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Identità e bellezza per propagandare la Fede. Fondazioni ...€¦ · Missioni, Fondazioni o più...

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Identità e bellezza per propagandare la Fede. Fondazioni, comunità, missioni Identity and beauty to propagate the Faith. Foundations, communities, missions RENATA PICONE, CARLO TOSCO Da secoli l’architettura ha svolto il ruolo di rappresentare agli occhi dei popoli la grandezza del divino. In un quadro multietnico e in riferimento alle plurime confessioni religiose, la sessione si propone di affrontare con le lenti proprie delle discipline storico-critiche e del restauro il tema, sia esaminandone gli esiti architettonici nei vari paesi, che approfondendo i rapporti culturali che sono alle spalle di tali architetture. Missioni, Fondazioni o più in generale Comunità religiose hanno generato delle vere e proprie enclave culturali in stretto contatto con i paesi d’origine, che hanno costituito per i luoghi di predicazione e proselitismo centri propulsori di idee, di culture artistiche e architettoniche, caratterizzando in senso fortemente identitario parti di città e territori. Riconoscere queste specificità e valori anche mediante un’attenta ri-lettura dei plurimi modi di percezione e raffigurazione di queste enclave religiose, nonché attraverso un’anamnesi diretta di ‘ciò che resta’ di questo patrimonio costituisce oggi un’interessante sfida di conoscenza nei confronti di questo tipo di ‘città altra’ e al tempo stesso il presupposto irrinunciabile per la sua conservazione e restauro. Si tratta di un patrimonio costruito che ha inciso fortemente nella caratterizzazione di paesaggi e territori, importando spesso da altrove schemi architettonici che si sono adeguati alle tradizioni costruttive ed ai materiali da costruzione locali: isole di bellezza e storia che conservano le fonti della tradizione e dell’identità urbana. Riconoscere tali specificità, ed essere in grado di trasmetterle al futuro è la sfida di un progetto di conoscenza e restauro capace di costruire sulla storia e sull’identità di questi luoghi, che è anche diversità, nuove opportunità di vita e ‘racconto’ alle generazioni a venire. For many centuries, architecture has played the role of representing the greatness of the divine in the eyes of people. In a multiethnic framework and in reference to multiple religious confessions, the session aims to deal with this theme, through the lenses of the historical- critical and the restoration disciplines, both by examining the architectural outcomes in the various countries, and by deepening the cultural relations behind these architectures. Missions, Foundations, or more generally Religious Communities have created real cultural enclaves in close contact with the countries of origin, which have realized, by preaching and proselytizing, centers of ideas, of artistic and architectural cultures, characterizing parts of cities and territories. Recognizing these specifics and values also through careful re-reading of the many ways of perceiving and depicting these religious enclaves, as well as through a direct history of what remains of this heritage is today an interesting challenge of knowledge of this kind of 'other city' and at the same time the necessary prerequisite for its preservation and restoration. It is a built heritage that has had a strong impact on the characterization of landscapes and territories, often importing architectural patterns from other parts of the country, which have adapted to traditional traditions of construction and local building materials: islands of beauty and history that preserve the sources of tradition and 'urban identity. Recognizing these specifics and being able to convey them to the future is the challenge of a project of knowledge and restoration capable of building on the history and
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Identità e bellezza per propagandare la Fede. Fondazioni, comunità, missioni

Identity and beauty to propagate the Faith. Foundations, communities, missions RENATA PICONE, CARLO TOSCO

Da secoli l’architettura ha svolto il ruolo di rappresentare agli occhi dei popoli la grandezza del divino. In un quadro multietnico e in riferimento alle plurime confessioni religiose, la sessione si propone di affrontare con le lenti proprie delle discipline storico-critiche e del restauro il tema, sia esaminandone gli esiti architettonici nei vari paesi, che approfondendo i rapporti culturali che sono alle spalle di tali architetture. Missioni, Fondazioni o più in generale Comunità religiose hanno generato delle vere e proprie enclave culturali in stretto contatto con i paesi d’origine, che hanno costituito per i luoghi di predicazione e proselitismo centri propulsori di idee, di culture artistiche e architettoniche, caratterizzando in senso fortemente identitario parti di città e territori. Riconoscere queste specificità e valori anche mediante un’attenta ri-lettura dei plurimi modi di percezione e raffigurazione di queste enclave religiose, nonché attraverso un’anamnesi diretta di ‘ciò che resta’ di questo patrimonio costituisce oggi un’interessante sfida di conoscenza nei confronti di questo tipo di ‘città altra’ e al tempo stesso il presupposto irrinunciabile per la sua conservazione e restauro. Si tratta di un patrimonio costruito che ha inciso fortemente nella caratterizzazione di paesaggi e territori, importando spesso da altrove schemi architettonici che si sono adeguati alle tradizioni costruttive ed ai materiali da costruzione locali: isole di bellezza e storia che conservano le fonti della tradizione e dell’identità urbana. Riconoscere tali specificità, ed essere in grado di trasmetterle al futuro è la sfida di un progetto di conoscenza e restauro capace di costruire sulla storia e sull’identità di questi luoghi, che è anche diversità, nuove opportunità di vita e ‘racconto’ alle generazioni a venire.

For many centuries, architecture has played the role of representing the greatness of the divine in the eyes of people. In a multiethnic framework and in reference to multiple religious confessions, the session aims to deal with this theme, through the lenses of the historical-critical and the restoration disciplines, both by examining the architectural outcomes in the various countries, and by deepening the cultural relations behind these architectures. Missions, Foundations, or more generally Religious Communities have created real cultural enclaves in close contact with the countries of origin, which have realized, by preaching and proselytizing, centers of ideas, of artistic and architectural cultures, characterizing parts of cities and territories. Recognizing these specifics and values also through careful re-reading of the many ways of perceiving and depicting these religious enclaves, as well as through a direct history of what remains of this heritage is today an interesting challenge of knowledge of this kind of 'other city' and at the same time the necessary prerequisite for its preservation and restoration. It is a built heritage that has had a strong impact on the characterization of landscapes and territories, often importing architectural patterns from other parts of the country, which have adapted to traditional traditions of construction and local building materials: islands of beauty and history that preserve the sources of tradition and 'urban identity. Recognizing these specifics and being able to convey them to the future is the challenge of a project of knowledge and restoration capable of building on the history and

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identity of these places, which is also diversity, new opportunities for life and 'story' for generations to come.

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Storia e immagine della diversità urbana: luoghi e paesaggi dei privilegi e del benessere, dell’isolamento, del disagio, della multiculturalità

 

Enclave culturali e religiose di una ‘città altra’ campana. La valorizzazione dei quartieri-città di Sessa Aurunca Cultural and religious enclave of a ‘other city’ in Campania. Sessa Aurunca’s districts-cities valorization LUIGI CAPPELLI Università degli Studi di Napoli Federico II Abstract Il contributo proposto intende affrontare la genesi, l’evoluzione storico-morfologica e la valorizzazione dei “quartieri-città” del centro storico di Sessa Aurunca. Nel corso dei secoli, lo sviluppo urbano cittadino ha riconosciuto nei propri fattori identitari un pretesto per la suddivisione del tessuto insediativo in ambiti urbani, favorita dalla forte presenza di congregazioni e ordini religiosi. Il contributo proposto vuole approfondire, attraverso lo sguardo delle discipline storico-critiche e del restauro, possibili strategie di conservazione e tutela del centro storico sessano, a partire dalle tradizioni religiose locali. This essay aims to treat the origin, the historical-morphological evolution and the valorization of the “districts-cities” in Sessa Aurunca. Since its foundation during the Roman empire, Sessa Aurunca has recognized some identity factors as the main reasons for the creation of independent areas within the same residential zone, also because of the strong presence of congregations and religious orders. This essay aims to deepen, through the look of the historical-critical disciplines and the restoration, possible strategies of conservation and protection of the historical center, starting from local religious traditions. Keywords Congregazioni, quartieri, valorizzazione. Congregations, districts, valorization. Introduzione Sessa Aurunca, in provincia di Caserta, presenta un tessuto urbano generato da un particolare sviluppo urbanistico dovuto, in parte, alla presenza di numerosi ordini religiosi e confraternite. Tali associazioni e ordini hanno modellato fortemente la città, creando delle vere e proprie enclave religiose e culturali che, ancora oggi, con una vasta presenza di chiese, rendono fortemente identitario il paesaggio sessano. Numerosi furono gli ordini religiosi che trovarono ospitalità nella città di Sessa Aurunca nel corso dei secoli: dagli Agostiniani ai Domenicani, dai Conventuali francescani agli Osservanti, dai Cappuccini ai Carmelitani. La fondazione di tali ordini ha visto l’edificazione di numerose chiese e conventi, architetture identitarie forti che rappresentano dei baluardi di fede e identificano dei “quartieri-città”. La definizione di tale ambito urbano scaturisce dalla dimensione psicologica con cui tale patrimonio costruito viene percepito, filtrato spesso dalle tradizioni, dagli usi e costumi diffusi ad opera delle confraternite cittadine, subentrate agli ordini nel corso dei secoli. In relazione ai peculiari riti della Settimana Santa, i quartieri cittadini vengono simbolicamente delimitati in base alle chiese di riferimento delle confraternite, in quanto «è individuabile un significativo ritorno ad un ambito di comunità.» [Stanziale 2015]. Le processioni penitenziali durante la Settimana Santa a Sessa Aurunca, snodandosi attraverso le vie del centro storico,

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    Enclave culturali e religiose di una “città altra” campana. La valorizzazione dei quartieri-città di Sessa Aurunca  

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costituiscono un unicum religioso e culturale che amplifica la percezione del patrimonio costruito che attraversano. Il contributo proposto vuole approfondire, attraverso lo sguardo delle discipline storico-critiche e del restauro, possibili strategie di conservazione e tutela del centro storico sessano, a partire dalle tradizioni religiose locali. 1. Lo sviluppo urbanistico cittadino dall’età romana all’insediamento degli ordini religiosi Sin dalla fondazione di epoca romana (313 a. C.), Sessa Aurunca, in antico Suessa, «si offre allo sguardo in tutta la sua lunghezza» [Goethe 1816], derivante dallo sviluppo del tessuto insediativo che ha ricalcato l’orografia del territorio. La sua posizione collinare favorì l’organizzazione di un sistema di difesa che seguiva il profilo del colle. Lo schema urbano venne impostato sul cardo maximus, l’attuale corso Lucilio, su cui si innestavano a pettine i cosiddetti decumani, generando un sistema urbano caratterizzato da una maglia di isolati con larghezza costante e lunghezza variabile [Valletrisco 1977, 59]. Da qui, la prima suddivisione in isolati con la creazione di due versanti. Ad ovest del cardo maximus fu collocato il Foro che ospitava numerosi edifici di carattere pubblico, come il Criptoportico, il Teatro romano, un Aerarium/Tabularium. Il Foro, che si può far coincidere con le aree oggi occupate dalla Villa Comunale, da Piazza Tiberio e Largo San Giovanni, rappresentava il fulcro dell’antica città romana (fig.1, A). Tale ambito urbano conservò una posizione strategica fino al declino dell’impero, quando Suessa subì probabilmente un saccheggio da parte dei Goti e fu inglobata dal Ducato di Gaeta finendo in decadenza [Villucci 1980]. Una seconda fase di ridisegno urbanistico si può far risalire al periodo longobardo. L’insediamento altomedievale di Sessa Aurunca, pur mantenendo una certa continuità con il tessuto urbano romano, prevede un restringimento e un arroccamento, conservando tuttavia l’attuale corso Lucilio come direttrice (fig.1, B). Quando Sessa diviene gastaldato, nell’879, sotto Landone I [Cilento 1966, 116], l’insediamento altomedievale subisce un sensibile restringimento dell’area abitata. Per individuare la forma e le dimensioni di tale area è fondamentale l’analisi della Bolla di Atenulfo, arcivescovo di Capua, che concedeva a Benedetto l’episcopato di Sessa, elencando otto chiese all’interno della città. Congiungendo tali edifici religiosi all’interno del tessuto urbano si può ipotizzare una delimitazione dell’abitato medievale sessano, di gran lunga inferiore a quello romano [Colletta 1966, 46]. Tale restringimento, unitamente alla successiva costruzione della Cattedrale, terminata nel 1113, spostò di fatto il baricentro del tessuto insediativo dalla zona in cui sorgeva il foro in epoca romana alla parte alta della città, nell’area in cui sorgeva il castrum. Sì generò un assetto bipolare incentrato sul castello e sulla sede vescovile [Vultaggio 1999, 21-23]. Il primo si posiziona in alto, per ovvie finalità difensive, al limite dell’abitato, mentre la seconda è a valle, in direzione opposta e ortogonale rispetto al cardo maximus sopravvissuto. L’attuale Corso Lucilio verrà utilizzato come via preferenziale per l’attraversamento del tessuto urbano, da nord a sud, e sarà dotato di due porte per l’ingresso nella città: la porta del Trofeo (poi detta “del Macello”) a nord e la porta de lo Vagno (o de Lo Balio) a sud. La porta de lo Vagno viene edificata ai margini della piana corrispondente all’ex Foro e finisce col divenire il limite inferiore della città medievale. La conformazione pianeggiante su cui sorgeva il foro rendeva difficile la difesa e provocò, per tal motivo, l’abbandono di tale area che divenne cava di materiale per l’edificazione dei nuovi edifici della civitas [Colletta 1996, 54-56]. Lo sviluppo urbanistico accrebbe via via la consistenza fisica e politica di Sessa che assunse notevole importanza sotto la dominazione

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normanna. La struttura amministrativa non si stravolse rispetto al governo longobardo ma ci fu un sostanziale ampliamento della città al di fuori delle mura medievali, a nord con l’edificazione della chiesa di San Leone (1059) e a sud con la costruzione di conventi e monasteri, in seguito all’insediamento dei primi ordini religiosi in città. Fu l’insediamento dell’ordine monastico dei benedettini di San Giovanni Battista ad inaugurare una nuova urbanizzazione della zona in cui era sito il Foro romano. Tale espansione extra moenia non si verificò per problematiche legate a sovraffollamento o congestione della struttura urbana, poiché erano numerose le aree libere, di snodo, con funzione di corte o giardini che ancora oggi si conservano nel centro storico. Altre significative trasformazioni si registrano nel periodo svevo-angioino. La cinta muraria viene risistemata, il castello subisce un ampliamento atto al miglioramento delle capacità difensive e di controllo, come accadde per numerosi centri difensivi del Regno [Villucci 1980, 20-21]. Fuori dalle mura sorgono i primi episodi di edifici conventuali: il convento francescano di Santo Stefano (1240) e il convento di San Giovanni ante portam. Quest’ultimo, consolidando la propria presenza e influenza sulla popolazione e sulle dinamiche cittadine, fece mutare il nome della porta urbica detta “Porta de Lo Vagno” (o dello Balio) in “Porta di San Giovanni”. Il complesso di San Giovanni sorge in posizione strategica, su una spianata protetta a ovest da balze naturali, sovrapponendosi ad un Criptoportico di epoca sillana che funge da fondazioni per il braccio sinistro del convento [Colletta 1996, 50-61]. Fuori dalle mura viene a crearsi una struttura basata sull’orografia del luogo che si distacca dalle modalità di insediamento riscontrabili intra moenia, basata sull’accorpamento del tessuto edilizio. In questo periodo sorgono anche altri complessi religiosi, tra cui la Chiesa di San Germano (1200), la Chiesa di San Matteo o Santa Maria del Rifugio (1258) [Villucci 1980, 26-27] e fu ampliata la Cattedrale, nella metà del XIII secolo. Altri edifici religiosi sorgono con la dinastia angioina, sfruttando le mire espansionistiche di Sessa, città regia, e la premura religiosa dei nuovi reggenti. Furono edificati due nuovi borghi, uno inferiore e l’altro superiore. Il primo si concentra intorno al castello di San Biagio, edificato nel 1276 extra moenia di cui oggi è sopravvissuta una sola torre, il secondo si sviluppa a sud inglobando i due complessi di Santo Stefano e San Giovanni Battista. Questi, fino all’insediamento dell’ordine degli Agostiniani che li sostituirono, divennero i principali snodi urbani a cui giungevano i percorsi provenienti dai territori circostanti. Quando il convento passerà dai francescani ai benedettini, il complesso di San Giovanni diverrà “a villa” e determinerà la genesi di una vera e propria enclave religiosa e culturale. Intorno alla metà del XIV secolo, la città passa agli Aragonesi e diviene un Ducato. In questo periodo si assiste al consolidamento delle strutture civili [Villucci 1995, 17], e vengono favoriti gli ordini mendicanti, con donazioni o tramite la costruzione di conventi e chiese. Si verifica uno sviluppo urbanistico preciso, quasi imposto dai Marzano (1374-1464), che sfrutta gli insediamenti degli ordini religiosi per la definizione di nuclei fondativi di nuovi ambiti urbani. Vengono ampliati il perimetro urbano e i due borghi, quello superiore e quello inferiore, includendoli in un unico sistema difensivo tramite la realizzazione di due nuove porte (Porta dei Cappuccini a sud, Porta di San Biagio o dei Ferreri a Nord [Di Marco, Parolino 2000, 22]). Tali Porte, che ancora oggi rappresentano, a nord e a sud, i principali punti di accesso alla città [Di Marco 1995, 57], furono collegate da una nuova cinta muraria che circondò i borghi edificati in epoca angioina (fig.1, C). Contrariamente alla tradizione dei primi insediamenti mendicanti che contemplavano la dimensione extra moenia degli edifici religiosi, il convento domenicano viene edificato a ridosso delle nuove mura, sia per ragioni di sicurezza, sia per la vicinanza al nodo viario più rilevante all’epoca, caratterizzato dal passaggio di mercanti e

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pellegrini, ideale per l’elemosina. L’Ordine dunque dimostra piena adesione alle nuove scelte urbanistiche, concependo un complesso di grandi dimensioni e notevoli qualità artistiche considerando che si rilevava «del tutto commodo con due Dormitorij, Novitiato, e due chiostri, in uno de’ quali è dipinta la Vita di S. Domenico e l’effigie de’ Santi, de’ Beati, de’ Pontefici, de’ Cardinali e de’ Vescovi della Religione, con due giardini» [Sacco, 1648]. Oggi resta il chiostro voltato a crociera, di gran pregio, che conserva parte degli affreschi elencati dal Sacco e parte del convento oggi adibito a sede scolastica. Nei pressi della porta meridionale della città viene edificata anche la chiesa di San Giacomo, nel XV secolo, oggi inaccessibile, ma all’epoca in posizione determinante per il controllo del flusso dei passanti e per le opere di assistenza e carità. La porta nord, invece, viene controllata dal complesso dell’Annunziata, edificata per volere della corporazione cittadina dei conciari e calzolai attorno al 1489, contestualmente ad un ospedale ed educandato annessi. A sud l’enclave religiosa si consolida: ai complessi conventuali di Santo Stefano, San Giovanni Battista e Sant’Agostino si aggiungono altre chiese e conventi. Nel 1400 viene edificato il convento di Sant’Anna, poco a sud rispetto al complesso di San Giovanni, con annesso conservatorio e Chiesa, completando un’opera di accentramento del potere religioso e culturale nel borgo inferiore cittadino [Colletta 1996, 50-61].

1/A: Sono rappresentati i principali edifici pubblici e le antiche strade urbane principali, sulla base degli studi di A. Valletrisco (1980) e P. Sommella (1987); 1/B: Si rappresenta l’insediamento altomedievale, che si restringe e si arrocca rispetto a quello romano conservano la direttrice del cardo massimo; 1/C: Schema in cui si rappresenta l’espansione del centro abitato sotto i Marzano, con potenziamento della cinta muraria, delle porte e delle architetture; 1/D: 1. Monastero di San Germano (1200), 2. Monastero di Santo Stefano (1240), 3. Chiesa e convento di San Giovanni Battista (1246), 4. Chiesa e convento di S. Anna (1400), 5. Chiesa e convento di S. Domenico (1425), 6. Chiesa e convento di S. Agostino e SS. Trinità dei frati agostiniani di San Giovanni a Carbonara (1433), 7. San Francesco dei frati minori Osservanti (1433), 8. Chiesa di Santa Maria Regina Coeli e convento dei Cappuccini (1539), 9. Convento dei Carmelitani (1590), 10. Chiesa di Sant’Alfonso e convento dei Crociferi (1614) [grafici Luigi Cappelli, 2018].

2. L’avvento delle confraternite cittadine e le trasformazioni urbane del centro storico Nel Cinquecento la città subisce prima la dominazione della famiglia de Cordoba, poi viene acquisita da re Ferdinando seguendo le sorti del Regno di Napoli. Le enclave religiose e culturali generate finora, si ridimensionano in base ai precetti della Controriforma. Lo slargo

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dinanzi al complesso di San Giovanni a Villa, ad esempio, assume la funzione di sagrato, ospitando anche funzioni di piazza d’armi e di parata. La zona dell’antico foro diviene polifunzionale, ospitando manifestazioni civili, militari e religiose. Largo San Giovanni rappresenterà, dal secolo successivo, il punto di inizio e fine della processione cardine del Venerdì Santo, diventando un ambito urbano caratterizzato da un intenso senso religioso e da una forte identità. Sul finire del Cinquecento si registra la presenza di nuovi ordini, fuori le mura, i Cappuccini a sud e i Carmelitani a nord (fig. 1, D). Sessa assume dunque le sembianze di una città conventuale, ricca di cupole e campanili che disegnano un particolare panorama cittadino, quasi immutato nei secoli successivi (fig. 2).

2: Sessa Aurunca, veduta urbana (1703). Incisione da lastra di rame a stampa in Pacichelli 1703: Giovan Battista Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva, diviso in dodici provincie…, Parte prima, in Napoli, nella Stamperia di Michele Luigi Mutio, 1703. Vi sono rappresentati: il castello (A), la cattedrale (B), la chiesa di San Germano (C), la chiesa di Sant'Antonio (D), la chiesa di Sant'Agostino (E), la chiesa di Santo Stefano (F), la chiesa di San Giacomo (G), la chiesa dei Cappuccini (H), la chiesa di San Francesco (I), la porta San Domenico (K), la porta della Maddalena (L), l’Annunziata (M), la torre di San Biagio (N). Nel XVI secolo, oltre alla “consacrazione” dei poli religiosi cittadini come architetture aggregative e strategiche, nascono le confraternite. Tali associazioni danno vita ad una nuova dimensione culturale, di matrice religiosa, che condizionerà nei secoli le modalità di fruizione e organizzazione della città, amplificando il senso di appartenenza e l’identità della popolazione. La confraternita più antica è l’Arciconfraternita di San Biagio, fondata nel 1515 nell'omonima chiesa sita in via dei Ferrari, non più esistente, con sede oggi presso la chiesa di Sant’Eustachio, già nota come Annunziata. La confraternita nacque con lo scopo di occuparsi principalmente di opere di carità e di assistenza ai più bisognosi e diede origine ad

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una nuova visione culturale e sociale della città, perpetuata e rafforzata da altre cinque confraternite cittadine costituite nei secoli successivi: l’Arciconfraternita del SS. Rosario (1753), l’Arciconfraternita del SS. Crocifisso (1575), l’Arciconfraternita della SS. Concezione, detta "dell'Immacolata" (1579), la Confraternita di San Carlo Borromeo (1615) e la Confraternita del SS. Rifugio (1760). Sin dalle fasi del fervore controriformistico le confraternite si affiancano alle chiese già presenti, dando nuovo impulso ai poli religiosi della città, generando dei “quartieri città” in cui ritrovarsi, a cui appartenere. Le confraternite partecipano attivamente alla creazione di ospedali, biblioteche o conservatori, fondamentali per la formazione e la cultura della popolazione. Nel Settecento l’edilizia religiosa subisce numerose trasformazioni barocche, con influenze artistiche napoletane, e interventi di consolidamento per risolvere i danni provocati dal terremoto del 1688 che aveva scosso non poco il territorio aurunco. Vengono compiuti ampi e vari interventi sulle preesistenze che condizioneranno l’immagine complessiva della città. Le mutazioni architettoniche, i rimaneggiamenti, i consolidamenti strutturali, le alterazioni delle facciate e delle configurazioni originali, continuano nell’Ottocento, forzati dalle vicissitudini politiche e sociali che condizionano la vita cittadina. Quando nel 1806 gli ordini religiosi vengono soppressi, i principali conventi mutano la loro destinazione d’uso, assumendo funzioni sociali o amministrative, soprattutto in relazione agli accadimenti storici. Queste trasformazioni non alterano tuttavia la percezione di tali emergenze architettoniche e culturali, che caratterizzano il paesaggio sessano, impreziosito da una notevole presenza di cupole e campanili (fig. 3). Oggi, probabilmente, restaurando gli ex conventi e integrando le attuali funzioni d’uso in relazione alle odierne manifestazioni religiose si potrebbe recuperare l’originale dimensione ricettiva, di accoglienza e assistenzialismo, promuovendo la cultura e l’identità cittadina, così come fecero le Confraternite accompagnando le numerose trasformazioni urbanistiche e relative agli edifici religiosi del XIX secolo.

