aprile 1993, alla presenza delle au-torità cittadine, del Presidente dell’Accademia, di Guido Verga-ni, figlio di Orio, di Giovanni Capnist Vice Presidente dell’Acca-demia, del Provveditore agli Studi prof. Inzerillo e di numerosiAccademici ferraresi che avevano promosso ed organizzatol’evento. La cerimonia fu completata con il saggio annuale deglialunni delle terze classi consistente in una esercitazione di cuci-na tradizionale ed internazionale con banchetto finale di altissi-mo livello.

Del successo della manifestazione è testimonianza quantodisse in quella circostanza Giovanni Nuvoletti Perdomini: “Untrionfo di quella gastronomia che ha fatto dell’alimentazioneuno dei piaceri più autentici della vita ed è necessario restaresulla strada della nostra cucina tradizionale, non solo per un fat-to di civiltà ma anche per difendere i nostri interessi, il nostropatrimonio storico e culturale”.

L’istituto ferrarese nacque nel 1985 come risposta ad unaprecisa e crescente domanda del territorio, imponendosi subitocome una consolidata realtà formativa, la cui importanza è an-data via via consolidandosi. Nell’ambito delle recenti grandiriforme a livello nazionale nel mondo dell’istruzione ha svoltocostantemente, e continua a svolgere, un ruolo di primo piano.Nel 2009 erano presenti nell’Istituto 486 alunni maschi e 433femmine, quasi un migliaio. Negli anni dal 1983 al 2009 la cre-scita è stata progressiva, in netta controtendenza rispetto al pa-norama nazionale in cui gli istituti professionali stanno vivendouna situazione di media flessione.

L’Istituto “Orio Vergani” ha sede in un prestigioso e storicoedificio ferrarese, il Palazzo Pendaglia, che prende il nome dallafamiglia che lo fece erigere nella prima metà del XV secolo supiccoli edifici preesistenti, inglobando anche una torre (l’attualeingresso da Via Sogari) facente parte della prima cinta murariadella città. Nel secolo XVII l’edificio venne acquistato dal Co-

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IL LETTERATO

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successo di partecipazione e di qualità. Collegati a quei concor-si furono anche effettuate due edizioni del premio “UmbertinoTravagli”, un personaggio ferrarese di grande spessore: cantan-te, suonatore di chitarra, attore, gastronomo, enologo raffinatoe titolare della trattoria “Vecchia chitarra”.

Fu anche realizzato dalla Delegazione ferrarese dell’Accade-mia, all’inizio degli anni 2000, presso l’Istituto, un corso di ag-giornamento intitolato: “Tra Scalchi e Cuochi: un viaggio gastro-nomico nella storia e nella tradizione di dieci regioni italiane”.Si è, inoltre, svolto, sempre nel Palazzo Pendaglia, un incontrodedicato alla “salamina da sugo”, specialità tipica della grandetradizione gastronomica ferrarese. L’avvenimento si sviluppòcon diverse relazioni sull’argomento, nel magnifico salone cen-trale. Al termine della parte culturale si passò a vari assaggi del-lo squisito piatto preparato ed accompagnato in vari modi dagliallievi di varie classi come esercitazione scolastica.

SEVERINO SANI

Vice Presidente Vicario dell’Accademia

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Le prime novelle del V., “L’acqua alla gola” (Milano 1921),tra le molte reminiscenze del Pirandello, del Tozzi, e in generedella narrativa provinciale e borghese, e sotto un realismo unpo’ di maniera, già rivelano un modo personale di guardare lecose, fatto di minuta e trepida attenzione, di sensuale tristezza;una immaginazione fervida e insieme delicata. Qualità che lesuccessive esperienze frammentiste, critico-liriche e “novecenti-ste”, con le quali il V. ha tentato di reagire a quanto di schemati-co e di eccessivamente corposo era nel suo iniziale realismo,hanno via via affinate; anche se nelle prose di “Soste del capo-giro” (Milano 1927) e di “Fantocci del carosello immobile” (ivi1927) e nel romanzo “Io, povero negro” (ivi 1929) egli cadespesso nell’opposto difetto dell’immaginismo barocco (arieg-giante quello del Gómez de la Serna) e del lirismo artificioso.Infine, nei racconti di “Domenica al mare (Milano-Roma 1931) enel romanzo “Levar del sole” (ivi 1933) il V. mostra di avereconseguito un suo felice modo narrativo che, provinciale e rea-listico ancora di spunti e di particolari, è piuttosto inteso a crea-re intorno alle cose evocate un’atmosfera di lirica suggestione,che non a dare tutto rilievo ai caratteri e all’azione; una prosamossa, nitida e pur sensibile all’incanto melodico.

