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Il bilancio.
1) Perché si fa. Dopo tanti studi, e tutti appassionati, dovreste ormai avere imparato che il bilancio d’esercizio
ha, principalmente, questi scopi:
a) evidenziare, riassunta per voci principali, la struttura patrimoniale (impieghi e fonti) che
l’azienda ha alla fine dell’esercizio (= alla fine del periodo di tempo considerato, solitamente al 31/12 di un anno) e
così anche determinare il valore del capitale netto; ciò viene fatto nello “Stato Patrimoniale”.
b) evidenziare, riassunta per voci principali, la struttura economica aziendale (ricavi e costi) che
ha caratterizzato l’azienda nell’esercizio (= nel periodo di tempo considerato, solitamente l’anno); e così anche
determinare il valore del risultato economico dell’esercizio; ciò viene fatto nel “Conto Economico”
Dovreste ormai anche avere capito che il capitale netto e il risultato economico (per i più distratti:
il risultato economico è poi il reddito) sono strettamente correlati fra loro, in quanto il reddito è sia la differenza
fra ricavi e costi del periodo (meglio: fra valore della produzione ottenuta e valore di ciò che si è consumato e perso mentre
si è prodotto [1]), sia la differenza fra il valore finale e il valore iniziale del capitale netto (nell’ipotesi che non
siano stati fatti apporti o prelievi [2]). Il reddito ha questo duplice significato perché se produco beni che
valgono più di ciò che ho usato (distrutto, consumato) per produrli, allora ho immesso nell’universo un valore
– una ricchezza, una capacità di soddisfare bisogni – che prima non esisteva, e questa creazione di
ricchezza viene segnalata dall’incremento di valore dell’azienda produttrice, vale a dire dall’incremento del
suo capitale netto (la frase “nulla si crea e nulla si distrugge” è vera in fisica, non in economia; ciò perché la ricchezza non è una
grandezza materiale, reale, e quindi non è misurabile in modo oggettivo, dipendendo la sua quantità – e cioè il suo valore – dalla psicologia
umana).
Poiché il presente è il frutto di ciò che è accaduto nel passato, il bilancio è il risultato ultimo e
riassuntivo della rilevazione e registrazione di tutti i fatti che sono accaduti in azienda, fatti che sono stati
ordinatamente memorizzati allo scopo di conoscere quale è la situazione aziendale e quale è il percorso che
ha portato a quella situazione, in modo da poter prendere le decisioni più giuste perché, come dice il
saggio, “nulla si può governare (e quindi nemmeno l’azienda) se non lo si conosce”.
[1] A 17 o 18 (19, 20, 21 ecc.) anni, è ormai tempo di superare gli insegnamenti dell’infanzia e quindi non credere più alla cretinata che “il guadagno è uguale al ricavo di vendita meno la spesa d’acquisto”. Il guadagno, inteso come reddito e quindi anche come incremento di ricchezza, non dipende dalle vendite e dagli acquisti, e ancor meno dagli incassi e dai pagamenti.
Se l’AIRPADANIA nel gennaio 2016 inizia l’attività di vettore aereo comprando dei jumbo per 300 milioni di euro e impegnandosi a pagarli fra un anno (o anche pagandoli in contanti), non diventa per questo più povera, bensì trasforma soltanto il suo patrimonio: prima era senza aerei e senza debiti (o con più denaro in cassa) e ora ha aerei e debiti di valore equivalenti e opposti; diventerebbe più povera se i jumbo precipitassero o arrugginissero fermi negli hangar, e questo anche se non avesse pagato ancora l’acquisto. I costi sono il consumo dei fattori produttivi (e l’eventuale perdita dei valori attivi patrimoniali), non sono gli acquisti; (ditelo, a chi vi ha insegnato la corbelleria del guadagno uguale al ricavo di vendita meno la spesa d’acquisto!) Se la Boeing (azienda produttrice di aerei) nel gennaio 2016 vende dei jumbo per 300 milioni di euro all’
AIRPADANIA, non diventa per questo più ricca, bensì trasforma soltanto il suo patrimonio: prima aveva più aerei in
magazzino (prodotti, ipotizziamo, nel 2015) e meno crediti, e ora ha meno scorte di prodotti e più crediti. I 300 milioni di ricavi (di componenti positivi del reddito) li ha ottenuti nel 2015 costruendo gli aerei, e se per costruirli ha utilizzato lavoro, materiali e altri input per 260 milioni allora si è arricchita, nel 2015, di 40 milioni (anche se, come vedremo a
pagina 7, per il principio della prudenza non può evidenziare questo utile nel bilancio del 2015 ma dovrà attendere il 2016). L’elemento positivo del reddito è il valore di ciò che si produce (e l’eventuale incremento di valore dei beni patrimoniali) non le vendite; (riditelo a chi vi ha distorto le idee con la corbelleria di Guadagno = Ricavo vendita – Costo acqisto!)
[2] Reddito del periodo dal 1.1.2016 al 31.12.2016 = C. N.31/12/16 – C. N.1/1/2016 + Prelievi2016 – Apporti2016 . La formula risulta più comprensibile se, cambiando il segno dei termini che spostiamo da una parte all’altra dell’= (come avete imparato in matematica) viene vista in questo modo:
C.N.31/12/16 = C.N.1/1/2016 + Reddito2016 + Apporti2016 – Prelievi2016 . Messa così, la si legge: la ricchezza aziendale alla fine dell’anno è pari alla ricchezza aziendale che c’era all’inizio + la ricchezza creata dall’azienda nell’anno + l’eventuale ricchezza proveniente dall’esterno e immessa in azienda nell’anno (gli apporti) e meno l’eventuale ricchezza estratta dall’azienda durante l’anno (i prelievi).
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2) Perché lo si rende pubblico.
E’ l’esigenza di conoscere, l’esigenza di avere e di dare informazioni, che porta alla redazione
del bilancio. Il bilancio viene redatto dagli amministratori, approvato dall’assemblea dei soci (se l’azienda veste
l’abito giuridico di società) e poi reso pubblico per dare informazioni a chiunque sia interessato, e i soggetti che sono
maggiormente interessati al bilancio sono:
a) i soci (i proprietari dell’azienda), che anche sulla base del bilancio valutano le capacità degli amministratori e, in
assemblea, decidono se conservare o togliere loro l’incarico;
b) lo stato, che anche sulla base del bilancio determina quante imposte l’azienda deve pagare;
c) le banche, che anche sulla base del bilancio stabiliscono quanto credito concedere all’azienda;
d) i fornitori, che anche sulla base del bilancio decidono quanto credito di fornitura concedere al cliente.
Oltre a questi soggetti, possono poi essere interessati a conoscere il bilancio anche:
e) i risparmiatori, per valutare l’opportunità di investire la loro liquidità diventando soci (azionisti, in caso di
azienda con forma giuridica di S.p.A.) oppure creditori (obbligazionisti, la veste più usuale dei finanziatori non aziende di credito) dell’azienda;
f) i dipendenti e i loro sindacati, anche al fine di meglio modulare le pretese salariali;
g) i concorrenti, anche per meglio pianificare la propria attività;
h) i clienti, per valutare l’affidabilità del loro fornitore;
i) i giornalisti, i curiosi e altri rompicoglioni, per le ragioni più varie.
In considerazione del fatto che vi è un interesse generale alla conoscenza dei bilanci, la legge
impone (anche se alle sole società di capitali, perché le società di persone a ancor più le ditte individuali di solito gestiscono aziende di dimensioni minori
e anche perché nelle aziende operanti con la veste giuridica di società di persone o di ditta individuale i debiti aziendali sono “garantiti” anche dal patrimonio
personale dei soci o dell’imprenditore) di renderli pubblici attraverso il loro deposito nel “Registro delle imprese” tenuto
dalla C.C.I.A.A. (camera di commercio, per i pignoli Camera di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura, ente pubblico della cui inutilità tutti,
tranne me e pochi altri, fanno finta di non accorgersi). Al prezzo di pochi euro chiunque può accedere, anche via Internet, ai
bilanci depositati.
3) Un esempio di bilancio “ufficiale” (nel senso di reso pubblico)
E’ evidente che se c’è un bilancio “ufficiale” allora ce n’è anche uno “ufficioso”, e in effetti il
bilancio che si deposita in CCIAA affinché gli interessati possano leggerlo (i soggetti visti prima alle lettere da a) ad i)) è
diverso da quello “interno” conosciuto solo da una ristretta cerchia di persone (in genere gli amministratori, i soci più
importanti e i principali collaboratori, sia dipendenti che autonomi, dell’azienda).
Non dovete, però, subito pensar male: il bilancio “interno” non di rado non differisce da quello
divulgato, nel senso che entrambi non di rado indicano uno stesso utile e un identico capitale netto, e anche
tutti gli altri dati che appaiono in quello depositato trovano conferma nel bilancio “interno”. Ciò non toglie
che quest’ultimo sia diverso perché contiene più dati e più dettagliati, informazioni che la legge non
impone di evidenziare e che quindi l’azienda si guarda bene dall’esporre al pubblico (perché la loro conoscenza da
parte, ad esempio, dei suoi concorrenti la danneggerebbe, come la suddivisione delle vendite per aree geografiche o per canale distributivo, oppure il mark up
(cioè il ricarico sul costo di acquisto) per linea di prodotto ecc.).
Vero è, però, che i dati “ufficiali” sono altrettanto non di rado diversi da quelli “interni”, e questo
capita soprattutto per due diverse ragioni: 1. per pagare meno imposte; 2. per ottenere più facilmente
credito. Quando l’obiettivo è l’1. allora si tende a mostrare ai terzi un’immagine peggiore di quella che si
ritiene di avere realmente, e quindi si sottovaluta l’attivo patrimoniale e si nascondono dei ricavi o ci si
inventa dei costi. Quando invece l’obiettivo è il 2. allora si cerca di gonfiare l’attivo patrimoniale e
conseguentemente nascondere dei costi e/o gonfiare dei ricavi. Nel caso 1. il capitale netto e l’utile
ufficiale saranno minori di quelli che si ritiene corretti, nel caso 2. saranno maggiori.
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Qui sotto vi riporto il bilancio depositato qualche anno fa (è relativo all’esercizio chiuso il 31/12/2009) da
un’azienda che commercia nel settore informatico.
Situazione patrimoniale al 31/12/2009 - attivo - 2009 2008
A) CREDITI V/SOCI PER VERSAM. DOVUTI zero Zero
B I) Immobilizzazioni immateriali
4) Concessioni, licenze e diritti simili 93.659 83.585
fondo ammortamento - 85.520 - 79.526
Concessioni e licenze nette 8.139 4.060
7) Altre immobilizzazioni immateriali 16.205 16.205
fondo ammortamento - 16.205 - 16.205
Altre immob. Immateriali nette - -
B I) Totale immobilizzazioni immateriali 8.139 4.060
B II) Immobilizzazioni materiali
1) Fabbricati 1.292.545 1.292.545
fondo ammortamento - 52.331 - 13.555
Fabbricati netti 1.240.214 1.278.990
2) Impianti e macchinari 71.948 67.084
fondo ammortamento - 64.640 - 62.756
Impianti e macchinari netti 7.308 4.328
3) Attrezzature 1.291 1.291
fondo ammortamento - 1.291 - 1.291
attrezzature nette - -
4) Altri beni 189.008 173.688
fondo ammortamento - 155.968 - 145.773
altri beni netti 33.041 27.915
B II) Totale immobilizzazioni materiali 1.280.562 1.311.232
B III) Immobilizzazioni finanziarie
1a) Partecipazioni in controllate 1 1
1b) Partecipazioni in collegate 495.000 495.000
Altre partecipazioni 29 29
B III) Totale immobilizzazioni finanziarie 495.030 495.030
B) TOTALE IMMOBILIZZAZIONI 1.783.731 1.810.322
C I) Rimanenze
4) Merci 707.064 456.191
C I) Totale rimanenze 707.064 456.191
C II) Crediti
1) Crediti v/clienti 5.139.825 6.025.155
di cui esigibili oltre i 12 mesi - -
fondo svalutazione crediti - 28.276 - 35.000
Crediti v/clienti netti 5.111.549 5.990.155
2) Crediti verso imprese controllate 98.342 154.568
3) Crediti verso imprese collegate 289.349 280.597
4b) Crediti tributari 6.517 6.541
5) Altri crediti < 12 mesi 7.714 3.501
C II) Totale crediti 5.513.470 6.435.362
C IV) Disponibilità liquide
1) Conti correnti bancari e postali 3.646 3.798
2) Assegni - -
3) Cassa 304 247
C IV) Totale disponibilità liquide 3.950 4.045
C) TOTALE ATTIVO CIRCOLANTE 6.224.484 6.895.597
D) Ratei e risconti
a) Ratei attivi
b) Risconti attivi 13.139 12.957
D) TOTALE RATEI E RISCONTI 13.139 12.957
TOTALE ATTIVO (A+B+C+D) 8.021.354 8.718.875
Situazione patrimoniale al 31/12/2009: passivo e netto. 2009 2008
A) Patrimonio netto
I Captale sociale 50.000 50.000
Riserva di rivalutazione DL 185/2008 1.174.112 1.174.112
IV Riserva legale 25.847 25.847
VII Altre riserve 196.189 185.669
di cui per versamenti soci a fondo perduto 121.570 121.570
VIII Perdite portate a nuovo -
IX Risultato dell'esercizio - 30.213 10.520
A) TOTALE PATRIMONIO NETTO 1.415.935 1.446.148
B) TOTALE FONDI PER RISCHI ED ONERI zero Zero
C) Trattamento di fine rapporto
Fondo t.f.r. dipendenti 127.560 96.708
C) TOTALE TRATTAMENTO di FINE RAPPORTO 127.560 96.708
4
D) Debiti 2009 2008
4a) Debiti v/banche < 12 mesi 2.212.534 2.314.772
4b) Debiti v/banche > 12 mesi 336.890 434.759
4) Totale debiti v/banche 2.549.425 2.749.531,26
6) Acconti (anticipi da clienti) - -
7) Debiti v/fornitori 3.669.168 4.126.796
12) Debiti tributari 91.985 143.849
13) Debiti v/istituti previdenziali 27.087 19.010
14) Altri debiti 134.769 131.408
D) TOTALE DEBITI 6.472.434 7.170.595
E) Ratei e risconti
1) Ratei passivi 5.425 5.425
2) Risconti passivi - -
E) TOTALE RATEI E RISCONTI 5.425 5.425
TOTALE PASSIVO E NETTO (A+B+C+D+E) 8.021.354 8.718.875
Conto conomico esercizio 1/1/2009 - 31/12/2009 2009 2008
A) Valore della produzione
1) Ricavi delle vendite e delle prestazioni 15.092.583 15.435.710
2) Variazione di servizi in corso di lavorazione - -
5) Altri ricavi e proventi 45.267 33.963
A) TOTALE VALORE DELLA PRODUZIONE 15.137.851 15.469.673
B) Costi della produzione
6) Merci, materie sussidiarie e di consumo 13.506.631 13.683.815
7) Servizi 698.874 733.484
7a) di cui servizi industriali 507.261 433.265
altri servizi 191.613 300.219
8) Godimento beni di terzi 55.274 58.622
9) Personale 871.107 567.921
9a) di cui salari e stipendi 683.026 405.533
9b) oneri sociali 153.399 134.050
9c) trattamento di fine rapporto 34.131 27.877
9e) altri costi 552 461
10a) Ammortamenti immobilizzazioni 58.300 22.250
di cui amm.immob.immateriali 5.994 4.853
amm.immob.materiali 52.306 17.398
10b) Svalutazione crediti commerciali 27.686 27.382
11) Variazione rimanenze materie -250.873 173.415
14) Oneri diversi di gestione 23.723 22.238
B) TOTALE COSTI DELLA PRODUZIONE 14.990.722 15.289.128
Differenza tra valore e costi produz. (A - B) 147.129 180.545
C) Proventi e oneri finanziari
16) interessi e altri proventi finanziari - 1.282 - 130
di cui:
interessi attivi banca e posta - 40 - 130
interessi attivi diversi a) 1.242 0
16 bis) Proventi su cambi - -
17) Interessi e altri oneri finanziari 113.429 106.997
di cui:
costi per finanziamenti bancari in euro 113.429 106.997
altri costi per finanziamenti
C) TOTALE PROVENTI E ONERI FINANZIARI 112.147 106.867
D) RETTIFICHE di VALORE di ATTIVITA' FINANZ. zero - -
E) Proventi e oneri straordinari - -
E) TOTALE PROVENTI E ONERI STRAORDINARI - -
RISULTATO PRIMA DELLE IMPOSTE 34.981 73.678
22) Imposte sul reddito d'esercizio 65.194 63.158
23) RISULTATO DELL'ESERCIZIO - 30.213 10.520
Il presidente del C.d.A.
Reggio nell'Emilia, 31 marzo 2010
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4) Sulla correttezza e l’attendibilità dei bilanci.
Quello riportato sopra è un esempio di bilancio “ufficiale” che, nei risultati finali, si discosta
veramente di pochissimo da quello “interno”, e ciò perché quest’azienda non aveva (i dati sono relativi a qualche
anno fa) particolari problemi né in termini di imposte da pagare (le imposte calcolate non ne mettevano a rischio la sopravvivenza,
come invece sempre più spesso capita (comunque vi faccio notare che, facendo la media dei due anni, questa azienda pagava 64.000 € di imposte sul reddito quando il suo reddito lordo medio era di circa 58.000, quindi per lei l’aliquota REALE era di oltre il 110%! E poi sul libri, sui giornali e alla
televisione vi raccontano che l’aliquota sul reddito d’impresa è meno del 30%!)), né dal punto di vista dell’accesso al
finanziamento bancario e di fornitura (l’azienda, ben nota nel settore da molti anni e da sempre puntualmente rispettosa degli impegni
contrattuali, godeva di un elevato “standing creditizio”, come si può dedurre dal basso tasso di interesse che le banche le applicavano (circa il 4,1% come media dei due anni, e qui di fianco lascio lo spazio per riportare i dati e i calcoli da cui risulta questo numero ................................... ........................................................................................................................ ...........) ed era quindi tra le non molte aziende che in quel periodo (ma anche in questo ...) potevano rendere pubblica l’immagine risultante da valutazioni fatte in buona
fede).
Notate che, riferendomi al bilancio, mai mi sono espresso con gli aggettivi “giusto”, “vero”,
“reale” o “esatto”, e già sapete il motivo: semplicemente, il bilancio vero e reale non esiste e quindi non è
conoscibile.
L’unico bilancio “vero”, “esatto”, “reale” che si può fare è quello dell’azienda che non esiste più
perché già morta e “liquidata”, cioè trasformata in denaro contante. Già quando eravate piccoli, in terza,
dopo avervi raccontato le drammatiche vicende dell’azienda “Pierinoceronti” vi scrivevo:
“… se diamo l’incarico a 10 diversi periti, tutti ugualmente capaci ed onesti, di stabilire quale è il patrimonio netto di una certa azienda in un certo momento, o qual è l’utile di un certo periodo, riceveremo 10 risposte diverse, e tra di loro anche fortemente differenziate.