3: Cartolina storica di Sessa Aurunca, 1955 (Archivio privato). 3. Una lettura inedita del centro storico per una valorizzazione consapevole I riti della Settimana Santa, che estendono il culto al di fuori delle chiese, sui sagrati, nelle piazze, tra i vicoli [Perrotta, 1986] potrebbero coincidere con un processo di riscoperta degli edifici religiosi legati alle confraternite e delle civili abitazioni di varie epoche e tipologie edilizie. Tali architetture, infatti, si prestano come scenografia di un pathos in cui ognuno

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ritrova sé stesso, riappropriandosi di un’identità che si rivela spesso assente in altri momenti della vita quotidiana cittadina. Compiendo un’opera di sovrapposizione grafica dei percorsi compiuti dalle varie confraternite durante i riti della settimana santa (fig. 4), si può ottenere un fil rouge per la fruizione del centro storico cittadino. Il percorso della processione, districandosi tra i vicoli, permette una lettura sistematica del patrimonio architettonico e degli sviluppi urbanistici che hanno caratterizzato la struttura dell’intera cittadina. Tale approccio trasmette una visione del centro storico come opera collettiva in continuo divenire, da conservare e valorizzare nella sua ultima facies di cui, citando Rosi, «gli ambienti caratteristici e tradizionali vanno tutelati per il loro valore di documento etnografico autentico e storicamente formatosi». [Rosi 1942]. I vicoli di Sessa dimostrano un carattere decadente, le numerosissime imperfezioni arricchiscono il tessuto storico di nuovi significati impressi dal tempo e dalla storia. Le facciate degli edifici del centro storico conservano la patina del tempo, rocchi di colonne di spolia rendono stabili i cantonali, numerosi sono i ruderi e lapidi romane che impreziosiscono chiese ed edifici civili. Ma accanto ai resti delle mura medievali, ai giardini storici, si riscontrano episodi di edilizia moderna, superfetazioni, aggiunte. In accordo con le riflessioni di Roberto Pane, si potrebbe parlare di valore corale degli ambienti urbani dei “quartieri città” di Sessa Aurunca, che tramite la loro successione, scanditi da una fruizione empatica, riescono ad inglobare organismi edilizi privi di preminenti valori monumentali nei quali l’ambiente costituisce di per sé l’eventuale opera d’arte. Questo spirito è alla base della tutela, della conservazione di questi insiemi architettonici. Come osserva Di Stefano [Di Stefano 1998] l’ambiente urbano, inteso come insieme di fabbriche monumentali e non, va difeso per garantire la tutela non tanto dei singoli episodi, ma del valore che essi rivestono per gli uomini. L’identità degli abitanti di Sessa è fortemente connaturata ai luoghi e alle tradizioni che si svolgono nelle piazze e negli slarghi: Largo San Giovanni, Piazza Duomo, Piazza Mercato, luoghi di simboli e tradizioni. Il centro storico di Sessa Aurunca, dunque, si può suddividere in ambiti urbani tra loro omogenei, facendo riferimento ai quartieri esistenti, all’analisi delle rilevanze storico-

4: Sovrapposizione grafica dei percorsi compiute dalle confraternite cittadine durante i riti della SettimanaSanta, dal lunedì al sabato santo. Il percorso collega: 1. Chiesa di San Eustachio, detta "Annunziata"(Arciconfraternita di San Biagio - 1515); 2. Chiesetta dell'antico convento di S. Domenico (Arciconfraternitadel SS. Rosario - 1753); 3. Chiesa di San Giovanni a Villa (Arciconfraternita del SS. Crocifisso - 1575); 4. Chiesa di S. Francesco (Arciconfraternita della SS. Concezione o "dell'Immacolata" - 1579); 5. Chiesetta di San Carlo (Confraternita di San Carlo Borromeo -1615); 6. Chiesa della Vergine del Rifugio (Confraternita del SS. Rifugio - 1760). [grafico Luigi Cappelli, 2018].

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artistiche, alle peculiarità ambientali e paesaggistiche e alla viabilità esistente. Ciò rappresenterebbe la premessa per la redazione di un piano di riqualificazione e valorizzazione, che si rivela però pressoché irrealizzabile, considerando le difficoltà riscontrate dalle Amministrazioni a dotarsi di un Piano Urbanistico Comunale (ad oggi non ancora approvato), l’assenza di un Piano del Colore, di qualsiasi regolamento comunale in materia di installazione di insegne, targhe, tende e simili.

Conclusioni In generale i centri storici rappresentano il risultato di un’azione corale che, nel tempo, in relazione ai cambiamenti relativi al gusto o alle esigenze, o alla necessità di manutenzione, è giunta a rimodulare elementi architettonici sostituendo parti degradate, variando cromie e materiali, provocando una stratificazione foriera di testimonianze e informazioni inerenti le fasi costruttive degli edifici e le vicende storiche del tessuto urbano di appartenenza. Ciò che più di tutto occorre tutelare e valorizzare è il paesaggio

urbano, scongiurando la perdita del carattere identitario degli elementi antropici e naturali. Parlare di “quartieri-città” a Sessa Aurunca, presuppone un tentativo di individuare delle compagini in cui lo sforzo conservativo sia attuabile. Definire un’“enclave culturale” significa voler ricostruire quegli ambiti definiti storicamente dallo sviluppo urbanistico e sociale della città per stimolarne una riscoperta. La valorizzazione del patrimonio costruito, spesso degradato e comunque generalmente non rispondente alle esigenze di fruizione e accessibilità, richiede un impegno gravoso per le amministrazioni chiamate spesso ad operare al di sopra delle effettive possibilità economiche e giuridiche. L’immobilismo istituzionale e normativo, se da un lato impedisce opere di tutela, conservazione, valorizzazione, ha tuttavia permesso di preservare una certa autenticità insita nel tessuto urbano, che oggi rappresenta una grandiosa opportunità per una rilettura del centro storico. E dunque, così come nei secoli la presenza delle confraternite e degli ordini si è rivelata fondamentale per l’innesco di taluni meccanismi di tutela e di creazione di ambiti culturali forti, oggi la sfida della tutela deve essere raccolta dalle associazioni del territorio, dagli studiosi, dai singoli cittadini. “Riscoprire” e rivalutare criticamente questi nuclei urbani rappresenta un dovere che le istituzioni e la cittadinanza devono progressivamente cogliere, per avere una più completa consapevolezza del proprio patrimonio e per ridare a parti della città degradate la condizione di “monumento” che a esse, di diritto, spetta. «L’ambiente urbano che ne consegue acquista, così, un valore corale di grande interesse, in quanto testimonianza della dignità, della saggezza e dell’equilibrio di un popolo, il quale trae anche

5: La processione del Venerdì Santo a Sessa Aurunca. (foto LuigiCappelli, 2017).

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da ciò le proprie capacità intellettuali» [Ruskin 1982] tali da diventare luogo privilegiato del turismo culturale per l’unicità e per la complessità del patrimonio urbanistico e paesaggistico. Bibliografia CILENTO, N. (1966) Italia meridionale longobarda. Milano-Napoli, p. 116. COLLETTA, T, (1996). Le cinte murarie urbane della Campania. Teano, Sessa Aurunca, Capua. Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane. COLLETTA, T. (1989). La struttura antica del territorio di Sessa Aurunca. Il Ponte Ronaco e le vie per Suessa. Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane. DI MARCO, G. (1995). Sessa e il suo territorio. Tra medioevo ed età moderna. Minturno: Caramanica Editore. DI MARCO, G., PAROLINO, G. (2000). Frati e Fabbriche. I Conventi Maschili di Sessa Aurunca. Storia e architettura. Minturno: Caramanica Editore. DI STEFANO, R. (1998). Roberto Pane. La difesa dei valori ambientali, in «Restauro», n. 143, p. 68. GOETHE, J.W. (1991). Viaggio in Italia. Milano: BUR Biblioteca Universale Rizzoli. PANE, A. (2005). Dal monumento all’ambiente urbano. La teoria del diradamento edilizio, in La cultura del restauro. Teorie e fondatori. Venezia: Marsilio. PERROTTA, P. (1986). La Settimana Santa a Sessa Aurunca. Ferrara: Gabriele Corbo Editore. PICONE, R. (2014). Paesaggio naturale e patrimonio costruito in costiera sorrentino-amalfitana. Conoscenza e tutela nel Novecento attraverso la fotografia, la grafica e i cortometraggi, in Città mediterranea in trasformazione. Identità e immagine del paesaggio urbano tra Sette e Novecento (Atti del Convegno internazionale CIRICE 2014, 13-15 marzo 2014, Napoli, Università degli Studi di Napoli Federico II, Dipartimento di Architettura), Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane, pp. 1169-1182. ROSI, G. (1942). Urbanistica del paesaggio, in «Le Arti», a. IV, fasc. II, dicembre 1941 - gennaio 1942. RUSKIN, J. (1982). Le sette lampade dell’architettura. Milano: Jaca Book. SACCO, L. (1648). L'antichissima Sessa Pometia. Napoli: Beltramo Editore. SOMMELLA, P. (1987). Modelli urbani romani in età repubblicana, in Studi Lunensi e prospettive sull’Occidente romano (Atti del Convegno di Lerici, settembre 1985), Quaderni 10-11-12. STANZIALE, P. (2015). Materiali d’indagine sulla settimana santa a Sessa Aurunca, nell’Alto Casertano. Sessa Aurunca: RDS Grafica Editore. VALLETRISCO, A. (1977). Note sulla topografia di Suessa Aurunca, in «Rendiconti della Accademia di archeologia, lettere e belle arti», Napoli, p. 59. VILLUCCI, A.M. (1980). I Monumenti di Suessa Aurunca. Minturno: Caramanica Editore. VILLUCCI, A.M. (1995). Sessa Aurunca. storia ed arte. Minturno: Caramanica Editore. VULTAGGIO, C. (1999). Civiltà cassiere e dominio normanno, in Desiderio di Montecassino e le basiliche di Terra di Lavoro: il viaggio dei Normanni nel Mediterraneo, Caserta: L'aperia, pp. 21-23. Sitografia www.settimanasanta.com (maggio 2018) www.confraternitasanbiagio.com (maggio 2018) www.ssrifugio.eu (maggio 2018) www.sscrocifisso.com (maggio 2018) www.sancarloborromeo.org (maggio 2018) www.ssrosario.org (maggio 2018)

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Le forme del ‘Tempio’: l’architettura della sinagoga in Italia nell’età dell’emancipazione. Tradizione, identità, monumenti The shapes of ‘Temple’: the architecture of synagogue in Italy in the age of emancipation. Tradition, identity, monuments STEFANO ZAGGIA Università degli studi di Padova Abstract Con i decreti d’emancipazione in Italia, come in molti paesi europei, si delineò una nuova fase della cultura e della spiritualità ebraica. Il cambiamento di statuto comportò modifiche profonde nei comportamenti, i quali si rifletterono nelle scelte architettoniche, con le quali la minoranza intese rappresentare proprio ruolo in seno alla società urbana. La nuova condizione coinvolse il luogo nodale dell’identità culturale ebraica: la sinagoga. L’edificio sacro, ora definito spesso Tempio, nelle nuove riconfigurazioni riflette la ricerca di una riconoscibilità, sospesa tra apertura alla modernità e fedeltà alle tradizioni. As it had been for many other European country, in Italy the decrees of emancipation brought about a new phase of Jewish culture and spirituality. The change in status led to radical changes in the community’s behaviors, which were reflected in the architectural choices, that were intended to represent the minority role in the urban society. This new condition also involved the main space of Jewish cultural identity, the synagogue. The new reconfigurations of the sacred building, now called Tempio, reflect the search for a formal identity suspended between modernity and tradition. Keywords Sinagoghe, tradizioni, identità Synagogues, traditions, identity Introduzione I decreti d’emancipazione introdotti in Italia con l’arrivo delle truppe napoleoniche, comportarono il definitivo smantellamento dei ghetti e dei recinti chiusi, aprendo la possibilità alla minoranza ebraica di entrare a far parte integrante delle società urbane, ammessa ad esprimere liberamente le proprie tradizioni cultuali. A questo primo momento di concessione di diritti, ancora limitato ad alcune aree del settentrione della penisola, seguirà quindi una fase di sostanziale apertura e integrazione dopo la metà del secolo che porterà ad un’estensione unitaria dei diritti (ad esclusione di Roma, laddove formalmente l’emancipazione sarà decretata nel 1870) [Luzzatto Voghera 1997]. Da questo punto di vista la nuova condizione era percepita da alcuni ebrei come opportunità di esprimere la propria adesione alla cultura del tempo, da altri come pericoloso sgretolarsi delle tradizioni giudaiche. In ogni caso nel corso del tempo, man mano che la nuova condizione permetteva l’abbandono delle tradizionali aree residenziali, si avvertì la necessità di riorganizzare le strutture comunitarie e dare una forma riconoscibile ai luoghi di pertinenza ebraica. Appare fondamentale ricordare l’esistenza di un percorso di rinnovamento culturale

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avviato già alla fine del Settecento e poi soprattutto nel corso dell’Ottocento in seno alle comunità ebraiche italiane, strettamente connessa all’evoluzione generale della società. Da questo punto di vista è stato sottolineato l’importante ruolo svolto per un certo periodo dal Collegio Rabbinico fondato a Padova nel 1829 o dalla pubblicazione di giornali e riviste, come ad esempio «Educatore Israelita» a Vercelli o il «Corriere Israelitico» a Trieste [Luzzatto Voghera, 1997, pp. 140 sgg.] Anche sul piano più spiccatamente politico, la partecipazione di molti esponenti delle comunità ebraiche ai moti risorgimentali e il loro successivo coinvolgimento nelle istituzioni, come deputati o amministratori, ebbe un indubbio riflesso sul ruolo sociale delle comunità [Morpurgo 2012, pp. 24-25]. All’appartenenza confessionale, non più connessa alla distinzione di provenienza etnica, pertanto, si affiancava una forte adesione all’identità nazionale italiana. Da questo punto di vista si trattò, come è stato osservato, di una «comunità immaginata», della costruzione di una identità collettiva prodotta «tanto da chi vi appartiene quanto da chi non vi appartiene, o addirittura contrasta la sua esistenza» [Levis Sullam, 2000]. La nuova libertà e l’aspirazione ad un ruolo sociale nazionale, toccò inevitabilmente il luogo nodale per la propria identità costituito dalla sinagoga. D’ora in poi, l’edificio sacro non è più soltanto quello in cui si riflette con maggior evidenza la mutazione politica in atto, o l’assimilazione sociale e culturale, ma diviene esso stesso uno degli strumenti che la componente «Israelita» italiana utilizza per ribadire il ruolo che essa intende assumere nei confronti della città e della patria nazionale [Scott Lerner, 1992]. Assume i connotati, potremmo dire, di una architettura istituzionale proprio nel momento nel quale agli edifici d’uso collettivo è assegnato il compito di riorganizzare lo spazio urbano e di rappresentare, incarnando uno stile nazionale, le istanze del nuovo assetto statale [Calabi, 1992]. È a questo punto che si pose un problema di rappresentazione: come tradurre i caratteri religiosi dell’ebraismo e il nuovo ruolo della comunità in ambito nazionale, in uno stile architettonico appropriato? Dalle sinagoghe al Tempio Il cambiamento più evidente insito in questa nuova condizione, non a caso è esplicitato nell’uso costante del nome “tempio israelitico”, una denominazione che sostituiva il termine più tradizionale di “Scuola”, Scola, la casa di preghiera nelle condizioni di segregazione. Il cambiamento sottintende appunto l’esigenza di caricare il contenitore di intenzioni artistiche, il contenuto di nuove valenze civili, il che di riflesso conduce ad una diversa rilevanza dell’edificio nel contesto religioso. In fin dei conti la sinagoga, sin dalle origini, pur avendo una certa connotazione sacrale non partecipava al grado di sacralità posseduto dal distrutto Tempio di Gerusalemme [Luzzatto, 1992, p. 82]. Il sacro riconosciuto allo spazio sinagogale è legato essenzialmente, non ad una specifica qualità o a riti di consacrazione, ma alla presenza all’interno dei rotoli della Torah e alle funzioni di preghiera che vi si svolgono. Inoltre si trattava di luoghi, ambienti, stanze il cui utilizzo aveva un impiego quotidiano per svariate occasioni. Questa connotazione della sinagoga e la stretta relazione che in età pre-emancipazione la legava al quartiere d’abitazione della minoranza, nella maggior parte dei casi produceva una moltiplicazione delle sedi in relazione alle singole tradizioni rituali presenti. In definitiva la sala della sinagoga, dal punto di vista organizzativo e tipologico, era uno spazio che doveva accogliere sostanzialmente due elementi legati alle modalità di svolgimento delle funzioni religiose: l’armadio dei rotoli (Aron) e un pulpito per la lettura (Bimah o Tevah). Salvo alcune eccezioni di un certo rilievo in cui anche l’esterno fu oggetto di attenzione architettonica, come nel caso della scuola Levantina di Venezia o della sinagoga di Livorno, di norma si trattava di sale allestite all’interno di comuni edifici d’abitazione e nelle quali le forme decorative

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corrispondevano a scelte dettate dall’opportunità, dalle disponibilità economiche e dal contesto artistico urbano [Calabi, 1992]. La mancanza di una configurazione architettonica dell’esterno delle sinagoghe in età d’antico regime è stata spesso spiegata come una scelta finalizzata ad evitare di suscitare reazioni nella popolazione cristiana o da parte delle autorità; tuttavia Amos Luzzatto ha sottolineato un altro aspetto che contribuisce a spiegare la semplificazione esterna delle sinagoghe e la loro moltiplicazione: «va sottolineato il fatto che, di fronte a una molteplicità di gruppi quasi privati che utilizzavano una molteplicità di luoghi di culto e di incontro, nessuna di questi poteva assurgere al ruolo di sinagoga centrale della comunità intera» [Luzzatto, 1992, p. 82]. Nel passaggio all’età dell’emancipazione quindi, si assiste ad un profondo cambiamento nel modo di considerare il luogo di preghiera e man mano che il processo di assimilazione e fusione nazionale procedeva, si sentì l’esigenza che una sola sinagoga diventasse la sede specifica per il culto di tutta la comunità. Secondo una lettura proposta da Dominique Jarrassé, la sinagoga così fu sottoposta ad un vero e proprio processo di “sacralizzazione”, il quale per certi versi impose profondi cambiamenti non solo nella struttura stessa dell’edificio che si confrontava con la tipologia delle chiese cristiane, ma anche nell’articolazione delle liturgie [Jarrassé, 2005]. Così, ad esempio sul piano dell’organizzazione cerimoniale furono introdotti il coro, l’organo, e, sul piano architettonico, si attuò l’avvicinamento dei due principali arredi, Aron e la Bimah, posti su uno spazio separato dall’assemblea. Da questa nuova interpretazione simbolica della sinagoga deriva quindi anche l’adozione del termine «tempio israelitico», riferimento ad uno spazio sacrale ebraico, quello del tempio Gerosolomitano. Le forme del Tempio Quanto detto, pertanto, permette di inquadrare la fioritura nel corso del secolo XIX delle diverse soluzioni tipologiche e scelte stilistiche che caratterizzarono le nuove sinagoghe edificate in Europa e in alcune città italiane [Krinsky, 1985; Zaggia 1992]. È evidente che l’elaborazione della forma del nuovo edificio dedicato al culto si colloca in una fase nella quale buona parte dell’architettura occidentale si dibatteva in una sorta di battaglia degli stili: «la fabbrica della sinagoga vive le inquietudini del suo tempo: in essa il giudaismo si apre alla modernità e, allo stesso tempo, esita a esprimere e voler conservare le sue tradizioni» [Calabi, 1992, p. 80]. Ci si trova difronte ad una difficile scelta laddove sono i referenti delle comunità a dover indicare le esigenze ai progettisti, i quali non sempre condividono l’appartenenza religiosa. Così a partire dagli anni Trenta dell’Ottocento in tutte le comunità italiane, non solo dalle più grandi, come Torino, Firenze, Milano, Roma, Trieste, ma anche nelle congregazioni minori come, tanto per fare un accenno incompleto: Pisa, Alessandria, Vercelli, Bologna, furono elevati edifici monumentali con particolare cura esteriore [Racheli, 1983; Calabi, 1992]. Se all’inizio si tratta solo di un problema di carattere compositivo, tipologico, in seguito il tema dello stile finirà per toccare i valori simbolici incarnati dal monumento. È quanto avviene nel caso del primo tentativo di realizzare una nuova sinagoga destinata, nel contempo, ad incarnare anche l’avvento dell’emancipazione: nel 1859 a Torino la comunità decide di realizzare un tempio in un terreno appositamente acquistato. L’incarico, dopo un primo tentativo di concorso, fu affidato ad Alessandro Antonelli. Le vicende del cantiere della Mole Antonelliana e del cambiamento di destinazione dopo l’acquisizione da parte del Comune, sono ben note, ciò che interessa qui sottolineare è che se da un lato lo schema tipologico proposto è assolutamente autonomo dalla tradizione e connesso alle sperimentazioni di ambito tedesco (una grande quadrangolare coperta da una cupola, dapprima emisferica poi a padiglione rialzato su alto tamburo), le scelte stilistiche sono del

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tutto ancorate alla tradizione classicista impostate a partire dalla combinazione di ordini di colonne e pilastri di diversa altezza. D’altronde le richieste della comunità enunciate nel bando di concorso esprimevano l’esigenza di un «aspetto grandioso ed elegante, ma senza sfarzo di dorature e di addobbi». Nei casi successivi, invece, con determinazione venne ribadita la necessità di trovare uno specifico carattere architettonico propriamente ebraico. Ne deriverà una indicibile commistione di riferimenti storici, geografici, culturali: moreschi, neo-bizantini, siriaci, ecc. tutti riconducibili ad una dimensione riconducibile alla categoria dell’orientalismo”. Se in generale sul piano teorico il modello per le sinagoghe era ritenuto il Tempio di Salomone, d’altra parte le caratteristiche formali dell’antico monumento non erano chiare e frutto spesso di interpretazioni e ricostruzioni fantasiose basate su ipotesi non documentabili.

