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Il concetto di ğihād -...

Date post: 16-Feb-2019
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Estratto da P. Manduchi. Dalla penna al mouse. Gli strumenti di diffusione del con- cetto di ğihād. Milano: Angeli, 2006, p. 23-55. Il concetto di ğihād di Nicola Melis 1. Introduzione Negli ultimi anni, soprattutto come conseguenza del tragico 11 settembre 2001, si sono moltiplicate le pubblicazioni dedicate all’Islam. In questa giun- gla editoriale, di qualità piuttosto variabile, uno degli argomenti più trattati ed abusati è sicuramente il ğihād 1 . Si tratta di un concetto spesso dato per scontato, che secondo molti non necessita di ulteriori approfondimenti o delucidazioni. Il ğihād oggigiorno è infatti divenuto un veicolo di polemiche su base ideologica; polemiche che non dovrebbero riguardare la dimensione religiosa. Nei casi in cui si tenta un’analisi del concetto, si adopera frequentemente una terminologia mediatica che trova scarso riscontro nelle fonti islamiche e, per ciò stesso, non può costituire un materiale utile per chi volesse approfon- dire seriamente l’argomento. Per mezzo di questa vaga idea di ğihād, oramai diffusa a livello di opinio- ne pubblica, si attua una sempre più abusiva associazione tra l’Islam e la vi o- 1. Tra le numerose pubblicazioni, desidero segnalare, tra i testi in lingua italiana, V. Fiorani Piacentini, Islam. Logica della Fede e Logica delle Conflittualità, Angeli, Milano 2003; G. Vercellin, Jihad: l'Islam e la guerra, Giunti, Firenze 2001 (già alleg. a Storia e dossier, n. 125, mar. 1998); B. Scarcia Amoretti, Tolleranza e guerra santa nell’Islam, “Scuola aperta”, Sanso- ni, Firenze 1974; meno interessante il recente L. Pellicani, Jihad: le radici, Agorà n. 3, Luiss University Press, Roma 2004; in lingue occidentali: A. Morabia, Le Ğihâd dans l’Islâm médiéval. “Le combat sacré” des origines au XIIe siècle, Albin Michel, Paris 1993; R. Peters, Islam and Colonialism: The Doctrine of Jihad in Modern History, “Religion and Society”, Mouton, The Hague 1979; M. Khadduri, War and Peace in the War of Islam, John Hopkins University Press, Baltimore 1956; J. Turner Johnson, The Holy War Idea in Western and Islam- ic Traditions, Pennsylvania State University Press, University Park, Pa. 1997; J. Kelsay - J. Turner Johnson (ed. by), Just War and Jihad: Historical Perspectives on War and Peace in Western and Islamic Traditions, “Contributions to the Study of Religion”, 28, Greenwood Press, New York 1991.
Transcript

Estratto da P. Manduchi. Dalla penna al mouse. Gli strumenti di diffusione del con-

cetto di ğihād. Milano: Angeli, 2006, p. 23-55.

Il concetto di ğihād di Nicola Melis

1. Introduzione

Negli ultimi anni, soprattutto come conseguenza del tragico 11 settembre

2001, si sono moltiplicate le pubblicazioni dedicate all’Islam. In questa giun-

gla editoriale, di qualità piuttosto variabile, uno degli argomenti più trattati ed

abusati è sicuramente il ğihād1.

Si tratta di un concetto spesso dato per scontato, che secondo molti non

necessita di ulteriori approfondimenti o delucidazioni. Il ğihād oggigiorno è

infatti divenuto un veicolo di polemiche su base ideologica; polemiche che

non dovrebbero riguardare la dimensione religiosa.

Nei casi in cui si tenta un’analisi del concetto, si adopera frequentemente

una terminologia mediatica che trova scarso riscontro nelle fonti islamiche e,

per ciò stesso, non può costituire un materiale utile per chi volesse approfon-

dire seriamente l’argomento.

Per mezzo di questa vaga idea di ğihād, oramai diffusa a livello di opinio-

ne pubblica, si attua una sempre più abusiva associazione tra l’Islam e la vio-

1. Tra le numerose pubblicazioni, desidero segnalare, tra i testi in lingua italiana, V. Fiorani

Piacentini, Islam. Logica della Fede e Logica delle Conflittualità, Angeli, Milano 2003; G.

Vercellin, Jihad: l'Islam e la guerra, Giunti, Firenze 2001 (già alleg. a Storia e dossier, n. 125,

mar. 1998); B. Scarcia Amoretti, Tolleranza e guerra santa nell’Islam, “Scuola aperta”, Sanso-

ni, Firenze 1974; meno interessante il recente L. Pellicani, Jihad: le radici, Agorà n. 3, Luiss

University Press, Roma 2004; in lingue occidentali: A. Morabia, Le Ğihâd dans l’Islâm

médiéval. “Le combat sacré” des origines au XIIe siècle, Albin Michel, Paris 1993; R. Peters,

Islam and Colonialism: The Doctrine of Jihad in Modern History, “Religion and Society”,

Mouton, The Hague 1979; M. Khadduri, War and Peace in the War of Islam, John Hopkins

University Press, Baltimore 1956; J. Turner Johnson, The Holy War Idea in Western and Islam-

ic Traditions, Pennsylvania State University Press, University Park, Pa. 1997; J. Kelsay - J.

Turner Johnson (ed. by), Just War and Jihad: Historical Perspectives on War and Peace in

Western and Islamic Traditions, “Contributions to the Study of Religion”, 28, Greenwood

Press, New York 1991.

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lenza2. Per quanto possa apparire paradossale, sul concetto di ğihād vi è una

certa convergenza di definizione tra quell’insieme complesso di correnti in-

terne alle società islamiche, definito genericamente “fondamentalismo islami-

co”, e quelle numerose fazioni ideologiche occidentali che impostano la que-

stione dello sviluppo del mondo islamico contemporaneo in termini esclusi-

vamente conflittuali.

In verità, questa convergenza appare meno paradossale se si considera che

i succitati rigoristi dell’Islam sono, in fin dei conti, dei musulmani laicizzati

che gettano le basi per un programma politico da svolgersi in forma religiosa.

Essi sono dei “puritani” che presentano sotto veste religiosa la loro tesi politi-

ca, abbellendola di valori religiosi ed escatologici. Per essi l’Occidente è la

manifestazione terrena di Satana, nonostante la cultura occidentale, con le sue

tradizioni giuridiche e ideologiche moderne, abbia pesantemente influenzato

la loro percezione della realtà. Le stesse ideologie di resistenza alla presenza

imperialista, adottate dai musulmani, furono improntate sulla concezione ter-

zomondista di autodeterminazione e di liberazione nazionale. La tradizione

islamica fu ricostruita dalle organizzazioni fondamentaliste sotto l’influenza

di tali ideologie avanzando delle pretese di esclusivismo ed esercitando un

grande fascino sulle masse3.

Una simile visione, tuttavia, non sembra tenere conto del fatto che la cultu-

ra islamica è il prodotto di una esperienza storica. Come ha scritto recente-

mente Alberto Ventura, negli ultimi tempi

… le analisi politologiche, economiche o sociologiche hanno […] occupato la ri-

balta, ponendo in secondo piano o addirittura oscurando del tutto la dimensione stori-

ca, o se si vuole storico-religiosa; quella dimensione, cioè, che permette di esaminare

e di contestualizzare storicamente i fenomeni evolutivi interni dell’Islam, e solo suc-

2. Vi è continuità di toni tra una certa pubblicistica dell’inizio del XX secolo (cfr., S. Van

Rensselaer Townbridge, “Mohammed’s View of Religious War”, in Muslim World, 3 1913, pp.

290-305) e un filone giornalistico attuale; per citare degli esempi particolarmente emblematici,

F. Nirenstein, “Islamically correct. I pregiudizi e le bugie di cui è vittima l'opinione pubblica

occidentale”, in Liberal, Anno II, numero 8, Ottobre 2001; negli Stati Uniti, tra i vari pubblici-

sti segnaliamo, per tensione ideologica e scarsa conoscenza della materia, Lawrence Auster; tra

i suoi scritti, sono particolarmente esemplari i seguenti, pubblicati on-line nella rivista Front

Page Magazine.com: “Kidnapping of French reporters proves jihad is not defensive”, Septem-

ber 2, 2004; “The centrality of jihad in Islam”, August 20, 2004; “The key to jihadist ideology

and strategy”, August 16, 2004.

3. K. Abou El Fadl, “Islam and the theology of power”, in Middle East Report, 221

(2001), pp. 28-33.

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cessivamente di valutare la natura e la reale consistenza di certi suoi sviluppi contem-

poranei4.

Nella dimensione storica dei popoli islamici la violenza è sicuramente pre-

sente, ma non più che nelle altre società. Già dai primi secoli della storia isla-

mica, i musulmani dovettero affrontare tendenze estremiste che miravano a

rovesciare il potere costituito, negando validità allo stesso sistema legale

maggioritario5. Si tratta, perciò, di stabilire in che misura questa violenza sia

dovuta al pensiero islamico tradizionale o a circostanze ambientali temporali

che prescindono dall’Islam: è quanto ci proponiamo di esporre nelle pagine

seguenti. Per quanto sia ormai consolidata la concezione per cui il pensiero

islamico non prevede alcuna separazione tra dimensione religiosa e politica,

storicamente le società islamiche hanno conosciuto una divisione tra il potere

temporale e quello spirituale «con frequenti interferenze e senza una chiara

definizione istituzionale dei rispettivi ambiti, ma dotate anche di fisionomie

ben distinte»6, seppure tale distinzione si manifesti in una maniera non così

evidente per l’osservatore distratto.

È nel XX secolo che i due principali ideologi dell’Islam rigorista7,

l’indiano Mawdūdī8 e l’egiziano Sayyid Quṭb

9 «hanno elaborato teorie socio-

politiche che hanno più a che fare con le ideologie rivoluzionarie e terzomon-

diste dell’Occidente che non con la religione dell’Islam. Fu in particolare il

concetto di jihâd a trattenere la loro attenzione. Attraverso una trasformazione

semantica senza precedenti, il jihâd fu da loro reinventato (specialmente da

Quṭb) come giustificazione della lotta armata rivoluzionaria contro i regimi

corrotti dei paesi islamici»10

.

4. A. Ventura, “Islam e islamismi”, in Scritti di storia, numero speciale in memoria di P. G.

Donini, 3, Napoli 2003, p. 61.

5. H. Laoust, Les Schismes dans l’Islam, Payot, Paris 1983 (traduz. it., H. Laust [sic], Gli

scismi nell’Islam, Ecig, Genova 1990).

6. Ventura, “Islam…”, op. cit., p. 70.

7. G. Kepel, Jihad: ascesa e declino, Carocci, Roma 2000.

8. S. V. R. Nasr, Mawdudi and the Making of Modern Islamic Revivalism, Oxford Universi-

ty Press, Oxford 1996; F. Osman, “Mawdūdī’s contribution to the development of modern is-

lamic thinking in the Arabic-speaking world”, in Muslim World, 93 (2003), pp. 465-485.

9. La produzione bibliografica su Quṭb è ricchissima, segnaliamo qui alcuni titoli: G. Ke-

pel, Le Prophète et le pharaon, Seuil, Paris 1993; O. Carrè, “Le combat pour Dieu et l’état is-

lamique chez Sayyid Qotb, l’inspirateur du radicalisme islamique actuel”, in Revue Française

de Science Politique, 4 (1983), pp. 680-705; Y. Haddad, “The Qur’anic justification for an Is-

lamic revolution: the view of Sayyid Quṭb”, in Middle East Journal, 37-1 (1983), pp. 14-29; S.