Questo perché le risposte sono pesantemente influenzate da valutazioni e stime che dipendono necessariamente da considerazioni e modi di ragionare assolutamente personali: quanto valgono i prodotti già finiti ma che non siamo ancora riusciti a vendere al prezzo che intendevamo applicare? Quanto valgono, adesso, le attrezzature acquistate l’anno scorso per 145.000 euro e che, forse, potremo utilmente adoperare ancora per cinque anni? Quanto vale il brevetto da noi depositato, che ci permette di adottare in esclusiva nei prossimi 10 anni un certo processo produttivo? Quanto vale, ammesso che valga ancora qualcosa, il credito di 200.000 euro che vantiamo verso quel cliente che ha delle difficoltà finanziarie? Quale è il valore (negativo) del risarcimento che saremo costretti a dare a quella casalinga di Voghera che ci ha fatto causa perché è rimasta sfregiata al volto a causa di un difetto di fabbricazione di un nostro frullatore? ecc. ecc. ......
In effetti, una valutazione oggettiva (certa e esatta) del capitale netto può essere fatta unicamente dopo aver “liquidato” l’azienda, cioè dopo aver:
a) venduto tutti i beni attivi aziendali, b) incassato il prezzo di vendita, e c) aver saldato tutti i debiti;
in pratica, dopo avere trasformato l’intero patrimonio in denaro contante. Il denaro che rimane in cassa dopo queste operazioni darà la misura – questa volta, finalmente, certa – del patrimonio netto che l’azienda durante la sua vita aveva accumulato: soltanto dopo la liquidazione, infatti, non c’è più la necessità di fare delle stime e delle considerazioni soggettive, essendo il valore del denaro contante un dato certo.
Ed allora è anche vero che l’unico periodo di cui può essere calcolato con certezza l’utile è quello che va dalla nascita alla liquidazione dell’azienda, cioè il periodo che copre l’intera vita dell’impresa: questo perché è l’unico periodo di tempo dei cui due estremi sono noti, con certezza, gli importi del capitale netto.
Vi faccio notare, però, che liquidare un’azienda significa farla morire, ed uccidere un organismo per verificare con l’autopsia se era sano o malato, cioè se stava producendo utili od accumulando perdite, se stava quindi creando o
distruggendo ricchezza, è cosa assai poco ragionevole.
Necessariamente, allora, occorre fare delle verifiche periodiche durante la vita dell’azienda, e queste verifiche le si fa redigendo il cosiddetto “bilancio” aziendale.”
6
Quando si dice che il bilancio è la descrizione, l’immagine dell’azienda [la sua fotografia in un certo istante
(questo è lo stato patrimoniale) e il filmato di ciò che ha fatto in un certo periodo (e questo è il conto economico)] lo si dice per semplicità, ma
chi ha compreso la ragioneria sa che questa immagine invece di uno scatto fotografico è un quadro dipinto,
e invece di un filmato ripreso è un racconto scritto.
Chi sa di ragioneria e di economia sa che la rappresentazione di una azienda non può che essere
offerta che per “valori”, e che questi valori sono tutti non oggettivi [con le sole eccezioni delle banconote in €, dei saldi attivi
di c/c (ma nel caso di gravi crisi finanziarie globali nemmeno questi possono essere considerati valori oggettivi, perché i depositi bancari cessano di essere sicuri, almeno – in
Italia ma non solo – la parte che supera i 100.000 €), e dei debiti pure in euro] in quanto frutto di stime e di impressioni di chi si è
assunto il compito e la responsabilità di fare il bilancio, allo stesso modo in cui la “Gioconda” è la
rappresentazione di Monna Lisa Gherardini così come la mente di Leonardo la vedeva, o il “De bello
Gallico” riporta i fatti accaduti più di duemila anni fa nella Gallia nel modo in cui Giulio Cesare li
ricordava.
Chi sa di ragioneria sa quindi che, non esistendo il “giusto prezzo” delle cose, non si può
pretendere un bilancio “giusto”, e sa anche che ciò che legittimamente si può e si deve pretendere è
unicamente un bilancio fatto bene e onesto, che vuol dire fatto senza errori causati da incapacità
professionale e redatto con l’intento di informare correttamente i terzi, e non quindi con la volontà di far
credere loro cose diverse da quelle che chi lo redige, in coscienza, pensa siano vere (ma che altri potrebbero giudicare
anche piuttosto diversamente da come le vede e le rappresenta nelle varie voci di bilancio).
Solo quando le valutazioni non sono fatte “in buona fede” ma, al contrario, con “dolo”, cioè con
l’intento di nascondere e camuffare quella che si ritiene l’immagine realistica, allora il bilancio che ne
risulta è un bilancio “falso”.
Quando, invece, le valutazioni sono fatte sì in buona fede, ma sono basate su considerazioni
inusuali e frutto di percorsi scarsamente logici o troppo fantasiosi, allora il bilancio che ne risulta è un
bilancio “inattendibile”.
Considerando la natura tendenzialmente ottimista, visionaria e volitiva degli imprenditori [il rischio d’impresa è ineliminabile (a meno di avere agganci con la politica) e i pessimisti difficilmente si avventurano in iniziative che non garantiscono risultati
positivi, ed ecco perché li si trova più spesso fra i lavoratori dipendenti, e i più prudenti fra essi si concentrano fra i dipendenti pubblici; se poi il prudente è anche visionario e volitivo, allora lo si incontra spessissimo fra coloro – ahimè sempre troppi – che vivono di politica, cioè alle spalle di chi, imprenditore o
dipendente che sia, vive di economia] risulta evidente come il confine fra bilancio falso e bilancio inattendibile sia
inevitabilmente nebuloso: per l’imprenditore i 2 milioni di euro che l’azienda ha speso nel 2015 (fra stipendi e
altri costi) in ricerca e sviluppo del prodotto innovativo che sarà lanciato sul mercato il prossimo anno sono un
investimento, ed è in buona fede quando li mette in “dare” dello stato patrimoniale tra le attività
immobilizzate, cioè tra i fattori produttivi in grado di offrire utilità in futuro (assimilandoli in questo modo a una
attrezzatura o a un camion che, acquistati nel 2015, saranno usati nei prossimi anni), e quindi li toglie dal “dare” del conto
economico, cioè li toglie dai costi di competenza del 2015 (per non metterli insieme agli stipendi e agli altri costi relativi ai prodotti
venduti nell’anno, proprio perché quei 2 milioni sono un costo relativo alle vendite che si otterranno nei prossimi anni). Se, però, nel 2016 il
mercato non risponde come ottimisticamente riteneva l’imprenditore e boccia il prodotto che così viene
ritirato, allora ne risulta che i 2 milioni di euro inseriti nell’attivo patrimoniale nel bilancio 2015 erano
fasulli: la loro reale natura era di “costo” e non di “investimento”, e quindi nel bilancio 2015 dovevano
apparire nel conto economico. Solo ora, nel 2016, è certo che il bilancio del 2015 è stato sbagliato, ma chi
può dire se la causa è stata un errore di valutazione commesso in buona fede (nello stimare le potenzialità del nuovo
prodotto) o piuttosto se c’era l’intenzione di convincere le banche a continuare a finanziare l’azienda anche
ben sapendo che i 2 milioni si erano già volatilizzati?
Sicuramente la verità sta da una qualche parte fra questi due estremi, ma chi è in grado di
stabilire se, nel caso concreto, nella mente di chi redigeva il bilancio prevaleva l’ottimismo e la buona fede
oppure la malizia e l’intento di ingannare i creditori?
Solo chi è massimamente presuntuoso o chi ha un forte istinto prevaricatore può pensare di
riuscire a capirlo, e infatti questo ruolo è affidato ai magistrati, categoria che più di ogni altra assomma in
sé entrambe le caratteristiche.
7
5) I due princìpi base della valutazione: la prudenza e la continuità.
Per cercare di ridurre le potenziali conseguenze negative derivanti da un eccesso di ottimismo o
da un difetto di onestà in chi redige il bilancio, e quindi per cercare di tutelare chi lo legge, la ragioneria ha
stabilito che le valutazioni debbano rispettare il
“principio della prudenza”. In base a questo principio:
o la creazione di valore (l’utile) derivante dall’attività svolta in un periodo può essere considerata
nel bilancio di quel periodo solo se ciò che è stato prodotto è stato anche venduto nel periodo.
Così, se – grazie alla casuale scoperta della pietra filosofale – nel 2014 sono riuscito a trasformare senza altri
costi un chilo di piombo (acquistato a 2 €) in un chilo d’oro (il cui valore di mercato è 28.000 €), ma al 31
dicembre non ho ancora venduto l’oro prodotto, nel bilancio 2014 non posso segnalare l’utile di 27.998
€, non posso cioè inserire i 28.000 € di valore dell’oro al 31.12.2014 nel “dare” del conto patrimoniale
“scorte di prodotti” (e nell’”avere” del conto di reddito, cioè nel valore della produzione, alla voce “variazione delle
scorte di prodotti”); dovrò, invece, valutare le rimanenze finali di prodotti solo 2 €, perché non avendolo
ancora venduto, quell’oro deve essere prudentemente valutato al minore fra il costo di produzione
(2 €) e il valore di mercato (28.000). In questo modo, e supponendo che l’oro sia poi venduto nel 2015
proprio a 28.000 €, i 27.998 € di utile realizzato (di valore creato) nel 2014 saranno evidenziati nel
bilancio del 2015 (28.000 € di ricavi di vendita meno 2 € di costi (le rimanenze iniziali (al 1.1.2015) di scorte di prodotti
che, nel 2015, usciranno dal dare del conto patrimoniale “scorte di prodotti” per finire nel dare del conto di reddito
“variazione delle scorte di prodotti”), mentre nel bilancio 2014 l’operazione “pietra filosofale” chiuderà in
pareggio (2 € di valore della produzione e 2 € di costi della produzione).
o Le distruzioni di valore (le perdite) devono essere segnalate in bilancio anche quando sono solo
temute e non si è ancora certi di averle subite. Se il 31 dicemnre 2015 abbiamo crediti per 100.000 €
che scadono nel giugno 2016 e sono garantiti parzialmente da una fidejussione bancaria a prima
chiamata (o, se il cliente è estero, da una lettera di credito stand by) di 60.000 €, e prima della redazione del
bilancio 2015 (che, in genere, è completato nei mesi di marzo-aprile) veniamo a conoscenza del fatto che quel cliente
è in difficoltà finanziarie, allora dobbiamo già mettere in bilancio quantomeno la perdita di 40.000 €,
anche se non l’abbiamo ancora subita e le possibilità che in giugno il cliente paghi esistono ancora.
La ratio (si legge razio, e sta per “ragion d’essere”, per “fine che si prefigge”) del principio di prudenza è
chiaramente quella di fare in modo che chi vuole farsi un’idea della salute di un’azienda abbia più
probabilità, leggendone il bilancio, di ricavarne un’immagine meno attraente di quanto probabilmente sia, e
quindi adotti comportamenti più cauti nel relazionarsi con essa.
L’altro principio basilare cui occorre attenersi nelle valutazioni di bilancio è quello della
“continuazione dell’attività aziendale”, vale a dire che nel valutare gli elementi patrimoniali e reddituali
dell’azienda bisogna ipotizzare che essa sia destinata a operare per un tempo indefinito (se, invece, si fa il
bilancio dell’azienda nella consapevolezza che la sua attività cesserà, allora occorre evidenziare data e causa della futura morte e
adottare i criteri valutativi più adeguati al caso, criteri che spesso portano a valori significativamente differenti (e minori) da
quelli che si sarebbero ottenuti in caso di continuazione).
Supponiamo che a metà dicembre 2015 un taxista acquisti un’auto nuova per 20.000 € e poi nelle
due successive settimane spenda altri 2.000 per adattarla all’attività (installazione dell’insegna, colore vistoso,
tassametro, rice-trasmittente) e altri 8.000 per il sedile posteriore anti rapina (con carica esplosiva per l’espulsione
rapida del passeggero-rapinatore). Il valore al 31.12.2015 del taxi nuovo, cioè il valore dell’investimento fatto, lo
possiamo stimare in 30.000 € (20.000 + 2.000 + 8.000) solo se ipotizziamo che quell’auto sarà utilizzata negli
anni futuri come fattore produttivo all’interno dell’attività del taxista, cioè solo se supponiamo che
quell’azienda continui a operare: se manca questa ipotesi, allora il valore di quell’auto, per essere onesto e
prudente, sarà certamente inferiore a 20.000 €, in quanto a quella cifra si compra lo stesso modello di auto
senza tutte quelle modifiche che la deprezzano agli occhi dei potenziali acquirenti (anche agli occhi dei taxisti
concorrenti, ché nessuno di loro dà al sedile espellibile un gran valore). Insomma: se siamo nell’ottica della
“continuazione dell’azienda” allora, tenendo conto che quel particolare automezzo sarà utilizzato nei
prossimi anni per lo scopo per il quale lo abbiamo appena acquistato, nel bilancio al 31.12.2015 lo
valutiamo 30.000 € (e, nei bilanci successivi, gradualmente sempre meno registrandone l’ammortamento); se, invece,
usciamo dall’ottica della continuazione dell’azienda, se ipotizziamo cioè che cesseremo l’attività di taxisti,
allora dobbiamo valutare l’automezzo in vista della sua vendita, e quindi non possiamo certamente dargli
un valore, al 31 dicembre 2015, superiore a 20.000 €.
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6) A cosa serve l’analisi di bilancio.
Nella forma in cui viene reso pubblico, il bilancio non è del tutto adatto a offrire informazioni
che rispondano efficacemente a domande del tipo “quell’azienda riuscirà a pagare i suoi debiti?”, oppure
“è efficiente la sua struttura produttiva?”, o anche “quanto è opportuno pagare per diventarne proprietario
di una quota?” o altre analoghe curiosità che albergano nella mente dei curiosi incontrati a pagina 2.
Per agevolare la ricerca delle risposte a tali domande si procede così con “l’analisi del bilancio”.
L’analisi di bilancio è l’attività che, attraverso l’elaborazione dei dati di bilancio e la loro
comparazione nel tempo (il confronto fra i dati di anni diversi) e nello spazio (il confronto con i dati di altre aziende)
porta a ottenere informazioni sulla impresa e sulla sua gestione.
L’analisi di bilancio è soprattutto utile ai terzi (nel senso di soggetti esterni rispetto l’azienda), in quanto
gli amministratori hanno a disposizione informazioni e strumenti (ricavati dalla contabilità analitica, dai budget e,
in generale, dal controllo di gestione) ben più efficaci della elaborazione dei dati evidenziati dal bilancio reso
pubblico.
I terzi, cioè tutti quei soggetti visti a pagina 2 da a) a i) (a parte b), ché allo stato non gliene frega niente di
come sta l’azienda avendo come unico scopo quello di spennarla il più possibile), invece, per formulare un giudizio
sulla “salute” dell’azienda spesso non hanno altri dati da utilizzare se non quelli resi pubblici con il
deposito del bilancio d’esercizio. E così, avendo poche informazioni disponibili, è opportuno cercare di
usarle nel modo più efficace, e per far questo si incomincia con la riclassificazione del bilancio (vedi il
prossimo paragrafo) per poi approdare alla determinazione degli indici di bilancio (che vedremo al paragrafo 9)).
7) La riclassificazione del bilancio.
Ho già scritto che per meglio analizzare un bilancio è opportuno rielaborarne le voci, sia dello
stato patrimoniale che del conto economico, in modo da poterne più agevolmente trarre valide informazioni
utili anche per fare confronti.
Gli scopi della riclassificazione del bilancio d’esercizio sono quindi principalmente tre:
1) Ricercare alcune grandezze espressive della gestione (come, ad esempio, il valore aggiunto o il reddito
operativo) che non appaiono tra i dati del bilancio ufficiale;
2) Rendere omogenei i dati per consentire il loro confronto nel tempo e nello spazio, e quindi
consentire l’individuazione dei trend di medio periodo e il confronto con altre aziende;
3) Separare gli elementi attinenti la gestione caratteristica e ordinaria dell’impresa da quelli che si
riferiscono alle gestioni atipica e straordinaria.
Queste ultime righe vi dovrebbero essere chiare dopo aver studiato questo e il prossimo
paragrafo. Per ora cominciamo a vedere in cosa consiste la riclassificazione dello stato patrimoniale. Qui
sotto trovate un esempio, assolutamente scolastico, di stato patrimoniale riclassificato in cui appaiono le
voci più sintetiche possibili.
STATO PATRIMONIALE RICLASSIFICATO (ULTRASINTETICO)
IMMOBILIZZAZIONI 1.000.000 CAPITALE PROPRIO 600.000
CAPITALE CIRCOLANTE 3.000.000 DEBITI A MEDIO/LUNGO TERMINE 500.000
DEBITI A BREVE TERMINE 2.900.000
CAPITALE INVESTITO 4.000.000 TOTALE FONTI 4.000.000
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7.1) La riclassificazione dello Stato Patrimoniale.
Per quanto riguarda lo Stato Patrimoniale, la riclassificazione consiste nella riorganizzazione
delle poste (cioè delle voci) dell’attivo e del passivo secondo criteri di liquidità e di esigibilità (= estinguibilità).
In pratica questo significa che si distinguono i crediti e anche i debiti in base alle loro scadenze [i
debiti (e i crediti) con scadenza a breve vengono separati dai debiti (e i crediti) con scadenza più lontana nel tempo], ma in realtà
è tutto l’attivo che viene ordinato in base al tempo che deve presumibilmente passare prima che si trasformi
in denaro (criterio di liquidità), così come sono tutte le fonti di finanziamento che vengono ordinate in base al
momento in cui provocheranno una uscita di denaro (criterio di esigibilità).
7.1.1) La riclassificazione dell’attivo
In questo modo nell’attivo appaiono per prime le immobilizzazioni, poi le rimanenze (scorte),
poi i crediti (a breve) verso i clienti e gli altri crediti a breve e per ultime le attività liquidite (cassa e c/c bancari).
Le immobilizzazioni (come i macchinari, i brevetti, le partecipazioni in altre aziende ecc.) sono beni la
cui utilità si protrae per molto tempo e che pertanto non sono destinati alla vendita e non si trasformano
quindi direttamente in liquidità: la loro capacità di generare entrate monetarie è solo indiretta, in quanto il
loro valore si trasferisce gradualmente nel corso degli anni nei beni che contribuiscono a produrre e che,
quando a loro volta saranno venduti e se ne otterrà l’incasso dal cliente, genereranno un introito monetario.
[Poiché un’immobilizzazione si trasforma (indirettamente) in denaro in un lasso di tempo pari approssimativamente al suo
periodo di ammortamento (ad esempio 10 anni), e quindi un analista fanatico e ossessionato dal concetto di duration che la volesse inserire nell’attivo patrimoniale nel corretto ordine di liquidità la dovrebbe considerare al livello dei crediti che
hanno scadenza pari a circa la metà del suo periodo di ammortamento (nell’esempio 10 ÷ 2 = 5 anni) ].