Ancora a Torino, quindi, per costruire la nuova sinagoga la comunità chiederà esplicitamente nel bando di concorso una scelta stilistica precisa: l’adozione dello stile “moresco”. L’incarico fu quindi assegnato nel 1880 all’architetto Enrico Petiti, il quale adottò una semplice pianta rettangolare con ampia sala fiancheggiata da matronei; all’esterno pose quatto torri merlate angolari sormontate da cupole a bulbo di derivazione islamica, mentre i prospetti furono connotati da un’esibita policromia [RACHELI 1984]. Va detto che non in tutti i casi fu avviata la realizzazione di un nuovo edificio monumentale, spesso le comunità continuarono a svolgere i riti all’interno delle tradizionali sinagoghe in alcuni casi erette molti secoli prima, in tutti i casi adattate alle nuove modalità liturgiche. Il tema della scelta stilistica ritorna in modo forse ancora più evidente nella lunga vicenda costruttiva della nuova sinagoga di Firenze. La posa della prima pietra avverrà nel 1874, ma era stata preceduta di un lungo dibattito da un lato all’interno della comunità e dall’altro con l’amministrazione pubblica in un

momento nel quale la città era investita del ruolo di capitale dello stato unitario [RACHELI, 1983; KARWACKA CODINI, 1999]. L’operazione, infatti, s’intrecciava con la questione del “risanamento” del quartiere del ghetto e con la scelta del luogo in cui collocare l’edificio di culto [CALABI 1992]. Le discussioni si susseguono già a partire dal 1858 quando si decise la nuova costruzione al cui progetto fu coinvolto l’architetto Marco Treves (1814-1898). In questo caso l’incaricato era un professionista di religione ebraica, di origine piemontese, ritornato in patria dopo un’esperienza all’estero, e che avrà modo negli stessi anni di riflettere a lungo sul tema dal momento in cui fu coinvolto, con ruoli di volta in volta di progettista o consulente, anche nella realizzazione delle sinagoghe di Vercelli (dapprima nel 1858, quindi nel 1872), Pisa (1860-62), poi nei concorsi per il Tempio di Torino e Roma [KARWACKA CODINI, 1999;

1: E. Petiti, Tempio Israelitico di Torino, foto d’epoca

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BOTTINI TREVES, 1995]. L’architetto propose diverse soluzioni sulla base dei siti alternativi presi in considerazione. La stretta finale per il progetto esecutivo si colloca infine nel 1872 dopo che la comunità scelse la localizzazione definitiva, in via sant’Ambrogio, e affiancò a Marco Treves gli architetti Mariano Falcini e Vincenzo Micheli. L’esito, frutto anche delle indicazioni espresse da una commissione dell’Accademia di Belle Arti di Firenze a cui fu sottoposto il primo elaborato, fu un edificio a pianta longitudinale cupolata derivata da modelli bizantini, mentre il carattere stilistico complessivo elaborava modelli definiti come “moreschi” e “saraceni”. Un ulteriore aspetto da sottolineare nell’affrontare il tema della realizzazione dei nuovi templi israelitici in Italia è rapporto che la nuova realizzazione istituisce con lo spazio urbano, sembra cioè avere un ruolo determinante nella decisione di costruire un nuovo complesso la localizzazione della nuova sinagoga e la scelta di collocarla in una posizione diversa dalle aree precedentemente incluse nel ghetto. Non mancano, naturalmente, i casi nei quali una nuova sinagoga fu insediata nell’area del

ghetto, soprattutto dopo che questo fu oggetto di demolizioni o sventramenti per far posto a nuove sistemazioni urbanistiche. Nel 1889 la comunità romana decise di realizzare un nuovo Tempio, dopo che due anni prima il Comune di Roma aveva espropriato gli immobili del ghetto nei quali trovavo posto le Cinque Scole [ASCARELLI, TERRACINA 2004]. Venne quindi bandito un concorso in due fasi. Nel bando si precisava che il nuovo complesso doveva avere «carattere monumentale e severo». Alla data di scadenza erano giunte ventisei proposte progettuali. In questa fase furono premiati due progetti: uno di Attilio Muggia, l’altro del gruppo Osvaldo Armanini e Vincenzo Costa. Quindi, dieci anni più tardi, si svolse una seconda fase progettuale rivolta ai due vincitori, ma a seguito della rinuncia di Muggia la progettazione esecutiva fu affidata direttamente ad Armanini e Costa. Le scelte che guidarono il progetto attuato per il tempio furono descritte dagli autori, al termine di alcune considerazioni fatte in relazione ai precedenti esempi realizzati in Italia e in particolare con la sinagoga di Firenze, nel modo seguente:

avvalendoci quindi della semplice induzione storica, ci persuademmo che gli antichi monumenti della regione suddetta [la Palestina] dovessero ispirarsi ad una fusione di stile assiro ed egizio e più tardi anche greco. […]

2: Il tempio israelitico di Firenze [da «L’edilizia Moderna», a. XV, fasc. II (feb. 1906)]

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3: A. Muggia, progetto presentato al concorso per il Tempio Israelitico di Roma

Ma […] le vetuste forme architettoniche erano in aperto contrasto colle diverse esigenze della vita moderna […], il ricordo degli stili più antichi poteva determinare la rimembranza di dure lotte e tempi calamitosi. Il ricorrere però ad altri stili (per esempio l’arabo) solo perché orientali, non ci parve cosa giustificata […] ci sembrò dunque più ragionevole adottare uno stile della famiglia che fiorì presso di noi, desumendolo dal greco, che, intimamente legato per ragioni di paternità coll’arte romana e colle forme derivate da essa, poteva bene applicarsi ad un monumento da erigersi a Roma. Ispirandoci però allo stile greco, noi sviluppammo assai liberamente il nostro stile architettonico che volemmo direttamente influenzato da motivi asiatici e specialmente assiri, subordinati alle moderne esigenze.

L’esito in questo caso fu quindi un grande edifico (costruito tra 1901 e 1904) isolato dal contesto collocato e sulla sponda del Tevere che impone la propria presenza monumentale in un contesto urbano radicalmente rinnovato. Conclusioni A conclusione della breve lettura sin qui proposta dei casi più importanti di architettura sinagogale in Italia, credo che al momento si possano tracciate solo alcune considerazioni finali, da cui partire per una più approfondita analisi e comaparazione. Ciò che mi sembra emergere è una certa ambiguità presente nelle scelte stilistiche connotate dal ricorso a fonti riconducibili ad una dimensione orientale, il più delle volte giustificate dagli stessi protagonisti (committenti, progettisti) sulla base di una “alterità” religiosa, etnica, che connotava la comunità israelitica. È ben vero che la scelta dello stile «moresco» trovava giustificazione, agli occhi dei

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contemporanei, nel riferimento all’epoca medievale in cui gli ebrei convivevano liberamente nella Spagna sottoposta al controllo arabo [SCOTT LERNER, 1992, p. 41; DAVIDSON KALMAR, 2001]. Credo, tuttavia, siano da tenere in debita considerazione le riflessioni proposte da Simon Levis Sullam, il quale, riprendendo studi di Edward Said, ricorda come il tema dell’orientalismo, collegato all’immaginario letterario del Ghetto ad esempio, presenti contraddizioni e tensioni: se da un lato esprime semplicemente l’esito di un gusto estetizzante, dall’altro è una costruzione rappresentativa del diverso, di chi si colloca nel contesto occidentale ma conserva caratteristiche “esotiche” [Levis Sullam, 2000]. Con il rischio che alla lunga tali costruzioni simboliche abbiano nutrito anche l’antisemitismo e l’atteggiamento di sospetto nei confronti dell’alterità espressa. Da questo punto di vista appaiono rivelatorie le considerazioni espresse dall’Accademia dei Belle Arti di Firenze a cui fu sottoposto il primo elaborato finale per la sinagoga di Firenze: «venne spontaneo alla mente dei coadunati che un edificio destinato al culto di Israelitico debba e possa presentare un tipo tutto proprio [...], ogni Nazione ha impressa la sua storia nei monumenti massimamente religiosi, così un edificio della rammentata destinazione debba manifestare a prima

vista un carattere sì fattamente spiccato che rammenti le date e i luoghi per quella Religione più interessanti ed un carattere tale da non confondersi coi monumenti religiosi o civili di altre nazioni o Religioni» [cit. in KARWACKA CODINI, 1999]. Bibliografia Architettura e spazio sacro nella modernità (catalogo della mostra Biennale Venezia 1992-93) (1992). A cura di P. Gennaro. Milano: AbitareSegestaCataloghi, ASCARELLI, G., TERRACINA, A. S. (2004). Un’architettura fra rappresentazione e tradizione, in Il tempio Maggiore di Roma, nel centenario dell’inaugurazione della Sinagoga 1904 - 2004, a cura di G. Ascarelli, D. Dicastro et al., Torino: Allemandi, pp. 39-52. BOTTINI TREVES, R. (1995). Il Tempio Israelitico di Vercelli storia di un progetto, in «Bollettino storico Vercellese», a. XXIV, n. 2, pp. 5-67. CALABI, D. (1992). L’emancipazione degli ebrei e l’architettura della sinagoga. Qualche esempio in Europa, in Architettura e spazio sacro nella modernità, Milano: Abitare Segesta Cataloghi, pp.73-85. JARRASSÉ, D. (2005), Fonctions et formes de la synagogue: refus et tentation de la sacralisation, in «Revue de l’Histoire des religions», n. 4, pp. 393-409.

4: Interno del Tempio Israelitico di Roma [da «L’architettura Italiana», a. X, n. 5 (feb. 1915)]

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Le forme del ‘Tempio’: l’architettura della sinagoga in Italia nell’età dell’emancipazione. Tradizione, identità, monumenti 

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Storia e immagine della diversità urbana: luoghi e paesaggi dei privilegi e del benessere, dell’isolamento, del disagio, della multiculturalità

I luoghi del silenzio nella ‘città altra’. La chiesa dei SS. Pietro e Paolo nella Valle d’Agrò Places of silence in the ‘other city’. St. Peter and Paul church in Agrò's Valley SARA ISGRÓ Università degli Studi di Napoli Federico II Abstract Dall’affermazione degli orientali in Sicilia (secondo quarto del VII secolo) alla conquista araba si nota un rifiorire dell’architettura basilicale di chiara impronta imperiale romana e orientale e, accanto ad essa, si sperimentano strutture ecclesiastiche in cui l’elemento bizantino e quello arabo sono mirabilmente fusi in una nuova monumentalità occidentale. I rapporti culturali alle spalle di tali complessi, importano spesso schemi architettonici che si sono adeguati alle tradizioni costruttive e ai materiali da costruzione locali, sono evidenti in molte chiese ‘basiliane’ presenti nel territorio a sud della punta nord-orientale della Sicilia, ma anche in plurime testimonianze relative alle cappelle rupestri, alla trasformazione di templi pagani − talora eredi della tradizione eremitica − e legate anche alla solennità autocelebrativa delle cattedrali normanne; tutto questo ha inciso fortemente sulla caratterizzazione del paesaggio e del territorio e riconoscere queste specificità e questi valori, attraverso un’anamnesi di ciò che resta di questo patrimonio, costituisce un’interessante sfida per un progetto di conoscenza, conservazione e valorizzazione di questo tipo di ‘città altra’. During the time that starts from the Eastern government of the Byzantines in Sicily (second quarter of the seventh century) to the Arab conquest there is a revival of the ‘basilica’ architecture with a clear Roman and Eastern imperial imprint and, also, experiments in ecclesiastical structures in which the Byzantine and Arabic elements are admirably fused with the new western monumentality. The cultural relationships at the base of these buildings often demonstrate architectural patterns that have adapted to the construction traditions and local building materials, evident in many ‘Basilian’ churches present in the territory south of the north-eastern tip of Sicily, but also in many testimonies relating to the rock chapels, and also to the transformation of pagan temples - sometimes heirs of the hermit tradition - and also linked to the self-celebrating solemnity of the Norman cathedrals; all this has had a strong impact on the characterization of the landscape and the territory and recognizing these specific features and values, through a history of what remains of this heritage, constitutes an interesting challenge for a project of knowledge, conservation and enhancement of this type of ‘Other city’. Keywords Chiesa dei Santi Pietro e Paolo d’Agrò, conoscenza, restauro e valorizzazione. St. Peter and Paul church in Agrò's Valley, knowledge, conservation and enhancement. Introduzione Le vicende storiche e architettoniche in Sicilia, relative alla presenza di monaci di cultura greca, appaiono frammentarie perché scarsamente documentate; negli ultimi decenni, però,

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grazie soprattutto agli apporti della scuola siciliana, in un processo di riconsiderazione e riscatto di tutto il medioevo, si è registrato un aumento d’interesse scientifico per le testimonianze materiali del monachesimo italo-greco. La storia della penetrazione musulmana nell’isola e la successiva limitata permanenza dell’elemento islamico nelle principali roccaforti dell’area nord-orientale [Amari 1933], delinea un quadro storico nel quale l’influenza culturale maggiore, anche a seguito della conquista, vede il Valdemone come l’area in cui l’elemento greco ha fortemente influenzato lo sviluppo culturale successivo [De Stefano1938]. 1. I luoghi del silenzio Nell’Oriente tardoantico l’esperienza della vita monastica è stata caratterizzata dalla ricerca di uno spazio nuovo e alternativo nel quale maturare un percorso di avvicinamento a Dio da compiersi in una libertà spirituale e materiale dalle interferenze esterne. Tuttavia, per quanto votato a una vita di solitudine, il mondo monastico non ha mai potuto, né voluto, recidere totalmente i propri legami con il resto della società umana, così che la struttura dei monasteri ha dovuto assumere forme in grado di mantenere con essa canali di comunicazione. L’insediamento monastico è dunque un diverso modo di ‘fare città’ [Cavallo 1989] dove la tensione spirituale e l’engagement ideologico generati creano una dialettica paritaria fra mondo urbano e rurale, entro la quale anche i rappresentanti più alti delle istituzioni, che del mondo urbano sono la massima espressione, devono recarsi nelle campagne per poter conferire con i monaci in cerca di consigli e assistenza. D’altra parte, anche le evidenze testuali mostrano con chiarezza che il topos del deserto si materializza variamente dal punto di vista geografico, e ciò non solo in dipendenza dal tipo di percorso ascetico scelto [Marazzi 2015].

1: Chiesa Santi Pietro e Paolo in Val d’Agrò (ME).

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2. Uniti dal mare, la Calabria Ultra e il Valdemone siciliano: un singolare distretto culturale Durante la conquista normanna dell’isola, il territorio si caratterizza da un sistema viario in quota, connesso ad un altro lungo il periplo dell’isola per mezzo di strade organizzate secondo l’andamento monte-mare dei fiumi. Probabilmente nel Valdemone, dove all’epoca l’elemento greco è maggiormente radicato, i normanni tentano di utilizzare i monaci basiliani come alleati preziosi, promuovendo restauri di chiese e monasteri ed elargendo privilegi ai monaci di rito greco già radicati nel territorio [Scaduto 1982]. La dislocazione delle presenze monastiche basiliane dal periodo della contea fino al XIII secolo, desunta dalle fonti e riscontrata sul territorio, così come ben attesta il lavoro di Mario Scaduto, si intreccia con un’altra rete d’insediamenti ad essa concorrente e relativa alle fortificazioni, volute dagli Altavilla, all’epoca al governo del territorio. Ciò è importante al fine di comprendere le presenze e le loro relazioni, attraverso la fitta trama viaria siciliana, da Est verso Ovest. Tra gli esempi meglio conservati sono da citare le chiese messinesi di Santa Maria a Mili San Pietro, dei Santi Pietro e Paolo d’Agrò a Casalvecchio Siculo, dei Santi Pietro e Paolo di Itala, di Sant’Alfio, Cirino e Filadelfo a San Fratello, di San Filippo di Fragalà a Frazzanò e le reggine chiese di Santa Maria de’ Tridetti a Staiti e di San Giovanni Theriste a Bivongi. Tutti esempi di un’architettura priva di monumentalità e dalle dimensioni ridotte, chiaro riferimento alla cultura bizantina, il cui ornamento esterno, quando c’è, è rappresentato dalla consistenza materica degli intrecci arcuati ed è affidato agli effetti coloristici generati da giochi di tegole e mattoni. Che si tratti di impianti ad un’ unica navata, come ad esempio in Santa Maria di Mili e San Giovanni Theriste, o a tre navate (Santi Pietro e Paolo di Agrò o Santa Maria dè Tridetti), l’impostazione tripartita del presbiterio è sempre presente poiché rappresenta il fulcro spirituale e geometrico di tali edifici ed è proprio questo articolato sistema, rispondente ad esigenze religiose e funzionali, che determina la percezione degli spazi interni. Su questi volumi si innalzano le coperture a cupola; l’organizzazione degli spazi è affidata a una muratura di conglomerato cementizio di laterizi e pietrame sulla quale si innesta il paramento esterno organizzato con filari di mattoni, pietre locali e la tipica decorazione ad archi intrecciati: chiari riferimenti alla cultura islamica degli edifici omayyadi [Trunfio 2017, 27]. Ricordando il giudizio di Auguste Choisy sull’arte dell’XI e XII secolo quale «espressione di una società che risorge e attinge dalle vecchie civiltà che la circondano» [Choisy 1899, 202], l’area dello Stretto di Messina, posta al centro del Mediterraneo, rappresenta un caso emblematico di contaminazione culturale. All’arrivo in Italia, i conquistatori normanni si trovano di fronte una civiltà variegata ma ben consolidata dal punto di vista artistico, attestata da un’apprezzabile attività edilizia non priva di elementi di pregio e caratteristiche significative, in cui fa da protagonista la cultura bizantina che rimane radicata anche ben oltre il periodo aureo della dominazione degli Altavilla (basti pensare ai documenti in lingua greca del periodo del regno di Ruggero II o alla struttura amministrativa normanna che si fonda proprio sul modello di Bisanzio). [Trunfio 2017, 31-32]. Nella Sicilia musulmana, invece, l’esigua presenza greca assume un ruolo fondamentale poiché rappresenta, per i Normanni, l’unico legame con quella parte di popolazione autoctona che professa la religione cristiana. Si evince così che la produzione architettonica comitale è il frutto di una tendenza comune, tanto bizantina quanto islamica, volta alla sacralizzazione dello spazio centrico e all’esaltazione delle sue caratteristiche simboliche, attraverso la presenza di una copertura voltata. I nuovi conquistatori portano nuove tipologie costruttive, modelli che si concretizzano

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nella straordinaria produzione architettonica, sia a livello qualitativo che quantitativo. In questo periodo il monachesimo benedettino assume un ruolo di primaria importanza. 3. Tradizioni costruttive e materiali locali nelle chiese di rito greco in Valdemone Le chiese greche, piccoli impianti voluti dai Conti, veri e propri fulcri di controllo territoriale più che presidi religiosi, sorgono in luoghi per lo più solitari, lungo fiumare e corsi d’acqua, ricchi di giacimenti di argilla ma difficilmente raggiungibili. A ragione di ciò, la scelta del mattone, grazie alla lavorabilità e alla rapidità di produzione, si rivela quella più efficace. Decade l’uso dell’intonaco decorato per dare spazio all’apparecchio murario che, infatti, diventa il principale elemento di caratterizzazione architettonica degli edifici monastici: il mattone dunque si fa veicolo di un messaggio simbolico e artistico. La conoscenza dei materiali e delle tecniche costruttive travalica l’interesse per l’oggetto architettonico strictu sensu per allargarsi al campo delle lavorazioni, delle operazioni di cava e di cottura dei materiali, degli attrezzi utilizzati e, più in generale, consente di comprendere meglio la vita intorno a un cantiere edilizio, permettendo quella «più piena e consapevole conoscenza» da tutti invocata come necessaria per formulare qualunque ipotesi progettuale [Todesco 2007, 16]. Il laterizio, oltre alla forma tradizionale dei mattoni e delle tegole, è anche utilizzato per i dischi circolari delle colonne, per le losanghe dei paramenti di facciata e per mattoni romboidali. Dal punto di vista cromatico, si notano differenti gamme di colore: «un gioco di colori che non era casuale ma di proposito ricercato e voluto dai costruttori, dove il rosso del

2: Chiesa Santi Pietro e Paolo in Val d’Agrò (ME). Veduta dell’abside il cui slancio verticale è esaltato dalle sottili paraste che inquadrano la ricercata decorazione, ed impreziosiscono l’austera volumetria della chiesa-torre.

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mattone si alterna con le linee bianche delle malte interstiziali» [Orsi 1929, 47]. Al tema del laterizio i costruttori sanno però accostare elementi lapidei, al fine di ottenere effetti cromatici frastagliati e dinamici. Si trovano ciottoli di granito, blocchi e conci di calcare, bozze di scisto, arenarie, calcari e pietre vulcaniche, con la funzione di valorizzare la ricca trama organizzata con i mattoni. Si evidenzia così l’utilizzo del calcare e dei ciottoli di granito per le chiese calabresi di San Giovanni e Santa Maria de’ Tridetti e l’alternanza tra il calcare e la pietra lavica negli esempi siciliani, in particolare ad Agrò, che produce un forte dinamismo cromatico dagli effetti chiaroscurali di grande pregio. Ed è proprio la chiesa dei Santi Pietro e Paolo di Agrò, sita nel comune di Castelvecchio Siculo, a rappresentare l’esempio più compiuto della corrente artistica ‘basiliana’ nell’area dello Stretto di Messina; il monastero, riedificato nel 1116-1117, come si legge dal Diploma di Donazione emesso da Ruggero II a favore del monastero dell’abate Gerasimo, probabilmente sui resti di un edificio preesistente, seppur cronologicamente rappresenti l’ultimo atto della stagione greco-normanna, potrebbe essere definita come l’architettura di passaggio tra le piccole chiese monastiche e le grandi cattedrali della Sicilia. L’intero impianto, espressione di quel sincretismo dell’arte bizantina, araba e, appunto, normanna, ha il motivo di maggiore pregio nelle due cupole, in cui per la minore, all’intersezione tra transetto e presbiterio, si propone una soluzione di raccordo angolare unico nel suo genere: l’utilizzo di nicchie alveolate a muqarnas che, allo stato attuale degli studi, rappresentano il primo caso di applicazione in Sicilia [Trunfio 2017, 98]. La cupola maggiore, posta nella seconda campata della nave principale, grava su quattro colonne piuttosto tozze di granito, ed è anch’essa un motivo unico in Valdemone. Preceduto dall’endonartece serrato tra due robuste torri campanarie, l’impianto planimetrico a croce latina si articola in tre navate terminanti in absidi, di cui la più grande, a base rettangolare, rivolta ad oriente, rinserrata fra due altre absidi più piccole a base circolare, si innalza come una torre ornata da quattro grossi merli guelfi, percorsa da quattro altissime lesene di origine bizantina, non giustapposte ma connesse alla massa muraria, che si intrecciano in archi ciechi, in un transfer artistico di derivazione islamica che ritroviamo anche nel Palazzo Reale di Palermo. Nel timpano, tra l’architrave e l’archivolto, risalta una croce greca, in rosso e bianco su fondo rosso, inscritta in un cerchio; l’archivolto a sesto acuto è costituito da due semicerchi in cui si alternano blocchi di pietra bianca, nera e rossa. Nella parete laterale settentrionale, mattoni e pietra vulcanica sono apparecchiati attraverso l’utilizzo dei tipici archi intrecciati e di diverse tipologie di cortine murarie in laterizi che conferiscono un aspetto dinamico all’insieme. Nella parte meridionale, invece, l’organizzazione è più complessa grazie all’inserimento di conci di arenaria e calcarenite che offrono una soluzione di grande pregio decorativo. Seppur si tratti di una chiesa di modeste dimensioni, in un territorio abbastanza periferico, i costruttori di Agrò scelgono comunque una tecnica complessa per organizzarne le coperture. La scelta cade sul laterizio, sia per le calotte delle cupole, per i loro raccordi, per i tamburi con le decorazioni a dente di sega, per gli archi a sesto acuto che articolano i presbiteri e le navate, per le finestre e le merlature. L’aspetto fortificato, di ‘ecclesia munita’, con merlature sulle absidi, cammini di ronda e l’orientamento dell’asse principale della navata verso l’azimuth dell’alba liturgica del martirio di Teodoro d’Amasea, il carattere austero e imponente, un linguaggio figurativo che oscilla continuamente tra il colto e il popolare [Mondello Signorino 1983, 863], rivelano una peculiare condizione di mezzo della chiesa di Agrò, che dialoga continuamente con la semplicità formale dell’area dello Stretto e con la complessità degli impianti palermitani. Un caso isolato, al limite tra l’intimità tradizionale e l’intento monumentale, che svelerebbe il carattere sperimentale di questa costruzione da considerare come il punto di snodo tra la tendenza basiliana dell’architettura

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normanna e quella aulica delle fondazioni basilicali; un’architettura di passaggio che segna inesorabilmente, sia dal punto di vista storico che artistico, il declino della cultura prettamente greca a favore di un nuovo linguaggio. Il risultato linguistico di tale mescolanza è semplice e allo stesso tempo articolato in una calligrafia di grande suggestione [Trunfio 2017]. Conclusioni Lo studio ha voluto rileggere, seppur brevemente, attraverso l’approccio delle discipline storico-critica e del restauro, quella fitta rete di relazioni, quell’intricata geografia di segni dei rapporti culturali che hanno ispirato le chiese di rito greco in Valdemone: luoghi di predicazione e proselitismo, centri propulsori di idee, di culture artistiche e architettonico. Un patrimonio che ha inciso fortemente nella caratterizzazione di paesaggi e territori, costruito importando nuovi e sconosciuti schemi architettonici che si sono adeguati alle tradizioni costruttive e ai materiali locali. Nel restauro dell’architettura è ormai riconosciuta la necessità degli apporti pluridisciplinari per arrivare a una conoscenza approfondita dell’oggetto d’intervento, delle sue trasformazioni, da cui dovrebbero derivare le scelte progettuali. Dunque, risulta anche indispensabile la ricerca storica e documentale, l’indagine sugli archivi di carta, ma vi sono tuttavia ambiti regionali, come la Sicilia, dove l’assenza o la limitata disponibilità di questo tipo di fonti, riducono la possibilità di conoscenza. Per questa ragione sono estremamente utili forme non alternative ma integrative di documentazione,

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quali ad esempio la lettura stratigrafica degli elevati che rappresenta un importante strumento di analisi aperto a vari livelli di approfondimento, giacché al rilievo metrico, formale, distributivo, strutturale, materico, aggiunge quei dati che, interpretati criticamente, ne possono sintetizzare la storia costruttiva, garantendo il giusto livello di conoscenza necessaria per un precipuo progetto di conservazione della fabbrica. Il monastero dei SS. Apostoli, centro propulsore di cristianità, di studi scientifici, artistici, umanistici e di sperimentazioni agricole, ma anche centro di potere politico e giudiziario, acquistato dal Demanio dello Stato, nel 1909 viene dichiarato monumento nazionale; esso, insieme ad atre strutture del periodo, ha trasformato la geografia del paesaggio rurale entro cui s’impianta, connotandolo qualitativamente in modo del tutto nuovo, caratterizzando in senso fortemente identitario il paesaggio e il territorio della valle d’Agrò. I Basiliani, con la Croce e l’aratro, la preghiera e il lavoro, insegnarono ai contadini a dissodare i terreni e a fertilizzarli. Il loro lavoro ha fatto sorgere nell’intera vallata mulini ad acqua, trazzere, viadotti e percorsi d’acqua. Ed è proprio l’osservazione di ciò che resta di questo patrimonio a rappresentare oggi un’interessante sfida di conoscenza nei confronti di questo tipo di ‘città altra’ e al tempo stesso il presupposto irrinunciabile per la sua conservazione e restauro.