Altre opere del V.: “Il cammino sulle acque”, dramma (Milano1927), dove artisticamente vive sono alcune notazioni di statid’animo, certo delicato giuoco di sensazioni; “Asso piglia tutto”,novelle (Roma 1927); e “Il Mediterraneo” (Novara 1931), “45°all’ombra” (Milano 1935), “Sotto i cieli d’Africa” (ivi 1935), “Rivaafricana” (ivi 1937), prose di viaggio e “servizî” giornalistici.

BIBL.: G. Ravegnani, I contemporanei, Torino 1930; A. Bo-celli, in N. Antologia, 16 marzo 1932 e 1° ottobre 1933; A. Mo-migliano, in “Corriere della sera”, 5 ottobre 1933; P. Pancrazi,“Scrittori italiani del Novecento (Bari 1934); E. Cecchi, in “Cor-riere della sera”, 19 agosto 1937.

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Orio Vergani entrò nel 1937, con una scheda piuttosto consi-stente, nella Enciclopedia Treccani, alla pagina 161 del 35°volume di quell’opera monumentale. Era la “Enciclopedia ita-liana di scienze, lettere ed arti”, autentico Olimpo della cultu-ra italiana, fondata nel 1925 dall’industriale ed editore Gio-vanni Treccani degli Alfieri. La preparazione fu lunga e nel1929 apparve il primo volume, pubblicato da un consorzio cheoltre a Treccani comprendeva gli editori Treves e Tumminelli.La direzione dell’opera venne affidata a Giovanni Gentile, filo-sofo e ministro dell’Educazione nazionale, autore di una im-portante riforma della scuola. Gentile fece collaborare all’enci-clopedia i più bei nomi della cultura, della scienza e dell’arte,compresi molti intellettuali antifascisti. Nel dopoguerra l’enci-clopedia venne costituita come Istituto per l’Enciclopedia Italia-na e proseguì in un ampia attività di carattere culturale, pub-blicando anche corposi supplementi e aggiornamenti. Nel 1997venne pubblicata una “Piccola Treccani” che conteneva unascheda su Orio Vergani, ridotta e ripetitiva delle precedenti edi-zioni. Qui di seguito riportiamo le schede apparse nell’edizionedel 1937 e nel terzo volume dell’Appendice (1961). Entrambe leschede sono state stilate da Arnaldo Bocelli.

LA PRIMA EDIZIONE

VERGANI, ORIO. - Scrittore, nato a Milano il 6 febbraio1899. Visse a lungo a Roma, dove entrò giovanissimo nel gior-nalismo. Dal 1926 è redattore del “Corriere della sera”.

N E L L A “ T R E C C A N I ”

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L’APPENDICE

VERGANI, ORIO. - Scrittore e giornalista, morto a Milano il6 aprile 1960.

Nell’ultimo ventennio, oltre ad innumerevoli corrisponden-ze, “servizî” e articoli scritti, con vena sempre estrosa, per il“Corriere della sera”, pubblicò due nuovi romanzi, nei qualiquel suo realismo dalle inflessioni fra deamicisiane e crepusco-lari, accentrandosi nella evocazione dell’adolescenza (“Recita incollegio”, Milano 1940), o di quella fanciullesca innocenza cheè al fondo anche dell’adulto più decaduto o corrotto (“Udienzaa porte chiuse”, ivi 1957), raggiunse toni di una delicata elegia.Pubblicò anche un volume di ricordi autobiografici e “cose vi-ste”, “Memorie di ieri mattina” (ivi 1958). Postuma è apparsa, acura dei figli Leonardo e Guido, una scelta dei suoi racconti(1920-1960), “Storie per quattro stagioni” (ivi 1961).

BIBL.: A. Bocelli, in Nuova Antologia (1 gennaio 1941) e in“Il Mondo” (13 marzo 1956); G. De Robertis, in “Tempo” (4 lu-glio 1957); E. Cecchi, “Libri nuovi e usati”, Napoli 1958; P. Mo-nelli in “Il Mondo” (19 aprile 1960); E. Montale, nel “Corrieredella sera” (5 maggio 1961); E. Falqui, “Novecento letterario”(Firenze 1961).