Le immobilizzazioni in genere le si suddivide, in base alla loro natura, fra:
1) Immobilizzazioni materiali, cioè tangibili (= palpabili, come impianti, attrezzature, automezzi ecc.);
2) Immobilizzazioni immateriali, cioè non tangibili, come brevetti, marchi, avviamento;
3) Immobilizzazioni finanziarie, cioè gli investimenti nella proprietà – intera o per quota – di
altre aziende (e questi investimenti prendono il nome di “partecipazioni”) che si intende conservare a lungo,
nonché i crediti di finanziamento (ad es. obbligazioni) e di funzionamento (= di fornitura, cioè verso clienti, sebbene
questi crediti raramente abbiano scadenza superiore all’anno) con scadenza superiore a 12 mesi.
Le rimanenze (di materie prime, di componenti e di prodotti finiti) si trasformano in denaro in un arco
temporale più breve rispetto alle immobilizzazioni: per le rimanenze di prodotti finiti occorre attendere la
loro vendita e l’incasso del credito conseguente, per le scorte di materie prime e di componenti bisogna
anche aggiungere il tempo necessario per trasformarli in prodotti vendibili.
I crediti a breve (a volte definiti anche “liquidità differite”) si considerano a breve termine se
scadono entro 12 mesi; salvo casi particolari i crediti commerciali (i crediti verso clienti) sono quindi a breve
termine, dal momento che i più usuali modi di pagamento prevedono tempi compresi fra i 30 e i 180 giorni;
si considerano crediti commerciali anche i – non frequenti – crediti verso fornitori per anticipi. Oltre a
quelli commerciali possono a volte essere presenti altri crediti a breve, come i crediti fiscali (ad esempio per
IVA), crediti verso soci per apporti non ancora effettuati e altri di minore importanza.
La liquidità (o, se i crediti sono stati chiamati “liquidità differite” “liquidità immediata”) è costituita
dai saldi attivi sui conti correnti bancari, dal contante in cassa, nonché da tutti i titoli di credito (libretti di
deposito, assegni ecc.) con scadenza a vista.
Nell’attivo patrimoniale dei bilanci ufficiali, oltre alle “Immobilizzazioni” (voce “B”) e all’
“Attivo circolante” (voce “C”) si leggono spesso altre due voci: “Crediti verso soci” (voce “A”) e “Ratei e
risconti” (voce “D”). Nella prima si evidenziano eventuali impegni dei soci ad effettuare degli apporti,
mentre i ratei e risconti attivi, come certamente ricorderete, sono crediti che hanno la particolarità di
crescere gradualmente nel tempo per poi morire brutalmente (i ratei) o di nascere già adulti come Venere
per poi declinare pian piano e scomparire dopo un’agonia lunga l’intera vita. Quasi sempre tutti questi
crediti particolari hanno vita breve, inferiore ai 12 mesi, e pertanto il più delle volte li si considera nel
capitale circolante.
Rimanenze, crediti a breve e liquidità formano, insieme, il “capitale circolante”. Come già si
è visto nello schema super sintetico riportato alla fine della pagina precedente, capitale circolante e
immobilizzazioni sono le due macro voci in cui si suddivide l’intero attivo patrimoniale.
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7.1.2) La riclassificazione delle fonti.
Le fonti di finanziamento, come già detto, si evidenziano in ordine crescente di esigibilità e
pertanto, non esistendo alcun obbligo di rimborsarlo e quindi essendo a esigibilità nulla, per primo appare
A) Il Patrimonio netto (le fonti interne di finanziamento)
Il suo valore ad una certa data si è formato nel tempo, a partire dalla nascita della società, grazie
agli apporti dei soci (al netto di eventuali prelievi) e dagli utili prodotti e non distribuiti. Formalmente, il
capitale proprio è suddiviso in capitale sociale, riserve e utile dell’esercizio (= del periodo) di cui si sta
facendo il bilancio. La distinzione in queste sub voci risponde unicamente a esigenze giuridico-formali, e
infatti avvocati e magistrati la ritengono importantissima, ma nella sostanza il capitale proprio, non potendo
che essere definito come la differenza fra l’attivo e i debiti (siano, quest’ultimi, espliciti o mascherati da “fondi”), è
un valore assolutamente omogeneo. Ecco perché chi capisce la ragioneria (e quindi non gli avvocati e i
magistrati, per natura e per studi impossibilitati a comprenderla) non bada, salvo casi particolarissimi, alla distinzione
fra capitale sociale, riserve (e ancor meno fra vari tipi di riserva)
L’unica distinzione sensata e necessaria è quella fra la parte dell’utile ottenuto nel periodo e che
si sa già essere destinata a essere distribuita ai soci e la parte che, invece, l’assemblea ha deciso debba
rimanere a finanziare la società: la parte da distribuire, infatti, ha natura di debito (di debito a breve, visto che
generalmente i “dividendi” sono pagati ai soci nella prima parte dell’anno successivo a quello in cui l’utile è stato ottenuto).
Poiché, però, la suddivisione del patrimonio netto in parti “ideali” (nel senso di non concrete) eccita
tanto coloro che preparano le prove scritte di maturità, è opportuno dedicarvi alcune righe, non prima, però,
che confessi la grave colpa (agli occhi di non pochi colleghi di materia) che ho sulla coscienza fin dai tempi delle
prime lezioni di ragioneria, colpa costituita dall’aver sempre chiamato il capitale netto esistente all’inizio
del periodo di cui si fa il bilancio “capitale netto INIZIALE” e il capitale netto alla fine del periodo “capitale
netto FINALE”. Ebbene, sappiate ora che a scuola il capitale netto iniziale si deve chiamare “capitale
proprio” (o, anche, “capitale netto”), mentre il capitale netto finale deve essere definito “patrimonio netto”.
Alleggeritomi la coscienza, possiamo ora analizzare le parti “ideali” che, formalmente,
costituiscono il patrimonio netto. Sono, nell’ordine indicato dall’art. 2424 del c.c.: I Capitale sociale; II Riserva sovrapprezzo azioni; III Riserve di rivalutazione; IV Riserva legale; V Riserve statutarie; VI Riserva per azioni
proprie; VII Altre riserve; VIII Utili (perdite) portati a nuovo; IX Utile (perdita) d’esercizio.
Riserve palesi e riserve occulte Apparendo queste voci nel bilancio pubblico, cioè essendo evidenti, la loro somma dà il
patrimonio ufficiale, palese della società; ma poiché, come visto a pagina sette, il bilancio deve rispettare
il principio della prudenza, capita non di rado che alcune voci dell’attivo patrimoniale, in particolare le
immobilizzazioni, siano evidenziate con un valore minore rispetto a quello reale (ad esempio:
supponiamo che alla Ferrari S.p.A. il marchio con l’immagine del cavallino rampante sia costato solo 1.000 €, l’importo
pagato per registrarlo (in quanto il marchio fu regalato ad Enzo Ferrari dalla madre di Francesco Baracca, il famoso aviatore della prima guerra mondiale);
poiché oggi dalla vendita di quel marchio, cioè del diritto di utilizzarlo, la Ferrari S.p.A. otterrebbe certamente più di un
miliardo di €, ne risulta che l’attivo patrimoniale evidenziato nel suo bilancio ufficiale è sottostimato di almeno un miliardo)
e quindi anche il patrimonio netto che appare è inferiore a quello più realistico. La differenza fra l’importo
del patrimonio netto evidenziato nel bilancio reso pubblico e il patrimonio netto “realistico” (nel senso di quello
che si otterrebbe dando una valutazione più corretta alle voci patrimoniali sottovalutate) dà origine a una “riserva occulta”, cioè
nascosta, che nel bilancio non appare ma di cui occorre tenere conto quando lo si analizza.
Detto della possibile esistenza, a fianco delle riserve palesi, di “riserve occulte” derivanti da
sottovalutazioni dell’attivo o da sopravalutazioni del passivo (e il più delle volte le passività sopravvalutate sono
i fondi rischi e spese, voci di cui parleremo a lungo tra non molto), vediamo ora una classificazione delle otto voci
costituenti il capitale proprio, raggruppandole in tre categorie in base al modo in cui si sono originate [(la
nona voce “Utile (perdita) d’esercizio” ha vita autonoma e, comunque e per quel che ho scritto poco sopra, fa parte del Patrimonio
netto (alias “C.N. finale”) e non del Capitale proprio (alias “C.N. iniziale”)].
Se ricordate, vi ho sempre detto che il capitale netto può aumentare solo in due modi: grazie agli
utili prodotti (e non distribuiti) dall’azienda, oppure grazie agli apporti (al netto dei prelievi) effettuati dai soci (o dal
titolare se è un’azienda individuale). Delle nove “parti ideali” in cui il legislatore impone di suddividere il patrimonio
netto, due derivano da apporti (e sono il capitale sociale e la riserva sovrapprezzo azioni), sei da utili non
distribuiti e una (le riserve di rivalutazione) da utili non evidenziati nei bilanci.
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Cominciamo dalle due voci originate da apporti, cioè il capitale sociale e la riserva sovrapprezzo
azioni. L’importo del capitale sociale è dato dal prodotto tra il numero di azioni (o di quote, se si tratta di una srl) in
cui è suddivisa la proprietà dell’intera società e il loro valore nominale unitario. Vediamo un esempio.
Due soci, A e B, al momento della costituzione della società “S” decidono di dotarla di un
capitale sociale di 750.000 € [e quindi si impegnano a versare complessivamente alla società 750.000 € (supponiamo 500.000 € A, e
250.000 € B) non appena l’organo amministrativo (il consiglio di amministrazione o l’amministratore unico, nominati dai soci stessi una prima volta al momento della
costituzione e in seguito in sede di assemblea) lo chiederà]: i soci fondatori possono stabilire che la proprietà della società sia
suddivisa fra un qualsiasi numero di azioni (o di quote, se srl), ad esempio 750.000 azioni da 1,00 € di valore
nominale (e in questo caso, proseguendo nell’esempio, il socio A sarebbe titolare di 500.000 azioni e il socio B si 250.000) o 750 azioni da 1.000,00 €
di valore nominale (e in questo caso ad A andrebbero 500 azioni e a B 250); l’effetto non cambia: il capitale sociale è comunque
pari a 750.000 €, pari al credito che la società ha verso i soci sottoscrittori (credito che, in bilancio, trova posto alla lettera A).
Sono passati alcuni anni, la società “S” è cresciuta rapidamente e così, anche grazie agli
abbondanti utili non distribuiti fra i soci, il patrimonio netto contabile è ora pari a 5.000.000 di €; i due
soci hanno da poco ricevuto da una grande azienda del settore (che ritiene esistano notevoli sinergie fra le due aziende, ma che è anche
preoccupata per la rapida crescita di un concorrente così agguerrito) un’offerta di 15 milioni di € per la totalità delle azioni: si può
così dire che il valore di mercato di “S” è 15.000.000. Pur allettati dall’offerta, A e B decidono di non vendere
ma, anzi, di rafforzare ulteriormente la società attraverso un apporto di 1.500.000 €. Non volendo però investire
altri capitali personali nella società, A e B propongono al comune amico C di divenire loro socio investendo
1,5 milioni dell’eredità che egli ha appena ricevuto da un prozio americano tempestivamente deceduto.
In cambio dell’apporto di 1.500.000 € in contanti, C riceverà delle azioni di “S”, ma attenzione:
non sono le azioni “vecchie” sottoscritte anni prima dai soci fondatori A e B, sono azioni nuove (sebbene indistinguibili
dalle vecchie) che “S” emette proprio per ricevere altro capitale di rischio. A e B, cioè, non vendono a C una parte
delle loro azioni: A resta proprietario di 500 azioni e B di 250 azioni, ognuna dal valore nominale di 1.000 €.
E’ la società “S” che offre a C di sottoscrivere delle altre azioni, sempre da 1.000 € di valore nominale.
Quante azioni “nuove” vorrà ottenere C in cambio del suo bel bonifico di un milione e mezzo a
“S”? Chiederne 1.500 (1.500.000 ÷ 1.000 di valore nominale unitario) sarebbe ridicolo: con 1.500 azioni in mano, il
socio C, sborsando solo 1.500.000 €, avrebbe i due terzi dell’intera proprietà della società [il cui capitale sociale
sarebbe infatti ora suddiviso in 2.250 azioni: le 750 vecchie più le 1.500 nuove, e 1.500 ÷ 2.250 = 66,67%, cioè 2/3 ], e quindi avrebbe
ricevuto 11.000.000 di valore [2/3 dei 16,5 milioni del nuovo valore di mercato della società C, che dai 15 milioni di prima è ora aumentato di
1,5 milioni per effetto del denaro fresco ricevuto ]. E’ ovvio che C dovrà accontentarsi di ricevere un numero di azioni
inferiore, e infatti si potrebbe accontentare di sole 75 azioni, in quanto ognuna ha un valore di 20.000 €, e
20.000 x 75 fa il milione e mezzo versato. La cosa può essere vista anche in questo modo: il numero di
azioni in cui è suddivisa l’intera proprietà della società “S” è, dopo l’operazione di aumento di capitale,
825 (750 + 75); il nuovo valore della società, per effetto dell’apporto di 1.500.000 €, è, come abbiamo già
visto, 16.500.000 (i 15 milioni di prima più 1,5 milioni), quindi il valore di mercato di ogni azione (vecchia o nuova che sia non ha
importanza: sono tutte uguali) è ancora 20.000 € (16.500.000 ÷ 825 = 20.000) €, per cui lo scambio è equo.
Che lo scambio sia equo lo si può verificare anche considerando che i vecchi soci non ci
guadagnano né ci rimettono: il valore del loro investimento nella società è rimasto uguale (10.000.000 €
quello di A (500 azioni x 20.000) e 5.000.000 quello di B (250 azioni x 20.000). Ciò che è cambiata è la quota (la
percentuale) della società di cui sono proprietari: prima A aveva il 66,67% (500/750) e B il rimanente 33,33%
(250/750); ora, dopo l’aumento e la relativa emissione di 75 nuove azioni, A ha il 60,606% (500/825), B il
30,303% (250/825) mentre C ha il rimanente 9,0909% (75/825). A e B hanno ora una quota inferiore di una
società il cui valore è però aumentato per effetto dell’apporto di 1,5 milioni fatto da C, e l’aumento del
valore complessivo compensa la diminuzione della percentuale di possesso.
Ricevere 75 azioni del valore nominale di 1.000 € pagando 1.500.000 € significa pagare ogni
azione 20.000, e quindi 19.000 € più del valore nominale. Tale importo è chiamato “sovrapprezzo”, e il
1.425.000 € di sovrapprezzo complessivo (19.000 x 75) va a formare la voce “Riserva sovrapprezzo azioni”
numerata romanamente II dall’articolo 2424 del c.c., mentre la voce I “Capitale sociale”, per effetto
dell’operazione di “aumento di capitale” aumenta di soli 75.000 € (1.000 € di valore nominale unitario x 75 nuove azioni).
12
Quasi sempre l’importo del sovrapprezzo richiesto è minore del sovrapprezzo “teorico” (nel caso descritto potrebbe essere, ad esempio, di
10.000 € anziché di 19.000), e non di rado il sovrapprezzo non è previsto; certamente c’è un limite massimo al sovrapprezzo, ed è dato dalla differenza fra valore di mercato e valore nominale dell’azione (perché altrimenti nessuno sarebbe disposto a sottoscrivere le azioni nuove in quanto
sarebbe più conveniente comprarne delle “vecchie” da un azionista), ma non c’è limite minimo, potendo il sovrapprezzo essere anche nullo. Se anche non si prevede il sovrapprezzo (e quindi, nel caso della società “S”, se le nuove azioni vengono a costare solo 1.000 €) i vecchi azionisti hanno il modo di non rimetterci, in quanto a loro (meglio: alle loro azioni “vecchie”) spetta il “diritto d’opzione”, cioè il diritto di precedenza nella sottoscrizione delle azioni nuove; e se l’azionista “vecchio” non vuole esercitare questo diritto (perché non vuole
apportare altri capitali nella società) lo può vendere (vendere cioè il diritto di sottoscrivere le azioni nuove) a chi è invece interessato a investire i propri risparmi in quella società. L’unico effetto negativo per il “vecchio” azionista che non sottoscrive le azioni nuove (cioè che “non
esercita il diritto d’opzione”) è che si ritrova con lo stesso numero di azioni che aveva prima e quindi con una quota di proprietà più piccola (poiché è aumentato il numero di azioni in cui è suddivisa la proprietà della società).
Detto delle due voci originate da apporti, vediamo ora l’unica voce derivante da utili mai
evidenziati in bilancio, cioè la voce III “Riserve di rivalutazione”. Per comprenderne la natura ripartiamo
da pagina 10, dal caso in cui ipotizzo che il marchio del cavallino rampante valga più di un miliardo di euro
ma sia valutato nel bilancio della società Ferrari S.p.A. al suo costo storico (e quindi a soli 1.000 €), e ciò in
ossequio al principio di prudenza imposto dal codice civile (agli artt. 2423/bis e 2426 del c.c.).
Ora dovete aggiungere alle vostre conoscenze che il legislatore, di tanto in tanto e con una norma
specifica, permette agli amministratori di aumentare i valori di bilancio delle immobilizzazioni per renderli
più coerenti con la realtà.
Supponiamo che la Ferrari S.p.A., approfittando di un simile intervento legislativo, nel 2015
aumenti il valore del marchio da 1.000 € a un miliardo di euro. In questo caso, il maggior valore che viene
inserito nell’attivo patrimoniale (999.999.000 € in più nelle “Immobilizzazioni immateriali”, e quindi in dare) NON ha come
contropartita (in avere) un ricavo, cioè i 999.999.000 € NON si registrano fra i componenti positivi del reddito,
bensì direttamente in avere del patrimonio netto, alla voce “Riserva di rivalutazione Legge XY” (dove XY sono il
numero e l’anno della legge che ha reso possibile la rivalutazione). Registrare i 999.999.000 € dell’aumento di valore del
marchio in avere di un conto di reddito, e quindi fra i ricavi del conto economico del 2015, sarebbe
scorretto (a meno di indicarlo alla voce “E” “Proventi straordinari”) in quanto non si tratta di valore creato dall’azienda nel 2015
ma in tutti i precedenti anni in cui il valore del marchio è cresciuto. Ecco allora che è più ragionevole
inserire direttamente questo valore nel capitale netto, alla voce “Riserva di rivalutazione ex legge X/2015”.
Per chiudere l’argomento “Patrimonio netto” resta solo da parlare delle cinque voci inquadrabili
fra le riserve derivanti da utili evidenziati in bilanci precedenti, cioè delle voci IV, V, VI, VII e VIII.