5: Chiesa Santi Pietro e Paolo in Val d’Agrò (ME), sez. trasversale in corrispondenza della prima cupola (ril. F. Basile 1.c., in Filangeri 1979).

4: Chiesa Santi Pietro e Paolo in Val d’Agrò (ME), pianta della chiesa (ril. F. Basile 1.c., in Filangeri 1979).

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Le missioni francescane in California. Il ‘Camino Real’, un riferimento identitario di architettura e restauro Franciscan Missions in California. ‘El Camino Real’, an Identitary Reference of Architecture and Preservation MARCO FELLI, SIMONETTA CIRANNA* Università degli Studi dell’Aquila Abstract L’architettura delle missioni francescane californiane esprime una forte identità storica e figurativa, risultato di un sincretismo e di un confronto/scontro fra tradizione locale e cultura europea. Uno scambio di esperienze e saperi che il presente contributo estende e indaga, in particolare, alle tecniche di consolidamento e restauro della prima metà del Novecento, finalizzate alla salvaguardia e alla mitigazione della vulnerabilità sismica grazie alle tecnologie contemporanee. The architecture of Californian Franciscan missions expresses a strong historic and figurative identity, as the result of syncretism and contrast between local tradition and European culture. This represents an exchange of knowledge which the present paper is going to analyze: in particular, it is going to focus on the consolidation techniques and restoration works of the first half of 20th century, which aim to preserve and mitigate the seismic vulnerability thanks to contemporary technologies. Keywords Missioni, Storia dell’Architettura, Restauri. Missions, History of Architecture, Restoration Works. Introduzione. ‘El Camino Real’ Con la fondazione delle missioni nella California tra il XVIII e il XIX secolo, si assiste nel contesto americano al primo vero tentativo di conciliazione della cultura locale con quella europea; l’educazione delle popolazioni del nuovo mondo alla società occidentale rappresenta l’obiettivo primario dell’attività dei missionari francescani, che per primi giungono nel territorio. El Camino Real (il cammino reale) costituisce un percorso di circa 600 miglia (pari a circa 960 chilometri) che connette tra loro missioni, presidi militari e piccoli villaggi dalla missione di San Diego a sud verso la missione di Sonoma nel nord, lungo l’alta California. È possibile constatare lungo questo percorso come luoghi e architetture evidenzino l’adozione di maestranze e tradizioni costruttive locali ‘povere’ e di modelli, strutture e tecniche europei. Lo studio di alcune delle missioni permette di individuare tali peculiarità, che diventano veri e propri elementi di identità dei luoghi. * Il testo, frutto di un lavoro di ricerca e di riflessione congiunto, è stato elaborato distintamente. Simonetta Ciranna ha curato il capitolo L’architettura delle missioni: l’identità come sintesi di due culture costruttive e Marco Felli gli altri capitoli La natura del luogo: terremoti e inondazioni e La campagna di restauri del primo Novecento.

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Le missioni francescane in California. Il “Camino Real”, un riferimento identitario di architettura e restauro

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1. L’architettura delle missioni: l’identità come sintesi di due culture costruttive 1.1 La fondazione delle missioni Tra il 1769 e il 1823, un totale di quattro presidios, insediamenti militari fortificati, ventuno missioni e tre pueblos, piccoli insediamenti locali, sono fondati nella zona denominata Alta California. Le missioni vengono localizzate in aree dove sono presenti le popolazioni native, in modo da avere una giurisdizione più efficiente, e in luoghi prossimi alle fonti di approvvigionamento di acqua e terreni coltivabili. L’obiettivo principale era costituito dall’educazione della popolazione locale alla gestione e alla conoscenza relativamente alle arti, della pratica e realizzazione del costruito. I principali promotori della fondazione delle missioni sono i frati francescani spagnoli Junipero Serra e Fermin Francisco de Lasuén, che dopo le proprie esperienze in Messico, si avvicendano in periodi seguenti e fondano 18 delle 21 missioni della California. 1.2 L’architettura delle missioni Le missioni sono organismi architettonici complessi: il centro della spiritualità e l’educazione è la chiesa, cui si riferiscono tutti gli altri ambienti, quali il convento e i locali di servizio per i missionari e per la comunità (negozi, ambienti per le donne, camere per ospiti, piccoli refettori, cucine ecc.).

Gli architetti delle fabbriche erano gli stessi frati, molte volte noti; tuttavia, in alcune occasioni, erano necessari aiuti ‘progettuali ed esecutivi’, ottenuti da artigiani attivi negli eserciti, mastri inviati appositamente nelle province, che rimanevano per periodi molto brevi. Le competenze

1: Missione di Santa Barbara, California, 1903/1904 (The New York Public Library, Detroit Publishing Company).

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dei frati, spesso, erano limitate e si basavano sull’esperienza assorbita nei luoghi di provenienza, Messico o Spagna, o sulla conoscenza assunta ‘scolasticamente’ dalle illustrazioni nei libri che portavano con sé nel nuovo mondo; esperienze e modelli che determinano il risultato figurativo delle missioni, mentre la loro costruzione è in più stretta relazione con il territorio, attraverso i materiali e le maestranze impiegate. Gli indiani nativi, soliti ad abitare in rifugi in legno dalla forma conica, non avevano larga conoscenza delle possibilità connesse ad altri materiali e in base alla geografia locale, privilegiano le risorse disponibili sul posto o nelle immediate vicinanze. L’uso della pietra, più tardo e vincolato a maestranze più qualificate, è quasi sempre limitato a edifici di maggiore dimensione e valenza simbolica, morfologicamente e tipologicamente complessi, con forti richiami nella scelta di stilemi figurativi dal barocco europeo. 1.3 Identità delle missioni nel luogo e nel tempo L’architettura delle missioni si fa portavoce dell’esigenza di evangelizzare i nativi del luogo: centro di riferimento e controllo, il risultato formale deve esprimere protezione e prestigio, ma al contempo indicare un messaggio di povertà, caposaldo dell’ordine francescano. La proposizione di un linguaggio frutto tra diverse culture assorbe e utilizza le esperienze autoctone restituendo una originale identità sostenuta da un mondo esterno. C’è un forte nesso tra le maestranze e i materiali del posto: il tempo necessario alla costruzione degli edifici di culto, variabile da quattro e cinque anni, è connesso alle lavorazioni, nello specifico al tempo necessario all’essiccazione dei mattoni in adobe. La stessa forma degli edifici è vincolata allo spessore dell’apparecchiatura muraria. La definizione di Californian style attribuita dalla storiografia non è propriamente corretta: l’architettura delle missioni francescane nella California evidenzia una matrice spagnola, europea e, anche, importata dalle colonie nel Messico, con richiami all’architettura romana e del rinascimento, a un oriente filtrato dalla Spagna, arricchita di elementi locali, come le espadañas (campanili a vela) e le strutture dei campanarios (campanili). Il risultato fornisce nel corso del tempo un riferimento identitario, peculiare del luogo, di equilibrio tra due culture. I richiami all’architettura spagnola si palesano negli aspetti sia funzionali sia strutturali delle missioni, come negli esuberanti caratteri decorativi, posti a esaltare torri, finestrature e aperture in generale, portali e facciate, cupole ecc…, su muri bianchi, che richiamano l’influenza araba del mondo iberico. Le decorazioni stesse forniscono un punto di incontro tra le culture, inserendo nei temi ornamentali forme tratte dalla natura, già utilizzate nelle rappresentazioni locali: una scelta che sottolinea anche simbolicamente la confluenza dei linguaggi del posto in una matrice più ampia, come se ne fosse la logica evoluzione. Anche l’architettura religiosa del Messico fornisce modelli di riferimento: un elemento comune è l’impiego della cupola, un segno identificativo e importante sul territorio come sembra testimoniare l’immagine tramandata che “per ogni villaggio esistesse una cupola” [Kimbro, 2009]. Diversamente dalle più complesse soluzioni del Rinascimento italiano e del Barocco mediterraneo, si tratta di cupole con un’unica calotta (non doppia con intercapedine come in molte soluzioni del Rinascimento europeo), a sezione a sesto ribassato, frequentemente rivestite con mattonelle invetriate colorate e con una lanterna in sommità. Le decorazioni colorate, oggi non più visibili in seguito a fenomeni di degrado, appaiono molto diffuse nelle architetture monumentali francescane del centro America. Gli aspetti distintivi possono essere sinteticamente ricondotti alla presenza di: solidi e grandi muri e contrafforti, colonnati, sistemi continui di arcate, timpani, torri campanarie con lanterna

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(quest’ultima in alcuni casi), elevati sporti di gronda. I chiostri, spesso presenti, ripresi dal linguaggio spagnolo, utilizzano pilastri squadrati semplici, privi di particolari decorazioni, data la difficoltà di lavorazione della pietra locale, molto fine, unitamente alla scarsità di manodopera qualificata. 2. La natura del luogo: terremoti e inondazioni La conservazione dei complessi esistenti spesso si scontra con la morfologia e le caratteristiche geologiche e climatiche del luogo: nello specifico gli eventi tellurici che hanno colpito i principali insediamenti di quest’area della California, posta in corrispondenza della faglia di San Andrea, tragicamente nota per i terremoti di notevoli intensità che vi si generano. Inoltre, il clima, unitamente alla vicinanza al mare, spesso ha favorito inondazioni e uragani che, unitamente a condizioni di degrado e abbandono, hanno generato crolli delle coperture e, di conseguenza, una veloce rovina e abbandono. Fenomeni che, nel corso del primo Ottocento, hanno anche determinato l’interruzione di costruzioni avviate e lo spostamento delle missioni in luoghi più sicuri. La prima metà del Novecento si caratterizza per il ripetersi di fenomeni sismici di notevole intensità, che in un contesto di più ampia distruzione hanno investito anche le missioni.

3. La campagna di restauri del primo Novecento 3.1 Le missioni nei periodi dell’abbandono Negli anni Trenta dell’Ottocento, molte delle missioni della California vengono secolarizzate; una trasformazione dove l’indipendenza del Messico ha un suo ruolo primario: molte delle missioni vengono confiscate e i frati francescani costretti all’esilio; documentato, inoltre, il

2: A sinistra, le 21 missioni del Camino Real; a destra, mappa con evidenziata la faglia di Sant’Andrea.

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richiamo a Roma di alcuni frati non per instabilità politica ma, piuttosto, per rapporti con i nativi sempre più incrinati. In questi anni di abbandono delle missioni, le chiese, in particolare, continuano a svolgere la loro funzione a servizio delle popolazioni locali. Esse divengono, quindi, luoghi non solo di memoria storica e religiosa, ma anche culle del patrimonio sociale e culturale locale. Verso la fine del secolo, inoltre, molte missioni in uso e alcune loro rovine diventano fonti di ispirazione per pittori e fotografi, come Henry Chapman Ford e Carleton Watkins. La pubblicazione del romanzo di Helen Hunt Jackson, Ramona (1884), incentrato sul mito delle missioni e sulla storia di California e Messico, accentua l’interesse non solo ‘pittoresco’ per questi luoghi, producendo una coscienza e sensibilità diffusa che determina i primi movimenti di salvaguardia e conservazione.

3.2 I primi enti di tutela Dagli anni Trenta, il dibattito per la conservazione e messa in sicurezza delle missioni acquisisce sempre più rilevanza. L’architetto paesaggista Phillip T. Primm, nel 1934 descrive lo stato di abbandono di molte delle architetture, tra cui le missioni, oggetto anche di atti vandalici. Primm è ispettore regionale della Civilian Conservation Corps (CCC), organo di tutela nazionale creato dal governo federale nel primo periodo della Grande Depressione anche per impiegare i giovani disoccupati. Egli avvia le prime collaborazioni con le associazioni private e gli enti locali tra i quali, importante ed esemplificativo è il National Park Service, un programma federale a tutela dei parchi naturali dove sorgono le missioni. Attraverso i programmi federali mossi dal New Deal del presidente Franklin Roosevelt, nel 1935 si crea un programma nazionale finalizzato all’identificazione, raccolta di dati e conservazione del patrimonio storico. Molte delle disponibilità economiche sono raccolte da fondazioni, come la già esistente CCC, ma anche l’Historic American Building Survey (HABS) e gli Index of American Design (Index), le cui documentazioni sono frutto di accurate campagne di rilievo condotte sulle missioni. Un patrimonio documentale di fotografie, relazioni descrittive dello stato di rovina, disegni fino ai dettagli costruttivi e ai materiali, che

3: Missione di San Fernando Rey de España. Foto dell’interno (Los Angeles Public Library).

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restituisce lo stato dell’arte pre-intervento, ma anche i principi e le logiche alla base degli interventi di risanamento, conservazione e, anche, di ricostruzione. 3.3 Le campagne di restauro e il ruolo delle nuove tecnologie costruttive: una nuova identità I devastanti terremoti che sconvolgono la California, in particolare quelli di San Juan del 1906 e di Santa Barbara del 1925, determinano un diverso e più radicale approccio alla conservazione degli edifici, con interventi che mirano a un consolidamento ‘sicuro’ in prospettiva di altri eventi futuri distruttivi.

Negli anni Trenta vengono avviate campagne di recupero e messa in sicurezza degli edifici storici, alcuni dei quali seriamente danneggiati dai terremoti, nei quali si sperimenta la potenzialità delle nuove tecniche costruttive, e tra queste il calcestruzzo armato. L’utilizzo del nuovo materiale è tema principale nel dibattito internazionale del momento: le sperimentazioni condotte in varie parti del mondo, come nelle ricostruzioni e restauri del primo dopo guerra italiano, mettono in risalto la necessità di linee guida a scala mondiale. Il punto chiave per l’utilizzo delle nuove tecnologie è costituito dalla carta di Atene del 1931, in cui, oltre a essere indicata come necessaria una collaborazione tra i diversi Stati per la conservazione dei monumenti d’arte e di storia, favorendo il restauro in anastilosi solo ove possibile, viene promosso l’utilizzo di tutte le risorse della tecnica moderna, “e più specialmente del cemento armato, in modo da conservare gli elementi in situ evitando i rischi di disfattura e ricostruzione” [Carta di Atene, 1931]. Il documento assume una tale importanza da essere recepito e letteralmente applicato in molti casi. Nelle missioni del

4: Missione di San Juan Bautista. Interno nel 1934 (Historic American Buildings Survey, foto di Roger Sturtevant).

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nuovo mondo, inoltre, assumono un ruolo primario anche le prime cement companies, che si pongono come vere e proprie lobby del settore. Base comune agli interventi di restauro è rappresentata dalla presa di coscienza della vulnerabilità di alcune tipologie costruttive: gli apparati costruttivi in muratura delle missioni presentavano punti di debolezza insiti nella propria natura e negli elementi strutturali quali archi volte e cupole. L’obiettivo era fornire ulteriore resistenza agli interi organismi nei confronti della forzante sismica, senza dover modificare radicalmente la forma degli edifici. Ciò determina un vero e proprio inserimento di strutture intelaiate in calcestruzzo armato all’interno della muratura, alcune volte a semplici realizzazioni di cordoli di coronamento, oppure sistemi di ausilio quali contrafforti esterni o inserimento di setti. 3.4 Esempi di interventi con l’utilizzo del calcestruzzo armato Un complesso esemplificativo delle trasformazioni e dei restauri condotti sulle missioni californiane è rappresentato dalla missione di San Juan Bautista, nell’omonima contea, fondata da padre Fermin Lasuén nel 24 giugno 1797 nel distretto di Monterey nelle fertili pianure in vicinanza del fiume San Benito. Nel 1808, l’impianto originario della chiesa, notevolmente danneggiato da una serie di eventi sismici nell’ottobre del 1800, viene ampliato notevolmente, triplicando le dimensioni della navata con l’addizione di lati separati da arcate in mattone; l’aspetto formale diventa unico nella California: i grandi muri, alti 40 piedi (circa 12 metri) erano i più alti mai costruiti. La realizzazione dell’edificio, caratterizzato dalla presenza di un nartece in facciata in continuità con il convento laterale, si conclude nel 1819.

5: Missione di San Juan Bautista. Sezione trasversale con indicazione dell’intervento (Historic American Buildings Survey).

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Il terremoto di San Juan del 1906 crea notevoli danni alla struttura, con crolli in alcune porzioni del convento e nelle navate laterale, lasciando intatta la navata centrale ma con diffusi inneschi di cinematismi di ribaltamento. Il dibattito sull’intervento si protrae per molto tempo; la situazione della navata centrale, con notevoli fuori piombo dei muri, in una situazione prossima al collasso, non favorisce decisioni condivisibili da tutti i tecnici che si trovano a operare. Solo nel 1950 la situazione si sblocca: la soluzione proposta prevede la ricostruzione delle porzioni crollate nelle navate laterali e dell’espadaña, ma, soprattutto, fornisce un modo di operare mai sperimentato precedentemente; i muri fuori piombo non vengono demoliti e ricostruiti, ma sono realizzati dei contrafforti esterni in calcestruzzo armato; inoltre, gli stessi apparati murari vengono consolidati alla base con piccoli setti in calcestruzzo armato, in modo da bilanciare l’intero sistema costruttivo. Conclusioni Le missioni della California, sono attualmente riconosciute nella loro duplice valenza di memoria e identità storico-culturale-religiosa e per la forte simbiosi con il contesto paesaggistico rafforzata dal concetto di Camino. Il caso di San Juan, così come gli altri edifici, fornisce interessanti temi di indagine e confronto: la loro architettura, unitamente alle operazioni di salvaguardia e messa in sicurezza mediante sistemi in calcestruzzo armato, rappresenta il punto di incontro tra diverse culture ed esigenze: viene privilegiato la conservazione storica del bene, la sua trasmissione al futuro senza alterazioni. È in questa sintesi che i restauri proposti rafforzano l’identità idealizzata delle missioni rispetto al luogo. Bibliografia Mission Memories… The Franciscan Missions of California (1900). Carta di Atene per il restauro dei monumenti storici (1931). AIKEN, R. S. (1983). The Spanish Missions of Alta California. Rise, Decline and Restoration, in Pioneer America, vol. 15 n. 1, March, International Society for Landscape, Place & Material Culture. ENGELHARDT, Z. OFM (1913). The Missions and Missionaries of California. San Francisco: The J. H. Barry C. KIMBRO, E.E., COSTELLO, J.G., BALL, T. (2009). The California Missions. History, Art and Preservation. Los Angeles, California: The Getty Conservation Institute. KRYDER-REID, E. (2010). “Perennially New": Santa Barbara and the Origins of the California Mission Garden, in «Journal of the Society of Architectural Historians», vol. 69 n.3, September 2010, University of California Press on behalf of the Society of Architectural Historians. LEE, A.J. (1990). Spanish Missions, in «The Journal of Preservation Technology, APT Bullettin», v. XXII, n.3 1990. NEWCOMB, R. (1937). Spanish-colonial Architecture in the United States. New York city: J. J. Augustin. SEWALL, J.M. (2013). California Mission Architecture: a Survey and Sourcebook. Schiffer Publishing, Ltd. WEEKES-WILSON, L. (1913). Monograph on the old Franciscan Missions. California, Santa Barbara: Pacific Coast Publishing Company. WEINBERG, N.G. (1974). Historic Preservation and Tradition in California: The Restoration of the Missions and the Spanish-Colonial Revival. University of California. Fonti archivistiche Historic American Building Survey HABS Drawings. Los Angeles Public Library Photo Collection. National Park Service. The New York Public Library. Digital Collection. Sitografia https://artsandculture.google.com/exhibit/mwJyzm7X2wwbLA California’s Missions. Decline and Revival (aprile 2018)