Khatab, “Arabism and islamism in Sayyid Qutb’s thought on nationalism”, in Muslim World,

94 (2004), pp. 217-244.

10. Ventura, “Islam…”, op. cit., p. 73.

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Sia Mawdūdī che Quṭb rappresentano la figura paradigmatica di moderno

fondamentalista islamico quale si è imposta in questi ultimi decenni: entrambi

erano privi di cultura religiosa specializzata e mancavano di quella competen-

za richiesta dalla tradizione a coloro che si occupano di discipline islamiche.

Uno dei problemi maggiori del mondo islamico contemporaneo è rappresenta-

to dal fatto che l’Islam radicale ritiene ammissibile una lettura del testo libera

da vincoli di competenza e perizia, per cui chiunque può proporsi come inter-

prete “autorevole” di riletture ideologiche svincolate dal sapere tradizionale.

I vari Usāma Bin Lāden, Ayman al-Ẓawāhirī, Abū Ḥafīẓa, ecc. hanno

compiuto studi moderni di tipo scientifico, spesso in paesi occidentali11

; essi

sono medici, ingegneri, ecc., ma quasi mai degli uomini di religione.

Altra caratteristica dei rigoristi è l’idea che si possa scagliare l’anatema

(takfīr) contro altri musulmani senza vincoli; questo procedimento per essi

doveva passare per l’essenza stessa dell’Islam, come il suo principio fonda-

mentale12

.

La cultura islamica vanta un sistema dottrinale e di credenza che si è for-

mato nel corso dei secoli. Si tratta di un sistema che deriva certamente la sua

ispirazione dal Corano, ma che si avvale di un immenso corpus il quale costi-

tuisce una fonte di incomparabile valore.

Usāma bin Lāden e tutti i suoi sostenitori attuano, appunto, una rilettura

pretestuosa delle fonti ignorando il consenso dei dotti, quell’iğmā‘ che ha

consentito nel corso dei secoli la formazione del corpus appena citato. Il prin-

cipio che ha ispirato il pensiero islamico fin dalla sua nascita è quello dell’

“unità nella diversità”. Secondo tale principio è necessario porsi a mezza stra-

da tra la posizione rigorista e quella che non impone un certo grado di unifor-

mità, riconoscendo così una serie di pluralità compatibili13

. Al contrario, il pu-

ritanesimo attuale stabilisce un principio da sempre avversato dal pensiero

islamico tradizionale, l’ “intoccabilità della Scrittura”. Per mezzo di tale prin-

cipio i cosiddetti fondamentalisti negano il valore della scienza ermeneutica

tradizionale, caratterizzata da regole ben precise e, in quanto tale, oggetto di

studio da parte di interpreti ed esperti qualificati.

È questa modalità di interpretazione delle fonti, fondata sulla improvvisa-

zione e sul dilettantismo (e alimentata dai petro-dollari14), che permette alle

11. Sul “cursus honorum” dei principali esponenti del fondamentalismo islamico contem-

poraneo, cfr. G. Kepel, Fitna, Guerra nel cuore dell’islam, Laterza, Roma Bari 2004.

12. Sulla concezione classica del takfīr cfr. J. Van Ess, Prémices de la théologie musulma-

ne, “Chaire de l’I.M.A”, Albin Michel, Paris 2002, pp. 33 ss.

13. A. Ventura, “L’Islam sunnita nel periodo classico (VII-XVI secolo)”, in G. Filoramo,

Islam, “Storia delle religioni”, Laterza, Bari-Roma 1999.

14. Kepel, Jihad…, op. cit., pp. 77 ss.

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giovani generazioni di diseredati di ignorare la tradizione islamica e di inter-

pretare in maniera pretestuosa il Corano e la sunna per sfogare la propria fru-

strazione.

Altra conseguenza del rifiuto dell’Islam tradizionale è la nozione che il po-

tere politico dovrebbe restare nelle mani degli uomini di religione; i sunniti,

infatti, hanno sempre considerato una innovazione biasimevole (bid‘a) il fatto

di cumulare le funzioni proprie degli uomini di scienza (ahl al-‘ilm o ‘ulamā’)

a quelle degli uomini di penna (ahl al-qalam) e degli uomini di spada (ahl al-

sayf). È questa invece la tendenza, tipicamente moderna, definita dai mezzi di

comunicazione di massa con il neologismo “jihādismo”, che propone un go-

verno di religiosi e che si contrappone all’Islam, inteso nella sua componente

storica e tradizionale.

Nelle pagine a seguire presentiamo una breve introduzione al concetto di

ğihād alla luce del pensiero islamico tradizionale e classico (sunnita), allo

scopo principale di fornire una chiave interpretativa svincolata dalle note rilet-

ture mediatiche e tendenziose.

2. Le fonti islamiche per lo studio del ğihād

Fondata sul dogma dell’unicità di Dio (tawḥīd) e sull’unità della comunità

(umma), la cultura islamica, dal punto di vista storico e dottrinale, si è diversi-

ficata in diversi sottoinsiemi.

La distinzione più antica è quella tra sunniti, sciiti e kharigiti: ognuna di

queste correnti interne all’Islam ha ripreso e sviluppato autonomamente una

dottrina del ğihād con delle caratteristiche proprie: il presente lavoro si con-

centra, tuttavia, sulla posizione maggioritaria nel mondo islamico, quella sun-

nita. Altra suddivisione, di qualche tempo più tarda, è quella relativa ai diversi

orientamenti (maḏhab) giuridici; un terzo sottoinsieme riguarda il dibattito più

puramente teologico, che ha dato luogo a sua volta, a diverse correnti di pen-

siero; ulteriore distinzione, all’interno del sunnismo, è quella che scaturisce

dagli orientamenti di pensiero legati al sufismo. Ognuno di questi livelli ha

generato una copiosa letteratura15

.

Si sono così sviluppate diverse discipline: la scienza dell’esegesi coranica

(‘ilm al-tafsīr), la scienza dei detti del profeta Muḥammad (‘ilm al-ḥadīṯ), la

scienza del discorso teologico (‘ilm al-kalām), ecc. Scienze che si occupano,

in qualche modo del concetto di ğihād che, anche in tale prospettiva, andrebbe

studiato.

15. Per una visione di insieme si veda Ventura, “L’Islam sunnita...”, op. cit.

28

3. Il ğihād coranico

Su un piano strettamente linguistico, il termine ğihād è un nome verbale

con valore intensivo e significa “sforzo immane”, “impegno allo stremo delle

forze”. Un impegno che deve sempre e comunque essere fī sabīl Allāh, vale a

dire «sulla via di Dio». Deve, cioè, contenere dei fini eticamente validi in una

prospettiva islamica.

Esistono diversi tipi di ğihād fī sabīl Allāh, cui un musulmano deve dedi-

carsi, siano essi di matrice interiore e spirituale o volti ad agire attivamente

sulla vita terrena e mondana. La fonte principale da cui attingere per stabilire

le caratteristiche del principio del ğihād, è la supernorma su cui si basa l’Islam

tutto, cioè il Corano.

Tuttavia, non tutti possono interpretare il Testo sacro; perché ciò avvenga

è necessario svolgere anni di studio e ottenere tutta una serie di diplomi che

permetterano ad un individuo di effettuare una propria esegesi coranica, co-

munque non troppo distante da quella fornita dalla comunità dei dotti nel cor-

so del tempo.

Così è innanzitutto nei tafsīr che possiamo individuare delle definizioni e

delle categorie di ğihād. Per citare uno degli esempi più noti, il commentario

di al-Qurtubī, celebre esegeta andaluso morto nell’anno 1272, riporta

un’analisi del ğihād, accompagnata dalle opinioni degli esegeti classici ante-

riori. Egli distingue tre principali categorie di ğihād: contro un nemico visibi-

le, contro il diavolo e contro la parte meschina dell’anima.

La radice del termine ğihād, Ğ-H-D, compare in trentacinque versetti co-

ranici con diverse accezioni e, in ogni caso, come contrario della radice cora-

nica Q-¼-D, che significa “stare seduti” (Cor., 4:95). Con ğihād, pertanto, non

si intende un atto violento diretto in maniera indiscriminata contro i non mu-

sulmani, ma si sottolinea l’aspetto più dinamico ed attivo della vita del cre-

dente.

È il nome con valore intensivo e reciproco, riferito ad un impegno tenace a

trecentosessanta gradi che ogni musulmano dovrebbe rivolgere contro il male,

in qualunque forma esso si manifesti. Nel Corano, il ğihād inteso come “guer-

ra santa” è piuttosto espresso con il termine qitāl16

, più propriamente “scontro

16. Le radici verbali presenti nel Corano che denotano l’idea di confronto armato sono nu-

merose; Morabia ha individuato le seguenti: q-t-l per “uccidere”, ġ-z-w (si veda alle pagine se-

guenti) per “attaccare”, ḥ-r-b per “guerreggiare”, ¼-d-w per “mostrare ostilità”, ḍ-r-b per

“scuotere l’avversario”, ḫ-r-ğ per “partire per una campagna”, n-f-r per “precipitarsi in una

campagna”, cfr. Morabia, Le Ğihâd, op. cit., pp. 119-120, 403-404.

29

armato”, anch’esso da attuarsi fī sabīl Allāh, e per molti versi trova una corri-

spondenza con il bellum pium et justum di Sant’Agostino17

e con la Guerra

Santa dell’ebraismo18

.

Attraverso una sommaria ricostruzione e rifacendosi ad almeno due princi-

pi ermeneutici in tema di scienza coranica19

, gli esegeti individuano un inizia-

le invito alla pazienza e alla sopportazione, che corrisponde a tutto il Periodo

Meccano e all'inizio del Medinese.

Già nel secondo Periodo Meccano fu rivelato l'importante versetto 25:52,

in cui si parla di ğihād verbale, versetto che costituisce quindi un invito ad

impegnarsi per il dialogo e la moderazione:

Ma tu non obbedire a quelli che rifiutano la Fede, ma combattili con la Parola, in

guerra grande [ğihādan

kabīran

] (25:52)20

.

Si tratta del permesso divino di rispondere all’oppressione meccana con

metodi analoghi a quelli dei Coreisciti. Si consente, in tal modo, l’utilizzo del-

la disputa finalizzata all’autodifesa. In un versetto risalente alla sconfitta di

Uḥud (3/625), si continua a sostenere l’esigenza di un impegno verbale, una

lotta con la parola:

E chi sarà zelante [ğāhada] per la Fede lo sarà a proprio vantaggio, perché Dio

non ha bisogno alcuno delle creature (29:6).

La prima rivelazione in cui compare un esplicito permesso di condurre una

guerra, qitāl, è la seguente:

17. Nel capitolo XIX de La città di Dio, dove si parla di guerra combattuta a causa delle in-

giustizie compiute dal nemico, come estrema ratio cui l’autorità costituita ricorre per ristabilire

la pace, senza desideri di crudeltà, né di cupidigia, cfr. M. Canard, “La guerre sainte dans le

monde islamique et dans le monde chrétiene”, in IIe Congrès de la Federation Savantes de

l’Afrique du Nord (1936), suppl. à Revue Africaine, pp. 605-623; P. Partner, Il dio degli eserci-

ti. Islam e cristianesimo: le guerre sante, Einaudi, Torino 1997.

18. Passi biblici esemplari in tal senso sono la cronaca della guerra di Abramo contro la le-

ga dei sovrani di Sodoma e Gomorra nel libro della Genesi o, ancora, la mitologia guerresca

della conquista delle città cananee da parte di Israele.