IV Riserva legale. Il codice civile (art. 2430) impone alle società di capitali che almeno 1/20 (il 5%)
degli utili prodotti nell’esercizio sia non distribuito e venga accantonato in questa voce (a volte detta anche “riserva
ordinaria”) fino a quando tale voce di bilancio raggiunge il 20% (1/5) del capitale sociale (per le banche e le assicurazioni
la legge prevede limiti minimi di accantonamento maggiori).
V Riserve statutarie. Lo statuto sociale (in inglese “by-laws”, ad esempio by-laws of Barilla S.p.A) è,
copiaincollando da wikipedia, “l'atto normativo fondamentale che disciplina l'organizzazione e il
funzionamento di un ente pubblico o privato”. In pratica sono regole di funzionamento stabilite dai soci
(al momento della nascita della società, ma modificabili con apposite delibere assembleari) che si vanno ad aggiungere a quelle fissate
dal legislatore per la generalità delle società. Ecco allora che se lo statuto prevede che si debbano
accantonare altri utili, questi saranno accreditati (cioè scritti in “avere”) in un conto chiamato “Riserva
statutaria”. Anche le statutarie sono, come la legale, riserve “obbligatorie” in quanto imposte da una norma
(e che la norma sia stata prevista dai soci stessi non la rende meno vincolante, a meno che la si modifichi, di una norma di legge).
VII Altre riserve. Sono le cosiddette “riserve libere” o “facoltative” o “volontarie”, in quanto
decise liberamente, su proposta degli amministratori, dall’assemblea che approva il bilancio. Essendo state
costituite e alimentate “volontariamente”, una successiva assemblea può utilizzarle come meglio crede,
mentre l’utilizzo di quelle “obbligatorie” è vincolato a quanto prevede la norma che le ha stabilite.
VIII Utili o perdite portati a nuovo. Questa voce nasce quando l’assemblea che approva il
bilancio decide di rinviare la decisione di come usare una parte degli utili prodotti nell’esercizio (o di come
“coprire” le perdite subite nel periodo il cui bilancio si sta approvando).
Lo studente non distratto avrà notato che ho saltato la voce VI Riserva per azioni proprie. L’ho
fatto perché mi sono rotto più io a scrivere di parti ideali del netto che voi a leggerle.
13
I debiti (le fonti esterne di finanziamento)
Al di fuori del capitale netto tutte le altre voci che appaiono tra le “fonti” sono debiti: come
dicevano già i latini e come ancora tutti (tranne voi) dicono in tutto il mondo, tertium (si legge terzium) non datur.
Se però diamo un occhio alle voci che appaiono nei bilanci ufficiali, allora troviamo che oltre
alle due categorie naturali [ Patrimonio netto (voce “A”) e Debiti (voce “D”) ] ne troviamo altre tre [ “Fondi per
rischi e oneri” (voce “B”), “Trattamento di fine rapporto” (voce “C”) e “Ratei e risconti” (voce “E”)].
Non dovete però farvi ingannare, anche se chiamati “t.f.r.”, “fondi” e “ratei e risconti” passivi,
sono tutti comunque debiti, almeno se – come logicamente si deve fare e come vi ho sempre detto fino da
quando eravate piccoli – diamo al termine debito il significato ampio di “impegno da assolvere”.
Che il t.f.r. sia un debito (verso chi, come i dipendenti, operando nell’azienda guadagna un compenso che gli
sarà però corrisposto solo alla fine della collaborazione) lo sanno anche gli oranghi, e che i ratei e i risconti passivi
siano debiti lo sai anche tu se hai letto la pagina 9, perché analogamente ai ratei e risconti attivi visti prima
tra i crediti, quelli passivi sono debiti con l’unica particolarità di crescere gradualmente e morire di colpo (i
ratei) o di nascere di colpo e morire gradualmente (i risconti). Resta quindi da chiarire la natura di debito
di ciò che viene inserito nella voce “fondi”.
La voce B) Fondi per rischi e spese (è questo il nome completo assegnato a questi debiti dal legislatore) contiene
debiti che hanno la particolarità di essere incerti o nell’ammontare, o nel soggetto che ha diritto ad esigerli
o per entrambi gli aspetti. Ad esempio: essendo estremamente probabile che, a causa della folle
complessità e nebulosità della normativa fiscale, anche il più ligio degli imprenditori prima o poi verrà
aggredito dal fisco con sanzioni, pene pecuniarie ed imposte arretrate, allora ogni azienda dovrebbe
prudenzialmente stimare questo “debito” verso l’erario; ma, essendo quel debito non del tutto certo
nell’esistenza e ancor meno nell’ammontare, allora invece di metterlo insieme ai debiti normali lo si
inserisce nel passivo alla voce “fondi rischi e spese”; oppure: in questa voce la Fiat inserisce il valore
stimato di tutte le riparazioni in garanzia che prevede di dover effettuare in futuro (in sostanza è un debito
nei confronti dei suoi clienti che hanno un auto nuova) o la Mulinex gli indennizzi che potrebbero
pretendere le massaie che rimanessero sfregiate dal frullatore di cui si è detto a pagina 5. Ma di fondi
torneremo a parlare più avanti.
Ritengo prudente segnalare, anche se dovrebbe essere superfluo, che c’entrano nulla coi fondi
rischi e spese i fondi ammortamento e i fondi svalutazione, avendo natura affatto (= completamente) diversa.
Queste voci, non a caso, non appaiono infatti tra le fonti di finanziamento bensì sono inseriti, con valore
negativo, fra le attività aziendali: infatti sono importi che vanno a diminuire dei valori attivi quali le
immobilizzazioni (nel caso dei fondi ammortamento) o i crediti (nel caso dei fondi svalutazione) per tenere
conto del loro diverso valore che si ritiene abbiano alla data del bilancio rispetto a quello storico che
avevano al momento in cui vennero acquisiti. Si chiamano tutti “fondi” solo per creare confusione nelle
teste degli studenti e poterne così bocciare qualcuno in più.
La voce C) Trattamento di fine rapporto] contiene gli impegni verso i dipendenti e altri
collaboratori per compensi da corrispondere alla fine del loro rapporto con l’azienda (i “Fondi T.F.R.”).
La collocazione dei debiti per T.F.R. tra le passività consolidate è generalmente corretta in quanto il “turn
over” annuo in uscita dei collaboratori (n. collaboratori usciti / n. collaboratori), per quanto possa essere elevato,
difficilmente si avvicina all’unità (il che imporrebbe, invece, di considerare il fondo TFR fra le passività a breve),
essendo generalmente inferiore al 10%.
Poiché i debiti sotto forma di “Fondi” [sia la voce B) Fondi rischi-spese, sia la voce C) T.F.R. ] sono in
genere per la maggior parte a medio-lungo, si spiega l’indicazione dell’art. 2424 di inserirli dopo il
patrimonio e prima dei debiti “normali” che, al contrario, sono prevalentemente a breve.
D) Debiti. Sempre in virtù di quanto dispone l’art. 2424, nel bilancio reso pubblico si devono
però indicare il totale dei debiti suddivisi per categoria di debitori (verso fornitori, verso banche ecc. per un totale di 14) e
14
poi segnalare l’eventuale presenza, all’interno di ciascuna voce, di debiti con scadenza superiore ai 12 mesi [ad esempio: debiti v/banche: 2.950.000 (di cui 850.000 scadenti oltre l’esercizio successivo)].
Per dare un’idea più immediata della struttura patrimoniale e quindi anche della solvibilità
aziendale è però più utile accorpare i debiti in funzione della loro scadenza, perciò in sede di
“riclassificazione” dello stato patrimoniale i debiti, in qualunque modo siano chiamati, li si distingue fra
“passività consolidate” (o debiti a medio/lungo termine) e “passività correnti” (o debiti a breve).
Le passività consolidate sono gli impegni da assolvere oltre l’esercizio successivo (e quindi con
scadenza più lontana di 12 mesi dalla data del bilancio); si trovano qui, oltre ai fondi rischi e spese e al fondo TFR
di cui già si è detto, principalmente:
1. la maggior parte dei mutui bancari (la maggior parte perché frequentemente i mutui sono finanziamenti pluriennali e quindi
sono meno le rate scadenti entro un anno rispetto a quelle da rispettare nel medio/lungo termine); per determinare con esattezza
la ripartizione di un mutuo fra debiti a medio-lungo termine e debiti a breve occorre avere a
disposizione il suo piano di ammortamento
2. la maggior parte delle obbligazioni eventualmente emesse (quelle con scadenza entro i dodici mesi vanno,
ovviamente, tra i debiti a breve); anche in questo caso, per distinguere la parte del prestito obbligazionario
con scadenza inferiore all’anno è necessario leggere il regolamento del prestito e, in particolare,
il piano di rimborso previsto.
3. eventuali finanziamenti a medio-lungo termine ottenuti da società appartenenti allo stesso
gruppo aziendale (tipico è la holding – o società capogruppo – che finanzia le sue “partecipate”, cioè le società che controlla grazie
al possesso di una percentuale elevata di azioni o di quote del loro capitale sociale).
Le passività correnti, ossia i debiti con scadenza entro l’esercizio successivo (e quindi con
scadenza non superiore ai 12 mesi), possono essere:
a) debiti commerciali, vale a dire verso le aziende fornitrici di fattori produttivi (debiti che, come già
visto quando si è parlato dei crediti, usualmente hanno scadenze comprese fra i 30 e i 180 giorni);
b) acconti ricevuti da clienti in anticipo rispetto allo svolgimento dell’impegno assunto; se è vero
che, in genere, il pagamento anticipato è piuttosto raro, è invece usuale quando si lavora “su
commessa” (cioè quando si è incaricati dal cliente di fornirgli un bene con caratteristiche particolari, adatte solo a lui e che pertanto
rendono quel bene difficilmente commerciabile, nel senso di vendibile ad altri) e ci si vuole cautelare dal rischio che il
cliente, per un qualsiasi motivo, non lo ritiri;
c) debiti per finanziamenti bancari a breve termine (come l’anticipo s.b.f. di ri.ba. e di fatture,
l’anticipazione bancaria su titoli o su merci) o “a vista” (come l’apertura di credito in c/c, cioè
l’impegno assunto dalla banca (quasi sempre per un tempo indeterminato) di effettuare pagamenti su richiesta del
cliente correntista anche quando il saldo del suo conto è negativo: la possibilità che la banca ha di
recedere in un qualunque momento da questo impegno e di chiedere il “rientro” al cliente nel giro di
pochissimi giorni fa inserire questi debiti fra le passività correnti anche se, di norma e salvo situazioni
patologiche, all’atto pratico con questo sistema di finanziamento le banche continuano a finanziare
l’azienda per un periodo anche lunghissimo di tempo);
d) i mutui a breve termine e le rate scadenti entro un anno dei mutui a medio-lungo termine
(vale quanto scritto sopra al punto 1.);
e) eventuali finanziamenti a breve termine ottenuti da società appartenenti allo stesso gruppo
aziendale;
f) la parte di T.F.R. che presumibilmente dovrà essere liquidata entro l’anno, per effetto dei
prevedibili pensionamenti, licenziamenti o dimissioni a breve;
g) altri debiti a breve diversi dai precedenti, come i debiti per imposte, debiti verso enti
previdenziali per contributi, debiti verso dipendenti per stipendi e ratei di 13a, 14
a e altri debiti
residuali.
15
Partendo dallo schema di stato patrimoniale adottato nei bilanci ufficiali (nel senso di depositati per renderli
pubblici) e utilizzando le notizie che si possono trovare nella “Nota integrativa” (terzo documento, dopo la situazione
patrimoniale e il conto economico, che deve essere reso pubblico attraverso il deposito del bilancio) non è difficile arrivare a una situazione
patrimoniale riclassificata nel modo visto in queste ultime pagine, sia negli impieghi che nelle fonti, e cioè
con le voci dell’attivo e delle fonti ordinate, rispettivamente, in funzione della loro liquidità ed esigibilità.
In genere è necessario e sufficiente ricorrere a queste quattro operazioni:
1) suddividere tutti i debiti fra quelli con scadenza entro l’esercizio successivo e quelli con
scadenza, invece, superiore a 12 mesi; per i debiti anche formalmente tali, cioè per la voce D), non ci sono
problemi: la distinzione dovrebbe già apparire nello stato patrimoniale; ma per i debiti camuffati da fondi
o da ratei e risconti è necessario cercare altrove, soprattutto nella nota integrativa, dati aggiuntivi che
permettano di individuare o almeno stimare la quota a breve di tali passività. In mancanza di dati, l’intero
ammontare dei fondi rischi e spese e del TFR confluisce nelle passività consolidate. L’analoga
suddivisione dell’attivo presenta in genere meno problemi, a meno di particolari casi quali ratei e risconti
attivi elevati e relativi a, rispettivamente, ricavi o costi di competenza di anni più lontani del prossimo.
2) verificare, sempre leggendo la nota integrativa, che i criteri di valutazione adottati (in particolare per le
rimanenze) siano gli stessi da un anno all’altro e, nel caso non sia così, cercare di rendere omogenei tali valori
in modo da poter fare confronti temporali corretti.
3) se nell’attivo vi sono immobili (fabbricati o terreni, e questo anche nel caso essi siano utilizzati in virtù di un contratto di
leasing) o partecipazioni, può essere necessario correggere la valutazione che di essi è stata fatta in bilancio;
ciò perché, come abbiamo già visto, è possibile che il loro valore reale sia significativamente diverso da
quello contabile: può capitare che il valore reale sia maggiore rispetto a quello di bilancio, soprattutto per
effetto dell’aumento dei prezzi immobiliari e azionari che non di rado si verifica nel corso degli anni e di
cui, per il principio della prudenza imposto dalla legge, è vietato tener conto nei bilanci.
A questo proposito, in realtà, c’è da dire che negli anni immediatamente seguenti lo scoppio, nel
2007, della grave crisi finanziaria che colpì gran parte del mondo, i legislatori di quasi tutti i paesi
concessero la possibilità di “rivalutare” il valore di bilancio delle immobilizzazioni e delle partecipazioni,
e questo proprio per evitare che gli amministratori di tantissime aziende (il cui capitale proprio, diminuito pesantemente per
effetto delle perdite accumulate negli anni della crisi (finanziaria prima ed economica poi) era diminuito fino a divenire negativo) fossero costretti
all’antipatica scelta fra dichiarare il fallimento dell’azienda o chiedere nuovi e impegnativi apporti di
capitale fresco ai proprietari (i quali in questo caso si sarebbero probabilmente ritrovati nell’impossibilità di trovare la liquidità necessaria per far
fronte all’apporto richiesto, e quindi – in caso di intervento di nuovi soci – avrebbero perso il controllo della società, e se non capisci perché vuol dire che non
hai letto attentamente la pagina 11).
Ecco perché di questi tempi è più probabile trovare bilanci “ufficiali” in cui immobili e
partecipazioni sono evidenziati con un valore ottimisticamente gonfiato, piuttosto che bilanci in cui il
capitale netto risulta sottostimato per effetto di valutazioni prudenziali di queste voci.
4) Se nell’attivo vi sono immobilizzazioni immateriali, controllare che negli altri documenti del
bilancio (la nota integrativa e la relazione degli amministratori) ne sia descritta in modo chiaro e convincente la natura. Se,
al contrario, natura e valore di tali immobilizzazioni immateriali risultano non del tutto convincenti, allora
è prudente diminuire drasticamente tali valori o cancellarli del tutto: è probabile che si tratti di valori
“gonfiati” o dall’ottimismo per il futuro, tipico dell’imprenditore (in buona fede), oppure dalla disperazione
dell’imprenditore che, temendo il fallimento dell’azienda e quindi la morte della sua creatura, si spinge fino
a commettere il reato (che non necessariamente è anche peccato) del falso in bilancio.
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7.2) La riclassificazione del Conto Economico.
Quando si passa al Conto Economico la questione della riclassificazione si fa più complicata;
ciò, al fondo, perché è più difficile fare un buon film che una buona foto, essendo più facile descrivere una
sagoma piuttosto che un movimento. Ecco perché se, partendo dal documento reso pubblico con il
deposito in Camera di Commercio, vogliamo ottenere una descrizione efficace di quello che l’azienda ha
fatto nell’ultimo periodo e di come lo ha fatto, allora dobbiamo impegnarci di più di quanto è necessario
per la rielaborazione della sua situazione patrimoniale.
Le tre tappe principali da percorrere nella riclassificazione del conto economico sono:
a) la distinzione dell’attività aziendale (svolta nel periodo di cui si sta analizzando il conto economico) fra la parte
tipica (o “caratteristica”) e la parte atipica (o “extra-caratteristica”) dell’attività;
b) la distinzione fra attività ordinaria (nel senso di frequente, iterata) e straordinaria
(occasionale, non ripetibile con frequenza);
c) la riorganizzazione delle voci in modo da evidenziare la formazione progressiva di vari
risultati intermedi tra il valore della produzione e il reddito netto.
a) Rientrano nell’attività (o gestione) caratteristica le operazioni che sono tipiche, usuali per le aziende del settore in cui opera quella il cui conto economico stiamo riclassificando, cioè quelle
attività senza le quali l’azienda difficilmente potrebbe operare in quel settore. Così, ad esempio, per un bar
l’acquisto di caffè e del servizio di pulizia della vetrina avviene all’interno della gestione caratteristica; ma
se, nei momenti della giornata in cui vi è meno clientela, l’imprenditore è solito impegnarsi nel videopoker
utilizzando risorse aziendali, allora i costi e i ricavi di questa attività, sebbene sia abituale, non possono
essere confusi con quelli tipici di un bar, e pertanto vanno da essi distinti relegandoli nella “gestione extra-
caratteristica”.
b) Come già scritto, la distinzione fra attività ordinaria e straordinaria sta nella abitualità;
un esempio di operazione straordinaria ma frutto della gestione tipica (o caratteristica) potrebbe essere la
vendita di un ramo aziendale: se CEPU, all’inizio del 2015, vende a un concorrente per 10 milioni di euro
il settore umanistico dei suoi corsi per concentrarsi sui settori scientifico e professionale, la straordinarietà
sta nella impossibilità di ripetere nel tempo operazioni analoghe; il ricavo della vendita, però, sarebbe pur
sempre da collegare con l’attività tipica di CEPU; quei 10 milioni di valore che sono finiti nei ricavi del
2015 sono stati generati dall’azienda per mezzo della sua attività ordinaria negli anni precedenti quando,
dal nulla, ha creato il ramo “corsi umanistici”. Nonostante questo occorre però escludere dal valore della
produzione del 2015 quei 10 milioni perché tale valore non è stato prodotto nel 2015, essendo frutto
dell’attività di tutti gli anni precedenti in cui CEPU si è affermata sul mercato anche dei corsi di latino,
greco, storia e italiano.
