II. LA CRISI DELLA FAMIGLIA
La famiglia rappresenta
sempre, per Eduardo, lo
speculum della società
italiana e addirittura del
mondo1.
In questo capitolo ci si accinge ad analizzare la figura della famiglia
nell’opera eduardiana. Per fare ciò si è ritenuto utile effettuare un’analisi
propedeutica di quella che fu l’esperienza familiare dell’autore2. In un
primo breve paragrafo si propone una panoramica dei rapporti e delle
dinamiche che formarono l’Eduardo figlio, fratello, padre e marito,
integrando questo approfondimento con il più generico resoconto
biografico del primo capitolo di questo lavoro.
Nel secondo e terzo paragrafo si procede analizzando come questa
1 Anna BARSOTTI, La drammaturgia di Eduardo De Filippo, in Eduardo in maschera. Incontri sul suo
teatro, a cura di Manola BUSSAGLI, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1995, pp. 4950.
2 Quanto della vita personale dell’autore sia nelle sue commedie è argomento di discussione. Sostiene
Bentley: «Spesso si è discusso fino a che punto è necessario conoscere la vita e l’ambiente di un
autore per poter giudicare la sua opera. Personalmente ritengo che se ne dovrebbe discutere solo
quando c’è pericolo di scambiare per peculiarità dello scrittore quel che invece rappresenta la sua
epoca e il suo paese. Alcuni aspetti di Eduardo autore [...] possono sembrare forzati se si considerano
manifestazioni della sua volontà personale, ma, in quanto espressioni di una tradizione sociale, sono
del tutto comprensibili. Ho l’impressione [...] che con le sue commedie Eduardo cerchi principalmente
di esprimere suoi giudizi personali, l’impressione insomma che scriva laboriosi drammi a tesi». Eric
BENTLEY, Eduardo De Filippo e il Teatro napoletano, in AA.VV., Eduardo nel mondo, a cura di
Isabella QUARANTOTTI, Roma, Bulzoni & Teatro Tenda, c1978, p. 44.
125
istituzione venga rappresentata nell’opera eduardiana. Naturalmente i
lavori di Eduardo sono figli del proprio tempo3, il che implica una diversa
rappresentazione della famiglia a seconda del momento storico. Come è
facile immaginare, non tutte le commedie sono imperniate su questa
tematica, anche se la famiglia come contesto strutturale è sempre presente.
Ma ci soffermeremo in questi paragrafi, in accordo con l’intenzione del
presente lavoro, su quelle che investono l’istituzione familiare in maniera
più diretta. Di queste una, Mia famiglia, sarà analizzata dettagliatamente
nel quarto ed ultimo paragrafo.
Il contesto familiare eduardiano, come osserva Barsotti, si fissa in una
struttura topica che si trova fin da Gennareniello, e che
corrisponde sostanzialmente a quella di Natale in casa
Cupiello: ma si ritroverà poi in Napoli milionaria! e
perfino nella altoborghese Mia famiglia degli anni
Cinquanta. O meglio vi corrisponde in una misura
originaria, le cui varianti saranno significative. Padre
madrefigliosorella (o fratello) del padre; un piccolo
nucleo, cui s’aggiungerà il personaggio della figlia [...] In
Napoli milionaria! Sparirà invece il personaggio
sorella/fratello del padre (forse da mettere in relazione con
l’inconscia rimozione di Peppino dal «Teatro di
Eduardo»). Ma la misura ideale, almeno sul piano
spettacolare, doveva comprendere questa figura/funzione,
tanto è vero che il personaggio del fratello ricompare poi
in Mia famiglia e in Sabato, domenica e lunedì4.
3 Pur non tralasciando il concetto di “tempo grande” (Bachtin) citato da Anna Barsotti: «La
proiezione nel tempo grande libera sempre l’opera davvero artistica (più informativa) dalla prigione
della sua “contemporaneità” [...]». Anna BARSOTTI, Eduardo drammaturgo (fra mondo del teatro e
teatro del mondo), Roma, Bulzoni, 1988, p.43 e nota.
4 Anna BARSOTTI, Eduardo drammaturgo cit., p. 66.
126
II.1 La famiglia di Eduardo
1.1 La famigliaclan
L’istituzione familiare condizionò la vita personale e artistica del
drammaturgo. Il padre Eduardo Scarpetta, lo ricordiamo, non lo riconobbe;
ma la sua figura fu comunque presente nella giovinezza di Eduardo,
insieme a sua madre, ai suoi fratelli e ai nonni. Cresciuto in una famiglia
clan scoprì solo a undici anni che colui che aveva imparato a chiamare
“zio” era in realtà suo padre, e quelli che credeva cugini erano fratellastri:
Mi ci volle del tempo per capire le circostanze della mia
nascita, [...] e quando a undici anni seppi che ero “figlio di
padre ignoto” per me fu un grosso choc. La curiosità
morbosa della gente intorno a me non mi aiutò certo a
raggiungere un equilibrio emotivo e mentale. Così, se da
una parte ero orgoglioso di mio padre [...] d’altra parte la
fitta rete di pettegolezzi, chiacchiere e malignità mi
opprimeva dolorosamente. Mi sentivo respinto, oppure
tollerato, e messo in ridicolo solo perché “diverso”5.
Nonostante le resistenze della madre, Eduardo seguì la strada che gli si
apriva innanzi, dietro la scia di Eduardo Scarpetta, ma attraversando anche
generi “altri”6. La sua paternità rimase per molti anni nascosta ai più, niente
altro che una voce circolante negli ambienti teatrali, fino a quando Peppino,
nel 1977, dichiarò ufficialmente la discendenza dei tre De Filippo
5 Eduardo DE FILIPPO, Eduardo De Filippo: vita e opere. 19001984, a cura di Isabella QUARANTOTTI e
Sergio Martin, Milano, Mondadori, 1986, p. 58.
6 Cfr. capitolo I.
127
Scarpetta. Pochi anni dopo, rispondendo alla domanda postagli da Luigi
Compagnone «il tuo era un padre buono o un padre cattivo?», Eduardo
rispose recisamente: «era un grande attore»7.
Non sappiamo se con questa risposta abbia voluto difendere quella
sfera privata che ha sempre voluto rimanesse tale; ma potremmo anche
leggervi una considerazione del padre “a metà” così come il padre aveva
riconosciuto “a metà” il figlio, facendosi chiamare zio. Per Eduardo costui
non sarebbe stato dunque un “padre” che fu come un maestro, ma un
maestro che fu come un padre.
1.2 Il rapporto coi fratelli
A dividere con lui questa situazione erano la sorella Titina e il fratello
Peppino, coi quali inoltre conquisterà i primi successi formando la
compagnia “Teatro Umoristico I De Filippo” negli anni Trenta. Con loro il
rapporto sarà spesso burrascoso.
All’inizio degli anni Quaranta Titina, in seguito a malumori avuti con
Eduardo, lascerà la compagnia per un anno. Ma il legame fra i due è molto
forte, e Eduardo continua a lavorare con lei fino al 1948, anno in cui la
sorella lascia le scene per il malore che la porterà alla morte nel 1963.
Rimarrà traccia di lei in molte commedie del fratello e principalmente nelle
figure femminili.
Con Peppino invece i rapporti si incrinano definitivamente nel 1944
quando i fratelli si separano. Isabella Quarantotti ha scritto che «travolto e
trascinato dall’entusiasmo del pubblico, poco a poco Peppino non volle più
dipendere da nessuno. Adulato, istigato da amici e conoscenti, cominciò a
7 Luigi COMPAGNONE, «Oggi», 21 maggio 1980.
128
ribellarsi a Eduardo che, da parte sua, serviva il teatro con passione fin
troppo severa». E continua:
Come poteva accettare tutto questo un giovane attore
appena esploso sulla scena, che veniva acclamato in teatro
e dovunque andasse? Di carattere allegro, ansioso di
vivere fino in fondo la sua stagione di gloria, Peppino
rifiutava la severità, il rigore di Eduardo.
[…] Non aveva saputo capire (come invece anni dopo capì
Luca) che sul piano artistico Eduardo ne voleva
l’abnegazione assoluta e una fiducia senza tentennamenti,
per poterlo rendere sempre più grande come attore.
Chi sa, forse se di tanto in tanto Eduardo avesse
incoraggiato suo fratello, questi sarebbe stato meno fragile
di fronte alle tentazioni; da una parte gli applausi, le
lusinghe, l’approvazione di tutti, dall’altra il rigore del
fratello che lo addolorava, lo sconfortava...8
Da quel momento in poi i rapporti sono intermittenti, ma non
torneranno mai insieme in teatro. I rancori e le amarezze emergono da una
lettera del 1946 con la quale Eduardo risponde ad un riavvicinamento di
Peppino:
Caro Peppino, ti pare che dopo quanto è accaduto fra me e
te, dopo anni di veleno amarissimo che ebbero come
conclusione la scenata del Vomero... un semplice colpo di
spugna può cancellare dal animo l’offesa e il risentimento?
Tu dici: “Siamo fratelli.” Certo. E chi più di me ha saputo
affrontare e comprendere questo sentimento? Credi tu che
da estraneo avresti potuto infliggermi le torture morali che
8 Isabella QUARANTOTTI, Eduardo polemiche, pensieri, pagine inedite, Milano, Bompiani, 1986, pp. 30
32.
129
sistematicamente, minuto per minuto, mi infliggevi?
L’amore fraterno è un sentimento da asilo infantile, credi
a me. Fratelli si diventa dopo di aver guardato nell’animo
di una persona come in uno specchio d’acqua limpida, e
dopo di averne scorto il fondo. Scusami, ma io guardando
nel tuo animo, il fondo non lo scorgo. La tua lettera è
troppo ingenua. Io voglio tenderti la mano, ma con un
chiarimento esauriente, onesto, sincero. Se tu mi vuoi bene
come ai primi tempo della nostra miseria, vuol dire che
nulla puoi rimproverarmi... mentre io, e questo è il mio più
grande dolore, non ti voglio bene come allora: ti temo.
[...] Scusami se ti ho parlato così, ma è la maniera migliore
per far diventare uomini due fratelli, e fratelli due uomini.
Parto domani per un periodo di riposo. Puoi trovarmi al
Parco Grifeo 53. Il portiere ti potrà dire dove sono. Ti
vedrei volentieri.
Eduardo9
Secondo Anna Barsotti echi del loro tormentato rapporto si
ritroverebbero anche nella drammaturgia eduardiana dopo la separazione.
Nelle famiglie che Eduardo porta in scena compare la coppia fratello
fratello – o la variante fratellosorella – soprattutto dopo il divorzio artistico
dei due:
Se in Napoli milionaria! il ruolo del Fratello del
Protagonista scompare, nella topica “famiglia” eduardiana,
questo ricompare, in un rapporto esclusivo fra i due, in Le
voci di dentro. Dove, anzi, il minore prepara ai danni del
maggiore un “tradimento”, cercando di svendere di
nascosto il “patrimonio di tradizioni” che avevano in
9 Eduardo DE FILIPPO, lettera a Peppino, 7/7/1946 cit. in Isabella QUARANTOTTI, Eduardo polemiche,
pensieri, pagine inedite cit., pp. 4750. Corsivo nostro.
130
comune: e proprio la scoperta di “quel” tradimento fa
esplodere tutta l’amarezza di Alberto! Ricordiamo che
Eduardo incolpava, della diserzione di Peppino, i
«mercanti» che lo «assediavano per la loro cassetta».
Quindi il “dramma dell’incomprensione” rispunta, nella
variante PadreFiglio, con Mia famiglia: c’è un “padre”
che non accetta l’emancipazione del “figlio”, né gli parla,
e un “figlio” che matura segretamente la propria
“ribellione”. [...] Ma l’interesse dell’Autore per la
“famiglia” come luogo di conflitti non meno che di affetti,
particolarmente adatto a rivelare gli interessi egoistici –
travestiti da sentimenti altruistici –, è confermato, con note
anche troppo aspre e polemiche, dalla commedia subito
successiva: Bene mio e core mio. Dove il titolo, frase
idiomatica con cui si commentano ironicamente a Napoli i
torti insospettati ricevuti dai parenti stretti, e la situazione
principale fanno riferimento ai “difficili” rapporti tra
Fratello e Sorella...10
Paola Quarenghi sostiene che «anche in Natale in casa Cupiello si
ritrovano i germi e, insieme, le tracce di questo conflitto»11, riferendosi allo
stesso rapporto dissonante tra il padre e il figlio all’interno di quella
commedia.
1.3 Eduardo marito
Quanto detto richiama una figura problematica di Eduardo figlio e
10 Anna BARSOTTI, Eduardo drammaturgo cit., p. 476 nota 51.
11 Paola QUARENGHI, Dal pari al dispari. Una commedia del repertorio di Eduardo, in L’arte della
commedia. Atti del convegno di studi sulla drammaturgia di Eduardo, a cura di Antonella OTTAI e
Paola QUARENGHI, Roma, Bulzoni, 1990, pp. 4546.
131
fratello. Al contrario, nei panni del padre e del marito sembra ripagato dei
disagi che ebbe da quella che Peppino molti anni dopo definì «una famiglia
difficile»12.
Sposato quattro volte, Eduardo ebbe tre mogli. La prima fu Dorothy
Pennington, giovane americana sposata a ventotto anni, la quale mal riuscì
a sopportare la vita itinerante e l’ambiente teatrale chiuso del marito; il
matrimonio sarà annullato venti anni dopo, nel 1952. Thea Prandi, la
seconda moglie di Eduardo, era invece nell’ambiente teatrale, lavorando
come soubrette per le riviste dell’impresario Aulicino; conosciuta nel 1947,
la sposerà solo nel 1956, legittimando i due figli avuti da lei. Ma appena tre
anni dopo i coniugi si separeranno consensualmente davanti al Tribunale di
Roma. Dopo lunga malattia nel 1961 Thea muore, ma poco prima, al
capezzale di lei, Eduardo la sposerà nuovamente, in extremis. Questa
tragica scena chiude l’esistenza di Thea Prandi, ricordando quella
d’apertura della commedia Filumena Marturano, là dove la protagonista si
finge malata per strappare un matrimonio sul letto di morte: la finzione al
teatro, la verità alla vita. Ma già qualche anno prima, nel 1956, Eduardo
aveva conosciuto Isabella Quarantotti; lei sarebbe diventata poi sua stretta
collaboratrice, per esempio nello sceneggiato televisivo Peppino Girella,
tratto da un suo racconto, che sarà diretto e interpretato da Eduardo stesso.
Molti anni dopo, nel 1977, i due si uniranno in matrimonio, e lei lo
accompagnerà fino alla fine.
A proposito del matrimonio Eduardo si espresse rispondendo ad alcune
domande poste da un gruppo di studenti nel 1976; deluso per una società
che si ostinava a non cambiare disse: «il matrimonio è ancora una catena
che solo la morte di uno dei coniugi può spezzare»13. Ma già per bocca di
12 Peppino DE FILIPPO, Una famiglia difficile, Napoli, Marotta, 1977.
13 Eduardo De Filippo risponde alle domande poste da un gruppo di studenti, Roma, Teatro
Eliseo,1976, cit. in Isabella QUARANTOTTI, Eduardo polemiche, pensieri, pagine inedite cit., pp. 172
132
Domenico Soriano, l’antagonista di Filumena Marturano, si era
pronunciato: nel terzo atto, quando i due ormai non più giovani decidono di
sposarsi, Domenico sottolinea la particolarità di questo matrimonio.
DOMENICO. Tra poco ci troveremo inginocchiati davanti a
Dio, non come due giovani che ci si trovano per aver
creduto amore un sentimento che poteva essere soddisfatto
ed esaurito nel più semplice e naturale dei modi... Filume’,
nuie ’a vita nosta ll’avimmo campata... io tengo
cinquantaduie anne passate e tu ne tiene quarantotto: due
coscienze formate che hanno il dovere di comprendere con
crudezza e fino in fondo il loro gesto e di affrontarlo,
assumendone in pieno tutta la responsabilità14.
1.4 Eduardo padre
Eduardo ebbe due figli dalla seconda moglie Thea Prandi, Luca e
Luisella, nati rispettivamente nel 1948 e nel 1949. Era molto fiero dei suoi
bambini, e pareva scorgere in loro una precoce attitudine al teatro. «È nata
parlante – dirà di Luisella in un’intervista a Enzo Biagi – e tanto lei, come
Luca, hanno la passione del teatro nel sangue»15.
Luisella purtroppo venne a mancare il 1959, a soli dieci anni, per una
emorragia cerebrale. Questo evento segnò moltissimo Eduardo, come
racconta Andrea Camilleri:
L’immagine che uno aveva di Eduardo era di un uomo
174.
14 Eduardo DE FILIPPO, Filumena Marturano, in Cantata dei giorni dispari, vol. I, Torino, Einaudi,
1998, p. 243.
15 Enzo BIAGI, La dinastia dei fratelli De Filippo, «La Stampa», Torino, 5 aprile 1959.
133
corazzato, un uomo che si difendeva anche recitando la
parte che si era assegnata lui stesso nella vita. Non so
come nel ’60 ero preoccupato perché una delle mie figlie
aveva la febbre alta; non pensai all’incidente della
bambina di Eduardo e gli dissi che ero un po’ preoccupato
per mia figlia. Rispose: “Io l’ho persa una figlia”. E mi
raccontò minutamente come lui aveva vissuto la cosa e si
mise a piangere. Non è una cosa che si sopportava
facilmente veder piangere Eduardo. È stata una cosa
inenarrabile, penosa. Mi dispiace anche di averla
rammentata16.
Per quanto riguarda Luca, un anno dopo perderà anche la madre, ma
Eduardo lo terrà sempre vicino a sé. Esordirà a soli otto anni nel ruolo di
Peppeniello in Miseria e nobiltà, secondo la tradizione; poi, senza essere
forzato sulla strada del teatro, proseguirà gli studi fino alla maturità
scientifica conseguita nel 1966; nello stesso anno debutta ufficialmente
nell’opera paterna Il figlio di Pulcinella, per la regia di Gennaro Magliulo.
Da questo momento in poi la sua intensa attività teatrale sarà incentrata
quasi esclusivamente17 sull’obbiettivo di tramandare l’opera del padre18.
16 Andrea Camilleri durante un’intervista per il ciclo Eduardo. Teatro e magia, RaiSat/Università di
Roma: Dipartimento di Italianistica e Spettacolo, 2000.
17 Luca ha anche preso parte ad alcuni film – I giovani tigri (1967), Il negozio di piazza Navona,
(1969), Petrosenella, Le scene di Napoli (1982), Naso di cane (1985), Il ricatto, Sabato, domenica e
lunedì (1990), Uscita di emergenza (1992), Come te nessuno mai (1999) – e messo in scena
commedie fuori dalla tradizione, tra le quali ricordiamo: La casa del mare, di Vincenzo Cerami
(19911992); L’amante di Harold Pinter (1997, diretto da Andrée Ruth Shammah); Aspettando Godot,
di Samuel Beckett (20012002).
18 Fausto Della Ceca parlerà di «straordinaria e moderna mimesi». Fausto DELLA CECA, Oltre Eduardo
riproponendo Eduardo, in AA.VV., Parole mbrugliate, a cura di Emilio POZZI, Parole mbrugliate,
Roma, Bulzoni, 2007, p. 36.
134
II.2 La famiglia nella Cantata dei giorni pari
2.1 Prime commedie
Già in Farmacia di turno, il primo atto unico scritto da Eduardo nel
1920, si trova una tirata del farmacista Saverio contro il matrimonio, che
comunque non si spinge oltre l’ironia farsesca della commedia.
Il dottore, Teodoro, legge sul giornale un fatto di cronaca:
TEODORO (dopo pausa). ...Don Save’ avete letto stu marito
che uccide la moglie per semplice sospetto sulla sua
onestà!
SAVERIO. Stupido... Mo và ngalera e ti saluto! La vera
risoluzione del problema la trovai io. Tu con me non puoi
più vivere felice? Preferisci l’altro, e sia!... Vattene cu’
isso in santa pace e nun ne parlammo cchiù!...
TEODORO. Vabbene, ma questo se po’ fa’ quando nun ce
stanno figli... Caro don Saverio...
SAVERIO. Fino a un certo punto... Il matrimonio... la più
grave sciocchezza che un uomo può commettere... Vuie
pazziate... ho riacquistato la mia pace... Figurateve, ’a
guaglione songo stato sempe dint’ ’a farmacia ’a mano a
papà e sempe appresso a isso: per me non sono mai esistiti
amici, divertimenti eccetera... Non ho messo mai un piede
fuori di quella porta e poi anche volendo... Vuie ve
ricordate a papà negli ultimi tempi... Malato... nun se
puteva cchiù movere... si passò gli ultimi mesi della sua
vita ncopp’ a chella poltrona addò state assettate vuie mo...
e lloco murette... (Teodoro si alza e si siede su altra
sedia). Io facevo tutto... come avrei potuto... e peggio
135
ancora dopo la sua morte che presi addirittura le redini
della farmacia... [...] Feci la bestialità ’e me nzurà,
credendomi che essendo rimasto solo avessi trovata na
femmina che m’avesse fatta una certa compagnia... chi t’a
dà! Chella penzava a teatre, tulette, cappielle... il suo
cozzava con il mio carattere. Primma ’e me spusà non era
accussì... Un bel giorno, la mia signora sparì... Dotto’...
chillu iuorno manco si avesse pigliato na quaterna
secca...19.
Nella commedia successiva, Uomo e galantuomo, del 1922, il secondo
e il terzo atto20 rappresentano l’ipocrita accomodamento del marito
“cornuto” che chiede all’amante della moglie di mostrarsi pazzo per salvare
le apparenze, minacciandolo di morte. Alla fine del terzo atto l’amante sarà
salvato da una corrispondenza equivoca che la moglie porterà al delegato di
polizia, dimostrando che anche il marito la tradiva. Il matrimonio come
facciata funge da spunto per il finale di questa divertente commedia.
La famiglia rimane come contesto nelle opere successive: Requie
all’anema soja... (1926), Ditegli sempre di sì (1927), Filosoficamente
(1928). Ma è importante ricordare il tipo di legame familiare che viene
rappresentato, riassunto nella scena finale di Ditegli sempre di sì: qui
Teresa Lo Giudice, sorella del protagonista Michele, si nega alla proposta
di matrimonio di don Giovanni Altamura perché dovrà dedicarsi al malato
di casa: «Tengo nu sacro dovere da compiere: mio fratello»21. Nota Barsotti
che «la famiglia è ancora un’entità unitaria, la trasgressione di uno dei
membri alla norma del comportamento sociale coinvolge tutti gli altri
19 Eduardo DE FILIPPO, Farmacia di turno, in Cantata dei giorni pari, Torino, Einaudi, 1998, p. 12
20 Il primo atto, quasi a sé stante, è più imperniato sulle vicende di una compagnia di giro, ospiti in
una località di villeggiatura per merito del De Stefano, l’amante.
21 Eduardo DE FILIPPO, Ditegli sempre di sì, in Cantata dei giorni pari cit., p. 178.
136
[...]»22.
Mentre una immagine familiare più dolce è quella paterna data dall’
“artista da strapazzo” SikSik, l’artefice magico23. Da premuroso a
bonariamente ironico all’inizio dell’atto unico quando domanda alla moglie
incinta:
SIKSIK. Comme te siente?
GIORGETTA. ’O solito... e nun fumà...’o ssaie che m’avota ’o
stommaco.
SIKSIK. Famme sentì, si muove? (Le tasta l’addome)
GIORGETTA. No, mo no. Ogge ha fatto un’arte; verse ’e sette
m’ha dato dduie cauce.
SIKSIK. Povero figlio... già fa le mie vendette!24
Molto più tragico il momento in cui, per colpa dei due “assistenti”
mescolati al pubblico, il gioco di prestigio della cassa fallisce. La moglie,
che vi è stata chiusa dentro, sarebbe dovuta uscire manomettendo un
lucchetto fasullo, ma l’assistente Rafele lo ha perduto, e lo ha sostituito con
uno vero:
SIKSIK. Un altro sicondo ancora e la cascia sarà aperta.