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La cosiddetta “repubblica delle lettere” si accorse forse un po’tardi del valore di Vergani, del suo ingegno e del suo grandespessore culturale. Forse perché egli aveva spaziato, oltre algiornalismo, in molti campi, dal teatro al romanzo, dal rac-conto alla critica, dalla musica alle belle arti. Ma il monumen-tale “Dizionario delle opere e dei personaggi”, notevole impresaculturale dell’editore Valentino Bompiani, nel secondo volumedella sua “ Appendice”, un aggiornamento uscito nel 1964, de-dica ampio spazio ad un volume di racconti di Vergani (“Sto-rie per quattro stagioni”), apparso postumo un anno dopo lasua morte e curato dai figli Leonardo e Guido. L’estensore diquesta “scheda”, passando in rassegna i singoli racconti delvolume, compie un esauriente e preciso esame della complessapersonalità di Orio Vergani e della sua innata capacità dinarratore. Un riconoscimento postumo, un’analisi del suo stilee della sua arte di narratore.

STORIE PER QUATTRO STAGIONI

Antologia di racconti di Orio Vergani (1899-1960), pubblica-to postumo a Milano nel 1961, già da lui predisposta e cu-

rata dai figli, è suddivisa in quattro “stagioni” decennali (1920-1960). Ogni racconto, scelto in una produzione notevole perampiezza, conserva la sua data in modo da poter essere collo-cato entro lo svolgimento di modi e interessi che furono dell’A.La prima impressione che dà Vergani è quella di un cronista,quasi di un naturalista, che accumula narrazioni e descrizioni

N E L D I Z I O N A R I O D E L L E O P E R E

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umana. Un altro racconto attuale (“L’assedio”) presenta due sin-golari personaggi: un Noé in veste moderna che intende salvar-si dal prossimo diluvio e uno strano tipo che ha il complessodell’assedio. Si notino le date delle due novelle, 1953 e 1955.Perché entrambe raffigurano senza dubbio la sensibilità di Ver-gani per l’angoscia dell’uomo d’oggi. A parte quello chenell’opera è convenzionale, un certo virtuosismo, un eccesso dicronaca più o meno mondana, non pochi racconti e pagine in-ducono nel lettore il rammarico che Vergani non abbia megliorealizzato, raccogliendosi in una direzione più rispondente alsuo talento, la vena di intimismo e di forza drammatica che pos-sedeva: quella vena che, va ricordato, ha dato così singolariprove nel romanzo “Udienza a porte chiuse (Milano 1957) sen-za contare poi la vena autobiografica di “Memorie di ieri matti-na” (1958), così ricche di nostalgia per il primo Novecento, perl’infanzia e la fanciullezza con i loro miti.

ARTAL MAZZOCCHI

In Dizionario letterario Bompiani (Appendice) 1964

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particolari, con una lingua copiosa e snodata che insegue ilmuoversi della realtà, rendendone tutto lo svariare di luci, colo-ri e penombre. Le cose sembrano perfino vivere per sé stesse,staccate da ogni riferimento umano, per esempio una dentiera(“pezzo di bocca, terribilmente anatomica, senza labbra e pala-to, che sbadigliava sul marmo tranquilla e solida…”) è descrittacome in un quadro di de Chirico. Oppure “le cose riempionotutto di sé con un’immensa presenza che inquieta ed esprime ilcuore degli uomini, come l’arrivo della primavera”. Ma questaimplacabilità del resoconto il più delle volte cede a un senso dipartecipazione umana, perché mentre coglie l’elemento antie-roico e il grigiore quotidiano, caratteristici temi del Verganimaggiore e più noto, manifesta la sua simpatia per gli sconfittidella vita, le anime rassegnate e opache, come quella del viag-giatore di pizzi che, nell’alberguccio di provincia, mentre la lucedel giorno muore, è percorso da desideri e malinconia. Un esilefilo di crepuscolarismo, dunque, passa attraverso molti drammisilenziosi all’interno dei quali l’arte del narratore scava senzaposa per osservare il moto della vita che si ferma e ristagna ediviene talvolta, improvvisamente, tragedia. Di questo sviluppoimprevisto e della capacità di esprimerlo artisticamente è indi-cativo il racconto “Sera d’agosto” sul tema dell’infedeltà coniu-gale e dell’uxoricidio, o delitto d’onore: Vergani non giudicaquesto fatto assurdo della convivenza umana, ma le sue conse-guenze: egli rappresenta due donne diverse e lontane fra loro,uccise dai mariti, lasciando soli i loro fanciulli. La crudezza dellanotazione anatomica, il giuoco della fantasia che più volte acca-rezza sensualmente il corpo femminile, giungono infine a unacoscienza della tragicità umana senza difesa di fronte alla vita.Questo tema è stato pure di Pirandello come inganno della vita;o anche di Rosso di San Secondo per ciò che è umano (“duemorte cose di carne”). L’accostamento decadente di amore emorte passa poi nell’affermazione della vanità della giustizia