19. Ci riferiamo al principio dell’abrogazione (nasḫ), «la dottrina cioè secondo la quale

l’arbitraria e personale attività rivelatrice di dio può a suo piacere abrogare una disposizione

data prima» (Bausani in Il Corano, Introduzione, traduzione e commento di A. Bausani, “Le

Querce”, Sansoni, Firenze 1989, 2a ed. p. 508), e al principio della circostanza della rivelazione.

20. Per la traduzione coranica abbiamo fatto riferimento alla versione del Bausani citata

nella nota precedente.

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È dato permesso di combattere a coloro che combattono [yuqātalūna] perché son

stati oggetto di tirannia: Dio, certo, è ben possente a soccorrerli (22:39).

In questo versetto, di probabile epoca medinese, il qitāl è comunque inteso

«come giusta ritorsione contro offese e ingiustizie patite»21

. In sintesi, ciò che

i modernisti definiscono “ğihād difensivo”.

È comunque contemplata una forma di ğihād offensivo, inizialmente vin-

colato dal periodo dell’anno, in quanto ammesso solo al di fuori dei mesi sa-

cri, come statuisce il Corano in 9:5 (Periodo Medinese, forse 9 a.H.):

Quando poi saranno trascorsi i mesi sacri, uccidete [uqtilū] gli idolatri dovunque

li troviate, prendeteli, circondateli, appostateli ovunque in imboscate.

Questo invito a combattere stabilisce una differenza fra idolatri (mušrik) e

coloro che seguono un solo Dio (ahl al-kitāb), cioè ebrei e cristiani. Ma in un

versetto precedente (del rağab 2 a.H., corrispondente al gennaio 624) Dio si

era mostrato indulgente rispetto a chi combatte anche nei mesi sacri, seppure

per difendersi:

Ti chiederanno se è lecito far guerra [al-qitāl] nel mese sacro. Rispondi: “Far

guerra [qitāl] in quel mese è peccato grave. Ma piú grave è agli occhi di Dio stornare

dalla via di Dio, bestemmiare Lui e il Sacro Tempio e scacciarne la Sua gente, poiché

lo scandalo è peggiore dell’uccidere [min al-qatl], e costoro non cesseranno di com-

battervi [yuqātilūnakum] fino a quando loro riuscisse di farvi apostatar dalla fede

(2:217).

Con tale versetto, come ha sottolineato Claudio Lo Jacono, «si entrava […]

decisamente in una nuova fase, nella quale Allāh autorizzava la guerra offen-

siva contro i Suoi nemici e il Profeta, rassicurato, poté accettare il quinto spet-

tantegli»22

. Il culmine di questa propensione è raggiunto, però, con il versetto

9:29 dell’anno 8/630; tale passo non fa distinzione tra contesti e situazioni, ma

ingiunge di combattere ad ogni costo sul sentiero di Dio:

Combattete [qātilū] coloro che non credono in Dio e nel Giorno Estremo, e che

non ritengono illecito quel che Dio e il Suo Messaggero han dichiarato illecito, e co-

loro, fra quelli cui fu data la Scrittura, che non s’attengono alla Religione della Veri-

tà. Combatteteli finché non paghino il tributo [ğizya] uno per uno, umiliati (9:29).

21. A. Bausani in ibidem, p. 599, nota ai versetti 39-40.

22. C. Lo Jacono, “Le religioni dell’Arabia preislamica e Muḥammad”, in G. Filoramo,

Islam, op. cit., p. 61.

31

La disciplina giuridica del ğihād manterrà le caratteristiche formali svilup-

pate nel corso dei primi secoli dell’Islam, caratterizzati dagli irresistibili suc-

cessi militari degli esordi dell’Islam.

A dimostrazione che il ğihād coranico non è riferito esclusivamente o

principalmente al discorso conflittuale e bellico, basta fornire alcuni dati

quantitativi (con il vincolo del principio del nasḫ): dei trentacinque versetti

coranici in cui ricorre l’utilizzo del termine e dei suoi derivati, ventidue fanno

un generico riferimento ad un impegno tenace; dieci si richiamano esplicita-

mente all’attività guerriera; tre sono i versetti con un accento spirituale23

. I

versetti che invitano al conflitto hanno, in ogni modo, un tono vago, generale

e impreciso in quanto non indicano alcun principio normativo relativo al con-

testo, alle modalità, agli obiettivi specifici e ai luoghi in cui i musulmani do-

vrebbero prendere le armi e attaccare i nemici; soprattutto, il Testo sacro non

offre alcun elemento che possa giustificare in maniera esplicita le mire espan-

sioniste della società islamica o la ricerca della gloria militare24

. A prevalere è

sempre l’idea di obbedienza ai dettami divini, cui dovrebbero sottostare anche

gli avversari del messaggio coranico. Il principio del ṣabr, che indica la fer-

mezza dell’animo e la fiducia in Dio, è l’elemento vero che contraddistingue

il musulmano, anche in caso di conflitto bellico.

4. Il ğihād nella sunna

Nella costituzione della cultura islamica un peso decisivo è stato assunto

dalla sunna (lett. “tradizione”). Tale concetto va fatto risalire all’epoca prei-

slamica, giacché gli arabi pagani lo utilizzavano per indicare gli usi e i costu-

mi degli antenati. Ripreso dall’Islam, definì la tendenza ad imitare la comuni-

tà (umma) primitiva e, in particolare, il Profeta, come modello comportamen-

tale e completamento del Corano. La sunna si manifesta sotto forma di ḥadīṯ,

detti, fatti o silenzi del Profeta e dei suoi Compagni più intimi, tramandati sot-

to forma orale e studiati da un’apposita scienza, lo ‘ilm al-ḥadīṯ.

In seguito ad una laboriosa ricerca sulla loro autenticità, avvenuta nei pri-

mi secoli dell’Islam, i ḥadīṯ vennero raccolti in voluminose collezioni. Tra tali

collezioni sono sei quelle considerate veramente classiche, al-kutub al-sitta: il

ṣaḥīḥ di Buḫārī (morto nel 256/870), il ṣaḥīḥ di Muslim (m. 261/875), le su-

nan al-muṣṭafà di abū Dā’ūd al-Siğistānī (m. 275/888), le sunan di Tirmiḏī

(m. 279/892) e il kitāb al-sunan al-Imām di al-Nasā’ī (m. 303/915). Non v’è

23. Approfondimenti in A. Morabia, Le Ğihâd, op. cit., p. 141.

24. Ibidem, p. 142.

32

unanimità su quale sia la sesta raccolta da includere nel venerato gruppo di

testi: si tende ad individuarla nelle Sunan di ibn Māğa (m. 273/886) o in al-

Muwattā’ del dotto medinese Mālik ibn Anas (m. 178/795) o nelle Sunan di

al-Dārimī (281/895 ca.) o nel Musnad del fondatore della scuola giuridica

ḥanbalita, il noto Aḥmad ibn Ḥanbal (m. 240/855).

Tutte queste collezioni contengono riferimenti allo zelo islamico; anche in

questo caso ğihād non è utilizzato esclusivamente nel senso di “guerra santa”.

A questo proposito, gli autori citano spesso un ḥadīṯ di Buḫārī in base al quale

il Profeta disse: «Il hağğ è l’impegno (ğihād) massimo»25

.

Tra i diversi tradizionisti è proprio Buḫārī che si riallaccia più direttamente

all’ampia sfera di significati presente nel Corano. In tutte le collezioni canoni-

che vi è infatti un intero capitolo dedicato al ğihād26

.

Grazie ai ḥadīṯ, abbiamo una testimonianza certa del carattere volitivo e

combattivo dell’Inviato di Dio, il prototipo di musulmano. In un celebre ḥadīṯ,

Muḥammad disse: «Ogni Profeta ha la propria vocazione; la mia è il ğihād».

5. Il ğihād giuridico

I manuali di fiqh contengono sempre un capitolo dal titolo kitāb al-ğihād

(letteralmente “Libro del ğihād”) o kitāb al-siyar (lett. “Libro delle relazioni

tra popoli”). In termini generali, tale capitolo si divide in più parti: la prima è

generalmente dedicata al codice comportamentale de seguire in tempo di

guerra e di pace nelle relazioni con i popoli non islamici; una seconda parte

riguarda lo statuto giuridico dei non musulmani in terra d’Islam; una terza è

relativa al regime fondiario; infine, nella maggior parte dei casi vi è una parte

sui ribelli (baġī) e sugli apostati (murtadd).

È utile soffermarsi ancora una volta sul concetto di fiqh che, per tutta una

serie di ragioni, non può essere confuso con il diritto positivo occidentale; in

primo luogo, perché non tutte le materie disciplinate dai manuali islamici si

possono considerare giuridiche alla luce della concezione del diritto prevalen-

te nella tradizione occidentale; secondariamente, la categoria di giurisperiti

esercita la propria attività a prescindere dal contesto politico e istituzionale in

cui opera, con la conseguenza principale che un eventuale vuoto di potere po-

litico non ne intacca in maniera sostanziale il ruolo sociale. In altri termini,

25. Bu√ārī, Libro 25:4.

26. Per una maggiore precisione, andrebbe detto che non tutti i testi citati contengono un

kitāb al-ğihād; abū Dā’ūd al-Siğistānī lo titola così (Libro 14); Muslim lo chiama kitāb al-

ğihād wa l-siyar (Libro 19); in Bukhārī, invece, è un kitāb al-maġāzī (vol. V, Libro 59).

33

qualora dovesse verificarsi l'assenza di un’autorità politica, i giurisperiti con-

tinueranno a svolgere la loro attività. Infine, è necessario distinguere quei set-

tori del fiqh che incidono concretamente sulla realtà concreta da altri settori

che che trattano questioni fittizie, in quanto cadute in desuetudine.

L’evoluzione del fiqh conosce un momento di stagnazione allorché, nel se-

colo X, una parte degli studiosi di questa disciplina dichiara conclusa la pos-

sibilità di utilizzare lo strumento ermeneutico noto come iğtihād; strumento

che consente di effettuare uno sforzo intellettuale per interpretare in senso in-

novativo (ma non contraddicente) lo spirito generale dell’Islam, le fonti stesse

del fiqh. È quel momento storico passato alla storia come la chiusura della

porta (bāb) dell’iğtihād. In conformità a tale principio, in sintesi, i ‘ulamā’

non sarebbero più autorizzati a svolgere autonomamente la propria specula-

zione giuridica, ma dovrebbero rigidamente rifarsi alla giurisprudenza dei

maestri del passato (taqlīd). La disciplina giuridica del ğihād mantiene così i

tratti sviluppati nel corso dei primi secoli dell’Islam, caratterizzati dagli irresi-

stibili successi militari degli esordi; tuttavia, ci preme rilevare che

[…] l’insistenza dei dottori in epoca classica sul jihâd sembra più un Leitmotiv

giurisprudenziale, una giaculatoria imposta da un dovere d’ufficio, che una vera in-

tenzione aggressiva. I capitoli sul jihâd fanno parte dei trattati di diritto come quelli

sul matrimonio; ma che nelle teorizzazioni dei giuristi vi sia da leggere un effettivo

incitamento alla guerra, è per lo meno discutibile27

.

Il prevalere tra i governanti islamici di una sorta di ragion di stato determi-

nò che gli studiosi del fiqh proponessero a posteriori considerazioni di carat-

tere religioso ed etico, non necessariamente riallacciate alla contingenza stori-

ca28

.