Prego maestro. (Altro rullo di tamburo ancora più
22 Anna BARSOTTI, Eduardo drammaturgo cit., p.35.
23 SikSik è un personaggio «costretto alle situazioni più spericolate per procurarsi di che vivere, [...]
pestato e deriso da tutti. Personaggio educato, perciò, all’arte della menzogna per legittima difesa,
abile nel raggiro e libero di fantasia; sprovveduto di voglia di lavorare, parassita e rassegnato per
vocazione, disposto a tutto tranne che alla fatica e alla sincerità; impastato di una sofferenza
agrodolce, amara e succube, ridanciana e disperata. Il personaggio di Eduardo nasce di qui, ed è
ingenuo e scaltro nello stesso tempo, vinto dalla vita e vincitore per quella vocazione di sognatore che
lo porta a salvarsi sempre dalla tragedia». Giorgio PULLINI, Teatro italiano del Novecento, Bologna,
Cappelli, 1971, p. 125.
24 Eduardo DE FILIPPO, SikSik, l’artefice magico, in Cantata dei giorni pari cit., p. 230.
137
prolungato del primo. SikSik conta come ha fato prima,
mentre gocce di sudore freddo cominciano a partire dalla
fronte e discendono giù lentamente per le guance. Ancora
pochi attimi di esitazione. Sorride meccanicamente al
pubblico, s’indugia per lasciare il tempo che egli crede
necessario perché Giorgetta riesca ad aprire il lucchetto,
poi, deciso e sicuro questa volta dell’effetto tira di nuovo
la tenda) Avanti, madamigella. (Ma la cassa è ancora
inesorabilmente chiusa. Che dirà, che farà il pubblico?
Ma il dramma di SikSik è un altro: più vasto, più grande,
più intimo. L’illusionista pensa alla povera moglie
prossima a divenir madre, chiusa là dentro. Ed allora
l’esperimento, il pubblico, il teatro, tutto, scolora nel suo
cuore tormentato)25.
Quando finalmente SikSik riesce ad aprire la cassa, con metodi
disperatamente poco convenzionali (un martello), la didascalia ci dice che
«interroga con lo sguardo la moglie e la sua mano esitante si poggia,
paterna e timorosa, sul grembo di lei»26.
Non solo critica dunque, ma anche descrizione di momenti
fondamentali della natura umana come quelli legati alla paternità.
La successiva commedia, Chi è cchiù felice ’e me!, ci mostra un
bilancio di famiglia che il protagonista, Vincenzo, ha rigidamente stilato –
senza calcolare che questa non è un’isola, e pertanto deve porsi in relazione
con il mondo esterno. Alla fine del primo atto la tranquillità della scena
campestre viene interrotta dalla peripezia: un uomo di città, Riccardo,
inseguito dalla polizia, si nasconde nella sua casa. Successivamente,
scagionato dalle accuse, stringerà amicizia con la famiglia di Vincenzo
intessendo una tresca con Margherita, la moglie. Proprio un attimo prima
25 Ivi, p. 239.
26 Ivi, did., p. 240.
138
dell’entrata di Riccardo, Vincenzo afferma:
VINCENZO. ’O destino ce ’o facimmo cu’ ’e mmane noste...
tu m’ ’e a dicere a mme che me po’ succedere? Niente. Ma
se po’ nega ca io so’ n’ommo felice? [...] Io aggio
preveduto tutto, che me po’ succedere a me? Margarì nuie
avimmo voglia d’essere felice!27
2.2 «Natale in casa Cupiello»
Altra commedia nella quale la vicenda ruota attorno all’istituzione
familiare (e alla sua fragilità) è Natale in casa Cupiello, atto unico del
1931, cui viene aggiunto un antefatto (primo atto) nel 1932 e un seguito
(terzo atto) nel 193428. A raccontarci la sua genesi è Eduardo stesso:
[...] questo mio lavoro è stato la fortuna della Compagnia,
dopo Sik Sik, s’intende. Ebbe la sua prima
rappresentazione al Kursaal di Napoli, ed era un atto
unico. L’anno seguente, al Sannazzaro, altro teatro di
Napoli, scrissi il primo atto, e diventò in due. Immaginate
un autore che scrive prima il secondo atto e, a distanza di
un anno, il primo! Due anni fa venne alla luce il terzo:
parto trigemino con una gravidanza di quattro anni...
Quest’ultimo non ebbi mai il coraggio di recitarlo a
Napoli, perché è pieno di amarezza dolorosa ed è
27 Eduardo DE FILIPPO, Chi è cchiù felice ’e me, in Cantata dei giorni pari cit., p. 268.
28 Secondo Peppino Eduardo regredisce «a favore di un ritorno di vecchi schemi teatrali», nel
momento in cui comincia a « modificare la forma sintetica e la maniera evolutrice altamente
antiretorica di alcune sue commedie in due atti, quali: “Natale in casa Cupiello”, “Chi è cchiù felice ’e
me?” aggiungendo sia all’una che all’altro un terzo atto». Peppino DE FILIPPO, Una famiglia difficile
cit., pp. 288289.
139
particolarmente commovente per me che conobbi quella
famiglia. Non si chiamava Cupiello, ma la conobbi:
povere creature ai cui occhi il sole di Napoli fa risplendere
persino le crude miserie della loro triste vita quotidiana; e
allora, per un bisogno istintivo di liberazione, si urtano, si
feriscono a sangue, giungono fino all’odio, perché il
nostro sole ingigantisce anche la loro puerilità. Ma si
adorano... essi stessi non sanno quanto si adorano...29
La particolarità della commedia sta nel suo doppio registro30: il primo,
quello della farsa, ci mostra lazzi e battute ricorrenti del quotidiano di una
famiglia popolare napoletana; l’altro è quello del dramma popolare a
fosche tinte di stelliana31 memoria. Già dall’elenco dei personaggi si
possono separare quelli che appartengono alla sfera della farsa da quelli che
rientrano nella sfera del dramma. Nei primi (ma con effetti drammatici)
Luca Cupiello32 (il capofamiglia fittizio), Tommasino (il figlio scapestrato),
29 Eduardo DE FILIPPO, Primo... secondo (Aspetto il segnale), in «Il Dramma», Torino, n. 240, 1936.
In una lettera del 22 febbraio 1983 (pubblicata in appendice a Anna Barsotti, Eduardo drammaturgo
cit., p. 511) Eduardo dichiarò ad Anna Barsotti di aver scritto il terzo atto nel 1943. In realtà a
quell’anno risale la prima edizione a stampa, pubblicata sul periodico «Il Dramma» (1 marzo 1943).
Per un ventaglio di ipotesi circa la datazione del terzo atto cfr. Anna Barsotti, Nota storicocritica a
Natale in casa Cupiello, in Cantata dei giorni pari cit., pp. 344347.
30 A proposito della struttura di questa commedia Paolo Grassi la definì un «potente squillo di
tromba, in un paese di coscienze addormentate e di ricorrenti banalità sulla scena». Paolo GRASSI,
Filumena Marturano, «Avanti», 15 aprile 1947.
31 Federico Stella (18421927) dal 1980 aveva portato con successo al Teatro San Ferdinando i suoi
lavori popolari all’insegna di sangue, onore e lacrime, tratti dai racconti di Francesco Mastriani.
32 Luca Cupiello, uno dei più discussi protagonisti eduardiani, è stato così definito da Luigi Ferrante:
«un personaggio penetrato da una umanità figlia del candore [...]. Ma è altro candore diverso anche
dal “fanciullino” pascoliano sebbene ne condivida le premesse poetiche. Nel Pascoli è un modo di
vivere e di vedere scoprendo nuove relazioni tra le persone e gli oggetti, analogie e simboli, una bontà
disarmata che disarma. Luca Cupiello ha l’animo di “un grande bambino che considerava il mondo
come un enorme giocattolo”, in questa disposizione, candida, sa accogliere le verità del cuore,
accenderle con la fantasia, luce infantile e dolce». Luigi FERRANTE, Teatro italiano grottesco, Bologna,
Cappelli, 1964, p. 58.
140
Pasqualino (fratello di Luca e «eterno scontento» che vive presso il
fratello), i casigliani Olga e Luigi Pastorelli, Alberto, Rita e Maria (vicini di
casa che secondo la tradizione veglieranno il moribondo nel terzo atto). Nel
secondo registro si inscrivono Concetta (il capofamiglia effettivo),
Ninuccia, Nicola e Vittorio Elia (il fulcro del dramma), il portiere Raffaele
(personaggio d’appoggio per Concetta), il dottore, Carmela e Armida
(casigliane “serie”). È pacifico che non manchino incursioni dei personaggi
nell’una e nell’altra sfera, indorando la pillola di una critica familiare forse
ancora agli albori, ma presente.
La scena si svolge in casa Cupiello. Il primo atto, ambientato durante
l’antivigilia di Natale, comincia subito all’insegna della farsa con dialoghi e
screzi fra la moglie e il marito al risveglio, seguiti da quello lento di
Tommasino, protetto di Concetta33. Mentre si compiono gli ultimi
preparativi (fondamentalmente il presepe, maggiore preoccupazione di
Luca34), la figlia, sposata a Nicola, decide una fuga d’amore con Vittorio
Elia. La farsa prosegue anche dopo l’arrivo di questa:
LUCA. Ch’è stato? (Ninuccia tace). Te si’ appiccicata n’ata
vota co’ tuo marito? (Ninuccia non risponde). Io non
capisco… Quello è un uomo che ti adora. [...] Perché vi
siete contrastati? (Ninuccia rimane ostinatamente muta).
Perché vi siete contrastati? (visto che la figlia non
risponde, tenta di usare un tono più forte e risentito nel
ripetere la domanda ma la domanda ottiene lo stesso
33 Concetta parlando a Raffaele di Tommasino lo giustificherà dicendo: «Se capisce, è giuvinotto, fa
qualche pazzaria, ma è l’età: tutto è perdonabile. Don Rafe’ ’o guaio ’e chesta casa è mio marito».
(Eduardo DE FILIPPO, Natale in casa Cupiello cit., p. 382).
34 Secondo Anna Barsotti il presepe sarebbe simbolo di una chiusura che ripiega su se stessa. «il
protagonista resta chiuso nel suo mondo, nella sua a volte patetica, a volte grottesca, alla fine lirico
simbolica, monomania per “ ’o presebbio ”». Anna BARSOTTI, La drammaturgia di Eduardo De
Filippo cit., p. 52.
141
risultato per cui Luca rivolgendosi a sua moglie e
indicando la figlia, sentenzia convinto) Questo è un altro
capolavoro tuo, il più riuscito!35
Luca sconsolato esce dalla stanza. Il registro muta improvvisamente,
l’umorismo si eclissa dietro al dramma: la madre cerca di riportarla sulla
“retta via” e in uno scatto di nervi la figlia distrugge il presepe. Luca torna
in scena e, resosi conto dell’accaduto, accusa Concetta, come sempre, della
condotta della figlia.
CONCETTA. È stata figlieta, ’a vi’? Pigliatella cu’ essa.
LUCA. Cu’ essa? Me l’aggia piglià cu’ donna Cuncetta!
Cunce’, te l’ho detto sempre: tu sei la mia nemica! Ecco
l’educazione che hai dato ai tuoi figli, e questi sono i frutti
che raccogli! (Ora sbraita senza riserve) Ma io me ne
vado! Vi lascio tutti quanti, vi saluto! Vado sopra una
montagna a fare il romito!36
La battuta non è priva di un certo umorismo amaro. Concetta, avvilita,
cerca di reagire, ma i sensi le vengono meno e si accascia ai piedi del letto.
Dopo poco si riprende e Luca, spaventato, la rassicura spostando la sua
35 Eduardo DE FILIPPO, Natale in casa Cupiello cit., p. 371. Vi è un interessante analogia tra Luca
Cupiello e Luca De Filippo, il nonno di Eduardo. Peppino lo descrive così: «Su don Luca non si
poteva fare nessun affidamento serio. Era a sua madre che [Rosina, sorella di Luisa De Filippo]
confidava sempre i suoi piccoli e grossi dolori[...]. Spesso mio nonno le sorprendeva a parlare
sottovoce, quasi mormorando e s’arrabbiava se nel chiedere loro il perché di quelle segretezze si
sentiva rispondere: “...è niente... niente!” “Comme? – replicava lui – vuje chiacchierate sottovoce e
nun pozzo sapè che ve dicite?” “...niente – rispondeva ancora mia nonna o Rosina – è niente...!” Di
qui, spesso, liti furibonde! Don Luca considerava “complotto” quel parlottare sottovoce: un
complotto contro la sua rispettabile persona: un affronto a lui, uomo di casa: il “pater familias”! Ma
che uomo di casa? [...] Era abile solamente nel portare con sé confusione e disordine». Peppino DE
FILIPPO, Una famiglia difficile cit., pp. 114115.
36 Eduardo DE FILIPPO, Natale in casa Cupiello cit., p. 373.
142
amarezza sui figli:
LUCA. Tu nun m’he ’a fa’ mettere appaura a me...
(Commosso) He ’a vedé che paura me so’ miso! Conce’,
ccà simme rimaste io e te solamente... ’E figlie nun ’e dda’
retta, tanto se sape ’a riuscita che fanno. Cunce’,
penzammo a nuie. (Con sincera amarezza) Hai voglia ’e te
sacrificà pe’ lloro... È comme si nunn ’e facisse niente...
Cunce’, si tu muore, moro pur’io! (Un nodo di pianto gli
stringe la gola; si toglie gli occhiali e si asciuga una
lacrima)37.
Suona il campanello e per andare ad aprire Luca lascia nuovamente le
due donne sole, che riprendono il dramma da dove era stato interrotto.
Concetta convince la figlia a desistere dai suoi propositi; all’arrivo di
Nicola e i due si riappacificano. Il primo atto si conclude come era iniziato,
sotto il registro farsesco, mentre Luca, all’oscuro di tutto38, trova per terra
la lettera indirizzata a Nicola e gliela consegna.
Il secondo atto invece si apre con aria grave sulle confidenze di donna
Concetta al portiere:
CONCETTA. Don Rafe’, mi credete, mi è venuto lo
sconfido...
RAFFAELE. Ma c’ ’o dicita a fa’... io saccio tutte cose...
CONCETTA. C’avit’ ’a sapé … che avit’ ’a sapé ….. Io sono
una povera martire. ’O cielo m’ha voluto castigà cu’ nu
marito ca nun ha saputo e nun ha voluto fa’ maie niente. In
37 Ivi, p. 375.
38 «Da una fondamentale inadeguatezza del protagonista nei confronti delle situazioni nasce la
comicità, o piuttosto l’umorismo» (Paola QUARENGHI, Dal pari al dispari cit., p. 37). Più che
inadeguato Luca è «l’inetto a vivere» secondo Barsotti (Anna BARSOTTI, La drammaturgia di Eduardo
De Filippo cit., p. 49).
143
venticinque anni di matrimonio m’ha consumata, m’ha
ridotto nu straccio. [...] E se non era pe’ me, chissà quanta
vote sta casa sarebbe andata sotto sopra.
RAFFAELE. Io e mia moglie lo diciamo sempre: vuie avivev’
’a nascere c’ ’o cazone!
CONCETTA. Adesso avete detto una cosa santa39.
Subito la tensione scompare con l’apparire di uno dei personaggi
comici, Pasqualino, che lamenta il furto di “una cinque lire” da parte di
Tommasino. Quest’ultimo entra in casa con un amico, Vittorio Elia, lo
stesso che sogna la fuga d’amore con Ninuccia. Ma il dramma non emerge
finché i personaggi della farsa non sono usciti di scena: in un breve giro di
battute Vittorio chiede comprensione a Concetta che lo invita a lasciare la
casa, raccontando (a lui e al pubblico) con quanta fatica sia riuscita a
riappacificare la figlia col genero dopo la consegna della lettera. Proprio
mentre l’ospite sta per uscire Luca rientra, e con lui l’umorismo.
L’atmosfera rimane quella farsesca fino all’arrivo di Ninuccia e Nicola,
precisamente fino al momento in cui a quest’ultimo viene presentato
Vittorio Elia.
LUCA. Mo te lo faccio conoscere... (Lo sgomento delle
donne è evidente). Don Vitto’, vi voglio rappresentare
mio genero. (Vittorio avanza, a occhi bassi). Niculi’, ti
presento Vittorio Elia, fa Natale con noi. (Indicando suo
genero) Nicolino Percuoco, fabbricante di bottoni. Tiene
centinaia di operai che dipendono da lui. Tiene i pensieri.
(Nicolino vedendo Elia resta pietrificato. Gli si legge sul
volto la piena di sdegno che vorrebbe traboccare...
Vittorio accenna un lieve saluto col capo. Luca e
Pasquale si guardano sorpresi di quella freddezza.
39 Eduardo DE FILIPPO, Natale in casa Cupiello cit., p. 381.
144
Concetta, con la morte nel cuore, aggiusta qualcosa sulla
credenza, per darsi un contegno e parla sottovoce con
Tommasino. Luca, disorientato chiede al fratello) Ma che
è stato?
Pasquale si stringe nelle spalle.
NICOLINO (trae in disparte Ninuccia, annichilita e
sprofondata nel suo dramma, e le chiede con rabbia
repressa). Nun ne sapive niente, tu? (E attanaglia in una
stretta potente la piccola mano di Ninuccia nella sua
gelida e tremante).
NINUCCIA (non resiste alla stretta ed emette un grido
acuto). Aaaaaaah! (Libera la mano e massaggiandola con
l’altra dice a denti stretti) E statte fermo, ca me faie
male!40
Dopo questa breve parentesi riconquistano la posizione i personaggi
comici che, cercando un dialogo con quelli drammatici, presi da tutt’altro,
creano gaffes e esilaranti equivoci (Luca mostrando a Nicolino il manico
dell’ombrello: «è materia tua, tu te ne intendi: è corno vero»41). Rimasti soli
Vittorio e Ninuccia si baciano, ma Nicolino entra con orgasmo, assesta uno
schiaffo a Vittorio, e all’acme del dramma popolare esclama: «Tu si’
n’ommo ’e niente!»42 I due scendono in strada per battersi, Ninuccia li
segue per intervenire e Concetta rimane affranta senza riuscire a profferire
parola. All’improvviso, la farsa: Luca, Pasqualino e Tommasino, travestiti
da re magi, entrano in scena recando i doni per Concetta e intonando «Tu
40 Ivi, p. 392.
41 Ivi, p. 397.
42 Ivi, p. 399.
145
scendi dalle stelle, Concetta bella, e io t’aggio purtata quest’ombrella»43, in
grottesca antitesi con la tragedia che si sta consumando fuori scena.
Nel terzo atto l’umorismo è più sottile, quasi rispettoso del dolore che si
vive in quei giorni in casa Cupiello44. Sono passati tre giorni: dopo la
catastrofe del secondo atto Luca, investito da quella realtà che la moglie,
ritenendolo incapace, gli aveva sempre tenuta nascosta, non regge: «la
realtà dei fatti ha piegato come un giunco il provato fisico dell’uomo che
per anni ha vissuto nell’ingenuo candore della sua ignoranza»45. Nella
camera da letto i casigliani vegliano il malato che, quasi privo di sensi,
continua a chiedere di Nicola. Qualche breve sketch, poi una battuta di
Concetta alla figlia che piomba la scena in un’atmosfera ancora più cupa.
CONCETTA (a Ninuccia, in tono di rimprovero). Mo si’
cuntenta, mo... a chisto posto ccà t’ ’o dicette: «Giurame
ca faie pace con tuo marito e fernesce tutte cose»... He
visto ch’he fatto succedere?46
Dopo la visita del medico, che annuncia a Pasqualino l’inevitabile (con
43 Ivi, p. 400.
44 Meldolesi chiama in causa Pirandello «a proposito dello sperimentalismo di quel terzo atto.
Eduardo, nell’occasione, sperimentò una durata tutta per linee interne, senza colpi di scena, che
nasceva dallo stesso tema del caffè del primo atto. Era questa la principale novità. Come tutti gli
attoriautori, egli si era abituato a diagrammi drammaturgici stretti, puntellati da oggetti di sicuro
richiamo. Invece, nel terzo atto di Natale in casa Cupiello, la drammaturgia degli effetti lasciava il
campo a una drammaturgia dilatata dall’intimità del personaggio, all’interno della quale l’effetto,
anche l’effetto comico, si faceva segno leggero di tragedia». Claudio MELDOLESI, La trinità di
Eduardo: scrittura d’attore, mondo dialettale e teatro nazionale, in Fra Totò e Gadda. Sei invenzioni
sprecate dal teatro italiano, Roma, Bulzoni, 1987, p. 60.
45 Eduardo DE FILIPPO, Natale in casa Cupiello cit., did., p. 401. Franca Angelini sostiene che Luca
«reagisce con la malattia, l’immobilità, il silenzio, l’involontaria ricerca dell’assenza e della morte al
crollo del suo mito familiare». Franca Angelini, Il teatro del Novecento, RomaBari, Laterza, 1976, p.
139.
46 Eduardo DE FILIPPO, Natale in casa Cupiello cit., p. 404.
146
un invito, «date curaggio ’e femmene», che ha del paradossale), Vittorio
Elia si presenta in casa Cupiello, cercando il perdono di donna Concetta;
ma Luca nel suo delirio lo scambia per Nicolino47 e unisce al capezzale la
sua mano con quella di Ninuccia chiedendogli:
LUCA. [...] Fate pace in presenza mia, e giurate che non vi
lasciate più. (E visto che i due non parlano, insiste)
Giurate, giurate!48
In quel mentre arriva Nicola che assistendo alla scena, «ha come una
furia di sangue al cervello»49 ed esce di scena trascinato via dai casigliani.
In chiusura, dopo aver ottenuto dal figlio l’agognato “sì” alla domanda
«te piace ’o Presebbio?»
Luca disperde lo sguardo lontano, come per inseguire una
visione incantevole: un Presepe grande come il mondo,
sul quale scorge il brulichio festoso di uomini veri, ma
piccoli piccoli, che si dànno un da fare incredibile per
giungere in fretta alla capanna, dove un vero asinello e
47 Dopo la consegna della lettera a Nicola nel primo atto e l’invito a cena di Vittorio nel secondo atto,
Luca, nonostante la buonafede, ancora una volta si mostra come «involontario creatore di odi e non di
amore». Giovanni ANTONUCCI, Introduzione a Eduardo De Filippo, introduzione e guida allo studio
dell’opera eduardiana, Firenze, Le Monnier, 1990,, p. 56.
48 Eduardo DE FILIPPO, Natale in casa Cupiello cit., p. 411. Secondo Quarenghi «[...] questo nuovo
finale [col terzo atto], con un moribondo che si fa giurare eterna fedeltà da due amanti, risulta
piuttosto difficile da accettare per una società perbenista che pone tra i suoi fondamenti il culto della
famiglia (e in questo senso si possono individuare nella commedia le tracce di una battaglia verso un
nuovo modello di famiglia che Eduardo porterà avanti, forse più consapevolmente, anche in opere
successive)» (Paola QUARENGHI, Dal pari al dispari cit., p. 43). Inoltre la stessa struttura della
commedia portava allo spettatore una «specie di doccia scozzese [...] propinata dopo due atti
estremamente comici» (Titina DE FILIPPO in Augusto CARLONI, Titina De Filippo: vita di una donna di
teatro, Milano, Rusconi, 1984, p. 46).