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B I B L I O G R A F I A

UNO SCRITTORE INSTANCABILE

Una bibliografia completa di quanto Orio Vergani ha scritto èpressoché impossibile, difficile certo. È stato calcolato che egliabbia pubblicato oltre ventimila articoli su vari giornali ma esi-ste anche una miriade di prefazioni a libri altrui, di presenta-zioni per cataloghi di mostre d’arte, note e noterelle apparsequa e là che non è facile cercare, trovare e catalogare. Restanoi suoi libri, i suoi romanzi, i racconti, le commedie, le note diviaggio, le traduzioni pubblicate via via nel corso della sua vitadai maggiori editori italiani ma anche da alcuni minori, per-ché Orio Vergani non sapeva negarsi a nessuno. Molti suoi librihanno avuto diverse edizioni, segno del suo successo e dell’ap-prezzamento del suo pubblico. Qui riportiamo quanto rintrac-ciato da Lorena Gallina, curatrice della Biblioteca nazionaledell’Accademia intitolata a Giuseppe Dell’Osso, nella nostra bi-blioteca e nei cataloghi delle più importanti biblioteche italiane.

45° all’ombra: dalla Città del Capo al lago Tanganica, con disegni di Mario Vellani Marchi (1935) Milano, Treves

45° all’ombra: attraverso l’Africa dalla Città del Capo al Cairo (1958)45° all’ombra: dalla Città del Capo al lago Tanganica (1935) Milano, Treves45° all’ombra: dalla Città del Capo al lago Tanganica (1947), Milano, GarzantiAcqua alla gola (1921), raccontiAlfabeto del XX Secolo (a cura del figlio Guido), postumo, Baldini e Castoldi, MilanoAlice nel paese delle meraviglie (1955), traduzione dal testo inglese

di Dodgson Charles Lutwidge, Bologna, Casa Editrice Libraria Italiana

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Memorie di ieri mattina (1958), Milano, Rizzoli Moi, pauvre négre (1929), roman, adapté de l’italien par Emmanuel Audisio,

Parigi, GrassetNuvoletta rosa, commediaQuando Gabriele si innamorò (2005), postumo, TextusPiccolo viaggio in un archivio (1953), Milano, Ricordi Recita in collegio (1940, 1945, 1946, 1949 e 1956), romanzo, Milano, Garzanti Riva africana (1937), Milano, HoepliSette scalini azzurri (1953), con C. Silva e I. Terzoli, Torino, Soc. Ed. Torinese Settimana di Dublino - capitoli di un viaggio in brum da Milano a Venezia (1935),

Padova, RebellatoSettimana di Dublino (2001), postumo, ArchintoSoste del capogiro (1927), Milano, CorbaccioSoste del capogiro e altre fantasie (1942), Milano, Corbaccio Sotto i cieli d’Africa: dal Tanganica al Cairo (1935), Milano, Treves Sotto i cieli d’Africa: dal Tanganica al Cairo (1942), Milano, Rizzoli Storie per quattro stagioni (1961), a cura dei figli, postumo, Milano, Rizzoli Teatro milanese (1958), con Fortunato Rosti, Parma, Guanda

e Torino, Societa Editrice InternazionaleUdienza a porte chiuse (1957), romanzo, Milano, Mondadori Udienza a porte chiuse (1958), romanzo, Milano, Rizzoli Un giorno della vita (1942, 1945 e 1948), romanzo, Milano, Garzanti Vecchia editoria (1957), Milano Viaggio in un archivio (1953), Milano, Ricordi

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Arringhe celebri: da Demostene a Carnelutti (1959), Firenze, Vallecchi Asso piglia tutto (1927), Roma, Edizioni d’arte il Fauno Basso profondo ed altre fantasie (1939), con illustrazioni di Novello,

Milano, Garzanti già Fratelli TrevesBella Italia amate sponde (1930), Roma, Fondazione Nazionale Figli del Littorio Burano e la laguna veneta (1955), con disegni di Mario Vellani Marchi,

