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II. Dai dioscuri dell’astrazione allo schema corporeo
Il problema della corporeità latente e dell’ex-pressio
A partire dalla Introduzione alla Fenomenologia della percezione
Merleau-Ponty, per il tramite di un lungo excursus per certi versi
genealogico – a dire del medesimo – ma più specificamente in linea
con una epochè fenomenologica di primo grado, esegue una accurata
messa fuori circuito dei classici pregiudizi della fisiologia, della
neuro-biologia e della psicologia empiristica ed intellettualistica,
risalendo - attraverso i ranghi delle contraddizioni stesse di queste
ingenue “ontologie regionali” – per donazione diretta sino alle cose
stesse e all’esperienza pre-riflessiva; ergo Merleau-Ponty
fenomenologicamente si avvia a dissodare il campo dell’esperienza
percettiva dai dualismi e dai riportati dell’atteggiamento naturale e
realisticamente ingenuo del senso comune e delle scienze umane e
naturali per un ritorno concreto ed effettivo ai fenomeni e alla
fungierende Intentionalität.
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Ambedue le branche causalisticamente ispirate e determinate,
mancando qualsiasi forma di sguardo diretto intorno alla percezione,
rendono oscura e vacua una originarietà che dovrebbe essere se non
chiara, primordinalmente, evidente.
Nel mondo preso In-sé e come ambiente, tutto è determinato. Il
comportamento è obliterato in un riflesso ed esaurito
funzionalisticamente a sistematica osmotica di sinapsi stimolo-
risposta, il quale sofistica la percezione e fa corrispondere a ogni
supposto elemento ricettivo o impressionale una elementare reazione.
Questo percorso anatomico, di una sensazione da un recettore dato e
definito in partenza a un punto di registrazione, promuove l’attenzione
e il giudizio a fattori addizionali di una teoria astratta della percezione
come ricettività e quadro della “legge di costanza”. Secondo Merleau-
Ponty la vena cartesiana della fisiologia e della psicologia classica
marchia irrimediabilmente le coppie di In-sé e Per-sé e di mondo
esterno e psico-soma con gli indici di una iperbolica dello stimolo
conforme a una legge di costanza. Questa legge per Merleau-Ponty
non è comprovata da casi cruciali ma da presupposizioni. Una di
queste presupposizioni è la concezione oscura della sensazione, la
quale non ha mai riscontri e deve perciò essere sostituita da nozioni
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come quelle di figura su sfondo e di costellazioni. Il dominio della
percezione non è quello della non-esistenza o di uno spazio puro ma di
una equivoca, ambigua e doppia dimensionalità. L’avvenimento
elementare di un che di autonomo e isolato non può essere considerato
in essere ma ogni singolarità è già un qualcosa costituito di senso.
I sensi non sono per questo strumenti o meri conduttori di
informazioni nervose ma parti di una struttura molto più complessa. È
inevitabile che la scienza oggettivante, nel suo sforzo astratto, sia
riportata a rappresentarsi l’intero umano come una fabbrica meccanica
o organica di proprietà fisico-chimiche, e che cerchi di definire
l’itinerario di conoscenza scientifica come un processo oggettivo di
soggettivazione scientifica. L’analisi fisico-matematica come
parvenza di intelligibilità sventra le sensazioni e le diminuisce a
oggetti In-sé, laddove l’esperienza conferma che si muove per
costellazioni.
Secondo Merleau-Ponty la tipica della percezione è l’ambiguità e il
battimento di essa accade intorno il suo evenemenziale. Le lacune
della percezione non sono imperfezioni o deficienze dell’attenzione o
del concentramento da parte di una soggettività su un punto
oggettivamente dato ma uno sfumato, un mosso della pulsazione, del
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movimento stesso della medesima. Ragion per cui bisogna risalire al
di là dell’universo teoretico del mondo per riscoprire il dominio pre-
oggettivo. Al di qua della percezione, dunque, abbiamo le percezioni
come segregazioni incomplete di figure su sfondi e costellazioni con-
fuse e implicate secondo adombramento e pregnanza. Nella
percezione ogni qualità è organizzata in un “insieme di qualità come
figura su sfondo” e in essa noi sempre ci perdiamo, rimandandoci a
qualcosa d’altro che non è incluso nell’immediato; infatti il rosso non
mi è solo presente ma mi rimanda a qualcosa di imminente e in quanto
questo rosso non è posseduto da me come “parte reale”, esso mi è solo
donato come “parte intenzionale”. Ogni “sensazione puntuale” non è
una coincidenza della figura con uno sfondo ma il distaccamento
incompleto di questa da esso e il riferimento simultaneo alle
precedenti e alle imminenti. Lo sguardo “singolare” in quanto tale, di
un intero umano, non si fonde con la cornice o il bordo di una figura
ma nel suo divenire visione lo percorre nella sua vibrazione sino a
balenare da una visione locale a un'altra. Nella perentorietà di un
bordo in rilevo una imminente immagine, un ricordo e qualsiasi tipo di
virtualità è donata sempre su un orizzonte di senso. Il campo
percettivo è per questo «“fatto di «cose» e di vuoti tra cose”».
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La relazione o la evocazione tra le cose non è mera associazione o
trasposizione ma un rimando baluginante-si da un campo percettivo e
da un campo dei campi come complesso orizzonte di senso. Senza
campi e orizzonti, come del resto di sfondi, non potremo mai avere
una percezione in particolare e una esperienza in generale e nel
pensiero anfibio della psicologia classica essi sono occultati da una
oggettività come “cielo metafisico”, un universo puro privo di figure
di “carne e sangue”. La percezione di una cosa e il movimento di
figura in figura non obbedisce a leggi di somiglianza, di associazione
o di contiguità ma all’imminenza di un adombramento richiamato da
un altro. Il “fenomeno originario del rilievo”, lo scaturire e il
trasalimento di senso dalle costellazioni è ciò che bussa sotto la cappa
del pensiero riflessivo, il quale ignora se stesso e si riprende tra gli
oggetti.
Merleau-Ponty, confutando i pregiudizi della psicologia e della
fisiologia, afferma che il mondo oggettivo non è primo né in relazione
al Tempo né in base al senso; per questo motivo il fine di una
“genealogia” del concetto di attenzione è quello di sottolineare come
l’intellettualismo faccia a meno della percezione, invece di “aderirvi”
per comprenderla, e come il principio di attenzione, la funzione
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secondo cui delle “sensazioni” sono date e rivelate, delinei il corpo
come un elemento di disturbo, di distrazione e di vertigine per
l’operazione scientifica di oggettivazione. Secondo la psicologia la
coscienza inizia a essere tale solo quando costituisce un oggetto e i
fantasmi ad esso legati in una esperienza interna.
La coscienza intellettualistica possiede la struttura per rendere
intelligibile tutti i possibili, mentre la coscienza empirica non è
costituente ma è la pellicola su cui si impressiona il mondo esterno. La
coscienza percettiva è imbarazzata nei confronti di quella empiristica
e intellettualistica della scienza e ciò che non può essere esaurito
nell’esattezza viene escluso da essa e dalla sua soggettivazione.
Merleau-Ponty, al di là del mondo di impressioni In-sé e di un
pensiero determinante, che minimizza il mondo all’immanenza della
coscienza alla coscienza, riscopre il campo percettivo nel movimento
dell’orientamento e dell’esplorazione di un Raum e nella contrazione
di una interrogazione “pre-oggettiva”. L’attenzione come “attività
sensoriale e formale” non esiste e ogni volta è lo spazio a ri-
configurarsi. L’attenzione non è l’illuminazione di un insieme di
quantità o di loro combinazioni raccolte in precedenza e acquisite ma
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la “realizzazione” di una nuova articolazione, «concatenazione», di
esse come figure e costellazioni di figure.