49 Eduardo DE FILIPPO, Natale in casa Cupiello cit., did., p. 414.
147
una vera mucca, piccoli anch’essi come gli uomini, stanno
riscaldando con i loro fiati un Gesù Bambino grande
grande che palpita e piange, come piangerebbe un
qualunque neonato piccolo piccolo... 50
2.3 «Gennareniello»
Ambientato in una terrazza, Gennareniello è una panoramica su una
giornata di una famiglia popolare napoletana. La storia, racchiusa in un atto
unico, è semplice: Gennaro e Concetta vivono col figlio Tommasino, la
sorella di lui, Fedora, e un inquilino insolvente, Matteo. Su questo
«angusto terrazzino tra i tetti»51 Concetta stende il bucato, in mezzo ai
balconi del vicinato, fra i quali vi è quello della bella e discussa vicina
Anna Maria. Gennaro scrive poesie e crea invenzioni; le prime sono per la
bella vicina, che si diverte a provocarlo. Michele, giovane ingegnere
invitato da Gennaro per mostrargli l’ultima invenzione, pare più interessato
a Anna Maria che al brevetto. Il climax della commedia si raggiunge
quando la vicina chiede un bacio a Gennaro, che si arrampica su una sedia
per riuscire a darglielo. Sorpreso dalla moglie, viene amaramente ripreso.
Scoppia la lite, Gennaro minaccia di lasciare la casa, mentre Michele e
Matteo cercano di trattenerlo, invitando i coniugi alla riappacificazione. A
un tratto il pittore e l’ingegnere, che hanno riso finora dello scherzo,
passano allo scherno. È il momento della iacuvella52: i due prendono i
panni del bucato e li appoggiano su don Gennaro, deridendolo ferocemente.
50 Ivi, p. 415. Ci sembra di vedere in questo “passaggio di consegne” una metafora di quel
generazionale “slittamento” di ruoli.
51 Eduardo DE FILIPPO, Gennareniello, in Cantata dei giorni pari cit., p. 427.
52 Con il termine “iacuvella” si indica nel dialetto napoletano un «fatto serio trasformato in cosa
ridicola da persona poco seria». Ivi, p. 776.
148
MICHELE. Mo, ’a sera, a Gennareniello lo vedremo spesso
al Trocadero... Però dovete essere più elegante... Ce vo’ nu
fiore mpietto... camicie di seta...
MATTEO. ’E capille se l’ha da tignere... Na bella scatola ’e
cromatina nera...
MICHELE. Mettiteve accussì... (Lo aggiusta con un
bastoncino e un cappello vecchio […] ed un paio di
calzini spaiati in mano come guanti).
MATTEO. Donna Cunce’, ccà sta Gennareniello...53
A questo punto Concetta si ribella, decide di rimettere “al posto loro” i
due rivendicando il possesso e in tal modo salvando la dignità del marito:
CONCETTA. Ma vuie a chi credite ’e sfruculià...? Ma ’o
sapite ca io femmena e bona tengo ’o core ’e ve piglià a
pacchere a tutte dduie... Maritemo è n’ommo serio...
Maritemo è d’ ’o mio e ghiatevenne!54
La commedia si chiude nel lieto fine con Gennaro che si avvicina
esitante alla moglie cantando «Nun me dicite no... uocchie che ragiunate...
senza parlà... senza parlà...» e lei commossa, lo guarda. «La poesia si può
salvare anche nella mediocrità quotidiana»55, e soprattutto nella
quotidianità familiare.
Come ha notato Barsotti, questo atto unico «è senza dubbio fra i più
interessanti, anche per il rapporto gemellare che lo lega al Natale»56 (la
53 Ivi, p. 441.
54 Ibidem. Il corsivo è nostro.
55 Anna BARSOTTI, Nota storicocritica introduttiva a “Gennareniello”, in Cantata dei giorni pari cit.,
p. 418.
56 Ivi, p. 415.
149
commedia è stata scritta nel 1932 in concomitanza col secondo atto della
commedia dei Cupiello). Infatti anche i personaggi si corrispondono: Luca
e Concetta, per età e per carattere, si riconoscono nella coppia di Gennaro e
Concetta; Tommasino rimane se stesso anche nel nome, sempre “grande
bambino cresciuto”, stavolta caratterizzato ulteriormente da una
pulcinellesca fame atavica; Ninuccia, l’innesco drammatico nel Natale, la
ritroviamo in Anna Maria, bella vicina di casa; al posto di zio Pasquale
abbiamo qui zia Fedora, sempre in contrapposizione col nipote. Anche in
Matteo e Michele si possono affiancare, rispettivamente, Nicolino e
Vittorio Elia. Entrambi sono abbagliati dalla stessa Anna Maria, ma sarà
MicheleVittorio che con la sua entrata nell’ambiente familiare (in
entrambe le commedie questo personaggio viene da “fuori”) determina la
“catastrofe”.
Una interessante chiave di lettura di questa commedia familiare è quella
di Barsotti: «Gennaro non si rassegna a sentirsi “un uomo finito”; più che
mostrare il ridicolo d’un innamoramento fuori stagione, il suo personaggio
esprime il piccolo dramma – quasi cecoviano – di uno coi capelli grigi, che
sente all’improvviso ritornare l’illusione della giovinezza»57.
2.4 «Uno coi capelli bianchi»
Seguendo la linea del “famigliarismo” arriviamo a Uno coi capelli
bianchi58, commedia in tre atti del 1935. La vicenda si svolge intorno alla
57 Ivi, p. 417.
58 Fiorenza Di Franco istituisce un parallelo fra questa commedia e Mia famiglia, nella quale «a
distanza di vent’anni, si ritrova una tematica simile a quella sviluppata in Uno coi capelli bianchi: il
rapporto fra i giovani e gli adulti, la fede del capofamiglia nella propria presunta superiorità e
infallibilità». Fiorenza DI FRANCO, Il teatro di Eduardo, Bari, Laterza, 1975, p. 167 .
150
famiglia di Giambattista Grossi. Il vecchio capofamiglia vive nella
«ricchezza sfrontata degli industriali arricchiti»59, con sua moglie Teresa.
Sua figlia Giuseppina ha sposato Giuliano, giovane socio di Battista, il
quale è deciso a non lasciargli troppo potere decisionale («io so’ vivo
ancora, eh! Non credere che dopo tanti anni che ho buttato il sangue, mi si
debba mettere in disparte! Che figura farei?»60).
L’innesto drammatico di tutta la vicenda è dato dal fastidioso modo in
cui Giambattista rinfaccia la sua vecchiaia per castrare il genero:
BATTISTA. Giulia’, io devo salvaguardare la mia serietà di
uomo che sta vicino alla sessantina! Quando ci arriverai
pure tu, capirai come e perché si deve camminare sul
taglio di un coltello. Io, grazie a Dio, non mi son trovato
mai in mezzo a guai perché, più giovane, lavoravo
all’oscuro, accanto alla buon’anima di mio padre che,
povero vecchio, s’era mezzo rimbambito; e dovevo dargli
l’illusione che facesse tutto lui, che tutto dipendesse da lui.
Mo, cu’ na fabbrica ncopp’ ’e spalle, aggi’ ’a menà a te
nnanze, perché sei giovane, sei il marito di mia figlia, e
t’aggi’ ’a fa’ fa’ strada... Ho l’esperienza... n’aggio visto
che n’aggio visto...61
Giuliano è il genero di Giambattista, ma la contrapposizione
rappresentata è quella eterna tra padri e figli. Quella per cui i primi hanno
sempre della aspettative nei confronti dei secondi, pensando che la
formazione dovrebbe essere la stessa che hanno avuto loro da giovani:
BATTISTA. Come siete giovane! Beato voi! Avvoca’, che
59 Eduardo DE FILIPPO, Uno coi capelli bianchi, in Cantata dei giorni pari cit., did., p. 472.
60 Ivi, p. 476.
61 Ivi, p. 475. Corsivo nostro.
151
bella cosa ’a gioventù! Specie per lui che, con la morte
della buonanima del padre, si è trovato socio mio senza
sapé nemmeno come!... senza quel tirocinio che ti
avvelena tutta un’adolescenza... E bravo ’o piccerillo! E
bravo il mio socio!62
Nel secondo atto emerge particolarmente viscida la figura del suocero63,
che loda il genero per magnificare se stesso. Il giovane Giuliano mostra
segni di insofferenza e si sfoga con l’industriale Lorenzo, quando questi,
parlando di Battista, gli dice:
LORENZO. Io non lo conoscevo personalmente, ma vi
garantisco che sono rimasto veramente colpito dal modo
come tratta gli affari, dalla sua serietà, e soprattutto dalla
sua modestia. Parlammo a lungo pure di voi, e vi vuole
molto bene. Quando io gli feci i complimenti, non solo per
l’idea felice della nostra fusione, ma anche per il modo
come sono state condotte a termine le trattative, lui disse
testualmente: «No, no, il merito a chi spetta... Tutto si
deve a mio genero; io non ho fatto altro che seguirlo...» È
meritevole di ammirazione, questo, perché si nota il
proposito di spingere avanti i giovani. Lui, magari, lancia
l’idea, dà il consiglio, e poi si ritira tranquillo in disparte...
Questo è bello... È ammirevole veramente.
62 Ivi, p. 477.
63 Il personaggio suoceropadre è amplificato nei suoi difetti quasi con accanimento. Sostiene
Frascani: «Questa commedia sembra scritta per fatto personale, centrata com’è su di un protagonista
la cui odiosità dà l’impressione di essere stata ricavata mediante la meticolosa osservazione di un
modello vivente. Anche un risentimento, un’antipatia, il ricordo di un torto subìto, possono mettere in
moto la penna di uno scrittore di teatro. Tra i tanti personaggi la cui paternità spetta ad Eduardo De
Filippo ve ne sono alcuni che sembrano il pagamento di un conto che l’autore non ha saputo lasciare
in sospeso. Il Battista di Uno coi capelli bianchi deve appunto essere arrivato sulla scena per questa
via». Federico FRASCANI, Napoli amara di Eduardo De Filippo, Firenze, Parenti, 1958, p. 41.
152
GIULIANO. Già. L’unico mezzo per farsi credere innocente o
per lo meno creare il dubbio, è quello di dichiarare
apertamente: «Io sono il colpevole!» Caro Commendatore,
sarebbe ora di finirla col fatto dei giovani e dei vecchi. A
parte il fatto che qualunque cosa fai: «Sì, è grazioso; ma io
tengo un’altra esperienza... Nella mia vita ho visto ben
altro...» E vuie agliuttite, agliuttite... a parte questo, ci
sono dei casi singolari. Ce sta ’o viecchio ca nun è
viecchio e nun è giovane, che al suo attivo tiene solamente
gli anni... E come se li fa valere! Con l’esasperarti,
sapendo che ti esaspera; col deridere la tua giovinezza,
avendo l’aria di fartene una colpa; e te stuzzica, te pogne;
e tu zitto, perché lo devi considerare: è viecchio! Tene ’e
capelli bianchi; è un trucco, credete a me. A questo tizio,
l’ha truccato il Padreterno!64
Nel terzo atto Battista, inopportuno, rivela alla figlia una confidenza
fattagli dal genero, che durante una serata con amico si è trovato a ballare
con una tedesca ubriaca. Giuseppina reagisce dando sfogo a un malessere
troppo a lungo serbato: quello di una moglie trascurata e annoiata:
GIUSEPPINA. [...] Il lavoratore!.. L’uomo che lotta per
affari... che torna a casa stanco... che nun se fida manco ’e
parlà... E io? Io!... Io nun faccio niente!... Non è più dura
la condanna mia? Quante volte ce l’aggio ditto: «Famme
fa qualche cosa... Un lavoro qualunque!» Perché la mia
vita è vuota, vuota! Vuota pecchè tengo nu marito
lavoratore!... E sì, va bene... Ma questio marito, poi un’ora
di libertà che tene, invece di dedicarla alla moglie, che
passa la vita aspettando, se ne va al Circolo, a ballà...65
64 Eduardo DE FILIPPO, Uno coi capelli bianchi cit., pp. 487488.
65 Ivi, p. 503.
153
Il finale della commedia, amarissimo, mostra Giuliano esasperato
riversare sul suocero tutto quello che questi ha provocato con la sua serietà
mancata e pretesa solo per l’esperienza dei suoi «capelli bianchi»; Giuliano
all’apice della rabbia inveisce contro Battista schiaffeggiandolo:
GIULIANO. Carogna! M’ha distrutto una casa, m’ha distrutto
una vita!
[...]
BATTISTA (alla vista degli astanti riprende coraggio e
senza alzarsi da terra naturalmente per destare maggiore
pietà urla con odio). Fuori di casa mia! Fuori! Vigliacco!
Mi ha schiaffeggiato! Che bell’eroismo! (Ora il suo tono è
pietoso) [...] Mi ha messo le mani addosso! A me! (Prende
una ciocca dei suoi capelli bianchi, come per mostrarli) A
me!66
66 Ivi, p. 508.
154
II.3 La famiglia ne La cantata dei giorni dispari
Questa stagione Barsotti la descrive
scandita storicamente dal passaggio attraverso il boom
economico, l’egemonia culturale americana, la
contestazione e il crollo dei pregiudizi e degli antichi
valori famigliari e sociali, fino alla crisi stessa di quel
sistema così come si era provvisoriamente costituito. I due
filoni in cui si articola e si alterna questa fase sono quello
della trasformazione traumatica della famiglia (da Mia
famiglia del ’54 a Sabato, domenica e lunedì del ’59), e
quello della necessità e problematicità di un impegno
civile (da De Pretore Vincenzo del ’57 a Il sindaco del
Rione Sanità del ’60). Opera riassuntiva dei due filoni
avrebbe dovuto essere l’ultima: Gli esami non finiscono
mai del ’7367.
3.1 «Napoli milionaria!»
In Napoli milionaria! la figura della famiglia assurge a simbolo di una
società. Il luogo scenico è un “basso” («enorme “stanzone” lercio e
affumicato»68 che da’ sulla strada) nel cui spazio angusto si muovono i
personaggi della commedia.
Il primo atto si apre sul risveglio della famiglia di Gennaro Jovine,
tranviere disoccupato, composta da Amalia sua moglie e i figli Maria
Rosaria e Amedeo. La scena si svolge sul finire del 1942, secondo anno di
67 Anna BARSOTTI, La drammaturgia di Eduardo De Filippo cit., p. 49.
68 Eduardo DE FILIPPO, Napoli milionaria!, ne La cantata dei giorni dispari, vol. I, Torino, Einaudi,
1998, did., p. 17.
155
guerra. Per portare avanti la famiglia Amalia si dedica al mercato nero;
inoltre il suo basso è un punto di ritrovo per la gente del quartiere che, tra
un bombardamento e l’altro, vi si ferma per comprare una tazza di caffè, in
quei giorni introvabile. Amalia è
una donna sui trentotto anni, ancora piacente. Il suo
modo di parlare, il suo tono e i suoi gesti dànno subito
l’impressione di un carattere deciso, di chi è abituato al
comando. [...] Ha degli occhi irrequieti: tutto vedono e
tutto osservano. Riesce sempre a formarsi una coscienza
delle proprie azioni, anche quando non sono del tutto
rette. Avida negli affari, dura di cuore; talvolta maschera
il suo risentimento per una qualche contrarietà con parole
melate, lasciando però indovinare il suo pensiero
dall’ironia dello sguardo69.
Gennaro è preoccupato per l’attività della moglie, ma non può che
cedere innanzi alla situazione: «Se colla tessera nun se po’ campà, allora si
deve ricorrere alla borsa nera.. Si deve vivere col pericolo che ti arrestano,
che vai carcerato... (Non sa più dove parare con le sue argomentazioni;
cedendo ad una ineluttabilità, dichiara con un tono umano, comprensivo)
Ama’, stàmmece attiente...»70.
Nel secondo atto sono passati alcuni mesi, lo sbarco alleato è avvenuto.
Gennaro, lo apprendiamo, è stato fatto prigioniero dai tedeschi e non se ne
è più saputo niente. Amalia intanto si è arricchita col mercato nero e ha
messo su un’attività di commercio con Errico Settebellizze, giovane scaltro
del rione. Fra i due esiste una tensione equivoca:
69 Ivi, did., pp. 2122.
70 Ivi, p. 35.
156
AMALIA: Voi sapete se io vi stimo e si ci ho o no ci ho una
simpatia per voi... Anzi sento un trasporto così reciproco
che alle volte mi sento a voi vicino che mi guardate con gli
occhi talmente assanguati, ca me pigliassi a schiaffi io
stessa, talmente ca desiderasse che la fantasia fosse lealdà
(Errico abbassa gli occhi triste. Amalia incalza) La
società che ci abbiamo... io accattanno e vennenno e vuie
cu’ ’e camionne... ci ha fatto guadambiare bene... e
ringraziammo Dio... (Conseguenziale) Perché dobbiamo
commettere il malamente? Io tengo na figlia grossa... E
Gennarino?
ERRICO (scettico). Ma don Gennaro, oramaie, è più ’e
n’anno ca nun avite nutizie... [...] Pe’ me, dico ca don
Gennaro è muorto!71
Anche per gli altri le cose sono cambiate. Il figlio Amedeo ha lasciato
la società del gas dove lavorava e ora frequenta Peppe «’o Cricco», il quale
ruba le ruote delle automobili per poi rivenderle. La piccola Rituccia – che
anche per questo atto e per il seguente non entrerà in scena72 – si ammala.
La figlia Maria Rosaria rimane incinta di un soldato americano che, dopo
averle promesso di portarla con se in America, è scomparso. Nel
confessarlo a Amalia accuserà lei dell’accaduto, colpevole di non aver
saputo fare la madre:
MARIA ROSARIA. E io nun ce avevo miso sulo ’o pensiero...
Ma ’o core, ce avevo miso... E vuie putìveve tene’ nu poco
cchiù ll’uocchie apierte ncuollo a me! E mo è inutile ca
71 Ivi, pp. 6162.
72 La figura della figlia minore emerge da «una “camera di là”, “in prima quinta a sinistra”, appunto,
[che] proietta in scena tutta la carica simbolica di Rituccia, personaggio assente, e della sua malattia,
che è la malattia del vicolo che trapela dal fondo, e la malattia di Napoli». Antonella OTTAI, Le due
scritture: il tondo e il corsivo nelle commedie di Eduardo, in L’arte della commedia cit., p. 90.
157
alluccate, pecché nun c’è cchiu rimedio...[...] L’avìvev’ ’a
vede’ primma! E quann’io ’a sera ascevo cu ’e cumpagne
meie, invece ’e ve fa piacere, accussì putiveve fa’ ’o
còmmedo vuosto, v’avìvev’ ’a sta attienta... Invece ’e
penza’ agli affari, a ’e denare... penzàveve a me! [...] Ma
pecché teniveve ’o tiempo ’e penza’ a me? E a
Settebellizze chi ce penzava? Io?
AMALIA (riesce a stento a frenare il suo furore) Uh,
guardate?... E io mo t’ ’o spiego n’ata vota... Settebellizze
e io teniamo una società di accattare e vénnere... E so’
affare ca nun te riguardano! (D’improvviso diventando
aggressiva) E me l’aggi’ ’a vede’ io, he’ capito? Ma tu,
parla... Fatte asci’ ’o spireto. (Va in fondo e chiude i
battenti della porta) Quanno... Addo’?
MARIA ROSARIA (trattando la madre da pari a pari e
guardandola negli occhi le grida). Ccà... ’O facevo trasi’
ccà... Quanno vuie, ’a sera, ve ìveve a fa’ ’e passiate e ’e
cenette cu Settebellizze...
AMALIA (sbarrando gli occhi). Ccà? Dint’ ’a casa mia?
Schifosa! E nun te miette scuorno e’ m’ ’o ddicere
nfaccia? E parle ’e me? Tu nun si degna manco ’e
m’annummena’! Ma io te scarpéso sott’ ’e piedemieie...
Te faccio addeventa’ na pizza...
MARIA ROSARIA (non disarma). E chiammate pure a
Settebellizze... Dicitincelle ca me venesse a vàttere pur’
isso... Tanto, vuie chistu deritto ce l’avite già dato...
AMALIA (controlla a stento il tono della sua voce perché il
fatto non dilaghi nel vicolo). Malafemmena! Si’ na
malafemmena!
MARIA ROSARIA (puntando l’indice verso la madre). Chello
ca site vuie...
AMALIA (fuori di sé). T’accido, he’ capito?73
73 Eduardo DE FILIPPO, Napoli milionaria! cit., pp. 6465.
158
D’un tratto un mormorio di voci nel vicolo preannuncia il ritorno di
Gennaro. Rientrato in casa, non riconosce la moglie, bellissima e ben
vestita. Si trova stranito quando vede che tutti attorno a lui ridono
spensierati festeggiando il compleanno di Settebellizze. Nessuno vuole
ascoltare quello che gli è capitato ed egli, in mezzo agli schiamazzi gioiosi
dei commensali, si ritira con Maria Rosaria a vegliare Rituccia.
Nel terzo atto le condizioni della piccola peggiorano; il medico
chiederà una medicina introvabile grazie a quelle logiche di mercato nero
tante volte dalla stessa Amalia adottate. Trovato il rimedio, il medico non
potrà che osservare: «Mo ha da passà ’a nuttata. Deve superare la crisi»74.
La stessa crisi e la stessa nottata dovranno essere superate anche dai
familiari di Gennaro, metonimia dell’intera società postbellica. Gennaro
riesce a mettere i suoi familiari dinnanzi a quella realtà che non avevano
saputo affrontare:
GENNARO (chiude il telaio a vetri e lentamente si avvicina
alla donna. Non sa di dove cominciare; guarda la camera
della bimba ammalata e si decide). Ama’, nun saccio
pecché, ma chella criatura ca sta llà dinto me fa penza’ ’o
paese nuosto. Io so’ turnato e me credevo ’e truva’ ’a
famiglia mia o distrutta o a posto, onestamente. Ma
pecché?... pecché io turnavo d’ ’a guerra... Invece, ccà
nisciuno ne vo’ sentere parla’. Quann’io turnaie ’a ll’ata
guerra, chi me chiammava ’a ccà, chi me chiammava ’a
llà. [...] Ma mo pecché nun ne vonno sèntere parla’?
Primma ’e tutto pecché nun è colpa toia, ’a guerra nun
l’he’ vuluta tu, e po’ pecché ’e ccarte ’e mille lire fanno
perdere ’a capa... (Comprensivo) Tu ll’he’ accuminciate a
74 Ivi, p. 94.
159
vede’ a poco ’a vota, po’ cchiù assale, po’ cientomila, po’
nu milione... E nun he’ capito niente cchiù... [...] (Pausa)
Che t’aggi’ ’a di’? Si stevo cca, forse perdevo ’a capa
pur’io... A mia figlia, ca aieressera, vicino ’o lietto d’ ’a
sora, me cunfessaie tutte cosa, che aggi’ ’a fa’? ’A piglio
pe’ nu vraccio, ’a metto mmiez’ ’a strada e le dico: «Va
fa’ ’a prostituta»? E quanta pate n’avesser’ ’a caccia ’e
figlie? E no sulo a Napule. Ma dint’ ’a tutte ’e paise d’ ’o
munno. A te ca nun he’ saputo fa’ ’a mamma, che faccio,
Ama’, t’accido? Faccio ’a tragedia? (Sempre più
commosso, saggio) E nun abbasta ’a tragedia ca sta
scialanno pe’ tutt’ ’o munno, nun abbasta ’o llutto ca
purtammo nfaccia tutte quante... E Amedeo? Amedeo che
va facenno ’o mariuolo? [...] (Il crollo totale di Amalia
non gli sfugge, ne ha pietà) Tu mo he’ capito. E io aggio
capito che aggi’ ’a sta’ ccà. Cchiù ’a famiglia se sta
perdenno e cchiu ’o pate ’e famiglia ha da piglia’ ’a
responsabilità. (Ora il suo pensiero corre verso la piccola
inferma). E se ognuno putesse guarda’ ’a dint’ ’a chella
porta... (mostra la prima a sinistra) ogneduno se passaria
’a mano p’ ’a cuscienza... Mo avimm’aspetta’, Ama’...
S’ha da aspetta’. Comme ha ditto ’o dottore? Deve passare
la nottata75.