Milano, CeschinaCarosello di narratori italiani (a cura di), (1955 e 1958), Milano, Aldo MartelloDiario 1950-1955 (2003), a cura del figlio Leonardo, postumo,

Milano, Baldini e CastoldiDomenica al mare (1931 e 1933), racconto, Roma, Treves-Treccani-Tumminelli Fantocci del carosello immobile (1927), Milano, Corbaccio Festa di maggio: racconti e bozzetti sportivi (1940 e 1944), con disegni

di Mario Vellani Marchi, Torino, Società Editrice Internazionale Gli uomini dell’Italia odierna: Luigi Pirandello (1919)I redivivi dell’abisso (1942), con disegni di Vittorio Pisani,

Firenze, Vallecchi e Roma, Editoriale di propagandaIl banditore (1955), Milano, ElectaIl cammino sulle acque (1927), commedia in tre atti, Milano, TrevesIl duca d’Aosta (1942), Roma, NovissimaIl fratello ladro (1942), racconto, Firenze, Vallecchi Il Santo Vangelo di Nostro Signor Gesù Cristo secondo Luca (traduzione),

Milano, Fondazione FilaIl vecchio zio - Memorie di ieri mattina (1947), Milano, Garzanti Immagini d’Africa 1934-1938 (1993), postumo, BarbieriIo, povero negro (1929 e 1935), romanzo, Milano, Treves L’ arte e il convito (1957), Milano, Amilcare Pizzi La leggenda di Fausto Coppi, con Vittorio Notarnicola e Mario Oriani (1960),

Milano, Corriere della SeraLa ninfa addormentata (1945), Milano, Antonioli La via nera: viaggio in Etiopia da Massaua a Mogadiscio, Milano, TrevesLe due madri (1929), racconto, Libreria d’Italia Levar del sole (1933), romanzo, Roma, Treves-Treccani-Tumminelli Levar del sole (1935), romanzo, Milano, Treves Levar del sole (1957), romanzo, Milano, Rizzoli

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NEL NOME DEL FONDATORE

Nel 1984, in vista delle celebrazioni per i 25 anni dalla mortedi Orio Vergani, l’allora Presidente dell’Accademia, il conteGiovanni Nuvoletti Perdomini, ed il Segretario nazionaleFranco Marenghi vollero che la figura del Fondatore venissericordata anche con un premio intitolato a lui. Un premio cheunisse in sé i valori della letteratura e della gastronomia, desti-nato a segnalare quelle opere che, nel tempo, avrebbero segna-to delle tappe importanti nel cammino culturale dell’Accade-mia Italiana della Cucina. Il premio “Orio Vergani” ha unacadenza annua con qualche eccezione. Infatti il Consiglio diPresidenza ha la facoltà di non assegnare il premio qualoranon siano state presentate opere all’altezza dei suoi principiispiratori: la cultura e la civiltà della tavola. Qui di seguito,l’elenco dei premiati dal 1984 al 2009.

1984 I PREMIO - ex aequo Gianni MuraRenzo Dall’Ara

II PREMIO - ex aequo Fabiana MendiaVittorio Fasola

PREMIO SPECIALE G. Bertolino e L. Bruni

1986 I PREMIO Gianni CapnistII PREMIO - ex aequo Maria Rosa Schiaffino

Jacopo MarinoniMENZIONE SPECIALE Folco PortinariMENZIONE SPECIALE Emilio Faccioli

I L P R E M I O “ O R I O V E R G A N I ”

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2002 PREMIO UNICO Orlando Perera

2004 PREMIO UNICO Giancarlo Malacarne

2005 PREMIO UNICO Casa Editrice UTETTorino

2006 PREMIO June Di Schino DIPLOMA Ida Vigni

Paolo Aldo RossiDIPLOMA Gabriella Pantò

2007 PREMIO Claudio Benporat

2008 PREMIO UNICO - ex aequo Cetta BerardoJune Di SchinoFurio Luccichenti

2009 PREMIO UNICO - ex aequo Michele SalazarSergio Corbino

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1989 PREMIO UNICO - ex aequo Massimo MontanariErnesto PisoniClaudia Rodena