È per tale motivo che i manuali di diritto si concentrano sull’aspetto più

puramente formale e, in parte, bellico. Un giurista egiziano di epoca ottoma-

na, scriveva:

Il termine ğihād contiente significati assai diversi, ma nel senso inteso dai faqīh si

limita al ğihād contro i miscredenti i quali dapprima vanno invitati ad abbracciare la

religione vera; in caso contrario, li si deve combattere …29.

27. M. Campanini, Islam e politica, il Mulino, Bologna, p. 129

28. S. A. Schleifer, “Jihad and traditional consciousness” in Islamic Quarterly, 27-4 (1983),

pp. 172-203.

29. Hasan ibn `Ammār ibn ‘Ali al-Wafā’ī al-Šurunbulālī, Hašiyat durar al-hukkām fi šarḥ

durar al-ahkām, al-Matba‘a al-‘amīra al-šarafiyya, al-Qāhira 1304 / 1887), p.

34

Non ha senso cercare nei manuali di fiqh il modo di essere concreto di un

singolo paese islamico in un dato periodo. I manuali, infatti, possono fungere

da principio ispiratore che trova poi una sua applicazione concreta e reale e

che si caratterizza, nello specifico, di volta in volta, attraverso l’autorità poli-

tica costituita. Inoltre, bisogna sempre tenere distinto il dibattito giuridico,

competenza di una ristretta élite di dotti, dalla visione diffusa nel complesso

della società islamica, quale si è costituita nel corso della storia.

La šarī‘a potrebbe essere definita come un insieme di norme ideali, parte

delle quali hanno anche un riscontro pratico, ma la cui applicazione resta, in

definitiva, una pia aspirazione piuttosto che un fine raggiungibile e, secondo

alcuni, perfino un vuoto dogma programmatico.

In questo senso, possiamo affermare che la teoria legale classica prevede

un “utopico” stato di guerra perpetua tra il territorio dell’Islam (dār al-Islam)

e il territorio dei non musulmani (dār al-ḥarb), che può concludersi solo

quando la dār al-Islam dominerà il mondo, assicurando così una pace univer-

sale. Può affermarsi perciò che fine ultimo dell’Islam sia il raggiungimento

della pace (pax islamica), non già la perpetuazione della guerra.

Diritto e religione, legge e morale sono due aspetti di quella stessa volontà per cui

è stata fondata e si regge la comunità musulmana; ogni questione di diritto è anche un

caso di coscienza, e la giurisprudenza poggia in ultima analisi sulla teologia30

.

Il concetto di fiqh esclude molte parti del diritto pubblico e privato perché

non vi sono riscontri sostanziali nei testi sacri; esempi di questo tipo sono la

dottrina dello stato e del suo capo, molta parte del diritto amministrativo (cioè

la siyāsa šar‘iyya: amministrazione della cosa pubblica in modo non contrad-

dicente la šarī‘a), ecc. Le tre branche del diritto in discussione (costituzionale,

amministrativo e internazionale) presentano un «carattere essenzialmente teo-

retico e fittizio» e possiedono una «intima connessione degli istituti che le

compongono più con la storia politica degli stati islamici che con la storia del

diritto musulmano»31

.

Fin dai primi secoli dell’era islamica, in ogni modo, nel mondo musulma-

no si era andato delineando un dualismo tra l’esigenza di rispetto, formale e

ideale, della norma discendente dalla šarī‘a, propria dei dotti ‘ulamā’, e la

pratica di governo delle autorità politiche ed amministrative. Spesso questo

dualismo creò attriti tra le due parti, ma più spesso condusse ad una tregua,

30. D. Santillana, Istituzioni di Diritto Malichita, con riguardo anche al sistema sciafiita,

vol. I, I.P.O., Roma 1926, p. 6.

31. J. Schacht, Introduzione al diritto musulmano, prefazione di S. Noja Noseda, ed. italia-

na a cura di G. M. Piccinelli, Fondazione Agnelli, Torino 1995, p. 121.

35

non scevra di problemi. Come sottolinea il grande teologo al-Ġazālī (m.

505/1111), a soccorrere nei casi di marcato distacco tra la teoria e la pratica vi

era il principio della ḍarūra, in base alla quale la necessità esonera il musul-

mano dall’osservanza rigida della Legge. Di fronte ad una realtà che si dimo-

stra sempre meno sottoponibile ad un regime sciaraitico quale viene raffigura-

to dal fiqh, i giuristi si convinsero che la šarī‘a era sempre più un ideale cui

ispirarsi, piuttosto che programma politico-religioso effettivo.

Considerando il rapporto tra la teoria e la pratica nel diritto musulmano non si de-

ve pensare a due elementi nettamente separati ma, piuttosto, è necessario porre

l’accento sulla loro interazione e interferenza reciproca. In questo rapporto la teoria

mostrò una notevole capacità di assimilazione, la capacità di imporre il proprio ascen-

dente spirituale anche quando non era in grado di controllare le situazioni materiali:

ciò si rivelò […] anche […] nelle istituzioni del naẓar fī-l-maẓālim e del muḥtasib, nei

qānūn-nāme ottomani e in molti altri casi. I governi musulmani, nel passato, hanno

sempre nominato i qāḍī e fornito loro, in teoria, i necessari strumenti di azione ed ese-

cuzione: le funzioni dei qāḍī andavano ben oltre la mera amministrazione della giusti-

zia32.

Fatte queste debite premesse, passiamo alla trattazione della casistica. I te-

sti sul fiqh delle quattro scuole giuridiche sunnite (ḥanafita, mālikita, šāfi‘ita e

ḥanbalita) considerano il ğihād «uno dei più alti e meritori doveri della reli-

gione (“ ‘ibādāt”)»33

, un atto doveroso, un obbligo che risulta adempiuto se un

numero sufficientemente grande di musulmani lo esegue personalmente (farḍ

al-kifāya), almeno una volta all’anno. I Mālikiti equiparano spesso l’obbligo

del ğihād armato all’obbligo della visita annuale alla Ka‘ba34

; i ðanafiti, inve-

ce, fanno riferimento all’obbligo collettivo della veglia funebre (ṣalāt al-

ğanāza)35

. Anche in questi casi citati, dunque, è sufficiente che un certo nu-

mero di musulmani ottemperi all’obbligo personalmente per dispensare il re-

sto della collettività.

Ciò significa che non tutti sono personalmente tenuti al ğihād: l’obbligo è

imposto alla comunità considerata collettivamente; se non si raggiunge un

numero sufficiente di combattenti (muğāhid), tutta la comunità è responsabile

in solido per il mancato adempimento, come nel caso dell’ufficio del giudice

(qāḍī) o dello studio delle scienze religiose (ṭalab al-‘ilm).

32. Ibidem, pp. 88-89.

33. Santillana, op. cit., p. 26.

34. Ḫalīl ibn Isḥāq, Il “muḫtasar”, Sommario di diritto malechita, trad. e note a cura di I.

Guidi, Hoepli, Milano 1919, p. 391.

35. Molla Hüsrev, Durar al-ḥukkām fi šarḥ durar al-aḥkām, kitāb al- ğihād.

36

Tuttavia, vi sono delle particolari circostanze in cui quest’obbligo diventa

individuale (farḍ al-‘ayn). È il caso del ğihād difensivo, quando cioè la co-

munità subisce un attacco e tutti devono partecipare alla lotta in difesa della

propria vita, proprietà, ecc. (per es., in un assedio o al confine con territori

ostili). Il fiqh prevede in questo caso un cambiamento immediato ed automati-

co della situazione giuridica, con il diritto collettivo che diviene individuale.

Nella prassi è l’imām, con il sostegno formale dei ‘ulamā’, che stabilisce se la

situazione concreta del ğihād va ricondotta ad un farḍ al-kifāya o ad un farḍ

al-‘ayn.

Ne deriva che per l’imām e per le autorità delegate (wālī) il ğihād sia im-

plicitamente un farḍ al-‘ayn, ovverosia essi lo debbono adempiere in ogni cir-

costanza. Si è detto che il ğihād rientra nelle ‘ibādāt, va specificato, tuttavia,

che non rientra nella categoria dei Pilastri (arkān) dell’Islam, contrariamente a

quanto capita spesso di leggere. È noto, infatti, che i Pilastri delle fede sono

cinque36 e che il ğihād costituisce un sesto pilastro dell’Islam solo per i

khāriğiti e per quelle correnti fondamentaliste contemporanee, interne al sun-

nismo, definite appunto “jihadiste” o “neo-khāriğite”.

Tutte le scuole giuridiche tradizionali (maḏhab) concordano sostanzial-

mente su quali siano i requisiti richiesti al muğāhid: egli deve essere di sesso

maschile, pubere, libero, cioè giuridicamente capace (mukallaf), nonché in

forze per sostenere le fatiche ed esonerato da obblighi familiari. Si comprende

dunque l’importanza data dalla giurisprudenza agli interessi del singolo, che

in linea generale non devono e non possono essere prevaricati da interessi ge-

nerali.

Per questo fra il ğihād, che è appunto farḍ al-kifāya, e la devozione ai ge-

nitori, al contrario un farḍ al-‘ayn, dovrebbe prevalere il secondo: se i genitori

di un musulmano non vogliono che il figlio rischi la vita in guerra, questi non

può divenire un muğāhid37

. Lo stesso principio si individua in numerosi ḥadīṯ;

in uno di questi, citato da Buḫārī e da Muslim, il Profeta dice che sarebbe me-

glio impegnarsi nei confronti dei congiunti a carico piuttosto che partire vo-

lontari per una spedizione militare. Lo svolgimento di un lavoro che permette

il mantenimento dei credenti costituisce, per ciò stesso, un ğihād.

In genere, i manuali di fiqh indicano al dettaglio le categorie di musulmani

esonerati dall’obbligo del ğihād, in quanto diritto collettivo. Alcune si posso-

no intuire già da quanto detto per i requisiti richiesti al muğāhid:

36. La professione di fede (šahāda), la preghiera (ṣalāt), l’elemosina rituale (zakāt), il di-

giuno del mese di ramaḍān (ṣawm al-ramaḍān) e il Pellegrinaggio alla Mecca (ḥağğ), cfr.,

Ventura, “L’Islam sunnita…”, op. cit., pp. 212 ss.

37. B. M. Scarcia Amoretti, Bellum pium et justum: il jihàd, in “Islam: Storia e Civiltà”, 18

(1987), pp. 5-11.

37

- minori e dementi, in quanto non sono mukallaf (capaci d’agire);

- donne e schiavi38, perché devono essere prima di tutto a disposizione ri-

spettivamente del marito e del padrone (a ribadire la tutela dell’interesse indi-

viduale su quello collettivo), ed anche nella considerazione che se sono di-

spensati da taluni obblighi individuali, farḍ al-‘ayn (come ad es. la preghiera

del venerdì), a maggior ragione lo devono essere per gli obblighi collettivi,

farḍ al-kifāya. Le donne, soprattutto se anziane, sono ammesse nei campi mi-

litari al sicuro dal nemico, per svolgere assistenza ai muğāhid (raccogliere le-

gna, cucinare, medicare i feriti, ecc.), conformemente all’operato dell’epoca

del Profeta. Per le esigenze sessuali dei combattenti, è ammessa la presenza di

schiave, non di donne libere. In realtà, anche schiavi maschi potrebbero pren-

dere parte ad una spedizione, se ciò è voluto dal loro padrone, e comunque il

loro compito è quello di assistere il padrone stesso;

- infermi e mutilati (ciechi, monchi, ecc.), per un’ovvia inattitudine a pren-

dere parte alle campagne di guerra;

- debitori privi di permesso da parte dei creditori di partecipare al ğihād.