Ci domandiamo ora: se l’attenzione non fosse il ritorno in sé di un
pensiero ri-flesso su di sé o un’ associazione di immagini, potremmo
azzardare forse che essa possa essere una attiva costituzione di un
“oggetto” nuovo, rilievo esplicitante e tematizzante ciò che in
precedenza era donato a titolo di orizzonte indeterminato? Questo è
l’interrogativo che Merleau-Ponty in queste pagine pone a una
ipotetica psicologia disillusa e alla quale in sua vece risponde che:
questo passare dall’indeterminato al determinato, questa ripresa della propria storia “nell’unità di un senso nuovo è il pensiero stesso […]”. Lo spirito non esiste se non in atto
(Merleau-Ponty, 2005, p. 68).
Lo stesso vale per le determinazioni di carattere predicativo, i
giudizi, i quali per Merleau-Ponty non possono essere ridotti a
costruzione di oggetti, attività logica di organizzazione di qualità-
stimoli o interpretazione dei segni che la sensibilità fornisce ma il
giudizio deve essere riscoperto come concreta attività
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“trascendentale”. Ragion per cui la dimensione corporea non è lo
spazio puro del giudizio logico; ma se cosi fosse quale è la differenza
tra vedere e credere di vedere? E in cosa si differenzia l’empirismo
dall’intellettualismo in base a questo riferimento? Per Merleau-Ponty
«la concezione del giudizio come forza psichica o come mediazione
logica e la teoria della percezione come “interpretazione” non è infatti
se non una contropartita dell’empirismo». Per parlare della percezione
nell’empirismo e nello psicologismo «non si può che cominciare» a
parlare dall’«atteggiamento naturale» che con i suoi postulati, e la sua
dialettica interna distrugge la percezione. Una volta:
intesa la percezione come interpretazione, la sensazione che ha funto da punto di partenza, è definitivamente superata, dal momento che ogni coscienza è già andata oltre. La sensazione non è sentita e la coscienza è sempre coscienza di un oggetto
(Merleau-Ponty, 2005, p. 74).
La percezione empirista e ancor di più quella psicologista non è
percezione ma pensiero di percezione. Il movimento della coscienza
astratta non è altro che un movimento di riaffermazione e di fissazione
di se stessa e nel mondo come in-coscienza. Ciò che la trascendeva
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diviene immanente alla propria oggettività, ergo a quella soggettività
trasposta (e dimenticata), e ripresa illusoriamente come postulato
sensibile alla conoscenza; ma la conoscenza non è affatto un “vedere”
ma un sapere di vedere e per questo “costruttivista” e astratta. A
questa coscienza non situata ma in-coscienza corrisponde una
riflessione che è un pensiero eterno, cieco all’ “arte recondita” che fa
sorgere un senso nelle “profondità della natura”. La presa riflessiva
della coscienza – nella ricerca dell’auto-cominciamento e delle sue
condizioni di possibilità – “ignora” il giro effettivo della percezione,
la quale originariamente “la rende attuale” o “attraverso la quale la
costituisce”. La coscienza dell’intellettualismo priva l’esperienza della
sua contingenza e spegne il suo stile evenemenziale, chiudendola in
una sua legislazione astratta. La dialettica empiristica, come quella
psicologista, è sottomessa sempre al suo dualismo oppositivo, alla
dialettica “esterna” di essere l’una la faccia dell’altra e quella
“interna” di essere continuamente un passare da una tesi a una antitesi.
L’intellettualismo e l’empirismo situa la ragione dietro la natura,
invece di scoprire la sua radice in essa. Secondo Merleau-Ponty il
“pensiero” non può mai astrarre dal proprio situarsi ed esso in quanto
31
tale non è mai una coincidenza con se medesimo ma sempre
differenziata o non-differenziata nell’impegno al mondo e nel mondo.
Se il “pensiero” è sempre un pensiero situato, esso non volatilizza
mai la percezione ma il pensiero come “seconda” intenzionalità è un
fenomeno della percezione stessa. Il pensiero è sempre situato e mai
astratto, trasparente a se stesso o concettualmente ab-solutus, in
quanto esso è sempre un pensiero di un senziente. Il pensiero in
quanto pensiero concreto è sempre ambiguo, in quanto ambigua
rimane in prima istanza la percezione. L’irriflesso del pensiero non ci
è noto se non per il fatto che c’è sempre anche un riflesso, il quale è
per tal motivo non una sua negazione o un suo in sé esterno ma un che
di trascendente. Nella riflessione concreta non atterro – come nel
sorvolo astratto – coincidendo con una rappresentazione del mondo
ma semplicemente differisco da me e dal campo al quale fino a questo
momento il mio corpo è stato “silenziosamente” impegnato. Fra l’io
che interroga la percezione e l’io percipiente vi è sempre una certa
distanza, un differimento e una lontananza e il “dis-allontanamento”
mai completo non esaurisce mai il pensiero. Questa riflessione
concreta si esplica sempre alla superficie involta dell’essere e quindi
in un sostrato “reale” ed effettivo, originario del mondo, della
32
temporalità concreta, dello spirito in relazione al quale il senso è
sempre un dono e mai un possesso da parte di un pensiero come
autoaffermazione e appropriazione di una autocoscienza con se stessa,
in una coincidenza e in un auto-rischiaramento assoluto e autonomo
nell’estensione sdoppiata dell’astrazione con se medesima.
Secondo Merleau-Ponty la riflessione concreta è come se
“dominasse” e “mantenesse” l’opacità, l’ambiguità della percezione,
in quanto non è questa ultima che possiede un mondo ma è il mondo
stesso che la possiede; o meglio la percezione è un “dono del
mondo”. L’intenzione è sempre una intenzione “pratica”, orientata
altrove, aperta a un esistente, un dispiegarsi e un ex-sistere. Nella
percezione l’intenzione non allude mai a un geometrale, a una
oggettività pura, a una soggettività pura e trasposta alla quale
ricondurre, ridurre, sintetizzare, adeguare tutte le prospettive, i punti
di vista e le cose. Le essenze non sono le essenze platoniche, pensieri
di cose, oggetti “ideali”, iperuranici ma le cose stesse, essenze
trascendenti a se stesse. Il mondo non è pensiero di mondo, non è un
insieme di oggetti in sé o di “cose” de-finite ed esaurite in esteriorità
assoluta delle parti ma l’orizzonte di campi, di prospettive, di altri e di
cose a cui un corpo come lacerazione è sempre aperto.
33
La percezione si fa e si disfa continuamente, in quanto essa non è
mai tutta una con se stessa, non riposa mai completamente in se stessa
ma è sempre sfasata, spostata, differita, lacerata, ambigua.
L’empirismo e l’intellettualismo scientifico sono, rispettivamente, le
due facce dello stesso dogmatismo dell’atteggiamento naturale, della
medesima definizione antropologica della sensazione, la quale
nell’empirismo è scetticismo, mentre nell’intellettualismo è finitezza
di una rappresentazione interna. La soggettività autonoma e
l’oggettività assoluta sono i dioscuri dello stesso dogmatismo e la
prima non è altro che il profilo negativo di una arcaica dialettica
oppositiva già tacitamente supposta nella metodica di oggettivazione.
La percezione effettiva e presa nel suo stato nascente è costituente
di stili e di cose; questi non sono mai degli In-sé-Per-sé ma sempre
bozzetti, adombramenti di un qualcosa che rimane un dono e mai un
possesso conoscitivo. I fenomeni della mia durata e della durata
dell’altro non sono il risultato di una situazione finita e deficiente ma
l’effettività stessa di una lacerazione e di una ambiguità
dell’esperienza percettiva medesima.