Per chiarire meglio i due concetti di gestione “caratteristica o extra-caratteristica” e di gestione
“ordinaria o straordinaria” segnalo che la vendita per 20.000 € dei cuccioli che, ogni anno, nascono dai 12
mastini napoletani che fanno la guardia alla sede del CEPU (per difendere gli amministratori dalle ire dei clienti bocciati),
ripetendosi ogni anno (i mastini napoletani sono molto passionali e hanno sane inclinazioni sessuali) rientra nell’attività ordinaria
ma non in quella caratteristica, perché ben poco ha che fare con l’attività tipica delle aziende operanti nel
settore istruzione (salvo, forse, si tratti di una scuola specializzata in corsi veterinari).
c) Quando si parla di valore della produzione, di risultati intermedi e, in generale, di
riclassificazione del conto economico, si è concentrati solo sulla gestione ordinaria e tipica dell’azienda:
eventuali componenti positivi o negativi di reddito provenienti da operazioni straordinarie e/o di natura
diversa dalla gestione tipica sono tagliate fuori dall’analisi, non interessano in quanto l’obiettivo principale
è valutare l’efficienza del nucleo produttivo centrale aziendale, cioè del suo cosiddetto “core business”.
Ecco allora che occorre depurare sia il valore della produzione sia i costi della produzione che
appaiono nel bilancio depositato dall’eventuale presenza di operazioni straordinarie (anche se inerenti l’attività
tipica aziendale) e di operazioni ordinarie che però nulla hanno a che fare con la gestione tipica.
17
La maggiore complessità della riclassificazione del conto economico rispetto allo stato
patrimoniale ha fatto sì, tra l’altro, che mentre lo schema di riclassificazione del patrimonio è
sostanzialmente unico (e lo abbiamo conosciuto al paragrafo 7.1), i modi per ordinare il conto economico sono vari.
Tra questi ci sono:
il conto economico a costo e ricavi del venduto (che qui meno ci interessa perché la sua elaborazione, oltre
a essere più complessa, richiede la conoscenza di troppi dati disponibili solo a un analista interno all’azienda) e
il conto economico a valore aggiunto (il cui schema puoi vedere in questa pagina).
Lo schema che la legge impone nei bilanci che vengono resi pubblici è in parte riconducibile a
quello a costi e ricavi del venduto, ma se ne differenzia profondamente perché nel conto economico
civilistico non si distinguono i costi in base alla loro destinazione (industriali, commerciali,
amministrativi).
Qui sotto trovate un esempio (inventato) di conto economico “a valore aggiunto”, sicuramente
nella maggior parte dei casi più adatto ai fini di una buona analisi di bilancio (non per niente il legislatore – che non sa
nemmeno distinguere il capitale netto dalla cassa – ha imposto uno schema diverso).
CONTO ECONOMICO SCALARE A VALORE AGGIUNTO
Ricavi di vendita + 14.800.000 98,43%
+ aumento ( – diminuzione) scorte prodotti finiti. + 300.000 2,36%
+ aumento ( – diminuz.) scorte prodotti in corso di lavoraz. - 100.000 - 0,79%
VALORE DELLA PRODUZIONE (1) 15.000.000 100,00%
Acquisti di beni e servizi (compreso uso beni di terzi) 8.250.000 55,00%
- aumento ( + diminuzione) scorte materie e componenti - 750.000 5,00%
- diminuzione scorte materie e componenti
altre spese di gestione tipica (diverse dalle successive) 300.000 2,00%
VALORE AGGIUNTO (2) 7.200.000 48,00%
- Costi del personale - 5.000.000 33,33%
MARGINE OPERATIVO LORDO (M.O.L.) o E.B.I.T.D.A. (3) 2.200.000 14,67%
- Ammortamenti immobilizzazioni - 700.000 4,67%
- Svalutazioni - 100.000 0,67%
- Accantonamenti - 200.000 1,33%
RISULTATO (o REDDITO) OPERATIVO o E.B.I.T. (4) 1.200.000 8,00%
Saldo gestione finanziaria - 330.000 2,20%
(+ proventi finanziari – oneri finanziari)
Saldo gestione accessoria + 30.000 0,2%
(+ ricavi - costi attività non “core business”)
Saldo gestione straordinaria + 1.000 0,01%
(+ proventi straordinari - costi straordinari)
REDDITO (o UTILE) LORDO o E.B.T. (5) 901.000 6,01%
- Imposte - 750.000 5,00%
RISULTATO DI ESERCIZIO (o REDDITO NETTO) (6) 151.000 1,01%
(1) per gli anglofoni: EBITDA = Earnings Before Interests Taxes Depreciation and Amortization
[quiz di allenamento: si tratta di un’azienda produttrice di beni o servizi? Perché? Industriale o mercantile? Perché?]
Nei prossimi paragrafi vedremo il significato dei vari risultati intermedi dello schema evidenziati
dalle voci numerate da (2) a (5).
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7.2.1) Il valore della produzione.
Può essere opportuno ricordare che il “valore della produzione” (voce (1) dello schema) di un
periodo (ad esempio dell’anno 2015) non coincide con il valore delle vendite di quel periodo per un duplice motivo:
a) nel corso dell’esercizio 2015 io posso aver prodotto beni che poi venderò nell’anno 2016 o anche dopo;
b) nel 2015 posso aver venduto cose che avevo prodotto nel 2014 o anche prima. Ecco allora che, per
determinare il “valore della produzione” del 2015, si parte dalle vendite del periodo (l’anno 2015) e poi si
aggiunge il valore delle rimanenze finali (le scorte di prodotti finiti o in corso di lavorazione presenti alla mezzanotte del 31.12.2015 e che
(presumibilmente) sono stati prodotti nel 2015) e si toglie il valore delle rimanenze iniziali (le scorte di prodotti finiti o in corso di
lavorazione che erano presenti al mattino del 1.1.2015 e che furono prodotti nel 2014 (o prima ancora)).
Chiamando “variazione scorte” la differenza “ scorte finali meno scorte iniziali ” ne deriva che il
“valore della produzione” è uguale a ricavi di vendita + variazione scorte (di prodotti finiti e semilavorati).
E’ anche utile ricordare che, per quanto detto al paragrafo 7.2) e in particolare al punto c), i
ricavi di vendita e le altre voci del conto economico riclassificato devono essere depurati da eventuali
ricavi e costi derivanti dalla gestione straordinaria e/o atipica. Questi ricavi e questi costi li si re-inserisce
poi alla fine, appena prima della determinazione del reddito lordo, indicandone sinteticamente la somma
algebrica alle voci “Saldo della gestione straordinaria” e “Saldo della gestione non caratteristica”.
7.2.2) Il valore aggiunto.
Ora cerchiamo di capire perché questo schema di conto economico (quello nella pagina precedente) è detto
“a valore aggiunto”.
Per valore aggiunto si intende il valore che l’azienda aggiunge, con l’impiego dei fattori produttivi “interni”, al valore dei fattori produttivi (beni e servizi) a breve ciclo di utilizzo che acquisisce da altre aziende di produzione.
Questi beni e servizi acquisiti da altre aziende di produzione sono principalmente:
a) componenti, materie prime, energia, merci (acquisti + la diminuzione delle loro rimanenze o – il loro aumento);
b) le prestazioni di servizi (lavorazioni esterne, trasporti, riparazioni, consulenze, pubblicità, servizi telefonici, ecc. ecc.);
c) i costi per il godimento di beni di terzi (affitti, noleggi e canoni di leasing).
Si può esprimere lo stesso concetto in quest’altro modo: se dalla ricchezza prodotta nel periodo
dall’azienda (dico “ricchezza prodotta” e non “incremento di ricchezza” o “creazione” di ricchezza, perché sto parlando di valore della produzione e non
di utile) togliamo quella acquistata (e quindi prodotta) da altre aziende, troviamo la ricchezza prodotta internamente
all’azienda, valore che chiamiamo “valore aggiunto” (sottinteso dall’azienda, al suo interno).
La logica di questo modo di determinare il “valore aggiunto” non è certo del tutto rigorosa,
soprattutto per il motivo che all’interno di tale voce resta il valore del consumo delle immobilizzazioni
acquistate da altre aziende (in pratica il valore degli ammortamenti), e non ha molto senso trattare in modo diverso il
valore che da questi input si riversa sull’output rispetto al valore che proviene dal consumo degli input
ugualmente “esterni” ma a breve ciclo di utilizzo.
Il difetto di logica che sta dietro a questa definizione di valore aggiunto risulta evidente se si
pensa a due aziende in tutto identiche tranne per il fatto che la prima ha acquistato direttamente le
immobilizzazioni materiali, mentre la seconda le ha acquisite in leasing: pur avendo la medesima struttura
produttiva (stessi impianti e attrezzature, stesso capitale circolante, stessa tecnica di produzione, stessi dipendenti, stessa rete
di vendita, stessi prodotti, stessa politica commerciale ecc.), la prima evidenzierà un valore aggiunto
significativamente superiore della seconda.
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Il “valore aggiunto”, oltre a essere definibile per differenza, è anche definibile per somma: è la
somma dei compensi che vanno a coloro, diversi dalle altre aziende di produzione, che hanno contribuito
alla produzione dell’output. Infatti, il valore aggiunto si ripartisce fra:
1) i dipendenti, cui spettano stipendi, contributi e quote di T.F.R. maturate nell’anno;
2) chi ha finanziato l’attività attraverso il capitale di debito, meritandosi gli interessi;
3) il supremo grassatore (lo stato), che preleva le imposte (nei libri di testo, il cui scopo è forgiare bravi cittadini sempre disposti a
rispettare le leggi qualunque cosa impongano e quindi anche a vivere facendosi tosare come pecore, trovate la storiella secondo cui le imposte devono considerarsi il prezzo per i servizi di carattere generale (giustizia, ordine pubblico ecc.) che lo stato eroga gratuitamente beneficiando tutti e quindi risultando utili
anche per l’attività aziendale);
4) chi ha finanziato l’attività attraverso il capitale di rischio, a cui va la parte di utile netto eventualmente
distribuita;
5) l’azienda stessa, sotto forma di “autofinanziamento”. Il concetto di autofinanziamento comprende:
5a) l’autofinanziamento proprio cioè l’utile netto che non viene prelevato dai soci (vedi precedente punto 4)), e
che quindi viene “accantonato a riserva” andando così a incrementare il capitale proprio;
5b) l’autofinanziamento improprio che è costituito dagli ammortamenti e dagli accantonamenti.
Tra le componenti del “valore aggiunto” appena elencate la voce “autofinanziamento” necessita
più delle altre di spiegazioni. Fra tre o quattro pagine il capitolo 8) dovrebbe servire a questo.
7.2.3) Dopo il valore aggiunto.
Si è già visto che il valore aggiunto, determinato per differenza, è dato da:
valore della produzione meno acquisto di materie prime, componenti e merci meno
diminuzione di (o più aumento di) rimanenze materie prime, componenti e merci meno acquisti di
servizi meno costi per godimento beni di terzi.
Se dal valore aggiunto togliamo il costo del personale (stipendi + contributi + quota annua T.F.R.) si ottiene il “Margine
Operativo Lordo” (M.O.L.) che oggi va di moda chiamare “E.B.I.T.D.A.”, acronimo che, come giù scritto
sta per Earnings Before Interests, Taxes, Depreciations (in italiano: svalutazioni e accantonamenti) and Amortizations.
Se poi dal Margine Operativo Lordo si sottraggono gli ammortamenti, gli accantonamenti e le svalutazioni,
si ottiene il Reddito Operativo, in inglese E.B.I.T. (e, rispettoso della vostra intelligenza, non sto a scrivere cosa significa).
Infine, se dal Reddito Operativo si tolgono gli interessi si ha il Reddito Lordo, o “Utile prima delle
imposte” detto all’inglese E.B.T. (albionamente Earnings Before Taxes).
L’EBIT o Reddito (o Risultato) Operativo è il frutto della gestione tipica dell’impresa, e quindi
dà la misura della ricchezza generata (se l’EBIT è positivo) o assorbita (se l’EBIT è negativo) dalla attività specifica
aziendale, prescindendo dalla (= senza tenere conto della) situazione finanziaria, da eventi di natura straordinaria,
dalle attività fuori dal core business e dalla famelicità dello stato.
Il reddito operativo è quindi un dato di fondamentale importanza in quanto esso, essendo
influenzato solo dai componenti di reddito inerenti l’attività tipica e ordinaria, è il dato più significativo
della efficienza produttiva aziendale.
Meno semplice è capire la significatività dell’EBITDA o Margine Operativo Lordo, che pure
va tanto di moda. Sui libri si legge che esso “esprime la ricchezza in termini di risorse finanziarie
generata dall’attività caratteristica e ordinaria”.
La differenza tra questa definizione di EBITDA e quella del risultato operativo (EBIT) sta
nell’aggiunta di quel “in termini di risorse finanziarie” che qualifica la creazione di ricchezza misurata.
20
In effetti, la differenza di valore fra EBITDA e EBIT è data dall’ammontare degli ammortamenti,
degli accantonamenti e delle svalutazioni, vale a dire da componenti negativi di reddito che non hanno
causato nell’esercizio alcun esborso finanziario, in quanto l’esborso finanziario o ci fu in precedenza (quando
si acquisirono quelle immobilizzazioni e quei beni di cui ora misuriamo, con gli ammortamenti e le svalutazioni, la diminuzione di valore) o ci sarà in
futuro (quando si dovranno pagare i debiti che sono stati camuffati con la voce “fondi rischi e spese”, e questa parentesi la dovresti comprendere ancor
meglio dopo aver letto il capitolo 8) alle pagine 22 – 23).
Ecco allora che se al risultato operativo (che ci dice quanta ricchezza l’attività aziendale ordinaria e tipica è riuscita a
creare, ricchezza aggiuntiva che è destinata a beneficiare lo stato (che vi attingerà pesantemente con le imposte), i finanziatori (che si arricchiranno con gli interessi) e i
proprietari dell’azienda (cui rimarrà l’utile netto)) aggiungiamo i costi non finanziari (cioè i costi, come ammortamenti e svalutazioni, che non
fanno diminuire la liquidità o aumentare i debiti nel periodo di cui si fa il conto economico) troviamo la capacità dell’azienda di
migliorare la sua situazione finanziaria nell’esercizio (cioè durante il periodo analizzato dal conto economico). Il discorso
avrebbe senso, e quindi il dato dell’EBITDA sarebbe realmente utile, se le immobilizzazioni non dovessero
essere mai sostituite e i debiti mai pagati, ma ovviamente non è così: nessuna azienda può essere efficiente
con impianti e attrezzature obsoleti e mal funzionanti, e nessuna azienda può esimersi dall’assolvere i
propri impegni.
7.2.3a) Sulla significatività dell’EBITDA
Viene quindi da chiedersi perché oggi si dia tanta enfasi (= importanza) all’EBITDA: sono tutti scemi
gli autori dei testi e l’unico intelligente è chi scrive, o è il contrario? Né la prima cosa e né (spero) l’altra. In
realtà ritengo che tutto sia nato, principalmente, dalla necessità per gli analisti di trovare una giustificazione
ai prezzi progressivamente sempre più alti (almeno come linea di tendenza) ai quali nell’ultima ventina d’anni
venivano compravendute le aziende, prezzi che, soprattutto per le aziende in perdita, non trovavano
giustificazione con i tradizionali criteri di valutazione.
Per comprendere questo fatto è però prima necessario correggere un’idea sbagliata ma piuttosto
diffusa. Il profano spesso crede che a stabilire quale sia il valore di un’azienda (così come di una casa o un terreno o
qualsiasi altro bene da investimento) siano gli esperti, i “periti”. In realtà, a svolgere l’attività di valutazione è, quasi
per intero, il mercato: il giudizio del perito (sia esso il geometra di Cadelbosco che stima la villetta a schiera o il mega studio di sapienti
commercialisti milanesi che valuta la quota di maggioranza della S.p.A.) incide solo sui dettagli. E’ un po’ come facciamo noi per
valutare un’auto usata: partiamo dal valore che il mercato dà ai modelli di quel tipo e di quell’anno (leggendolo
sulle riviste specializzate che lo rilevano e aggiornano periodicamente) e poi lo correggiamo un po’, o in diminuzione per tenere
conto di eventuali ammaccature, o in aumento nel caso di un ottimo stato di manutenzione.
Come per le auto usate e praticamente per tutti i beni, anche per le aziende il prezzo lo fa il
mercato: se metto in vendita la mia azienda o una sua quota riceverò varie offerte, e tra queste individuerò
la migliore; può darsi che io la ritenga insoddisfacente, cioè reputi il prezzo offerto inferiore al valore che
io ritengo abbia, ma a questo punto non venderò e quel prezzo (per me “giusto” ma per il mercato eccessivo) non si
formerà.
Ricordate: il valore è soggettivo (e quindi non esiste il valore giusto), a essere oggettivo è il prezzo, e questo
si forma sul mercato.
In caso di compravendita di un’azienda si richiede l’intervento dei periti non tanto al fine
dell’individuazione del prezzo (ché quello in sostanza lo stabiliscono il mercato e le abilità contrattuali delle due parti), quanto per
pararsi il culo (save one’s ass, per i linguisti più raffinati) in caso di possibili future contestazioni sul prezzo da parte di
terzi, in particolare da parte 1) del fisco, sempre famelico (che potrebbe ritenere troppo basso il prezzo dichiarato per pretendere
più imposte), 2) dei magistrati, spesso invasati (che, convinti di sapere loro il “vero” valore della compravendita, potrebbero sospettare chissà
quali imbrogli), 3) di qualche socio dell’azienda venduta o di quella acquirente (che, ritenendo di essere stato ingiustamente
danneggiato dall’operazione, potrebbe attivare un magistrato invasato). Una volta stabilito con la controparte il prezzo della
compravendita in X €, vale quindi la pena, per ridurre il rischio e le conseguenze negative di eventuali
contrasti con questi soggetti, pagare una profumata parcella a un professionista a cui, in sostanza, si dà
l’incarico di costruire una bella perizia dalla quale risulterà che il valore dell’azienda compra-venduta è
(guarda caso ...) proprio X €.
Ora mettetevi nei panni del perito che riceve l’incarico: deve mettere la sua firma su un
documento attestante che il valore corretto dell’azienda è quello che (in modo esplicito e brutale o con un po’ più di grazia)
21
gli è stato indicato dal suo cliente, e deve arrivare a questo valore con un percorso per quanto possibile
logico, comprensibile e riconosciuto valido dalla generalità degli esperti (suoi colleghi o meno).
Per far questo ha a disposizione un mucchio di testi, manuali e trattati in cui dottamente si
disquisisce di vari criteri di valutazione, tutti raffinatissimi e ben impreziositi da formule matematiche
inoppugnabili, ma che, al fondo, si basano sul banale concetto che l’appetibilità di un’azienda, e quindi il
suo prezzo, è collegato sia al valore del suo capitale netto sia all’ammontare dell’utile che si ritiene sia in
grado di generare nel tempo: se le aziende A e B hanno un capitale netto simile, ma A è prevedibile che
produca utili doppi di B, è ovvio che per acquistare A si sia disposti a pagare un prezzo più alto (ma meno del
doppio) di quanto si pagherebbe per B.