Questo esonero dalla guerra non è certo un’innovazione del diritto islamico,

ma si tratta di un’eredità del diritto consuetudinario preislamico, come dimo-

strano le testimonianze del tempo di Muḥammad;

- persone fisicamente atte a combattere, ma prive del consenso dei genito-

ri;

- poveri, e perciò privi dell’equipaggiamento per una missione, come ad

esempio accadde in occasione della spedizione di Tabūk. Tutte le scuole, con

l’eccezione dei ðanafiti, citano quest'ultima categoria.

I Mālikiti discutono se sia lecito interrompere il ğihād militare per il timo-

re di eventuali scontri con briganti di fede islamica o comunque rinnegati; il

giurista Ibn ‘abd al-Salām giunge alla conclusione che combattere i terroristi

(al-muḥārib) sia preferibile al ğihād condotto contro l’infedele. Si discute an-

che sull’opportunità di portarsi appresso esemplari del Corano in azioni belli-

che per il rischio concreto di vilipendio. I ðanafiti sostengono che ciò è am-

missibile solo in caso di armata numerosa in grado di offrire tutte le garanzie

di sicurezza; al contrario è da evitare in caso di azione di pattugliamento o in-

cursione (sariyya), in cui mancano le condizioni minime di sicurezza.

38. Spesso gli studiosi del fiqh affrontano questioni solo teoriche, prive di riscontro effetti-

vo nella realtà concreta; è il caso della schiavitù, istituto che fu sempre considerato un male

sociale inevitabile, ma che, nonostante compaia ancora nella trattatistica più recente, da oltre un

secolo e mezzo non è più praticata nella maggior parte del mondo islamico.

38

6. La “dhimmitudine”

L’insieme di norme che riguarda la condizione delle minoranze non mu-

sulmane residenti all’interno del territorio islamico è l’oggetto della seconda

sezione dei kitāb al-ğihād. Si tratta di un complesso normativo che ha ispirato

le legislazioni dei diversi paesi islamici nelle diverse epoche.

L’idea alla base della concezione islamica di minoranza è divenuta in epo-

ca moderna e contemporanea oggetto di controversia ideologica. Per soffer-

marci solo al periodo contemporaneo, possiamo fare riferimento a numerosi

autori che attuano una interpretazione capziosa dell’istituto della ḏimma39

. In

particolare, uno di questi40

ha coniato il neologismo “dhimmitudine” per defi-

nire la smisurata tendenza prevaricatrice e discriminatoria attuata dal pensiero

islamico attraverso tale istituto. L’acceso dibattito si è sviluppato anche in se-

no alla stessa comunità scientifica internazionale ebraica, per cui, per citare un

esempio, uno studioso affermato come Eliahu Ashtor usava definire il concet-

to di ḏimma e l’idea stessa di tolleranza nell’Islam dei primi cinque/sei secoli

secondo parametri anacronistici e, pertanto, in termini assolutamente negativi;

a questa visione si opponeva un altro storico, Abraham Udovitch41.

Tale tendenziosità è frutto di un’operazione intellettuale metodologica-

mente scorretta perché non tiene conto delle coordinate spazio-temporali indi-

spensabili per collocare delle istituzioni e dei singoli episodi nella storia.

Si badi bene, non intendiamo sostenere che - se ci atteniamo ad una rilettu-

ra moderna dell’istituto - non vi siano stati elementi di discriminazione; vo-

gliamo più semplicemente sostenere che la disciplina della ḏimma ha operato

come materia ispiratrice nei diversi paesi islamici e nelle diverse epoche, co-

noscendo applicazioni più o meno rigide, più o meno letterali. Non si può,

pertanto, riferirsi al livello astratto senza tenere conto del singolo contesto sto-

rico. Viceversa, per citare un esempio, non ha senso sottolineare i soprusi su-

39. La bibliografia sulla ḏimma è assai nutrita; indichiamo qui un testo che, nonostante ri-

salga a quasi mezzo secolo fa, risulta ancora estremamente valido: A. Fattal, Le statut légal des

non-musulman en pays d’Islam, Imprimerie Catholique, Bayrout 1958; per una trattazione più

concisa, cfr. S. Belaïd, Al-Qurān wa l’tašrī‘. Qirā‘a ğadīda fī āyāt al-ahkām, markaz al-

matbū‘āt al-ğāmi‘iyya, Tūnus 1999, pp. 143-167.

40. Si tratta di una studiosa profuga egiziana che scrive con lo pseudonimo di Bat Ye’or; è

autrice di diversi lavori di stampo polemista; in particolare segnaliamo le opere, dai titoli di per

sé eloquenti, Le Dhimmi: profil de l’opprimé en Orient et en Afrique du Nord depuis la con-

quête arabe, Anthropos, Paris 1980; The Decline of Eastern Christianity under Islam. From

Jihad to Dhimmitude: 7th-20th Centuries, A.U.P., London 1996.

41. Gli ebrei nall’Alto Medioevo, XXVI Settimana di studio del Centro Italiano di Studi

sull’Alto Medioevo, 30/03-5/04 -1978, Spoleto, 1980, p. 710.

39

biti dai maroniti nel Libano del 1860 se non si attua un'analisi storica che spe-

cifichi le concause di quegli abusi, indubbiamente accaduti42

.

È addirittura pensabile che certi episodi additati come prova di intolleranza e cru-

deltà mentale islamica all’epoca del Sultano, o dei Giovani Turchi, quali i massacri

del Libano e della Siria nel 1860, quelli degli Armeni nel 1895 e, durante la prima

guerra mondiale, degli Armeni e dei Siri orientali, non si basino su difetto del sistema

ottomano. Sarebbero piuttosto conseguenze della crisi dell’impero ottomano provoca-

ta dalle potenze che vogliono disputarsene le spoglie43

.

In primo luogo, è necessario sottolineare che la condizione dei non mu-

sulmani peggiorava in situazioni di crisi diffusa delle società, come sempre

accaduto anche in altre zone del mondo; in altri termini, i pur numerosi episo-

di di intolleranza si verificano in un quadro di eccezionalità, dove di norma vi

è una società strutturata a compartimenti stagni; una società dove esiste una

gerarchizzazione sociale interna al singolo compartimento in cui già vi sono

livelli di iniquità. Con riferimento all’Impero ottomano e all’élite governante,

lo storico turco İlber Ortaylı scrive:

Ogni persona di ogni religione e di ogni razza può avere lo statuto di askerî. Que-

sto statuto non attribuisce dei diritti individuali, ma soltanto del privilegio; il privile-

gio e il diritto sono due categorie diverse. Chiunque sia askerî porta le armi ed è eso-

nerato dalla imposte44

.

Vale la pena, ancora una volta, di aggiungere che nei periodi di crisi delle

società islamiche, le situazioni di prevaricazione e intolleranza sono state ri-

volte indiscriminatamente nei confronti di chiunque prenda posizione in ma-

niera autonoma; pertanto, anche nei confronti di persone di religione islamica.

È di pochi anni fa, il caso emblematico dello studioso egiziano Abū Zayd, che

si può tranquillamente affiancare a quello della cristiana Bat Ye’or, anch’essa

42. Bat Ye’or, Le Dhimmi: profil…, op. cit., pp. 228-290. La studiosa propone una antolo-

gia di testi scritti da viaggiatori europei e vicino-orientali di diverse epoche (Niebhur, Volney,

Alī Bey, ecc.); in tutti gli estratti si mira a dimostrare le tesi dell’autrice; in realtà, la stessa ope-

razione capziosa potrebbe farsi, con altrettanto brillante risultato, in senso inverso: estrarre le

testimonianze di viaggiatori che encomiano le condizioni di vita dei non musulmani in Terra di

Islam.

43. V. Poggi, “Non-musulmani nella società musulmana”, in F. Castro-P. Catalano (sous la

direction de), La condition des “autres ”dans les systèmes juridiques de la Méditerranée, Is-

prom-Publisud, Paris 2004, p. 269.

44. İ. Ortaylı, “Les non-musulmans et le principe juridique du millet dans l’Empire Otto-

man (structure classique jusq’au XVe siècle)”, in F. Castro - P. Catalano (sous la direction de),

La condition…, op. cit., p. 279.

40

profuga, vittime entrambi dello stesso bigottismo rigorista che si va diffon-

dendo nel mondo islamico contemporaneo.

Essenzialmente, la ḏimma consiste in una sorta di rapporto contrattuale che

lega le “Genti del Libro” (ahl al-kitāb: cristiani, ebrei, mağūs e sabei)

all’autorità islamica costituita; esse godranno di una forte autonomia comuni-

taria, soprattutto in campo di diritto civile e amministrativo, a patto che pa-

ghino due tributi: la ğizya (testatico) e il ḫarāğ (imposta fondiaria). Altresì, i

non musulmani dovranno attenersi a certe linee comportamentali di subordi-

nazione, variabili nel tempo e nello spazio, che possono passare da una sem-

plice distinzione di abbigliamento e cavalcatura a maltrattamenti e umiliazio-

ni. La vaghezza e l’indefinitezza della pur pedante casistica non permettono di

trarre dai trattati di diritto un quadro certo. «Per completare il raffronto con gli

atteggiamenti dell’Europa cristiana va ricordato che proprio mentre dalla Spa-

gna venivano espulsi i non cristiani e la Cristianità era dilaniata dalle guerre di

religione, l’Impero ottomano forniva l’esempio rinnovato di una pacifica sim-

biosi fra musulmani e ḏimmi …»45.

7. Il ğihād spirituale

Per molti versi, non è errato affermare che l’Islam è una religione legale.

«La teologia non è mai riuscita a raggiungere nell’Islam un’importanza simile

[al fiqh]; soltanto il misticismo è stato abbastanza forte da sfidare il predomi-

nio della Legge nell’animo dei musulmani, e spesso ne è uscito vittorioso»46

.

Il concetto di ğihād conosce, perciò, anche una dimensione spirituale, sufi.

Anche in ambito sufi il punto di partenza per una trattazione del ğihād è un

passo coranico che recita:

Ma non voglio dichiararmi del tutto innocente, ché l’anima appassionata spinge

al male [inna al-nāfsa la ammāratun bi l-sū’i], a meno che il mio Signore non abbia

pietà, e certo il mio Signore è indulgente e clemente (12:53).

Altrettanto importante è un ḥadīṯ spesso citato dai sufi ma che non si trova

nelle raccolte ufficiali. Lo cita per primo il tradizionista, teologo e giurista

aš‘arita al-Bayhaqī (m. 458/1066), nell’importante collezione di ḥadīṯ da lui

45. P. G. Donini, Le minoranze nel Vicino Oriente e nel Maghreb. Problemi metodologici e

questioni generali, Laveglia, Salerno 1985, p. 116.

46. Schacht, op. cit., p. 1; sul dibattito tra teologi e giuristi, cfr. van Ess, op. cit.

41

composta, kitāb al-sunan al-kubrà47

. In base al ḥadīṯ in questione, risulta che

Muḥammad, durante la marcia di ritorno a Medina dopo la vittoria della Mec-

ca e di Hunayn (8/630), disse ad alcuni dei suoi Compagni: «Siamo tornati dal

ğihād minore a quello maggiore!». Gli si chiese di chiarire la differenza tra i

due concetti, ed egli rispose che «il ğihād maggiore è la battaglia dell’anima

contro le sue passioni». In altri termini, la parte più bassa dell’anima (nafs)

spinge l’uomo verso il male (stadio dell’ammāratun bi l-sū’i); in un secondo

momento, però, prevale l’anima che si autoaccusa (stadio del nafs al-

lawwāma). A questo punto, grazie a degli esercizi spirituali, l’uomo può per-

fino giungere a stare in pace con il creato (stadio ultimo: mutma’inna). In altri

termini, quando una persona segue i suoi più bassi istinti è sotto il controllo

assoluto del nafs la ammāratun bi l-sū’i e, per ciò stesso, agisce come una be-

stia; ma, grazie all’innata fede insita nella natura umana, egli può arrivare a

provare disgusto per se stesso, per le cattive azioni commesse e per la distrut-

tività che causa a se stesso e agli altri48. L’assenza del citato ḥadīṯ dalle raccolte canoniche ha fatto affermare a cer-

ti teorici contemporanei del radicalismo islamico, in particolare ðasan al-

Bannā’, che esso non ha i requisiti teorici per essere considerato autentico49

.