L’astrazione kantiana, ad esempio, è sì attraversata da un “dubbio”,
da una istanza critica che interrompe ad un certo punto le affermazioni
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(o le auto-affermazioni) ma questa scissione critica di un pensiero con
un pensiero di mondo non è che fredda percezione che si sublima in
una verità ab-solutus. L’essenza dogmatica del pensiero, una essenza
che ignora la stessa ecceità, si sostituisce all’essenza del “pensiero”,
alla sua attività. L’esperienza non è credenza o sapere o fede o
concetto ma un campo sempre aperto senza soluzioni, un fenomeno
originario che nel pensiero, nella riflessione non costituisce fuori dalla
sua effettività, assolutamente, ma ri-costituisce, ri-nasce a una
intelligenza della percezione.
Mettendo in discussione l’intellettualismo e lo psicologismo, a
partire dalle Meditazioni metafisiche di Cartesio e le tre Critiche
kantiane, Merleau-Ponty sottolinea che l’essenza, una volta ritrovata
nell’esperienza, non è connessa all’esistenza ma il loro giunto con
quest’ultima è fondato nell’idea dell’infinito o in una rappresentazione
dell’esperienza.
Il fenomenologo non spiega la percezione ma ri-aderisce alla sua
operazione e la descrive; ciò rivela che la percezione non è un atto del
pensiero e la riflessione non è un’astrazione dalla percezione ma un
movimento stesso nella sua effettività. La riduzione trascendentale ci
distoglie dall’oggettività e dall’idealismo soggettivo del mondo per
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dirigerci verso il mondo della presentazione essenziale delle cose
stesse in quanto cose e non meri oggetti o dati come stimoli o
“sintomi”. Le cose stesse non sono mai possedute, non sono mai
raggiunte ma sempre donate e ri-avvicinate.
La Gestalttheorie, non ha mai abbandonato il naturalismo e un
idealismo dell’esperienza, in quanto sempre riferita a un geometrale
invece di rimanere fedele alle sue descrizioni. Psicologi della forma
come Koffka, Koelher, Wertheimer si limitano a imbastardire un gesto
teoricamente astratto e mancano clamorosamente il campo percettivo
e il sistema corpo proprio-mondo. Questi ultimi sono attraversati da
tensioni che li svuotano di una “vita sorda e magica imponendo
torsioni, contrazioni e gonfiamenti”. La Gestalttheorie non è riuscita
in maniera pregnante nel giungere a questo tacito mistero della
percezione, in quanto per esprimere queste relazioni percettive non ha
messo in discussione le pretese evidenze del realismo con una
riduzione fenomenologica. Se si vuole ritornare ai fenomeni è
necessario “riformare” le categorie stesse per il tramite delle quali una
riduzione è “autenticamente” una epochè fenomenologica. Al di là
delle evidenze della scienza e del mondo come ideale del mondo
scopriamo la motivazionalità dei fenomeni, il fatto secondo cui i
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fenomeni non si susseguono causalisticamente ma per il senso che
offrono e per il mosso che abitiamo, per l’abbozzo stesso del “mondo
che viviamo”; in questo caso una coscienza – continuamente
trascendente a se stessa – può sorprendersi come una effettività della
percezione e auto-comprendersi. A partire da queste direttive
Merleau-Ponty afferma, sulla scia di Husserl, che per riconoscere e
descrivere i fenomeni, occorre una nuova teoria della riflessione e un
nuovo Cogito, in modo da essere in grado di riflettere sulle relazioni
fra paesaggi, parti di essi e soggetti incarnati.
Il sentire stesso ci restituisce come relazione, ci rende il mondo
nella sua familiarità e questo ritorno a esso può essere effettivo solo in
una riduzione fenomenologica mai completa, continuamente
rinnovata. Una volta chiarita l’inconsistenza del pregiudizio del
mondo la messa entro parentesi riduce trascendentalmente la
“sensazione” e il giudizio, squadernando implicitamente un nuovo
campo di fenomeni e la possibilità stessa di una nuova filosofia diretta
in grado di rieducarci al sentire e alla scaturigine del mondo.
La scienza e la filosofia della coscienza per secoli hanno diretto il
loro sguardo verso una verità in sé, la quale è il filo conduttore posto e
recuperato a partire da un suo accordo, da una sua tensione, la quale
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contrae l’esperienza intorno a un adeguamento o a un lavoro di critica
da parte di uno spettatore disinteressato. L’esperienza percettiva per la
scienza si fonda su uno spazio geometrico di oggetti in sé e su un
movimento puro dello sguardo, alieno da qualsiasi dimensione di
esistenza e di alterità. Ogni punto di vista incarnato è esaurito in un
puro relativismo prospettico e di fatto geometricamente spento in uno
spazio tra assi cartesiani, che nell’immediatezza di uno sguardo
destituisce una molteplicità effettiva delle visioni.
Ogni fenomeno affettivo di una soggettività incarnata con la
scienza si riduce a meccanismo psico-fisiologico e a fascio di quei
processi dipartenti dalla ricezione dello stimolo alla proiezione neuro-
cerebrale di un mondo esterno e si mantiene come “fantasmizzato”.
Fisiologicamente parlando il mio corpo vivente non è diverso da un
cadavere e una volta esaurito in una pallida proiezione e in un freddo
ologramma non ha dignità di esistenza e non differisce in nulla da un
qualsiasi oggetto in sé fra In-sé. Ogni psico-soma non è più
espressione visibile di un ego concreto e lo stesso risulta per qualsiasi
altro. Gli altri non sono che involucri di altri ego e l’incontro con essi
non è altro che inferenza e mai intima istanza carnale, un concreto
incontro. L’ideale dell’esperienza, l’universo infinito di In-sé non è
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espressione di una costellazione di “io coesistenti in un mondo” e di
cose. Il freddo universo di oggetti in sé, esteriorità prive di interiorità,
e di Per-sé, interiorità prive di esteriorità, spettatori disinteressati
svestiti di un qualsiasi tipo di alterità e di trascendenza, ignora la sua
operazione e la sua fede pregiudiziale. Ciò non significa però che
dobbiamo ritornare a un irrazionalismo, a un vitalismo o a un
biologismo ma solo a una analisi intenzionale e a una intenzionalità
fungente, nella quale il senso ci è dato allo stato nascente.
Merleau-Ponty ad un certo punto scrive:
unica fra tutte le filosofie, la fenomenologia parla di un campo
trascendentale. Questo termine significa che la riflessione non ha mai sotto il suo sguardo il mondo intero e la pluralità delle monadi dispiegate e oggettivate, ma che essa non dispone mai se non di una veduta parziale e di un potere limitato
(Merleau-Ponty, 2005, p. 106).
Ecco perché la fenomenologia studia l’apparire dell’essere alla
coscienza anziché postularne le condizioni di possibilità e i
fondamenti universali e necessari. La coscienza pura discorre non su
ciò che è ma su ciò che deve essere, su un valore, su uno Stesso, che
nella sua autonomia esclude la possibilità, o meglio la trascendentalità
medesima di un che di trascendente e di altro. L’Altro e l’altro non
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sono esistenti per la filosofia riflessiva o della coscienza kantiana ma
essa riduce la trascendenza all’Autos e il mondo a rappresentazione e
pensiero del mondo.
È per questo motivo che mettendo fuori circuito le filosofie e le
scienze ingenue Merleau-Ponty asserisce che:
il centro della filosofia non è più un’autonoma soggettività trascendentale, situata ovunque e in nessun luogo, ma risiede nel cominciamento perpetuo della riflessione, in quel luogo in cui una vita individuale si mette a riflettere su se stessa
(Merleau-Ponty, 2005, p. 107).
La fenomenologia trascendentale di Merleau-Ponty, di chiara
ispirazione husserliana, è filosofia mancata, in quanto delucidazione
continua, mai completa, di un campo di esperienza come “dominio
ambiguo” e una «riflessione di secondo grado, autocritica», iper-
dialettica che ci conduce al “fenomeno del fenomeno” e che converte
decisamente il «campo fenomenico in campo trascendentale».
Come può una prospettiva incarnata offrire una visione non relativa
o peggio relativista?