Così, da sempre, il sistema più o meno esplicitamente e più o meno consapevolmente usato dagli
analisti per stimare il valore di un’azienda consiste, al fondo, nel partire da una cifra basata sul valore del
capitale netto e poi aggiungere un importo pari a un multiplo dei presumibili futuri utili annui. Ad esempio:
Azienda
Capitale
netto
Utile netto
Tasso di attualizzazione
degli utili
Fattore moltiplicativo equivalente
Valore attuale degli utili futuri
Valore della azienda
A 1.500 200 20% 5 1.000 2.500
B 1.500 100 20% 5 500 2.000
Come però ho già detto, dalla fine degli anni ’90 il valore che il mercato (la cui vista è da allora sempre
più annebbiata dai tassi artificialmente bassi generati dall’eccesso di denaro messo in circolazione dalle autorità monetarie) ha dato alle aziende
si è andato discostando sempre di più da quello ottenibile con i tradizionali criteri di stima.
Per un po’ gli analisti (commercialisti, società di revisione, insigni cattedratici ecc.) se la sono cavata abbassando il
tasso di attualizzazione degli utili futuri, in ciò giustificati dal generale abbassamento dei tassi d’interesse.
Questo sistema, però, non serve se l’azienda è da anni in perdita e non è credibile che possa mettersi a
macinare utili nel giro di poco tempo.
E’ per questo che gli analisti, alla disperata ricerca di dati positivi in grado di giustificare gli
elevati prezzi che il mercato assegnava anche in presenza di perdite economiche, hanno cominciato a
prendere in considerazione non più l’utile ma il risultato operativo (e, fin qui, la cosa poteva ancora apparire ragionevole
anche a un osservatore vecchio e outdated come me), per poi arrivare all’EBITBA, risalendo così sempre più su verso la
parte alta del conto economico, alla disperata ricerca di sufficienti valori positivi da capitalizzare.
E ora che occorre, per non essere costretti a evidenziare bilanci con il capitale netto negativo (e
quindi dichiarare il fallimento o essere costretti a immettere nell’azienda vagonate di capitali a titolo di apporto), tenere vergognosamente alti i
valori delle immobilizzazioni finanziarie costituite dalle partecipazioni in altre aziende (valori vergognosamente più
alti di quelli a cui realisticamente si riuscirebbe a venderli, cioè più alti del cosiddetto “fair value”), già qualcuno, scarseggiando in pudore,
comincia a guardare al “valore aggiunto” positivo, pur in presenza di EBITDA negativo, come
giustificazione valida per dare a un’azienda un valore superiore al suo capitale netto (ancora nessuno si è spinto a
considerare “appetibile” un’azienda che evidenzi un valore aggiunto negativo, magari basandosi sul fatto che comunque ha ricavi di vendita maggiori di zero;
attendiamo fiduciosi).
Il discorso si allaccia sempre alla reale natura della crisi finanziaria che si è manifestata otto anni
fa (ma le cui origini risalgono a una decina d’anni prima), legata all’artificiale abbassamento dei tassi provocato dalle
politiche monetarie eccessivamente espansive delle banche centrali (FED in primis, ma BCE e tutte le altre a ruota). I tassi
più bassi hanno indotto il mercato a valutare sempre di più i beni da investimento (e quindi anche le aziende, oltre agli
immobili e alle obbligazioni a tasso fisso), e hanno quindi obbligato i periti a innovare in modo piuttosto ardito i
tradizionali criteri di valutazione per inseguire i prezzi di mercato.
L’illogicità di capitalizzare in positivo un risultato operativo negativo è la stessa, vista da altra
angolazione, riscontrabile nel considerare gli ammortamenti e gli accantonamenti come
“autofinanziamento” aziendale. E’ ora quindi di comprendere il concetto di autofinanziamento.
22
8) L’autofinanziamento aziendale.
A pagina 19 si è detto che la parte di “valore aggiunto” che non va a remunerare i contributi
offerti all’azienda dai dipendenti, dai finanziatori (sia a titolo di capitale di debito che di capitale di rischio) e dallo stato
(ammesso che ciò che offre abbia un valore positivo) costituisce l’autofinanziamento dell’azienda, e questo autofinanziamento
può essere suddiviso fra “proprio”, l’utile netto non distribuito ai soci, e “improprio”, a sua volta dato
dagli ammortamenti e dagli accantonamenti.
Ora è il momento di comprendere quelle righe, soprattutto il concetto di autofinanziamento
improprio, ché quello di finanziamento proprio dovreste possederlo da anni.
Quelli di voi che ancora capiscono poco o nulla di ragioneria sono invitati a impegnarsi al
massimo: sarà un’occasione per finalmente capire e comunque per ripassare che:
a) in contabilità generale, durante l’anno, i componenti positivi (ricavi) e negativi (costi) del reddito
si registrano (con le “scritture di esercizio”) nel momento in cui se ne ha la documentazione (costituita in genere da
una fattura) che testimonia il sorgere del debito o del credito, oppure quando vi è il loro pagamento;
b) in questo modo si commettono due tipi di errori, perché: b1) non sempre i ricavi o i costi
documentati e quindi registrati si riferiscono al periodo di cui si vorrà, in sede di bilancio, determinare il
risultato economico; b2) non tutti i ricavi e i costi hanno già avuto, alla data del bilancio, la
“manifestazione finanziaria” (in sostanza: la loro documentazione), e quindi non tutti sono stati già registrati;
c) per poter avere un bilancio che tenga conto di tutti i fatti accaduti e che contemporaneamente
non sia inquinato da fatti che non riguardano il periodo di cui si vuole determinare il risultato economico si
ricorre alle “scritture di assestamento”, cioè ad annotazioni contabili che correggono gli errori descritti
in b1) (e queste sono le scritture di imputazione, come la rilevazione degli ammortamenti e dei ratei attivi e passivi) e
in b2) (e queste sono le scritture di storno, come la rilevazione delle rimanenze finali e dei risconti attivi e passivi).
8.1) L’autofinanziamento proprio.
Circa l’autofinanziamento proprio, se solo avete capito l’abc della ragioneria, c’è nulla di
particolare da osservare, nel senso che dovrebbe risultarvi chiarissimo il motivo per cui l’utile netto viene
considerato “autofinanziamento”: quale voce del conto economico potrebbe far parte del “valore
aggiunto” in modo più chiaro e legittimo dell’utile netto? (La domanda è da intendersi come retorica, dacché nulla più dell’utile,
che è creazione di nuova ricchezza, merita di contribuire al valore aggiunto e alla funzione di fonte di finanziamento; insomma, la risposta alla domanda
dovrebbe essere un forte e corale: “NESSUUUNAAA!!).
8.2) L’autofinanziamento improprio.
Le perplessità, invece, sono legittime per quanto riguarda l’autofinanziamento improprio, cioè
quello costituito dagli ammortamenti e dagli accantonamenti ai “fondi per rischi e oneri”.
Come già ho scritto a pagina 18, la logica vorrebbe che il valore aggiunto fosse al netto degli
ammortamenti e degli accantonamenti, in quanto (e come in parte già si è detto in altra forma nella seconda metà di pagina 18):
1) gli ammortamenti altro non sono che il costo per l’impiego di fattori produttivi (il computer,
l’autocarro e tutti quegli input destinati a fornire utilità per vari anni e il cui consumo, per semplicità, si registra solo al momento della redazione del bilancio con
una scrittura di assestamento) che, al pari delle materie prime e dei servizi, sono prodotti e acquistati da altre
aziende: non si capisce perché se acquisto un computer io debba evidenziare un valore aggiunto maggiore
rispetto al caso in cui lo stesso computer lo abbia noleggiato. Il costo per ammortamento sostituisce quello
per noleggio, ma la loro natura è sostanzialmente la stessa: si tratta pur sempre del consumo di una
attrezzatura acquisita dall’esterno. E allora non si vede perché non eliminare anche l’ammortamento dal
valore aggiunto, così come da esso, correttamente, si eliminano le spese per godimento beni di terzi.
2) gli accantonamenti ai fondi rischi e oneri (e, come già si è visto a pagina 13, questi “fondi” sono pur sempre debiti,
anche se hanno la particolarità di essere incerti nell’importo e/o nel momento in cui provocheranno una esigenza finanziaria) nascono, come gli
ammortamenti e tutte le altre scritture di assestamento, dall’esigenza di correggere prima della redazione
del bilancio gli errori di imputazione di ricavi o di costi che consapevolmente (per semplificare le operazioni contabili) si
sono fatti durante l’anno registrando le operazioni d’esercizio. Ben conscio che il concetto può non esservi
ancora chiarissimo, riempio la pagina con esempi: un paio relativo a errori di registrazione di ricavi e un
paio a errori di registrazione di costi.
23
R1) errata registrazione di ricavi (sopravvalutazione): è il caso, ad esempio, dell’accantonamento per
rischi di garanzia prodotti: se nel 2013 la Nissan vende le auto garantendole per 5 anni, significa che ha già
inserito fra i ricavi del 2013 anche i servizi di riparazione che sarà costretta a svolgere “gratuitamente” fino
al 2018. In realtà le riparazioni in garanzia non sono gratis, e ciò in quanto vengono pagate in anticipo nel
momento dell’acquisto dell’auto. Infatti, se la Nissan avesse vendute le auto senza garanzia, si sarebbe
dovuta accontentare di un prezzo di vendita inferiore, e quindi avrebbe dovuto contabilizzare dei ricavi
inferiori. L’importo degli accantonamenti per rischi di questo tipo, quindi, dovrei sottrarlo dal valore della
produzione del 2013 e distribuirlo nel valore della produzione dei prossimi 5 anni, il periodo in cui
produrrò i servizi di riparazione il cui prezzo ho già considerato in anticipo tra i ricavi nel 2013. Se non
faccio così (e in effetti non si fa così), se cioè non tolgo dal valore della produzione 2013 quello dei servizi di
riparazione che ho già incassato ma che non ho ancora prodotto, per poi distribuirlo fra i vari anni in cui
effettivamente li eseguirò (dal 2014 al 2018), io gonfio indebitamente il valore della produzione del 2013 e
deprimo quello dei cinque anni successivi. La logica vorrebbe, allora, che gli accantonamenti per rischi di
questo tipo non rimanessero nel valore aggiunto, in quanto non sono nemmeno valore della produzione;
certamente più corretto sarebbe togliere l’importo di questi accantonamenti dai ricavi di vendita piuttosto
che, come invece in genere si fa, inserirlo fra i costi alla voce “accantonamenti”.
R2) Ancora errata imputazione di ricavi (sopravvalutazione): siamo a inizio 2017 in sede di
preparazione del bilancio 2016. Nel maggio 2015 stipulammo con un cliente-rivenditore un contratto di 24
mesi in base al quale, alla scadenza, gli dobbiamo riconoscere un premio pari al 5% del valore dei suoi
acquisti nel caso questi abbiano complessivamente superato, nel corso dei 24 mesi, gli 800.000 €. Il
rivenditore ha acquistato per 200.000 € nel 2015 e per 400.000 € nel 2016, con un trend in leggera ma
continua crescita. E’ quindi probabile, ma non certo, che nel 2017, alla scadenza del contratto, dovremo
emettere una nota di accredito (cioè, in pratica, dovremo ridurgli i prezzi a cui gli abbiamo venduto) di almeno 40.000 euro (il 5% di
800.000), e in questo caso 10.000 € (il 5% dei 200.000 € di vendite 2015) servirebbero per correggere l’eccesso di
fatturazione del 2015, e 20.000 quello del 2016 (il 5% dei 400.000). Il principio della prudenza (vedi pag. 7) ci
impone di annotare fra i costi del 2015 questi 10.000 € e nei costi 2016 i 20.000 e di inserirli (“accantonarli”)
tra i debiti nel passivo dello stato patrimoniale (infatti, anche se messo fra i fondi rischi, è un probabile debito che abbiamo già maturato
nei confronti del nostro cliente-rivenditore, e il saldo di questo fondo dovrà essere di 10.000 al 31.12.2015 e di 30.000 al 31.12.2016).
C1) Errata imputazione di costi (sottovalutazione): il caso più frequente riguarda gli accantonamenti
per la responsabilità civile del produttore, cioè per il rischio di dovere subire in futuro degli esborsi
monetari a causa di indennizzi dovuti per il cattivo funzionamento di un bene da noi venduto. Se, ad
esempio, vendo nastri trasportatori e ho ragione di temere che qualcuno dei miei prodotti già venduti possa,
per un difetto di costruzione, provocare un temporaneo fermo produttivo a qualche mio cliente e quindi la
legittima sua pretesa di essere da me indennizzato per il danno subito, io devo considerare questo possibile
costo futuro, anche se incerto, come un componente negativo di reddito di competenza dell’esercizio, ad
esempio il 2016, in cui ho contabilizzato la vendita del nastro trasportatore difettoso.
Se avessi stipulato una buona polizza d’assicurazione R.C.P. (Responsabilità Civile Prodotti) pagando ad
esempio 50.000 € di premio, non dovrei più considerare questo rischio (e quindi non dovrei inserire l’accantonamento fra i
costi del conto economico 2016 e nel passivo dello stato patrimoniale al 31.12.2016), ma in cambio nel conto economico ci sarebbe,
fra i costi del 2016, il premio assicurativo pagato di 50.000 € e nello stato patrimoniale maggiori debiti (o
minore liquidità se, come è la regola, il premio assicurativo è pagato anticipatamente) per 50.000 €.
Che un “accantonamento al fondo rischi” abbia una natura diversa da un acquisto di un servizio
assicurativo non è ragionevole: sono entrambi costi e la loro funzione è la stessa: quella di prepararsi a
fronteggiare eventi negativi futuri e incerti causati da attività già svolte, ma nonostante questo il premio di
assicurazione riduce il valore aggiunto e l’accantonamento no.
C2) Ancora errata imputazione di costi (sottovalutazione): l’ufficio marketing, per promuovere le
vendite e contemporaneamente fidelizzare la nostra clientela, ci ha convinto di dare inizio nell’ultimo
trimestre del 2016 a una “operazione a premio”. Ci siamo così impegnati a consegnare dei regali (peluche di
personaggi Disneyani) ai clienti che entro il 30 giugno 2017 avranno raccolto sufficienti prove d’acquisto dei
nostri prodotti. Al momento di fare il bilancio del 2016, non sapendo quanti ce ne saranno richiesti, non
abbiamo ancora provveduto all’acquisto dei peluche; siamo però certi di aver già maturato, per le vendite
dell’ultimo trimestre, l’impegno alla consegna di un numero imprecisato di peluche, e questo impegno è un
debito che già abbiamo il 31 dicembre 2016 nei confronti della nostra clientela.
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Ecco allora che dobbiamo inserire nel conto economico, fra i costi del 2016, il valore dei peluche
collegabile alle vendite 2016 e, nel passivo patrimoniale, quel debito che dovrò stimare con prudente buon
senso e inserirlo alla voce “Fondi spese”.
In effetti, la ragione per la quale gli ammortamenti e gli accantonamenti non si sottraggono al
valore della produzione e si considerano tra i costi solo verso la fine del conto economico lasciandoli sia
nel valore aggiunto sia nel MOL (altrimenti detto EBITDA) è, in realtà, soltanto riconducibile al fatto che tali costi
non sono monetari, nel senso che a questi componenti negativi di reddito non è collegabile, nel periodo che
ci interessa al fine del bilancio (periodo in cui hanno offerto la loro utilità o comunque sono maturati) alcuna uscita monetaria: nel
caso degli ammortamenti l’uscita monetaria è relativa all’acquisto della immobilizzazione, e quindi è stata
registrata in un precedente esercizio; nel caso dell’accantonamento a fondo rischi o oneri l’uscita monetaria
la si avrà in un esercizio successivo, quando si dovranno sostenere le spese (per le riparazioni in garanzia, per il premio di
raggiungimento budget, per l’indennizzo del danno provocato e per l’acquisto dei peluche nei quattro esempi fatti).
Questo è il motivo per cui molti considerano gli ammortamenti e gli accantonamenti una forma
di autofinanziamento aziendale, seppure aggiungendo, per pudore, l’aggettivo “improprio”.
Per meglio consolidare questo non facile concetto può essere utile fare un paio d’altri esempi,
integrandoli questa volta con le scritture contabili ad essi relative e rispiegando in parole un po’ diverse il
tutto.
Chi fosse convinto di aver già compreso pienamente la questione può saltare direttamente fino al
capitolo 9) (a pagina 26) relativo agli indici di bilancio, ché tanto ora qui non aggiungo nulla di nuovo.
Siamo la Smeg e garantiamo i nostri prodotti per 3 anni; a fine esercizio 2016 stimiamo in
2.000.000 di euro il valore dei servizi di riparazione che dovremo eseguire in garanzia nei prossimi tre anni
sui prodotti venduti quest’anno. L’annotazione contabile è: accantonamento per rischi di garanzia (R) Fondo rischi di garanzia (P)
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------ -------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
| | 3.000.000 (saldo iniziale)
31/12/2016 2.000.000 | | 2.000.000 (31/12/2016) (saldo finale) 2.000.000 | | 5.000.000 (saldo finale)
Quiz per principianti (a livello 0): cosa rappresentano i 3.000.000 di saldo iniziale (cioè al 1/1/2016) del conto “Fondo rischi di garanzia”? Quiz per principianti (livello – 1): perché non c’è alcun saldo iniziale nel conto reddituale “accantonamento per rischi di garanzia”? Nota per appassionati: ribadisco che sarebbe più corretto considerare i 2 milioni come una rettifica in diminuzione ai ricavi del 2016, ma per prassi contabile li si inserisce fra i costi.
Come si vede, i 2 milioni “accantonati” sono finiti in avere di un conto patrimoniale, e quindi
incrementano le fonti di finanziamento.
Allo scopo di evitare clamorosi equivoci e madornali errori di comprensione (in cui peraltro sono soliti
cadere avvocati, magistrati, sindacalisti e politici), può essere utile ribadire ai principianti (a livello – 2) e ai più distratti che
“accantonare 2 milioni di euro” a un fondo non significa mettere da parte 2 milioni di euro per
conservarli sul conto corrente o in un qualche altro posto (magari su un libretto di deposito o in un cassetto o dentro la
zuccheriera) fino a quando dovranno essere usati per finanziare le uscite monetarie future relative agli
indennizzi o alle riparazioni in garanzia (nel caso di fondi rischi) o all’acquisto dell’attrezzatura nuova (nel caso di fondo
di ammortamento); infatti accantonare 2 milioni di euro in un fondo (fondo rischi o fondo ammortamento che sia) significa
unicamente ridurre il risultato di esercizio di 2 milioni, e quindi ridurre di 2 milioni l’importo dell’utile
disponibile per una eventuale distribuzione ai soci.