3.2 «Filumena Marturano»
La successiva commedia in cui è direttamente trattata la tematica
familiare è Filumena Marturano, ma ricordiamo che questo aspetto, anche
quando non centrale per l’intreccio, viene affrontato in altre opere. È il caso
di Questi fantasmi!, commedia sull’incomunicabilità nel rapporto fra
75 Ivi, pp. 9596.
160
coniugi (non ci sono figli), concetto che poi sarà ripreso e allargato in
alcune commedie successive. Alfredo, l’amante della moglie del
protagonista (Maria), ha abbandonato la sua famiglia e paragona
cinicamente il suo matrimonio (ma anche il matrimonio in generale) a un
contratto:
MARIA. [...] quante volte ti ho consigliato di tornare in te,
alla tua casa...
ALFREDO. Per metterti a posto con la tua coscienza. Pe’ nun
fa’ peccato... perché è peccato, hanno detto gli uomini, di
seguire il proprio istinto e d’arrivà addò te porta ’o core.
Però sei venuta da me di nascosto, quanno ’o core te
diceva ’e sì. La gioia l’hai desiderata e l’hai voluta, poi hai
fatto il caso di coscienza, credendo di metterti a posto con
Dio, e mi hai detto: «Alfre’, smettiamola!... Torna a casa
tua, dai figli tuoi...» Vedi, Mari’ io rispetto le tue idee;
però tu conosci le mie... Non è colpa tua. Te l’hanno ditto,
l’hanno predicato, ’o ssapive primma ’e nascere ca ’e
ccose se fanno ’e nascosto. Ma il mio progetto non
cambia. E se è vero che non si può pretendere di cambiare
da un momento al’altro tutto l’ordinamento di una vita
sociale, ti garantisco che l’ordinamento di un solo mondo,
quello nostro, lo cambierò io. Con mia moglie ho parlato
chiaro. I figli andranno per la loro strada, so’ gruosse...
Pago, pago la penale per essere venuto meno ad un
contratto, nu piezzo ’e carta ca, quanno ll’ ’e firmato, è
comm’ a na cundanna a morte... ca te ncatena pe’ tutta ’a
vita...76
Mentre Pasquale riconosce davanti alla moglie il loro dramma, la
76 Eduardo DE FILIPPO, Questi fantasmi!, ne La cantata dei giorni dispari, vol. I, Torino, Einaudi,
1998, pp. 150151.
161
perdita della comunicazione.
PASQUALE. [...] Che tristezza... Come finisce tutto
l’entusiasmo, tutto l’amore. Mesi e mesi senza scambiare
una parola, un pensiero... [...] Te ricuorde, Mari’, quanno
facevamo ’ammore? Ce guardàvemo dint’ all’uocchie e
nun parlàvamo per timidezza, ma cu’ ll’uocchie ce
dicévemo tanta cose. E io mi sentivo infelice, nel senso
che mi sentivo goffo vicino a te, perché mi sentivo
niente... E quanno uno se sente niente, tutto diventa più
facile, più piacevole... Per qualunque cosa si trova il
rimedio: pure ’a morte addeventa bella! Si scherza, si ride,
senza quel preconcetto di superiorità... E invece no, s’ha
da mantenè ’o punto. E, forse, ci portiamo un cuore gonfio
di amarezza, di tristezze, di tenerezze, che, se solamente
per un attimo riuscissimo ad aprire l’uno con l’altro... Ma
niente... Ha da sta’ chiuso, rebazzato... A nu certo punto se
perde ’a chiave e va t’ ’a pesca! Avimmo perza ’a chiave,
Mari’!... (Si avvia triste)77.
Filumena Marturano, commedia in tre atti, porta sulla scena la
questione dei figli illegittimi, come Eduardo stesso. La storia è imperniata
sulla figura di una prostituta raccolta dal lupanare da un ricco borghese,
Domenico Soriano, che ha vissuto accanto a lui “come una serva” per
venticinque anni, mentre questi, dapprima sposato, poi troppo libertino per
impegnarsi, non sente verso di lei alcun legame.
FILUMENA. [...] ’A strada d’ ’a casa t’ ’a scurdave. ’E
mmeglie feste, ’e meglie Natale me ll’aggio passate sola
comm’ a na cana. [...] Comm’ all’ultima femmena m’ he
77 Ivi, p. 178.
162
trattato, sempe! (A Rosalia e Alfredo, unici testimoni delle
sacrosante verità che dice) E nun parlammo ’e quann’isso
era giovane, che uno puteva dicere: «Tene ’e sorde, ’a
presenza...» Ma mo, all’urdemo all’urdemo, a
cinquantaduie anne, se retira cu’ ’e fazzulette spuorche ’e
russetto, ca me fanno schifo...78
Mentre lei continua a portare avanti la casa lui inizia una relazione con
un’altra donna, Diana, che vuole sposare. Esasperata Filumena escogita
uno stratagemma e fingendosi moribonda chiede a Domenico di essere
sposata in extremis. Lui non può negarle l’ultimo desiderio, ma subito dopo
il rito lei si alza, nel pieno possesso delle sue forze, sarcasticamente
affermando: «Don Dummi’ tanti auguri: simmo marito e mugliera!»79.
Il sottile intreccio eduardiano fa cominciare la commedia in questo
momento, lasciando al pubblico il dovere di capire cosa sia successo
attraverso la discussione fra Domenico e Filumena nel corso del primo atto.
La scena si apre su un ring, che presenta ad un angolo Domenico Soriano
assistito da Alfredo Amoroso, e all’altro angolo Filumena Marturano, con
l’anziana confidente Rosalia Solimene. È Eduardo a dirlo, nella didascalia
introduttiva:
In piedi, quasi alla soglia della camera da letto, le
braccia conserte , in atto di sfida, sta Filumena
Marturano. [...] Ella è pallida, cadaverica, un po’ per la
finzione di cui si è fatta protagonista, quella cioè di
lasciarsi ritenere prossima alla fine, un po’ per la bufera
che, ormai, inevitabilmente dovrà affrontare. Ma ella non
ha paura: è in atteggiamento, anzi, da belva ferita, pronta
78 Ivi, p. 203.
79 Eduardo DE FILIPPO, Filumena Marturano, in Cantata dei giorni dispari, vol. I, Torino, Einaudi,
1998, p. 202.
163
a spiccare il salto sull’avversario.
Nell’angolo opposto, precisamente in prima quinta a
destra, Domenico Soriano affronta la donna con la decisa
volontà di colui il quale non vede limiti né ostacoli, pur di
far trionfare la sua sacrosanta ragione, pur di spezzare
l’infamia e mettere a nudo, di fronte al mondo, la
bassezza con cui fu possibile ingannarlo. [...] Ora è lì, in
pantalone e giacca di pigiama, sommariamente
abbottonati, pallido e convulso di fronte a Filumena, a
quella donna «da niente» che, per tanti anni, è stata
trattata da lui come una schiava e che ora lo tiene in
pugno per schiacciarlo come un pulcino80.
Ma la motivazione che ha mosso Filumena all’inganno sembrerebbe
non essere amore, stando a quanto dichiarato da lei, ma la necessità di dare
un cognome ai suoi tre figli:
FILUMENA. [...] Ma tu te cride overo ca io ll’aggio fatto pe’
te? Ma io nun te curo, nun t’aggio maie curato. Na
femmena comm’ a mme, ll’he ditto tu e mm’ ’o stai
dicenno ’a vinticinc’anne, se fa ’e cunte. Me sierve... Tu,
me sierve! Tu te credive ca doppo vinticinc’anne c’aggiu
fatto ’a vaiassa vicino a tte, me ne ievo accussi, cu’ na
mano nnanze e n’ata areto?
DOMENICO (con aria trionfante, credendo di aver compresa
la ragione recondita della beffa di Filumena). ’E denare!
E nun te l’avarria date? [...]
FILUMENA (avvilita per l’incomprensione, con disprezzo).
Ma statte zitto! Ma è possibile ca vuiate uommene nun
capite maie niente? ...Qua’ denare, Dummi’? Astipatille cu
bbona salute ’e denare. È n’ata cosa che voglio ’a te... e m’
80 Ivi, did., pp. 197198.
164
’a daie! Tengo tre figlie, Dummi’!81
Dopo aver rassicurato Domenico di non esserne il padre, Filumena
ammette che questi tre figli sono stati cresciuti con i soldi rubati a lui che,
d’altronde, non si era mai accorto di niente. Più per spiegare che per
discolparsi, Filumena sostiene che l’unica alternativa sarebbe stata non farli
mai nascere. In un famosissimo monologo rievoca l’angoscioso dubbio la
prima volta che rimase incinta:
FILUMENA (con uno scatto improvviso). E ll’avev’ ’a
accidere? [...] E chesto me cunzigliavano tutt’ ’e
ccumpagne meie ’e llà ncoppo... (Allude al lupanare) «A
chi aspetti? Ti togli il pensiero!» (Cosciente) M’ ’avarria
miso ’o penziero! E chi avesse pututo campà cu’ nu
rimorso ’e chillo? E po’, io parlaie c’ ’a Madonna. [...]
(rievocando il suo incontro mistico) Erano’e tre doppo
mezanotte. P’ ’a strada cammenavo io sola. D’ ’a casa mia
già me n’ero iuta ’a sei mise. (Alludendo alla sua prima
sensazione di maternità) Era ’a primma vota! E che
ffaccio? A chi ’o ddico? [...] Senza vulé, cammenanno
cammenanno, me truvaie dint’ ’o vico mio, nnanz’
all’altarino d’ ’a Madonna d’ ’e rrose. L’affruntaie accussi
(Punta i pugni sui fianchi e solleva lo sguardo verso una
immaginaria effige, come per parlare alla Vergine da
donna a donna): «C’aggi’ ’a fa’? Tu saie tutto... Saie pure
pecché me trovo int’ ’o peccato. C’ aggi’ ’a fa’?» Ma essa
zitto, nun rispunneva. (Eccitata) «E accussi ffaie, è ove’?
Cchiu nun parle e cchiu’ ’a gente te crede? ...Sto parlanno
cu’ te! (Con arroganza vibrante) Rispunne!» (Rifacendo
macchinalmente il tono di voce di qualcuno a lei
sconosciuto che, in quel momento, parlò da ignota
81 Ivi, p. 204.
165
provenienza) «’E figlie so’ ffiglie!» Me gelaie.
Rummanette accussi, ferma. (S’irrigidisce fissando
l’effige immaginaria) [...] ...E nun saccio si fuie io ’a
Madonna d’ ’e rrose ca facette c’ ’a capa accussì! (Fa un
cenno col capo come dire: “Si, hai compreso”) «’E figlie
so’ ffìglie!» E giuraie. Ca perciò so’ rimasta tant’anne
vicino a te... Pe’ lloro aggio suppurtato tutto chello ca m’
he fatto e comme m’he trattato!82
Sul finire del primo atto Filumena decide che i figli devono conoscere
la loro origine, «hann’ ’a sapé chi è ’a mamma...», e soprattutto «nun
s’hann’ ’a mettere scuorno vicino all’at’uommene: nun s’hann’ ’a sentì
avvilite quanno vanno pe’ caccià na carta, nu documento: ’a famiglia, ’a
casa... ’a famiglia ca s’aunisce pe’ nu cunziglio, pe’ nu sfogo...»83. E
aggiunge infine Filumena: « S’hann ’a chiammà comm’ a mme! [...]
Soriano»84.
Nel secondo atto vediamo Domenico, il giorno dopo, “recuperare
terreno”, chiedendo con l’avvocato l’annullamento del matrimonio.
Filumena, messa all’angolo, chiama i suoi tre figli e si rivela loro come per
agnizione. Prima di lasciare la casa, gioca la sua ultima carta: svela a
Domenico che uno dei tre è figlio suo. Non glielo ha detto quando nacque
per paura che lui l’avrebbe spinta all’aborto. Ma nella richiesta di
identificare suo figlio, Domenico si sente rispondere: «Hann’ ’a essere
82 Ivi, pp. 206207. La posizione di Eduardo a proposito del risvolto cattolico della commedia emerge
da una lettera a Franco Zeffirelli, che si accingeva a mettere in scena l’opera in America: «Io sono un
autore non cattolico, e quando al terzo atto, durante il matrimonio fuori scena, sulla scena fai
inginocchiare Rosalia, centrandola con uno spot, e le fai giungere le mani, in breve quando fai
succedere il “miracolo”, io mi sento, come autore, tradito». Lettera da Roma del 22 novembre 1979,
cit. in Maurizio GIAMMUSSO, Vita di Eduardo cit., p. 349.
83 Eduardo DE FILIPPO, Filumena Marturano cit., p. 212.
84 Ibidem
166
eguale tutt’ e tre!»85
Terzo atto: sono trascorsi dieci mesi. La scena è sempre la stessa, ma
addobbata di fiori che preannunciano le nozze di Domenico Soriano e
Filumena Marturano. Si capisce, nel corso dell’atto, che Domenico ha
deciso di lasciare Diana e, dopo aver ottenuto l’annullamento del
matrimonio, vuole ora sposare nuovamente Filumena, per stare vicino
all’ignoto figlio. Ma non si è rassegnato: mette alla prova i tre ragazzi, che
stanno per prendere il suo cognome, per scoprire di quale sia il padre: li
invita a chiamarlo “papà” ma rifiutano, e Domenico capisce che nessuno
dei tre sente un legame filiale con lui, o almeno non così forte. Tenta altre
strade, cercando passioni comuni: le donne – ma le donne piacciono a tutti
e tre – e il canto – ma nessuno dei tre vi è portato. Rimasto solo con
Filumena, Domenico esterna il suo tormento:
DOMENICO. [...] Si tu sapisse quanta vote, in questi ultimi
mesi, ho cercato di parlarti e non ci sono riuscito. Ho
tentato con tutte le mie forze di vincere questo senso di
pudore e me n’è mancato il coraggio. Capisco,
l’argomento è delicato e fa male a me stesso metterti di
fronte all’imbarazzo delle risposte; ma nuie ce avimm’ ’a
spusà. Tra poco ci troveremo inginocchiati davanti a Dio,
non come due giovani che ci si trovano per aver creduto
amore un sentimento che poteva essere soddisfatto ed
esaurito nel più semplice e naturale dei modi... Filume’,
nuie ’a vita nosta ll’avimmo campata... [...]due coscienze
formate che hanno il dovere di comprendere con crudezza
e fino in fondo il loro gesto e di affrontarlo, assumendone
in pieno tutta la resonsabilità. Tu saie pecché me spuse:
ma io no. Io saccio sulamente che ti sposo pecché m’he
85 Ivi, p. 235.
167
ditto che uno ’e chilli tre è figlio a me...86
A questo punto Filumena capitola: «Tu si’ ancora a tiempo. Male nun te
ne voglio... Lasciammo sta ’e cose comme stano, e ognuno va p’ ’a strada
soia»87. Domenico esasperato accoglie la proposta e nel chiamare i ragazzi,
per comunicare loro l’annullamento delle nozze, si sente rispondere dai tre
in coro «Sì, papà!»88. Adesso Domenico capisce: tutti e tre adesso si
sentono figli suoi, pur credendo ognuno di non esserlo; così lui, accettato
per padre, li accetta come figli89. Avviene il matrimonio fuori scena, e dopo
qualche brindisi cala la tela sull’ultima battuta di Domenico, mentre
Filumena sta finalmente piangendo:
DOMENICO (stringendola teneramente a sé). È niente... è
niente. He curruto... he curruto... te si mmisa appaura... si’
caduta... te si’ aizata... te si’ arranfecata... He pensato, e ’o
ppensà stanca... Mo nun he ’a correre cchiù, non he ’a
penzà cchiù... Ripòsate!... (Ritorna al tavolo per bere,
ancora, un sorso di vino) ’E figlie so’ ffiglie... E so’ tutte
eguale... Hai ragione, Filume’, hai ragione tu!... (E
tracanna il suo vino, mentre cala la tela)90.
86 Ivi, p. 243.
87 Ivi, p. 245.
88 Ivi, p. 246.
89 Come nota Felicity Firth «L’uomo incapace di affrontare la vita è una figura consueta. Lo si ritrova
in Domenico Soriano, nei primi due atti di Filumena Marturano; al terzo, lo stesso Domenico scopre,
come molti altri personaggi di De Filippo in chiusura di commedia, che fuggire dalla realtà non
costituisce una risposta». Felicity FIRTH, Un’affermazione di vita, in AA.VV., Eduardo nel mondo cit.,
p. 68.
90 Eduardo DE FILIPPO, Filumena Marturano, in Cantata dei giorni dispari cit., p. 248. Eduardo teneva
molto a quest’ultima battuta, reputandola rappresentativa dell’intera commedia. Si risentì infatti del
taglio di questa nella messinscena di Zeffirelli: «So che la Plowright ha contribuito all’abolizione della
battuta finale di Domenico, ma tu ti devi imporre per dare alla commedia il giusto significato che
l’autore ha voluto darle, e cioè la capitolazione assoluta dei privilegi borghesi nei confronti del diritto
168
3.3 «La paura numero uno»
La trama de La paura numero uno non è strettamente connessa alla
critica familiare che attraversa alcune commedie eduardiane. Ciononostante
troviamo in quest’opera una “storia nella storia”, il dramma di una
maternità tormentata che si interseca alla vicenda primaria, quella di un
uomo ossessionato dalla minaccia di un’ipotetica terza guerra mondiale
(Matteo Generoso, simbolo della società della “guerra fredda”).
Già nel primo atto incontriamo la figura di Luisa Conforto, una donna
che ha perduto il marito e un figlio per colpa della guerra («mio marito l’ho
perduto nell’altra guerra... disperso... nemmeno il conforto di sapere il
posto dov’è sotterrato... L’altro figlio mio, Gastone, preso e fucilato dai
tedeschi nella guerra passata... Mariano sbandato per la stessa guerra...
Iddio me lo volle salvare per puro miracolo...»91) e per questo adesso è
morbosamente attaccata all’altro, Mariano. Questo sentimento viene
esternato in uno sfogo con Virginia Generoso:
LUISA. No, non potete capire quali sono i sentimenti veri
che mi spingono a certe manifestazioni che possono
apparire esagerate agli occhi degli altri. Sono una donna
sola. Resto per molte ore della giornata sola. E non ne
faccio colpa a nessuno: voglio sta’ sola. E penzo, penzo...
Voi siete anziana come me; tenite na figlia, e mi potete
considerare. Io penso che non faccio abbastanza per lui;
di tutti all’uguaglianza [...]». Lettera da Roma del 22 novembre 1979, cit. in Maurizio GIAMMUSSO, Vita
di Eduardo cit., p. 349
91 Eduardo DE FILIPPO, La paura numero uno, ne La cantata dei giorni dispari, vol. I, Torino, Einaudi,
1998, p. 474.
169
che nun ’o voglio bene come sarebbe giusto; che... dentro
di me... non mi giudicate male... forse nun ’o voglio
proprio bene. Che ho voluto troppo bene a Gastone, il
fratello. E che perciò sono stata punita92.
Questa figura materna angosciata dal senso di colpa, vittima del timore
di perdere anche l’ultimo figlio, è un prodotto della guerra. La guerra, che
tanto ha sconvolto l’istituto familiare, dove non ha ucciso ha lasciato
famiglie mutilate. Quando Arturo, il fratello di Virginia, induce Matteo a
pensare che sia scoppiata una terza guerra mondiale, nel tentativo di
distoglierlo dalla sua fissazione, Luisa ci crede. Nel timore di vedersi portar
via anche l’ultimo figlio, lo imprigiona; proprio il giorno del suo
matrimonio con la figlia dei Generoso, lo mura in una stanza:
MARIANO. [...] Aveva lasciato solamente un foro per
passarmi il mangiare. Infatti mi portò latte e caffè.
«Mammà, mammà, che avete fatto? Evelina, il padre, la
madre mi stanno aspettando!» «C’è la guerra figlio mio...
c’è la guerra... Bello ’e mammà, quando finisce ti faccio
uscire!» mi sono disperato, ho gridato: niente... faceva
finta di non sentire93.
Anche quando, nel terzo atto, le viene chiesto «Ma gliel’hanno detto
che la guerra non c’è, e che fu tutta una storia inventata?», Luisa risponde
che «la guerra c’è»94. Ma infine Luisa si rasserena, lascia partire i due sposi
novelli e consola addirittura Virginia: «Donna Virgi’, ma perché voi
pensavate di tenervela sempre vicina, la figlia vostra? Noi siamo i genitori,
non siamo i proprietari dei figli». Così, infine, Luisa Conforto è costretta a
92 Ivi, p. 453.
93 Ivi, p. 489.
94 Ivi, p. 497.
170
deviare quel sentimento di possesso che aveva verso il figlio sulle sue
creazioni, le marmellate:
LUISA. Io mi affeziono a queste marmellate. ’E vvoglio
bene, come se fossero creature mie. Quando sto sola e me
vene ’o gulìo ’e nu poco d’amarena, per esempio, io ci
parlo come se fosse una persona viva. «Quanto sei buona.
Come sei saporita. Ti ho fatta io, con le mie mani. Sono
proprio contenta di come sei riuscita». E loro mi
rispondono, dandomi un poco di dolcezza. L’unica
dolcezza che ha il diritto di pretendere dalla vita una
povera donna come me. [...] È robba mia. Ma è difficile.
La marmellata è veramente mia e nessuno me la tocca. E
po’ io tengo ’a chiave. E non commetto un reato se la
chiudo dentro. [...] (Con tono di voce bonario,
comprensivo) Vostra moglie poco fa ha detto: «Beata voi
che ve la pigliate allegramente». Don Matte’, ho tolto il
respiro ai miei figli. Da quando cominciarono ad avere uso
di ragione. Se tardavano mezz’ora per tornare a casa
pensavo subito ad una disgrazia. Per non farli uscire
organizzavo trattenimenti in casa, invitavo ragazze carine,
giovani: niente, non li potevo frenare. E qualche volta mi
facevano capire apertamente che la mia presenza dava
fastidio. Scappavano, se ne andavano. Me dicevano nu
sacco ’e buscie per vivere per conto loro una vita che non
mi doveva riguardare. Don Matte’, a Mariano l’ho chiuso
dentro con un muro di mattoni e cemento. E nun se n’è
scappato?... E se uno di voi andava a denunziare il fatto, le
autorità non mi avrebbero rinchiusa in manicomio? [...]
(Non può controllare più i suoi sentimenti. La voce
diventa opaca, mozzata da qualche lieve singulto subito
represso) Don Matte’, vi ricordate le ordinanze tedesche
171
dalla radio? «I giovani che non si presentano al Comando
saranno puniti con la morte... I genitori che nascondono i
propri figli saranno fucilati sul posto». E avrei lottato
ancora, ma avevo capito che Mariano mi avrebbe odiato.
Un giorno mi ha detto: «Ma lasciami campare! Questa
generazione passata! Prima ci avete inguaiati...» Don
Matte’, vi giuro davanti a Dio che non sono pentita di
quello che ho fatto, no! No, sono felice! Per quindici
giorni l’ho sentito un’altra volta figlio mio, come quando
ce l’avevo qua. (Con tutte e due le mani aperte si batte
ripetutamente sul ventre) Come quando, durante i nove
mesi di gravidanza, trovavo modo di rimanere sola con lui,
sdraiata sulla poltrona, con le mani come le tengo adesso,
per parlarci. (Si tocca ancora il ventre) E lui si muoveva
dentro e mi rispondeva; mi rispondeva dandomi una
dolcezza che voi non potrete mai immaginare! Io capivo
lui, e lui capiva me, poi non ci siamo capiti più95.