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Per rispondere a una domanda del genere nella Parte prima della
Fenomenologia Merleau-Ponty si interroga più esplicitamente sulla
cosa del corpo. Un lato di un cubo non può mostrarsi senza che gli
altri lati vengono nascosti, ergo questi divenendo orizzonte o sfondo
in relazione al primo fanno perdere ciò che si guadagna in figura.
Ogni lato si dà secondo adombramento e pregnanza e ciò che
nell’esperienza si guadagna da una parte si deve perdere da un’altra.
La visione è uno spettacolo in due atti, se se ne recupera uno non si
può non perdere l’altro. Il farsi delle cose stesse in figura e in
costellazioni e il retrocedere del mondo come sfondo in relazione a un
campo, a un registro, a una mappa, a una struttura e a figure – si deve
rammentare che il distaccamento da uno sfondo non è mai completo,
come del resto la caduta a sfondo – non è un intralcio alla percezione
ma la dissimulazione, è l’arte segreta del movimento percettivo, per il
quale non c’è figura senza uno sfondo e viceversa.
Cercare di farci trascinare dalle contraddizioni che l’universo
oggettivo e quello soggettivo, – valchirie della stessa marcia
dogmatica – riportano in se stessi è la movenza con la quale
Merleau-Ponty muove il “martello” di una particolare “genealogia”
descrittiva e di non completa messa fuori circuito fenomenologica che
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giunge al sistema della Leib-Welt, di una Lebenswelt e a una
“corporea” intersoggettività trascendentale.
A partire dalla ritrovata questione del corpo proprio husserliano e
dalla questione cassireriana del Tu e della Ausdruckswahrnehmung,
Merleau-Ponty coniuga ciò che eccede l’oggettività e ciò che resiste
all’astrazione o il fare di calcolo e misura, disfacendo e ritessendo gli
stessi fili intenzionali che complicano e intrecciano il corpo agli altri,
alle cose e al mondo in generale.
Il corpo reale del neuro-funzionalismo fisiologico e l’innesto
fisiologico sulla psicologia dinamica sono letteralmente idioti rispetto
a uno studio della percezione a partire dal suo vissuto, campo da cui il
senso come costellazione scaturisce. Un araldo perfetto di questa
inadempienza metodica è, ad esempio, l’impossibilità di
classificazione patologica della anosognosia e della questione dell’arto
fantasma. La psicologia classica a partire da una visione che non
riconosce la corporeità come situazione aperta, che non riconosce
l’irruzione situata di un senso, che non è capace di individuare in una
singolarità in carne e ossa l’azione concreta “sull’ambiente e
dall’ambiente” da parte di un essere-al-mondo e un essere-nel-mondo,
ignora l’evento stesso dell’ esistenza. Per Merleau-Ponty il corpo è
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quel nostro diaframma e quella ampiezza della nostra vita. Il nostro
mondo ha una consistenza sua propria, uno spessore d’essere battuto
da una pulsazione, da una “sistole e una diastole” di esistenza, da
spasmi involontari e non meccanicamente determinati. L’essere-al-
mondo non è né una terzietà tra l’In-sé e il Per-sé né una terzietà
prepersonale, una res extensa o una cogitatio ma veduta pre-oggettiva.
Da questo punto di vista l’essenza della anosognosia non è una
rappresentazione di una presenza o di una assenza effettiva. Non è
corretto esaurirla a un problema di rappresentazione
psicologisticamente intesa ma essa è una problematica della presenza
ambivalente di un arto. L’arto non appartiene alla dimensione della
“coscienza” ma a una intenzionalità originaria. La comprensione del
fenomeno dell’arto fantasma è possibile non a livello psicologico,
fisiologico o fisiopsicologico ma al livello dell’essere-al-mondo; ergo
il problema anosognosico è in un io impegnato, e nella preistoria di
un campo aperto di esistenza.
Durante lo studio del problema dell’arto fantasma Merleau-Ponty
scrive:
il corpo come veicolo dell’essere al mondo […], avere un corpo per un vivente significa unirsi a un ambiente definito, conformarsi a progetti e impegnarvi-si continuamente. Nell’evidenza di questo mondo completo in
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cui figurano ancora oggetti maneggevoli come il progetto di scrivere o di suonare il piano, il malato trova la certezza della sua integrità. Ma nel momento stesso in cui il corpo gli dissimula la sua menomazione, il mondo non può fare a meno che rivelargliela.
(Merleau-Ponty, 2005, p. 130).
Il mondo che fa irrompere in me intenzioni abituali – il mondo in
relazione al quale il corpo è il perno – nel caso di una amputazione
non mi è più interamente con-fuso. Le facce delle cose, a cui una volta
il mio arto era legato in promiscuità, interrogano un arto che non ho
più; ragion per cui l’anosognosia deve essere studiata non dallo
“strato” del mio corpo attuale ma dallo “strato” del mio corpo
abituale, in quell’ alone di generalità e di essere pre-personale nel
quale la mia attualità è sempre immersa. Il fenomeno dell’arto
fantasma sarà evidente nel momento in cui si comprende – come nel
caso della rimozione psicanaliticamente intesa – che questa sorta di
rimozione è una rinuncia, un blocco, su un punto singolare da parte di
una temporalità, la quale inciampa continuamente su se stessa e senza
che il suo movimento la riesca a trascinare, essa mantiene il soggetto
incarnato sempre aperto allo stesso impossibile avvenire.
In relazione all’esistenza, l’Umwelt, il mondo-ambiente e la Welt, il
mondo, sono co-implicati e costituiscono non una ganga nella quale
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l’uomo si trova in ex-stasi ma un movimento, un “traffico” di messa a
distanza e di avvicinamento. Questa pulsazione tra una singola azione
e l’azione di generalità che costituisce il palcoscenico o lo sfondo da
cui l’azione si distacca, permette momentaneamente una segregazione
da un orizzonte dell’essere che ingloba; questa partitura del campo
pratico in un centro di esistenza e in una sua periferia nella quale
collocare le risposte particolari al mondo-ambiente – che altrimenti ri-
cadrebbero nell’essere inglobante – è il battito del cuore stesso
dell’esperienza, l’ambiguità di un corpo al mondo e nel mondo.
Questo movimento nutante svincola l’esistenza dell’uomo dal suo
ambiente e glielo fa vedere in una apertura di una vera e propria
dimensione di esperienza; l’andirivieni armonico dell’esistenza,
questo smottamento tra le faglie di una corporeità effettiva e una
“personalità” di atti intenzionali di secondo grado non è una dialettica
tra un muto In-sé e un Per-sé ma una iper-dialettica, la quale nella sua
storia come movimento unico crea Gestalt stabili ma non risolutive.
Ricapitolando, per riscoprire l’esperienza del corpo proprio a
partire dalla messa tra parentesi degli atteggiamenti ingenui per il
filosofo francese bisogna ripercorrere alcuni passaggi:
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• Le cose stesse come “oggetti individuali” non sono cose come
strutture oggettivamente invariabili “malgrado il mutamento di
prospettive” ma strutture (in)variabili nel e attraverso questo
movimento. Le prospettive non manifestano una permanenza
presupposta, postulata o a priori ma uno “stare di fronte”, un “esser-
oggetto”, una presenza come un distanziamento, un particolare
movimento di esistenza del corpo a cui lo stesso è aperto non per il
tramite del corpo ma in quanto corpo. La presenza della cosa come
oggetto è operata solo in quanto già da sempre assenza possibile.