Ad esempio: senza un certo accantonamento al Fondo rischi l’utile 2016 di una certa azienda
risulterebbe pari a 10 milioni, facendo così arrivare il capitale proprio, che inizialmente magari era pari a
90 milioni, a 100 milioni; con un accantonamento di 2 milioni l’utile risulta di soli 8 milioni e così il
capitale proprio raggiunge solo 98 milioni. A fronte di questi 2 milioni di minor incremento della voce
“capitale proprio” vi è l’incremento di 2 milioni della voce Fondo rischi, anch’essa, giustamente, situata fra
le fonti di finanziamento. L’accantonamento al fondo serve proprio per rettificare di 2 milioni il
patrimonio netto aziendale, perché quegli euro non sono ricchezza creata dall’attività aziendale bensì
rappresentano un debito sorto a causa dell’attività svolta.
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Gli accantonamenti sono costi (o minori ricavi) che vengono correttamente inseriti (in sede di scritture di
assestamento) nel “dare” del conto economico in virtù della loro competenza, originando come contropartita in
avere una voce patrimoniale di bilancio che ha natura di debito o di rettifica in diminuzione di un valore
attivo patrimoniale e la cui denominazione ricorda la natura del componente economico.
Non di rado tali scritture contabili traggono origine da stime di eventi che non è nemmeno certo
accadranno; si definiscono, infatti, “costi futuri incerti sia nella loro esistenza e nell’importo, oppure
soltanto incerti nel loro importo”.
Esempio del primo tipo (costo incerto sia nell’esistenza che nell’importo) e debito come contropartita (in avere):
un cliente imputa a una nostra fornitura un danno da lui subito (e che noi non abbiamo coperto da assicurazione)
e pertanto reclama il risarcimento. Al 31.12, non riconoscendo noi la nostra responsabilità, siamo ancora
nella fase del suo accertamento da parte di un collegio arbitrale (o, Dio ce ne scampi, di un giudice statale). In base ai
principi della prudenza e della competenza imposti dalla legge e dalla dottrina aziendalistica, dobbiamo
stimare un onere (un costo) da imputare all’esercizio anche se speriamo che non lo subiremo.
Esempio del secondo tipo (costo certo nell’esistenza ma non nell’importo) e debito come contropartita (in avere): idem, ma siamo consapevoli della nostra responsabilità, e al 31.12 siamo però ancora in attesa
della determinazione da parte del collegio arbitrale del danno che dovremo risarcire.
La scrittura contabile, semplificando al massimo, in entrambi i casi può essere:
Oneri per R.C. Prodotti . R . Fondo rischi per Responsabilità Civile P
XY | | XY
Altro esempio del primo tipo (costo incerto sia nell’esistenza che nell’importo) ma con rettifica in diminuzione
dell’ attivo (del dare) come contropartita:
per esperienza sappiamo che ogni anno non ci vengono saldati crediti commerciali, della cui
bontà pure non abbiamo motivo di dubitare, per un importo normalmente prossimo all’1% delle vendite. A
fine anno avevamo crediti verso clienti per 7.050.000 €, e tra questi 50.000 € di credito verso un cliente che
sappiamo già essere in difficoltà finanziarie, tanto che stimiamo che ci pagherà solo il 40% (cioè di quei 50.000 €
ne perderemo probabilmente 30.000) In sede di redazione del bilancio al 31.12 dobbiamo stimare, con prudenza e
onestà, che 100.000 € (1% di 7.000.000 più i 30.000 del credito specifico) non ci verranno mai più pagati.
La scrittura contabile, sempre semplificando, può essere:
Svalutazione crediti (voce B10.d del conto ec.) R Fondo svalutazione crediti (voce CII dello stato patr.) P
100.000 | | 100.000
O, meglio, quella qui sotto;
Svalutazione crediti R Fondo svalutazione crediti P .
100.000 | – 100.000 |
Il risultato economico del periodo e il capitale netto finale a cui si perviene con le due scritture di
assestamento alternative sono ovviamente gli stessi, ma la differenza non è comunque puramente formale:
la seconda scrittura, infatti, evidenzia la realtà in modo più rispettoso, in quanto in questo modo (immettendo la
posta correttiva in diminuzione subito sotto il valore nominale dei crediti commerciali) si segnala un valore attivo patrimoniale pari a
quello che si ritiene corretto, mentre con la prima (che evidenzia tra le fonti il valore del fondo) si mantiene l’attivo
patrimoniale “gonfiato” di un valore che pure si ritiene probabilmente già andato perduto.
Segnalo, infine, che quando, l’anno successivo, la perdita si realizza davvero (il cliente fallisce, oppure ci
accordiamo con lui e, seguendo la saggia regola del “pochi, maledetti ma subito” rinunciamo a una parte del credito) si utilizzerà il fondo per
“coprire” la perdita, e quindi la scrittura sarà
Fondo valutazione crediti P Cliente Caio Tizio P .
WQ | | WQ
o, nel caso il fondo non fosse più capiente,
Perdite su crediti (voce B14 del conto.ec.) R Cliente Caio Tizio P .
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9) L’analisi mediante gli “indici di bilancio”.
Breve sintesi del percorso fatto fino a ora:
Siamo partiti dalla constatazione che se vuoi farti un’idea dell’azienda Pinca Pallina il più delle
volte hai solo a disposizione – se non hai una posizione “interna” privilegiata – il suo bilancio ufficiale
depositato al Registro Imprese della CCIAA;
poi abbiamo visto che, essendo questo bilancio strutturato in modo piuttosto penoso (soprattutto per le infelici
scelte del legislatore, in particolare in relazione al conto economico), è necessario rielaborarlo procedendo alla “riclassificazione”,
sia dello stato patrimoniale sia del conto economico, anche utilizzando le informazioni leggibili nella
nota integrativa e nella relazione degli amministratori (anch’essi documenti facenti parte del bilancio);
abbiamo poi verificato come la riclassificazione dello stato patrimoniale consista essenzialmente
nell’ordinare in modo più chiaro le voci dell’attivo e delle fonti in funzione – rispettivamente – della
loro liquidità e della loro esigibilità;
abbiamo dedicato più tempo alla riclassificazione del conto economico perché i limiti informativi del
conto economico ufficiale sono più gravi di quelli dello stato patrimoniale (il cui schema imposto dalla legge è già
sostanzialmente ordinato in base alla liquidità dell’attivo e alla esigibilità delle fonti), derivando questi limiti informativi (intendo quelli
del conto economico “civilistico”) anche dal fatto che non essendoci una chiara distinzione fra componenti
reddituali della gestione tipica (o caratteristica) e quelli invece della gestione atipica (extra-caratteristica) non sono
nemmeno leggibili i tre importanti risultati intermedi del: 1. valore aggiunto; 2. EBITDA (o margine
operativo lordo); 3. EBIT (o risultato operativo); per superare tali limiti si deve quindi ricostruire il
conto economico nella forma scalare “a valore aggiunto”.
Infine, anche per un utile ripasso dei concetti di base ragionieristici, ci siamo soffermati sul concetto di
autofinanziamento (proprio e, soprattutto, improprio). Resta ora da trattare gli “indici di bilancio”.
9.1) Dalla riclassificazione agli indici.
Mentre i “margini” sono delle differenze (e, grazie al libro, già conoscete il “margine di tesoreria”, il “margine di
struttura” e il “capitale circolante netto” che, seppure non ha nel nome il termine “margine” lo è comunque, essendo una differenza), gli indici sono
dei rapporti fra due grandezze, e così gli “indici di bilancio” sono rapporti fra due dati del bilancio.
Per poter trovare un rapporto (ratio, in inglese) occorre, e non ci vuole Newton per capirlo,
conoscere il numeratore e il denominatore. Spesso, però, i dati da mettere in rapporto non sono
esplicitamente segnalati nel bilancio depositato perché – come abbiamo visto e appena ripetuto – questo segue
obbligatoriamente una schema previsto dalla normativa civilistica (= dalla legge) che, usando un eufemismo, non
è l’ideale in termini di efficacia informativa. Ecco perché, prima di procedere con l’analisi per indici,
occorre passare dalla fase della riclassificazione del bilancio, in modo da ottenere quelle voci che, messe in
rapporto fra loro, ci daranno il valore dell’indicatore cercato.
Di indici se ne possono calcolare a cariolate, essendocene tantissimi e di vari tipi: ci sono indici
che mettono in rapporto due valori entrambi dello stato patrimoniale, oppure due valori entrambi del conto
economico, ma vi sono anche indici costituiti dal rapporto di un valore indicato nello stato patrimoniale e
un valore presente nel conto economico o viceversa. Il risultato di ognuno di questi rapporti potrà essere
indicativo dell’andamento economico, oppure della condizione patrimoniale o di quella finanziaria
dell’impresa (1), ma una cosa deve essere ben chiara:
nessun indice, da solo, è adeguatamente significativo!
Ogni indice, infatti, deve essere interpretato e valutato sia in una visione d’insieme, cioè
con gli altri indici (relativi alla stessa azienda) ad esso correlati, sia in una visione dinamica, cioè
osservandone l’andamento nel tempo, in modo da comprendere in quale direzione si sta muovendo
l’impresa, e, infine e facendo confronti con i valori medi di aziende analoghe, in una visione spaziale,
nell’ipotesi, ovviamente, che siano disponibili dati attendibili di un numero sufficientemente ampio di
aziende simili per settore di attività e per dimensione.
(1) L’aspetto finanziario di un’impresa è, per come lo intendo io, una parte del più generale aspetto patrimoniale, e precisamente la parte che riguarda gli elementi patrimoniali costituiti da crediti, liquidità e debiti.
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Gli indici si possono classificare in vari modi, qui suddivido quelli forse usati più spesso in cinque gruppi:
1. gli indici di struttura, tramite i quali si valuta la solidità patrimoniale dell’azienda, cioè l’equilibrio fra
impieghi e fonti (il libro li suddivide fra “indici di solidità” e “indici di composizione delle fonti”);
2. gli indici finanziari, da cui trarre un giudizio sull’equilibrio finanziario dell’azienda, cioè sulla sua
capacità di far fronte nel futuro, soprattutto prossimo, ai pagamenti (per il libro “indici di liquidità”);
3. gli indici di rotazione (o di durata), con i quali otteniamo informazioni sulla tempistica dei pagamenti
commerciali (sia vendite che acquisti) e sull’efficienza della gestione scorte;
4. gli indici di produttività, significativi dell’efficienza della struttura produttiva aziendale;
5. gli indici di redditività, che informano sulla capacità di creare ricchezza in rapporto al capitale impiegato.
Gruppo Nome INDICE Significatività
Indici di
struttura
I. di indebitamento Capitale di terzi
-------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Totale attivo
Più è basso e meglio è: valori vicini al 75% sono
in genere allarmanti (salvo si tratti di banche o altre aziende
del settore finanziario in cui è fisiologico arrivare al superare il 90%)
I. di indipendenza (o
di autonomia finanz.)
Capitale proprio
-------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Totale attivo
E’ il complemento a 1 del precedente, pertanto
offre la stessa informazione. Un tempo si esigeva
almeno il 50%, ora spesso si tollera anche il 25%)
I. di autocopertura delle
immobilizzazioni (A)
Capitale proprio
-------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Immobilizzazioni
Più è alto meglio è; se poi è > di 1 significa che
il capitale netto finanzia anche una parte del
capitale circolante e, di questi tempi, va di lusso.
I. di copertura delle
immobilizzazioni (B)
Capitale proprio + passività consolidate
----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Immobilizzazioni
Se < a 1 è allarmante: significa che una parte di
immobilizzazioni è finanziata da debiti a breve,
e ciò è destabilizzante (anche di questi tempi).
Indici
finanziari
Indice di disponibilità
(all’inglese: current ratio)
Capitale circolante
--------------------------------------------------------------------------------------------------
Passività a breve termine
Offre la stessa informazione dell’ I. di copertura
delle immobilizzazioni “(B)”, e se è minore di
1 è allarmante: troppe fonti a breve termine.
Indice di liquidità o
anche “prova acida”
(all’inglese: quick ratio)
Capitale circolante meno scorte
-----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Passività a breve termine
In pratica cassa+crediti a b./t. in rapporto
ai debiti a b.t.: meglio se > di 1, ma valori
di poco inferiori si possono tollerare.
Indici di
rotazione
(di durata)
I. di rotazione dei crediti
Fatturato del periodo + IVA
---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Crediti commerciali medi
Più è elevato e meglio è: un indice pari a 12
significa che i clienti ci pagano in media a un
mese dalla vendita
gg dilazione media vendite 365 ÷ I. rotazione crediti Offre la stessa informazione del precedente
I. rotazione del magazzino Costo del venduto
----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Valore medio scorte
Più è elevato e meglio è: segnala una gestione
del magazzino efficiente
gg medi permanenza scorte 365 ÷ I. rotazione scorte Offre la stessa informazione del precedente
I. rotazione debiti commerc. Acquisti del periodo + IVA ----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Debiti medi v/fornitori
Un indice basso (ad es. pari a 3), segnala che i
fornitori concedono tempi lunghi (4 mesi, se il
periodo dell’esempio è l’anno) per pagare gli acuisti.
gg dilazione media acquisti 365 ÷ I. rotazione debiti Offre la stessa informazione del precedente
Indici di
produttività
Produttività del lavoro
Valore aggiunto ----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Numero di dipendenti oppure
Costo del personale
Segnala qual è il contributo di ogni dipendente (o di
ogni euro di costo del lavoro) al valore della
produzione che si origina all’interno dell’azienda
Costo medio per dipendente Costo del personale dipendente -----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Numero di dipendenti 4 Evidenzia il costo medio di un dipendente.
R.O.S.
(Return On Sale)
Risultato Operativo (EBIT)
---------------------------------------------------------------------------------------------------------
Ricavi di vendita
Rapportando il reddito operativo con le
vendite si individua il loro rendimento; è un
buon indicatore della efficienza produttiva.
Indici di
reddittività
R.O.I.
(Return On Investment)
Risultato Operativo (EBIT) -------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Capitale investito (al netto di eventuali
valori patrimoniali riferibili ad attività extraca - ratteristica, ad esempio immobili concessi in
locazione)
Mentre il R.O.S. evidenzia l’efficienza della
azione produttiva aziendale, il R.O.I., calco-
lando la redditività degli investimenti, misura
efficacemente l’efficienza della struttura pro-
duttiva dell’azienda.
R.O.E. (Return On Equity)
(in italiano: Redditività del
capitale proprio
Utile netto
-----------------------------------------------------------------------------------
Capitale proprio
Esprime la redditività del cap. di rischio. Va
confrontato con la redditività di investimenti
a rischio simile e a rischio 0 (Bund teutonici).
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Gli indici di struttura sono anche detti “indici patrimoniali” e, ovviamente, servono a
misurare l’equilibrio patrimoniale dell’azienda.
Tra gli indici finanziari possono essere compresi anche gli indici di rotazione, detti anche
“indici di durata”, e hanno comunque a che fare con la gestione dell’attivo circolante (liquidità, crediti
commerciali e scorte) e del passivo a breve (debiti di fornitura).
Gli “indici di redditività” e gli “indici di produttività” sono entrambi anche detti indici economici, in quanto il loro scopo è valutare l’equilibrio economico aziendale: i primi (di redditività)
verificano l’economicità complessiva della gestione aziendale, quelli di produttività misurano in genere
l’efficienza di singoli fattori produttivi, principalmente il fattore lavoro.
9.2) Indici e equilibrio aziendale.
Si è detto che l’analisi per indici contribuisce non poco a comprendere se l’azienda è sana,
efficiente ed equilibrata.
Solitamente l’equilibrio aziendale è valutato sotto tre aspetti principali, in quanto gli eventuali
squilibri messi in luce dagli indici e che possono rendere non sana un’azienda potrebbero essere presenti
sul lato economico, su quello finanziario e su quello patrimoniale (non di rado i tre squilibri sono contemporanei).
a) equilibrio economico: un’azienda è equilibrata economicamente se ottiene profitti soddisfacenti
rispetto al capitale investito;
b) equilibrio finanziario: un’azienda è equilibrata finanziariamente se ha liquidità sufficiente a far
fronte ai propri pagamenti senza dover ricorrere a svendite rovinose, a prestiti a tassi eccessivi o a
pagamenti in natura; in pratica non si è lontani dal vero affermando che si ha uno squilibrio finanziario se
la liquidità immediata non riesce a coprire i debiti a breve;
c) equilibrio patrimoniale: un’azienda è equilibrata patrimonialmente se non presenta:
• nell’attivo troppe immobilizzazioni rispetto al totale degli impieghi, cioè se ha un attivo non
eccessivamente rigido;
• nel passivo un patrimonio netto troppo basso rispetto all’attivo, cioè se non ha troppi debiti e soprattutto
troppi debiti a breve.
Gli squilibri sono, poi, spesso tra loro collegati. Ad esempio:
STATO PATRIMONIALE CONTO ECONOMICO molte immobilizzazioni → ammortamenti elevati
troppi debiti → interessi passivi elevati troppe scorte → eccesso di costi riferibili al magazzino
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10) La leva finanziaria e i suoi effetti.
10.1) Il costo dell’indebitamento. Per comprendere la “leva finanziaria” è preliminarmente necessario definire un altro indice
(inquadrabile fra quelli di redditività): il R.O.D. (Return On Debt) che è dato dal rapporto fra oneri finanziari e debiti
( R.O.D. = Oneri finanziari ÷ Debiti ); in pratica, e non occorre un gran intuito per arrivarci, è il tasso d’interesse
medio a cui l’azienda si finanzia.
Come per tutti gli indici, anche nel calcolo del ROD occorre rapportare valori omogenei: in caso
contrario, se cioè numeratore e denominatore non sono adeguatamente coerenti fra loro, allora il valore
dell’indice ha scarsa significatività e, anzi, rischia di dare informazioni fuorvianti. Nel caso del ROD,
l’esigenza di omogeneità impone che al denominatore vi siano solo i debiti per i quali all’azienda sono
addebitati, esplicitamente o in modo implicito, degli oneri finanziari e che, contemporaneamente, al
denominatore siano inseriti solo i debiti per i quali quegli interessi maturano.
Tra i debiti al denominatore, quindi, non vi sono i debiti per l’esistenza dei quali non si sostiene
alcun onere finanziario; tipicamente si tratta dei debiti verso i dipendenti per competenze ancora da
corrispondere (compreso il T.F.R.), di quelli verso lo stato e gli enti previdenziali (a meno che non si sia ottenuto la rateizzazione
onerosa delle imposte e dei contributi dovuti), dei ratei e risconti passivi (se non originati da operazioni di finanziamento) e dei fondi
rischi e spese.
I debiti commerciali, infine, meritano qualche riga in più di osservazioni. Se siamo al corrente
del fatto che alcuni fornitori praticano all’azienda prezzi maggiorati per tenere conto della concessione di
maggiori dilazioni concesse per i pagamenti, allora è necessario inserire al numeratore il costo per questi
interessi impliciti e al denominatore questi debiti di fornitura; se, però e come capita frequentemente, non
abbiamo queste informazioni e siamo quindi in grado di conoscere l’ammontare solo degli interessi
espliciti sui debiti di finanziamento, allora escluderemo dal denominatore tutti i debiti di fornitura.