3.4 «Bene mio e core mio»
Tralasciando per il momento l’analisi di Mia famiglia, alla quale è
dedicato l’ultimo paragrafo di questo capitolo, un’altra commedia dedicata
alla famiglia, amaramente96, è Bene mio e core mio. Il significato del titolo
95 Ivi, p. 502504. Secondo Eric Bentley in questa e in altre commedie eduardiane le pietas familiari
«sono la roccia basilare da cui tutto il resto, forse anche la sanità mentale, è stato portato via a colpi di
cannone. I sani di mente sono solo ipocriti e complici dell’offensiva generale. Il senso di umanità si è
rifugiato nei pazzi e negli infermi. [...] La vecchia Luisa Conforto della Paura numero uno non ha
bisogno di venir convinta da altri per credere che sia scoppiata la guerra perché sostiene che essa è già
in atto. Privata di entrambi i figli può chiamare “suoi” solo i barattoli di marmellata e di conserva».
Eric BENTLEY, Eduardo De Filippo e il Teatro napoletano, in AA.VV., Eduardo nel mondo cit., pp.
4042.
96 Eduardo ebbe a dire, riferendosi a questa commedia: «la famiglia è diventata e resta un’istituzione
172
lo spiegò l’autore in un volantino agli spettatori della prima milanese, il 13
dicembre 1955:
“Bene mio e core mio” è l’espressione abituale con la
quale la gente del mio paese diagnostica e sintetizza
ironicamente il tiro mancino che di sovente viene praticato
ai suoi danni da una insospettabile persona di famiglia [la
quale] riesce altresì a far risultare lo spirito di sacrificio
che determinò il suo gesto, nonché la colpa totale e l’intera
responsabilità delle conseguenze che ne deriveranno a
carico del congiunto danneggiato97.
Al centro della vicenda sono due fratelli, Lorenzo e Chiarina Savastano,
un restauratore e una quarantenne nubile. La scena si apre su una lite fra i
due. Chiarina in piedi sul davanzale vuole suicidarsi. «O – e sarebbe più
attendibile – sta minacciando di farlo, per ricattare e piegare la volontà di
qualcuno, ad uno scopo preciso», come ci indica la didascalia iniziale98.
Chiarina accusa il fratello di aver deciso di apportare dei cambiamenti alla
casa paterna senza averla prima consultata, ma lui la smentisce; lei gioca il
ruolo della vittima e martire della famiglia:
CHIARINA. Mi sta offendendo da quando ha capito che non
sono scema completamente. Perché è così. Il fatto di
mostrarsi compiacente e arrendevole e sempre pronta a
qualunque richiesta di sacrificio, non si attribuisce a uno
spirito altruistico, spinto fino all’annullamento d’ogni
basata sull’ipocrisia e l’interesse». Eduardo De Filippo risponde alle domande poste da un gruppo di
studenti, Roma, Teatro Eliseo, 1976, cit. in Isabella QUARANTOTTI, Eduardo polemiche, pensieri,
pagine inedite cit., pp. 172174.
97 Il testo è riportato ne «Il Dramma», dicembre 1955, pp. 5455.
98 Eduardo DE FILIPPO, Bene mio e core mio, ne La cantata dei giorni dispari, vol. II, Torino, Einaudi,
1998, did., p. 95.
173
proprio diritto, no; ma a fessaggine vera e propria. Quando
poi, la persona, un bel giorno, si sveglia e dice: «Vuò sapé
’a verità mi sono stancata di fare il comodo degli altri; da
oggi in poi voglio fare un poco pure il comodo mio»,
allora l’altro, visto che ha perduto il privilegio non si può
fare capace: «Ma come? Quella è stata fessa tanto bello
fino a pochi minuti fa; come si permette di giovarsi, da un
momento all’altro, del diritto al ragionamento comune?» E
s’imbestialisce99.
Lorenzo, che come tutti i protagonisti eduardiani non è mai “buono”
fino in fondo, accusa la sorella di essere inacidita dal lungo nubilato: «Tu
non hai la cognizione del tempo che è passato (con una punta di cattiveria)
pecché si’ rimasta zetella, e te cride sempre ca tiene quìnnece anne»100.
Chiarina non demorde, e a proposito dell’annunciata intenzione del fratello
di sposarsi una straniera si finge preoccupata per lui («Quando si saranno
calmati i bollenti spiriti dei primi tempi, il periodo fisiologico di carattere
internazionale, diciamo... alla prima discussione: “Io sono tedesca e tu sei
italiano”»101), poi ammette il suo principale timore: diventerebbe la serva
della cognata.
Infine Lorenzo, esasperato, decide di interrompere la relazione, ma di
accettare una proposta di affari che lo porta in America: «Deve andare a
restaurare dei quadri antichi in casa di un miliardario, il quale da cinque
mesi lo sta subissando di lettere e telegrammi. Ma lui non ne voleva sapere,
pure perché io lo sconsigliavo»102, dice Chiarina ammettendo il suo
egoismo.
99 Ivi, pp. 103104.
100 Ivi, p. 101.
101 Ivi, p. 104.
102 Ivi, p. 109.
174
In chiusura d’atto, fa la sua comparsa Filuccio, il verduraio del
quartiere. «Entra col suo incedere spavaldo, vanesio, invadente. Spavaldo
perché sa di poter contare sulla struttura solida del suo fisico massiccio.
Vanesio perché ha successo con le cameriere del rione. Invadente perché
manca assolutamente del senso della misura»103. Stabilito un contatto con
Chiarina, riesce a rubarle un bacio, sul quale si chiude il primo atto.
Dieci mesi dopo troviamo Chiarina incinta di Filuccio, e Lorenzo di
ritorno dall’America. La situazione adesso si è ribaltata e Chiarina attende
con ansia il ritorno del fratello, mentre fanno il loro ingresso Filuccio e suo
zio Gaetano («tronfio partenopeo di eloquio un po’ camorrista»104)
intenzionati a definire con Lorenzo la situazione. Quest’ultimo, arrivato e
messo a conoscenza dell’accaduto dal vicino di casa che lo ha prelevato
alla stazione, indugia sulla porta di casa dieci minuti. Poi entra in scena e si
mostra sereno e disposto alla discussione. Matilde, la vicina, è senza parole,
come gli altri:
MATILDE. [...] Voi non state parlando come ci aspettavamo,
e come avreste il diritto di parlare. Mio marito ci ha detto
che quando avete saputa la notizia vi siete arrabbiate al
punto che non volevate salire...
LORENZO (precisando ciò che Matilde avrebbe stentato a
dire). ...e adesso sto qua, parlando con tutta la calma,
senza spaccare nemmeno una sedia, senza rompere
nemmeno un oggetto contro il muro... [...] Vedete , donna
Mati’, quei dieci minuti di sosta sul portone di casa sono
stati utili per tutti quanti, Quelli che non vedevano l’ora di
raccontarmi la notizia con tutti i dettagli, hanno avuto il
tempo di liberarsi del peso che avevano sullo stomaco; ed
103 Ivi, did., p. 110.
104 Anna BARSOTTI, Nota storicocritica a Bene mio e core mio cit., p. 88.
175
io, quello di capire che, più si affronta con calma e serietà
il fatto, meno faremo ridere la gente105.
Ora che Lorenzo è stato messo al corrente dell’accaduto, e che ha
acconsentito al matrimonio tra Chiarina e Filuccio, iniziano le trattative.
Qui si cominciano a percepire quelle che sono le vere mire di Filuccio. La
storia si complica. Filuccio lavora in una bottega che fu del padre, ed è ora
in mano alla donna che questi sposò in seconde nozze, prima di morire. La
famiglia, oltre a Filuccio, la matrigna (“la vicchiarella” la definisce lui) e il
fratello del padre, comprende un fratello ritardato, Pasqualino.
Proprio davanti alla loro bottega si trova una proprietà di Lorenzo, un
locale sul quale Filuccio aveva messo gli occhi e che la sorella vorrebbe ora
come dono di nozze. Il locale comprende anche quattro stanze che i novelli
sposi potrebbero usare come abitazione. Dopo lunghe e difficili trattative,
si arriva ad un accordo:
LORENZO. Lasciatevi guidare da me. Faremo le cose in
regola e con la piena legalità. Per ora non c’è bisogno di
prendere in fitto una casa; restate qua; ’a casa è grossa e
non ci daremo fastidio. Per il deposito [...] faremo un
affitto regolare, fissando un tanto al mese di pigione. [...]
Per le quattro camere, ci metteremo d’accordo dopo [...].
Se le cose si mettono bene, e Filuccio dimostra una seria
attività, quando Chiarina mette al mondo l’erede, io piglio
il deposito con le quattro camere e ve li cedo come regalo
di nozze.
[...]
FILUCCIO. E quando vi sarete deciso, io non voglio niente
per me; io tengo ’e braccia per lavorare; la proprietà la
dovete intestare a mia madre, a quella povera donna, che
105 Ivi, p. 136.
176
rimane sola con un figlio scemo: mio fratello.
LORENZO. Questo ti fa ancora più onore. Nun ce penzà: ’a
mamma è mamma. ’A Vicchiarella ’a mettimmo a
posto106.
Prima che il secondo atto finisca fa il suo ingresso Virginia, la matrigna
di Filuccio, che con sorpresa di tutti è «una bellissima donna di trentasei
anni»; i suoi gesti sono controllati «affinchè denunzino un complesso
religioso spinto fino alla superstizione», che non riesce ad armonizzare
«con la flessuosità del suo corpo invadente»107. La chiusura è sarcastica:
LORENZO (puntando uno sguardo ironico su Filuccio,
bruscamente gli chiede). ’A vicchiarella?
FILUCCIO (a denti stretti e con un mezzo sorriso amaro,
conferma). ’A vicchiarella108.
Nel terzo atto Lorenzo fa una scoperta inquietante: Pasqualino, nella
sua ingenuità, racconta che il padre parla ancora a Virginia «dalla pancia di
Filuccio», il quale facendo leva sulla superstizione della matrigna, riesce a
controllare le sue decisioni:
PASQUALINO. [...] Papà sta al camposanto, ma sta pure
dentro Filuccio. (E continua a tagliare) Quando vuole
parlare con mammà, Filuccio si addormenta e papà si
sveglia... E quando si sveglia parla da dentro alla pancia di
Filuccio. Poi, quando ha parlato, papà si addormenta e
Filuccio si sveglia. E quando si sveglia non si è accorto di
niente, e nun sape nemmeno quello che papà ha detto a
106 Eduardo DE FILIPPO, Bene mio e core mio cit., p. 145.
107 Ivi, did., p. 146.
108 Ivi, p. 148.
177
mammà.
LORENZO (falsamente convinto). Guardate... E tu non sai
che lle dice papà a mammà?
PASQUALINO. Sì! E mammà non si può sposare un’altra
volta, perché papa non vuole. Lo dice sempre: «Se ti
mariti, io non esco dalle fiamme del Purgatorio»109.
Lorenzo capisce la situazione e trova il modo di restare solo con donna
Virginia. Deciso a mostrarle la realtà per quella che è, le regala un broccato
“magico”, inventando una storia che la induca a credere che il tessuto sia in
grado di guarirla dai suoi malesseri psicosomatici110. Virginia, convinta, è
ora serena, e Lorenzo ne approfitta per chiederle «con puerile semplicità»:
«Virgì, ce vulimmo spusà?» Lei acconsente e Lorenzo portata la situazione
a suo vantaggio – non solo il locale resterà di suo possesso, ma acquisirà la
proprietà della bottega di Filuccio – avverte i due sposi promessi delle
decise nozze con Virginia, e lasciandoli increduli chiude la commedia con
questa battuta:
LORENZO. Filu’, e mi raccomando: quando qualche volta
andrai a trovare mammà, nun ’o fa’ venì cchiù a papà: so’
geluso111.
109 Ivi, p. 152.
110 Osserva Barsotti: «La favola, come sempre, contiene una metafora: “tutto il mistero consiste nel
disegno e nei colori”; il disegno segue il percorso del pensiero, che nel groviglio finale “cancella
inesorabilmente la macchia scura del colore triste che ognuno di noi porta sulla coscienza”, il nero;
una volta cancellato il colore triste, entrano in funzione quelli allegri, “il rosa, il rosso, il celeste, il
verde...” (Cantata dei giorni dispari, vol. II, p.167). È la poetica dei colori di Eduardo, di quelle
“parole colorate” che tentano di opporsi nel suo teatro come nella sua poesia, alle parole “nere” o
“grigio scure” dell’ipocrisia e del potere». Anna BARSOTTI, Nota storicocritica a Bene mio e core mio
cit., p. 90.
111 Ivi, p. 167.
178
3.5 «Sabato, domenica e lunedì»
La vicenda di Sabato, domenica e lunedì si svolge, appunto, in tre
giorni, che corrispondono temporalmente ai tre atti112. «Questa
corrispondenza – osserva Barsotti – significa un ritorno [...] all’intenzione
poetica dell’autore di realizzare, mediante la scena, l’illusione della “vita
che continua”»113.
La commedia è ambientata in casa Priore, e ci presenta una famiglia
patriarcale costituita da tre generazioni: quella degli anziani ha un solo
esponente, Antonio Piscopo, il padre di Rosa; quest’ultima con suo marito
Peppino Priore e i cognati Raffaele e Amelia, costituiscono la generazione
di mezzo; ad essi si affiancano i vicini di casa, i signori Ianniello, Luigi e
Elena; i “giovani”, infine, sono costituiti dai figli dei Priore, Giulianella,
Rocco e Roberto, la moglie di quest’ultimo, Carolina, il figlio di Amelia,
Attilio, e Federico, amico di Rocco e fidanzato di Giulianella.
Ogni personaggio è indispensabile all’azione114, e l’opera, dietro un
apparente buonismo cela un messaggio più complesso. Federico Frascani
osserva che la commedia
pur se ritorna sull’argomento dei rapporti tra congiunti non
per pervenire a un’amara constatazione o far squillare un
campanello d’allarme, ha un suo sentito e persuasivo
avvertimento da trasmettere. Eduardo questa volta vuol
112 Parlando di questa commedia Eduardo la definì «come una vita che si svolge in tre giorni».
Eduardo DE FILIPPO, Lezioni di teatro, Torino, Einaudi, 1986, p. 15.
113 Anna BARSOTTI, Eduardo drammaturgo cit., pp. 335336.
114 Osserva Federico Frascani che la commedia «non ha un personaggio che non sia definito a
dovere, che non sia plausibile; non ha una scena, una battuta, che non risultino essenziali». Federico
FRASCANI, Eduardo, Napoli, Guida, 1974, pp. 109110.
179
soprattutto farci riflettere sul pericolo insito in certi silenzi
stagnanti fra le pareti domestiche; e, in particolare, sulle
conseguenze irreparabili che possono derivare da
ingiustificate reticenze nei rapporti tra marito e moglie.
Certe pericolose tensioni non si attenuano, ammonisce
implicitamente l’autore, «parlando d’altro». Queste parole,
scritte tra virgolette, caratterizzano, come è noto, il
comportamento dei personaggi, appartenenti a quel teatro
che fu definito «intimista». E appunto una commedia
sostanzialmente intimista è Sabato, domenica e lunedì, ad
onta di certi suoi risvolti comici che teatralmente la
ravvivano, senza intorbidarne il lirismo di fondo, né
sminuirne la plausibilità psicologica115.
Il primo atto, il sabato, comincia con la preparazione del pranzo
domenicale, e ci mostra i coniugi Priore in atteggiamento di insofferenza
reciproca. Peppino è «un onesto e simpatico commerciante del Rettifilo»116,
sua moglie è una donna piacente, decisa e imponente117. Mentre Rosa
prepara il ragù Peppino si mostra contrariato all’idea di aver a pranzo il
giorno dopo i signori Ianniello: «Uno aspetta la domenica per passare una
115 Ibidem.
116 Eduardo DE FILIPPO, Sabato, domenica e lunedì, in Cantata dei giorni dispari, vol. II, Torino,
Einaudi, 1998, did., p. 399. Il Rettifilo, ufficialmente Corso Umberto I, è una strada napoletana
centrale dal punto di vista commerciale.
117 Achille Fiocco così la descrive: «una povera moglie e madre, che si trascina dalla mattina alla
sera dietro al marito e ai figli, [che] a un tratto cambia sistema, non cura più il marito, non gli fa più le
gentilezze di prima, e lui, a cinquantasette anni, ne è geloso, è geloso di lei, che ne ha cinquantatre, e
alla fine si chiarisce che tutto questo ha origine da un motivo futilissimo [...] e tutto questo porta alla
scoperta del bene, che si sono sempre voluti, del bene, che si vogliono come non mai, perché è un
bene, che ha scoperto l’intimo perché di se stesso: sotto l’apparenza banalissima, quella moglie
trascurata è una donna coraggiosa e accorta, che ha saputo salvare l’integrità dell’amore, e l’uomo vi
si riflette intero». Achille FIOCCO, Teatro universale dal Naturalismo ai giorni nostri, Bologna,
Cappelli, 1971, pp. 225226.
180
giornata in famiglia... nossignore ci vogliono i signori Ianniello a tavola»118.
La storia procede con l’ingresso in scena degli altri personaggi e di vicende
periferiche: il nonno che stravede per il nipote Rocco; questi che si mostra
“scostumato” nei confronti della madre e lei che lo caccia in malo modo;
zia Memele (Amelia) che fa sentire malato il figlio per tenerlo vicino a sé
(«era un ragazzo svelto che nel negozio poteva rendere – dirà Peppino nel
terzo atto – ma mia sorella l’ha rimbambito»119); zio Raffaele che si prepara
per il giorno successivo a recitare Pulcinella; una piccola lite tra Giulianella
e il fidanzato; l’incomprensione tra padre e figlio, che hanno intrapreso
strade diverse aprendo quest’ultimo un negozio più moderno. La
discussione con Rosa monta sul filo della difficoltà di comunicazione fra i
due coniugi, che è poi la morale della commedia:
PEPPINO (come rilevando una dura quanto evidente
fatalità). Non ti controlli più.
ROSA (sincera). Ma che dici? Che significa: «non ti
controlli più»?
PEPPINO (ambiguo). Tu mi capisci.
ROSA. No, non capisco. Sei tu che ti devi spiegare. Io
capisco soltanto che tutto quello che faccio in questa casa
è perduto. (D’improvviso perde ogni lume di ragione e si
mette a gridare come fosse stata presa da un attacco di
isterismo) Avete capito don Peppi’? Non voglio più
combattere con i figli, i parenti, la pazienza ha un limite.
[…] (battendo ripetutamente la mano sul tavolo). Qua...
qua... tutta la mia vita qua dentro a fare la serva, a servire
tutta la famiglia, come una vaiassa120.
118 Eduardo DE FILIPPO, Sabato, domenica e lunedì cit., p. 402.
119 Ivi, p. 432.
120 Ivi, pp. 421422.
181
Rosa esce avvertendo «mi devono tagliare le mani se metto più piede in
cucina»; anche Peppino si veste e esce di casa. Zia Memé manda via la
cameriera ed esce di scena col figlio spegnendo la luce e lasciando la scena
vuota. Dopo pochi istanti
Rosa entra mogia mogia e riaccende la luce. Poi si
avvicina al fornello e rimette il tegame con il ragù sul
fuoco. Ora va alla dispensa e trae da essa una cartata di
maccheroni di zita e una grande insalatiera. Sempre
lentamente si avvicina al tavolo e si dispone a spezzare i
maccheroni. Il sipario scende lentamente e allontana
insieme ai singhiozzi repressi della donna e qualche frase
mozza, pure quel tinnire allegro e promettente degli ziti
spezzati che la mano esperta lascia cadere nella grande
stoviglia di porcellana121.
Atto secondo, la scena rappresenta adesso la sala da pranzo. La tavola è
fastosamente apparecchiata per il pranzo domenicale. In scena Antonio con
il sarto, sta provando il vestito per l’inaugurazione del nuovo negozio di
Rocco, e lo attende per mostrargli l’abito; ma alla notizia che forse il nipote
non verrà – per una discussione avuta il giorno prima con la madre –,
Antonio la prende sul personale:
ANTONIO. [...] Vi ho detto tante volte che quello che fate a
Rocco lo fate a me. Quel povero ragazzo si sente oppresso
in questa casa. Tu (indica Rosa) lo maltratti perché sei
superba e ti credi una Padreterna, e lui (indica Peppino) lo
sevizia in malafede.
PEPPINO. In mala fede?
121 Ivi, did., p. 423.
182
ANTONIO (precisando). Per l’invidia122.
Antonio accusa Peppino di essere invidioso del nuovo negozio che
Rocco vuole impiantare per suo conto. Il vecchio solleva un problema che
già si era presentato anni prima, come manifestazione di un gap
generazionale:
PEPPINO. Siete ingiusto, scusate. [...] Che bisogno aveva di
fare un tentativo quando le cose al Rettifilo andavano
bene?
ANTONIO. Il negozio al Rettifilo non è più all’altezza dei
tempi.
PEPPINO. Ma scusate, quando ventisei anni fa presi nelle
mani le redini del negozio al Rettifilo e dissi che non era
più adatto ai tempi e che i soli cappelli non rendevano più
per cui bisognava trasformarlo in cappelleria e articoli di
abbigliamento, n’altro poco facevate correre i carabinieri,
e non ci volle poco per convincervi; adesso che si tratta di
Rocco tutto va bene e nessuno si deve permettere di
contraddirlo?123
Antonio se ne va di malumore. Entrano i signori Ianniello: il ragioniere
reca per la padrona di casa una cassata alla siciliana, perché «una sera,
parlando di dolci, donna Rosa disse che usciva pazza per la cassata alla
siciliana». Arrivano anche gli altri commensali, tutti si siedono a tavola.
Questa scena è il centro della commedia, non solo perché situata a metà del
122 Ivi, p. 427.
123 Ivi, pp. 427428. Barsotti ha definito questa una delle commedie che rappresentano un antitesi
«tra presente e futuro», indicando nei “giovani” la via della comprensione per i “vecchi”. Anna
BARSOTTI, La drammaturgia di Eduardo De Filippo cit., p. 54.
183
secondo atto; è descritta in una delle didascalie registiche più poetiche124
del teatro eduardiano:
Tutti meno Peppino si accostano al tavolo per conquistare
un posizione più comoda che consenta loro libertà di
gesti, curando ognuno di limitare al massimo i propri per
rendere più agevoli quelli del vicino. Questa scena deve
essere concertata in modo perfetto. Essa ha una grande
importanza ai fini della commedia, il cui contenuto è, o lo
è per me, ben chiaro: caratteri, sentimenti umani, costume.
Il regista senza preoccuparsi di annoiare il pubblico, solo
in questo momento, farà rivivere un pranzo domenicale
napoletano, elevandolo, come le famiglie napoletane lo
elevano, all’altezza di un rito. Ognuno conosce
l’importanza del proprio compito e l’apporto personale
che deve dare alla perfetta riuscita della funzione. I piatti
fondi passano di mano in mano come un giuoco
clownesco da circo equestre, e vanno a formare una pila
che mano mano aumenta di proporzioni, davanti a donna
Rosa. Donna Risa maneggia il mestolo d’argento con
disinvolta perizia. La mano esperta della donna conosce
l’appetito dei familiari e degli ospiti. Nessuno osa opporsi
a quella saggia ripartizione. La prima ad essere servita è
la signora Elena Ianniello: un mestolo solo. Forse
ripeterà perché sono davvero promettenti quei
maccheroni, ma non ama vedere il piatto colmo, si
124 Proprio la “poesia” del teatro di Eduardo lo esula dal frequente accostamento ad altri autori del
Novecento (cfr. Claudio MELDOLESI, La trinità di Eduardo: scrittura d’attore, mondo dialettale e
teatro nazionale, in Fra Totò e Gadda. Sei invenzioni sprecate dal teatro italiano, Roma, Bulzoni,
1987, pp. 5787). Secondo Carlo Filosa nel suo teatro «si coglie quasi sempre [...], a differenza di
quanto accade per solito nei lavori di Pirandello e degli autori italiani del «grottesco» e del teatro
esistenzialista e, soprattutto, di quelli del cosiddetto «teatro dell’assurdo», una vena d’incalzante e
semplice umanità, di poesia». Carlo FILOSA, Eduardo De Filippo. Poeta comico del «tragico
quotidiano», Napoli, La Nuova Cultura, 1978, pp. 3031.