• La cosa stessa come corpo proprio è invece una “permanenza”
che si dona come un genere altro dall’oggetto. Esso non è mai
totalmente di fronte a me, oggetto di me stesso, oggetto per me e
nemmeno una mera cosa tra cose nel mondo ma esso è con me,
affianco a me, a margine di tutte le mie percezioni. Il corpo per certi
versi non è percepito ma esso figura intorno alla percezione stessa. Il
corpo proprio non è oggettivabile, non è un tutto davanti al mio
sguardo ma esso è anche nascosto. Ciò perché il corpo è il “messo” di
una ambiguità e di una reversibilità. Il corpo nel momento in cui è
toccante o vedente il mondo, esso non è mai contemporaneamente
46
visto o toccato. Esso non è mai di fronte a me come oggetto ma è ciò
per cui vi sono delle cose presenti. Il corpo non è permanente là ma è
permanente assolutamente come sfondo della permanenza relativa
delle cose stesse; ergo la presenza o l’assenza di “oggetti esterni” non
sono che variazioni all’interno di un permanente, primordiale campo
di presenza, un campo di esperienza percettiva sul quale il mio corpo
per certi versi “governa e impera”. La presentazione adombrata degli
“oggetti individuali”, “singolari”, di cose mai complete non è
percorribile se non per mezzo di una “resistenza del corpo a ogni
variazione prospettica”, se non per mezzo di una trascendenza del
corpo rispetto a se stessa e se non per il tramite di una pregnanza a sua
volta adombrante e simultaneamente rimandante ad altro. Io posso
vedere delle cose da un punto di vista, da una prospettiva che non
posso vedere, essa per certi versi diviene assente, dissimulata, per far
si che qualcosa mi si presenti. Ogni cosa, nei suoi adombramenti e il
mondo che li abbraccia tutti e che coesiste con essi, è nella pulsazione
del mio corpo di presenza, presenza di cui il corpo non è oggetto tra
oggetti del mondo ma un cardine della mia co-implicazione, nascituro
a un mondo come latente orizzonte pre-riflessivo della mia esperienza
e intenzionalmente originario.
47
• Il mio corpo si scopre tale nel momento in cui per qualche
magia è donato a se stesso nella sua ambiguità, nella sua reversibilità e
nell’iper-dialettica delle “linee di forza”, dei movimenti
dell’esperienza percettiva. Essa, come in «sensazioni doppie»
(Merleau-Ponty, 2005, p. 132), mentre è toccante non può mai
cogliersi come toccato e queste due fasi non possono mai essere come
due “sensazioni” giustapposte ma sono transitivamente intrecciate in
una “alternanza”, in una bivalenza di vedente e visto. Questa
equivocità del corpo, come del resto dell’esperienza percettiva, era
stata colta sotto certi aspetti già dalla psicologia classica e dalla
Gestaltpsycohologie ma nel momento in cui queste naturalmente
costituiscono lo psichico come seconda realtà, si precludono qualsiasi
passaggio per ritornare all’esperienza carnale ed effettiva.
• Con un gesto di astrazione scientifica o di filosofia della
coscienza la psicologia classica tendeva a collocarsi in un non-luogo,
in un non-situato, come soggetti disinteressati o come sguardo senza
pupilla, come pensiero impersonale che esaurisce l’esperienza
soggettiva in un universale oggettività di oggetti tra oggetti. Questo
48
psichismo, invece di spingere a rileggere in nuovo modo l’essere e la
sua “pulsazione ontologica”, de-finisce una seconda realtà interna a
una esterna, pone il corpo come oggetto di scienza e ricettacolo di
leggi universali. Come in Freud, la psicologia riteneva che il suo
“mitismo scientifico” e il suo pensiero di avanguardia sarebbe prima o
poi stato riscritto in termini fisici e biologici. Ragion per cui anche se
essa si definirà come una “dottrina del sospetto”, non arriverà mai ad
aprirsi alla «incompletezza del mio corpo», alla «sua presentazione
marginale», alla «sua ambiguità come corpo toccante e corpo toccato»
(Merleau-Ponty, 2005, p. 147).
• La spazialità del corpo proprio non è una somma o una totalità
di parti giustapposte ma co-implicate. L’intero che il mio corpo è, è
posseduto in una appartentività situata e con-saputa grazie a uno
schema-corporeo; ma cosa è lo schema-corporeo? Esso non è un
disegno del corpo filo-geneticamente e onto-geneticamente
determinato, un insieme segnico o immaginativo di rappresentazioni
locali e associate come risultato del virtuale e del mero
deambulamento del corpo – dall’infanzia alla maturità – ma una sua
specie di formula “costitutiva”. In altre parole lo schema-corporeo è
49
una “forma dinamica”, una Gestalt, una «presa (…) globale della mia
postura nel mondo intersensoriale, una forma nel senso della
Gestaltpsychologie» (Merleau-Ponty, 2005, p. 153); e ancora meglio
esso è una forma innanzi alla quale possono baluginare figure
“privilegiate su sfondi indifferenti” proprio perché il corpo è spazialità
di situazione (e non di posizione), polarizzato dai suoi compiti e
sempre aperto al mondo. Lo spazio corporeo nella sua ambiguità è:
l’oscurità necessaria alla chiarezza dello spettacolo, lo sfondo di sonno o la riserva di potenza vaga sui quali si staccano il gesto e il suo scopo, la zona di non essere di fronte alla quale possono apparire degli esseri precisi, delle figure e dei punti
(Merleau-Ponty, 2005, p. 154).
Questa ambiguità carnale della “coscienza localizzata” è
impossibile per la psicologia classica, in quanto la coscienza per essa è
sempre «coscienza posizionale, rappresentazione, Vor-stellung»
(Merleau-Ponty, 2005, p. 157), coscienza oggettivamente determinata.
Le cose stesse a differenza dell’oggetto hanno una presenza carnale ed
effettiva.
50
• L’esistenza spaziale di ogni corpo come “condizione
primordinale di ogni vivente percezione” è pulsante in un movimento
di figura-sfondo, deformazione e incorporazione, movimento concreto
carnalmente nutrito o non astrattamente costruito o dualisticamente
metafisico.
• Il corpo è eccellentemente uno spazio espressivo e per questo
sempre dischiuso e intrecciato a un mondo di altri e di cose, un esser-
fuori del di dentro e un essere dentro del di fuori della “Natura” e un
ex-pressio dell’essere vissuto continuamente come una lacerante
mancanza a essere.
51
Oltre lo spazio puro: la dimensione spazializzante del corpo proprio
Al di là dello spazio oggettivo e dell’universo ideale Merleau-
Ponty ritrova, dal punto di vista della spazialità (e non ancora della
temporalità alla quale egli dedicherà il II capitolo della Parte terza,
dedicata all’essere per sé e all’essere al mondo), il corpo proprio come
radicato spazialmente e questa spazialità è una spazialità esistenziale.
Questa spazialità ovviamente non è lo spazio puro o geometrico
dell’esperienza ingenua ma la spazialità vissuta a cui un corpo proprio
è primordinalmente consegnato, quindi esso non è “originariamente”
nello spazio ma inerisce nello spazio. Questa spazialità, in altre parole,
è il dispiegarsi del suo essere di corpo.
Noi percepiamo il corpo in virtù della formula che lo struttura e che
co-implica le sue parti; questa formula non è una legge fisica, o una
forza astratta e metafisica che sussume la percezione da tergo ma io
sono sempre il mio corpo e non sono di fronte a esso come nel caso di
un oggetto. La mia evenemenzialità corporea si dà sempre su uno
sfondo significativo e in un sistema di equivalenze inter-sensoriale.
Questo sistema di equivalenze è tenuto insieme come stili,
52
comportamenti, eccetera. Per queste ragioni secondo Merleau-Ponty
un corpo non può essere paragonato a un oggetto fisico ma esso è più
vicino a un’ opera d’arte, la quale si dà sempre come una modulazione
espressiva dell’esistenza, un nodo di significati viventi.
Indagando – a partire dall’abitudine e dalla motilità – la
spazialità esistenziale, Merleau-Ponty scopre che “la sintesi o l’unità”
del corpo proprio può essere compresa a partire e per il tramite
dell’abitudine in generale. L’esempio del cieco con il bastone è il più
pregnante; attraverso quest’ultimo Merleau-Ponty ci fa vedere come il
bastone sia, ad un certo punto, non più uno strumento percepito che ci
fa percepire ma un’appendice del corpo, una estensione della sintesi
corporea (rammentare come il problema della spazialità della cosa e la
cosa siano due tronconi dello stesso problema), una “parte” della
“spazialità familiare” del corpo che costringe a far ampliare ancora di
più il mondo degli “oggetti tattili”.