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La chiesa e la cittadella monastica di Santa Maria di Costantinopoli a Napoli: dismissioni, trasformazioni e tutela a seguito della soppressione The church and monastery of Santa Maria di Costantinopoli in Naples: disposals, transformations and protection after the suppression of the religious orders GIOVANNI SPIZUOCO Università degli Studi di Napoli Federico II Abstract Fin dalla sua fondazione, la cittadella monastica di Santa Maria di Costantinopoli a Napoli ha vissuto alterne fortune che hanno portato al ciclico ripetersi di fasi di abbandono e di riscoperta del tempio e del culto a cui essa è dedicato. Nel corso del XIX secolo, il complesso, di fondazione cinquecentesca e già rimaneggiato durante il Seicento ed il Settecento, è stato più volte oggetto di pressanti tentativi di alterazione in favore delle nuove costruzioni che oggi completano l’insula. Since its foundation, the monastery of Santa Maria di Costantinopoli in Naples underwent alternate periods of abandonment and resurgence. During the 19th century, the complex, founded during the 16th century, but already reworked during the 17th and 18th century, was often subject to insistent alteration attempts, which aimed at building new buildings inside the insula. Keywords Santa, Maria, Costantinopoli. Santa, Maria, Costantinopoli. Introduzione Il tessuto urbano che comprende la chiesa di Santa Maria di Costantinopoli a Napoli è un isolato formato a seguito di trasformazioni la cui genesi è dovuta, a cavallo tra Settecento ed Ottocento, ad un susseguirsi di vicende abbastanza complesso. Si tratta di un blocco edilizio compreso tra via Santa Maria di Costantinopoli, via Broggia, via Pessina e piazza Museo, la cui superficie è occupata oggi, per la maggior parte, dalla Galleria Principe di Napoli e dagli edifici per abitazioni e terziario costruiti contestualmente a quest’ultima e realizzati nell’ambito di un lungo intervento di trasformazione dell’area delle Fosse del grano, così detta per la presenza degli antichi granai di città, dismessi a partire dal 1804. Sulle vicende storiche che hanno portato all’attuale conformazione urbana della zona compresa tra Piazza Dante ed il Museo Archeologico Nazionale, la storiografia si è ampiamente espressa e, soprattutto grazie ai contributi di De Fusco, Di Stefano, De Franciscis, Alisio, Buccaro ed il più recente testo di Rossi, si è potuta ricostruire una storia caratterizzata da numerosi progetti, aventi come comune denominatore la creazione di un nuovo e più efficace collegamento tra via Toledo ed il Palazzo degli Studi [Alisio 1978; Buccaro 1985; De Franciscis 1977; De Fusco, Bruno 1962; Di Stefano 1972; Mangone 2010; Rossi 2010] . Come è noto, i progetti che hanno interessato l’insula hanno spesso avuto ambizioni ben più ampie, arrivando persino ad interessare l’area di piazza del Gesù Nuovo, di cui si è spesso

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discusso in merito all’opportunità di raggiungerla per mezzo di un nuovo collegamento viario e su cui, finanche in tempi più recenti, si sono tentati numerosi interventi, anche a scopo speculativo [Pane A. 2012]. La redazione delle numerose proposte di trasformazione urbana ha però dovuto scontrarsi spesso con la presenza di un gran numero di edifici monumentali che occupavano le direttrici privilegiate per la realizzazione dei nuovi assi viari e verso cui, come vedremo, non sempre l’approccio è stato conservativo. Tra questi vi è sicuramente il complesso monastico di S. Maria di Costantinopoli che, per la sua importanza, ha dato il nome all’omonima strada ed alla porta, poi demolita nel 1853. 1. La chiesa, il monastero ed il giardino Il complesso monastico con l’omonima chiesa ha sede in una delle strade più suggestive di Napoli, così descritta da Roberto Pane: «Via S. Maria di Costantinopoli è la sola, fra le strade larghe della città, che sia tutta disseminata da edifici di interesse storico-artistico. […] Prima che venisse demolita la porta di S. Maria di Costantinopoli e la compatta isola, compresa tra il Palazzo degli Studi e porta Sciuscella, fosse tagliata dalle trasversali via Broggia e via Conte di Ruvo – in conseguenza all’abolizione delle Fosse del grano – la via appariva come una lunga galleria di fabbriche religiose e patrizie, estendentesi fra le due porte urbane e su una sezione stradale così ampia da non aver riscontro con alcun’altra zona della vecchia città» [Pane R. 1963]. Tuttavia la cortina di fabbriche antiche e pregevoli di cui ci parla Pane, magistralmente raffigurata nel noto dipinto di Antonio Joli del 1762, è spesso stata considerata da regnanti ed architetti non come una galleria di edifici di pregio ma piuttosto come un elemento di chiusura della città: un ostacolo all’ammodernamento del tessuto viario cittadino, di cui si percepiva la necessità sin dalla seconda metà del Settecento.

1: Antonio Joli, Veduta di via Santa Maria di Costantinopoli, 1762.

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La fondazione del tempio è avvolta da un’ombra di mistero e gravita intorno ad una leggenda: il popolo napoletano attribuì al ritrovamento di un’immagine della Vergine da parte di una anziana donna, nei pressi delle mura della città, l’ormai cessato triplice pericolo rappresentato da peste, guerra e carestia che, nel giro di pochi anni, avevano quasi dimezzato la popolazione napoletana. Di conseguenza, si sarebbe deciso di fondare, come ex voto, in quello stesso luogo una nuova chiesa. Una piccola cappella dedicata a tale culto, era in realtà già presente sul luogo, ed è ben più probabile che la fondazione dell’attuale tempio sia dovuta ad un ampliamento di quello già esistente. Ciò che invece possiamo considerare certo è che dalla minuziosissima descrizione dell’arcivescovo Annibale de Capua del 4 giugno 1586, deduciamo che, in quell’anno, l’impianto planimetrico della chiesa era sostanzialmente impostato, sebbene non si faccia alcuna menzione della relativa cupola [Venditti 1969; Ambrasi 1976; Mormone 1994]. Molti studiosi hanno perciò ipotizzato che, tra il 1603 ed il 1608, la chiesa abbia subito un primo intervento di modificazione (o forse di completamento) ad opera di fra’ Nuvolo (al secolo Giuseppe Donzelli), a cui, tra l’altro, va senza dubbio attribuita proprio la realizzazione della cupola con copertura ad embrici a squame smaltate a più colori, poi ripresa in molte altre opere del frate domenicano, prima fra tutte la Basilica di Santa Maria alla Sanità [Ghisetti Giaravina 2013; Mormone 1994; Pane R. 1939; Pane G. 1988]. La pregevole fattura della chiesa, il suo valore storico e la sua importanza all’interno dell’asse viario su cui insiste, sono stati, come vedremo, elementi fondamentali per la sua conservazione negli anni a seguire, nonostante talvolta se ne sia ipotizzata una parziale distruzione. Il «collegio di civili ed agiate donzelle» occupava tutto il fronte nord della chiesa, a ridosso delle mura spagnole, ed era stato fondato nel 1603, secondo quanto riportato da Giovanni Battista Chiarini, che ce ne offre una descrizione: «Nobile è il fabbricato in cui si respira aria soavissima, perché sorge su le mura spagnuole della città all’angolo delle così dette Fosse del grano» [Celano 1870, 825], cioè, spiega Roberto Pane, nell’angolo sud-ovest del confine urbano, dove la murazione spagnola definisce un «rivellino quadrato», come evidenziato dalla pianta Lafréry [Pane R. 1963]. Insieme ad esso fu edificato il giardino delle monache, di cui si ha testimonianza certa fino all’inizio dei lavori di demolizione delle Fosse del Grano. Ancora, faceva parte del complesso il monastero, anch’esso con giardino, la cui geometria è riconoscibile nella mappa del duca di Noja e le cui strutture sono ancora oggi parzialmente esistenti, adibite ad istituto scolastico. 2. Progetti, demolizioni e costruzioni in età borbonica Le vicende che hanno portato all’attuale conformazione dell’intero quartiere Museo sono ben note. Numerosi sono i lavori scientifici che hanno contribuito a scrivere una storia di quello che, in origine, doveva essere un ambizioso piano di ammodernamento dell’area e che è andato poi riducendosi e trasformandosi, assumendo, per certi versi, le sembianze di un’operazione speculativa, volta più a costruire abitazioni per la borghesia che a risolvere questioni di natura urbana [Alisio 1992; Di Liello 1997]. Se si analizzano le carte redatte a cavallo tra Settecendo ed Ottocento, ad esempio la Pianta della città di Napoli come esiste nel presente anno 1790 redatta da Giovanni Antonio Rizzi Zannoni o la Pianta Topografica del Quartiere San Lorenzo redatta dal Reale Officio Topografico della Guerra nel 1830, si può notare che il complesso monastico e la chiesa occupavano gran parte dell’attuale insula di S. Maria di Costantinopoli, che allora formava un unico corpo con l’intera cortina di fabbriche che si estendeva lungo il fronte occidentale della strada. Quello più a nord dei due edifici delle Fosse del grano, in realtà, era confinante solo

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per un tratto con la cittadella monastica, mentre era completamente attiguo al complesso di San Giovanni delle Monache, anch’esso poi rimaneggiato dal sapiente intervento di Errico Alvino [De Fusco, Bruno 1962; Pugliano 2004]. Si può facilmente dedurre che la rettifica della salita delle Fosse del grano, l’abbattimento di quest’ultime e la loro sostituzione con nuovi edifici a carattere pubblico si sarebbe potuta realizzare anche senza intaccare il complesso monastico. Come è noto, però, la ragione principale del piano di rinnovamento dell’area non fu solo la semplice sostituzione degli edifici oramai abbandonati, ma un più ambizioso piano, atto a terminare l’ultimo tratto di via Toledo e a dare un ingresso privilegiato al Palazzo degli Studi, in accordo coi criteri di simmetria ed euritmia tipici del gusto neoclassico e di quello neorinascimentale, a cavallo tra Settecento e Ottocento [Alisio 1978; De Franciscis 1977]. Come ha evidenziato Buccaro, l’antesignano di tutti i progetti successivamente presentati per l’area è il Saggio sull’Abbellimento di cui è capace la città di Napoli, pubblicato nel 1789 da Vincenzo Ruffo, in cui sono contenute in nuce gran parte delle proposte che saranno poi avanzate dai prestigiosi architetti che affronteranno la questione. Tra queste, vi è senz’altro la costruzione di un nuovo Palazzo di Città, il prolungamento di via Toledo e l’apertura di una nuova strada che doveva collegare il Palazzo degli Studi con il largo Trinità Maggiore [Buccaro 1985; De Franciscis 1977]. Proprio quest’ultima idea sarà spesso presente nei progetti ottocenteschi, rappresentando, insieme con la parallela a via Toledo, una vera e propria invariante (nella definizione di De Fusco) del dibattito urbano [De Fusco 1986], tanto da avere parziale esito con l’apertura della cosiddetta “via postica”, poi rinominata via Bellini. Pochi anni dopo Ruffo, nel 1810, è Stefano Gasse ad avanzare una nuova proposta volta a prolungare via Toledo lungo il proprio asse, che incontra il Palazzo degli Studi proprio al centro di quest’ultimo [Buccaro 1989, 27]. L’idea di Gasse è ripresa trent’anni più tardi dall’architetto Antonio Niccolini, il cui progetto incontrerà i favori del Decurionato, pur rimanendo sulla carta. Stessa sfortunata sorte ebbe il progetto presentato un anno più tardi dall’architetto Luigi Marono, che prevedeva, invece, la rettifica della salita delle Fosse del grano e la demolizione della porta di Costantinopoli, poi realmente avvenuta [Buccaro 1985, 188-189]. Il lungo iter d’interventi che hanno interessato l’area, già ampiamente studiato dalla storiografia, comincia solo nel 1852, quando si demoliscono le Fosse del Grano e la porta Costantinopoli nell’intento di realizzare quanto Fedinando II aveva auspicato nelle sue Appuntazioni per l’Abbellimento di Napoli, in accordo con le idee di Ruffo, risparmiando quindi i complessi monastici di S. Maria di Costantinopoli e di San Giovanni delle Monache. I lavori furono coordinati dall’architetto Gaetano Genovese, seguendo probabilmente il progetto Marono, come ipotizza Buccaro. Invero, come evidenziato già agli inizi del secolo scorso da Fausto Nicolini, tali interventi erano auspicati dal sovrano più per mire propagandistiche che per un’effettiva volontà di ammodernare la capitale, pertanto risulta difficile credere che dietro il rifiuto di tagliare i complessi monastici dell’area ci fosse una certa sensibilità artistica ma, piuttosto, questioni di opportunità politica ed economica. Infatti, il 30 maggio 1853, come riportato dalle cronache, si tenne una fastosa inaugurazione di quello che era stato, in realtà, solo un lavoro preparatorio e non una sistemazione definitiva. Del 1854 invece è l’approvazione da parte del Consiglio Edilizio del progetto di E. Alvino, F. P. Capaldo, F. Saponieri e L. Catalani, che prevedeva di tagliare in due il giardino delle monache, a cui era concesso un belvedere ed un passaggio sotterraneo. Nicolini scrive che le monache intrapresero un disperato tentativo di bloccare il progetto, sborsando una somma di denaro a Gaetano Galizia, cameriere particolare dell’allora principe Francesco II, che la storiografia postunitaria ha talvolta ritratto come corrotto uomo di corte e talvolta invece come

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integerrimo servitore del re [De Cesare R. 1908, 257; Nisco 1889, 234]. L’intermediazione di Galizia, per conto delle monache, presso il sovrano pare abbastanza probabile dato che, come racconta lo storico Raffaele De Cesare, questi «morì in Napoli il 22 febbraio 1862 di apoplessia, a 65 anni, lasciando due figlie religiose nel conservatorio di Santa Maria di Costantinopoli, dotate da Ferdinando II, e due maschi, Ferdinando e Gennaro»; quest’ultimo fu prete, anch’egli molto vicino alla famiglia reale [De Cesare R. 1908, 108]. È dunque evidente lo stretto legame che doveva esserci tra le monache e Galizia. Aggiunge Nicolini: «Mi si racconta che le monache di S. Maria di Costantinopoli si fossero rivolte anche al confessore di Francesco II, allora principe ereditario, il quale, quantunque non avesse mai aperto bocca nelle sedute del Consiglio di Stato, avrebbe avuto il coraggio di farlo per la prima volta, per sostenere le ragioni delle religiose. Terminato il Consiglio, re Ferdinando avrebbe detto al figlio: Né, Lasa, di ‘a verità, è stato u cunfessore che t’ha ditto ‘e parlà pe’ monache?; e Francesco, arrossendo, avrebbe confessato che il padre aveva colto nel segno». Per l’impegno delle monache o, più probabilmente, per la solita scarsità di fondi che caratterizzava molte delle opere del regno, nel maggio 1856 i lavori furono interrotti e portati a compimento solo dopo l’Unità d’Italia. Nel frattempo, però, le proposte e i progetti che prevedevano il taglio dei chiostri del monastero non si fermarono, anzi si susseguirono senza soluzione di continuità tra i due regni, a riprova dell’influenza cittadina di quel gruppo di architetti, ingegneri ed imprenditori che costituirono il vero motore delle trasformazioni urbane dell’epoca e che, verosimilmente, agirono anche per interessi speculativi. Già nel 1857, com’è noto, il progetto di E. Alvino, F. Gavaudan, G. Genovese e F. Saponieri, riprendeva l’idea di prolungare via Toledo, salvando la chiesa, ma demolendo parte della cinta muraria e dei locali del complesso monastico, tagliandone il giardino e prevedendo un edificio che sormontasse la nuova strada, il quale, come ha evidenziato De Fusco, può essere considerato “l’idea primitiva di quella galleria che verrà realizzata un trentennio più tardi nella stessa zona” [De Fusco, Bruno 1962, 34]. Tra il 1857 ed il 1861 si susseguirono numerose proposte per l’area, come minuziosamente descritto da Buccaro, tutte sostanzialmente infruttuose. Tra queste vi furono nel 1859 quella dell’architetto municipale Alessandro Capocelli e quella dell’architetto Francesco De Cesare, della quale non sono pervenuti grafici, ma dalla cui relazione si evince che, per ragioni di economicità, l’autore preferisce che si realizzi il prolungamento di via Toledo, anziché la rettifica della salita degli Studi. Nel 1860, invece, è presentato il noto secondo progetto del gruppo Alvino, Gavaudan, Genovese, Saponieri e successivamente un’ulteriore proposta del De Cesare, avanzata sotto forma di opuscolo, nel vano tentativo di convincere il regnante a riprendere la sua prima idea [Buccaro 1985, 190-191]. 3.Il concorso del 1861 e la definitiva realizzazione dell’opera A seguito dell’Unità d’Italia, il 12 marzo 1861, il Municipio bandì un concorso “sullo immegliamento e decorazione della contrada tra la piazza del Mercatello ed il Museo Nazionale», al fine di realizzare “la migliore comunicazione tra la parte superiore ed inferiore della contrada medesima” [De Franciscis 1977, 92]. Come ha evidenziato Giovanni De Franciscis, i progetti presentati nell’ambito del concorso dimostrano una maggiore disinvoltura (dovuta anche all’ormai imminente soppressione degli ordini religiosi, già prospettata dal governo piemontese) rispetto al passato nell’affrontare il rapporto con le presistenze monastiche, prevedendo abbattimenti anche nei confronti delle chiese che fino ad allora erano rimaste fuori dalle demolizioni [De Franciscis 1977, 95].

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È noto che nessun progetto risultò vincitore, sebbene il Consiglio Edilizio ne valutò positivamente tre: quello degli architetti G. Genovese, U. Rizzi, F. P. Capaldo; quello di G. Rega e E. Saponieri; e quello di G. Capocelli, A. Capocelli, D. Torcia e F. Vacca. Un ulteriore progetto, caratterizzato dall’evocativo motto Meglio errar che fermarsi, di cui sono ignoti gli autori, fu considerato valevole di menzione1. Il progetto di Genovese, Rizzi e Capaldo è redatto in tre distinte versioni, ognuna delle quali prevede il prolungamento di via Toledo e l’abbattimento dei monasteri di S. Maria di Costantinopoli e di San Giovanni delle monache che “occupano suoli preziosi e necessari ad ingrandire in sì bella contrada l’abitato della città, (i quali) si dovrebbero trattare per l’apertura di nuove strade e per avere suoli edificatori», come riportato nella relazione progettuale [De Franciscis 1977, 94]. Il progetto di Rega e Saponieri, sebbene muova da posizioni maggiormente conservative, prevede comunque una parziale demolizione dei monasteri. Di avviso totalmente diverso è, invece, il progetto menzionato dalla commissione e di cui non si conoscono gli autori: questo prevedeva infatti l’apertura di un lungo asse viario che collegasse il Museo con la piazza del Gesù Nuovo e che, pertanto, tagliasse, più o meno indifferentemente, qualsiasi preesistenza, tra cui l’abside di S. Maria di Costantinopoli. La realizzazione di questa via, a partire dal suddetto concorso, rappresenterà un elemento centrale dei successivi interventi e sarà spesso argomento di discussioni in seno al Consiglio Comunale2. La cosiddetta via postica, oggi via Bellini, sarà più volte proposta e discussa dagli architetti del tempo, sia perché avrebbe rappresentato un importante asse di comunicazione, in particolare se estesa fino all’attuale piazza del Gesù Nuovo, e sia perché avrebbe consentito la lottizzazione di parecchi suoli la cui rendita fondiaria era particolarmente elevata. Tale strada è proposta nel progetto che, visto il fallimento del concorso, è richiesto agli architetti G. Bonamici, G. Capocelli, G. Genovese, E. Saponieri, che sostanzialmente prevedeva una lottizzazione dell’area delle Fosse del grano e dei monasteri, pur riconoscendo parzialmente le proprietà agli enti religiosi. Come ha evidenziato De Franciscis, “lo scopo ed i risultati del concorso erano stati disattesi, mentre […] si faceva sempre più pressante l’idea della lottizzazione dei suoli risultanti dall’abbattimento delle Fosse del Grano, e l’apertura della strada postica, l’attuale via Bellini”, per cui il carattere di riforma urbana dell’intervento lasciò sempre più spazio alla speculazione [De Franciscis 1977, 92]. Entro questa logica va inquadrato il successivo progetto a firma M. Capocci e E. Saponieri, che non interessa direttamente l’insula in questione, ma che è un chiaro esempio dell’ormai assodata volontà di realizzare un quartiere borghese in quell’area. Tale volontà vedrà la sua massima espressione nella nota vicenda dell’appalto concesso all’imprenditore Hecht, che, sul piano del progetto Bonamici, Capocelli, Genovese, Saponieri, si propose di eseguire per intero i lavori, salvo poi rinunciare alla concessione quando il Consiglio decise per una sostanziale riduzione della via postica. Come evidenziato dal recente libro di Mangone, le proposte per l’area si susseguirono rapidamente negli anni successivi al concorso, da parte di numerosissimi architetti ed ingegneri, nel tentativo di dare una soluzione all’annosa questione, pur non tenendo conto dei presistenti monasteri [Mangone 2010]. Tra queste, spiccano i due progetti che presentò, nel ’62, Giovanni Riegler, corredati da vedute prospettiche. Il primo riprendeva l’idea di prolungare via Toledo fino al Museo, al fine di “rendere più grandioso e bello l’effetto prospettico della scena allo spettatore”, inquadrando la strada tra due edifici che a loro volta 1 Napoli. Archivio Storico Municipale di Napoli. Consiglio Comunale. Seduta del 23 Settembre 1861, p. 179. 2 Napoli. Archivio Storico Municipale di Napoli. Consiglio Comunale. Seduta del 9 Settembre 1862, pp. 648-649. Seduta del 22 Maggio 1865, pp. 444-445 .

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generavano altre due strade, una sul sedime della salita delle Fosse del Grano e l’altra che, raccordandosi con via Costantinopoli, tagliava in due monastero e giardini di S. Maria di Costantinopoli per terminare, ad angolo, su un fianco della chiesa [De Franciscis 1977, 102]. Ancor meno conservativa era la seconda proposta di Riegler, che, prevedendo un grande square di fronte al Museo, pretendeva di demolire l’intero complesso monastico, compresa la chiesa.

2: Giuseppe Fumagalli, Paolo Sorrentino (?), Progetto per la riduzione della Calata delle Fosse del Grano e riparto in piccoli lotti dei suoli di risulta visto il voto del Consiglio Comunale, Archivio Storico Municipale di Napoli. Sezione disegni. Prima ancora che, nel 1867, fosse redatto il progetto, poi realizzato, ad opera di N. Breglia e G. De Novellis, che prevedeva la definitiva interruzione della via postica all’altezza del palazzo Tommasi ed il suo slittamento verso ovest per evitare il taglio dell’abside della chiesa [Buccaro 1989, 29-30], un ulteriore progetto fu presentato al Consiglio Comunale a firma degli architetti Giuseppe Fumagalli e Paolo Sorrentino. Da questo disegno, rinvenuto presso l’Archivio Storico Municipale di Napoli, si evince che l’idea, poi realizzata, di costruire uno spazio coperto di fronte al museo fosse stata proposta anche dai suddetti autori. La linea della via postica è però non ancora traslata verso ovest e tange l’abside della chiesa, per incontrare il Museo quasi in corrispondenza del centro dell’edificio. L’impianto generale è comunque impostato alla stessa maniera di quello poi compiuto, fatta eccezione per via Broggia, che sarà realizzata qualche metro più a sud, con la conseguente riduzione di superficie dei due isolati che oggi affacciano su via Pessina e su via Micco Spadaro.

3: Nicola Breglia, Giuseppe De Novellis, Disegno su tela, Archivio Storico Municipale di Napoli. Sezione disegni. 1867

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Il progetto di Fumagalli e Sorrentino, se paragonato a quello di Breglia e De Novellis, pare molto più vicino a quella logica speculativa cui si è accennato e sembra voler massimizzare la rendita piuttosto che l’efficacia urbana dell’intervento. A tal proposito possiamo evidenziare che la tavola è corredata da una tabella riportante il valore economico dei singoli fabbricati che dovranno realizzarsi e che la via postica è addirittura definita come “strada intermedia di comunicazione (…) e all’oggetto diversi fronti edificatori (…) e rendere isolati le zone dei singoli fabbricati”.