184
avvilisce. Zia Memé? Per carità... meno di un mestolo
pieno. Perché preferisce mangiarli la sera per cena
riscaldati e quasi bruciacchiati: ne va pazza. Don
Peppino riceve la sua porzione e l’accoglie con
indifferenza, ha altro per la testa lui. Il nonno non ama il
piatto fondo. Adora l’insalatiera di media grandezza che
contiene quasi mezzo chilo di pasta. I maccheroni suoi li
vuole conditi a parte e lì dentro. Poi è la volta del dottore,
Ianniello e gli altri. Quei due piatti colmi e ricoperti con
altri due capovolti, sono stati messi ai posti dove si
dovranno sedere Rocco e Federico. [...] L’euforia dei
commensali, fatta di esclamazioni di gioia e di esultante
ammirazione che abbiamo sentito esplodere, all’unisono,
nell’attimo in cui Virginia ha mostrato la «sacra
insalatiera», si va calmando e vieppiù affievolendosi fino
a raggiungere un silenzio fitto che definirei «silenzio del
Ragù», che può essere interrotto soltanto da un traffico
discreto fatto di cigolii di sedie, tintinnii di bicchieri e
fastidiosi stridii di forchette golose nei piatti125.
Il ragioniere Ianniello continua, invadente, a coprire donna Rosa di
elogi e attenzioni, defraudando il marito del suo spazio. Quando Rosa
chiede a bruciapelo al marito – che per tutto il pasto è restato in disparte –
per quale motivo non mangi, lui le risponde che non ha appetito e ancora
una volta il ragioner Ianniello si infiltra: «avete torto perché il ragù di
donna Rosa non si rifiuta mai»126. Il pranzo prosegue e zia Memé racconta
ai commensali dell’autobiografia che sta scrivendo, incentrata sulla sua
movimentata vita matrimoniale, dal titolo Sì, ma ci vuole coraggio.
Peppino coglie il momento per alludere: «Proprio così: ci vuole coraggio,
125 Eduardo DE FILIPPO, Sabato, domenica e lunedì cit., did., pp. 443444. Il corsivo è nostro.
126 Ivi, p. 447.
185
pulizia interna, purezza di sentimenti. Io non sono istruito come il dottore e
mia sorella [...] ma capisco più di quello che la gente crede. So cogliere i
particolari, le sfumature di una situazione e mi rendo conto della ipocrisia,
la falsità e del furto continuato e l’abuso di fiducia»127. La rabbia di
Peppino monta:
PEPPINO (non gli reggono i nervi e decide di vuotare il
sacco). Io per questa donna non esisto più, mi tratta come
se fossi un servitore. La mattina quando esco di casa per
andare al negozio non se ne accorge nemmeno. [...] Da
quattro mesi donna Rosa si è cambiata nei miei confronti.
Non mi parla più. Se la interrogo, appena appena risponde.
Tutto quello che faccio io è mal fatto, non mi posso
muovere che le do fastidio. Insomma un insieme di cose
che mi dicono chiaramente quanto e come navighiamo io e
lei in un mare torbido e infetto128.
Finalmente esplode:
PEPPINO. [...] Vergogna! E io seduto qua (batte con
violenza la mano sul tavolo) fesso fesso, in continua
ammirazione di questa tresca schifosa!129
Tutti rimangono senza parole. Il ragioniere, dapprima stupito, si mostra
comprensivo nei confronti di Peppino: «per giungere a questo significa che
il cavaliere, giustamente o ingiustamente, ha sofferto, perché chissà da
quanto tempo si è tenuto in corpo, diciamo, “il rospo”»130. Rosa, «livida e
127 Ivi, p. 451.
128 Ivi, p. 453.
129 Ivi, p. 454.
130 Ibidem.
186
tutta tremante di sdegno»131 esclama tra le lacrime: «ricordati l’invito a
colazione che mi facesti alla Casina Rossa a Torre del Greco e quello che
mi dicesti a tavola»; poi stringendo fra le braccia il figlio Roberto
aggiunge: «figlio mio... io e te simme vive pe’ miracolo»132, e sviene. Tutti
accorrono e il secondo atto si avvia alla sua conclusione mentre Peppino,
«che fino a quel momento è rimasto inchiodato al suo posto e chiuso in
una convinzione che man mano ha perduto consistenza e valore realistico,
ora si rende conto della gravità del momento e smaltisce la sua follia
schiaffeggiandosi ripetutamente»133.
Il terzo atto si apre sul risveglio mattutino dei vari componenti della
famiglia. Peppino chiede informazioni a zia Memé sullo stato della moglie.
Lei lo rassicura dicendogli che Rosa sta inconsciamente ingigantendo il suo
malore perché «si compiace del fatto che tutta la famiglia è seriamente
preoccupata per lei»134. Peppino è distrutto e la sorella cerca di mostrarsi
comprensiva:
ZIA MEMÉ. [...] La tua non è stanchezza fisica: è
abbattimento morale. Uno crede di sentirsi liberato quando
riesce a mettere fuori certe amarezze, che forse per anni
non ha voluto dire; quando poi le ha dette gli rimane
dentro un vuoto che fino a quel momento non avvertiva, e
che è più amaro delle amarezze che conteneva135.
Piano piano affluiscono nella stanza da pranzo i componenti della
famiglia, chiedendo informazioni sulla salute di Rosa e sdrammatizzando i
131 Ivi, did., p. 455.
132 Ivi, p. 456.
133 Ivi, did., p. 456.
134 Ivi, p. 459.
135 Ibidem.
187
fatti del giorno precedente. Quando Giulianella dice, citando zio Raffaele,
che la loro «è una famiglia da teatro comico napoletano», Peppino
indispettito richiama la figlia alla serietà di ciò che è accaduto. Proprio la
figlia riporta il padre alla giusta prospettiva e centra il problema della
mancata comunicazione dei genitori.
GIULIANELLA. Papà, scusa se te lo dico, ma è la verità. Tu e
mammà state diventando davvero ridicoli, tu per conto tuo
e lei per conto suo. [...] Ma è mai possibile che non capite
come vi dovete comportare per non farvi il sangue cattivo
e per conservare il rispetto l’uno per l’altra? [...] Ma
perché non vi dite le cose non appena succedono? State
insieme da tanti anni e non avete saputo raggiungere
un’intimità che vi possa permettere di dire pane al pane e
vino al vino, l’uno con l’altra? Quando vi chiudete in
camera per delle ore intere... io li conosco i vostri discorsi,
perché quando ero piccola mi mettevo dietro la porta a
sentire; adesso non lo faccio più perché mi sono scocciata
di sentire sempre le stesse cose; vi raccontate i sogni che
vi siete fatti, le malattie che vi sentite e «tu non vuoi
mangiare questo e io voglio mangiare quello», pigliate a
pretesto un motivo qualunque per litigare e il dito sulla
piaga nessuno di voi due lo vuole mettere. Poi mi devo
sentire gli sfoghi di mammà quando tu non ci sei e che tu
sei un egoista e che non riconosci i sacrifici che fa lei, e
che tu sopra e che tu sotto... e zia Memé quelli tuoi quando
non c’è lei136.
Finalmente Giulianella svela il motivo per cui la madre è in collera con
lui, quel “rospo” che Rosa non ha voluto tirar fuori. Quattro mesi prima,
136 Ivi, pp. 465466.
188
ospitati a pranzo da Roberto e Maria Carolina, Peppino fece i complimenti
alla nuora per i maccheroni da lei preparati: «Mammà tornò come una
diavola quella sera»137.
Peppino comprende finalmente le conseguenze di una mancata
comunicazione fra marito e moglie – e non solo. Chiama il figlio Rocco e
lo avverte che parteciperà con gioia all’inaugurazione del suo nuovo
negozio. Fa chiamare il ragionier Ianniello, che ora «ha perduto
completamente la spontanea invadenza e la caparbia euforia che egli,
inconsapevole, scambiava per qualità positive e indispensabili ad un uomo
il cui obiettivo è quello di rendersi estremamente simpatico agli amici»138;
Peppino si scusa con lui e lo invita di nuovo a pranzo per la domenica
successiva. Ora arriva il momento più difficile, deve finire di tirar fuori “il
rospo” con la moglie. Inizia spiegando il suo atteggiamento nei confronti
del ragioniere:
PEPPINO. Ma come, io sono privo di raccontare un fatto che
mi interrompi continuamente [...]... e quando parla il
ragioniere stai tutta orecchi e non ti sfugge una parola?
Quanto racconta una barzelletta stupida, lui, tu ti fai un
sacco di risate, se la racconto io, nove volte su dieci o dici:
«Scusa, non ho capito... stavo distratta» o dici: «Si, si, la
sapevo; l’ha raccontata l’altra sera Rocco».
ROSA. Embè, tu dici che si deve raggiungere l’intimità fra
di noi e poi ti dispiace che io mi alzo e me ne vado mentre
tu stai parlando? Il ragioniere è una persona estranea, si
capisce che quando parla uno deve mettere attenzione a
quello che dice139.
137 Ivi, p. 466.
138 Ivi, did., p. 469.
139 Ivi, p. 477.
189
Peppino lamenta che per questa “intimità” da quattro mesi viene
“trattato come un servitore”, ma quando vede che la moglie non vuole
spiegarne la ragione, che lui conosce, non insiste. Però le chiede
spiegazioni circa l’enigmatica frase del giorno prima – «Robe’ io e te
siamo vivi per miracolo» – e lei gli ricorda di quando, giovani, lui fidanzato
con una vedova “faceva l’amore” con Rosa; quando, in un primo momento,
aveva deciso di lasciarla, lei non aveva replicato, ma ammette solo ora che
già allora era incinta di Roberto, e lo aveva taciuto perché: «tu mi avresti
sposata solo perché avevamo fatto un figlio»140. Finalmente
i due si guardano lungamente negli occhi e scoprono per
la prima volta la vera natura dell’amore che li ha tenuti
legati per tanti anni. Hanno insomma finalmente capito il
motivo per cui due persone che vivono insieme si
tormentano in un’ansia fatta di bene, di male, di dubbi e
perfino di disistima e rancori reciproci141.
Infine Peppino chiede a Rosa: «Tengo nu desiderio. [...] Mi devi fare un
bel ruoto di maccheroni al forno, alla siciliana, con le melanzane», lo stesso
piatto che quattro mesi prima aveva lodato a Maria Carolina. Adesso
invece sostiene: «vuoi mettere i maccheroni alla siciliana che fai tu e quelli
che fa Maria Carolina?»142.
140 Ivi, p. 482.
141 Ivi, did., p. 482.
142 Ivi, p. 483.
190
II.4 Mia famiglia
4.1 Sinossi
La trama è sviluppata sulle vicende di una famiglia altoborghese
napoletana, la scena si svolge in casa Stigliano. Alberto, il pater familias, si
sente esautorato e per questo non si assume le sue responsabilità,
intessendo una relazione con un’altra donna. Sua moglie Elena trascura la
casa dedicandosi solamente al giuoco con le amiche del circolo. Il figlio
Beppe, giovane arrivista, è entrato in contrasto col padre per aver rifiutato
la proposta di un posto di lavoro alla radio: incitato dall’amico Guidone
progetta di sfondare nel cinema, e riesce a farsi scritturare per un film a
Parigi. La figlia Rosaria, che si distingue «per l’atteggiamento spigliato e
moderno»143, in passato ha avuto una relazione con un uomo più grande di
lei, con il quale ha diviso il tetto e – pare – il letto, prima di essere lasciata;
è fidanzata con Corrado Cuoco, che sembra accettare in nome del suo
carattere spavaldamente modernista il passato di Rosaria, pur
dispensandole “schiaffoni” dai quali trapela qualcosa di represso. Alberto
ha anche un fratello, Arturo, nostalgico ex militante fascista che vive per
suo conto e vede come soluzione ai problemi familiari l’imposizione e la
rettitudine. Fra gli altri personaggi di contorno (la cameriera, le amiche di
Elena del circolo, il giornalista e il fotoreporter, i vicini di casa...) spiccano
i signori Cuoco, Michele e Carmela, genitori di Corrado: la loro figura di
genitori si contrappone a quella degli Stigliano, come vedremo nell’analisi
143 Eduardo DE FILIPPO, Mia famiglia, in Cantata dei giorni dispari, vol. II, Torino, Einaudi, 1998, p.
55. (D’ora in avanti le citazioni al testo in esame faranno sempre riferimento a questa edizione).
L’osservazione è di un personaggio esterno, un giornalista, che indovina il suo carattere da una
fotografia.
191
della commedia.
Il primo atto si apre su Beppe che, con l’amico Guidone, ride alle spalle
del padre, ignaro della sua imminente partenza per Parigi. Nel frattempo
arrivano Corrado e Rosaria, portando in scena la loro relazione disinvolta e
moderna. Alberto, rientrato in casa sua, non degna nemmeno di uno
sguardo i figli, e amareggiato constata la presenza in casa sua di Guidone.
Scontroso verso tutti, porta i figli e Guidone a uscire, uno dopo l’altro,
lasciandolo solo con Corrado.
Anche il futuro genero non è stimato da Alberto, ma gli è simpatico; dal
dialogo fra i due emerge che anche a lui era stato offerto il posto di lavoro
rifiutato da Beppe, e anche lui lo aveva rifiutato. Amareggiato per
l’atteggiamento di Corrado che se da un lato si mostra tanto “moderno” da
accettare il passato di Rosaria, dall’altro si mostra con lei manesco ad ogni
occasione, Alberto riesce a far uscire di scena anche lui.
Dopo poco arriva Arturo, il fratello, che lo incita a risollevare le sorti
della famiglia con autorità e fermezza, e soprattutto gli rimprovera il
“cattivo esempio” dato con la sua relazione adulterina: Alberto risponde
che trovandosi impotente di fronte a quello che succede non può fare altro
che aspettare l’evolversi degli eventi. E questi precipitano quando torna a
casa la moglie, Elena, che, dopo essersi mostrata inacidita e insofferente di
tutto quello che la circonda, riceve la visita delle “amiche del circolo”;
queste tre donne vengono a chiedere conto di un grosso debito di gioco
contratto da Elena mesi prima, in seguito al quale non si è più fatta vedere.
Alberto assicura alle tre signore che provvederà egli stesso al pagamento
degli oneri della moglie e rimasto solo con lei viene a sapere che ha perso
una cifra esorbitante: novecentocinquantamila lire. La situazione è più
grave di quanto Alberto pensasse e, per il dispiacere, non riesce più a
parlare. Cala il sipario sul primo atto.
192
Nel secondo atto la situazione cambia notevolmente, ma solo per alcuni
aspetti. Sono passati quattro mesi e Alberto, speaker radiofonico, non ha
più potuto lavorare. Per questo motivo Elena si è ingegnata ed è riuscita
con duro lavoro a mettere su una piccola attività di sartoria. Veniamo a
sapere che Beppe nel frattempo è partito per Parigi, subito dopo l’inizio
della malattia del padre.
Elena riceve in casa la visita improvvisa di un giornalista, che si
professa un inviato di una rivista di moda, interessato alle attività della
“donna che lavora”; ma intanto chiede foto dei figli, soprattutto di Beppe, e
prima di andarsene si informa presso la cameriera circa i movimenti della
famiglia Stigliano.
Alberto, tornato dal medico, entra in scena per pochi momenti
rispondendo a gesti alla moglie che si interessa del suo stato. Uscito di
scena, Elena sente bussare alla porta, e nell’aprire si trova inaspettatamente
davanti il figlio che, agitatissimo, viene raggiunto da Corrado e Rosaria: dal
dialogo di questi si evince che Beppe è ricercato dalla polizia. Infatti
mentre era a Parigi il produttore del film, che lo ospitava, è stato
assassinato e lui, spaventato, è scappato per paura di essere coinvolto.
Alberto durante il dialogo è silenziosamente entrato in scena e telefona alla
polizia. Tutti stupiti si accorgono che Alberto ha ripreso la parola, per poi
scoprire che non l’aveva mai persa, ma si era visto costretto ad isolarsi
smettendo di parlare, perché inascoltato. Nell’attesa della polizia viene a
sapere della presenza del giornalista, intuendone le intenzione
scandalistiche. Inizia una dura requisitoria contro la sua famiglia,
imputando alla moglie la responsabilità di quello che è successo, e
rinfacciando al figlio che la sua ricerca di “indipendenza” ha finito per
coinvolgere tutta la famiglia. L’atto si chiude tra i flash dei fotografi che
riescono a intrufolarsi in casa Stigliano per preparare la cronaca del giorno
193
successivo.
Il sipario si leva stavolta su due personaggi nuovi, Michele e Carmela
Cuoco, genitori di Corrado. Si viene a sapere che questi sono venuti di
nascosto per le nozze del figlio, il quale li ha apertamente invitati a non
presentarsi. In Michele Cuoco, uomo semplice dotato di una saggezza
contadina, si scopre una figura paterna in netta antitesi con quella di
Alberto. Quando stanno per partire, un altro colpo di scena porta in casa
Rosaria tirata per un braccio da Corrado. Pentitosi del matrimonio,
quest’ultimo vuol tirarsi indietro e ha riportato dai genitori la moglie.
Questa, in lacrime, chiede di parlare da sola col padre, e gli racconta di
come la perdita della sua dote (la verginità) fosse tutta una montatura per
mostrarsi all’altezza dei giudizi della società “giovane e moderna”.
Riscattatasi agli occhi del padre, questo la abbraccia e la tranquillizza:
parlerà lui con Corrado, e sicuramente anche l’atteggiamento manesco del
marito muterà.
Elena invece parlando con Arturo lo inviterà a trasferirsi da loro, per
tenerle compagnia ora che il marito è definitivamente andato a vivere da
quell’altra donna. La commedia si chiude su Alberto che, uscendo,
rassicura la moglie, con uno sguardo, che presto tornerà alla sua casa.
4.2 Storia della commedia
Mia famiglia è una commedia che Eduardo porta a termine alla fine del
1954. Poche settimane dopo, il 16 gennaio 1955, debutta al Teatro
Morlacchi di Perugia; poi viene portata al Teatro Eliseo di Roma il 18
gennaio. Annunciata a Venezia l’estate del 1950, l’opera entrò in
preparazione l’autunno seguente. In un’intervista a Silvio d’Amico del
194
1951 Eduardo già descrive uno dei temi della commedia:
«l’incomprensione dell’uomo, l’uomo d’oggi, verso la sua compagna. Lui
continua a chiederle di essere quella che sua madre fu per suo padre»; e
vede in questo un problema «tipico dei nostri paesi»144. La commedia, che
non incontra il gusto della critica né quello del pubblico, viene replicata da
Eduardo145 solo due volte: il 7 marzo del 1955 al Teatro Odeon di Milano e
il 10 maggio dello stesso anno al San Ferdinando di Napoli, oltre
all’edizione televisiva del 1964.
Il testo sarà edito la prima volta da Einaudi nel 1956; due anni dopo
viene pubblicata dagli stessi tipi nel secondo volume della Cantata dei
giorni dispari (prima edizione); non presenta varianti nelle successive
ristampe della Cantata. Ne I capolavori di Eduardo la commedia è
presente già dal 1973 (prima edizione).
La lunga gestazione della commedia è data dai notevoli cambiamenti
apportati, come si vede dal confronto fra la prima stesura, i vari copioni e
l’edizione a stampa. Nel primo atto la maggiore variante è data dall’assenza
di Arturo, il fratello del protagonista, e conseguentemente manca la scena
del dialogo fra i due sul “disordine” della famiglia di Alberto. Il secondo
atto inizialmente mancava della prima scena tra Corrado e Rosaria,
rappresentativa del loro rapporto. Il mutismo di Alberto, inoltre, veniva
interrotto da uno sfogo col giornalista Bugli, e nello stesso emergeva come
tale artificio fosse all’inizio un’effettiva reazione psicologica al trauma del
primo atto (mentre nell’edizione a stampa questo non è definito). Nel terzo
atto, quello maggiormente modificato, viene dato un rilievo di gran lunga
maggiore al personaggio di Michele Cuoco, che si intrattiene in una
144 Silvio D’AMICO, «Il Tempo», 3 gennaio 1951.
145 All’estero invece avrà maggiore fortuna. Lo si evince anche da un articolo di Enzo Biagi, che
riporta: «nell’Urss, quaranta compagnie rappresentano contemporaneamente Mia Famiglia». Enzo
BIAGI, La dinastia dei fratelli De Filippo, «La Stampa», Torino, 5 aprile 1959.
195
discussione sulla sua passione per la ceramica. Inoltre al posto della scena
di Corrado che irrompe in casa “riportando” la figlia ai suoceri, Rosaria
originariamente entrava in scena da sola, piangendo, affermando di essere
stata picchiata dal marito. Dopo la discussione col padre, questi usciva e
rientrava poco dopo con Corrado che pubblicamente si scusava per il suo
comportamento. Infine nel momento finale della commedia, quando
Alberto ed Elena si salutano, lei lo invita a tornare e lui, con un breve
cenno del capo che vuole significare un promettente «sì» (III, did., p. 81),
esce di scena. Nelle versioni precedenti invece Alberto la rassicurava con
un reiterato «sì, sì, sì...»146.
4.3 Fortuna scenica della commedia
Questa commedia «dell’incomunicabilità»147 sarà una delle più
aspramente criticate, tacciata di moralismo e accusata di rappresentare «una
famigliola come tante»148. Secondo Nicola Chiaromonte Eduardo, «nella
lotta di un grande attor comico con se stesso per attingere alla serietà»,
fallisce nel suo intento; egli infatti sarebbe «rimasto vittima dell’illusione
che, eliminando il comico, automaticamente si rivelasse la profondità della
sua tristezza»149. Una netta stroncatura viene da Federico Zardi, che
definisce la commedia «un enorme tonfo»; addirittura «nel secondo atto
146 Mia Famiglia, manoscritto del Gabinetto Viesseux, parzialmente riportato in Appendice a Mia
famiglia, a cura di Paola QUARENGHI, in Cantata dei giorni dispari, vol. I, Milano, Mondadori, 2005,
pp. 14831504.
147 Carlo FILOSA, Eduardo De Filippo. Poeta comico del «tragico quotidiano», Napoli, La Nuova
Cultura, 1978, pp. 3031.
148 Mario STEFANILE, Mia famiglia, «Il Mattino», 11 maggio 1955.
149 Nicola CHIAROMONTE, Mia famiglia, «Il Mondo», 1° febbraio 1955.
196
Eduardo viola il teatro»150. Una commedia «brontolona» e «moralista»,
questa, secondo Anton Giulio Bragaglia151.
Poche invece le critiche positive: ne citiamo alcune. Una «commedia
validissima, ricca di umanità e di vigore», secondo Cavacchioli152. Per
Lucignani l’opera è addirittura «uno dei pezzi migliori del nostro teatro»153.
Positiva anche la critica di Eligio Possenti:
Come autore, non era per lui facile superare i lavori
precedenti, e dobbiamo notare che ha saputo tenersi alla
pari con essi per la sincerità della psicologia, la pensosità
delle battute e la felicità di certi passaggi che danno ai tre
atti un’animazione che non varca mai limiti di un’abilità
sorvegliata ed esperta. E oltre tutto il De Filippo ha scritto
una commedia necessaria. Richiamare le eterne norme nel
viver sano è oggidì un ardimento. Il De Filippo l’ha avuto,
senza rispetti umani, apertamente, lealmente, convinto
della tempestività della sua commedia in questi anni
sconnessi, incerti, in cui tutti cercano un appoggio, una
soluzione, una bussola. [...]
Eduardo De Filippo si aggiunge, con la originalità e la
forza persuasiva della arte sua, alla schiera degli autori
nostrani e stranieri che, preoccupati dell’avvenire delle
generazioni, hanno tratto argomento dall’osservazione
della vita d’oggi154.