Molti autori, in ambito sufi, ma anche delle altre discipline islamiche, accetta-

no, ad ogni modo, questa differenza tra piccolo ğihād o ğihād minore (al-

ğihād al-asġar o al-ğihād al-saġīr) e grande ğihād o ğihād maggiore (al-

ğihād al-akbar o al-ğihād al-kabīr). Solo il primo è la cosiddetta “guerra san-

ta”, il qitāl fī sabīl Allāh. Il secondo, il ğihād maggiore, allude, perciò, alla

guerra invisibile contro l’anima che inclina al male, una guerra intesa cioè a

livello interiore e spirituale, primo vero passo sulla via della conoscenza intui-

tiva di Dio.

I sufi utilizzano spesso anche il termine muğāhada, derivato dalla stessa

radice. Il mistico al-Huğwīrī (m. 465/1072) attribuisce la dottrina della

muğāhada al-nafs (impegno morale rivolto alla propria anima), ai discepoli

del mistico Sahl al-Tustarī (m. 283/896)50

. Secondo al-Huğwīrī, essi racconta-

rono che al-Tustarī, nel commentare il versetto coranico 29:69 («Ma quelli

47. Wensinck non la cita nella sua monumentale opera di catalogazione, cfr. A. J. Wen-

sinck - J. P. Mensing, Concordances et indices de la tradition musulmane, Brill, Leiden 1992.

48. Per approfondimenti cfr., G. Böwering, The Mystical vision of Existence in Classical Is-

lam. The Qur’ānic Hermeneutics of the Sūfī Sahl al-Tustarī (d. 283/896), “Studien zur Sprache,

Geschichte und Kultur des islamischen Orients”, Neue Folge b. 9, WdeG, Berlin-New York

1980, pp. 254-260; Y. N. Öztürk, Kuran ve Sünnete Göre Tasavvuf, Istanbul 1979, pp. 130-150.

49. Tuttavia, ribadiamo qui il concetto per cui personaggi privi dei necessari diplomi di stu-

dio, come lo stesso Hasan al-Bannā, non hanno né l’autorità né il titolo per esprimere giudizi di

questo tipo.

50. Per una biografia di Sahl al-Tustarī, cfr. G. Böwering, op. cit., pp. 43-99.

42

che lotteranno zelanti per Noi [ğāhadū fīnā], li guideremo per le Nostre vie

[subulunā] e certo Dio è con coloro che operano il bene!»), giunse alla con-

clusione che chiunque mortifichi se stesso perviene alla contemplazione,

all’anima in pace con il Signore51

.

L’obiettivo del ğihād interiore è dunque la purificazione della dimensione

più squisitamente spirituale. Gli aspetti turbolenti dell’anima sono, in primo

luogo, la passione e l’ira, come sostenuto anche da personaggi considerati

estremisti come ibn Qayyim al-Ğawziyya (m. 1350). Dio non pretende che il

credente annulli tali aspetti, ma solo di sottoporli ad una stretta disciplina al

fine di trasformare questi attributi in uno stato di equilibrio, in conformità con

il dettato divino.

Lo strumento principale per realizzare questo ğihād è il metodo del ḏikr,

nel contempo menzione del nome di Dio e suo ricordo.

A questo proposito, abū l-Qāsim al-Qušayrī (m. 1057) scrive che il ḏikr è

come una spada con la quale il muğāhid minaccia i suoi nemici, perché Dio

protegge coloro che ne menzionano il nome con costanza nei momenti di af-

flizione e di pericolo.

Quando l’uomo sente i “rimorsi della coscienza” significa che la sua anima

accusatrice è in azione. In tale modo, egli si rende conto del male provocato e

si vergogna per ciò che fa. Il risultato di questo risveglio dell’anima è l’inizio

di un conflitto, un ğihād, fra l’anima cosciente e l’anima inferiore: o si seguo-

no le ispirazioni dell’anima critica, e gradatamente si conquista l’anima infe-

riore, seguendo una via virtuosa e chiedendo il perdono divino per i propri

peccati; oppure si ignora la voce della coscienza e si segue con ostinazione

ogni tipo di corruzione morale. Proprio tale ostinazione comporta una caduta

sempre più profonda nella depravazione, accompagnata da disperazione, ama-

rezza e cinismo. Si enfatizza così il concetto per cui la mortificazione

dell’anima (al-ğihād al-akbar) è più importante della guerra contro i non mu-

sulmani (al-ğihād al-asġar). Il concetto espresso in questi termini è talmente

consolidato nella tradizione sufi che lo si dà per acquisito. Una definizione

precisa ci è stata tramandata da al-Ġazālī, che definisce il ğihād il “polo es-

senziale della religione” (al-quṭb al-a‘ẓam):

In talune occasioni si sanno signoreggiare gli istinti negativi, in altre no. E ciò de-

ve provocare tormento per la propria debolezza e perseveranza nel continuare a lottare

e a combattere, ché questo è il grande ğihād.

51. Hujwiri, Ali b. ‘Uthmān al-Jullābi al-, The Kashf Al-Mahjub, The Revelation of the

Veiled. An Early Persian Treatise on Sufism Translated into English by Reynold A. Nicholson

(2000 edition, reprinted from 1959 ed.), Aris & Phillips, Leiden-Warminster, Wiltshire.

43

Lo stesso al-Ġazālī, d’altro canto, afferma di aver spesso posto in pratica il

combattimento spirituale, come attesta il seguente passo autobiografico:

Entrai infine a Damasco, dove rimasi circa due anni dedito unicamente al ritiro

(‘uzla) e alla solitudine (khalwa), agli esercizi (riyāda) e ai combattimenti spirituali

(muğāhada), occupandomi unicamente di purificare la mia anima (tazkiyat al-nafs), di

correggere il mio carattere (akhlāq) e rendere il mio cuore puro (tasfiyat al-qalb) per

(praticare) il ricordo di Dio, l’Altissimo, così come avevo imparato dai libri dei sufi52.

Non sembra errato sostenere che la pratica dell’Islam si manifesta ad ogni

livello come un grande impegno, uno sforzo interiore che si estrinseca anche

in azione, in ğihād.

Il grande mistico anatolico Ğalāl al-Dīn al-Rūmī (morto nel 671/1273) at-

tua un paragone tra la šahāda e la spada, intendendo affermare che chi si im-

pegna sulla via di Dio in maniera zelante testimonia la propria fede, come ac-

cade in occasione della Professione di fede (šahāda). Le due dimensioni appa-

rentemente antitetiche del ğihād - quella militare e quella spirituale - sono,

dunque, intimamente interrelate; entrambe le dimensioni mostrano caratteri-

stiche analoghe. Non potrebbe essere altrimenti, essendo il ğihād una reazione

allo squilibrio e alla crisi che caratterizzano le società dell’uomo, secondo

l’esempio di Muḥammad che constatò lo stato di degrado in cui soggiaceva la

società araba preislamica53

. Sono numerose le figure di pii musulmani che si

segnalano tanto per la loro ascesi spirituale quanto per il loro impegno con la

spada. Tra i più celebri di essi, tanto per citare un esempio, indichiamo ‘abd

Allāh ibn Mubārak (m. 180/797), considerato, tra l’altro, come il primo autore

di un’opera sul ğihād54

o, ancora, il celeberrimo Manṣūr al-Ḥallāğ (m.

309/922)55.

8. Il ğihād sociale

La dichiarazione del ğihād coranico appare come uno strumento per in-

staurare l’ordine sociale islamico, in contrapposizione all’idolatria diffusa

nell’Arabia dell’epoca del Profeta Muḥammad.

52. Cit. in G. Scattolin, Esperienze mistiche nell’Islam, Emi, Torino 2000, p. 288.

53. S. A. Schleifer, “Understanding Jihad. Definition and Methodology”, in Islamic Quar-

terly, 27-3 (1983), pp.117-131.

54. Verosimilmente un’opera sulle fadā’il al-ğihād, genere letterario di propaganda, cfr. E.

Sivan, L’islam et la croisade, Maisonneuve, Paris 1968.

55. A. Ventura, Il Dīwān di al-Hallāğ, Marietti, Genova 1988.

44

Esiste una stretta relazione tra il ğihād “sociale”, relativo all’ordine socio-

politico all’interno della umma stessa, e il ğihād spirituale.

La lotta tesa a formare un ambiente sociale e spirituale che consenta al

credente di sviluppare un modus vivendi improntato alla via islamica è un al-

tro obiettivo, o meglio, un’altra forma di ğihād. La guerra spirituale contro

l’anima turbolenta va affiancata da un impegno altrettanto serio nel lavoro, al

fine di perfezionare la propria anima.

Le diverse dimensioni del ğihād sono ricollegabili alla classificazione

spesso presentata nei manuali di fiqh. I dotti islamici, infatti, non persero mai

di vista le implicazioni etiche e spirituali del ğihād.

Rispetto a quanto ricondotto ai concetti di ğihād maggiore e minore,

l’imperativo di al-amr bi l-ma‘rūf wa nahy ‘an al-munkar56

(letteralmente,

“imporre ciò che è bene e vietare ciò che è riprovevole”) costituisce una sorta

di situazione intermedia, in quanto intende una estrema varietà di comporta-

menti, che vanno da un atteggiamento critico nei confronti dei membri della

propria cerchia familiare al feroce attacco contro un imām considerato ingiu-

sto.

Anche la sunna è generosissima con il principio al-amr bi’l-ma‘rūf wa l-

nahy ‘an al-munkar. Tanto per citare un esempio eclatante «è un ğihād im-

menso dire la verità ad un sultano prepotente!». Con la formula sopra riporta-

ta, si intende affermare il principio per cui ogni buon musulmano deve lottare

per il bene della società, contro la corruzione e la decadenza, un vero e pro-

prio ğihād.

Il ğihād morale presenta due caratteri, in parte complementari. A fianco ad un

ğihād individuale, basato su regole etiche, si sviluppa un ğihād morale di spirito so-

ciale, comunitario 57

.

Questa lotta prevede perciò che ogni musulmano lavori con le proprie ca-

pacità, intellettuali e materiali, per la realizzazione della giustizia. Da quanto

detto discende che chiunque si impegni per l’attuazione di una azione che

conduca alla giusta moralità o, comunque, permetta a terzi di porla in essere,

ottiene una ricompensa divina pari a chi l’abbia materialmente compiuta. Al-

Ġazālī individua nello specifico gli atti censurabili: tra le altre cose,

l’abbandono o il rifiuto delle prescrizioni religiose, il consumo di alimenti il-

56. Sull’argomento Michael Cook ha pubblicato un’opera fondamentale; cfr. M. Cook,

Commanding Right and Forbidding Wrong in Islamic Thought, C.U.P., Cambridge 2000; si

vedano anche, dello stesso autore, Forbidding Wrong in Islam, C.U.P., Cambridge 2003 e van

Ess, Prémices…, op. cit., pp. 112 ss.