Come si è detto, il progetto di Breglia e De Novellis, poi realizzato, è per certi versi simile a quello di Fumagalli e Sorrentino, ma ha sicuramente una maggiore vocazione pubblica. La costruzione della Galleria Principe di Napoli, a conclusione di via Bellini, come è noto, aveva l’intento proprio di creare uno spazio coperto di carattere pubblico che desse la possibilità al Museo di dialogare con il suo intorno. Allo stesso tempo, tale intervento a carattere pubblico era giudicato necessario poiché l’area “essendo larga di soli nove metri, e fiancheggiata dal terrapieno di Costantinopoli che ha un’altezza di 45 metri, risulterebbe inadatta per la edificazione di case per abitazioni private, e quindi il suolo resterebbe invenduto”3. Da ulteriori due disegni di Breglia e De Novellis, rinvenuti presso l’Archivio Storico Municipale di Napoli, già menzionati da Pugliano ma qui pubblicati per la prima volta [Pugliano 2004, 134] e probabilmente realizzati a corredo del progetto del 1867, si evince una maggiore attenzione alla conservazione del complesso monastico di S. Maria di Costantinopoli: è, infatti, previsto lo sgombero dell’area intorno alla chiesa e la demolizione dei pochi volumi superstiti di quella che era l’ala del complesso monastico a ridosso delle antiche mura. Non è ancora previsto l’alto edificio che oggi occupa gran parte del fronte dell’insula su via Broggia e che, di fatto, sovrasta completamente le strutture superstiti del monastero. Si evince, ancora, da questi disegni, il forte salto di quota che ancora oggi caratterizza l’area e che la realizzazione della Galleria Principe di Napoli non è riuscito a mitigare, nonostante occupi parte del sedime del giardino del monastero.

3 Napoli. Archivio Storico Municipale di Napoli. Consiglio Comunale. Seduta del 16 Settembre 1869, p. 220.

4: Nicola Breglia, Giuseppe De Novellis, Disegno su tela, Archivio Storico Municipale di Napoli. Sezione disegni. 1867.

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Conclusioni La cittadella monastica di S. Maria di Costantinopoli, come si è visto, è stata per circa un secolo oggetto di continui tentativi di manomissione, arrivati poi a conclusione sul finire dell’Ottocento. A partire dalla dismissione delle Fosse del Grano, la volontà di ammodernare la zona e di creare nuovi assi viari è sempre stata preponderante rispetto alle istanze conservatrici che si sono manifestate, dovute più allo spirito di sopravvivenza del complesso monastico e dell’ordine religioso che ad un reale interesse comune verso le ragioni dell’arte e della storia. L’unico fulcro dell’insula verso cui si è mostrato, quasi sempre, un atteggiamento conservativo è la chiesa, in accordo a quella tendenza ottocentesca ad isolare i monumenti più importanti, alienandoli dal proprio contesto, anzi credendo spesso così di liberarli e di rendergli un servizio.

5: L’area del giardino di Costantinopoli con alle spalle l’imponente edificio per abitazioni ottocentesco. Aprile 2018, vista dalle coperture della navata della chiesa.

Si può oggi affermare che oggi poco è rimasto delle originarie strutture del complesso monastico, e che queste non siano in un buono stato, anche a causa dei lavori postbellici di adattamento alla funzione di istituto scolastico. Dagli archivi della Soprintendenza della città di Napoli si è potuto verificare però che, nel 1996, un progetto di restauro degli antichi giardini è stato portato a conclusione, con esiti tutto sommato positivi, cercando di valorizzare al massimo la preesistenza e le geometrie degli antichi percorsi in battuto di lapillo. Le trasformazioni ottocentesche hanno oggi totalmente snaturato la vocazione conventuale dell’insula, di cui non si riconosce più, fatta eccezione per il fronte su via Costantinopoli, la forte identità religiosa. Gli edifici addossati a quel che è rimasto della cittadella monastica sono pensati secondo una logica di monumentalità che non stabilisce alcun dialogo con la

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preesistenza, anzi la soffoca all’interno di alte strutture, fino a nascondere quello che dovrebbe essere l’elemento di maggiore interesse storico ed architettonico dell’area, ovvero la cupola a embrici smaltati realizzata da fra’ Nuvolo, un landmark perduto, oggi totalmente invisibile da qualsiasi lato si tenti di osservarla. Bibliografia ALISIO, G. (1964). L’ambiente di Piazza Dante in antichi rilievi inediti, in «Napoli nobilissima», vol. IV, pp. 185-192. ALISIO, G. (1975). Aspetti della cultura architettonica dell’800 a Napoli: le architetture in ferro, in «L’architettura cronache e storia», n. 174-183. ALISIO, G. (1978). Lamont Young: utopia e realtà nell'urbanistica napoletana dell'Ottocento. Roma: Officina, 1978. ALISIO, G. (1992). Napoli nell’Ottocento. Napoli: Electa, 1992. AMBRASI D. (1976). S. Maria di Costantinopoli in Napoli: la chiesa, la parrocchia. Napoli, 1976. BUCCARO, A. (1985). Istituzioni e trasformazioni urbane nella Napoli dell’Ottocento. Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane, 1985. BUCCARO, A. (1989). Il luogo in cui sorse in Il Teatro Bellini: 1865-1988, Napoli: Associazione Amici del Bellini, 1989, pp. 24-33. BUCCARO, A., MATACENA, G. (2004). Architettura e urbanistica dell’età borbonica: le opere dello Stato, i luoghi dell’industria, Napoli: Electa Napoli, 2004. DE CESARE, R. (1908). La fine di un Regno. Napoli, 1908. DE FRANCISCIS, G. (1977). Proposte e trasformazioni urbanistiche tra piazza del Mercatello e largo delle Pigne, in Da Palazzo degli Studi a Museo archeologico: Mostra storico-documentaria del Museo Nazionale di Napoli, giugno-dicembre 1975, a cura del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, Napoli: Arte Tipografica, 1977, pp. 77-104. DE FUSCO, R. (1986). Le trasformazioni dalla nascita della società industriale a oggi, Il regno del possibile. Analisi e prospettive per il futuro di Napoli, Milano: Edizioni del Sole 24 Ore, pp. 527-550. DE FUSCO, R., BRUNO G. (1962), Errico Alvino. Architetto e urbanista napoletano dell’800. Napoli: L’arte tipografica, 1962. DE SETA, C. (1981). Napoli. Roma-Bari: Laterza, 1981. DI LIELLO, S. (1997). Quartieri operai e borghesi, in Civiltà dell’Ottocento: architettura e urbanistica, cura di G. Alisio, Napoli: Electa Napoli, 1997, pp. 97-105. DI STEFANO, R. (1972). Edilizia e urbanistica napoletana dell’Ottocento, in «Napoli Nobilissima», vol. XI, pp. 3-32. DIVENUTO, F. (1990). Napoli sacra del XVI secolo: repertorio delle fabbriche religiose napoletane nella cronaca del gesuita Giovan Francesco Araldo. Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane, 1990. FARAGLIA, N. F. (1902). Le fosse del grano, in «Napoli Nobilissima», vol. I, pp. 39-43. FERRARO, I. (2002). Napoli. Atlante della città storica. Centro Antico. Napoli, Clean, 2002. GHISETTI GIARAVINA, A. (2013), Nuvolo, Vincenzo, detto fra’ Nuvolo, in «Dizionario biografico degli italiani», vol. 79, Roma, 2013. MANGONE, F. (2010). Centro storico, Marina e Quartieri Spagnoli: progetti e ipotesi di ristrutturazione della Napoli storica : 1860-1937. Napoli: Grimaldi, 2010. MORMONE, R. (1994). Fra’ Nuvolo architetto in Santa Maria alla Sanità, in Incontro di studio su Fra’ Nuvolo, a cura di M. Miele, Napoli: Arte tipografica, 1994, pp. 27-57. NICOLINI, F. (1905). Dalla Porta Reale al Palazzo degli Studi, in «Napoli Nobilissima», vol. XIV, pp. 124-184; vol. XV, pp. 1-116. NISCO, N. (1889). Storia del Reame di Napoli dal 1824 al 1860. Napoli. PANE, A. (2012). Dagli sventramenti al restauro urbano. Un secolo e mezzo di progetti per un’area strategica del centro storico di Napoli: l’insula del Gesù Nuovo (1862-2012) in Restauro e riqualificazione del centro storico di Napoli patrimonio dell'UNESCO tra conservazione e progetto, a cura di A. Aveta, B.G. Marino, Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane, pp. 276-300. PANE, G. (1988): Fra’ Nuvolo e Fanzago tra sperimentalismo e tradizione, in L’architettura a Roma e in Italia (1580-1621) (Atti del XXIII Congresso di Storia dell’Architettura, Roma 24-26marzo 1988), a cura di G. Spagnesi, Roma: Centro di studi per la storia dell'architettura, 1988. PANE, R. (1939). Architettura dell’età barocca in Napoli. Napoli: EPSA, 1939.

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Il Recinto del Monastero del Santissimo Redentore a Scala, Salerno The enclosure of the Monastery of the Santissimo Redentore in Scala, Salerno RAFFAELLA ESPOSITO, GIULIA PROTO Università degli Studi di Napoli Federico II Abstract La lettura del tessuto urbano di Scala, piccolo centro amalfitano di fondazione altomedievale, condotta attraverso la comparazione delle fonti iconografiche, consente di individuare tra le sue invarianti morfologiche, percorsi ed edifici che conservano la loro giacitura nonostante le modifiche degli ultimi due secoli. Tra queste invarianti, il Monastero del Santissimo Redentore e il recinto, che lo isola dal contesto urbano in cui è posto, è certamente una delle più evidenti e consistenti. The interpretation of the urban pattern of the small medieval town on the Amalfi coast, Scala, led by the comparison between the iconographic sources, allows to identify, in the several morphological invariants, the ways and the buildings that preserve their recumbents, despite the changes of the last two centuries. Among these invariants, the Monastery of the Santissimo Redentore and its enclosure is the clearest and most considerable one. Keywords Tessuto urbano, recinto, invarianti morfologiche. Urban pattern, enclosure, morphological invariants. Introduzione Il presente lavoro intende riflettere sul ruolo del recinto del Monastero femminile del SS. Redentore nello sviluppo urbano del Casale di Scala. Attraverso un’ampia rassegna bibliografica e la ricerca archivistica, che ha messo in luce fonti inedite, si è inteso ragionare sulle motivazioni storiche e gli esiti contemporanei della cesura tra gli spazi pubblici e il claustro. L’area del Monastero del SS. Redentore è situata a nord di Piazza Municipio, in quello che fin dalle origini della Civitas Scalensis, era considerato il centro principale tra i sei casali che compongono l’abitato storico di Scala [Venditti 1962]. In adiacenza al recinto del Monastero femminile si estende l’area di proprietà dei padri Redentoristi, anch’essa dotata in origine di un recinto, ora perduto. Quest’ultima fu in parte acquisita dal Comune per la realizzazione dell’attuale edificio scolastico (1963-74). 1. Evoluzione storico morfologica dell’Istituto religioso: da Conservatorio della Concezione a Monastero delle Visitandine Agli inizi del Seicento a Scala esisteva il solo Monastero femminile di San Cataldo [Sebastiano 2004]: l’accesso era riservato alle ragazze nobili, mentre le popolane potevano essere ammesse solo come converse [D’Amato 1975, 82-83]. * Il saggio è frutto del lavoro congiunto delle due autrici; Raffaella Esposito è autrice del paragrafo 1 e delle conclusioni, Giulia Proto del secondo e del terzo paragrafo.

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IL RECINTO DEL MONASTERO FEMMINILE DEL SS. REDENTORE A SCALA (SA)

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1: Il Casale di Scala con l’indicazione delle aree del Monastero del SS. Redentore (in rosso) e della proprietà appartenente al Convento dei padri Redentoristi (in giallo). Immagine tratta da Google Maps Immagini©2018 ed elaborata dalle autrice. Nel 1622 il parlamento istituì una Commissione per la costruzione di un Conservatorio1, in cui accogliere le ragazze del meno abbienti. Fu grazie al sacerdote scalese Don Lorenzo Della Mura, che l’opera ebbe inizio: il primo ottobre 1633 egli donò tutti i suoi beni al Capitolo della Cattedrale, ponendo come condizione che il Conservatorio fosse istituito entro quattro anni dalla sua morte [Imperato 1981, 429]. Il 2 febbraio 1634 il sacerdote morì e la Commissione diede immediatamente inizio ai lavori di adeguamento della sua dimora2, realizzando una piccola chiesetta dedicata alla Madonna Immacolata. Nel 1636 gli amministratori acquistarono delle proprietà, appartenenti alla famiglia Sorrentino, adiacenti alla Casa Della Mura, consistenti in stanze, cisterna e orto sito nel luogo detto Piscopio3. Nel 1662 fu acquistata una proprietà consistente in una vigna e una casa, con tre stanze al piano di sopra e due al piano di sotto, nel luogo detto Vescovado, contigua ai beni appartenenti all’Istituto. Dalla descrizione dei confini4 si potrebbe identificare, con la porzione del fondo agricolo, oggi interna al claustro, all’altezza del Viale dei Tigli, la parte rettilinea della Via Vescovado. A questo primo momento di crescita seguirono anni di stasi dovuti alla particolare contingenza politico-economica: la rivolta del 1647 contro il Vicereame spagnolo guidata tra gli altri da Tommaso Aniello d’Amalfi, la crisi economica e la peste del 1656 decimarono e

1 Scala, Archivio del Monastero del SS. Redentore, Cartelliera 2, B. G, f. 64. 2 Scala, Archivio del Monastero del SS. Redentore, Platea, Cod. 21, f. 15. 3 Scala, Archivio del Monastero del SS. Redentore, Platea, Cod. 21, f. 16. 4 Scala, Archivio del Monastero del SS. Redentore, Platea, Cod. 21, ff. 49 e 50.

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affamarono la popolazione. Il Conservatorio si trovò a non avere più rendite e in breve tempo si spopolò, riducendosi a diventare residenza di briganti. Il 7 ottobre 1694, Monsignor Luigi Capuano, vescovo di Scala e Ravello, si reca in visita presso l’istituto. Sappiamo che egli ordinò numerosi interventi tra cui: la sostituzione dei cancelli d’ingresso in legno con cancellate in ferro, la chiusura di alcune finestre e l’apertura di nuove sulla via pubblica, la realizzazione di un nuovo accesso alla chiesa dal giardino e la sopraelevazione del recinto sul lato del giardino di sei palmi. Nel 1711 i governatori della Città, d’accordo con i procuratori del Conservatorio, avanzarono domanda alla Sacra Congregazione del Concilio, per trasformare l’istituto in un Monastero di clausura. [Gregorio 1957, 407-415]. Ma il 3 giugno 1712 la Sacra Congregazione rispose negativamente rimettendo la decisione al vescovo. Monsignor Giuseppe Perimezzi. Viste le reiterate istanze della città, il 25 giugno 1712 egli emanò il decreto di fondazione del nuovo Monastero; il suo successore, Mons. Nicola Guerriero, affinché il progetto andasse a buon fine, chiese a due prelati di recarsi a Scala per guidare la nascita nel Monastero. Nel 1719 giunse a Scala il religioso Tommaso Falcoia della Congregazione dei Pii Padri Operai di Napoli, il quale, insieme al suo superiore, padre Maurizio Filangieri, avviò i lavori di riorganizzazione fisica e spirituale dell’istituto. Il nuovo regolamento fu approvato dal Capitolo e da Mons. Guerriero il 25 aprile 1720. Il 21 maggio vi fu la solenne entrata delle fanciulle del Monastero sotto la regola di S. Agostino e dell’Ordine della Visitazione di S. Francesco di Sales5. Negli anni immediatamente successivi si procedette ad acquisire tutte le proprietà disponibili in adiacenza al nucleo originario del Conservatorio, per dotare il futuro Monastero di spazi maggiori: si acquistarono immobili appartenenti alla mensa vescovile con lo scopo preciso di “ampliare la clausura”6. Interessante è la descrizione di una vigna che si estende “sino al cantone del muro dirimpetto alla porta piccola della Cattedrale, verso Tramontana, e dal cantone di muro verso sopra tira diretta”7: in questo caso l’area in oggetto è facilmente identificabile con l’estremo sud del giardino, dove, in tempi recenti, si è realizzato il varco carrabile di accesso al Monastero. Un’altra acquisizione importante riguarda “una casa consistente in due stanze, una sopra l’altra con cisterna sotto di quella e orto, nel luogo detto del Vescovado”, in adiacenza all’edificio del Conservatorio e confinante su due lati con la via pubblica, nei pressi di una nobile fontana. Quest’ultimo particolare ci consente di ipotizzare che si tratti dell’edificio che forma lo spigolo nord-est del recinto, all’incrocio della rotabile, via Largo Monastero e la pedonale, via Sant’ Alfonso Maria de’ Liguori, dove fino a qualche decennio fa era presente un fontana pubblica. A questo punto si intrapresero i lavori per la costruzione della nuova ala dell’edificio e del nuovo claustro, conferendo alla struttura la dimensione e la forma che, con poche modifiche, è giunta sino ai nostri giorni. Il 28 maggio del 1722 vi fu la posa della prima pietra dell’ampliamento della fabbrica.[Mansi 1887, 2, 73-74]. Anche la piccola cappella fu restaurata e ampliata: i lavori furono realizzati dal Mastro Fabbricatore Andrea Manso, con stipula di contratto in data 20 agosto 1723 sotto la direzione dell’ingegnere Carlo Brancolino e interessarono la copertura della chiesa, e il passaggio tra il coro e il Monastero8. 5 Scala, Archivio del Monastero del SS. Redentore, Cartelliera 2, B. E, f. 50/a. 6 Scala, Archivio del Monastero del SS. Redentore, Platea, Cod. 21, ff. 50 e 55. 7 Scala, Archivio del Monastero del SS. Redentore, Platea, Cod. 21, f., 52. 8 Ravello, Archivio del Duomo, Scritture private, Doc. Monastero del SS. Redentore Scala. Resoconto delle opere per i lavori alla Cappella del Monastero di Scala (senza numerazione).

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2: Il Monastero visto dall’ex Episcopio, 1928, Archivio del Monastero del Santissimo Redentore, Scala. 2. La nascita del Protomonastero del Santissimo Redentore L’istituto delle Visitandine, diretto da Padre Falcoia con l’ingresso delle tre sorelle Orsola, Giulia e Giovanna Crostarosa, l’8 gennaio 1724, si avvia all’ultimo cambiamento. Giulia, che aveva preso il nome di Suor Candida, avrà un ruolo fondamentale in questa vicenda. Il 9 febbraio del 1724 veste l’abito visitandino e prende il nome di Suor Maria Celeste del Santo Deserto. La monaca, protagonista di episodi mistici scrisse la nuova regola del monastero che in un primo tempo vide l’opposizione di padre Falcoia [Mansi 1904]. Nel 1730 giunge a Scala Sant’ Alfonso Maria de’ Liguori, in cerca di riposo, su consiglio dell’amico Giuseppe Pansa: fu invitato a recarsi presso l’eremitaggio di Santa Maria de’ Monti in Scala, dove avrebbe potuto riposarsi e fare del bene ai pastori, unici frequentatori del luogo [Rey-Mermet 1982, 263-272]. Di ritorno a Napoli incontrò padre Falcoia che lo mise al corrente degli avvenimenti che vedevano protagonista la Crostarosa. Nel settembre 1730 Sant’Alfonso tornò a Scala per esaminare la vicenda della nuova regola. Il Vescovo, cui fece dettagliata relazione, diede la sua autorizzazione per la trasformazione dell’istituto secondo la regola della Crostarosa. Il 6 agosto le monache vestirono il nuovo abito prendendo il nome di Religiose del Santissimo Salvatore.

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Il 3 ottobre 1731 la mistica ebbe una nuova visione in cui il Signore indicava il de’ Liguori come fondatore di una congregazione maschile: il 9 novembre 1732 Alfonso e i suoi compagni si recarono alla Cattedrale di Scala per l’inaugurazione solenne del nuovo istituto alla presenza del Vescovo. Il ‘Santo Avvocato’ e la ‘Beata Crostarosa’ ebbero, negli anni seguenti, forti opposizioni dalla comunità scalese: Suor Maria Celeste dovette sopportare persino l’accusa di pazzia e fu espulsa dal monastero nel maggio 1733 [Majorano, Simeoni 1998, 114.]; anche S. Alfonso rinunciò alla sua opera missionaria a Scala nel 1738, arrendendosi alle ostilità della popolazione. 3: Pianta del Monastero alla quota del coro della Cappella. Archivio del Monastero del SS. Redentore, Scala L’approvazione pontificia ai due istituti fu concessa da Benedetto XIV, il 25 Febbraio 1749 per i missionari, e l’8 Giugno 1750 per le religiose [Severino-Boezio 1764]: il papa attribuì loro il titolo del Santissimo Redentore per non confonderli con un istituto già esistente altrove. La comunità del Santissimo Redentore fu salvata dalle leggi eversive grazie all’interessamento delle autorità locali. Il 7 settembre 1811 fu emessa la regia disposizione che obbligava le Monache di San Cataldo a lasciare il proprio monastero e ad aggregarsi al nuovo ordine: per questo motivo, il Monastero del Santissimo Redentore custodisce documenti e beni dell’antico monastero benedettino [Imperato 1981, 444]. Dopo l’unità d’Italia gran parte dei beni ecclesiastici passarono alle autorità civili per legge: le proprietà delle Redentoriste furono acquisite dal Demanio ad eccezione del monastero e del

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giardino che furono acquisiti dal Comune di Scala [D’Amato 1975, 97]; nel 1902 il Padre Redentorista bavarese Matthias Prechtl, acquistò il complesso e le monache rientrarono “pacificamente in possesso del giardino e della casa”9. Nel 1895 nel monastero vi erano appena tre suore, tre converse e un’educanda. Esse chiesero aiuto al curatore generale della congregazione che nominò il Padre Redentorista Olandese Willem Marinus van Rossum, prefetto di Propaganda Fide, delegato del monastero. Egli intraprese un’opera di rinnovamento dell’istituto innestando nella comunità, culla dell’Ordine, cinque suore belghe10, che giunsero a Scala nel 1910. In relazione a questo periodo particolarmente interessanti sono alcuni disegni datati 191211, con didascalie in francese che portano la sigla I.M.I. Alp. G., custoditi presso l’Archivio del Monastero del SS. Redentore. In essi sono riportate in rosso le trasformazioni e gli ampliamenti del corpo di fabbrica originario. In particolare, si osservano le aperture del claustro, lungo l’attuale Largo Vescovado, oggi perdute, delle quali si ha riscontro fino alla prima metà del Novecento (fig. 2). Dai grafici si può desumere che vi era l’intenzione di creare nuovi ambienti nel cortile compreso tra il lato sud-est della cappella e il recinto. Il progetto non fu mai realizzato e il muro oggi appare completamente chiuso senza nessuna traccia di tali aperture. Nel 1929 fu posta la prima pietra del nuovo Convento dei Redentoristi, inaugurato nel 193212: la struttura sorge di fronte alla porta del Monastero, con l’ingresso perfettamente in asse a quello dell’Istituto femminile, come a voler sottolineare la complementarità tra i due edifici e tra le due comunità religiose. Un legame che ha contribuito ad alimentare la devozione per i due fondatori, ancora molto sentita nella popolazione scalese e di tutto il comprensorio Amalfitano.

4: Dintorni Di Napoli Minute Di Campagna - Foglio 15 Amalfi, I.G.M. 1872. Archivio I.G.M. Immagine completa con indicazione dell’area oggetto di studio e dettaglio. 9 Scala, Archivio del Monastero del SS. Redentore, Platea, Cod. 21, f. 194. 10 Scala, Archivio del Monastero del SS. Redentore, Platea, Cod. 21, f. r. 11 Scala, Archivio del Monastero del SS. Redentore, Amm. A Sc. 1., f. 196 . 12 Scala, Archivio del Monastero del SS. Redentore, Platea, Cod. 21, f. 197 e segg.