Comunque Eduardo si dichiarò incompreso e in diverse occasioni
150 Federico ZARDI, «Cronache», 1° febbraio 1955, cit. in Paola QUARENGHI, Nota storicoteatrale a
Mia famiglia cit., pp. 13491350.
151 Anton Giulio BRAGAGLIA, Un eccellente padre di famiglia, «Film d’Oggi», 27 gennaio 1955.
152 Luigi CAVACCHIOLI, «Oggi», 3 febbraio 1955.
153 Luciano LUCIGNANI, La famiglia di Eduardo, «Vie Nuove», 6 febbraio 1955.
154 Eligio POSSENTI, «Corriere della Sera», 8 marzo 1955.
197
accusò la critica: «hanno raccontato il fatto e il fatto in Mia famiglia non è
importante»155. Nella presentazione all’edizione televisiva spiegò le
intenzioni della sua critica:
Presento una famiglia che si sbanda; naturalmente io devo
presentare i difetti per poi trarre delle conclusioni e dare
un costrutto alla fine del terzo atto. A me sembra che ci sia
riuscito. Qualcuno potrà pensare che io sia contro l’istituto
del matrimonio... per carità. Anzi in tutte le mie commedie
ho speso sempre qualche parola in favore della famiglia156.
4.4 Analisi della commedia
«Alla base del famigliarismo scenico del nostro autore», sostiene
Barsotti, «c’è la convinzione che i problemi individuali e sociali sono il
riflesso di quelli domestici [...]. Il punto d’osservazione interno consente al
teatro di Eduardo di rispecchiare anche il modo di vivere esterno»157. Infatti
questa commedia porta in scena la crisi della famiglia come metafora della
crisi della società. E se il rappresentante della prima è il protagonista
Alberto Stigliano, la seconda trova il suo referente nel fratello di questi,
Arturo Stigliano: ad ogni modo, entrambi sono colpevoli di non aver saputo
reagire, come vedremo, alla relativa crisi, se non chiudendosi nelle loro
ragioni (o presunte tali).
L’ambientazione di Mia famiglia è la stessa per tutti e tre gli atti: «una
155 Eduardo DE FILIPPO, «Sipario», n. 119, marzo 1956.
156 Presentazione alla ripresa televisiva di Mia famiglia, 1964, ora in Eduardo racconta Eduardo,
VHS allegato, Torino, Einaudi, 2003. Trascrizione nostra.
157 Anna BARSOTTI, Eduardo drammaturgo cit., p. 65.
198
stanza di passaggio che divide tutti gli ambienti dell’appartamento» (I,
did., p. 21). Come osserva la Barsotti, «l’unità di luogo dei testi eduardiani
che hanno come centro tematico la “famiglia” non è certo la stessa [...] del
Topos scenico e morale dei drammi naturalisti “borghesi”»158; qui gli
oggetti di scena «non fungono solo da corredo scenico, [...] assumono ora
una significanza nell’intreccio drammatico»159. Infatti la scena del primo
atto è così descritta dalla didascalia:
L’arredamento dell’ambiente si riduce a pochi mobili di
un certo buon gusto, mal disposti e mal curati. Qualche
poltrona zoppicante; del sediame malfermo; un telefono
ed un apparecchio radio. Cumuli di giornali
cinematografici, sparsi un po’ da per tutto, completano il
disordine dell’insieme. (I, did., p. 21).
Su questo “campo di battaglia” si trovano in apertura di commedia
Beppe e Guidone: quest’ultimo si mostra subito tanto sensibile160 quanto
trasgressivo:
GUIDONE. [...] Se c’è un tizio che odia le convenzioni
sociali, i luoghi comuni, l’ipocrisia, questo tizio sono
proprio io… [...] Anzi, quando tu hai chiuso gli occhi,
pensando che ti eri addormentato, ho appoggiato la testa
sulla spalliera della poltrona, immergendomi in ipotesi e
fantasticherie spirituali per mio conto (I, p. 22).
Ancora Guidone, parlando con Beppe di Alberto lo definisce «un essere
158 Ivi, p. 307.
159 Ivi, p. 308
160 Già nel 1953, intervistato da Raul Radice, Eduardo disse della commedia in preparazione che
trattava il «tema scottante dell’inversione sessuale». Raul RADICE, «L’Europeo», 22 gennaio 1953.
199
brutale» e aggiunge: «non va d’accordo con te; la moglie, come se non
esistesse; tratta la figlia come se fosse un’estranea… È proprio un bestio»
(I, p. 22). Secondo Guidone del resto la famiglia si forma e cresce sul
«desiderio egoistico dei tuoi genitori, specialmente da parte del padre, di
volerti imporre la propria volontà, i propri gusti e tendenze al solo scopo di
fare di te un doppione di se stessi».
Beppe, dal canto suo, si duole nel constatare che il padre, oltre a non
aver saputo accettare la sua “indipendenza”, pensa che il figlio potrebbe
seguire le sue orme, mentre secondo lui “la vita è cambiata”:
BEPPE. [...] Che ti credi, che si preoccupa di dare uno
sguardo intorno, per vedere con quali mezzi e per quali vie
la gente di oggi riesce a sfondare e vincere? Individui che
nun te putevano pulezza’ nemmeno ’e scarpe, oggi
marciano in automobile e comandano i milioni; con
qualunque arma, buona o cattiva, ricattatoria o disonesta:
sfondano! E i milioni li comandano, e in automobile
marciano. Vittorio Sardelli come ha fatto?
GUIDONE. (con ammirazione). Che cervello!
BEPPE. E l’hanno dovuto salvare. Proprio quelli che sono
stati truffati da lui. Lo hanno dovuto salvare, se no
finivano in galera tutti quanti. E guarda la posizione che
tiene Vittorio Sardelli; riverito e rispettato da tutti! (I, p.
23)
Dopo questo “elogio dell’arrivismo”, comincia con quello
“dell’indipendenza”:
BEPPE. L’accordo fra me e mio padre finì il giorno in cui
gli dissi: “Papà, io e te siamo due cervelli differenti. Ti
ringrazio di avermi messo al mondo… e accontentati che
200
ti dico: ti ringrazio. Ma non mi devi scocciare più. Quello
che farò nella vita dipenderà esclusivamente dalla mia
volontà: me nguaio, m’arruvino, nun aggi’ ’a da’ cunto a
nisciuno”.[...] (borioso conclude) La vita è un dono! E a
me quando me regalano na cosa, io ne faccio chello che
me pare e piace. E poi, il donatore non fu mio padre. Lui,
se mai, funzionò da intermediario (I, p. 23).
Questa scena, con l’ingresso in sequenza dei “giovani”, è
rappresentativa di quel «processo di omologazione culturale che Eduardo
intravede e sembra temere, l’Italia degli anni Cinquanta»161. Anche quando
arriva Corrado, «un tipo di giovane sui ventitré anni, [...] indifferente a
tutto ciò che lo circonda», il suo dialogo con Beppe e Guidone ci mostra
una “gioventù bruciata” che fa sfoggio di un linguaggio insolente e di un
atteggiamento arrogante:
CORRADO. Rosaria?
BEPPE. E chi l’ha vista. Io non so nemmeno se stanotte ha
dormito qua.
GUIDONE. Ieri sera non eravate insieme?
CORRADO. Fino a mezzanotte quasi… (Dopo una breve
pausa, con semplicità) La schiaffeggiai!
BEPPE (con lo stesso tono semplice). Per la strada?
CORRADO. No. Eravamo in casa di Mirella, quella cagna
eternamente in calore… che ieri sera mi fece più schifo del
solito. C’era pure altra gente, ma non mi ricordo di
nessuno. Difficilmente avverto la presenza degli altri (I, p.
26).
161 Paola QUARENGHI, Nota storicoteatrale a Mia famiglia, in Cantata dei giorni dispari, vol. I,
Milano, Mondadori, 2005, pp. 13491350.
201
A completare il quadro162 entra Rosaria, una ragazza ventenne
dall’aspetto «malsano di un ragazzaccio avvizzito, dal volto pallido e
malaticcio», portando tipici oggetti da “contestazione giovanile”: «nella
grande borsa a sacco, di vecchio cuoio, reca due pacchetti di sigarette
americane, due scatole di fiammiferi svedesi e mezzo chilo di noci
sorrentine, incartocciate in un pezzo di giornale. Col braccio sinistro
stringe un fiasco di Chianti» (I, did., p. 28). La giovane viene informata
dell’imminente partenza di Beppe, e anche lei, come Guidone, gli consiglia
di comunicarlo al padre direttamente da Parigi. In quel mentre arriva
Alberto, il «titolare della casa»: «Parla poco, ma in compenso prodiga
cenni del capo e abbozzi di sorrisi, ogni qual volta gli si chiede
d’intervenire in una discussione. Ad osservarlo bene, però, si scorge in
quei cenni ed in quei sorrisi una rassegnazione distaccata da ogni cosa
che gli fu cara e sacra». (I, did., p. 29). Il suo essere distaccato verso i figli
porta nella vicenda un’amarezza che sembra venire da molto lontano,
cresciuta sul terreno fertile di una famiglia dalla quale non si è sentito
compreso. Entrando Alberto non saluta gli altri, così come loro
«ammutoliscono ostili» (I, did., p. 30). Dopo aver parlato alla cameriera si
siede al tavolo e – sempre senza guardare in faccia nessuno – liquida con
battute acide uno ad uno tutti i personaggi. Rimane in scena solo Corrado.
Il rapporto con lui è leggermente più cordiale di quello con i figli: «non
esiste nessuna intesa fra i due, ma un tenue filo di simpatia istintiva, una
lieve affinità d’animo, naturale, sì» (I, did., p. 32). I due iniziano a
dialogare e Corrado rifiuta il posto alla radio offertogli dal suocero, il quale
162 A proposito del sarcasmo di questa ed altre commedie eduardiane Giovanni Calendoli sostiene:
«il commediografo aderisce sentimentalmente soltanto ai personaggi che posseggono un bene
fondamentale, sia pure oltre e contro le forme convenzionali; ma relega inesorabilmente tutti gli altri
nel piccolo inferno dell’inganno sociale, smantella il castelletto delle menzogne dietro le quali essi si
nascondono e li ferisce a sangue con la sua ironia, con il suo scherno, con la sua allegra cattiveria».
Giovanni CALENDOLI, «La Fiera letteraria», Roma, 5 agosto 1956.
202
cerca di riportarlo coi piedi per terra: è meglio un lavoro umile ma onesto
che “l’arte di Michelasso”:
CORRADO. Non mi conviene. Penso ad altro.
ALBERTO. Per esempio?
CORRADO. Come si può dire specificamente qual è il
pensiero migliore […] fra le mille idee che ti vengono in
mente durante il giorno? Vedremo come si mettono le
cose.
ALBERTO. Ma quali, Corra’? Le cose noi le mettiamo a
posto e noi le spostiamo. E non credere che le cose
spostate si possono rimettere a posto per conto loro.
CORRADO. Signor Alberto, non credo che le cose spostate
dagli altri le debba rimettere a posto proprio io.
ALBERTO (bruscamente). Da chi? Mi dici da chi sono state
spostate queste benedette cose?
CORRADO. Io che ne so.
ALBERTO (conclusivo). Da noi. Hai capito, Corra’: da noi!
Da che è nato il mondo l’uomo sposta e l’uomo rimette a
posto le cose. Tu mi dirai: “Ma allora fa l’arte dei pazzi”.
E io ti rispondo: “Meglio fare l’arte dei pazzi che quella di
Michelasso: mangiare bene e andare a spasso”. (I, pp. 32
33).
Quasi in confidenza, Alberto confessa al giovane la sua amarezza nei
confronti della figlia, rievocando la situazione che portò il rapporto padre
figlia ad un punto di rottura:
ALBERTO. Tu puoi capire con quanta amarezza io te ne
parli… Una figlia che ti costa quello che costa una figlia…
la quale inizia una vita per conto suo. Naturalmente fuoco
e fiamme in famiglia, e previsioni catastrofiche da parte
203
mia… Perché non era difficile prevedere la fine che ha
fatto! Incontra il mascalzone… mascalzone poi perché,
chiunque al suo posto avrebbe fatto lo stesso… E non se
ne vergogna: niente affatto. Quale vergogna? Lo dice a
tutti… se ne fa un vanto, come se avesse commesso un
eroismo. Lo ha detto pure a te. (I, p. 33).
Non riesce a capacitarsi di come Rosaria abbia potuto contravvenire ad
un dictat morale così ingenuamente, e senza neanche prendere in
considerazione l’ipotesi che lei possa avere un codice etico differente dal
suo, carica il comportamento della figlia di un significato altro, quello di
una sfida, di uno sfoggio; e sembra quasi voler salvare il futuro marito, il
quale invece si mostra indifferente (ma non lo è, come si scopre in seguito).
Alberto ancora una volta scambia l’indifferenza del futuro genero per
rassegnato disprezzo verso il genere femminile:
CORRADO. Ma non m’interessa. Lo volete capire si o no?
Quello che ha fatto Rosaria per il passato riguarda
solamente lei.
ALBERTO. Già, tu non salvi nemmeno l’uno per mille delle
donne.
CORRADO. Vi sbagliate. Io voglio salvarle nella piena
totalità. Io, la donna, la metto su di un altro piano. Credete
a me: la verginella a diciotto carati non esiste più. Ma
fatemi il piacere, signor Alberto, noi viviamo i tempi del
cellophan, della televisione, del nylon, dell’atomica, dei
dischi volanti… Non possiamo pretendere di andare in
giro con il campanello della parrocchia, cercando il
candore, l’innocenza, la verginità, senza fare un bagno di
ridicolo. C’è stata una evoluzione, un riscatto, una messa a
punto. E non mi potete credere in mala fede. Se non fossi
204
convinto di quello che vi dico, non avrei scelto Rosaria per
moglie.
ALBERTO (avverte un senso di disagio che lo scuote, lo
amareggia, ed allora esclama a denti stretti un appena
percettibile). Già. (Un breve silenzio gli basta per
meditare e riprendere l’argomento) Però, scusa,
Corrado… [...] Tu sei manesco. Tu non perdi occasione
per usare le mani, e mi risulta che spesso Rosaria piglia
schiaffoni da te, e quasi sempre per futilissimi motivi…
Allora? Mi dici dove vanno a finire l’evoluzione e il
riscatto, il cellophan e i dischi volanti?
CORRADO. Allora non mi sono spiegato. Quelli non sono
schiaffi, sono prove di considerazione. Lo schiaffo
significa: io ti tratto da pari a pari; ti ritengo all’altezza
mia. […] C’è il pro e il contro; nell’evoluzione e nel
riscatto ci sono pure gli schiaffi.
Nonostante la parodia della rivolta giovanile degli anni Cinquanta che
vede negli “schiaffoni” un passaggio per l’evoluzione e la parità dei sessi,
Alberto, seppure in linea con la mentalità della sua generazione, lotta dalla
parte del torto: dalla stessa parte dell’autore. Infatti se nel terzo atto – come
vedremo – la condizione di personaggio positivo sarà messa in discussione,
non così l’accusa del protagonista (e dietro di esso dell’autore) contro una
morale che vede nel sesso prematrimoniale (da parte della donna,
naturalmente) uno dei fattori della crisi dei valori; in finale di commedia
infatti la figlia si salverà non riuscendo a far accettare il suo sistema di
valori, ma rivelando di non aver mai trasgredito quello del padre.
Altro momento interessante nel primo atto è la scena del protagonista
che si confronta con un terzo sistema di valori, quello di Arturo, che
sembra separato dal fratello da un gap generazionale: «tipico soldato in
205
ritiro» (I, did., p. 35), anche lui vede nella famiglia del fratello «una casa
disordinata» (I, p. 36), ma ne incolpa il mancato capofamiglia:
ARTURO. E se permetti il pazzo principale sei tu. Ma come?
[…] Un uomo come te, che porta in casa quello che porta,
non riesce a far valere la sua autorità?
ALBERTO. E che dovrei fare?
ARTURO. Mostrarti uomo e stringere i freni.
ALBERTO. Ma nun me fa’ ridere, Artu’! Ma perché, tu credi
fermamente che solo la mia famiglia si trovi in queste
condizioni? Qua chi più chi meno tutti cercano di tirare a
campare come meglio possono. Ci sta chi non lo dà a
sembrare e cerca di salvare il salvabile fin quando gli
riesce, e chi arriva con l’acqua alla gola e scoppia. E leggi
la cronaca nera. (I, p. 36).
Ciò che accomuna i due fratelli è la convinzione che le macerie di oggi
vengono dai bombardamenti di ieri: la crisi dei valori risulterebbe da un
codice morale imposto (quello del fascismo) che poi cadendo ha lasciato
una situazione di disordine:
ALBERTO. [...] Perché con il fascismo caddero illusioni,
idoli e miti. E l’umanità, giovani e vecchi compresi, capì
che gli incrollabili e i potenti si reggono in piedi fino a
quando “sono le nove e tutto va bene”. E questo non è
successo solo da noi, ma in tutto il mondo. Allora non
crediamo più a niente, ed ecco che si vive
all’arrembaggio… alla giornata: minuto per minuto. (I,
p.37)
Senza soluzione di continuità, quasi ad indicare un flagello della stessa
206
portata, il protagonista porta sul banco degli imputati quel consumismo
figlio della ricostruzione, del ritorno alla vita, preludio al boom che si
svilupperà nel decennio successivo:
ALBERTO. Artu’, tu che vuo’ sape’, qua nun ce stanno
denari che bastano. Si spende quello che guadagni nel
mese in corso, quello del mese appresso, e quello che forse
guadagnerai. Ed allora noi ci troviamo di fronte a due
specie di disordini: finanziario e morale. La gente non
crede più a niente… Vive alla giornata minuto per minuto.
Tu vuoi stringere il freno a quello finanziario, d’accordo;
ma credi che il freno isolato di un padre di famiglia sia
sufficiente a fermare il disordine morale che è dilagato in
tutto il mondo, che è poi quello che ha determinato il
disordine finanziario? Ecco perché mi sono messo in
finestra, e aspetto. (I, p. 37).
Dunque Alberto imputa il disordine familiare a quello sociale, e non
riuscendo a fare altro sta “in finestra”, e aspetta. Arturo invece riporta
l’uomo di fronte al problema, invitandolo ad assumersi le proprie
responsabilità: egli coltiva infatti apertamente una relazione con un’altra
donna. Ma Alberto, ottuso, ne imputa la colpa all’assenza dei suoi familiari
– senza considerare la possibilità di invertire il rapporto causaeffetto.
Entra in scena Elena, la moglie di Alberto. Il suo personaggio è
multiforme. Nel primo atto è così descritta:
Elena è la signora Stigliano, moglie di Alberto. L’età di
costei si avvicina più ai quaranta che ai trentacinque. Di
salute florida, di aspetto giovanile; le sopracciglia
aggrottate; gli occhi controllati rigorosamente da un’idea
207
testarda, e il mastichio incessante con cui tormenta il lato
destro del labbro inferiore, costituiscono nell’insieme la
smorfia amara e scontenta di un essere inumano che, per
aver rimuginato e sognato di continuo la vendetta, ha
definitivamente elevato le sue sembianze a simbolo della
stessa. Il suo modo di parlare è sempre farraginoso e
vago. Quando ascolta gli altri, capisce male e non chiede
di capire meglio; quando si esprime lei, quasi sempre
tronca a metà il suo discorso, o per pigro disinteresse o
perché via via dimentica soggetto e predicato. (I, did., p.
38).
Alberto, considerando la famiglia ormai perduta, cerca di “salvare il
salvabile”, ovvero il suo matrimonio:
ALBERTO (sinceramente convinto). Bisogna tirare le
somme, Elena. Non è la prima volta che te lo dico. La
casa, come istituzione, è diventata un ricordo; la visione
nostalgica di un racconto fiabesco. Convinciti, la casa non
esiste più. Bisogna fare sforzi incredibili per farla
funzionare in qualche ricorrenza eccezionale, e quando e
se ci riesci, non hai realizzata che la rievocazione di un
fatto storico superato. Ormai siamo rimasti io e te. I figli?
Fanno la loro vita. Vendiamo questi quattro mobili… ca
nun me fido d’ ’e vede’ cchiu… e pigliamoci un paio di
camere in una pensione, un albergo… (I, pp. 3940).
Elena non raccoglie e devia la discussione raccontando la sua giornata
“lavorativa”: «Possibile che devo pensare a tutto io? Stammatina la cucina
elettrica fulminata […] …e io sono andata in rosticceria. Dalla sarta ci devo
andare? Mi è permesso qualche volta di andarmi a lavare i capelli, o devo
208
puzzare come una mendicante schifosa?»; poi si accende una sigaretta
perché «qua questo ci è rimasto» e continua il suo resoconto: «sono stata a
casa di Teresa Falanga. Mi ha telefonato per rimpiazzare un quarto […].
Dovevo interrompere il giro? Così non mi chiamano più e finisce pure quel
tanto di distrazione innocente che una signora maritata si può concedere»
(I, p. 41).
Ma la distrazione si rivela per niente “innocente” nel momento in cui
fanno la loro “apparizione” le compagne del Circolo:
La signora Fucecchia dalla destra, seguita da altre due
amiche, la signora Muscio e la signora Micillo. Queste tre
donne hanno in comune fra loro lo stesso modo di
parlare, di porgere e gestire. Tutte e tre benestanti, tutte e
tre sposate, tutte e tre appartenenti alla media borghesia.
[...] La Fucecchia è la più anziana, ed è infatti quella che
con ogni artificio cerca di nascondersi gli anni. La
Micillo è giovanissima e bella; ma già presa
nell’ingranaggio del tenore di vita che menano le amiche,
per cui poco si accorge più del privilegio che vanta sulle
altre. La Muscio si avvicina all’età di Elena e della
Fucecchia. L’ingresso di queste tre donne paralizza
l’abituale energia di Elena. Inchiodata su quattro
piastrelle, la donna non fiata, non gestisce; si limita
appena a seguire con lo sguardo le tre amiche, le quali
con passo lento avanzano inesorabili fino a schierarsi in
atto di sfida di fronte a lei. Alberto stupito segue la scena
con curiosità. E la Fucecchia, più pratica di vertenze del
genere, rompe l’incanto. (I, did., p. 42).
Questo “schieramento” rivela il motivo della sua “calata”: Elena ha
contratto un debito di gioco e da allora si è dileguata. Alberto risolve la
209
situazione promettendo alle tre che il giorno seguente manderà i soldi che
spettano loro. Rimasto solo con Elena scopre l’ammontare del debito. Dopo
un attimo di sbigottimento, deciso a mettere la moglie davanti alle sue
responsabilità, si accorge che nemmeno lei potrà saldare il debito, trovando
al posto dei suoi gioielli delle polizze di pignoramento. La moglie si
abbandona a un pianto dirotto invocando pietà e Alberto, il quale sente
definitivamente che la situazione gli è sfuggita di mano, tenta di reagire:
ALBERTO (più irritato che commosso, reagisce al pianto di
lei con uno scatto rabbioso, come se imprecasse contro se
stesso). Presentati al mondo chiudendoti nello stomaco
tutta la bile e il veleno che te ne viene da tutto quello che,
con sacrifici e rinunce, hai creato con le tue mani, e che
pensavi ti dovesse dare in cambio soltanto gioia. La
casa… i figli… la famiglia… (Ora è preso da una
disperazione intima, cattiva e inesternabile che lo
costringe a comprimersi le mani sul volto, come per
contenere lo scoppio dei tessuti) Ma che ho creduto io? E
chi me l’ha fatto credere? Perché ho insistito nel credere?
(E se ne va in camera da letto). (I, p. 47).
A questo punto accade qualcosa di interessante, quasi in sordina, una
didascalia di tre righe indica una metafora: quella dei figli che, davanti
all’handicap comunicativo dei genitori, cercano punti di riferimento
all’esterno del contesto familiare:
Rosaria entra dalla sinistra, come se non la riguardasse
quello che è accaduto, e che, evidentemente, ha udito
dalla sua camera; attraversa la stanza ed esce silenziosa
dalla porta d’ingresso. (I, did., p. 47).