1990 PREMIO UNICO - ex aequo Antonio MarinoniIl Mattino di Padova

1991 I PREMIO Claudio BenporatII PREMIO - ex aequo Giovanni Goria

Ulderico BernardiIII PREMIO Emilio Montorfano

1992 PREMIO UNICO - ex aequo Mario ZannoniGian Paolo BiasinG. Mainardi e P. Berta

1993 PREMIO UNICO - ex aequo Massimo AlberiniJ. Carola FrancesconiMassimo Montanari

1994 PREMIO UNICO - ex aequo Maria Attilia Fabbri Dall’OglioVittorio AccardiFernando e Tina Raris

1995 PREMIO UNICO Fondation B.IN.G. - Ginevra

1996 PREMIO UNICO - ex aequo Aldo SantiniAnna Del Conte

1997 PREMIO UNICO - ex aequo Claudio BenporatGianni Secco

1998 PREMIO UNICO - ex aequo Mario De SimoneAngela RealeGiovanni Biadene

2000 PREMIO UNICO - ex aequo Marina Cepeda FuentesMinistero della Pubblica Istruzione IPSSAR “Orio Vergani” di Ferrara

2001 PREMIO UNICO Roberto Spinelli e Mariella Sandicchi

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I N D I C E

PRESENTAZIONE pagina 5(Giovanni Ballarini)

INTRODUZIONE 7(Gianni Franceschi)

L’UOMO E L’OPERA 13

Il ricordo di un poeta L’uomo e lo scrittore (Eugenio Montale) 14

Uno straordinario personaggio Scrisse migliaia di articoli (Giovanni Mosca) 22

La leggenda di OrioUn inviato molto speciale (Indro Montanelli) 27

Tra i protagonisti del “Corriere”1932: Orio Vergani 30

Vergani com’eraL’alfabeto del xx secolo (Nello Ajello) 33

Umanità di VerganiUn conversatore affascinante (Fausto M. Personé) 38

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IL GASTRONOMO 43

Un ritratto autenticoUn gentiluomo della buona tavola (Luigi Volpicelli) 44

Un profilo d’autoreChi era Vergani (Massimo Alberini) 49

Una navicella senza comandanteOrio ci ha lasciati (Ernesto Donà dalle Rose) 53

Il collezionista 56Nascita di una collezione 58Le antiche manifatture 59

Un richiamo culturaleSintesi di una passione (Marco Guarnaschelli Gotti) 60

PICCOLA ANTOLOGIA 63

L’ultimo scritto gastronomicoLa cucina romana 64

Ricordo di gioventùPiena di forza e di soavità 66

L’arte e il convitoLa morale di una mostra 71

Il convito idealeI miei amici a tavola 73

Le vie del palatoFilosofia e letteratura 76

Gli esordi nel giornalismoAlla tavola del filosofo 80

L’assemblea di GenovaI gastronomi al lavoro 86

Il ricordo del figlioIl risotto di Casa Vergani (Guido Vergani) 90

L’istituto “Orio Vergani” di FerraraIl suo nome a una scuola (Severino Sani) 93

IL LETTERATO 97

Nella “Treccani”La prima edizione 98L’appendice 100

Nel dizionario delle opereStorie per quattro stagioni (Artal Mazzocchi) 101

BibliografiaUno scrittore instancabile 105

Il premio “Orio Vergani”Nel nome del fondatore 109

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FINITO DI STAMPARENEL MESE DI MARZO 2010 PRESSO LA TIPOGRAFIA:

GRAFICA GIORGETTIVIA DI CERVARA 10, 00155 ROMA

QUESTO QUADERNO È STATO STAMPATOIN 10.000 COPIE FUORI COMMERCIO

RISERVATE AGLI ACCADEMICI DELLA CUCINA

Altri titoli pubblicati dall’Accademia Italiana della Cucina

GLI ITINERARI DI CULTURA GASTRONOMICA

L’ITALIA DEL PESCE

L’ITALIA DELL’ORTO

L’ITALIA DELLA CUCINA DEL MAIALE

L’ITALIA DELLA CUCINA DELL’AIA

v v v

LA COLLANA DI CULTURA GASTRONOMICA

CINQUANT’ANNI DI CULTURA E CIVILTÀ DELLA TAVOLAAutori vari

IL BUON GOVERNO DELLE COSE CHE SI MANGIANOdi Ulderico Bernardi

LA CREAZIONE DELLA CUCINAOrme biologiche nell’esperienza gastronomica

di Giovanni Ballarini

IL MARKETING DEL CONSUMATOREStrategie e strumenti delle scelte gastronomiche

di Gabriele Gasparro e Carlo Magni

IL FALSO IN TAVOLAUna mistificazione da conoscere e combattere

di Giovanni Ballarini e Paolo Petroni


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