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3. Il claustro nelle fonti iconografiche: identità e persistenza di una specificità del tessuto urbano nella prospettiva di un piano di recupero del centro storico di Scala Il centro storico del Casale di Scala si sviluppa lungo il percorso via Episcopio, piazza Municipio, via Torricella e appare dominato dalla presenza del recinto monastico, che racchiude l’edificio e il giardino terrazzato in una forma pseudo-triangolare [Gargano 1997, 444]. Dall’analisi delle cartografie storiche emerge la permanenza di questa forma: nella Minuta di campagna dell’I.G.M. del 1872, appare evidente il segno che rappresenta il claustro. Si tratta dell’unica cartografia antecedente alla mappa catastale d’impianto, che invece risale agli anni compresi tra il 1886 e il 1916. In quest’ultima è possibile individuare le aree di proprietà del monastero e della congregazione, nonché i percorsi pubblici (via Episcopio, via Traglio, e via Rossa) che le circondano. Si osserva che, non solo sono sopravvissuti i tracciati, sebbene con qualche adattamento, ma anche i toponimi di strade e spazi pubblici. Nel corso del XVIII secolo l’area di proprietà dell’ordine Redentorista aveva inglobato tutti gli immobili adiacenti al nucleo originario fino a lambire le strade pubbliche: in questo modo il nuovo elemento si sovrappone al tessuto storico senza alterarne i tracciati viari. 5: Mappa catastale d’impianto del comune di Scala (1886-1916). Fonte Collegio dei Geometri di Salerno ed elaborazione a cura delle autrici

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Il recinto costituisce un elemento fortemente connotante quella unicità e irriproducibilità propri di tutti i tessuti urbani storicamente consolidati, delle grandi città come dei piccoli centri. Il suo forte valore identitario ne fa un elemento cardine, una specificità peculiare del tessuto urbano del piccolo centro collinare amalfitano: tutte caratteristiche che vanno a costituire principi imprescindibili di cui tener conto in fase di redazione del Piano di Recupero per il centro storico di Scala. Conclusioni Il vigente Piano Urbanistico Attuativo di Restauro e Risanamento Conservativo dei nuclei abitati del Comune di Scala, non contiene prescrizioni specifiche riguardo al Monastero e al suo recinto. Esso, pur annoverando il complesso tra i Nuclei storici originari, non fornisce, indicazioni cogenti, a guida degli interventi, che la singolarità del manufatto richiederebbe. Le lacune normative e una atavica assenza di controllo dell’attività edilizia hanno favorito le trasformazioni e le manomissioni operate sul complesso monastico, soprattutto negli ultimi vent’anni. L’area del Monastero del Santissimo Redentore si innesta in un tessuto storico di fondazione altomedievale come risultato della progressiva acquisizione e trasformazione di proprietà adiacenti, consistenti in edifici, aree terrazzate e boschi di castagno. L’analisi delle vicende costruttive del muro/recinto permette di evidenziare come esso abbia contribuito a fornire un determinato disegno della città. Il claustro settecentesco è stato inglobato all’interno del tessuto urbano medievale come fosse un’isola, allo stesso tempo contenuta da esso, ma da esso profondamente distinta. Il recinto lambisce i tracciati viari storici, percorrendo i quali lo si può osservare nella sua sacra e monumentale inviolabilità. La permanenza di questo segno, dimostra che, l’istituzione religiosa, fortemente voluta dalla comunità scalese del Seicento, continua a rappresentare un elemento fortemente identitario per la società contemporanea. Il recinto, nonostante la sua imponenza e il suo carattere di chiusura, risulta oggi perfettamente ‘metabolizzato’ nel contesto e la sua conservazione è percepita come un’istanza irrinunciabile. Bibliografia D’AMATO, C. (1975). Scala un centro amalfitano di civiltà. Scala: Pro-Loco di Scala. GARGANO, G. (1997). Scala Medievale: insediamenti, società, istituzioni, forme urbane. Amalfi: Cultura e Storia Amalfitana. GREGORIO, O. (1957) Preistoria del monastero redentorista di Scala, in Spicilegium historicum CSSR. Anno 5, Vol.1. Collegium S. Alfonsi de Urbe IMPERATO, G. (1981). Vita religiosa nella Costa di Amalfi. Monasteri, conventi e confraternite. Salerno: Palladio Editrice. MAJORANO, S., SIMEONI A. (1998). Maria Celeste Crostarosa. Autobiografia. Materdomini: Editrice San Gerardo. MANSI, L.(1887). Ravello sacra-monumentale. Milano: Tipografia Zini. MANSI, L. (1904). La Culla del duplice Istituto del SS. Redentore di Scala. Roma: Tip. della Pace di F. Cuggiani. REY-MERMET, T. (1982). Le saint du siècle des Lumìeres: Alfonso de' Liguori (1696-1787). Paris: Nouvelle Cité., edizione italiana, 1983, Roma: Città nuova Editrice. SEBASTIANO, V.(2004) Forme di architettura medievale in Campania: il Monastero di S. Cataldo a Scala. Amalfi: Centro di Cultura e Storia Amalfitana. SEVERINO-BOEZIO, G. (1764). Costituzioni per le monache de' monasterj del SS. Redentore il primo de' quali è stato eretto nella città di Scala. Napoli.

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VENDITTI, A. (1962-63). Scala e i suoi borghi, in «Napoli Nobilissima», vol. 2, nn. 4-6, vol. 3, n. 1. Sitografia http://redentoriste.com/monastero-2/ (2016) http://www.monasterocrostarosa.it/ (aprile 2018) http://www.santalfonsoedintorni.it/scala-monastero-delle-redentoriste.html (aprile 2018) http://www.cssr.news/italian/redentoristi/nostra-storia/ (2017) http://www.redentoristinapoletani.it/le-comunit%C3%A0-in-italia-meridionale/scala/ (aprile 2018) http://www.santalfonsoedintorni.it/pdf-studi-storici-alfonsiani (aprile 2018)

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Geometria come fede: la città ‘altra’ nell’esperienza di Paul Bellot nell’Isola di Wight Geometry as faith: the city ‘other’ in Paul Bellot’s experience in the Isle of Wight MARIA CAROLINA CAMPONE Scuola Militare Nunziatella di Napoli Abstract L’esperienza del benedettino Paul Bellot (1876-1944) – trascurata in genere dalla critica più recente – risulta esemplare per comprendere gli sviluppi dell’architettura religiosa del Novecento. Sin dal suo primo progetto, l’abazia di Quarr nell’isola di Wight, l’architetto coniuga le istanze legate alla vita religiosa con quelle squisitamente artistiche, comuni allo scenario europeo del tempo segnato da revivals orientalistici, dalle ricerche delle Avanguardie e dal tentativo di ridefinire il problema dello ‘stile’. Bellot sperimenta taluni elementi destinati a caratterizzare in seguito il suo lessico formale, quali l’impiego della luce come strumento espressivo, il ricorso al laterizio, l’articolazione generale dell’enclave religiosa. Il ricorso a l’équerre mysterieuse – un sistema che gli consente di applicare la sezione aurea senza ricorrere a calcoli e che sarà fondamentale nei suoi successivi progetti – gli consente di giungere a soluzioni formali destinate a influenzare profondamente l’architettura europea e nordamericana del XX secolo. The experience of the Benedictine Paul Bellot (1876-1944) – neglected in general by the most recent criticism – is exemplary for understanding the developments of twentieth century religious architecture. Since his first project, the abbey of Quarr in the Isle of Wight, the architect combines the issues related to religious life with those exquisitely artistic, common to the European scenario of the time marked by oriental revivals, by the research of the Avant-gardes and by the attempt to redefine the problem of "style". Bellot experiments with certain elements destined to later characterize his formal lexicon, such as the use of light as an expressive tool, the recourse to bricks, the general articulation of the religious enclave. The use of the "équerre mysterieuse" – a system that allows him to apply the golden section without recourse to calculations and which will be fundamental in his subsequent projects – allows him to arrive at formal solutions designed to profoundly influence the European and North American architecture. of the twentieth century. Keywords Équerre mysterieuse, architettura sacra del XX secolo, stile. Équerre mysterieuse, religious architecture of the Twentieth century, style. Introduzione All’inizio del XX secolo, l’architettura in Europa sembra godere di un inedito e generalizzato discredito, che, secondo i contemporanei, si deve al fatto che la nuova committenza,

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rappresentata dalla borghesia, non è in grado di produrre edifici in grado di reggere il confronto con quelli del passato [Faure 1921, 294-295; Réau 1936, 388].

1: Isola di Wight, Quarr Abbey, refettorio (Campone 2018). Nel contempo, si avverte in maniera sempre più cogente la necessità di elaborare uno “stile” adatto ai nuovi edifici religiosi, in grado di coniugare tradizione e nuove istanze culturali e di rappresentare, simbolicamente e iconograficamente, la reazione della Chiesa a una diffusa politica anticlericale, evidente in special modo in Francia. In questo contesto si inserisce l’attività di Paul Bellot (1876-1944), impegnato nella ricerca di un linguaggio cristiano non disattento alle istanze della modernità, ma aperto al confronto con esperienze diverse e materiali innovativi. Considerato in passato alla stregua di un Berlage o di un Gaudì, definito di volta in volta allievo di Choisy e Viollet-le-Duc o maestro “dell’espressionismo in mattone” [Bergeron 1997, 79] Bellot affronta, coerentemente con il suo tempo, un problema in cui macera la cultura storico-architettonica, che, agli inizi del Novecento, si trova a ridefinire i paradigmi formali dello “stile”, secondo i quali si era sviluppato il lavoro di generazioni di professionisti precedenti, nella ricerca di un lessico atto a veicolare il contenuto della sua fede cristiana che, immutato nei termini teologici, doveva rivelarsi docile ad adattarsi a forme e materiali

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suscitati dal nuovo contesto in rapida evoluzione, anche a causa dei repentini mutamenti dei sistemi di produzione [Campone 2018]. 1. Le costruzioni monastiche Il portato innovativo del linguaggio di Bellot era ben noto agli specialisti suoi contemporanei: Maurice Denis, nella sua Histoire de l’art religieux, scrive: “Insomma, tre architetti francesi prima della guerra hanno esercitato una larga influenza, Perret, un classico del cemento armato, Droz, romantico della cupola, e Dom Bellot, rinnovatore dell’arte monastica” [Denis 1939, 291]. Fra il 1906 e il 1912, in effetti, il francese realizza il monastero di Oosterhout, in Olanda, e quello di Quarr-Abbey, opere che ne rivelano l’originalità, ma anche la vicinanza alla Scuola di Beuron e al suo fondatore Desiderius Lenz (1832-1928). Bellot opta da subito per un ‘razionalismo strutturale’ di cui egli stesso fornisce un’esegesi nella sua opera postuma Propos d’un Bâtisseur du Bon Dieu: “Il bello al quale noi tendiamo, noi architetti, il bello che consiste nella giusta proporzione o disposizione armoniosa di parti utili, questa bellezza, come ogni bellezza, è essenzialmente oggetto di intelligenza” [Bellot 1949, 73]. La sua attività si palesa, sin dagli esordi, come ispirata al tentativo di creare un nuovo linguaggio per lo spazio religioso, indulgente verso le esigenze dei tempi moderni. Nel complesso di Saint Paul a Oosterhout, in Olanda, i cui lavori si protrassero per diversi anni, egli progetta lo spazio sacro a partire da un chiostro quadrangolare di dimensioni contenute, dimostrando da subito alcune istanze che ne accompagneranno in futuro l’attività, in primis la riflessione sulle figure geometriche fondamentali, il richiamo alla tradizione – l’impianto planimetrico del complesso segue infatti il modello delle costruzioni abbaziali medioevali, con la chiesa disposta a nord, la sagrestia e la sala capitolare a est, il refettorio a sud – non disgiunto dall’attenzione alla funzione e al contesto [Campone 2018, 72-79]. La disposizione dei vari ambienti intorno allo spazio aperto consente, infatti, un uso razionale e accorto della luce, che filtra in maniera guidata nelle gallerie, il che, in un Paese nordico, risulta di importanza fondamentale per le esigenze della vita quotidiana. Nella chiesa abaziale, la distribuzione dello spazio interno, che fa seguire a una navata di ridotte dimensioni un coro molto pronunciato e un’abside a pianta quadrata, ripropone esattamente quella della chiesa di Quarr, cui egli attende contemporaneamente. In effetti, negli stessi anni, Bellot lavora alla nuova abazia della comunità benedettina di Solesmes, che, per sfuggire alla soppressione dell’Ordine in Francia, si era installata nell’isola inglese di Wight, ad Appuldurcombe House, una residenza abbandonata, eretta nel XIX secolo e denominata, in seguito all’arrivo dei monaci, Quarr Abbey House. Nel progetto di Bellot la residenza viene incorporata alla nuova abaziale, finendo per costituire il versante settentrionale del complesso monastico, incentrato su una pianta quadrangolare, che ripete una disposizione già sperimentata a Oosterhout. Più ancora che nell’edificio olandese, egli utilizza a Quarr alcuni elementi che, negli anni a venire, caratterizzeranno il suo lessico architettonico, quali il ricorso a mattoni a differente resa cromatica e a giunti colorati, in particolare per sottolineare la curva degli archi; l’uso della struttura perimetrale per lo scarico dei pesi con la conseguente eliminazione dei contrafforti estradossati; una serie di accorgimenti atti a conferire un’impronta autonoma ai prospetti. In effetti, in essi l’andamento piano della superficie muraria è interrotto da una serie di bucature strombate, in corrispondenza delle quali sono collocate le finestre e le varie aperture, di varie dimensioni e apparentemente distribuite senza un ordine codificato, in una vasta gamma di morfemi differenti.

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L’edificio ecclesiastico, realizzato in un secondo momento, doveva essere, nel primo progetto di Bellot, un corpo perpendicolare a quello del presbiterio, quasi una sorta di transetto eretto a sud dell’abside, in modo da ottenere una separazione netta dei laici dalla comunità monastica. La modifica successiva dell’insieme, più che aderire alle richieste della committenza, si può spiegare con la riflessione dell’architetto intorno alla sua prassi progettuale [Campone 2018, 74-76]. L’impianto planimetrico prevede il succedersi, su uno stesso asse, di una navata di ridotte dimensioni, un coro a pianta rettangolare molto sviluppato in lunghezza e un’area presbiteriale a pianta quadrata. Il progettista sembra qui rimeditare sulla recente esperienza olandese e completarla attraverso un uso accorto dell’illuminazione naturale, che è ricercata e sapientemente controllata per contribuire alla netta differenziazione fra le diverse zone. Il piano di calpestio della navata si trova infatti a un livello inferiore rispetto a quello del coro e dell’abside, mentre l’invaso va crescendo in altezza man mano che si procede verso il santuario. Il passaggio dalla nave al coro avviene per mezzo di gradini, che, contribuendo a segnalare ulteriormente la separazione dei luoghi, alludono simbolicamente al percorso di ascesa dei fedeli. Inoltre all’illuminazione ridotta della navata segue nel coro la presenza di fonti di luce collocate nella parte alta dei muri, in modo da ottenere un lume gradiente che mette in rilievo le nervature degli archi, e incassate per circa un metro rispetto alla superficie muraria, per effetto della qual cosa l’origine dei punti luce non viene percepita a livello della navata ed essa assume, quindi, un valore metaforico amplificato. Tuttavia è nella zona absidale che l’architetto esplora tutte le possibilità offerte dalla scansione interna della struttura e dal gioco degli archi e dei muri portanti. Per facilitare lo scarico e il sostegno dei quattro grandi archi che inquadrano questa parte dell’edificio, egli ricava, nel muro che li sostiene, sedici archi di luce ridotta, su due registri sovrapposti, il cui effetto è quello di un maestoso baldacchino che corona l’altare maggiore, facendo piovere una luce guidata dall’alto. Le forme ottenute sono quelle geometriche essenziali, sulle quali verte, in età matura, la speculazione teoretica di Bellot, il cubo, il quadrato, il rombo. Proponendo uno schema che ricorda quello della cupola antistante il mihrab della Moschea Grande di Cordoba con poche variazioni di base, il progettista crea quattro grandi arconi, che, incontrandosi, generano uno spazio cubico centrale e, a loro volta, scaricano su altri quattro archi sottostanti, che costruiscono un’area quadrata, circoscritta nella pianta dell’edificio e delimitante il sancta sanctorum. I fasci compongono un altissimo tamburo quadrangolare illuminato da una serie di aperture alla base, ognuna delle quali accoglie e rilancia, amplificandola, la luce solare, che diviene elemento architettonico essa stessa. La soluzione introdotta con la copertura del santuario a Quarr s’inserisce nell’ambito di una sperimentazione tipologica caratteristica del periodo, che, riallacciandosi a una tradizione ampiamente storicizzata, era destinata, nello stesso lasso di tempo, a nuovi sviluppi con le chiese di Saint-Julien a Domfront di Albert Guilbert (1924-1926), Saint Louis de Varennes di Jacques Droz (1882-1955) e l’Immaculée Conception dello stesso Bellot a Audincourt. Occorre comunque rilevare che le caratteristiche delle aule religiose di Quarr e Oosterhout, con il rilievo conferito al coro, momento di passaggio e trait d’union fra navata e santuario, fra laici e comunità religiosa, non sono da leggere solo tipologicamente, ma vanno inquadrate in un più ampio movimento di riforma liturgica che vedeva protagonisti proprio i benedettini di Solesmes e che culmina nella reintroduzione del canto gregoriano, sostenuta dalla bolla Divino afflatu di Pio X (1911). Gli incarichi successivi – le chiese di Saint-Chrysole a Comines (1925-1929), Saint-Joseph a Noordhoek, nei Paesi Bassi, dell’Immacolata Concezione a Audincourt (1932), la nuova

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biblioteca, la galleria del chiostro grande e il lavatorium dell’abazia di Solesmes, Notre-Dame de Trévois a Troyes (1934), la cappella del Seminario piccolo Saint-Louis a Neuvy-sur-Brangeon (1936), Notre-Dame-de-la-Paix a Suresnes, la basilica di Saint-Joseph-des-Fins a Annecy, il priorato di Vanves (1933-1936) – offrono al progettista l’occasione per rimeditare sull’esperienza di Quarr, elaborando una più meditata composizione del proprio idioma architettonico.

2: Isola di Wight, Quarr Abbey, chiesa di St. Mary, volta del santuario (Campone 2018). 2. L’équerre mysterieuse: modernità e tradizione nella lezione di Bellot Nell’abazia di Quarr, Bellot avvia un confronto tipologico sulle forme geometriche essenziali, qui ripetute costantemente anche nel partito decorativo e nelle dimensioni dell’abside, che risulta essere un volume cubico impostato platonicamente nelle sue relazioni di proporzione (4, 16). Riprendendo soluzioni tipologiche care al lessico barocco, egli sembra ricorrere, in particolare, al ritmo elastico della cupola di San Lorenzo a Torino, realizzata fra il 1668 e il 1687 da Guarino Guarini, la cui straordinaria creatività è rievocata in più punti, sia per i diversi livelli di luce sia per i sistemi di nervature della cupola sia per l’insistita ripetizione, nell’impianto di base come nel partito decorativo, del numero 4 e dei suoi multipli.

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Nel presbiterio di Quarr, l’architetto si cimenta con un problema su cui si incentra la riflessione teorica del tempo, la sezione aurea e la sua applicazione concreta. Nella sua Propos, Bellot si riferisce a tale problematica, con cui si era confrontato già durante gli anni della formazione, con il lemma équerre mysterieuse [Campone 2018, 175-190]. In effetti, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, l’attenzione per le forme geometriche e la loro relazione con l’arte si intreccia a quello inerente la ‘forma’ con le posizioni di Fiedler, uno dei teorici della ‘pura visibilità’, e Focillon, autore di Vita delle forme (1934). Per Bellot, la prima fonte importante di conoscenza dei sistemi proporzionali sono Viollet-le-Duc e il benedettino Desiderius Lenz, come egli stesso riconosce nella Propos. Pur citando gli esempi del mondo classico e la riflessione pitagorica, l’architetto non si ferma a tali autorevoli precedenti, poiché “una composizione architettonica non può che essere geometrica, ma tale geometria deve comprendere la geometria della vita e della crescita, deve essere il risultato di una riflessione consapevole e non la somma di una serie di linee” [Bellot 1949, 108]. Nella sua Propos, il progettista descrive in più punti il suo metodo di lavoro, basato sulla ‘triangolazione’ un sistema proporzionale, consistente nell’inscrivere l’elevato o la pianta in una serie successiva di triangoli precedentemente tracciati, come ben si vede nel disegno dell’elevato della Saint-Mary a Quarr. Tal sistema si riscontra, ad esempio, nella cappella degli Agostiniani di Eindhoven, l’analisi della cui sezione trasversale dimostra che l’architetto fa ricorso a un angolo ‘aureo’ di circa 60° in combinazione con un tracciato triangolare per costruire uno spazio atto a riprodurre l’armonica perfezione del creato, in un microcosmo che, persino negli archi delle singole cappelle, possa riprodurre il macrocosmo di riferimento [Dewitte, 2015]. Lo stesso paradigma ispira il chiostro di Saint-Benoît-du-Lac in Québec, dove è ‘aureo’ il rapporto che su cui sono progettate le varie parti del chiostro stesso e gli archi parabolici, anche se Bellot

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3: Isola di Wight, Quarr Abbey, chiesa di St. Mary, presbiterio (Campone 2018).