57. Morabia, Le Ğihâd…, op. cit., p. 313.

45

leciti, il libertinaggio, il sostenere idee eretiche, gli eccessi comportamentali,

ecc. In un noto ḥadīṯ, Muḥammad afferma che chi commette un’infrazione in

privato se la vede direttamente con Dio, ma se l’infrazione è commessa pub-

blicamente, in maniera tale da incitare la comunità ad infrangere le regole,

l’autore subirà una pena pubblica. Il concetto si riallaccia all’idea che l’uomo

non può sondare i cuori altrui. In altri termini, l’essere umano non può consta-

tare la vera intenzione (niyya) delle azioni compiute dagli altri.

9. Concetti collegati al ğihād

Un celebre giurista ottomano di epoca tarda (m. 1252/1836) cominciava il

capitolo sul ğihād nei termini seguenti: «Questo Libro del ğihād tratterà il te-

ma delle siyar, del ğihād e del maġāzī»58

. Siyar, ġāzā e maġāzī sono dei ter-

mini tecnici ricorrenti nei manuali sul fiqh e sui quali vale la pena di soffer-

marsi.

Nel trattare delle relazioni tra territorio dell’Islam (dār al-islam) e territo-

rio non sottoposto all’autorità politica non islamica (dār al-ḥarb), numerosi

autori, spesso dell’orientamento ḥanafita, utilizzano la parola siyar e di fre-

quente intitolano kitāb al-siyar il capitolo che generalmente appare come

kitāb al-ğihād.

Si tratta di un termine al plurale derivante da sīra59

; la radice trilittera da

cui deriva, S-Y-R, è coranica ed è presente in sei versetti, con termini indican-

ti il senso di “viaggio”, di “essere in moto” o, ancora, di “forma”.

V’è la pesca e il cibo che il mare contiene perché voi e i viaggiatori (al-sayāra)

possiate goderne, ma vi è proibita la selvaggina terrestre finché siate in stato sacrale;

temete quel Dio avanti al quale sarete tutti radunati! (5:96)

Disse Dio: “Afferralo, e non temere, ché lo ritorneremo al suo stato primiero

(sīrataha al-ulà) (20:21)

E un Divino Messaggero suscitammo in ogni nazione, a gridare: “Adorate Dio ed

evitate ¦āġūt!” E di quegli uomini alcuni ne guidò Iddio ed alcuni con ragione furono

traviati. Viaggiate (fasīrū) dunque sulla terra, e guardate quale fu la fine di quei che

smentirono Dio! (16:36)

58. Muḥammad Amīn ibn ‘Abīdīn, Ḥašiyat radd al-muhtār ‘alà l-durr al-muḫtār, Maṭba‘at

Muṣṭafà al-Lubnānī al-Ḥalabī, al-Qāhira 1966 (1386), IV, p. 119; Si tratta di una interessantis-

sima summa del pensiero ḥanafita di epoca ottomana, che riprende e commenta il celebre šarḥ

di al-Ḥaṣkāfī (m. 1088/1677) all’opera tanwīr al-absār di Muḥammad Ibn ‘abd Allāh al-

Timurtaşi (m. 1004/1595).

59. Al-Šurunbulālī, ðašiyat…, op. cit.

46

Nei ḥadīṯ vi sono numerosi riferimenti al termine di derivazione coranica:

Buḫārī, per citare un esempio, dà il titolo di kitāb al-ğihād wa l-siyar ad un

capitolo delle sue sunan. Il termine sīra doveva essere utilizzato già in epoca

preislamica nel senso generico di “condotta”, “comportamento”, spesso riferi-

to a personaggi con un ruolo decisionale; nell’arabo del primo periodo islami-

co, infatti, il termine significava anche “azione memorabile” e “resoconto di

un’azione particolarmente importante”, perciò cominciò ad essere usato esten-

sivamente per indicare la storia, la biografia e il resoconto delle campagne mi-

litari di sovrani ed altri personaggi illustri. Cosí, tanto per citare degli esempi,

riscontriamo che Aban ibn ‘abd al-Ḥamīd al-Lāhiqī (morto nel 200/815) scris-

se una sīrat Ardašīr e Awan ibn al-Ḥakām (morto nel 147/764) compose una

sīrat Mu‘āwiya wa banū Umayya. Solo dal secondo secolo dell’égira il termi-

ne cominciò ad indicare specificamente la “condotta dell’Inviato di Dio”.

L’attestazione piú antica di tale accezione della parola sīra si ha con la prima

biografia del Profeta, scritta da ibn Hišām (m. 218/833) intitolata, appunto,

sīrat rasūl Allāh (“Biografia dell’Inviato di Dio” o, piú letteralmente, “la con-

dotta dell’Inviato di Dio”) o sīra nabawiyya (“Biografia del Profeta”)60

.

Nel II sec. dell’era islamica, il termine comincia a conoscere

l’ampliamento della propria sfera semantica. L’uso del plurale cominciò a

presentare, in maniera piú specifica, un carattere normativo e non solo narra-

tivo. In altri termini, da narrazione di eventi passati, esso intese inquadrare si-

tuazioni tipo. Tale mutamento si ha già con Zayd ibn ‘Alī (m. 120/738) che lo

utilizzò nel suo kitāb al-siyar-bāb al-ġazw wa l-siyar. Il riferimento documen-

tato piú antico, invece, va forse fatto risalire ad al-Šaybānī, che lo ha, a sua

volta, mutuato dal maestro abū Hanīfa. Al-Šaybānī intitola due delle sue opere

piú importanti kitāb al-siyar al-kabīr e kitāb al-siyar al-saġīr (rispettivamen-

te, “il grande libro delle relazioni [tra governanti]” e “il piccolo libro delle re-

lazioni [tra governanti]”). Un altro kitāb al-siyar è stato attribuito al giurista

al-‘Awzā‘ī (morto in Siria nel 157/774), il quale intendeva opporsi alle posi-

zioni del suo contemporaneo Muḥammad al-Šaybānī (morto in ‘Irāq nel

209/805), ma il testo sfortunatamente non è giunto fino a noi.

Il termine continua ad essere usato nel senso meno tecnico di “regole di

comportamento”, come si evince, per esempio, anche dal titolo della famosa

opera in prosa siyar al-mulūk (nota anche come seyāsatnāma, “Il libro degli

affari dello Stato ”) composta tra il 1090 e il 1092 (corrispondenti agli anni

60. Anche se non tutti condividono questa opinione, riconducendo la prima attestazione ad

al-Zuhrī (m. 124/742); per approfondimenti cfr. A. A. Duri, The Rise of Historical Writing

among the Arabs, Princeton University Press, Princeton 1957.

47

482-484 dell’égira) da Niẓām al-Mulk, il celebre statista e letterato persiano al

servizio dei Selgiuchidi. «Si tratta di un’opera in prosa, un manuale di ammi-

nistrazione dello Stato e di regole di comportamento del re»61

.

Secondo lo studioso contemporaneo Khadduri i concetti di ğihād e di

siyar, pur essendo strettamente interconnessi, non possono confondersi. Egli

riconduce le siyar al concetto di disciplina giuridica delle relazioni tra diverse

entità statuali, in tempo di pace come in tempo di guerra62

. Secondo l’autore

iracheno, i primi giuristi confinarono la trattazione delle siyar nel campo del

diritto di guerra, ma i giuristi ḥanafiti diedero una nuova dimensione alla que-

stione. In particolare, è attorno al trinomio al-Šaybānī – al-Saraḫsī (m.

490/1090) – al-Kāsānī (m. 587/1191) che si perfeziona quella che, secondo

Khadduri, costituirebbe una vera e propria branca autonoma del diritto, inteso

in termini occidentali.

Secondo la definizione della materia fornitaci da al-Saraḫsī le siyar:

descrivono la condotta (sīra) dei musulmani nelle relazioni con i miscredenti, sia che

provengano dalla dār al-ḥarb, sia con le genti con cui i credenti hanno concluso in

terra islamica dei trattati (ahl al-‘ahd), o ancora con i beneficiari di un salvacondotto

(musta’minīn) e coloro che pagano un tributo (ahl al-dimma), nonchè con gli apostati

(al-murtaddīn), che costituiscono la peggior specie di miscredente, dato che hanno

rinnegato [l’Islam] dopo averlo accettato; o con i ribelli (ahl al-bāġī), che non rientra-

no nella categoria dei miscredenti, sebbene si trovino in uno stato di ignoranza (ğāhi-

liyyīn) e di false questioni.

A livello teorico, le “relazioni internazionali” nell’Islam si basano, come

qualunque altro aspetto della vita terrena, sulle stesse fonti primarie del diritto

(uṣūl al-fiqh), vale a dire Corano, sunna, iğmā‘ (consenso) e qiyās (ragiona-

mento analogico). Tuttavia, nella prassi, le siyar sono scaturite principalmente

dalla speculazione giuridico-politica islamica63

. In altri termini, bisogna tenere

conto del complesso di principî basati sulla consuetudine e sui costumi, sulle

norme non scritte. I documenti che testimoniano tale tesi sono di matrice ex-

tra-fiqh, trattandosi dei testi dei trattati, accordi di pace, discorsi pubblici,

istruzioni ai governatori locali, ecc., posti in essere dai detentori legittimi del

potere, in primo luogo l’imām. In definitiva, secondo diversi studiosi, princi-

palmente Khadduri, la disciplina delle siyar ha assunto ben presto le caratteri-

61. Niẓām al-Mulk, Il libro della politica, ed. a cura di M. Pistoso, Luni, Milano-Trento

1999.

62. M. Khadduri, Islamic Law of Nations: Shaybānī’s Siyar, John Hopkins Press, Baltimore

1966.

63. Cfr. ibidem; Morabia, op. cit., p. 206.

48

stiche di una sotto-branca del fiqh, giustificata essenzialmente dalle fonti ausi-

liarie che si basano sul ragionamento, dalla prassi amministrativa e dalle con-

suetudini. Il ğihād in tale disciplina occuperebbe un posto di primo piano, ma

non l'unico.

A differenza di un certo numero di studiosi, che ritengono la teoria delle

siyar come una sorta di “diritto musulmano delle nazioni”64

, lo studioso ingle-

se Colin Imber afferma che il concetto di siyar si riferisce più in generale alla

conduzione del governo65

.

Altri termini intimamente ricollegati al concetto di ğihād sono ġāzī e ġazā;

per le popolazioni turcofone, compresi gli Ottomani, ġazā è quasi un sinoni-

mo di ğihād66. Un esempio è dato dall’uso che ne fa in tarda epoca ottomana

Kuşadalı Ibrāhīm (m. 1845/1262), maestro sufi della confraternita halveti; egli

utilizza il termine ġazā con il significato di ğihād spirituale, come vita vissuta

secondo i comandamenti di Dio rivelati nel Corano e realizzati attraverso la

sunna del Profeta.

Nei primi tempi il successo sulla via di dio fu realizzato grazie alla ġazā […] suc-

cessivamente, questa fu trascurata a causa della brama di territori e divenne irrealiz-

zabile. Fu a questo punto che spiriti affini cominciarono ad incontrarsi in ampi edifici

o in aree rurali, al fine di realizzare un movimento che seguisse la via verso Dio. Poi-

ché anche tali luoghi erano insidiati, in maniera graduale furono fondate le tekke67

.