L’oggetto tattile del mondo a questo punto non è un assoluto In-sé
ma una cosa a cui il bastone ci avvicina e di cui le prospettive non
sono indizi oggettivi per la costruzione, l’interpretazione o una
intenzione conoscitiva in relazione a un geometrale ma degli aspetti,
degli spaccati. Questi aspetti sono facce di una cosa stessa alla quale
53
noi sempre e mai definitivamente ritorniamo, ci avviciniamo nella
transitività tra soggetto incarnato e mondo e nella trascendenza attiva
della coscienza. Nell’estensione della spazialità familiare
dell’esistenza nell’abitudine motoria e nell’acquisizione percettiva di
un mondo le cose del mondo vengono ri-avvicinate e allontanate a
partire da un certo stile e da una certa abitudine dell’interrogazione del
senso immanente delle cose. Imparare a «vedere i colori significa
acquistare un certo stile di visione, un nuovo uso del corpo proprio,
significa arricchire e organizzare lo schema-corporeo»; quest’ultimo
rammentiamo non essere né un raggruppamento associazionistico né
una totalità di In-sé ma la formula di un intero appartentivo e situato.
Questo intero appartentivo di potenze motorie e percettive restituisce
il corpo non come un io-empirico, un In-sé davanti a un Per-sé come
Io penso ma una sorta di “point de capitonné” o meglio un nodo di
relazioni significative volto ad un proprio equilibrio. Questo
equilibrio, bilanciamento è sempre dinamico e suscettibile di nuove
integrazioni significative, primariamente indicate nel nostro campo
percettivo come “mancanza” e secondariamente come “attesa
appagata”.
54
L’iper-dialettica dell’esperienza non è caratterizzata solo da un
movimento sordo ma anche da un fare, da un artificium, senza il quale
le frontiere e le direzioni, le abitudini motorie e le progettualità
percettive – volontarie e non – , la riconquista di un nuovo
bilanciamento e arricchimento dello “schema-corporeo” non può
essere inaugurato.
La produttività umana si fa luce attraverso lo spessore dell’essere
capovolgendo, componendo, plasmando e ri-configurando il rapporto
naturale tra corpo e mondo circostante. Merleau-Ponty ci ricorda però
che questa “binarietà” non è un dualismo metafisicamente inteso tra
un movimento tacito e un movimento ricreativo e produttivo, due
strati uno sopra l’altro, ma essi figurano solo a titolo di momenti
inseparabili e inseparabili proprio perché espressivi. Riprendendo e
rielaborando quanto detto sopra, l’espressione per il filosofo francese
si svolge come rilievo su uno sfondo, un contesto ritagliato dal
movimento stesso (sia esso motorio, percettivo, produttivo, eccetera);
movimento e sfondo sono un tutto unico e allo stesso modo – come
dirà poi Merleau-Ponty all’interno de Il visibile e l’invisibile – la
cultura non è che una espressione non dalla ma della “Natura”. È per
tale ragione che, facendo un passo indietro, Merleau-Ponty scriveva
55
che il nostro corpo non è né nello spazio né nel tempo ma «esso abita
lo spazio e il tempo» (Merleau-Ponty, 2005, p. 194).
In quanto corpo io non sono un angolo di uno spazio sinteticamente
restituito o una certa rappresentazione del tempo oggettivo ma una
dimensione prospettica di carne e sangue, un punto di vista incarnato,
una cavità aperta a un mondo di orizzonti indeterminati, adombrati e
rimandanti ad altre prospettive e ai relativi orizzonti. L’esperienza
motoria è un caso particolare di un intero sistema di esistenza, già
sempre spalancato espressivamente a un mondo di cose presentificate
e significative.
Il mio corpo è al mondo e nel mondo non per il tramite di una
oggettiva rappresentazione ma in quanto espressione. Già la motilità,
come movimento privo di mediazioni è considerato espressivo e
fornito di un potere originario di Sinngebung, di donazione di senso.
La spazialità motoria è già una spazialità espressiva del corpo,
equivalenza e corredo di equivalenze di uno schema-corporeo
dinamico, di una abitudine originaria ma generalmente percettiva e
dunque ex-istenzialmente espressiva. Come ha scritto Salvatore
Costantino a proposito dell’espressione parlata e parlante «il luogo di
56
nascita della parola è la percezione» ( Costantino, 2007, p. 124) e «la
percezione già è espressione» ( Costantino, 2007, p. 113).
All’interno del capitolo dedicato alla psicanalisi freudiana e al
corpo come essere sessuato Merleau-Ponty tenta di ri-coniugare e ri-
esplicitare quanto aveva detto nei capitoli precedenti attraverso la
messa fuori circuito delle evidenze naturali della psicologia classica e
ripulendo la categoria di affettività dal suo biologismo di fondo. La
sessualità secondo Merleau-Ponty è una intenzionalità originale e in
contemporanea la radice vitale/affettiva della percezione, della
motilità e della rappresentazione espressivamente in rapporto
reciproco. In Freud la libido non è un istinto ma una «capacità
generale, propria del soggetto psico-fisico, di aderire ad ambienti
diversi, di fissarsi attraverso differenti esperienze, di acquisire
strutture di condotta»; ciò che è importante della psicanalisi freudiana
per Merleau-Ponty non è né la biologizzazione della psicologia né il
suo pansessualismo che gonfia la nozione di sessualità fino a
fagocitare metafisicamente la complessità dell’essere situato e
dell’esistenza, ma il fatto che ogni fenomeno umano ha un senso non
riducibile a condizioni materialisticamente meccaniche e
“dialetticamente causali”. Con ciò il filosofo francese afferma che la
57
sessualità non è nemmeno un epifenomeno dell’esistenza ma una
possibilità del nostro essere in situazione e in rapporto con le cose, gli
altri e il mondo. La percezione erotica non è una intenzionalità cogito-
cogitatum ma essa è una intenzionalità di tipo originario, una
intenzionalità aperta e protesa verso un altro corpo in un mondo. Ogni
soggetto concreto è eroticamente, affettivamente strutturato secondo la
propria storia singolare ed è in grado di situarsi eroticamente fino
all’appagamento a partire da una evidenza e da un senso donato
dall’incessante e silenzioso lavoro del desiderio. Se la percezione
erotica fosse una particolare modulazione di esistenza, una atmosfera
ambigua co-estensiva alla vita, un particolare registro di situazione del
corpo, ciò significherebbe e di fatto significa che essa è un vero e
proprio stile di figurazione e strutturazione dell’esperienza.
L’esperienza si dispiega sempre secondo strutturazioni, modalità, stili,
situazioni, “abitudini”, atteggiamenti molteplici e ambiguamente inter-
significanti nell’intero evenemenziale dell’esperienza. Così come le
parti del corpo umano si implicano vicendevolmente e si esprimono
intrecciandosi, le strutture d’esperienza si rimandano tra di loro
secondo adombramento e pregnanza. Il movimento di figurazione
iper-dialettica dell’esperienza percettiva è quindi un movimento
58
effettivo a più livelli di trascendenza verso l’altro, le cose e il mondo;
ciò vuol dire anche che l’esperienza non può mai completamente
riposare in se stessa ma essa è sempre differenza a se stessa ed è in
questo movimento di trascendenza di sé che io non divengo mai
pienezza. L’esistenza corporea è sempre travagliata da una “mancanza
a essere”. Il corpo continuamente rinnovato a una intenzionalità
fungente non è mai una cristallizzazione compiuta ma una unità non
uniforme dell’esperienza, un intero equivoco, un intero con-fuso e
transitivamente intersoggettivo.