210
Infine Alberto, come reazione a una situazione più grande di lui,
davanti alla quale “non ci sono parole”, implode nel mutismo. Elena solo
adesso, innanzi alla tragedia, ritrova le energie e subisce una metamorfosi,
trasformando quella donna stanca che si trascinava dalla sarta al
parrucchiere al tavolo da gioco nella moglie disperata che muove in
soccorso al marito «con tono energico» e corre «svelta e tutta presa dalla
gravità del momento», impartendo disposizioni alla cameriera. In chiusura
d’atto Elena «senza perdersi d’animo, e con vigore sconosciuto fino a quel
momento anche a se stessa, si avvicina ai due materassi e li trascina verso
la camera da letto» (I, did., p. 48).
Il mutismo di Alberto è stato interpretato in modi diversi. Secondo
Gennaro Magliulo il protagonista «inutilmente ha tentato di comunicare
con gli altri: è impossibile», perché «ognuno deve trovarsi di fronte alla
propria realtà»; «Alberto dovrà farsi da parte, ognuno è solo, ma deve
anche essere solo», poiché «in se stesso è la sua salvezza»163. Per Federico
Frascani Alberto «perde la parola o meglio, finge di perderla […] perché
ritiene opportuno farsi credere muto in una casa dove la sua voce, la voce
del buon senso, resta inascoltata»164. Questo mutismo sarebbe secondo la
Barsotti «il silenzio metaforico – in cui egli si era già chiuso nei confronti
dei famigliari e di tutto quanto il presente – [che] si letteralizza, diventa
reale»165.
Nel secondo atto assistiamo ad una trasformazione. Il tavolo da pranzo
è stato spostato per lasciar posto a «sei macchine da cucire che figurano,
allineate a poca distanza l’una dall’altra, come in un vero e proprio
laboratorio» (II, did., p. 49). Si tratta della nuova attività che Elena ha
messo in piedi per sostituire le entrate che l’indisposizione del marito ha
163 Gennaro MAGLIULO, Eduardo De Filippo, Bologna, Cappelli, 1959, p. 75.
164 Federico FRASCANI, Napoli amara di Eduardo De Filippo, Firenze, Parenti, 1958, p. 84.
165 Anna BARSOTTI, La drammaturgia di Eduardo De Filippo cit., p. 53.
211
fatto mancare. Essa ha reagito guadagnandosi uno spazio di indipendenza.
«’A signora mia, quando il marito parlava, non alzava una sedia da qua a
là» (II, p. 52) dirà la cameriera166 poco dopo a un giornalista. Ma il suo
riscatto si inserisce nel contesto della commedia come alternativa alla
sterile denuncia della crisi della famiglia. Quello che Eduardo sembra
presagire167 è una possibile soluzione al problema: l’evoluzione
dell’istituzione. Anche il rapporto col marito è cambiato. Ora che non
parla, la sua voce gli manca:
ELENA (al marito). E sei stato dal medico? (Alberto
accenna di sì). E ti ha dato buone speranza? (Alberto c.s.).
Non per niente. Grazie a Dio il lavoro mio va bene, e non
ci manca il pane... ma per scambiare quattro chiacchiere
regolarmente, per sentire un tuo parere su questo o su
quello argomento. E poi, mi credi? Io ’a voce toia nun m’
’a ricordo. Sarà un fenomeno strano; ma ho l’impressione
che quando tu parlavi, io nun sentevo niente. (Alberto
annuisce ironicamente). (II, pp. 5758).
Dopo un breve dialogo fra Maria Rosaria e Corrado, che delinea
ulteriormente il loro rapporto all’insegna della comunicazione mancata,
irrompe nella stanza il giornalista Bugli: costui si dichiara un reporter della
rivista «Donna d’oggi» che sta conducendo un’inchiesta sull’attività della
donna moderna – in realtà raccoglie informazioni sulla famiglia Stigliano
per lo scoop che comparirà sui giornali il giorno successivo. Nel mentre
166 Maria è una tipica figura che discende dalla tradizione della commedia dell’arte, quella del “servo
sciocco” (presente in molte commedie eduardiane), spalla del protagonista (in questo caso della
deuteragonista) che non perde occasione per dire spudoratamente la verità.
167 «Il mio è finito col diventare un discorso profetico: nelle commedie ho trattato una verità che è
diventata verosimile... Credo che in questo senso del futuro sia il compito dello scrittore». Eduardo DE
FILIPPO, «Il Giornale d’Italia», 19 maggio 1981.
212
entra Arturo, constatando con amarezza un ribaltamento dei valori che vede
la stampa interessarsi più allo Stigliano attore che allo Stigliano
“combattente di guerra”.
BUGLI. Siete lo zio di Beppe Stigliano? Bravo.
ARTURO (con amaezza). A servirvi. (Ed esclama come per
sottolineare una dura constatazione) S’è avutato ’o
canisto.
BUGLI (che non l’ha compreso). Come?
ARTURO. Il cesto si è capovolto! Il mondo è una caccavella
di fagioli. Sapete come fanno i fagioli, nella pila, quando
bollono? Quelli di sotto arrivano sopra, e quelli di sopra
vanno a finire sotto. La stampa non mi conosce perché
sono Arturo Stigliano, combattente dell’altra guerra, ardito
nel Battaglione d’assalto “I fulminanti”, ferito in battaglia
alla gamba sinistra e promosso sergente sul campo, per
merito di guerra… no; ma perché sono lo zio di Beppe
Stigliano, attore cinematografico in voga, pagato con fior
di quattrini e colpi di obiettivo che ne proiettano le
sembianze in tutto il mondo… In altri termini: mio nipote
è il fagiolo di sopra, e io il fagiolo di sotto. (II, p. 55).
Il momento della “catastrofe” arriva poco dopo che il giornalista è
uscito, con l’entrata di Beppe, fuggito dal luogo dove è stato ucciso il
regista che lo ospitava. Alberto entra in scena e inizia la scena madre, la
peripezia del capofamiglia che riprende la parola e la sua autorità
innanzitutto con un richiamo all’ordine, telefonando alla polizia: «se sei
innocente che paura hai?» dice al figlio come per invitarlo ad affidarsi nelle
mani dell’autorità giudiziaria, là dove sente che ha fallito l’autorità paterna.
ALBERTO. […] Voglio dire tutto quello che non ho detto in
213
tanti anni, e forse per non averlo detto, ci troviamo in
questa situazione. Già, che fa, che fa che ci troviamo così
combinati? Ci sentiamo uniti, legati fra noi? Esiste forse
un vincolo che ci accomuna nella buona e nella cattiva
sorte? (II, p. 61).
L’autocritica però dura poco, e non è incentrata sul non aver cercato
una via di comunicazione con la famiglia, bensì sul non aver perseguito
fino in fondo quello che secondo lui era il suo ruolo. Infatti dopo aver
rinfacciato al figlio la sua fallita indipendenza («Hai capito? Sei rimasto
con le mani dentro? Ti sei reso conto che quando in famiglia c’è uno che
cade, si trascina appresso tutti quanti?») scarica la colpa sulla moglie: «io e
te siamo stati in lotta perché tu non volevi la stessa cosa che volevo io».
Mentre per il suo progressivo distacco dalla famiglia (giunto all’estremo
del mutismo simulato) trova giustificazione negli errori degli altri: «se mi
sono disamorato e disinteressato della mia famiglia, una ragione ci sarà
stata. Ho lottato, fin quanto ho potuto, per farti capire che i figli costano
sacrifici e rinunzie; ma poi ho mollato» (II, p. 61). Il figlio cerca di
ribellarsi un’ultima volta all’autorità paterna, ma Alberto lo riporta davanti
alla realtà dei fatti:
BEPPE. Io non volevo arricchirmi illecitamente. Ho scelto
una via come potevo sceglierne un’altra. Volevo
sganciarmi da te per non esserti di peso. Mi sono trovato
implicato in un fatto di sangue che non mi riguarda: ma
questo non significa che l’uomo debba rinunciare
all’indipendenza personale: ognuno è padrone della sua
vita.
ALBERTO. No. Questo lo diciamo quando ci fa comodo.
Perché, se ammettiamo che ognuno di noi, per vivere nel
214
consorzio umano, deve ubbidire ad un autocontrollo delle
proprie azioni, già riconosciamo che l’indipendenza
personale ha dei limiti precisi. Non siamo liberi, non
possiamo disporre egoisticamente della nostra vita. Siamo
agganciati come una catena: una maglia cede, e tutte le
altre appresso. (II, p. 62)
In ultima istanza, la colpa è stata di un mancato accordo tra moglie e
marito («la lotta fra me e te c’è stata e i figli l’hanno avvertita»), che ha
portato inevitabilmente a una destituzione del pater familias, fino a svilirlo,
a farlo dubitare di se stesso e del suo ruolo. Infine la dura requisitoria si
accanisce contro Guidone, elemento esterno alla famiglia (vero
“indipendente” perché «una famiglia non se la potrà mai creare»). È un
duro atto d’accusa verso l’intera categoria che, come ha notato la
Barsotti168, è «al limite della paranoia»:
ALBERTO. Una setta diabolica, che funziona da un capo
all’altro del mondo, ramificando e mettendo radici da per
tutto. S’impongono servendosi dell’Arte per corrompere e
distruggere quel tanto di buono che ci serve a credere nella
vita che dobbiamo vivere giorno per giorno. E si servono
del gusto “raffinato”. Mettono su negozio? E tutti di corsa
al negozio dei “raffinati”. “Non sapete niente? È uscito il
romanzo del “raffinato”. In quella strada, c’è la sartoria
del “raffinato”; in quell’altra c’è il parrucchiere
“raffinato”. (II, p. 63).
A questo punto Elena, inserendosi nel punto di vista del marito, lo
accusa di aver esitato invece di far valere la sua autorità. Ma Alberto si
difende: «un padre di oggi, di fronte alla strafottenza dei figli, o parla o è
168 Anna BARSOTTI, Eduardo drammaturgo cit., p. 332.
215
muto, è ’a stessa cosa». E spiega al figlio il significato della paternità; ma
non prima di aver licenziato la figlia:
ALBERTO. Per te no. Per te non ci sono argomenti da
smaltire. (Indicando Beppe) Lui, dopo una quindicina
d’anni di galera, può rifarsi una vita; tu no! E se te ne vai
mi fai piacere. (Rosaria, intimamente ferita, china il capo
e lentamente si apparta. Intanto Alberto, dopo un silenzio
che gli è servito a mettere un po’ d’ordine nelle sue idee
confuse, riprende il filo del suo discorso interrotto)
Quando sposai tua madre… lei sta qua, lo può dire… ne
parlavamo da fidanzati... [...] Volevo dei figli. E infatti
venisti tu: il maschio! Mi sentii un Dio. E pensai: “Nun
moro cchiù”. Non vedevo più nessuno; non mi occupavo
più di tante cose che mi erano sembrate indispensabili fino
a quel momento. Dicevo: “Tengo nu figlio… che me
mporta d’ ’o riesto!” Mi sentivo felice perché capivo che,
finalmente, potevo riversare su me stesso… perché un
figlio è parte di te stesso… tutto l’affetto che mio padre e
mia madre avevano riversato su di me, evidentemente con
lo stesso sentimento mio. E faticavo, faticavo cu’ na forza
e na capacità di resistenza che facevano meraviglia a me
stesso. “Nun moro cchiu”. Cammenavo p’ ’a strada, e
parlando solo dicevo: “Nun moro cchiu”. Poi venne il
periodo delle malattie; sciocchezze, si capisce, malattie
che tutti i bambini devono avere; ma ogni volta avevo
l’impressione di tornare a casa e di non trovarti più. E vuoi
sapere quali erano i pensieri che mi venivano in mente in
quei momenti? Uno dei pensieri che più mi torturava era
quello che mi faceva credere che se tu morivi la colpa
sarebbe stata mia. Non perché ti avevo fatto mancare
qualche cura o qualche specialista; ma perché pensavo:
216
“L’ho messo io al mondo, la colpa è mia!” Tu capisci,
allora, che un padre, di fronte a un figlio, la responsabilità
se la sente; per quello che deve fare, per come deve vivere
quando sarà grande. Che Iddio mi fulmini se una sola
volta pensai di fare qualche cosa per costringerti a farti
prendere la mia stessa strada, e farti avere il mio stesso
avvenire. (II, pp. 6566; corsivo nostro).
Sul finire dell’atto entrano due agenti di polizia, preceduti da un gruppo
di giornalisti che investono la stanza del flash dei fotografi. Beppe
raggiunge gli agenti mentre Elena è affranta dal dolore e Alberto «si
apparta in un angolo della stanza, coprendosi il volto con le mani» (I, did.,
p. 66).
All’inizio del terzo atto, un anno dopo lo scandalo che ha colpito gli
Stigliano, fanno la loro comparsa i coniugi Cuoco, introducendo un sistema
di valori “altro”. Laddove nel primo atto avevamo assistito allo rovina dei
“giovani” (fra i quali, oltre ai figli, Corrado e Guidone, rientra Elena, la cui
modernità emerge nella sua “indipendenza positiva”) e nel secondo atto al
rinfacciato trionfo dei “vecchi” (classe che comprende l’autorità di Alberto
ma anche quella più esasperata di Arturo)169, ora la dicotomia sembra
spaccarsi, presentando un’autorità alternativa, “morbida”.
È quella di Michele Cuoco, venuto dalla campagna beneventana per
assistere clandestinamente (era stato invitato a non venire) alle nozze del
figlio con Rosaria: egli già anni prima si trovò ad affrontare quello che
Alberto ha affrontato col figlio, ma mentre quest’ultimo ha spiegato la sua
paternità con una visione “introspettiva” («perché un figlio è parte di te»),
il padre di Corrado la spiegò al figlio da un’angolazione “proiettiva”. Dopo
essere scappato con una cavallerizza di un circo equestre, e dopo che
169 Per la distinzione in categorie di personaggi o sistemi di valori cfr. Anna BARSOTTI, Eduardo
drammaturgo cit., pp. 309334.
217
Michele riuscì a riportarlo a casa «venne il periodo più tragico, quanno se
vuleva suicida’!»
MICHELE. [...] Don Albe’, ore intere parlavamo del suicidio,
io e lui, come due pazzi. (Indicando sua moglie) E lei non
sapeva niente. (Ricostruendo una delle tante discussioni
avute col figlio) “Ma perché vuoi morire?” “Ma perché
devo vivere?”, rispondeva lui. “Come, perché? E non
consideri il dolore che ne riceverebbe tua madre, io?” “Va
bene, ma dopo un poco di tempo vi mettete l’anima in
pace tutti e due”. “Vuoi fare un viaggio? Vuoi andare
all’estero per un poco di tempo?” “No, voglio murì’”. “Ma
perché?” (Con un senso di dolore sofferto in quel tempo,
che risente ancora dello smarrimento che provocò in lui
la risposta del figlio) Don Albe’, indovinate che mi
rispose? “Allora mi devi dire che significa la vita e che
significa la morte. Una di queste due spiegazioni mi potrà
chiarire l’altra e allora io nun m’acciro cchiu!” Don Albe’,
io che potevo rispondere? Stavamo fuori al terrazzo, sopra
al parapetto camminava una formica… (Prende dal
portafogli della tasca interna della giacca una bustina di
carta bianca) Guardate, don Albe’. […] La formica.
Questa forse salvò la vita di mio figlio. (Ripigliando il
tono del racconto interrotto) “Corra’, figlio mio, io songo
nu pover’ommo, che ne pozzo sape’?… ’A vita, secondo
me, significa tutto. E dicendo tutto, voglio dicere tutto! ’A
morte nun significa niente, pecche ’a morte nun esiste.
Guarda sta furmica.” E con un fiammifero la stuzzicavo.
[...] “Guarda, se mette paura e scappa pecche vo’ campa’.
Certo, ’a furmicola nun fa tanta ragiunamente che
putimmo fa’ nuie; ma ’a vita ’a capisce, nun capisce ’a
morte. ’A vita è na cosa ca se vede con gli occhi. E se nun
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teniamo gli occhi, pecche’ a furmicola nun ce vede, se
tocca cu’ ’e mane. Perciò ’a furmicola vo’ campa’.
Quando po’ sta furmicola finisce di vivere naturalmente,
nun se mette paura e nun scappa. E pecche? Pecche ’a
morte nun esiste. Se tu ti uccidi, sei tu che rinunzi alla
vita. Allora questo che significa? Che ’o Padreterno ha
creato la vita, e noi abbiamo creato la morte” “E la
speranza nostra qual è?” Allora perdette ’a pazienza e
dicette: “Corra’, si tu nun capisce ch’ ’a speranza mia si
tu, e che ’a speranza toia hann’ ’a essere ’e figlie tuoie, fa
chello che vuo’ tu… Sparati, scannati, menate ’a coppa
abbascio… speranze pe’ te nun ce ne stanno”. (II, pp. 70
71).
Il modo in cui Michele affronta la situazione è più calmo di quello di
Alberto, più sereno, e soprattutto arriva a conclusioni diverse: «un figlio è
parte di te stesso» aveva detto Alberto a Beppe; «’a speranza mia si tu, e
[…] ’a speranza toia hann’ ’a essere ’e figlie tuoie», secondo Michele.
Da un dialogo fra Arturo ed Elena veniamo a sapere che Beppe, uscito
indenne dal processo, adesso lavora alla radio; Alberto invece, da quella
sera, si è trasferito definitivamente a casa dell’altra donna. Quando il
fratello gli chiede: «Albe’, ma non pensi di tornare qua e chiudere
definitivamente la parentesi?» lui risponde netto «Oramai le strade sono
tracciate. Significa che così doveva andare». Arturo, invitato da Elena,
decide di trasferirsi in casa di questa, per farsi reciprocamente compagnia.
In un momento di gratitudine il suo carattere schivo si apre lasciando
intravedere per un attimo un’altra storia, quella di un uomo vittima
dell’incomunicabilità: «Albe’, ho sofferto! E zitto! Sempre zitto! Ho
sbagliato pure io. Mi sono chiuso in corpo tutto quello che, per la cattiveria
degli altri, o per deficienza mia, non lo so… mi è successo nella vita». (III,
219
p. 73)
All’improvviso arrivano Corrado e Rosaria, con un cappottino a coprire
la camicia da notte. La figlia è stata “riportata” dal marito, che solo adesso
si è reso conto di non riuscire a sopportare l’idea che gli altri, gli “amici”,
ridessero alle sue spalle perché «finalmente il fesso era arrivato». Quando a
casa lo ha confidato alla moglie lei, senza comprendere, si è messa a ridere
e lui, ancora una volta, ha reagito con violenza. Ora non è più sicuro di
voler portare questo matrimonio fino in fondo. Uscito di scena, Rosaria
chiede di parlare da sola con il padre. A questo punto il meccanismo
risolutore non risiede nell’accettazione da parte di Corrado di una
situazione, ma in una rivelazione «un po’ da romanzo d’appendice»170:
Rosaria confessa al padre di non aver mai perduto la sua verginità, solo di
averlo simulato per conformarsi all’ambiente delle amiche che altrimenti
avrebbero riso di lei. Il pretesto drammaturgico appare debole e
inizialmente focalizzato sul padre. «Le ferite del suo cuore sono ancora
troppo vive perché egli possa dare giusto valore al sentimento che anima
sua figlia in quel momento». Tuttavia la figlia lo aiuta a capire che non
tutto può essere misurato con lo stesso metro, e che nella sua crescita il
distacco dal padre era un passaggio obbligato:
ROSARIA. Non complicare le cose. Non pensare: questa
cosa è così, mentre invece vuole significare questo e
quest’altro. Perché vuoi confondere momenti con momenti
e fatti con fatti? […] Vedi, papà, se tu sapessi per quanto
tempo ho cercato di risolvere da sola i problemi che mi
riguardavano. E quale, secondo te, poteva essere quello
che più mi stava a cuore, e che mi dava maggiore
pensiero, se non di trovare marito? E tu che cosa avresti
potuto fare, povero papà, per consigliarmi e facilitarmi il
170 Anna BARSOTTI, Eduardo drammaturgo cit., p. 317.
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compito? Che ne sai tu della nostra generazione? E credi
che l’astuzia della tua esperienza poteva essere utile a me
come lo fu a te all’epoca tua? Capii che dovevo fare tutto
da me. E ti pare facile agire da soli senza urtare contro il
modo di vedere e di sentire degli altri? Ecco perché cercai
di essere libera, incontrollata. Sì, per non incontrare i tuoi
occhi che mi rimproveravano ogni passo che facevo. (III,
p. 77).
Poi passa al racconto di una storia di incomprensioni, dove lei si
fingeva altro per incontrare le idee del fidanzato («volevo mettermi
all’altezza delle sue teorie e del suo modo d’intendere la vita di una ragazza
d’oggi [...] e gli raccontai la storia di un errore commesso…»), mentre
Corrado simulava soltanto queste idee, probabilmente perché non accettava
che il suo pensiero fosse uguale a quello del padre. Infine la confessione
della sua conservata verginità. Grazie a questa avviene in Alberto una
mutazione:
ALBERTO (tace. Il racconto di Rosaria lo ha annientato.
Ora guarda la figlia con infinita tenerezza. L’ultima
affermazione di lei lo ha disorientato, trova soltanto la
forza per dire e ripetere). Non capisco, non capisco! (Poi
ci ripensa e afferma) No, invece capisco… Capisco tante
cose. (III, p. 77).
La cameriera comunica che Corrado sta aspettando la moglie sotto casa,
e Alberto, riprendendosi quello spazio tradizionale di cui era stato privato,
«offre il braccio alla figlia, al quale Rosaria si aggrappa con infinito
amore». Quando risale la moglie gli chiede spiegazioni, e lui racconta
l’accaduto:
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ALBERTO. Io stasera non mi sento veleno nel sangue. È
successa una cosa che mi ha messo dentro un’altra volta la
fiducia che avevo prima. [...] Una cosa sublime! Poveri
figli! Tu capisci in quale situazione si trovano i giovani di
oggi… Se vulevano bene, e se mettevano scuorno ’e s’ ’o
dicere. E noi, forse, con il nostro atteggiamento ostile, li
abbiamo disorientati ancora di più. Non bisogna
confondere momenti con momenti e fatti con fatti. La
confusione c’è stata per loro e pure per noi. Ma questo non
ci deve far credere che se n’è caduto ’o munno. Può cadere
una pietra, due… ma ’e muntagne so’ muntagne, e ’o
munno è ’o munno. (III, p. 81).
Questo ritrovato ottimismo sembra spingere Alberto nuovamente verso
la moglie. Sarebbe il trionfo della (vecchia) famiglia. Il finale di questa
commedia vede la soluzione in un ritorno all’Ancien régime, una
restaurazione, piuttosto che un evoluzione: Beppe è andato a lavorare dove
voleva il padre, il che dimostra che la sua non era un’indipendenza
sbagliata, ma che è sbagliata l’indipendenza; Rosaria non ha mai smesso di
credere nei valori della famiglia quali erano quelli del padre, ha solo finto;
Corrado non è riuscito nel suo intento di elevare la figura della donna, e
addirittura il suo essere manesco viene giustificato come “riflusso” di una
forzata trasgressione al padre; perfino Arturo viene “risucchiato” da questo
vortice familiare che lo riporta nella casa del fratello. Gli altri, fuori dal
consorzio familiare, sono visti come “estranei”. «Sempre un’estranea è»
dice Arturo della sua padrona di casa (III, p. 73); «È un’estranea, Albe’»
(III, p.81) sostiene Elena a proposito della sua “rivale”.
L’ultimo tassello lo deve mettere a posto Alberto, che però si mostra
incerto: su questo indugio («Mo vedimmo...»; III, p. 81) si chiude la
222