4: Isola di Wight, Quarr Abbey, chiostro (Campone 2018). dimostra a più riprese di non credere all’utilità della rigida e schematica applicazione dei sistemi proporzionali. Come si evince da molti luoghi delle lettere e degli scritti, la visione che il Francese ha delle proporzioni è eminentemente pratica e molto meno legata a riflessioni teoriche di quanto lo fosse, ad esempio, quella di Lenz. Si tratta, in sostanza, della stessa posizione che egli mantiene a proposito dei materiali, delle forme, dei colori e che lo porta a esprimere dei dubbi sull’opera di Auguste Perret. In definitiva, se anche l’équerre ha un significato simbolico, legato alla sua vocazione religiosa e all’interesse connesso ideologicamente alle posizioni teoretiche di Jacques Maritain o a quelle artistico-mistiche di Maurice Denis, va comunque rilevato che egli inaugura una concezione meno teorica e più strettamente pratico-utilitaristica del metodo ‘aureo’ destinata a influenzare la pratica architettonica di Hans van der Laan (1904-1991), che lavorerà a completare il complesso di Oosterhout. In ciò la posizione di Bellot mostra molti punti di contatto con il Modulor di Le Corbusier, verso il quale pure il benedettino esprime forti riserve [Bellot 1949, 30, 31]. Conclusioni L’esperienza di Bellot si sviluppa alla confluenza di filoni di riflessione diversi e complessi che percorrono buona parte dell’Ottocento e della prima metà del Novecento, ma rappresenta nel

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contempo sia una risposta alla crisi dell’arte sacra sia una reazione alle tensioni sociali ed economiche in atto. Le aspirazioni del progettista, per il quale l’architettura è strumento di rivelazione del divino, si inseriscono nel più ampio contesto di un’istanza di recupero di un’arte ‘spirituale’ che attraversa l’inizio del nuovo secolo e si concretizzano fenomenologicamente nell’uso espressivo della luce e del colore, ma anche nella vicinanza alle istanze teoriche di Hermann Muthesius (1861-1927), la cui esperienza, confluita nel Werkbund, risulta evidente a livello tipologico, con una iterazione di schemi e moduli che non può non richiamare la difesa dello

5: Audincourt, chiesa dell’Immacolata Concezione, pianta (Cassi Ramelli 1946).

standardizzazione (Typisierung) da parte del tedesco, il che spiegherebbe una certa ripetitività di soluzioni. Nei suoi edifici, egli mette a punto un personale codice linguistico, che, avvertito come innovativo, darà luogo a un vero e proprio stile, il dombellotisme, basato, da un lato, su nuove geometrie compositive, che si accompagnano a un impiego attento e calcolato delle

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risorse edilizie; da un altro, sul cristallizzarsi dell’architettura di Bellot in forme e motivi letti come “arabeggianti” dai pochi studiosi che si sono accostati alla sua attività [Campone 2017]. Nell’impiego di materiali innovativi, come il cemento armato, egli segue una linea operativa inaugurata da Auguste Perret (1874-1954) la cui Notre-Dame-de-Raincy d’ora in avanti egli considera il modello con cui competere, e da Anatole de Baudot (1834-1915), cui egli stesso fa riferimento [Bellot 1949, 53] e che sarà il suo modello in alcuni edifici francesi, come la chiesa di Saint-Chrysole a Comines [Campone 2018, 95-98], dove, come nel Saint-Jean di de Baudot, la cupola è sostenuta da coppie di nervature parallele che ricadono su pilastri e una serie di grandi finestre si apre nella crociera, facendo piovere luce abbondante dall’alto. Continuando su questa linea, nell’Immaculée Conception di Audincourt si fa esplicito il tentativo di coniugare tecnologie innovative e metodiche storiche del cantiere edile. Bellot si inserisce così in quel dibattito sulla ‘tecnica’ e le sue implicazioni morali e sociali che coinvolge altri autorevoli esponenti del panorama culturale della prima metà del Novecento, come Rudolf Schwarz (1897-1961). In tal modo, fondendo la lezione di Viollet-le-duc, il recupero della tradizione e il ricorso alla tecnologia più avanzata, egli cerca di offrire una risposta all’esigenza, da più parti avvertita nel contesto culturale del tempo, di creare uno stile religioso adatto alla modernità. Bibliografia BELLOT, P. (1949). Propos d’un Bâtisseur du Bon Dieu. Montréal: Éditions Fides. BERGERON, C. (1997). La venue de Dom Bellot au Canada; La construction de l’abbaye de Saint-Benoît-du-Lac, in BERGERON, C.-G. SIMMINS, L’abbaye de Saint-Benoît-du-Lac et ses bâtisseurs. Québec: Les Presses de l’Université Laval. CAMPONE, M.C. (2017). La creazione di uno “stile” religioso. L’architettura di Dom Bellot nella prima metà del Novecento, in «Arte cristiana», n. 902/CV, pp. 363-372. CAMPONE, M.C. (2018). Dom Paul Bellot Architetto ex-centrico. Progetto e modernità. Napoli: La Scuola di Pitagora editrice. CASSI RAMELLI, A. (1946). Edifici per il culto. Milano:Antonio Vallardi editore. DENIS, M. (1939). Histoire de l’art religieux. Paris: Flammarion. DEWITTE, L. (2015). Proportionality in the Architecture of Dom Bellot, in «Nexus» n. 17/2, pp. 457-485. FAURE, E. (1921). Histoire de l’art. Paris: Crès. RÉAU, L. (1936). Histoire de l’art. Paris: Colin.

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La città della gioia. Nola e la Festa dei Gigli Metamorfosi dell’epitelio urbanistico del centro antico The city of joy. Nola and the Feast of the Lilie Metamorphosis of the urban epithelium of the ancient center SAVERIO CARILLO Università della Campania Luigi Vanvitelli Abstract L’esperienza connotativa dell’essere ‘altro’, per talune città, o parti di esse, nel contesto geografico dell’Italia meridionale, si esplicita, in tema di esperienze spirituali o di religiosità popolare, nella chiassosità e nell’esasperazione, quasi teatrale, di alcune forme di devozione che, per loro natura, apportano trasformazioni temporanee degli spazi urbani. Nel contesto napoletano, per dare un’idea della modifica in grande scala che subisce l’intero paesaggio territoriale basterebbe pensare al pellegrinaggio dei fuienti che accorrono, il lunedì in albis, da tutta la provincia al Santuario della Madonna dell’Arco. In questo mileu religioso le trasformazioni architettoniche della città di Nola in occasione della Festa dei Gigli -dedicata al vescovo del V secolo Paolino e riconosciuta nell’aprile 2014 come patrimonio immateriale dell’umanità dall’Unesco- costituiscono un archetipo di città ‘altra’ che ha visto modificare in maniera permanente i propri contenuti urbani e l’intera fisionomia del centro antico. Il contributo proposto vuole leggere le trasformazioni sedimentate delle architetture e delle quinte urbane con la complessa comprensione della espansione degli spazi privati che, attraverso i balconi, ‘occupano’ la dimensione pubblica dell’invaso stradale trasformando il sito in una sorta di teatro all’aperto. The architectural transformations of the city of Nola on the occasion of the Feast of the Lilies - dedicated to the bishop of the fifth century Paolino and recognized in April 2014 as an intangible heritage of humanity by UNESCO- represent a way of reading the 'other' character of this city . In fact, it is possible to read all the changes and transformations that the party has introduced over time. The proposed contribution aims to illustrate the stratification of urban architectures and scenes by documenting, also the expansion of the private spaces that, through the balconies, 'occupy' the public space of the street. Moreover, the feast, due to its strong religious connotation, and, for its emotional involvement, has been adopted by other urban realities of the territory. The nolana party machine has also transformed places like Barra, Brusciano, Villaricca, Casavatore Keywords: Nola, Festa dei Gigli, memoria, conservazione, design, urban design, stratificazioni. Nola, Feast of the Lilies, memory, conservation, design, urban design, stratifications. Introduzione Nola ha una sua prima rappresentazione grafica che la coglie nella fragrante consistenza edilizia degli ultimi decenni del Quattrocento. Una pianta-veduta, con singolare e pressoché inedito, per quel tempo, punto di vista zenitale, delinea il centro antico circondato dal periplo della murazione angioina e dall’aggiuntiva provvidenza difensiva del fossato con antemurale

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e con una piazzaforte ad Arce a presidio della principale porta meridionale. Questo paleosito urbano della città contemporanea è descritto dall’umanista Ambrogio Leone come somigliante a metà piede, costituisce la fedele immagine che quell’intellettuale moderno compose col suo prezioso testo latino. D’altra parte Leone, raffinato scienziato, ancora colpevolmente poco frequentato dalla cultura italiana che si occupa del Rinascimento, professore di medicina e corrispondente di Erasmo da Rotterdam, nel riferire puntualmente della sua città natale non omette i dati edilizi, anzi cerca di lasciar intendere che, quelle sussistenti in Nola, altro non sono che le buone pratiche costruttive dell’antichità romana. La sua casa nolana sembrerebbe anticipare quella che la storiografia individuerà, a scoperte avvenute, come casa pompeiana/romana fermo restando le caratteristiche precipue del luogo, inverate queste, evidentemente, dai materiali. “Le costruzioni nolane non sono di mattoni, sono tutte di tufo, poiché sono costruite con pietre di tufo, arena e calce spenta” [Leone 1514, 389].

1: Pianta veduta di Nola (Leone, 1514). 1. La Casa nolana La definizione della residenza viene rappresentata attraverso una lettura che si potrebbe definire ‘tipologica’ tanto appare accurata la narrazione che lo studioso produce. “La forma pertanto delle abitazioni o appare quadrata o, ciò che è assai frequente, si estende più in

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lunghezza che in larghezza. Inoltre di case siffatte alcune e molto poche se ne trovano che non abbiano cortile, altre invece, e sono moltissime, contengono un cortile. Quelle poi che abbracciano un cortile, più frequentemente ne toccano un solo lato, molte tuttavia lo circondano in due ed alcune in tre, rarissime se ne incontrano che cingono il cortile da ogni parte. Le parti della casa o delle abitazioni, che sono separate da un grande intervallo, sono le seguenti: l’androne, la cantina, la stalla, la sala da pranzo, la camera da letto, il portico superiore, la biblioteca, la dispensa, la nave, la torre, il cortile ed il giardino.

2: Nola, piazza Duomo, un momento della Festa dei Gigli (foto di Saverio Carillo, 2017). L’androne è il luogo al livello stesso del suolo e alla base della casa, nel quale per prima vengono accolti quelli che dalla via entrano attraverso la porta. Questo molto spesso si prolunga fino al cortile perché sia più luminoso e più comodo per introdurre gli utensili. Esso ha la larghezza minima di dieci piedi, massima di venticinque, altezza di sedici o più, in modo da elevarsi talvolta fino a trentadue piedi, fino a raggiungere il primo piano. È poi più largo

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della porta. Questa infatti è larga cinque piedi o più, poiché si stende fino a dodici piedi, ma è alta una volta e mezza o una volta e un terzo o una volta e un quarto. Il soffitto dell’androne assai spesso è fatto di travi, raramente è coperto da una volta. Il suolo è coperto da un pavimento fatto di calce e pietruzze che chiamano lapilli e di poca arena. Volendo indicare questo strato di pietruzze o di pietre porose i Nolani lo chiamano astraco usando una parola greca. Queste pietruzze si estraggono dal suolo sia nell’agro nolano, quando si sarà scavato ad una certa profondità, sia alle falde occidentali del colle di Cicala, dove si trova in abbondanza anche ottima arena. Ciò sta ad indicare che le parti più basse di quelle colline sono in gran parte formate di arena e di lapillo, non argillose e capaci di trattenere le acque.

Questo androne infine è comunemente chiamato portico” [Leone 1514, 383]. Anche senza dover ulteriormente indugiare nella, peraltro assai interessante illustrazione della residenza nolana di Leone, occorre, tuttavia, tenere a mente due annotazioni dell’autore che ricorda, per il primo piano della casa-tipo “La stanza da pranzo che in greco puoi chiamare triclinio, i Nolani la chiamano sala dal latino saltare (=danzare). Infatti in essa sogliono danzare o quando si celebrano le nozze o quando si fanno i conviti. Il locale ha una lunghezza doppia della larghezza; si innalza verso l’alto tanto quanto è largo; suole affacciarsi sulla strada e aprirsi da quel lato con due grandi finestre da cui guardare come piace ciò che avviene nella strada. Sono attigue alla sala da pranzo le stanze da letto chiamate camere. Le più apprezzate di queste sono quelle che si vedono di forma esattamente quadrata; ogni lato infatti suole estendersi per circa trentadue piedi; ciascuna camera poi è illuminata da una o due finestre. L’altezza delle finestre è di sei piedi, la larghezza di tre. Il loro parapetto non si alza tanto da superare la nostra cintura. Le finestre della sala da pranzo, invece, sono molto più grandi di quelle della

camera da letto” [Leone 1514, 385-387]. Egli inoltre appunta: “Il numero di tutte le case nolane e che ora sono nella città si calcola intorno a settecento. Inoltre tali abitazioni sono separate dai locali delle botteghe. Ciò è fatto per una maggiore onestà della vita. Dicono infatti non essere conveniente che anche signore e fanciulle abitino in quel luogo in cui vi sia ogni traffico di uomini. Infatti le botteghe e le case adibite al commercio sono nel mezzo della città intorno al portico, al mercato, al foro frumentario; le abitazioni hanno occupato il restante suolo della città intorno all’isolato della basilica. Perciò ogni adunanza e attività degli uomini si svolge di giorno nelle botteghe e nelle loro vie. Di notte invece ciascuno, quando ha chiuso la bottega, si porta a casa sua. Quei

3: Nola, via Marciano, finestra rinascimentale trasformata in balcone (foto di Saverio Carillo, 2017).

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locali poi che sono sopra le botteghe o magazzini, non sono abitazioni di uomini o stanze da pranzo e camere da letto di alberghi. È ufficio del pretore custodire di notte la solitudine delle botteghe, disponendo assidua vigilanza intorno ad esse” [Leone 1514, 391]. 2. La festa che trasforma la città È proprio il quadrante urbano di sud-est a contenere il numero maggiore delle case conteggiate dall’umanista ed è proprio la stessa porzione urbana a costituire lo

4: Nola, via Marciano, antico sporto di balcone con mensole istoriate (foto di Saverio Carillo, 2017). scenario nel quale si svolge la rituale processione delle macchine da festa per la manifestazione di giubilo e di ringraziamento per il santo patrono della città. È nella prospettiva colta dalla narrazione cinquecentesca del tessuto edilizio urbano di Nola che appare comprensibile l’esplicitazione del dato di dimensione ‘altra’ della città o di alcune parti di essa, anche negli scenari sociologici del contesto geografico dell’Italia meridionale. Si esplicita, in tema di esperienze spirituali o di religiosità popolare, una epifania di liturgia pubblica singolarmente rappresentata da una chiassosità ed esasperazione, quasi teatrale, di alcune forme di devozione, anche tradizionali, che, per loro natura, apportano

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trasformazioni temporanee agli spazi urbani. Nel contesto napoletano, per dare un’idea della modifica in grande scala che subisce l’intero paesaggio territoriale basterebbe pensare al pellegrinaggio dei fuienti che accorrono, il lunedì in albis, da tutta la provincia al Santuario della Madonna dell’Arco. In questo mileu religioso le trasformazioni architettoniche della città di Nola in occasione della Festa dei Gigli -dedicata al vescovo del V secolo Paolino- costituiscono un archetipo sintomatico per la lettura della città che, nel tempo, è diventata ‘altra’ attraverso la modifica permanente dei propri contenuti urbani, e, con essi, dell’intera fisionomia del proprio centro antico. A differenza di altri centri del territorio che, in occasioni di eventi o manifestazioni religiose, trasformano, in maniera temporanea, la propria fisionomia, dando luogo alla creazione di scenografie pubbliche di indubbio rilievo come La festa delle Lucerne a Somma Vesuviana o i Quattro Altari a Torre del Greco [Raimondo 1977, 289-320], che rappresentano anche delle ‘epoché’ temporali a fronte della ‘ferialità’ dello scorrere quotidiano della vita, l’esperienza nolana connota la permanenza del valore ‘festa’ attraverso le modifiche sostanziali introdotte all’aspetto del suo centro antico. Paradossalmente, si potrebbe dire così, che la Festa dei gigli è l’unico e sostanziale piano regolatore, o meglio regolamento edilizio, che la città abbia mai adottato, con valenze operative anche nella quotidianità dell’oggi storico. La città si trasforma in un palcoscenico tridimensionale con la ‘riforma’ complessiva del proprio epitelio urbanistico attraverso la modifica degli affacci delle residenze che da finestre si riconfigurano in balconi. Una città-teatro che ha i propri prospetti modificati contemporaneamente in quinte sceniche e in palchetti per spettatori/attori partecipi di un evento che è performance e liturgia di massa allo stesso tempo. Il quadrante sud-orientale della città che meglio esplicita il carattere residenziale del centro antico di Nola con la presenza di non poche tipologie di case individuate da Leone è la porzione del sito che vede svolgersi l’evento processionale dei Gigli. Non diversamente in altri luoghi ‘contagiati’ dall’effetto Giglio avvenivano, già dai primi decenni dell’Ottocento, esperienze imitative di copia e importazione per ‘adozione culturale’ della macchina da Festa nolana. Già dal 1822 a Barra si immaginava di omaggiare Sant’Anna, patrona del sito urbano, con la realizzazione di un Giglio nolano [Marino 2004, 43]. 3 Epifania dell’‘altro’ I Gigli, che in realtà, sono l’evolversi di macchine edili, nate negli allestimenti delle carpenterie temporanee per essere d’ausilio all’interno del cantiere tradizionale mostrano una validità operativa nella modifica dell’assetto dei luoghi. Il caso nolano resta singolare per il condensato di know-how storico che esplicita e di cui è portatore. La definizione delle dimensioni delle macchine lignee in relazione alla struttura urbana della città anche in ragione della scrupolosa restituzione planimetrica del sito operata con criteri zenitali nel tardissimo XV secolo ad opera di Ambrogio Leone, permette di cogliere relazioni geometriche e scenotecniche di assoluto rilievo ai fini di comprendere l’identità urbana del sito e la stratificazione delle addizioni verticali di volumi. La macchina muovendosi, come in altri luoghi italiani configura i connotati identitari delle aggregazioni urbane che si riconoscono nell’indigeno contesto edilizio. La città, dunque, nell’ospitare questa sua temporanea manifestazione di gioia e di ringraziamento per il santo patrono che la leggenda vuole abbia liberato i suoi concittadini dalla schiavitù e deportazione imposte dai Vandali di Alarico alla soglia del V secolo, si trasforma per significare la sua profonda devozione a chi viene riconosciuto come autentico salvatore della patria [Perrault 1686].

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Storia e immagine della diversità urbana: luoghi e paesaggi dei privilegi e del benessere, dell’isolamento, del disagio, della multiculturalità

La modifica degli affacci, così ben illustrati da Leone, appare come nota saliente della lettura urbana che è possibile svolgere oggi di quest’aspetto ‘altro’ di Nola. La presenza di non pochi sporti di balcone giuntati o addizionati di prolungamenti di parti di solai, rifatti nel tempo, e debordanti verso gli esterni dove annegano anche antichi mensoloni, o, semplicemente, le ‘traguardature a ponte’ tra uno sporto e l’altro, rappresentano chiave interpretativa cospicua delle metamorfosi della scena urbana. Similmente la sussistenza del giovannoniano elemento di minor resistenza alle modifiche dei luoghi -in questo caso le ringhiere-, descrive e storicizza la costante e ineludibile metamorfosi che il sito ha vissuto e, per certi versi, continua, ancor oggi, a vivere.

Difficile è riuscire a trovare, nelle strade che contemplano l’itinerario processionale dei Gigli un affaccio che non sia un balcone. Appaiono oggettivamente rare, se non del tutto assenti, le finestre che con dovizia di misure descriveva Ambrogio Leone. Di alcune è tuttavia possibile cogliere gli antichi figura, forma e materiali con imitativa integrazione di cornici di completamento al piano e la rimozione del parapetto che l’umanista ricordava “non si alza tanto da superare la nostra cintura”. Conclusioni Le ringhiere, quindi, appaiono costituire traccia perspicua per poter collocare temporalmente le aggiunte ai prospetti; aggiunte, evidentemente, che non solo appartengono a temporalità differenti ma che individuano, inoltre, anche sapienze tecniche e artifici formali che, nello scorrere degli anni si sono avvicendati. Verghe di ferro modanate a ‘quadrielli’ o a ‘straciolette’ individuano affacci tra il XVIII e il XIX secolo con la connotativa soluzione delle angolate risolte con il risvolto ‘a ricciolo’ delle straciolette ‘infizate’ dal piantone angolare nel sovrapporsi tra le direzioni ortogonali con la sommitale chiusura ‘a spruoccolo di

attesa’ atta ad alloggiare, con ‘serraggio a prigioniero’ un vaso di terracotta con fiori. Gli stessi sporti di balcone lasciano percepire tutto un contesto costruttivo attraverso il quale mensoloni in pietra permettono l’ampliamento e la mediazione tra lo spazio privato, più riservato, della residenza e quello di interlocuzione con il sistema pubblico della strada. Più semplificati e recenti elementi metallici, inseriti all’interno della muratura, permettono di ampliare lo spazio verso l’esterno, costeggiando, alla quota pavimentale, l’intero prospetto edilizio affidando lo sporto, talvolta, a una singola lastra di marmo di pochi centimetri di spessore, senza neppure irrigidimenti di collegamento tra le nervature metalliche. Le ringhiere, inoltre, documentano anche gli aggiornamenti di gusto e le conquiste tecnologiche

5: Nola, via A. Leone, raro impaginato di finestra (tardo XVI sec) lasciata senza modifiche (foto di Saverio Carillo, 2017).

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La Città Altra

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nel trattamento dei materiali metallici. Le cerchiature a fascette tra elementi sagomati che permettono assemblaggi più complessi descrivono alcune delle stagioni che si avvicendano nello scenario urbano che delinea le modifiche dell’epitelio complessivo degli impaginati residenziali. Più recenti e seriali prodotti di siderurgia lasciano immaginare la vicinanza temporale delle trasformazioni avvenute. Tondini sagomati ad onda e saldati in alcuni punti chiave della composizione, assenza delle ribattiture sulle straciolette di chiusura superiore del parapetto descrivono interventi risalenti ai più recenti decenni con l’innestarsi di semplificazioni e banalizzazioni anche del profilo complessivo dei fabbricati. Una dettagliata disamina di simili esperienze porrebbe in essere un abaco cronologico che andrebbe a rappresentare anche gli spazi di una sapienza tecnica, in larga parte dismessa e non più praticata, che definirebbe insieme alle modifiche della città ‘altra’ anche i termini di trasformazione che la città ha assunto rispetto ai mestieri che ne definivano anche il proprio contenuto urbano e la sua sussistenza economica. Non è un caso che la Festa dei Gigli annovera, per ogni Giglio, una professione e tutte professioni ‘urbane’, con l’unica eccezione del primo Giglio l’Ortolano che individua anche gli spazi del suo immediato contado. Salumiere, Bettoliere, Panettiere, Beccaio, Fabbro, Calzolaio e Sarto sintetizzano il tessuto economico di una città media che non si immagina meno città di luoghi metropolitani giacché la sua festa pone ragioni identitarie di forte incisività temperamentali. Non si può, per brevità, proporre una lettura comportamentale delle scelte operate nella sommatoria di modifiche minute, talvolta impercettibili, e tuttavia, costanti nel tempo che simile esperienza condensa; certamente, però non si può non rilevare quanto somiglino agli “artifici” praticati in quella forma di resilienza sociale che descrive De Certeau ne L’invenzione del quotidiano [De Certeau 2010]. Bibliografia CARILLO, S. (1996). Alcune osservazioni sulla pianta della città allegata al De Nola di Ambrogio Leone, in Nola e il suo territorio dalla fine del Medio Evo al XVII secolo, Momenti di storia culturale e artistica, a cura di T.R. Toscano, Castellammare di Stabia: Ager Nolanus, pp. 25-44. CARILLO, S. (2016). Cimitile, una seconda Pompei?, in «Arte Cristiana», a. CIV, n. 896, settembre-ottobre, pp. 341-348, Milano. DE CERTEAU, M. (2001). L’invenzione del quotidiano. Roma: Edizioni Lavoro, nuova edizione 2010. DEFILIPPIS D. (1991). Tra Napoli e Venezia: il De Nola di Ambrogio Leone, in «Quaderni dell’Istituto di Studi sul Rinascimento Meridionale», Napoli, n. 7, pp. 23-64. D’UVA, F. (2010). I Gigli di Nola e l’UNESCO. Il patrimonio culturale immateriale tra politiche internazionali e realtà territoriali. Nola: Extra Moenia. LEONE, A. (1514). De Nola, Opusculum distinctum, plenum clarum, doctum pulcrum, verum graue, varium et vtile, Venetiis, trad. A. Ruggiero 1997, Napoli: Istituto Grafico Editoriale Italiano. MANZI, P. (1973). Alcuni documenti di cartografia nolana, ovvero Ambrogio Leone e Gerolamo Mocetto, in «Universo», LIII, n.4, luglio-agosto, pp. 811-818. MAIURI, A. (1959). Sul “De Nola” di A. Leone, in Studi in onore di R. Filangieri, II, Napoli: L’Arte Tipografica, pp. 261-71. MARINO, R. (2004). Tradizionale Festa dei Gigli a Barra (1800-1954). Napoli. PERRAULT, C. (1686). Saint Paulin Evesque de Nole, Poeme, Paris, anastatica con traduzione e note critiche a cura di R. Iorio, Napoli: Loffredo Editore, Napoli 1990. RAIMONDO, R. (1977). Itinerari torresi e cronistoria del Vesuvio. Napoli: Edizione La Torre. TOSCANO, T.R. (1996). Il De Nola di Ambrogio Leone: sogno e nostalgie di una piccola capitale del Rinascimento, in Nola e il suo territorio dalla fine del Medio Evo al XVII secolo, Momenti di storia culturale e artistica, a cura di T.R. Toscano, Castellammare di Stabia: Ager Nolanus, pp. 19-24.


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