«L’equivoco è essenziale dell’esistenza umana, e tutto ciò che noi
viviamo o pensiamo ha sempre più di un senso» (Merleau-Ponty,
2005, p. 237); ergo l’esistenza eccede sempre se stessa. Questa
indeterminatezza è l’espressione effettiva di una struttura
fondamentale, connaturata al tessuto stesso dell’esperienza e al suo
moto di involgimento e dispiegamento.
Il filo conduttore a cui una filosofia come Fenomenologia della
percezione ci riagguanta è, dunque, quello secondo cui:
l’eroe dei nostri giorni non è Lucifero, né Prometeo ma è l’uomo. Il filosofo non è più, dunque, l’uomo che sa, il dotto, il detentore del segreto, il mago ed «il prete della verità», come diceva Fichte. Chi è allora? Niente di più ma niente di meno che un…uomo; e tra gli uomini, l’uomo vigila e medita, si sveglia e parla. Per questo «la metafisica è nell’uomo, la metafisica è l’uomo nel suo essere medesimo, nei suoi amori, nei suoi odi, nella sua storia individuale e collettiva, e la metafisica non è più, come
59
diceva Cartesio, l’affare di qualche ora al mese; è, come pensava Pascal, nel minimo moto del cuore.
( Costantino, 2007, p. 115)
La parola alla quale la filosofia fenomenologica ci ridesta non è la
parola esoterica di una pura teoria astratta ma un veicolo, un uso e una
modalità possibile del mio essere al mondo. La parola non è segno o
strumento convenzionale o naturale esterno o interno ma una
espressione intersoggettivamente comunicativa e comprensiva,
espressiva; ogni soggetto parlante è perciò mai un cogito tacito o un
suo “pensiero” ma un singolare e incarnato stile d’essere al mondo. Il
pensiero «non è nulla di “interiore”, non esiste fuori del mondo e fuori
dalle parole» (Merleau-Ponty, 2005, p. 254). Con l’esempio della
parola Merleau-Ponty mette in luce il carattere intenzionale della
corporeità e dell’intercorporeità. Per il tramite di uno studio intorno
alla mimica facciale, della situazione erotica e della comunicazione e
comprensione dell’altro da me del corpo e dell’altro corpo, si
sottolinea il rapporto simultaneo e ambivalente tra l’uso del corpo e la
sua strutturazione effettiva e affettiva. Attraverso l’espressione un
nuovo essere culturale comincia a esistere e comincia a ex-sistere
simultaneamente nell’acquisizione di un’abitudine di esistenza.
60
Sul mondo percepito e sull’essere per sé e sul mondo
Il corpo proprio è il cuore del visibile e il cardine di uno spettacolo
che apre con il mondo un sistema di equivalenze mai completo ma
sempre mancante in corrispondenze vissute e sempre adombranti.
L’analisi riflessiva dello spettatore disinteressato dell’ “uomo interno”
sorvolando ab-solutamente un oggetto in sé, privo di facce in una
sintesi astratta, distrugge la strutturazione e la co-implicazione
ambigua dell’esperienza percettiva ed è alieno dallo spessore
dell’essere del mondo di cui il corpo proprio è un soggetto incarnato.
Alla presenza in carne e ossa di un corpo è donata una evidenza
percettiva che non ha nulla a che fare con quella naturale o quella
ideale della geometria; “i lati del cubo non sono sue proiezioni, ma
appunto lati”. Al di là del prospettivismo caleidoscopico di uno
sguardo oggettivo vi è una apparenza d’essere contorsionista, nella
quale il mio corpo è involto e battuto da una corrente vissuta
dell’adombramento e della pregnanza. L’intercorrenza tra il mio
corpo, l’altro, le cose e il mondo sono le facce, sono le co-
61
implicazioni simultanee per le quali vi è una esperienza figurante-si su
più sfondi o su uno sfondo di sfondi e non un mero “Pieno” e quindi
un “Niente”.
A partire dalla teoria dello schema corporeo, la quale già era
l’abbozzo di una teoria della percezione sempre incompleta, Merleau-
Ponty riscopre, dunque, il corpo non come oggetto in sé o come
coscienza per sé, trasparente e coincidente a se stessa, ma come un
intero trascendentalmente e intersoggettivamente espressivo. La
percezione non è un epifenomeno dell’esperienza in generale ma una
continua “ri-creazione” del mondo (di cui il nostro sapere è un
qualcosa di radicato nei suoi orizzonti aperti e intrecciati). Noi come
corpi siamo lacune nella percezione e in quanto tali pieghe equivoche
di essa. Merleau-Ponty afferma che:
il soggetto della sensazione non è né un pensatore che annota una qualità, né un ambito inerte che sarebbe colpito o modificato da essa, bensì una potenza che co-nasce a un certo contesto d’esistenza o si sincronizza con esso
(Merleau-Ponty, 2005, p. 288).
Io come corpo non sono coscienza costituente, un puro non-essere
assoluto, astratta ubiquità, eternità, un In-sé-Per-sé coestensivo
62
all’essere e privo di qualsiasi gravità; io non sono come dice Hegel, un
«buco nell’essere» ma una Stiftung, una iniziazione, uno scarto, «una
fessura, una piega che si è fatta e può disfarsi» (Merleau-Ponty, 2005,
p. 292).
Ogni percezione è donata in un alone di generalità ed essa non è
donata da me più di quanto non sia io a farmi nascere o morire o a far
battere il mio cuore. Ogni percezione viene dall’al di là di me stesso;
al margine di me stesso, del mio proprium colgo una vita anonima, un
altro io che si è già aperto e co-implicato con il mondo. Fra la mia
percezione e me c’è sempre uno scarto, uno spessore che mi
impedisce una chiarezza (a questo proposito vedi la “sensibilità
doppia”). Colui che vede e colui che tocca non è me come il mondo
totale, non è il mondo visibile o tangibile. Ogni percepito riceve
sempre qualcosa di più e di non ancora. Il percepito come questo qui e
questo non ancora non è solo lo scarto tra l’irrotto e l’imminente ma
anche tra questi e una profondità in-visibile e irraggiungibile. Ciò che
non è me, è quell’ alone di generalità che dà prova di una prescienza,
di un automatismo dato da una sua familiarità con l’essere. Ragion per
cui ogni mia percezione è la percezione in un certo campo, una figura
su un certo sfondo, una lacerazione e una iniziazione a un certo
63
orizzonte d’essere che per un patto, pre-personalmente stipulato, mi
dona gratuitamente e pre-personalmente un qualcosa della natura. La
visione “è un pensiero assoggettato a un certo campo: ecco ciò che si
chiama un senso”, il senso di un aspetto dell’essere donatomi
originariamente.
Per Merleau-Ponty la spazialità o la temporalità del campo
d’esistenza non era stata discussa a partire da un apriorismo formale e
da un dover essere ma dal fatto che la transitività e promiscuità tra il
senziente e il sensibile è esso stesso costitutivo di un ambito di co-
esistenza. Ogni sensazione singolare è data solo su uno sfondo,
presuppone un campo. L’esperienza di un mondo non mi è basata su
un a priori meta-mondano ma a partire dall’immanenza di una
prospettiva carnale a una modulazione d’esperienza. L’esperienza non
offre più una materia indifferenziata e astrattamente restituita ma è un
intero di specifiche maniere di inerenza alla spazialità e alla
temporalità, superfici di contatto con l’essere che “fanno spazio”e
temporalizzano. Merleau-Ponty ha scritto:
64
una volta cancellate le distinzioni tra l’apriori e l’empirico, fra forma e contenuto, i fatti sensoriali divengono momenti concreti di una configurazione globale che è lo spazio unico, e la facoltà di accedere a esso non è disgiungibile da quella di staccarsene nella separazione di un senso
(Merleau-Ponty, 2005, p. 300).