Resta da chiarire, a questo punto, l’esclusione dal denominatore del fondo di trattamento di fine
rapporto, in modo da prevenire le obiezioni che sono certo tutti voi avete urgenza di espormi consapevoli
come siete del fatto che su tali debiti l’azienda paga, e in modo esplicito, un interesse (al tasso, come certamente
ricordate, dell’1,5% + i ¾ del tasso d’inflazione).
Il motivo per cui non si tiene conto di tali interessi e di questi debiti sta nel fatto che l’ammontare
del debito per TFR e quindi anche dei relativi interessi non dipendono dalle scelte finanziare dell’azienda
ma, rispettivamente, da decisioni attinenti alla produzione (quanti dipendenti ho e con quale anzianità media) e da
imposizioni esterne (del legislatore che ha regolamentato il T.F.R.). Come vedremo fra poco, la ricerca del ROD e della
collegata leva finanziaria è effettuata per valutare l’opportunità se finanziare maggiormente l’attività con
capitale di terzi o con capitale proprio, ma la variazione del debito verso i dipendenti per TFR è
sostanzialmente subita dall’azienda, in quanto in gran parte non dipendente da una sua scelta.
10.2) L’interesse di chi ha conferito il capitale di rischio.
Se assumiamo l’ipotesi, certamente realistica, che l’interesse dei soci (azionisti o comunque finanziatori con
capitale di rischio) sia quello di massimizzare il tasso di rendimento dei propri investimenti personali, allora
l’obiettivo che l’azienda deve porsi è quello di rendere massimo il ROE (che è il rapporto fra utile netto e capitale proprio).
Se ipotizziamo poi (ma questa è un’ipotesi più “forte” della precedente, cioè più spesso lontana dalla realtà) che un aumento
del capitale investito non modifichi il ROI (e quindi se ipotizziamo che gli investimenti aggiuntivi abbiano un rendimento analogo a quelli
già in essere), allora un aumento del capitale investito provoca un proporzionale aumento del reddito operativo (il altre parole ipotizziamo che se l’attivo aziendale aumenta, ad esempio, del 10%, allora aumenta del 10% anche il reddito operativo).
Questa relazione di proporzionalità diretta in genere non vale, invece, tra incremento dell’attivo e
aumento del reddito netto: un aumento dell’X% dell’attivo aziendale, pur mantenendo l’ipotesi che il ROI
non si modifichi, porterà a una variazione del reddito netto dell’Y% con Y che può essere diverso e anche
di molto da X, tanto da poter assumere anche segno negativo pur in presenza di X positivo: questo capita
quando l’incremento di interessi passivi originato dall’indebitamento che ha finanziato il nuovo
investimento è superiore all’aumento (in euro) del reddito operativo.
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Detto in altri termini: all’aumentare del capitale investito e anche supponendo che il nuovo attivo
mantenga la stessa redditività operativa (cioè che il ROI non cambi), il reddito netto è possibile che vari in
proporzione diversa e perfino che diminuisca.
Oltre a ciò, c’è da considerare che, come già detto, al portatore di capitale di rischio (cioè al socio che
ha investito nell’azienda parte del suo patrimonio personale) quello che più interessa non è tanto il valore in euro del reddito
netto aziendale quanto il suo valore percentuale rispetto all’importo che ha investito: guadagnare 20
all’anno investendo 100 (quindi a un tasso di rendimento del 20%) dà più soddisfazione che guadagnare 30 avendo però
investito 200 (con un tasso di rendimento del 15%).
Per prudenza vediamo un esempio utilizzando, per non complicare inutilmente il caso,
un’azienda senza attività non caratteristica e con gestione straordinaria inesistente.
L’azienda ha impieghi totali pari a 2.000, reddito operativo pari a 200 (e quindi ROI pari al 10%),
capitale proprio pari a 800 e debiti finanziari di 500 su cui paga 20 di interessi (al tasso, quindi, del 4%);
ipotizzando un’aliquota d’imposta sul reddito è del 40% il reddito netto risulta 108 [200 (redd.op.) – 20 (int.pass.) –
40%*(200 – 20) (imposte)] e il ROE è 13,5% [108 / 800 ].
Ora ipotizziamo un incremento dell’attivo di 1.000 (il totale attivo da 2.000 aumenta a 3.000, e quindi del 50%)
finanziato con 1.000 di aumento di capitale netto (che, quindi, da 800 passa a 1.800): date le ipotesi riportate, il
reddito operativo da 200 aumenta a 300 (i 200 di partenza + 10%*1.000), mentre il reddito netto da 108 aumenterà
a 168 [300 (redd.op.) – 20 (int.pass.) – 40%(300 – 20)]; a fronte di un incremento rilevante del reddito (che aumenta di 60 su 108
e quindi del 56%) il ROE, però, scende dal 13,5% al 9,3% (168 / 1.800).
Se l’investimento di 1.000 fosse stato finanziato tutto a debito e all’usuale (per quell’azienda) 4% di
tasso, le conseguenze sarebbe state queste: Reddito Netto 144 [300 (redd.op.) – 60 (int.pass.) – 40%(300 – 60) (imposte)], e
quindi minore dei 188 del caso precedente, ma il ROE sarebbe salito al 18% (144 / 800) dando maggiore
soddisfazione agli azionisti grazie a una redditività del loro personale investimento nell’azienda quasi
raddoppia (il 18% invece del 9,3%) rispetto a quella di cui avrebbero beneficiato se l’espansione aziendale fosse
stata finanziata con capitale di rischio. Investimento finanziato con capitale di rischio
Prima Dopo Impieghi Situazione patrimoniale Passivo e Netto Impieghi Situazione patrimoniale Passivo e Netto
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------ ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Immobilizzazioni X | 800 Patrimonio Netto Immobilizzazioni W | 1.800 Patrimonio Netto | 500 Debiti finanziari | 500 Debiti finanziari Capitale circolabte Y | 700 Altri debiti e Fondi Capitale circolabte Z | 700 Altri debiti e Fondi
-------------------------------- -------------------------------- -------------------------------- ----------------------------- Totale Attivo 2.000 2.000 Tot. Fonti di finanz. Totale Attivo 3.000 3.000 Tot. Fonti di finanz.
Conto economico precedente Conto economico successivo
Valore della produzione X Valore della produzione Y .... .... ... .... .... ... .... .... ... .... .... ...
Reddito operativo (EBIT) 200 Reddito operativo (EBIT) 300
Saldo gestione finanziaria - 20 Saldo gestione finanziaria - 20
Utile lordo (ante imposte) 180 Utile lordo (ante imposte) 280 Imposte sul reddito (40%) - 72 Imposte sul reddito (40%) - 112
Utile Netto 108 ROE = 13,5% ROE = 9,33% Utile Netto 168
Investimento finanziato con capitale di debito
Prima Dopo Impieghi Situazione patrimoniale Passivo e Netto Impieghi Situazione patrimoniale Passivo e Netto
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------ ---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- --------------------------------------------------------------
Immobilizzazioni X | 800 Patrimonio Netto Immobilizzazioni W | 800 Patrimonio Netto | 500 Debiti finanziari | 1.500 Debiti finanziari Capitale circolabte Y | 700 Altri debiti e Fondi Capitale circolabte Z | 700 Altri debiti e Fondi
-------------------------------- -------------------------------- -------------------------------- ----------------------------- Totale Attivo 2.000 2.000 Tot. Fonti di finanz. Totale Attivo 3.000 3.000 Tot. Fonti di finanz.
Conto economico precedente Conto economico successivo
Valore della produzione X Valore della produzione Y .... .... ... .... .... ... .... .... ... .... .... ...
Reddito operativo (EBIT) 200 Reddito operativo (EBIT) 300
Saldo gestione finanziaria - 20 Saldo gestione finanziaria - 60
Utile lordo (ante imposte) 180 Utile lordo (ante imposte) 240 Imposte sul reddito (40%) - 72 Imposte sul reddito (40%) - 96
Utile Netto 108 ROE = 13,5% ROE = 18% Utile Netto 144
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10.3) Il rischio dell’indebitamento.
Come si è visto, condizione necessaria e sufficiente affinché la decisione di finanziare
l’espansione aziendale con l’indebitamento abbia effetti positivi sul margine operativo è che l’investimento
fatto (e quindi l’incremento dell’attivo) abbia una redditività, in termini di EBIT, maggiore degli interessi aggiuntivi
che il finanziamento comporta; restando invariato il capitale proprio, anche il ROE migliora, ed è questo
che misura più correttamente la convenienza per i soci.
Non dovete, però, sottovalutare il fatto che la decisione basata sul confronto fra redditività
dell’investimento e costo del finanziamento è fatta su valori previsti, e se è vero che il costo che si dovrà
sopportare per la fonte finanziaria può essere reso certo (ad esempio stipulando un finanziamento a tasso fisso per tutta la sua
durata o tramite acquisto di “derivati”), è anche vero che la resa dell’investimento non la può prevedere nemmeno il
divino mago Otelma (https://it.wikipedia.org/wiki/Divino_Otelma), e perciò è inevitabile che tutto sia basato su congetture
o, in non pochi casi, su pure fantasie.
Ma anche nel caso che la previsione si riveli corretta o che la fantasia si trasformi in realtà, in
(cioè se il ROE aumenti davvero dando soddisfazione agli azionisti) non è detto, però, che sia stata fatta la scelta giusta: non
bisogna sottovalutare, infatti, il maggior rischio che l’incremento dell’indice di indebitamento (il rapporto
“Debiti / Tot. attivo”) e quindi il peggioramento dell’equilibrio patrimoniale comporta per il futuro aziendale.
In altre parole: se anche la scelta d’indebitarsi arriva a migliorare l’equilibrio reddituale, peggiora però
comunque quello patrimoniale, e non sempre il vantaggio del primo effetto compensa lo svantaggio del
secondo, soprattutto considerando che col passare del tempo e l’evolversi del sistema economico (a causa
soprattutto – ma non solo – della globalizzazione e della conseguente sempre maggiore complessità dell’ambiente in cui le aziende operano) l’incertezza del futuro si è fatta e si farà sempre maggiore e quindi le previsioni sulla redditività degli
investimenti si sono fatte e si faranno sempre più incerte e la loro attendibilità nel medio-lungo periodo
tende allo zero; ecco allora che la solidità patrimoniale diviene sempre più necessaria al fine di avere
sufficienti “riserve” per superare i sempre più imprevedibili e contemporaneamente probabili periodi in cui
la redditività sarà negativa.
Sintetizzando brutalmente: indebitarsi è inevitabile (almeno per le aziende) e spesso è anche opportuno,
ma indebitarsi molto è inevitabilmente rischioso e raramente opportuno.
10.4) La scomposizione del ROE
Poiché la differenza fra reddito operativo e reddito netto è data dalla somma algebrica di tutti i
componenti reddituali non caratteristici (costituenti la gestione finanziaria, la gestione fiscale e l’eventuale gestione accessoria) e di quelli
straordinari (frutto di eventi occasionali e quindi non ripetibili periodicamente), il rapporto “Reddito netto / Reddito operativo”
dà l’idea di quanto la gestione non caratteristica e i fatti straordinari abbiano pesato nel periodo di bilancio.
Questo “tasso d’incidenza della gestione non caratteristica” è in genere minore di uno (minore del 100%) in
quanto di norma la gestione finanziaria e quella fiscale contribuiscono negativamente al risultato finale.
Un tasso d’incidenza del 20% significa che la gestione non caratteristica incide per l’80% del reddito
operativo.
Dal momento che ROI = Reddito Operativo / Totale Impieghi e Leverage = Totale Impieghi / Capitale Proprio si
può scrivere che “ROI x Leverage x tasso d’incidenza della gestione non caratteristica” è uguale al ROE.
Infatti:
Reddito Operativo Totale Impieghi Reddito Netto Reddito Operativo Totale Impieghi Reddito Netto
--------------------------------------------------------------- x ------------------------------------------------------- x ----------------------------------------------------------- → --------------------------------------------------------------- x ------------------------------------------------------- x ----------------------------------------------------------- →
Totale Impieghi Capitale Proprio Reddito Operativo Totale Impieghi Capitale Proprio Reddito Operativo
(ROI) x (Leverage) x (incid.gest.non car.) = (ROE)
Reddito Netto ---------------------------------------------------------- Capitale Proprio
E’ quindi corretto dire che il ROE (Reddito Netto / Capitale Proprio), cioè la redditività del capitale di rischio, è
il frutto di (dipende da, è scomponibile in) tre fattori: il ROI, il Leverage e il peso della gestione non caratteristica.
32
Il problema del debito. Questa pagina, pur non avendo un’attinenza stretta con l’argomento “bilancio e sua analisi”, è ugualmente a esso collegata, trattando di debito,
patrimonio e ricchezza. C’è nulla di nuovo, essendo concetti già affrontati in passato (e so bene per che la gran parte di voi sembreranno inesplorati).
Il debito non è necessariamente un problema, né il debito privato (delle aziende e delle famiglie), né il debito
pubblico (dello stato e degli altri enti pubblici, territoriali e non) e, anzi, può pure essere una opportunità, una scelta razionale e utile;
ma il debito pubblico, come problema, è più frequente e più grave del debito privato.
Inoltre, quando il debito privato diventa un problema diffuso (cioè quando la % di debitori privati a rischio è alta, allora
la responsabilità originaria non è dell’economia (cioè delle scelte private) ma della politica (cioè delle scelte pubbliche).
Quando il debito è un problema: nel caso finanzi un maggior consumo (Il testo ha un senso compiuto anche se letto nelle sue sole parti in grassetto. Solo la lettura integrale, però, ne permette la completa comprensione).
Se ci si indebita per realizzare investimenti in beni produttivi [per le aziende: macchinari, impianti, ricerca e
studio di nuovi prodotti o processi produttivi ecc.; per le famiglie: la casa (che produrrà per decenni il servizio di abitazione), il
corso di studi all’estero – serio, non a Ibiza o dintorni – per i figli (che migliora il capitale umano e quindi le capacità di produrre servizi utili in
futuro); per gli enti pubblici: strade, porti e altre infrastrutture ecc. (che rendono + efficienti i trasporti, le comunicazioni e gli scambi in
genere); ospedali e altre strutture sanitarie (che migliorano la salute e quindi anche le capacità lavorative della popolazione); scuole che
aumentino le capacità razionali e cognitive degli studenti e che quindi riducano nella popolazione la percentuale di
scelte idiote, siano esse “private” (vado all’università per continuare a divertirmi), o siano scelte “politiche” (vado a votare lasciandomi
convincere dagli slogan e in realtà capendo nulla di ciò che capita)] allora la scelta è sempre razionale, anche se non
necessariamente si rivelerà corretta (in quanto il futuro è imprevedibile e tutte le scelte, anche le più ponderate e razionali, possono rivelarsi errate).
Se ci si indebita per aumentare i consumi rispetto a quelli che sarebbero possibili con le sole disponibilità
monetarie del momento, la conseguenza è che “ci si mangia il capitale” e quindi si riduce la capacità produttiva futura [poiché è il capitale (inteso correttamente come beni di produzione, non come “capitale finanziario” che ne è solo l’immagine riflessa e, in sé,
improduttiva), insieme all’azione umana, che rende possibile la produzione]. E questo vale sia per il privato che per il pubblico.
Perché il debito pubblico, come problema, è più frequente e anche più grave del debito privato.
Sia la maggiore gravità potenziale, sia la maggiore frequenza dell’indebitamento pubblico rispetto al privato derivano da due fattori.
1) Nel privato è più facile capire quando la spesa che si fa a debito è un investimento produttivo o non lo è, e
se non lo è allora è un consumo, sia un consumo voluto (la settimana nel villaggio turistico), sia un consumo involontario
(l’acquisto – che si rivela poi errato – di un macchinario inadatto alla nostra struttura produttiva). La famiglia se ne accorge con il buon senso (l’acquisto dell’Audi 6 per la figlia che studia fuori casa in modo che non si stressi in treno e possa concentrarsi meglio a lezione può essere
considerato un investimento solo da un deficiente), l’azienda se ne accorge con la contabilità e il bilancio (solo se il valore della
produzione aumenta più dei costi allora le spese sono produttive). .
Nel pubblico è più difficile comprendere la qualità della spesa effettuata perché non potendo essere valutati i ricavi (i servizi pubblici non sono venduti ma offerti gratuitamente o a prezzo “politico”, per cui non vi è alcuna possibilità di conoscerne il valore) non si potrà mai sapere se quella spesa è stata produttiva oppure ha comportato uno spreco di risorse (perfino i
festeggiamenti per il 150° della vostra unità savoiarda-repubblicana o i sussidi statali all’industria del cinema possono essere spacciati per investimenti in
quanto spese che, incrementando il capitale culturale della nazione, ne migliorano la produttività nel futuro).
2) Nel privato è difficile fare molti danni sbagliando molte scelte per lungo tempo: la famiglia smette presto
perché, una volta che si è “mangiata il capitale” (e quindi i debiti sono diventati troppo elevati rispetto al patrimonio lordo) non trova più
nessuno disposto a farle credito e sarà costretta a smettere di spendere allegramente; l’azienda smette presto per due
ragioni: o perché si accorge in tempo che sta sbagliando (grazie alla contabilità, se è ben tenuta) e quindi corre ai ripari
cambiando il suo modo di operare, oppure perché, non trovando più nessuno che la finanzia, muore per fallimento
(che, perciò, è una medicina indispensabile per mantenere sano il tessuto produttivo di una nazione).
Nel pubblico, e in particolare se l’ente che decide la spesa è amministrato democraticamente, le scelte sbagliate possono andare avanti per moltissimo tempo: in primo luogo perché la capacità di indebitamento è maggiore in quanto il risparmiatore-investitore è abituato a pensare più al “sicuro” i propri soldi se prestati allo stato
piuttosto che a un’azienda o una famiglia: in genere pensa che lo stato non possa fallire, in secondo luogo perché chi governa è “costretto”, se vuole continuare a governare, a fare scelte popolari (altrimenti perderebbe voti e non potrebbe più
governare) e le scelte “popolari” sono, a causa dell’ignoranza economica generalizzata, molto spesso scelte irrazionali e quindi sbagliate [l’acqua potabile la vendiamo ai cittadini a un prezzo più basso del costo in modo da apparire
buoni e bravi così che continuino a votarci (tanto i costi non coperti dai ricavi l’ente pubblico li finanzia coi debiti che, essendo crediti per i cittadini,
non creano il malumore che invece l’aumento delle tariffe provocherebbe; e tanto nessuno si accorge che il 37% dell’acqua (media italiana) si disperde
sottoterra a causa di una rete di tubi talmente vecchia da essere ormai un colabrodo); le licenze dei taxi contingentate per avere i voti dei taxisti,
gli aiuti pubblici alle aziende in difficoltà affinché non falliscano ecc.)].