Ġāzī e ġazā derivano dalla radice trilittera araba Ġ-Z-W, che in epoca pre-

islamica presentava un contenuto eminentemente laico: indicava una delle

grandi norme consuetudinarie del deserto arabo preislamico, in uso tra i no-

madi piuttosto che tra i sedentari di Mecca, Medina e Ṭā’if, finalizzata in ori-

gine alla cattura di cammelli. La ġazā si sviluppò come atto di aggressione a

scopo di bottino, di rappresaglia o di vendetta, effettuata da un gruppo contro

un altro, meglio se piú numeroso68

. Essa era regolata da un protocollo compli-

cato che presentava un certo codice di condotta ed è forse la principale mani-

64. Approfondimenti in M. Khadduri - H. J. Liebesny, (ed. by): Law in the Middle East, 2

voll., The Middle East Institute, Washington D.C 1955; H. Kruse, “The islamic doctrine of in-

ternational treaties”, in Islamic Quarterly, (1954),

65. C. Imber, Ebu’s-Su‘ud. The Islamic Legal Tradition, Edinburgh University Press, Edin-

burgh 1997.

66. Al-Šurunbulālī, Hašiyat…, op. cit., p. 281.

67. Y. N. Öztürk, Kuşadalı Ibrāhīm Halveti, Istanbul 1982, p. 89.

68. E. Tyan, Institutions du droit public musulman: Tome deuxieme: Sultanat et califat,

I.F.E.A.D., Beyrouth 1956, T. I, pp. 44 ss.

49

festazione dell'inesistenza di un’autorità politica nel deserto dell’Arabia prei-

slamica.

Nel Corano la radice Ġ-Z-W ricorre in un passo per indicare dei miscre-

denti partiti durante una campagna militare:

O voi che credete, non siate come gli infedeli che dicono dei loro fratelli partiti a

viaggiar sulla terra o a fare incursioni [ġuzzà]: “Se fossero rimasti qui con noi non

sarebbero morti, non li avrebbero uccisi”. Dio fa questo per metter loro triste rim-

pianto nel cuore. È Dio che fa vivere e uccide; è Dio che osserva tutto ciò che fate!

(3:156)

La sacralizzazione della radice Ġ-Z-W risale alla prima fase della storia

dell’Islam. Non a caso, il termine che indica genericamente le spedizioni mili-

tari al tempo dell’Inviato di Dio è maġāzī, derivante dalla radice medesima,

come pure il termine ġāzw, ma soprattutto ġāziya, da cui deriva il termine

“razzia”, giunto in Europa tramite i francesi, dopo la conquista dell'Algeria

nel 1830. Solo in un secondo momento si indicherà con il participio presente,

ġāzī, il combattente musulmano di frontiera, che attua delle scorrerie in terri-

torio nemico, anche in periodi in cui il processo d’espansione è sospeso69. I

termini derivati dalla radice in esame si riscontrano copiosi nei ḥadīṯ del Pro-

feta, con riferimento esclusivo ai musulmani. Tanto per citare un esempio, si

legga il seguente ḥadīṯ riportato da al-Buḫārī e Muslim, con riferimento al

merito di chi sostiene spiritualmente e materialmente la società islamica o un

gruppo di suoi componenti (ğihād collaterale):

Colui che finanzia un combattente sulla via di Dio [ġāzīyyan fī sabīl Allāh] otterrà

ricompensa divina e colui che si sostituisce al combattente [ġāzīyyan] nel [sostegno

della] famiglia di questi sta compiendo egli stesso la guerra santa [faqad ġazā].

La mistica della ġazā deriva dal conflitto arabo-bizantino, nell’Anatolia

dei primi secoli della storia islamica (i successi militari contro i bizantini ces-

sarono virtualmente con il secondo fallimentare assedio di Costantinopoli del

98-99/717). L’eroismo delle futūḥāt divenne così la virtú e il coraggio della

guerra di frontiera. Due dei piú celebri eroi della ġazā della prima ora sono

‘abd Allāh al-Baṭṭāl e ‘abd al-Wahhāb ibn Buḫt. Soprattutto il primo fu nel

corso dei secoli l’archetipo del ġāzī, divenendo protagonista di poemi e rac-

conti epici, di cui qualche traccia resta nelle innumerevoli leggende popolari

della cultura araba odierna. L’idea che la terra di predilezione del ğihād, cioè

69. In turco moderno gazi indica principalmente il veterano di guerra specie se invalido e deco-

rato al valore militare.

50

della ġazā, sia la parte della dār al-Islam confinante con l’Impero bizantino

non è stata introdotta dai Turchi, ma risale al giurista al-‘Awzā‘ī (m.

157/774), il quale, in polemica con i giuristi iracheni, affermava che spettasse

ai dotti siriani trattare la disciplina del ğihād, in quanto era la Siria la terra del

ğihād contro Bisanzio. L’autenticità di tale aneddoto è stata messa in dubbio;

il primo a riferirlo è il dotto al-Saraḫsī, il quale scriveva nel suo famoso com-

mentario, che

la ragione prima per cui [al-Šaybānī] scrisse tale opera era che il testo siyar al-

saġīr arrivasse ad al-‘Awzā‘ī, il giurista proveniente dalla Siria. Costui domandò chi

lo avesse scritto e gli fu detto Muḥammad al-‘irāqī [al-Šaybānī]. Egli sbottò dicendo:

“Chi sono quelle genti dell’‘Irāq che [si permettono] di scrivere libri simili?”. In se-

guito aggiunse che gli iracheni non hanno alcuna conoscenza delle siyar poiché tutte

le campagne [maġāzī] dell’Inviato di Dio ebbero luogo nel Ḥiğāz e non in ‘Irāq. Tali

parole giunsero fino a Muḥammad [al-Šaybānī], il quale fu colto da profonda ira e de-

cise di sospendere tutti i propri impegni per scrivere il [detto] libro.

Ultimo termine che va ricollegato al concetto di ğihād e ribāṭ, spesso usa-

to, anch’esso, come sinonimo di ğihād70; la parola ribāṭ indica, piú specifica-

mente, un ğihād di frontiera, per certi versi stanziale e statico, ma nel contem-

po dinamico, in quanto può prevedere delle incursioni in territorio nemico71

. I

murābiṭ, coloro che svolgono il ribāṭ, sono dei guerrieri della fede stabiliti in

fortezze (chiamate anch’esse ribāṭ) costruite ai confini tra dār al-Islam e dār

al-ḥarb, in cui si attuano simultaneamente il ğihād maggiore e quello minore.

Per i murābiṭ il ğihād diviene, per ovvie ragioni, un obbligo individuale (farḍ

al-‘ayn). Il termine testimonia la sua diffusione attraverso la presenza di co-

gnomi come Morabito, Rabito, ecc., e di certi toponimi non a caso diffusi in

zone di frontiera terrestre o marittima, come la Spagna, il Portogallo72

, il Ma-

rocco (la capitale Rabat), ecc.73

.

In realtà, i concetti di ğihād, siyar, ġazā e ribāṭ si confondono spesso nei

diversi livelli discorsivi (giuridico, popolare, letterario, ecc.) e distinguerli non

sempre è cosí agevole.

70. Al-Šurunbulālī, Hašiyat…, op. cit., pp. 281-282.

71. M. F. Köprülü, “Ribat”, in Vakıflar Dergisi, 2 (1942), pp. 267-269.

72. J. P. Machado, Influência arábica no vocabulário português, Edição de Álvaro Pinto

(Revista de Portugal), XVIII, No. 112, Lisboa 1953.

73. Altro termine derivato dalla radice è il francese “marabout”, italianizzato in “marabut-

to”.

51

10. Conclusioni

Per una migliore comprensione della dottrina del ğihād, è dunque utile ri-

prendere alcuni concetti chiave. In primo luogo, l’ampiezza della sfera seman-

tica del termine è tale da includere diverse linee comportamentali; è corretto

parlare di ğihād come di un impegno bellico vincolato da un preciso codice

etico, ma è altrettanto corretto definirlo un impegno spirituale, ecc. Tutte que-

ste accezioni sono accettabili, ma nella misura in cui le si inserisce in un di-

scorso complessivo più ampio, altrimenti si rischia, spesso involontariamente,

di attuare una mistificazione. Tutti quegli autori74

che sostengono una singola

dimensione (guerra difensiva, impegno spirituale, critica del regime ineffi-

ciente, impegno nello studio dello ‘ilm, ecc.) compiono una operazione par-

ziale perché il concetto di ğihād le ingloba tutte. Si potrebbe sintetizzare af-

fermando che la pratica dell’Islam, a qualunque livello, si estrinseca in un im-

pegno (ğihād).

Appare ancora più ovvio che in queste classificazioni non possono essere

ricompresi concetti estremi come la guerra di sterminio o il terrorismo suicida,

innovazioni del rigorismo islamico contemporaneo che il pensiero islamico

tradizionale era sempre riuscito ad emarginare in quelle occasioni della storia

islamica passata in cui si erano manifestati.

L’idea di ğihād può essere compresa meglio se si considera il suo sviluppo

storico: l’ampia sfera semantica, infatti, fu il prodotto di un processo plurise-

colare.

In definitiva, il ğihād fu un combattimento multiforme, che seppe sposare i diversi

momenti della storia musulmana. Morto e sepolto, a dire di alcuni, lo si vede rinascere

dalle sue ceneri ogni volta che la umma attraversa un periodo di crisi o deve far fronte

alle avversità75.

La dottrina del ğihād dà luogo ad un ğihād istituzionale che si distingue

dal ğihād storico, ma che da quest’ultimo è influenzato e condizionato. La

dottrina, infatti, è frutto di tutta una serie di matrici che vanno dalla tradizione

dei maġāzī ai costumi locali delle regioni conquistate e alle tradizioni arabe

preislamiche. È la tradizione giuridica che maggiormente si avvicina al senso

di “guerra santa”, che tanto piace a fondamentalisti e media occidentali; uno

dei principali problemi di interpretazione è che molti studiosi considerano la

74. Ma ormai si dovrebbe parlare anche di conduttori televisivi, giornalisti, uomini politici,

ecc.; oggigiorno, infatti, in molti si improvvisano specialisti della materia anche nei salotti tele-

visivi.

75. Morabia, Le Ğihâd, op. cit., p. 342.

52

giurisprudenza come l’unica anima dell’Islam; in realtà costoro non tengono

conto della florida tradizione sufi, diffusissima in tutto il mondo islamico, che

storicamente ha conosciuto frequenti momenti di convivenza, se non di inte-

razione, con la dimensione giuridica; emblematico, in questo senso, il caso di

‘abd al-Ġānī al-Nābulusī (1641-1731), che riuscì a svolgere brillantemente e

senza contraddizioni il ruolo di mistico, teologo e giurista76

. Non condividia-

mo, pertanto, le affermazioni di quegli studiosi sostenitori dell’idea che il su-

fismo nell’Islam non abbia mai goduto di grande stima e che l’Islam sia solo

la legge. Vero è che il pensiero islamico tradizionale non ha mai accettato gli

eccessi, comprese le manifestazioni troppo eccentriche di alcuni ordini sufi,

ma comprese anche le posizioni neo-kharigirite e neo-ḥanbalite dell’universo

fondamentalista contemporaneo. Le manifestazioni esagerate dell’Islam con-

temporaneo, per riprendere ancora una volta le parole di Alberto Ventura, ap-

paiono «più che altro come una semplice variante ideologica della civiltà oc-

cidentale moderna, alla quale finge o si illude di opporsi, ma di cui ha in realtà

accettato e assimilato tutti i presupposti»77.

Per concludere, ribadiamo il concetto per cui è metodologicamente scorret-

to confondere il dibattito tecnico, proprio della categoria degli studiosi, con la

percezione generale che dell’Islam hanno le masse del mondo islamico.

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