Lo spazio di ogni senso è come lo spazio che si distingue su un
mondo comune. Gli spazi percettivi sono irriducibili l’uno all’altro ma
si rimandano, sono co-implicati, intrecciati strutturalmente. Essi sono
ambigui tra loro e si uniscono nel momento in cui si oppongono.
Per quanto riguarda l’oggetto una sua fissazione comporta la
separazione di una regione dal resto del campo. La fissazione da parte
di un soggetto sostituisce alla “visione globale” una visione locale e
sospende quindi una non-visione in virtù di una visione che si lascia
penetrare in un suo governo volontario. Questa ultima fissazione è una
osservazione, una curiosità. Questa osservazione è una visione
seconda o critica, interrogante; questa visione seconda dissimula lo
spettacolo globale e mi fa vedere dei colori non più su uno “spessore
65
dell’essere” ma su uno spessore fittizio (una pseudo-presenza, una
quasi presenza della visione seconda). Ad un certo punto quindi:
c’è un atteggiamento “naturale della visione in cui io faccio causa comune con il mio sguardo e, attraverso di esso, mi abbandono allo spettacolo […]”. La qualità, la sensorialità separata della mia visione, quando cesso di aderire al mio proprio sguardo […] sciolgo la mia visione e il mio mondo, fra me stesso e la mia visione, per sorprendermi e descriverla
(Merleau-Ponty, 2005, p. 305).
In questa visione seconda il soggetto si dissimula e la sua unità
“naturale” con la visione è rotta (mai completamente), creando uno
spazio di descrizione e interrogazione. È per tutti questi motivi e scarti
tra scarti che l’esperienza è ambigua.
Nel caso della visione primaria, l’unità di un “oggetto individuale”
non mi è data da un processo in terza persona che fonde le due
immagini delle visioni monoculari. La visione binoculare non è una
visione pensata da uno Spirito ma è la visione unita delle visioni
monoculari. Essa, la visione binoculare, non è la sintesi di un Io penso
ma è un corpo che si strappa da una dispersione dello spettacolo e da
una incorporazione allo spettacolo globale, una proiezione sinergica
66
che il corpo fenomenico realizza nel momento in cui si segrega da uno
sfondo. Questa proiezione sinergica non è una astrazione ma un tipo di
intenzionalità seconda. Questa “sintesi percettiva binoculare”, questa
intenzionalità seconda, è addosso “all’unità pre-logica dello schema
corporeo”. L’ “oggetto singolare” rimane sempre trascendente, in
quanto la visione seconda rimane sempre incompiuta e ciò comporta
che io avanzo certamente in una progressione verso l’ “oggetto
singolare” stesso, per avere la sua presenza carnale, ma senza
escludere una regressione a essa appaiata. Ogni oggetto singolare non
è che una sua mancata ipseità, un adombramento; le cose stesse non
sono mai raggiunte e esse sono solo degli inviti a qualcosa d’altro e
«una pausa momentanea» del processo percettivo. Se vi fosse un
completo avvicinamento alle cose stesse nel momento in cui
credessimo di possederle esse smetterebbero di esistere. La presenza
e l’assenza sono le due polarità della trascendenza. Questo movimento
percettivo non è un movimento oggettivo ma un “movimento
virtuale”. È il corpo a dare senso alle cose “naturali”, culturali,
eccetera e il caso della parola, prima di divenire pensiero, è cruciale a
presentare questa irruzione: infatti essa per strutturare una “immagine”
deve dispiegare un certo atteggiamento corporeo; o meglio, nella sua
67
totalità dinamica l’uomo deve strutturarsi in una certa maniera per
ritagliare una figura su un campo visivo, per far sorgere una figura
davanti allo schema corporeo e questo non può realizzarsi totalmente
in latenza.
Quasi in drastica contrapposizione con l’Heidegger di Essere e
Tempo Merleau-Ponty ad un certo punto afferma che la percezione si
dà sempre nel «Si». Non sono io come soggetto autonomo che oriento
la percezione ma sono io che ho un corpo e re-imparo a guardare e a
dare un passato al presente e a ri-orientarlo verso un avvenire.
Il compito di una riflessione radicale è quello di ritrovare “la
preistoria” percettiva, l’irriflesso del mondo, “per ricollocare in essa
l’atteggiamento analitico e per far apparire questo ultimo come
possibilità del mio essere”. All’inizio abbiamo non un oggetto ma un
campo percettivo sullo sfondo del mondo. La sensazione è la
percezione più semplice che non si separa mai completamente dallo
sfondo del mondo – al quale si trovava incorporato – . La separazione
incompleta è sempre una sospensione parziale della “comunione”
vitale. Il livello primordiale è all’orizzonte di ogni nostra percezione,
ergo ogni nostra percezione è sempre una percezione orientata e se
essa non fosse tale, se essa non fosse una precisa prensione sul mondo
68
e un certo orientamento delle cose stesse, non avrei mai uno spettacolo
di cose, di altri, di mondi. La prima presa sul mondo però è data solo
come “l’esecuzione di un contratto più antico” stipulato tra X e il
mondo in generale; la mia storia è il proseguimento di una preistoria
di cui utilizza i risultati acquisiti. Sotto di me, sotto la mia presa
personale sul mondo vi è una preistoria pre-personale, un altro
soggetto che è prima di qualsiasi decisione o progettualità secondaria.
Questa pre-personalità è il sistema stesso delle “funzioni” latenti che
avvolgono ogni fissazione espressa e particolare dell’intenzionalità
seconda. Alla preistoria come del resto al pensiero, sempre appaiati in
ambivalenza, l’esperienza dell’altro mi è data nell’ambiguità
dell’esperienza medesima. Io percepisco l’altro come comportamento,
posso raggiungerlo con la parola – nella quale l’altro è già
trascendentalmente determinato – posso partecipare al suo
comportamento ma non posso sovrappormi a lui, non posso vivere il
vissuto dell’altro, non posso stare al posto di un altro. Ciò non è un
limite e non imprigiona me e l’altro in dei Per-sé ma esso mi è già da
sempre donato come una corporeità trascendente ma pur sempre
originariamente appaiata alla mia (infatti io non posso cessare di
essere situato in rapporto con esso).
69
Volendo ricapitolare e sottolineare l’impossibilità di un husserliano
Cogito tacito e la trascendenza a se stessa di una esistenza come
temporalità nell’ultima parte della Fenomenologia della percezione
Merleau-Ponty conclude che una Fenomenologia iper-dialettica di una
esperienza ambigua della corporeità, della intercorporeità e dell’in-
corporeità è autenticamente fenomenologica solo se si impone come
una severa indagine delle strutture e degli scarti ambivalenti e
transitivi della percezione concreta di soggetti impegnati e
progettualmente produttivi. I corpi come campi aperti di un duplice
anonimato, rispettivamente di una eccentricità a se stessi e di un
irraggiamento attorno a sé di un alone di generalità, sono sia
concatenazioni preistoriche di senso sia progettualità volontarie.
Attorno alle nostre iniziative e a quel progetto rigorosamente individuale che è noi stessi, riconosciamo […] una zona di esistenza generalizzata e di progetti già fatti, riconosciamo significati che si trascinano fra noi e le cose e che ci qualificano come uomo, come borghese o come operaio. La generalità interviene già, la nostra autopresenza è gia mediata da essa, noi cessiamo di essere pura coscienza non appena la costellazione naturale o sociale cessa di essere un questo informulato e si cristallizza in una situazione, non appena essa ha un senso: insomma non appena noi esistiamo.
(Merleau-Ponty, 2005, p. 374)
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Questo nostro essere al mondo, portatore concreto di un duplice
anonimato del Si, e quello della coscienza sono a questo punto non
due alternative da scegliere in base alle quali una filosofia deve
convalidarsi ma le due fasi di una struttura unica, in ultima istanza del
soggetto concreto, alla quale una fenomenologia come filosofia
militante deve riaderire.